-Promettimi
che lo porteremo con noi!
-Certo. E poi ci avvolgeremo dentro
il corpo
di qualche ferito per usarlo come barella improvvisata. Matt, andiamo a
fare la
guerra, non ad un festival rock!
-Ma potremmo appenderlo alla porta
dell’Abbazia
e…
-Matt, non porteremo con noi il tuo
dannato
striscione.
-…sei una stronza, Sym.
“E poi la pioggia
scioglierà ogni cosa…”
-Se
questa dovesse essere la fine del mondo?
Aveva
riso. I capelli di Brian gli facevano il solletico contro il braccio,
Matt
aveva abbassato d’istinto una mano a carezzarli
distrattamente e non gli
sarebbe sembrato eccessivamente strano sentire l’altro fare le fusa.
-Sono
cose più adatte a me, da dire, che a te!
L’osservazione
non era piaciuta a Brian. Aveva storto il naso e Matthew gli aveva
letto negli
occhi, ora sollevati ad incontrare il suo sguardo, che quella domanda
era molto
più seria di quanto avesse voluto credere.
-Io
ci penso a come morirò, Matthew, come tutti.
Chiedersi
se fosse stato profetico o se, più facilmente,
già allora avesse previsto l’evolversi
di una situazione che stava cambiando troppo in fretta era inutile allo
stato
dei fatti. Che Brian avesse immaginato o meno il modo in cui se ne
sarebbe
andato, c’era di certo che era stato lui a programmarlo.
Avere qualcosa – qualcuno
– da incolpare che non fosse
lui o Alex, sebbene mero strumento, era consolante e Matthew preferiva
aggrapparsi a quel pensiero con tutte le proprie energie mentre
camminava lento
per le strade bagnate dalla pioggia del coprifuoco.
Notte
inoltrata, quasi l’alba, passeggiare per Londra a
quell’ora significava
aspettare solo di essere arrestati dalla polizia, uccisi da qualche
balordo o
etichettati come membri della Resistenza ed ammazzati a vista dai cani
sciolti
del Governo. L’unica cosa che lo impensieriva era la
prospettiva che, in quel
caso, non sarebbe riuscito ad arrivare al luogo
dell’appuntamento.
Aveva
tradito tutto per riuscirci. Aveva abbandonato una causa che non gli
era mai
veramente appartenuta; aveva lasciato gli amici di sempre, quelli
coinvolti per
forza in una battaglia non loro, a morire da soli; aveva rinnegato
sé stesso,
la propria musica, i propri ideali. Tutto quello che voleva, nel
fuggire come
un ladro dallo stesso rifugio che lo aveva ospitato per un anno e
mezzo, era
cancellare in un’alba personale, l’alba di rivolta
e martirio che tutti i suoi
compagni avrebbero combattuto.
L’immagine
scolorita dell’edificio, scuro contro un cielo plumbeo, e
scheletrico con le
sue finestre rotte ed i pilastri scarnificati di cemento, fu accolta
come una
benedizione. Matthew premette con noncuranza la mano contro il fianco
del
cappotto, avvertendo nella tasca la consistenza rassicurante della
pistola, poi
allungò il passo e sparì sotto il primo porticato.
“Ogni singolo abitante di
questa città, che
come noi voglia far sentire la propria voce a chi ci governa senza
essere stato
eletto e ci soffoca senza averne il diritto, dovrà accendere
questa Radio!”
Nelle
strade di Londra si rincorrevano il battere ritmico delle suole di
gomma contro
l’asfalto e il ticchettio basso della pioggia acida.
“Ogni singolo individuo
di questa città, che
voglia unire la propria voce alla nostra, dovrà alzare il
volume!”
La
voce di Urban Symphony si infrangeva e rifrangeva contro i muri e le
finestre.
Non importava contare quante di quelle fossero state aperte, per ogni varco tra Londra ed i suoi abitanti una
radio accesa trasmetteva lo stesso messaggio.
“Ogni singola persona di
questa città, che
voglia ricominciare a definirsi tale, dovrà scendere in
piazza adesso e tornare
ad essere libera! Qualunque sia il
prezzo da pagare!”
Le
note si riversarono fuori dalle finestre.
Ed i
passi divennero corsa.
L’uomo
aveva il viso scavato, la pelle si tendeva sulle guance e sugli zigomi
e rughe
profonde segnavano la fronte. Gli occhi erano l’unico accenno
di vita in un’espressione
incolore, due punti neri, due buchi. Che si fissavano contro i suoi con
forza.
-E
così sei venuto.- Esordio
banale…-
Matthew James Bellamy.
Ma si
poteva anche fare di peggio.
Avanzò
fino a trovarsi sotto una delle finestre. Un chiarore pallido scendeva
dai
profili dei palazzi intorno e scivolava attraverso le crepe nei muri.
Matt si
fermò alla luce, così che l’altro
potesse osservarlo come lui stava già
facendo.
-Io
però non ho un nome da darti.- osservò stringato.
Fu il
primo a stupirsi, piacevolmente, di come la propria voce fosse suonata
controllata e calma.
-Né
ti interessa darmene uno.- concluse per lui l'uomo.
Il
modo sicuro con cui si muoveva, senza badare a lui, certo di non
doversi
aspettare nessun pericolo, bastava da solo a fargli sentire un gelo
freddo
lungo la spina dorsale. Non era certo di come sarebbe andata a finire
ed anche
nella sua testa - dove tutto avrebbe
dovuto essere chiaro, almeno nelle aspettative - le cose si
accavallavano
in una confusione eccessiva, lasciandolo preda di così tante
sensazioni tutte
assieme che era inutile anche provare a districarcisi.
Il
punto, si disse pigramente, era “salvare perlomeno le
apparenze”.
Per
questo rimase immobile. L'uomo gli si avvicinò lentamente,
dandogli tutto il
tempo di reagire e senza neppure guardarlo in viso mentre lo faceva e
parlava.
-Sapevo
che lo avresti fatto. Non poteva essere diversamente del resto, tu vuoi
vendicarti.
-E tu
vuoi uccidermi.
-Oh!
niente di tanto banale.- confessò l'altro, con un sorriso a
mezzo ed uno
sguardo sbilenco. Si fermò, tra loro, adesso, c'erano meno
di due metri,
potevano parlarsi senza alzare la voce ma il vuoto attorno riempiva
comunque di
echi il cielo di Londra, grigio attraverso le fessure del palazzo.- A
te piace
Orwell, non è vero?- Non aspettò una risposta che
sapevano entrambi non sarebbe
arrivata. L'uomo continuò, mani basse e visibili, lontane
dalle tasche del
giaccone lungo, di pelle, che portava sul completo scuro. Era
anacronistico,
assurdo...orwelliano, appunto - Allora non ti sarà
difficile capire
quello che sto per dirti. Perché vedi, non sono gli uomini -
esordì sollevando
un dito e scandendo con quello l'enfasi del proprio monologo. Si
concesse
perfino una pausa ad effetto! - a fare la storia.- concluse - Sono le
idee a
cambiare il mondo.- sentenziò - Gli uomini nascono, crescono
e muoiono; ma le
idee nascono, infettano tutto e si propagano. E poi piegano la
realtà al
proprio dictat e diventano legge prima ancora che tu abbia potuto
assimilarle
completamente.
Davanti
al mutismo che ricadde immobile in mezzo a loro, l'uomo si
accordò il lusso di
squadrarlo. Uno sguardo breve ma la cui intensità
bastò a bruciargli la pelle
di una sensazione sgradevole di marciume. Dovette frenare l'istinto di
pulirsi
il risvolto del cappotto e rimase invece fermo, schiacciando la mano
contro il
calcio della pistola in fondo alla tasca.
-E'
per questo che io non voglio ucciderti.- riprese l'uomo, paziente come
se
stesse discutendo con un bambino.- Creerei solo un altro martire da
aggiungere
ad una lista fin troppo lunga e destinata a diventarlo ancora di
più, e
lascerei alle tue idee il tempo di cementarsi nelle coscienze
collettive con la
forza di una lapide a sigillarne l'eternità. Matthew James
Bellamy, la voce
della Resistenza!- proclamò accompagnando quel titolo con un
gesto teatrale di
presentazione.- No, da morto vali troppo.- sfiatò.
-Allora
cosa vuoi?
Lui
lo guardò, lo soppesò con gli occhi, valutando
l'ammasso di ossa e pelle che
era sempre stato.
-Cambiare
il mondo.- rispose come se fosse ovvio, inarcando le sopracciglia in un
accenno
di stupore educato.
Riprese
a passeggiare in modo lento ed ostentato, sembrava farlo apposta ad
offrirgli
la schiena nuda e forse era proprio quella consapevolezza ad impedire a
Matthew
di fare ciò per cui era lì. Lo seguì
con lo sguardo mentre gli girava attorno
in un cerchio simile a quello di una fiera, eppure era lui ad essere
“armato”
al momento...
-E
tu, Bellamy? Non sei qui per distruggerci o non saresti venuto. No, tu
sei qui
per la tua personalissima vendetta – ribadì
asciutto - e vedi, è proprio questo
che intendevo: non sono le persone, sono le idee.
-Le
mie idee le conoscete.
-Le
tue idee sono bugie.- Poche sillabe a formare la sua condanna. Matthew
pensò a
come dovevano essersi sentiti Dominic e Chris, quella mattina, nello
scoprire
che era scomparso e che aveva lasciato loro solo due frasi stringate di
scuse
con cui mandarli al macello.- Niente
di quello che la Resistenza proclama ti appartiene.
-Secondo
me abbiamo parlato anche troppo.- sibilò Matt estraendo
l'arma dalla tasca del
cappotto.
Fu un
secondo e nient'altro, una mano che si abbatteva contro il suo polso,
l'arma
volò via dalle dita ed uno sparo riecheggiò
nell'aria sfondandogli lo stomaco
con la forza di quel suono.
Nel
grigio sfumato di mille toni con cui Londra copriva le proprie strade,
Eliza
aveva il colore di una morte caritatevole.
In
piazza una folla chiassosa di manifestanti reggeva striscioni contro le
cariche
della polizia, alle loro spalle, da tutte le strade di accesso, un
fiume in
piena di individui sciamava con le intenzioni più disparate
seguendo il flusso
di una musica ossessiva e cattiva.
Eliza
si fermò all'imboccatura della strada e guardò
avanti. Un sorriso le illuminò
il viso di una gioia primordiale e violenta, sollevò la
canna della pistola
sopra la testa e la puntò.
-The
war is overdue.- recitò.
Matt
si ritrovò a boccheggiare, piegato sulle ginocchia,
prendendo fiato contro il
pavimento sudicio. Il calcio non lo aveva neppure visto arrivare,
l'uomo si era
mosso con l'efficienza di un militare ben addestrato, centrandolo in
pieno
stomaco come un proiettile.
-Pensavi
davvero che sarebbe stato così facile? - chiese con
gentilezza adesso.-
Andiamo! cosa sei tu, Bellamy? Un
ex
teppistello, un mollaccione troppo ricco cresciuto nella bambagia, una
patetica
imitazione di rivoluzionario a buon mercato?!- elencò
asciutto. Matthew sollevò
lo sguardo ad incontrare il suo.- La verità è che
non sei proprio niente.-
scandì breve l'uomo- Hai cessato di esistere il giorno
stesso in cui Brian
Molko ha cessato di respirare.
-L'ho
pensato anche io.- sussurrò di rimando, sollevandosi
lentamente per
raddrizzarsi sulla schiena e poi sulle gambe instabili. Si sentiva
senza forze,
arrivare fin lì era stato già dare tutto quello
che possedeva e non sapeva
quanto di lui rimanesse per completare ciò che si era
ripromesso - Quando ho
saputo, sentito davvero che Brian
aveva smesso di esistere, di respirare, come hai detto tu. L'ho pensato
anche
io. Mi sono chiesto perché io, invece, stessi ancora
respirando, perché mi
stessi muovendo quando non avevo un obiettivo da far raggiungere alle
mie
gambe. Senza Brian non avevo un cazzo di niente, eppure continuavo a
muovermi,
una parola dopo l'altra, seguendo le note di una canzone che non mi
andava
neppure di ascoltare. Ma ora sono qui, probabilmente Brian mi darebbe
del
coglione, non si è fatto ammazzare perché io
potessi sanare le mie ferite nel
sangue di una vendetta che forse non riuscirò neppure ad
ottenere. Eppure,
esattamente come Brian che è morto per quello che credeva
giusto, allo stesso
modo io sono qui ora, davanti all'uomo che l'ha ucciso, come qualcuno
che non
ha più niente da perdere, come il più pericoloso
dei coglioni.
-…pericoloso?
Un
rumore sordo, il suono di dieci…cento…mille…passi
tutti uguali e tutti fatti nello stesso istante. Matthew non ebbe
bisogno di
voltarsi per sapere di essere circondato. Le sicure delle armi
scattarono tutte
assieme con una precisione che aveva dell’incredibile.
-Tu
non ha neppure idea di cosa voglia dire
“pericoloso”.- lo derise l’uomo.
-Forse
no,- concesse Matt con un sorriso stanco – ma ora sei tu ad
illuderti se credi
che sarà così facile.
Nella
confusione Eliza volteggiava come una farfalla, i suoi colori
dissipavano la
folla in una marea uniforme di grigio e sangue e lei diventava
l’unica cosa
concreta su cui fermare lo sguardo.
Fu
per questo che Dominic guardò verso di lei. E poi si
voltò attorno, prendendosi
il tempo di una pausa che sapeva di irrealtà nel furore che
imperversava
attorno a loro.
Matthew li aveva abbandonati.
Chris era scomparso.
Eliza era lontana.
Vide
uomini in divisa nera fare irruzione nella piazza, percorsero le
medesime
strade che loro avevano percorso, bloccandogli qualsiasi via di fuga da
quel
campo di battaglia. Westminster sembrava così distante da
essere
irraggiungibile e la realtà stava reclamando il proprio
pagamento.
Matthew
gli si scagliò contro. Stavolta fu l’uomo a non
prevedere quella mossa,
semplicemente credendo che si sarebbe limitato a farsi ammazzare, si
tirò
indietro troppo lentamente ed il pugno dell’altro lo
colpì alla mascella,
stordendolo a sufficienza perché Matt potesse superarlo di
un balzo, recuperare
la pistola e dileguarsi verso le scale che portavano ai piani superiori.
-Non
sparate!- sentì urlare mentre attaccava la prima rampa,
sentendo già il fiato
pesante per la paura e l’adrenalina in corpo.- Mi serve vivo,
quel bastardo!
Prendetelo!
Irruppe
in un salone enorme, finestre a tutta parete, ingabbiate da
intelaiature di
ferro arrugginito e corroso dall’acido, inondavano lo spazio
di luce mentre l’alba
esplodeva all’orizzonte e la pioggia cessava di scolare dai
tetti. Per un
istante, in cui riuscì a cancellare perfino l’eco
dei passi in corsa dei suoi
inseguitori, Matthew pensò che quello doveva essere il
paradiso. Uno spazio
senza confini si apriva attorno a lui, vuoto e riecheggiante di luce e
di
calore, al centro del pavimento spoglio ricoperto di calcinacci,
proprio
davanti alla finestra, un pianoforte a coda sembrava essere stato
lasciato lì
apposta ad aspettarlo. Aveva una linea impossibile, come
un’astronave atterrata
sulla Terra in tempi immemori e dimenticata da alieni che avevano preso
sembianze umane e scelto una mortalità terrena. La laccatura
nera, incredibilmente
intatta nonostante il tempo e l’incuria, era talmente lucida
da sembrare
plastica su cui si aprisse un cuore rosso, pompante e vivo, le corde
che si
tendevano sembravano altrettante vene o nervi pronti al balzo ed il
piede di
metallo era massiccio e saldo.
Non
si accorse nemmeno di essersi mosso verso quell’oggetto,
spinto da qualcosa di
talmente irrazionale da trascendere del tutto il terrore, la rabbia e
la
violenza di quel momento. Quando sentì i passi alle proprie
spalle arrestarsi
in uno scalpiccio disomogeneo, tornò alla realtà
con uno scossone doloroso che
lo indusse a voltarsi di scatto e serrare le dita attorno
all’arma, di nuovo
consapevole di sé e degli altri. Puntò la pistola
al viso dell’uomo nello
stesso momento in cui lui faceva altrettanto.
La
presenza silenziosa del pianoforte era così reale che Matt
si voltò a
sincerarsi che fosse immobile come lo aveva lasciato perché
in quel momento, lì
dentro, aveva la convinzione che potesse prendere vita e decidere
liberamente.
Il suo passo verso il Paradiso.
L’uomo
se ne accorse.
-Sei
sciocco, Bellamy!- sfiatò, rancoroso. Per Matt fu una
vittoria già apprendere
di essere riuscito ad incrinare quella patina di perfetto controllo che
l’altro
aveva sfoggiato fino a quel momento.- Dovresti quantomeno ascoltare
quello che
ti sto offrendo!
-Tu mi staresti offrendo
qualcosa?!-
sbuffò Matthew con un mezzo sorriso, divertito e disperato
assieme.
-Certo!
In fin dei conti, potresti tornare a suonare.- affermò
l’uomo, riacquistando
forza e vigore man mano che parlava.- Non è sempre stata
quella l’unica cosa
importante? Niente più mezzucci ed inganni, ma musica vera.
Potresti fare tutto
quello che hai sempre voluto e farlo alla luce del giorno.
Ricominceresti a
vivere…Tutto quello che ti chiediamo in cambio è
un compromesso.
Quella
parola gli rimbalzò addosso come un insulto, già
a pelle avvertiva quanto fosse
sbagliata.
-…che
diavolo stai dicendo…?-
sussurrò
strozzato, rinserrando ancora di più la stretta attorno alla
pistola.
-Non
vogliamo nemmeno che tu rinneghi del tutto la tua decisione di
contestare il
sistema, ma solo che tu lo faccia ponderando meglio le tue scelte.-
spiegò l’altro,
variando ancora la voce in una ragionevolezza insinuante.- Una
contestazione
mirata, calibrata ed efficace, una valvola di sfogo per ragazzini che
non sono
ancora in grado di valutare da sé e necessitano di un
indirizzo di pensiero. Mi
sembra un buon compromesso… Ed in cambio, potresti
permettere che questa
giornata di massacro si concluda con un bilancio migliore.
L’arma nella mano di
Matthew tremò.
-Credevi
davvero che non lo sapessimo?- indagò l’uomo,
fingendosi sorpreso - Sono mesi
che conosciamo con esattezza ciò che si è
preparata a fare la Resistenza,
aspettiamo pazientemente che veniate allo scoperto…abbiamo
pianificato tutto.-
affermò stringato- Però tu potresti evitare un
mucchio di morti inutili. I tuoi
amici non ci interessano, Matthew, vivi o morti non fanno differenza
per noi.-
Lasciò il tempo che quelle parole scivolassero a colmare la
distanza che li
separava, poi affondò con precisione chirurgica.- Davvero
non vuoi che Dom e
Chris si salvino? Lasceremo liberi voi e tutte le vostre famiglie,
Kelly, i
suoi figli…pensaci. Sarebbe stato questo che Brian avrebbe
voluto ottenere con
la propria morte.
Sapeva anche questo! Matt
sentì le
braccia cedere, sollevò l’arma prima che ricadesse
inerte contro il fianco,
lasciando che lo stupore attonito che lo pervadeva trasparisse nel suo
sguardo
smarrito. All’improvviso non era così importante
restare saldi.
L’uomo
sorrise davanti a lui. Appariva quasi paterno nel farlo, mosse due
passi in
avanti e non sembrava così minaccioso come era stato
all’inizio. Matt voltò lo
sguardo al pianoforte. Era ancora lì, silenzioso, e lui
pensò che avrebbe tanto
voluto avere il tempo per sfiorarne i tasti, prendersi la briga di
scoprire se
anche la sua voce era aliena,
straniera, e parlava di galassie lontane altri mondi. Ed altre vite.
Quando
tornò a voltarsi verso l’uomo, puntò
nuovamente la pistola davanti a sé.
-Non
so cosa Brian volesse. Non ha avuto la decenza di dirmelo.- ritorse
incolore.
-…non
essere stupido!- sibilò l’uomo bloccandosi di
colpo.- Se anche mi uccidi, non
uscirai di qui se non trascinato in catene!- osservò
accennando agli uomini
disposti dietro di loro.
Matthew
si strinse nelle spalle.
-Però
tu sarai morto.- ribatté.
La
risata educata dell’uomo era il suono più sinistro
che potesse riempire una
mattina così bella…
-Te l’ho
già spiegato, Bellamy, non sono gli uomini. Sono
le idee.
“…è
vero, Matthew. Tutto quello che possono
farti, è ucciderti”.
Si
voltò ancora verso il pianoforte.
Un
sorriso sbilenco ma sincero gli tirò il volto e tutta quella
pesantezza
opprimente che sentiva al petto si dissipò con la luce di
un’alba incredibile.
Pensò che perfino la pioggia acida poteva avere un suo
profumo e che questo
potesse essere bellissimo,
ché l’odore
di umido e di terra che saliva tutto intorno era il sottofondo
più piacevole di
una musica che suonava solo nella sua testa. Il
pianoforte non era affatto silenzioso. Il suo cuore di corde
e
nervi pompava aria e la trasformava in note e non c’era alcun
bisogno di
sfiorare i tasti per sentire la voce di altri mondi provenire dal fondo
dell’anima.
-Hai
ragione. Winston c’è arrivato troppo tardi.-
ridacchiò.
Quando
sollevò lo sguardo ritrovò
l’espressione dell’uomo, perplessa, che lo studiava
con un’attenzione nuova. Lasciò cadere a terra
l’arma e lo vide rilassarsi,
abbassando la propria e sorridendo apertamente in risposta al suo
sorriso.
Peccato
che non avesse capito affatto.
Il
pianoforte era più leggero di quello che pensava,
rotolò sulle proprie ruote
acquistando velocità in una confusione crescente di grida,
rumore metallico e
scricchiolii di legno e corde. Nell’impatto contro la
finestra un fiume
straripante di accordi aritmici pervase l’aria coprendo ogni
cosa in un
frastuono che gli sembrò la musica più bella mai
ascoltata. Quello strumento aveva la voce
limpida di un
angelo di metallo.
-Non
sparate, idioti!
Matthew
non si voltò. Corse dietro la scia del pianoforte, nella
stessa corsa che
avrebbe fatto su una scala
immaginaria di note. La finestra si spalancò davanti a lui
mentre il pianoforte
si schiantava al suolo, quattro piani più in basso,
trasformandosi in una
pioggia di schegge di legno.
Il
rimbombo fuori tempo della voce dell’uomo gli fece storcere
il naso…
-Sei
un pazzo, Bellamy, hai condannato tutti loro!
…odiava
le disarmonie.
“E’ strano,
Matthew, sai che io le amo,
invece.”
“Tu ed io non facciamo la
stessa musica,
Brian. Fortunatamente.”
Il
suolo si portò via anche quel pensiero.
Si
svegliò di soprassalto.
Un
sudore gelato gli ghiacciava la schiena, il fiato corto ed affannato.
Tirò un
respiro profondo, portandosi la mano all’altezza del petto
per sentire il cuore
battere impazzito sotto le dita, artigliò la maglia fino a
sformarla e
staccarla a forza dalla pelle sudata. Era
vivo.
Lentamente
la sua coscienza prese atto dello spazio che lo circondava. La stanza
era in
penombra ma i mobili di legno chiaro gli erano familiari ed era steso
su un
letto che conosceva, avvolto in un profumo che non avrebbe potuto
scordare
nemmeno in un milione di anni. Dalla porta aperta proveniva la luce di
una
giornata chiara ed il rumore di sottofondo, attutito e quasi
impalpabile, di un
televisore acceso.
Un
tonfo leggero alla sua sinistra lo fece trasalire. Matthew si
voltò di scatto,
intuendo la figura scura che si avvicinava attraverso il materasso. Per
poco
non si mise ad urlare.
-…Aristotele.-
sfiatò.
Il
grosso gatto tigrato miagolò basso in risposta, zampettando
verso di lui in un
ronfare morbido e rilassante. Matt chiuse gli occhi e lasciò
che l’animale lo
raggiungesse e gli si strusciasse contro il braccio in cerca di una
carezza.
-Non
sono mai stato così felice di vederti, bestiaccia.-
mormorò acconsentendo a
carezzargli il testone e grattargli dietro le orecchie.
Il
gatto miagolò ancora. Matt scostò di lato le
coperte e mise i piedi a terra,
osservando distrattamente Aristotele sedersi al suo posto e prendere a
pulirsi
il muso scrupolosamente. Quando Matthew si diresse alla porta, il gatto
gli
andò dietro con un altro balzo sordo ed elegante.
Come
aveva intuito, un mattino soleggiato lo accolse con entusiasmo mentre
attraversava il corridoio; le finestre gigantesche, a pannelli,
lasciavano piovere
dentro il mondo intero e mai come quel giorno Matt si sentì
grato di una simile
scelta architettonica. La cucina era in fondo al corridoio,
attraversò la
soglia ed il profumo del the lo investì. Era
a casa.
Si
fermò all’ingresso. Certo che l’altro,
che gli dava le spalle e guardava
assorto lo schermo della TV appesa sulla parete opposta, non lo avesse
nemmeno
sentito arrivare. Voleva prendersi il tempo necessario a realizzare che
era
stato solo un sogno e che non sarebbe
successo davvero. Voleva prendersi tutto il tempo necessario
per
ricominciare a vivere.
Aristotele
miagolò insoddisfatto, trotterellando fin sotto la sedia di
Brian e puntandogli
addosso uno sguardo pretenzioso non appena lo ebbe raggiunto. Il bruno
si chinò
a fissarlo con espressione perplessa, realizzando la sua presenza con
uno
sbuffo.
-E tu
che ci fai qui? – lo interrogò- La tua padrona ha
di nuovo lasciato aperta la
porta dell’abbaino, eh?
Per
tutta risposta, il gatto miagolò e si sedette in attesa.
-…immagino
che tu voglia mangiare.- realizzò Brian, inarcando un
sopracciglio in un’espressione
così buffa che Matt non poté evitarsi di ridere.
Così
lui si voltò.
-Buongiorno
anche a te!- commentò quando si rese conto che Matthew
doveva starlo spiando
già da un po’.
Prima
che Brian capisse anche cosa stava succedendo se lo ritrovò
addosso, che lo
stringeva freneticamente e sembrava volerlo divorare in un solo bacio.
Ricambiò
impacciato, spingendolo via quando quasi soffocò.
-Che
diavolo ti prende?!- indagò, prendendo fiato in modo
esagerato.
Matt
non lo lasciava, entrambi si strattonavano per la maglietta,
l’uno nel
tentativo di trascinarsi addosso l’altro, che si difendeva
strenuamente in una
lotta scherzosa che fece ridere Matthew.
-Sono
felice di vederti!- esclamò allegramente.
-Oh,
sì, questo è chiaro. Ma siccome è solo
da sei ore che non ci vediamo…
-Ho
fatto un brutto sogno.- confessò Matt, liberandolo.
Brian
fece altrettanto, fissandolo poi con aria interrogativa mentre Matt
girava
attorno al tavolo in direzione della cucina.
-Il
the è nel bollitore.- lo direzionò –
Che sogno?
Matt
recuperò una tazza da sopra il lavello ed il bollitore dalla
cucina,
appoggiandosi al mobile mentre si versava da bere.
-Tu
morivi.- affermò stringato.
Brian
sbuffò per nulla impensierito.
-Non
è nei programmi, al momento.- ritorse sarcastico.
-Invece,
eri proprio tu a programmarlo.
-Cielo! e
perché accidenti avrei dovuto
fare una cosa così stupida?!
-Per
salvare me.
Gli
si sedette davanti, dall’altro lato del tavolo, e Brian lo
osservò prendere una
sorsata dalla tazza.
-Ma
morire per salvarti non avrebbe senso,- sdrammatizzò
– tu non puoi vivere senza
di me!
Matthew
ridacchiò.
-Infatti.-
ammise semplicemente.- Vedi di ricordartelo la prossima volta.
Brian
liquidò la cosa come una sciocchezza, agitando la mano a
scrollarla lontana da
entrambi, e sollevò di nuovo il viso verso lo schermo.
Matt
lanciò all’apparecchio un’occhiata
distratta e tornò a sorseggiare il the.
-Dicono
qualcosa di interessante?
-Mh.
Pare che ci siano stati un altro paio di attentati stanotte.-
raccontò Brian
giocherellando con la propria tazza sul ripiano di legno –
Stanno discutendo l’ipotesi
di varare delle leggi di protezione
nazionale. Una cosa tipo “pugno di ferro per fare
fronte all’emergenza”.
Non penso che ne verrà fuori niente di buono.
Quando
Matthew posò la tazza sul tavolo, questo produsse
un’unica nota, un suono
caldo. Rassicurante.
“Anno
Zero”
MEM 2010
Nota di fine capitolo della Nai:
Terzo ed ultimo capitolo.
Ed io vorrei riempirvi di parole -
sul serio
- per dirvi quanto vi ringrazio per il calore stupendo con cui avete
accolto
questa storia. Perchè onestamente non me lo aspettavo e mi
sembrava, tanto per
cambiare, una delle mie solite elucubrazioni prive di senso.
Ed invece, vedere l'affetto che le
avete
rivolto e la profondità con cui avete commentato i suoi
passaggi...beh, sì, mi
ha fatto un piacere tale che meriterebbe davvero un milione di parole
per dirvi
«grazie».
Ma dovrete perdonarmi, stasera,
perchè non
ce le ho proprio un milione di parole.
Non ce le ho per nessuno. Ma ho
solo uno
stupido cuoricino che batte, tutto rotto. E le ragioni sono stupide,
tranquilli, niente che non si riaggiusti da sè ma solo un
pò di fatica, graffi
ed ammaccature in più.
Quindi scusatemi, ma fingiamo che
vi abbia
detto un milione di volte grazie. Perchè è solo
merito vostro ed è tutta
vostra.
MEM
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