Purtroppo
devo partire ancora. Riesco a mandarvi tanto amore
con questo capitolo e
a rispondere brevemente alle recensioni. Ne ho viste meno, ma spero sia
solo
per via di ferragosto. :P
@ElseW: il castello disilluso diciamo che
era un ‘assaggio’. Per via di Sören
sai :P Silente sicuramente si sarebbe fatto due risate. Probabilmente
Lily
avrebbe cercato di tirargli un calcio. Non è molto
diplomatica quando crede che
qualcuno abbia fatto del male ai suoi. xD Grazie mille per i
complimenti, siete
anche voi che rendete questa storia quello che è credimi! ^^
@Altovoltaggio: Ehi, guarda che quella canzone in
particolare mi
piace moltissimo! Devo ammetterlo, mi ha sorpresa! Beh,
grazie… io adoro la
musica, senza una canzone a capitolo non saprei proprio come fare. E
poi beh,
per la conoscenza… cazzeggio un sacco sul tubo. Si trovano
canzoni
meravigliose. Ahaah, Meike è abbastanza smaliziata,
credimi… e per quanto
riguarda il Torneo Tremaghi, ho qualche idea, che per ora non posso
svelare! :P
Oh, credimi, Lily ha preso da Ginny! Grazie per i complimenti! Guarda
su
Silente ci troviamo perfettamente d’accordo, era un
manipolatore! E Harry
troppo buono per non finire per perdonarlo. Basta come si è
comportato con
Piton! L’incontro tra Harry e Cordula… lo
descriverò, promesso. ;)
@Nicky_Iron: Ah, se mi dici così ho
fatto più attenzione in questo
capitolo! Dimmi se ti confonde ancora il cambio dei personaggi! Certo,
si
manterranno in contatto, sicuro! :D Farò del mio meglio per
non deluderti!
@LauraStark: Grazie mille!
Essì,
Harry l’ha scampata bella! Beh, vedremo se
la sua ipotesi sarà veritiera o no!
@Mikyvale: Grazie per i complimenti a Meike!
Volevo fosse una
figura di contorno, e poi mi è venuta una figura di rilievo!
XD Tom in realtà è
pudico, ma quando è appena sveglio è una specie
di zombie semovente, incapace
di intere e di volere… e poi era post-sesso, poteva
scoppiargli una bomba
accanto.
Ma
certo che faranno pace, ormai, sono una coppia di ferro! XD
@Neely: Felice di averti reso felice! ;D
Eheeh, tutto quello che chiedi, c’è
scritto nel capitolo! E grazie ancora per seguirmi! :D
@ZetaSev: Ciao Zeta!
Wow, davvero
l’hai letta tutta, ma sei fantastica! Ti
adoro! XD Ed è ancora più bello,
perchè a te le fic del mio genere non
piacciono, grazie mille quindi! E sì, sono
d’accordo con te, sono persone
nuove, non devono sembrare fotocopie dei parenti! Se ti devo dire la
verità,
anche Rose è il mio pg preferito, in un certo senso! XD
****
Capitolo VI
It's been a while/since I could
hold my head up high
And it's been a while/since I first saw you
It's been a while/since I could stand on my own
two feet again
It's
been a while
But all that shit seems to disappear when I'm
with you¹
(It’s
been a while, Staind)
Da
qualche parte in Germania del Nord
Resistenza
estiva degli Hohenheim.
L’orologio
batté cupamente
mezzogiorno.
Sören
alzò lo sguardo sulla
pendola di legno di noce scrutando con cipiglio il rintocco lugubre che
si
spandeva per l’intero piccolo salotto d’attesa.
Odiava quei momenti. Era
quasi
del tutto certo che suo zio lo facesse apposta a farlo attendere.
Era una tecnica psicologica
logorante: solo con gli anni, e con una certa reiterata presenza di
tale
tecnica a Durmstrang era riuscito a sovrastare completamente il
nervosismo.
La sua difesa preferita era
esaminarsi le mani alla ricerca di macchie. La sua istitutrice, una
rigida
donna russa, l’aveva abituato a non avere mani e unghie
sporche, pena punizioni
corporali.
Quando era cresciuto
l’aveva
presa ad abitudine. Trafficando spesso con pozioni e sostanze che
macchiavano
le dita era un ottimo esercizio di distrazione.
Quel giorno però,
ahimè, le
sue unghie erano pulite, come i polpastrelli. Occuparsi, con la magia,
del trasloco
delle proprietà di suo zio non sporcava certo le mani. Aveva
finito alle luci
dell’alba, aveva sigillato con potenti incantesimi protettivi
la villa
padronale e poi era ripartito alla volta della nuova residenza degli
Hohenheim.
Quella villa era ancora
più
cupa di quella che aveva lasciato. I pesanti tendaggi blu, posti su
ogni
singola finestra del palazzo, non lasciavano oltrepassare neppure uno
spiraglio
di luce. Solo un lume asfittico illuminava la stanza, dando una
connotazione
sinistra al tutto.
Sembra quasi che suo zio
avesse orrore della luce.
Fece una smorfia, lanciando
uno sguardo alla porta dello studio ostinatamente chiusa.
Si sfilò allora
l’anello che
portava all’anulare. Era l’unico ricordo che avesse
di suo padre, l’unico che Alberich
gli permettesse di avere, forse perché simbolo del proprio
sangue puro.
Gli piaceva
quell’anello. Era
di scuro metallo inglese, con un incisione ormai sbiadita dal tempo, ma
ancora
visibile. Due mani stilizzate che cingevano una corona: era tutto
ciò che
rimaneva dell’antica famiglia dei Prince. Per quando ne
sapeva in Inghilterra
ogni traccia si era estinta da tempo.
E lui…
Beh, lui era un Hohenheim,
adottato all’età di sei anni e da allora si era
sempre considerato come tale.
Non ricordava molto di suo
padre, se non una figura già piuttosto avanti con
l’età, dalla carnagione
giallastra e gli zigomi sgradevolmente ossuti.
Da lui aveva preso i capelli
neri e lisci, da lui la corporatura asciutta e la scarsa altezza.
Elias Prince veniva
dall’Inghilterra:
una volta aveva sentito i servitori mormorare che avesse sposato sua
madre per
via di uno scandalo occorso all’interno della sua famiglia.
Qualcosa che come
un unione tra una sua parente prossima e un sangue sporco, gli aveva
chiarificato suo zio una sera che era in vena di chiacchiere.
Non ricordava né
carezze, né
affetto da parte del padre: né del resto avrebbe dovuto
stupirsene. I maghi
purosangue non erano avvezzi alle tenerezze. Era morto quando era poco
più di
un bambino, a seguito di un incidente nel proprio laboratorio. Era un
alchimista.
Sua madre invece
l’aveva persa
a dodici anni. O forse non l’aveva mai veramente avuta. Era
stata una pallida
creatura, succube dell’incredibile carisma del fratello
Alberich e del marito.
Da lei aveva ereditato la carnagione irritantemente soggetta ad
arrossire e una
gastrite nervosa che lo flagellava da ben diciassette anni. Si era
spenta in
silenzio, lasciando una stanza vuota e qualche gioiello che era stato
di nuovo
inglobato nel patrimonio degli Hohenheim.
Sören era stato
più volte
nella sua stanza dopo la sua morte; non era mai riuscito a provare
nulla.
Per
provare qualcosa si dovrebbe avere ricordo della
persona che è scomparsa…
I suoi pensieri stavano
prendendo una piega decisamente malinconica, e non gli andava di
assecondarla.
Tirò un grosso sospiro, infilandosi nuovamente
l’anello e stiracchiando
pigramente le gambe. Lanciò un’altra occhiata
verso la porta, sperando che si
aprisse.
Ovviamente non accadde.
Non aveva idea di cosa suo
zio
potesse ordinargli di fare per l’organizzazione: del resto
non era un vero e
proprio membro della Thule. Era un… affiliato.
Essere parente in linea maschile di uno dei membri più
influenti però gli dava
qualche privilegio. Infatti sapeva cos’era successo
l’anno prima.
Non poté fare a
meno di
sorridere. C’era una certa ironia in tutta quella storia: suo
zio aveva fatto
di tutto per avere un erede da plasmare a sua immagine e somiglianza,
ovvero
sia crudele, con un intelligenza vorace e pochi scrupoli morali. Il
genere di
persona che, con la giusta dose di egomania, sarebbe potuta diventare
un nuovo
mago oscuro capace di rivaleggiare con il connazionale Grindenwald o
l’inglese
Lord Voldemort.
Era quasi certo che suo zio
avesse
persino sognato quell’eventualità. Aveva
scomodando quantità esorbitanti di
magia oscura e per farlo vivere aveva persino trasmigrato
un’anima che si
diceva – ma questo non gli era stato confermato –
appartenesse all’ultimo dei
maghi oscuri, Voldemort.
Quel ragazzo, secondo
l’intera
società Thule, sarebbe stato il nuovo baluardo che avrebbe
dato lustro e potere
all’organizzazione.
Sfortunatamente Thomas
Dursley
sembrava aver sviluppato una personalità che mal si adattava
ai sogni
apologetici di Alberich. Per ironia del caso era stato infatti adottato
dalla
famiglia del mago ‘della luce’ per eccellenza,
Harry Potter. E a lui era
rimasto fedele, nonostante quell’idiota di Doe avesse
assicurato piena riuscita
del suo piano.
John Doe era morto e non
aveva
portato indietro uno solo dei Doni della Morte, il principale motivo
per cui la
Thule aveva finanziato quell’operazione. Oltre
a questo, Thomas era scomparso.
Una sconfitta su tutta la
linea che suo zio faticava a digerire, specie perché aveva
minato la sua
influenza all’interno dell’organizzazione.
Era furioso e Sören
sapeva
bene che questo, per lui, non significava nulla di buono.
Per questo sentiva un
bruciore
fastidioso alla bocca dello stomaco e cercava di ingannare il tempo
pensando ad
altro, rassicurandosi sul fatto gli era stato dato un compito, dopo
mesi di
inattività, e avendolo svolto ora gliene aspettava un altro,
per conto
dell’organizzazione.
Avrebbe mentito se non
avesse
ammesso di essere nervoso: se avesse svolto al meglio quel compito la
Thule
avrebbe forse schiuso le porte per lui, finalmente. Suo zio
l’aveva educato, o
per meglio dire addestrato per
entrarvi.
Tamburellò le
dita sulle
braccia, calciando via un batuffolo di polvere con la punta dello
stivale.
Era frustrante: spesso
fungeva
da braccio operativo, trafugava, mentiva e neutralizzava avversari per
Lei, ma
non aveva accesso ai suoi segreti.
Si rendeva conto di essere
ridicolo, alle volte, a parlarne come se fosse una donna, ma
l’organizzazione
pretendeva la stessa fedeltà che avrebbe preteso
un’amante.
Non c’era niente,
al mondo, più
importante per lui che riuscire a farne parte. Da questo punto di vista
si
considerava un soldato zelota.
Del resto, se erano riusciti
a
far tornare in vita un essere umano… Cos’altro
erano capaci di fare?
Sören ne era
affascinato e
terrorizzato al tempo stesso. Era quella la
strada tracciata per lui sin
dalla nascita. Se suo zio non aveva potuto crescere suo figlio, aveva
cresciuto
lui.
Alberich Von Hohenheim era
tutta la sua famiglia. E lui sapeva che alla famiglia si doveva tutto.
La porta finalmente si
aprì,
come se qualcuno l’avesse spinta, anche se sapeva bene che
fosse tutta opera
della magia di suo zio.
“Entra
Sören.”
E Sören
obbedì, come sempre.
****
Isola
di Rügen, Germania del Nord.
Putgarten.
“Non capisco
perché ci mette
tanto ad arrivare.”
Albus sospirò quando Tom ripeté la frase per
forse la ventesima volta.
Avevano risalito la
collinetta
che portava al bosco, visto che Tom alla fine non era riuscito a dire
di no a
Meike, e aveva acconsentito ad andare a dare un’occhiata al
misterioso cancello
alla luce del giorno. Al li aveva accompagnati, perché a
dire la verità la
compagnia di Cordula lo metteva un po’ a disagio. Per questo
e perché sperava
di distrarre l’altro ragazzo che sembrava un fascio di nervi
e borbottava
incessantemente da quasi due ore.
“Ci
vorrà un po’, dopotutto
deve organizzare una passaporta per uno stato estero.”
Ripeté pazientemente.
“Non fare il brontolone.”
“Non
faccio il brontolone.” Replicò seccato, mentre a
una decina di
passi di distanza Meike ridacchiava.
“È
vero, sei un brontolone!”
Riprese la bambina.
“Visto?”
“Voi due cospirate contro la mia sanità
mentale.” Sbottò, ficcandosi le mani
nelle tasche della felpa e chiudendosi in un silenzio ostinato. Al
ridacchiò,
lasciandolo a cuocere nel suo brodo e raggiungendo la bambina.
Meike lo osservò
di sottecchi.
Non sembrava prendere a male la sua presenza come aveva temuto,
piuttosto
sembrava incuriosita.
Le sorrise.
“Allora… questo
castello?”
“Non l’abbiamo mica visto!” Rispose
prontamente. “Tom è voluto subito andare
via.” Precisò, adottando con disinvoltura il nuovo
nome dell’amico. “Ma non è
che si vedeva … credo che il castello fosse molto
distante.”
“Capisco. È così anche in Inghilterra.
Probabilmente è in mezzo al bosco.” Le
spiegò, notando con divertimento che beveva avidamente le
sue parole,
probabilmente cercando di memorizzarle. Con solo un paio
d’ore di conversazione
era già capace di capire quasi tutto quello che le dicevano.
Era sveglia e
intelligente. Poteva capire perché Tom le si fosse
affezionato, anche se
tentava senza molto successo di mascherarlo.
Un po’ ne era
geloso, prima di
darsi dell’imbecille e ricordarsi che era una bambina di
dieci o al massimo
undici anni.
“Probabilmente?
Che vuol dire?”
Chiese. “L’inglese è una lingua
difficile. Ma voglio impararla.” Aggiunse
mentre si attorcigliava una ciocca di capelli attorno alle dita.
“Così magari
ci vengo…”
“Certo,
così verrai a
trovarci… Saremo felici di ospitarti.” Le propose,
sapendo benissimo che parava
a quello. Infatti la bambina si illuminò.
“Hai sentito Tom?
Al mi ha
invitato in Inghilterra!”
“Fantastico.”
Replicò piatto,
a qualche metro da loro mentre osservava con attenzione il bosco che
stavano
raggiungendo. “A quando il lieto evento?”
Meike gonfiò le guance. “Sei un
brontolone!” Lo apostrofò, prima di correre
verso la radura e seminare entrambi.
Tom sospirò
raggiungendolo.“C’èra bisogno di
insegnarle ad insultarmi anche in inglese?”
“Non è mica un insulto.” Gli sorrise.
“È un dato di fatto.”
Tom fu chiaramente indeciso
se
tirargli un pizzicotto o meno, Al lo capì da come lo
guardò. Poi dovette
decidere che era ancora troppo presto per certe confidenze.
Beh,
questo suo senso di colpa in fondo potrebbe
giocare, a volte, a mio favore…
Guardarono l’agile
figurina di
Meike saltellare tra gli alberi del bosco e chinarsi a prendere un ramo
che
improvvisò bacchetta, menando fendenti tutto intorno.
Del cancello non
c’era
traccia, ma in compenso si sentiva magia nell’aria. Una
barriera,
probabilmente. Era così potente che addentrandosi nel
boschetto cominciò a
sentire un lieve fastidio alle tempie, come qualcosa vi premesse sopra.
“La
senti?” Chiese Tom,
mettendo una mano sulla spalla di Meike per impedirle di proseguire.
“Penso che
sia una barriera.”
“Sì, una serie di barriere. Forse un salvo
hexia e sicuramente un repello
babbanum.” Considerò meditabondo.
“… E decisamente
qualcosa di molto più potente…” Storse
le labbra mentre sentiva la pressione
aumentare. “Tra poco mi scoppierà un malditesta
formato gigante, Tom. C’è tanta
di quella magia da andare in overdose.”
“Togliamoci di
qui.” Ordinò
quello spingendo Meike verso l’uscita.
“Ahi.” Convenne Meike strofinandosi la fronte.
“Ieri sera mica era così
però…”
“Ieri sera doveva entrare qualcuno e probabilmente siamo
arrivati nel momento
esatto in cui le barriere venivano tolte.” Le
spiegò mentre uscivano dal
circolo di alberi a rivedere la luce lattiginosa della radura. Si
sentirono
subito meglio.
“Proprio non
vogliono persone
lì dentro, eh?” Chiese Meike sedendosi su un
tronco divelto e succhiandosi il
labbro inferiore pensierosa.
“A quanto pare no.
Tipico
atteggiamento da purosangue direi.” Rifletté dando
un’occhiata a Tom che si era
appoggiato con la schiena ad un albero. “Peccato
però. Avremmo potuto chiedere
a loro aiuto per tornare a casa.”
“Se hanno eretto misure precauzionali del genere non credo,
come ti ho detto,
che sarebbero stati estasiati all’idea di
aiutarci.” Ironizzò l’altro.
“Chiunque sia venuto credo che ormai se ne sia
andato.”
“Come fai a dirlo?” Chiese subito Meike curiosa.
“Magari è ancora dentro!”
“Difese di questo genere sono utilizzate, di solito, da chi
pensa di lasciare
per lungo tempo la propria casa. Penso che ormai non ci sia
più nessuno.” Scrollò
le spalle il ragazzo. Al lo vide guardare a lungo in direzione del
cancello,
anche quando scesero dalla collinetta, diretti verso la scogliera per
precisa
richiesta di Meike.
Mentre la bambina era china
su
una pozza d’acqua con le maniche fin sopra i gomiti,
concentrata nel tentativo
di recuperare dei granchietti sfuggenti, si sedette accanto a Tom che
fissava
il mare assorto. Gli diede un colpetto sul braccio. “Uno
zellino per i tuoi
pensieri…”
“Penny. L’avete riadattato al mondo magico, ma
è un proverbio babbano.” Osservò
distratto.
Al sbuffò.
“Sì, Signor
Puntigliosità. Un penny allora. A che pensi?”
Tom esitò poi si passò le dita trai capelli,
lasciandoli ricadere frustrato
sugli occhi poco dopo. “Varie cose. Soprattutto se
potrò ancora usare una
bacchetta quando tornerò in Inghilterra.”
“Perché non dovresti?”
“Al…” Lo guardò con una sorta
di esasperata pazienza. “Tralasciando la mia
collusione con John Doe ho esercitato magia non
regolamentare. Io… mi ricordo che ho quasi
maledetto Harry…”
“Non l’hai mica fatto davvero!”
“Ho usato la cruciatus su di lui. Me lo
ricordo.”
Mormorò mentre un’ombra gli scendeva sullo
sguardo. “E quasi un avada kedavra.
Mi ha fermato prima, ma
volevo…”
“Non eri in te! Eri sotto imperio,
non possono toglierti la bacchetta per qualcosa che hai fatto sotto
l’influsso
di una maledizione! Voglio dire, hanno riabilitato due
volte i Malfoy!” Protestò violentemente,
afferrandolo per un
polso. “La vuoi smettere di pensarci?”
“Stai scherzando? Si tratta
dell’eventualità di finire persino ad
Azkaban!” Ribatté
con veemenza, prima di lanciare un’occhiata alla bambina:
fortunatamente era
abbastanza lontana da non poterli sentire. Tirò un sospiro
secco, prima di
continuare. “Non è il processo in sé
che mi preoccupa, né di fornire
spiegazioni alla scuola o al Ministero… o alla nostra
famiglia. È…” Si fermò,
mordendosi
a sangue l’angolo del labbro.
Al capì. Per Tom
la magia era
tutto. Sin da bambino era cresciuto con l’assoluta
consapevolezza di
appartenere al loro mondo. Amava la magia, di un amore viscerale,
profondo, a
tratti passionale come quello tra due persone. Se gli avessero tolto la
bacchetta, proibendogli di usarla di nuovo l’avrebbero
ucciso.
Gli prese la mano e gliela
strinse. “Non succederà. Sei stato plagiato, e
papà lo dirà… Se necessario
testimonierò anche io. Davvero.”
“Comunque potrei vivere anche senza bacchetta.”
Borbottò senza ascoltarlo.
“Sono capace di fare magie senza bacchetta.
Naturalmente.”
Al sospirò, meditando di lasciarlo alle sue elucubrazioni.
La tentazione era
forte, ma del resto restava sempre un Potter.
Sempre
destinato a salvare tutti… Che culo.
“Sarà
divertente vederti
ancora al sesto anno mentre io farò
l’ultimo.” Esordì, conoscendo benissimo
lo
spirito competitivo del proprio ragazzo. Tom infatti alzò
subito la testa, tra
l’irritato e il meditabondo.
“Se
non verrò espulso farò in modo di farmi ammettere
al Settimo. Ho
completato da solo il resto del programma dell’anno
scorso… Non ho intenzione
di imparare cose che già so.”
“… e come?” Lo guardò
sbalordito. C’era da aspettarselo che Tom non passasse
quei mesi solo a guardare struggente l’orizzonte. Si
sentì invadere da un
affetto sconfinato per quell’ insopportabile genietto.
L’avrebbe baciato, ma
Meike zompettava un po’ troppo vicino.
Tom fece un sorrisetto di
vaga
superiorità. “Non avevo con me i libri di testo,
ma all’inizio dell’anno scorso
avevo fatto una tabella di studio. La ricordavo a memoria. Cordula
ricordava
molti degli incantesimi che avrei dovuto imparare anche se, certo, solo
in
teoria… Per quanto riguarda Incantesimi, DCAO, Pozioni e
Trasfigurazione dovrei
essere preparato. Il resto potrei studiarlo ad Agosto, e magari
sostenere degli
esami valutativi i primi di settembre…”
Ragionò tra sé e sé.
“Hogwarts funziona
come una scuola privata babbana, non c’è uno
statuto restrittivo che disciplina
le eccezioni. Potrei parlarne con il Preside. Tirando certe
corde…”
Al lo fermò per baciarlo. In qualche modo doveva sfogare il
suo immenso bisogno
di dirgli quanto era bello sentirlo
tramare per la sua ammissione al loro ultimo anno. Tom rimase fermo per
un
attimo, sorpreso, prima di passargli un braccio attorno alla vita e
ricambiare.
Si staccarono con il fiato corto. Al notò che Tom lo aveva
più affrettato del
suo.
“Questo per
cos’era?” Gli
chiese fingendo di non essere piuttosto stravolto.
Al sorrise.
“È solo bello sentirti
parlare di scuola. Non credevo che sarei stato felice di sentirti
parlare il secchionese.”
Tom lo guardò
indispettito,
prima di fare un sorrisetto. “Mi risulta che anche tu lo
sia…”
“Io sono
semplicemente bravo
in qualche materia. E comunque sai, facendo parte della squadra di
Quidditch
non mi si può definire come tale.”
“Se vuoi posso definirti uno sportivo senza
cervello.” Al sentì le dita di Tom
insinuarsi sotto il maglione che gli aveva prestato Cordula per
ripararsi dal
vento. Rabbrividì leggermente quando toccò la
pelle nuda, ma non si ritrasse.
Era una bella sensazione, anche se l’altro aveva le mani
gelate.
“Quello
è Jamie.” Obbiettò.
“Hai le mani fredde, comunque.”
“Infatti me le sto scaldando.”
“Addosso a me?”
“Vedi qualcun altro che emana calore?” Gli
chiese con disinvoltura, tirandoselo contro. Al, che aveva grossi
problemi di
equilibrio se non era in sella ad una scopa a una ventina di metri
d’altezza,
gli franò addosso. Tom ridacchiò. “Oh,
sì. Questo mi era mancato. La tua scarsa
coordinazione motoria.”
“Idiota.” Lo apostrofò aggrappandosi
alla sua felpa per tirarsi dritto. Reclamò
un altro bacio, dimentico che non erano esattamente soli. Se ne rese
conto
quando vide che Meike li fissava, con vaga curiosità e un
pizzico di imbarazzo.
“Err.”
Tentò Al. “Meike, uhm…
Sai, quando due persone si vogliono bene…”
Iniziò cattedratico, mentre l’idiota
se ne rimaneva placidamente in
silenzio con le mani ancora sotto il suo maglione. Quando
cercò di divincolarsi
strinse la presa.
C’è
mai una volta in cui cerca di togliermi le castagne
dal fuoco?
Meike scoccò loro
un’occhiata
di commiserazione. Sul serio, sembrava proprio quella. “Non
sono mica stupida,
Al.” Gli disse in un inglese reso un po’ incerto
dall’imbarazzo. “Voi due vi
piacete come un ragazzo e una ragazza.” Fece una pausa,
prendendo un tono
cospiratorio. “Si chiama essere gay, sai?”
Tom a quel punto scoppiò a ridere, lasciandolo libero per
evitare di crollare
da sopra lo scoglio a causa dell’esplosione di
ilarità. “Hai sentito Al? Devi
chiamare le cose con il loro nome.”
“Va’ all’inferno!” Si
sentì avvampare come un gladiolo e persino Meike
accennò
una risatina. “Meike, senti… Cioè, so
che è un po’ strano…”
La bambina scrollò le spalle. “Io lo
sapevo.” Spiegò orgogliosa. “Tom non
guarda le ragazze. E dice che preferisce stare coi ragazzi. Era ovvio.”
“Cristallino.”
Ironizzò Al
scoccandole un’occhiata divertita. Poi si affrettò
a cambiare discorso, perché certe
cose lo imbarazzava a morte. “Così, uhm, andrai a
Durmstrang?”
“Sì!” Rispose contenta. “Anche
se neanche la nonna sa dov’è!”
“Perché è intracciabile, sai che
significa?” Si lanciò in una spiegazione che
la bambina seguì attentamente.
Fu una bella chiacchierata.
Il
sole aveva fatto capolino dalle nuvole scaldando le rocce attorno a
loro e
rendendo il clima gradevole, se non proprio caldo. Il vento era caduto
e si
stava bene, seduti sugli scogli con il rumore e l’odore
dell’oceano tutto
intorno. Pensò che dopotutto quel posto assomigliava a Tom:
apparentemente sembrava
aspro, ventoso e poco ospitale. Ma bastava un attimo, anche solo un
raggio di
sole, per renderlo meraviglioso.
Tom seguiva la loro
conversazione distratto, intervenendo ogni tanto. Al si sentiva un
po’ idiota a
voltarsi a intervalli regolari per controllare che ci fosse
Prima o poi gli sarebbe
passata, per il momento doveva accertarsene.
Meike alzò la
testa quando si
sentì chiamare improvvisamente. “È la
nonna!” Si voltò verso i due ragazzi.
“Credo che tuo papà sia arrivato
Al…”
Al afferrò la
mano di Tom
prima che si ficcasse le unghie nel palmo per il nervosismo o qualcosa
del
genere, e lo costrinse ad intrecciarla alla sua.
“Andiamo?”
Tom annuì impercettibilmente. “Credo dovrai
lasciarmi la mano però…”
Gli sorrise. “Solo quando sarà
necessario.”
E lo fece veramente. Solo
quando furono davanti la fattoria Al gli lasciò la mano. Lo
fece a malincuore, perché
sembrava che Tom ne avesse più bisogno proprio in quel
momento.
Meike spiava dall’uno all’altro, insolitamente
zitta. “Ti assomiglia il tuo
papà, Al?” Chiese, tanto per dire qualcosa.
Al sorrise. “Dicono che sia quello che in famiglia gli
somigli di più.”
Tom spinse la porta di
ingresso con forza, senza attendere oltre.
Il suo padrino era a due
passi
da lui, con uno di quegli orribili maglioni Weasley e gli occhiali
tondi. Pensò
nebulosamente che fosse l’uomo con meno senso del gusto sulla
faccia della
terra.
Questo per pensare a
qualcosa.
“Tom.”
Sorrise
avvicinandoglisi. Esitò, e si squadrarono a lungo.
“Ti trovo bene. Anche se ti
diranno a casa che sei troppo magro.”
E Tom a quel punto si permise un sorriso, stringendogli la mano di
rimando. Non
si abbracciarono o ci furono particolari effusioni. Entrambi le
temevano come
una malattia infettiva di rara natura. Si limitò a
stringerla con quanta più
decisione gli riuscì.
“Ciao
papà!” Rispose Al per
lui. “Tieni… e grazie!” Gli porse il
deluminatore, che l’uomo si intascò con un
sorriso impacciato. Tom notò che sembrava rivolgerlo
più che altro a Cordula. Dovevano
aver parlato nel lasso di tempo che loro avevano impiegato a risalire
la
scogliera.
Harry si aggiustò
le lenti
degli occhiali, mentre Meike si era accostata a Cordula, spiandolo con
occhi di
una curiosità divorante. “Bene…
purtroppo la passaporta si attiverà tra poco. Non
sono riuscito ad ottenerne una a lunga durata. Ai trasporti magici le
persone
che conosco sono quasi tutte in vacanza e pochi erano disposti a
lavorarci su a
lungo…”
“Dobbiamo andare subito, quindi?” Intuì.
Sentiva una stretta allo stomaco, ma
non sapeva se fosse spiacevole o meno.
“Più o
meno subito, sì.” Si
scusò con uno sguardo verso Cordula. “Mi dispiace
l’improvvisata e la fuga
scortese, ma le passaporte internazionali non…”
“So bene come funzionano.” Tagliò corto
la donna. “E comunque mi ha già detto
tutto quello che doveva, herr
Potter.”
Si voltò verso di lui, e Tom sentì che gli
sarebbe mancata.
Era forse la prima persona
al
mondo che l’aveva capito senza bisogno di spiegazioni.
Le si avvicinò,
mentre cercava
di ignorare i lacrimoni tremare sulle ciglia di Meike. “Danke. Du hast mein Leben gerettet.”
Disse soltanto, in tedesco, perché davvero
non c’era molto da dire e non voleva dirlo in inglese. Gli
tese la bacchetta
del figlio, anche se fu una sofferenza. Non sapeva se ne avrebbe avuta
una, d’ora
in poi.
“Allora
ricordatelo.” Si
limitò a rispondere la donna prendendola. “
“Potreste…
venire con noi. Tu
e Meike. Finché non inizia la scuola.” Disse,
stupendosi lui stesso della
proposta. “Questo posto…”
“È il posto a cui apparteniamo.”
Concluse per lui, ma quasi sorrise. “Ma Meike
sono convinta sarà felicissima di venirti a trovare durante
le vacanze
scolastiche.”
“Tutte le volte che vuole!” Si inserì
Al, che ovviamente aveva gli occhi lucidi
al posto suo. “Vero papà?”
“Naturalmente.” Confermò Harry, che era
rimasto in silenzio fino a quel
momento. “Siete entrambe le benvenute a casa nostra, come ho
già detto…”
“L’inferno congelerà prima che mi faccia
convincere ad usare una passaporta, herr
Potter.” Ironizzò Cordula. “Ma,
come le ho detto, apprezzo l’offerta.”
Sembravano tutti
incredibilmente impacciati, registrò Tom. Come se non
sapessero come salutarsi,
con il poco tempo che avevano a disposizione.
Harry a quel punto si fece
coraggio. “Dobbiamo davvero andare adesso. Devi prendere
qualcos’altro Tom, o
viaggi così leggero?”
“Viaggio come sono arrivato qui.” Rispose, poi si
voltò verso le due donne.
Meike piangeva con grossi lacrimoni. Non seppe cosa dirle per farla
smettere,
forse perché avrebbe voluto dire molte cose. Avrebbe voluto
essere Al, in quel
momento. Forse piangere sarebbe stato un buon modo per manifestare i
propri
sentimenti.
Harry tirò fuori
la passaporta
dalla tasca, era il suo mazzo di chiavi di casa. Non appena la
posò sul tavolo
quella cominciò a brillare di una tenue luce azzurrina.
“Ci siamo ragazzi.
Toccatela, coraggio.”
Tom si avvicinò al tavolo, guardando per l’ultima
volta il posto che aveva
finto fosse casa sua per otto mesi. Era stata una bella finzione,
dopotutto.
Cordula a quel punto decise
di
parlare. “Sei un bravo ragazzo, Tom. Ricordati anche
questo.” Disse con il suo
solito tono spiccio. Ma lo credeva davvero, glielo diceva la sua
espressione.
Le sorrise.
“Farò del mio
meglio.”
Poi tutto divenne confuso.
****
Germania
del Nord.
Residenza
estiva degli Hohenheim. Pomeriggio.
Sören torno nella
propria
camera con una scatola tra le mani e la testa completamente confusa.
E rabbioso.
Non poteva credere che la
sua
missione fosse quella.
Tese le labbra
finché non
sentì il sapore del sangue mentre abbandonava la scatola di
pergamena trattata
sulla scrivania prussianamente ordinata. Gli era stata assegnata una
camera
piccola, su una delle torri e il suo baule da viaggio era stato
già trasportato
sì, ma nessuno dei servitori si era preso la briga di
aprirlo e sistemare gli
effetti personali.
Meglio così, non
sarebbe stato
costretto a punire il malcapitato.
Si tolse il mantello e
accese
con un colpo di bacchetta il fuoco, godendosi il tepore che invadeva
lentamente
la stanza.
Rimase incerto, di fronte
alla
scrivania, a scrutare la scatola. Era lunga, rettangolare e di un rosso
cupo.
Era uno di quegli oggetti cartacei che si potevano acquistare per poche
manciate di zellini in una cartoleria magica. Serviva per contenere
delle
lettere.
“Accomodati
Sören.”
La voce di suo zio era stata incolore come al solito. Stava leggendo
dei
documenti di cui era riuscito a vedere con la coda
dell’occhio il sigillo della
Thule, prima che gettasse le lettere nel fuoco. Aveva abbassato lo
sguardo
quando l’uomo si decise a guardarlo.
“Il
trasloco è concluso? Hai sigillato il castello?”
“Sissignore, come mi è stato ordinato.”
Aveva risposto prontamente. “Nessun
problema.”
“Bene.” Si sentiva il suo sguardo addosso e aveva
stretto i pugni per impedirsi
di alzare lo sguardo o mostrare tensione. Fitte brucianti gli avevano
attraversato lo sterno.
Maledetto
nervosismo…
“Adesso
parliamo di quello che devi fare per
l’organizzazione. Si tratterà di un compito
semplice, forse, temo, ne sarai
addirittura offeso.” Era stato ironico e Sören non
aveva colto la provocazione.
Non avrebbe comunque potuto. “Dopo il fallimento di John Doe
ho bisogno di
nuove informazioni. Lo ammetto, abbiamo tutti sottovalutato Harry
Potter e la
sua famiglia.”
Sören a quel punto aveva alzato la testa per guardarlo
sbalordito. Sentiva il
cuore battere violentemente nella cassa toracica, pieno di furiosa
aspettativa.
“Zio, intende dire…”
“Quest’anno, sembra, si terrà il torneo
Tremaghi.” Lo interruppe come se non
l’avesse sentito. “Beaux-Batons, Durmstrang e
Hogwarts mescoleranno i propri
studenti dopo quasi vent’anni. È
un’occasione troppo propizia per lasciarsela
sfuggire.”
“Ma zio…” Aveva tentato, e aveva
continuato vedendo che gli dava spazio di
replica. “La sicurezza attorno a Dursley sarà
massima. Non permetteranno di
nuovo un rapimento.”
“Nessuno ha parlato di rapimento, qui.” Aveva
replicato duro. “Voglio che tu
torni ad essere uno studente, Sören e voglio che tu ti
avvicini alla famiglia
Potter. Non si tratta più soltanto di mio figlio.” Si era accarezzato la
barba curata. “Si
tratta dei Potter. L’anno scorso li abbiamo tirati fuori
dall’equazione. È
stato un errore di valutazione che abbiamo pagato a caro
prezzo.”
Sören
l’aveva guardato confuso a quel punto. Non
riusciva a capire dove volesse arrivare. “Non sarà
comunque facile avvicinarsi
a Dursley, anche se in veste di studente.”
“Non sto parlando di lui, sciocco ragazzo.”
L’aveva apostrofato irritato. “So
da me che mio figlio sarà tenuto sott’occhio
ventiquattr’ore su ventiquattro.
Si aspetteranno che ci riproviamo, se hanno un po’ di
cervello… E non dobbiamo
dare nell’occhio proprio per questo motivo. Sei uscito da
Durmstrang un anno
fa, sei giovane. Non dovrai neppure camuffarti. Farò in modo
che tu faccia
parte della delegazione della scuola.” Era sembrato cogliere
la sua
perplessità, perché aveva continuato nella sua
spiegazione. “Naturalmente
assumerai un’identità falsa…”
Aveva fatto un mezzo sorriso che non aveva
cambiato di un millimetro il gelo nei suoi occhi. “Sembra che
Odino ci assista,
non dovremo neppure inventarcela. Esiste un tuo omonimo al settimo
anno. Lo
sostituirai… come studente e…” Aveva
fatto un cenno con la mano e la scatola di
cartone rossa che aveva visto poco prima era scivolata verso di lui.
Sören
l’aveva presa, aprendola. Conteneva circa una
cinquantina di lettere, scritte con una fitta grafia femminile. Ogni
tanto
c’era qualche disegno che denotava una certa predisposizione
artistica.
“Non
capisco.” Aveva ammesso.
“Non
capisci che devi sostituire qualcuno per
sorvegliare i Potter?” Aveva ironizzato. “Per il
momento la il tuo compito non
mi sembra difficile.”
“No,
le lettere. Cosa devo farci?”
Alberich aveva inarcato le sopracciglia, quasi non credesse alle
proprie
orecchie. “Queste lettere sono evidentemente parte di una
lunga corrispondenza.
Amici di penna, credo li chiamino. Il ragazzo di cui prenderai
l’identità è
amico di penna della figlia minore di Harry Potter, Lilian
Luna.” Aveva
aspettato che il concetto gli penetrasse per aggiungere. “Ti
consiglio di
leggerle. Dovrai fingerti un confidente appassionato.”
Sören aveva storto
le labbra
in una smorfia, guardando la scatola abbandonata.
Confidente
di una ragazzina…
Lui.
Avrebbe pensato ad uno
scherzo
di pessimo gusto se la richiesta non fosse stata fatta da suo zio in
persona.
Sören Von
Hohenheim-Prince non
era un brufoloso corteggiatore di streghette inglesi… era il
braccio destro di
Alberich Von Hohenheim, era un alchimista, era un soldato.
In effetti avrebbe preferito
affrontare
un dorsorugoso di Norvegia a digiuno da giorni che fingersi interessato
alla
vita dell’ultima erede del Salvatore.
Aprì la scatola
con un gesto
secco, prendendo il plico voluminoso e sedendosi sulla poltrona accanto
al
camino. Si versò una generosa – e doverosa
– dose di vodka incendiaria e… visto
che gli era stato ordinato… si apprestò a
leggere.
Dopo una breve scorsa emise
un
sospiro sconfortato.
La ragazzina decisamente non
aveva il dono della sintesi. Aveva in mano il corrispondente di una
piccola
enciclopedia di vita personale. Guardò svogliato le date: la
prima lettera era
di due anni prima. La lesse. Si firmava sempre Lily.
Con
il doppio nome cacofonico che ha è una scelta
quantomeno saggia.
Le lettere erano impregnate
di
un profumo indefinito, sembravano fiori. Gli ricordava qualcosa, ma del
resto
non era mai stato tipo da fiori. Non ne aveva mai regalati
né ricevuti. Al
massimo li aveva usati, ma distillati.
Mise le lettere sul tavolino
accanto.
Avrebbe dovuto impersonare
il
suo corrispondente. Dunque contattarla. Probabilmente avvicinarla.
Buttò
giù un sorso di vodka,
stringendo i denti al fuoco che gli incendiò lo stomaco.
Come
se non avessi fatto altro per tutta la vita che
interfacciarmi con adolescenti stupide…
I suoi anni a Durmstrang
erano
stati proficui dal punto di vista dei suoi studi, ma decisamente
solitari.
Tutti conoscevano suo zio, se non altro di fama, anche se non
c’erano prove
concrete che lo annoverassero trai maghi oscuri.
Persino a Durmstrang ormai
non
andava più di moda essere cattivi.
Il risultato era che non si
sentiva così pronto a stringere amicizia, o a fingerla, con
i suoi coetanei.
Figuriamoci con
una… una
quindicenne, da quando dice la sua data di nascita…
Si sentiva frustrato e
…
imbarazzato, sì. Gli sembrava un compito stupido.
Sorvegliare la famiglia
Potter, prendere contatti con la più inutile e distante da
Dursley di loro.
E
poi?
Questo significava che suo
zio
continuava a non fidarsi di lui.
Strinse il bicchiere tra le
dita finché non lo sentì scricchiolare.
Allentò la presa, cercando di
rilassarsi. Lanciò un’occhiata alle lettere e vide
spuntare qualcosa di molto
rosso in mezzo. Lo estrasse cauto: era una fotografia. Si doveva essere
staccata da una delle lettere visto che c’erano ancora segni
di scotch magico.
La ragazza ritratta doveva
essere quella Lily. Aveva i capelli di un rosso tiziano piuttosto
incredibile,
visto che i britannici di solito li avevano color carota.
La guardò a lungo
prima di
accostare il viso al bordo. C’era ancora quel profumo, e
stavolta riuscì ad
individuarlo.
“Gigli.”
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Note:
Che ve ne pare di
Sören?
Pareri sinceri! :D
1.
Qui la canzone.
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