20. Pandemonium
Sprofondò
il volto nel cuscino facendosi mancare il respiro; si chiese quanto
avrebbe
potuto resistere così, ma dopo un po’ decise che
non gli importava più di
tanto, non era certo sua intenzione soffocare. Sorrise contro la stoffa
quando
sentì il divano su cui era steso abbassarsi ulteriormente
sotto il peso
dell’altro ragazzo.
Si
voltò appoggiando la nuca al cuscino, sorridendo piano,
ciocche di capelli gli
coprivano gli occhi.
<
Ho
appena parlato con mio padre, puoi restare da noi quanto vorrai.>
Mormorò
il ragazzo dalla pelle scura, liberando con un gesto lento e leggero la
fronte
del suo compagno per ammirare liberamente quegli splendidi occhi da
predatore.
<
Non voglio essere un peso per te…> mormorò
Saix dalla sua posizione distesa.
<
Non lo sei. E’ sempre un piacere stare con te.>
ribatté deciso l’altro, un
sorriso sghembo ad incurvargli le labbra.
Si
squadrarono per qualche istante e lo sguardo del ragazzo steso si
addolcì,
divertito.
<
Ruffiano.>
Il
ghigno di Xemnas si ampliò vistosamente.
*
Nei
giorni di pioggia
passavamo il tempo a guardare la gente passare in fretta davanti casa
nostra,
coprendosi con ombrelli o delle valigette ventiquattr’ore.
Sembravano tutti
avvocati o dottori, pezzi grossi, con un’aria professionale
anche sotto
l’acquazzone e mi chiedevo continuamente se fosse un caso che
tutti loro
avessero l’aria da uomini d’affari oppure no.
Marluxia
adorava
commentare quelle persone, le loro andature, quello che il loro aspetto
gli
suggeriva, mentre io restavo ad ascoltarlo con un libro aperto sulle
ginocchia,
facendo finta di leggere e gettando di rado qualche occhiata al di
là del
vetro; quando poi cominciava a farsi troppo buio per poter guardare
fuori lui
cominciava ad accarezzarmi la testa e parlava, parlava di progetti, di
sensazioni, di ricordi.
Credo
che quello sia stato il periodo più bello che io e lui
abbiamo passato assieme,
non eravamo già più così giovani da
darci alla frenesia del momento, eravamo
più razionali, ma non troppo, per fortuna. Quelli erano
momenti in cui ci
permettevamo di mostrarci esattamente com’eravamo, di dire
proprio quello che
pensavamo. In quei casi potevo mandarlo al diavolo e baciarlo dieci
secondi più
tardi, era decisamente liberatorio.
Un
giorno, in un tardo pomeriggio invernale, quando già si era
all’imbrunire e
scendeva una pioggia tetra e leggera sulla città, Maru mi
indicò un vecchio
dalla barba bianca che arrancava a fatica sul terreno viscido,
aiutandosi con
un bastone.
<
Mi
ricorda mio nonno, sai? – mi disse osservando rapito
l’uomo – Aveva la sua
stessa espressione. L’ho sempre visto molto vecchio e stanco
della vita,
passava intere giornate senza rivolgere la parola a nessuno,
rigirandosi tra le
mani il giornale del giorno prima. A volte mi faceva salire sulle sue
ginocchia
e cantava piano delle canzoni della sua epoca, cose che non ho mai
più sentito.
Le ho perse quando lui è morto e mi ricordo a malapena
qualche melodia.>
Seguì
una pausa, io sentivo l’aria pulsare attorno a noi, carica di
sentimento:
sapevo che quello che stava dicendo gli costava molto, non ero solo io
ad aver
innalzato col tempo una barriera. Solo che la sua era diversa, meno
visibile
della mia.
<
Credo… credo che quando anch’io sarò
vecchio assomiglierò a mio nonno e a
quell’uomo là fuori. Forse sarò
addirittura più stanco.>
Mi
passai il dorso della mano sulle labbra, leggermente preoccupato.
<
Sono pronto a sopportarti anche quando sarai così, non
preoccuparti.>
<
Non potrai sopportarmi per sempre.>
<
Ho
una gran pazienza.>
<
Non mi riferivo a quello.>
Deglutii.
Sapevo che era un’illusione il poter morire assieme,
probabilmente uno di noi
due sarebbe restato solo e, sinceramente, avevo paura ad essere io: non
sarei
riuscito a sopportare la solitudine, non dopo essermi abituato a stare
con lui.
A dire il vero, la piega che il discorso stava prendendo mi faceva
molta paura.
<
Non avrò neanche nipoti a cui cantare.>
Mi
colpì al cuore in una maniera che non avrei creduto
possibile e per un istante
mi sentii in colpa, tremendamente in colpa, forse perché non
ero donna, forse
perché non potevo aiutarlo in alcuna maniera o forse
perché non avevo neanche
mai pensato a quella che probabilmente sarebbe stata la nostra fine.
<
Mi
sembra strano che tu scopra solo ora il tuo istinto paterno.>
Alla
mia sferzata lui sollevò un sopracciglio, guardandomi
perplesso. Per un momento
pensai di aver oltrepassato il limite, di aver detto qualcosa che era
meglio
non dire: temetti di aver rovinato tutto.
Ma poi
sorrise.
<
Non prendertela. Sono contento di come sto ora e non cambierei nulla
della mia
vita.>
Non
sapevo cosa rispondere.
Non
sapevo proprio cosa rispondere.
*
Faceva
freddo, un
freddo assurdo.
Sfregai
le mani l’una
contro l’altra cercando di scaldarmi, il mio fiato che si
condensava non appena
lasciava le mie labbra. Era da almeno dieci minuti che aspettavo
Marluxia in
macchina e mi stavo letteralmente congelando: fuori un vento freddo
sferzava
impietoso facendo ondeggiare pericolosamente i rami spogli degli alberi
accanto
alla macchina.
Potevo
distinguere le
scheletriche figure nere dei rami stagliarsi sul cielo blu scuro, il
sole era
tramontato da poco.
Sbuffai
scocciato,
pestando un poco i piedi nel tentativo di riscaldarli, con scarsi
risultati; non
sapevo dove fosse andato a finire Maru. Dopo aver parcheggiato aveva
detto che
doveva consegnare un pacchetto ad un suo amico ed era uscito.
Doveva
essere una
questione di pochi minuti, ma a quanto pareva c’era stato un
contrattempo.
Guardai
fuori dal
finestrino, cercando di capire esattamente dove fossimo: il luogo mi
era
familiare, ma non riuscivo a ricordare in che circostanza ero
già stato lì.
Mi
morsi il labbro già
martoriato e rovinato dal freddo e decisi che avevo aspettato
abbastanza.
Ebbi
la tentazione di
mettere in moto l’auto e lasciarlo lì, ma la mia
coscienza me lo impedì, era
troppo di cattivo gusto.
Uscii
dalla macchina
chiudendo piano la porta e mi guardai attorno.
L’illuminazione era scarsa,
c’era un solo lampione acceso a qualche metro di distanza. Mi
ricordavo in che
direzione Marluxia si era avviato e mi limitai a seguire la stessa via.
Dopo
poco realizzai
che posto fosse quello in cui mi trovavo, era il cimitero.
C’ero stato solo una
volta, diversi anni prima.
Deglutii
ed entrai
senza pensarci due volte; era un ambiente molto piccolo, non era il
cimitero
principale e ci misi ben poco a scorgere tra le ombre la figura di Maru
che mi
dava le spalle.
Feci
un passo avanti
prima di ricordare chi esattamente era stato seppellito là
dove stava il mio
compagno e mi bloccai. Una folata di vento mi fece rabbrividire.
Mi
strinsi nel
cappotto guardando ancora per qualche secondo Marluxia, lì
fermo immobile, le
mani dietro la schiena e i capelli mossi.
Era
strano, era strano
perché sapevo che era un peso che continuava a portarsi
dentro, ma lo
nascondeva talmente bene che anch’io, che lo conoscevo meglio
di chiunque
altro, mi facevo ingannare. E mi sentivo un ingrato per questo,
perché lui, per
quanto io cercassi di non darlo a vedere, riusciva sempre a capire
quando
qualcosa in me non andava e riusciva sempre ad aiutarmi a superare le
mie
difficoltà.
Non
potevo certo dire
la stessa cosa di me.
Tornai
indietro senza
farmi notare, quello era un incontro strettamente privato tra lui e
Naminé, io
non dovevo intromettermi: quei pochi momenti di fragilità
che si permetteva
erano troppo importanti.
Dopo
qualche minuto
Maru mi raggiunse in macchina scusandosi per il ritardo; feci
l’imbronciato per
un po’, mi comportai esattamente come avrei fatto se non
avessi scoperto cosa
stava realmente facendo.
Tornammo
a casa in un
silenzio surreale, lui guardava la strada con occhi assorti, tanto che
ad un
certo momento decisi di proporgli di fare cambio e lasciar guidare me;
lui si
riscosse e rise, continuando a guidare come se niente fosse.
Quella
sera, mentre mi
stavo spogliando, si avvicinò a me da dietro e mi
baciò piano il collo, un
contatto di soli pochi istanti.
<
Che fai?>
Non
rispose, ma fece
scorrere la mano sulla mia schiena, sfiorando quei leggeri segni che
erano
ancora lì, a memoria di quanto avevo passato.
<
Si vedono ancora.
– mormorò accigliato – Di certo non
aiutano a dimenticare.>
<
Ho già
dimenticato tutto quello che dovevo dimenticare. Per il resto, rifarei
tutto
esattamente come l’ho fatto anni fa, non ho più
rimpianti.>
Quel
che era successo
anni prima non mi preoccupava, era passato e basta.
*
“Questa
splendida
giornata di sole mi fa pensare al tuo visetto felice, tesoro. Buona
giornata,
amore!”
Guardai
perplesso l’sms
e poi fuori dalla finestra: tempestava di brutto, il vento era
così forte da
far tremare l’instabile comignolo della casa di fronte e la
pioggia batteva con
forza inaudita sulle finestre.
Idiota.
“Spero
che il fulmine
del mio amore ti colpisca in pieno incenerendoti, stupido!”
Rileggendo
il suo
messaggio mi venne da ridere: era un dannatissimo idiota.
Note d'Autrice: Lo so, lo so. Anni dall'ultima volta che ho aggiornato
e probabilmente questo finale non è poi così
soddisfacente... però io ci ho provato x°D
L'ho riscritto più e più volte, non sapevo
proprio come terminare questa storia, ma posso dire che, probabilmente,
la lemon spin-off per Van-chan la scriverò
lo stesso x°D Scrivere porn ormai non mi è
più così difficile come prima (colpa del p0rn
fest >->).
Il titolo riprende la puntata di Full Metal Panic Fumoffu, in cui si
vedono vari spezzoni della prima serie, dato che qui ho descritto delle
mini-scenette non
in sequenza temporale.
Ringrazio tutti coloro che hanno avuto la forza e la pazienza di
seguirmi fino alla fine e anche quelli che si sono arresi prima (se a
un certo punto stavo per
arrendermi io, l'autrice, direi che non siete da biasimare, tutto
questo è andato avanti per troppo tempo xD).
Un bacio a voi e un commentino a me, che non è mai mal visto.
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