3. LA CITTÁ-GIOIELLO
The more you see, the
less you know
The less you find out as you go
I knew much more then than I do now
– City Of Blinding
Lights, U2 –
Erano
sbucati al centro di una
piazza di vastità impressionante. All’inizio Regan
aveva creduto che fosse
costruita interamente in scintillante pietra bianca, ma le ci era
voluto ben
poco per capire di essersi sbagliata: tutto era bianco e luccicante per
il
semplice fatto che era ricoperto interamente di neve.
–
Benvenuta a Kauneus,
cerbiattina! – proclamò Lucius, spalancando le
braccia – Illustre capitale di
Norden. La Città-Gioiello. –
Non
ci voleva una gran fantasia
per intuire le motivazione che avevano fatto guadagnare alla
città quel degno
appellativo. La Terra di Norden era stata un reame, secoli prima, come
la altre
sei Terre, e durante quell’epoca aveva guadagnato prestigio e
ricchezze per la
sapiente amministrazione della famiglia di reggenza
dell’epoca, e in seguito,
anche dopo l’abolizione della Monarchia, la sua storica
capitale aveva sempre
conservato il suo antico splendore.
C’era
una fontana rotonda
su tre piani, ghiacciata, nel mezzo
dell’estesa area quadrata su cui si affacciavano palazzi alti
e riccamente
decorati, sfoggio di uno sfarzo moderato da una certa dignitosa
sobrietà, e quelli
erano davvero fatti di candida, pregiata pietra lunare. Dietro alle
loro
finestre tremolavano luci calde e invitanti, velate da tendaggi che
celavano
gli interni alla curiosità dei passanti. Sulle colonnine
ritorte delle ampie
balconate campeggiavano i blasoni spruzzati di bianco delle famiglie
residenti,
orlati di pompose nappe d’oro e d’argento.
Il
luogo era un crocevia di
quattro grossi viali che si fondevano, adorni di lampioni finemente
lavorati,
in un unico perimetro attorno alla piazza – Piazza del
Vecchio Regno, come
indicava l’iscrizione sul fianco della fontana.
Pochi,
frettolosi viandanti si
attardavano ancora per strada, stringendosi nei pesanti mantelli fino
al mento.
Le brezze fredde delle terre più a sud non erano niente a
confronto del pungente
vento gelido di Norden e lo sbalzo di temperatura che avevano
incontrato da
Corterra a lì metteva bene in chiaro quanto fosse stata
lungimirante Angina nel
donarle quel mantello.
Fu
più forte di lei: come
percorsa una scarica di elettricità, si
accovacciò a terra e affondò una mano
nel vaporoso strato di neve. Le dita si piegarono, artigliandosi sopra
la
polvere di ghiaccio, che le andò sotto le unghie, facendola
rabbrividire, ma fu
un brivido meraviglioso, perché la fece sentire
straordinariamente viva.
Si
tirò su con il palmo bagnato e
arrossato, l’orlo del mantello spolverato di bianco. Lucius ridacchiava.
–
Dalla tua reazione, mi verrebbe
da pensare che tu non abbia mai visto la neve in vita tua. –
Regan
si accostò la mano al viso.
Gocce di ghiaccio disciolto le bagnarono la guancia.
–
Non ne sono sicura. Conoscevo
questa sensazione, ma… era imprecisa, come il ricordo di un
sogno… –
Non
era una spiegazione granché
sensata, ma non avrebbe saputo come altro esprimere ciò che
aveva provato nel
toccare quello straordinario cuscino gelato.
Una
lussuosa carrozza laccata di
nero sollevava piccoli spruzzi di neve giungendo cauta dal fondo della
via, due
lanterne vetrate a rischiarare la sagoma scura del vetturino
abbarbicato a
cassetta in una nuvola di vapore. Regan intravide uno stemma nero
affisso sul
lato, al centro del battente: su un fondo blu scuro, una spada ricamata
in fili
argentati era conficcata verticalmente nel fianco di un monte innevato.
–
Credo sia il
caso di tirare su il cappuccio – le bisbigliò
Lucius all’orecchio, proprio
mentre la carrozza, passando, rallentava man mano che si approssimava a
loro.
–
Hey, Lucius! –
Un
viso chiaro si era affacciato
alla finestrella. Era un ragazzo con occhi neri quanto la vettura su
cui viaggiava,
una folta chioma scura che solleticava zigomi alti e affilati, sensuali
labbra
sottili dischiuse quel tanto che bastava per lasciar intravedere a
stento il
bianco degli incisivi. Sembrava avere all’incirca la stessa
età di Lucius, ma
si intuiva tra i suoi lineamenti cesellati una maturità che
lasciava intendere
che dovesse avere qualche anno di più. Al suo collo,
seminascosta dal bavero
del mantello e dalla camicia di seta bianca, si poteva scorgere lo
stesso
pendente che portava anche Lucius.
–
Lord Edelberg – Lucius
accompagnò il classico saluto con un inchino che a Regan
parve tutt’altro che
ossequioso. – Che piacere vedervi. –
Il
modo di conversare di Lucius
era un intrecciarsi di sorrisi spensierati e inflessioni divertite,
come se
nulla meritasse una seria considerazione da parte sua.
La
bocca del ragazzo si piegò in
un mezzo sorriso divertito.
–
Chi è questa graziosa
straniera? –
I
suoi occhi, perle di luce nera,
cercarono quelli di Regan, ma lei chinò la testa, celandosi
dietro all’ombra
che il cappuccio gettava sul suo volto.
–
Non farmi domande a cui non
posso rispondere, vecchio mio. Ti assicuro che ti sarà data
risposta entro
breve da chi di dovere. –
I
due si scambiarono uno sguardo
d’intesa, poi Lucius fece fare a Regan un passo avanti.
–
Regan, permettimi di
presentarti Lord Tristan Edelberg IV. Prince, per gli amici, ossia
quasi
nessuno. –
–
Il tuo senso dell’umorismo
lascia a desiderare, ultimamente – sogghignò
l’altro. – Piacere di fare la
vostra conoscenza, Regan. –
Aveva
speso un’occhiata
incuriosita all’abbigliamento inconsueto di lei, ben poco
consono all’ambiente
elegante cittadino, ma, se aveva avuto osservazioni in merito, le aveva
tenute
per sé, e di questo Lucius parve essergli particolarmente
grato.
–
Piacere mio. –
Non
sapendo come rivolgersi a
lui, Regan improvvisò un goffo inchino.
–
Vi serve un passaggio a casa? –
Accettarono
senza falsi scrupoli.
All’interno
la carrozza era
spaziosa e arredata alla stregua di un salottino: le morbide
imbottiture sei
sedili erano rivestite di velluto rosso e fu un vero piacere prendervi
posto.
Quattro lumi a olio rischiaravano l’altrimenti cupa cabina,
rendendo visibili
gli arabeschi della tappezzeria di seta.
–
Galvorn, sai dove andare –
disse Prince a voce alta, richiamando il cocchiere.
–
Sì, signore – rispose questi, e
la carrozza partì.
Kauneus
rifulgeva di luce anche
nella densità delle ombre della sera. Bastava un nonnulla:
anche il più lieve
bagliore della più piccola fonte luminosa veniva catturato
dal kival, il marmo delle cave dei
monti di
Norden, che si diceva benedetto dalla Madre per via della sua
capacità di
catturare anche i raggi di luce più minuscoli durante il
giorno e restituirli
in mille splendidi riflessi dopo il crepuscolo. Il centro della
città era quasi
interamente costruito in questo materiale, dai lastricati delle strade
alle
facciate dei palazzi e degli edifici alle statue che li abbellivano.
Era
da togliere il fiato,
percorrere per quelle vie.
Lucius,
che le stava seduto
accanto, teneva le mani in tasca, e aveva lo sguardo perso nel vuoto al
di
fuori del finestrino. Era ora di cena: gli abitanti dei palazzi
dovevano essere
già tutti a tavola, chi riunito in una sala da pranzo a
consumare un lauto
banchetto, chi rifugiato in qualche taverna a fare baldoria con gli
amici.
Prince,
da gentiluomo qual era,
evitò di fissarla e preferì dedicare la propria
attenzione alle pozzanghere
d’acqua che si erano formate sul pavimento, riverberando luci
e ombre come
acquerelli annacquati ai suoi piedi. Bello e altero, come un vero
principe.
Il
ritmico rumore crocchiante
degli zoccoli dei cavalli sulla strada, su cui la neve non era riuscita
ad
attecchire a causa dei frequenti passaggi, cullava Regan come una
ninnananna,
appesantendo le sue palpebre. L’infuso che le aveva fatto
bere Venena aveva
perso i suoi effetti ormai da un paio d’ore e si era lasciato
dietro una
rinnovata mollezza. Chiuse un istante gli occhi, abbandonata al comodo
poggiatesta del sedile, e desiderò un letto caldo in cui
distendersi e
arrendersi alla stanchezza. Aveva fame, ma l’urgenza del
sonno era più pesante.
Non seppe dire se si fosse addormentata veramente o se avesse solo
perso la
cognizione del tempo; la carrozza si era già fermata quando
la voce di Lucius
la risvegliò:
–
Capolinea, cerbiattina. –
La
aiutò a scendere, sostenendola
quando il mantello se si attorcigliò tra le gambe, facendola
inciampare, infine
si fermò a ringraziare l’amico.
–
È stato un piacere – si schermì
Prince.
–
Ora è meglio
che porti Regan a riposare. È stata una lunga giornata.
–
–
Devo quindi
presumere che un invito a cena a casa Edelberg sarebbe del tutto vano?
–
–
Per questa
sera, temo di sì – Lucius gli sorrise con
gratitudine e prese Regan sotto al
proprio braccio. – Porta ai tuoi i miei saluti. –
Prince
annuì
sapientemente, come se dietro a quella semplice frase ce ne fossero
mille altre
più significative.
–
Lo farò. Buona serata, Lucius –
Prince riservò un cenno di riguardo per Regan.. –
Madame. –
Un
colpo di nocche al pannello di
legno che lo separava dal vetturino, e questi spronò i
cavalli, ripartendo per
la loro strada, di ritorno verso la città. Lo stesso fecero
lei e Lucius.
Avevano
raggiunto la periferia
della città, dove i quartieri si facevano radi e le case più
modeste e distanti tra loro. Un
gufo bubolava arcigno sul ramo di una robusta quercia che incombeva
sopra di
loro. Il latrato di qualche cane, in lontananza, si perdeva del fischio
del
vento, che spazzava rapido l’ultimo tratto di pianura prima
delle foreste di
conifere, ora ammantata di un nitido candore. I tronchi degli alberi
brillavano
di una patina argentata che li faceva sembrare appositamente addobbati
per
qualche festività. Non doveva mancare poi molto al Solstizio
d’Inverno.
Non
era come in centro: lì la
notte era nera e impenetrabile, e nemmeno la limpida stellata che
accompagnava
la luna piena riusciva a mitigarla.
Lucius
inspirò a pieni polmoni,
le braccia spalancate e la testa riversa all’indietro,
un’espressione di pace e
felicità impressa in faccia.
–
Finalmente! – esclamò, beato. –
Ti dirò, non speravo che sarei potuto tornare
così presto. –
C’erano
solo due casupole nei
pressi, fatte di legno e pietre, una accanto all’altra,
raccolte entro lo
stesso muricciolo a secco. Il loro aspetto non era pretenzioso, ma
sicuramente
ispirava accoglienza. C’erano delle luci accese dietro alle
finestre di quella
di sinistra. Solo cercando di sbirciare dentro alle stanza, Regan si
rese conto
di un dettaglio stupefacente: lungo i davanzali e i ballatoi di
entrambe le
abitazioni prosperava un rigoglio di fiori di diverse specie e colori,
ora
chiusi in attesa che il sole risorgesse.
–
Posticino delizioso, vero? –
Lucius
la guardava aspettando un
commento. All’improvviso si era animato di un entusiasmo
incontenibile e Regan
non poté fare altro che seguire la corrente.
–
È casa tua? –
Lui
sollevò le spalle.
–
Diciamo che è il posto in cui
vivo – disse, indicando quella di destra.
– E casa tua
allora dov’è? –
Un
sospiro languido gli gonfiò il
petto.
–
Be’, come si dice: casa
è dove è il cuore. Non è
necessariamente un posto, un punto definito, no? –
sussurrò, restando a fissare
l’abitazione che aveva di fronte. I suoi occhi rispecchiavano
il cielo e
un’emozione forte a cui Regan non seppe dare un nome.
– Penso che ciascuno di
noi riesca a vedere la sua casa in cose diverse. Per alcuni
è un tetto sopra la
testa, per altri il luogo in cui abita la famiglia, per
altri… – Un sorriso
involontario gli scivolò sulla bocca, tingendola di qualcosa
che ricordava la
malinconia, ma dal retrogusto più dolce. – Altri
trovano la loro casa in una
persona, in una mano che ti accarezza, in un paio di occhi da
incontrare dopo
una lunga separazione. Sai – si girò verso di lei,
abbassando lo sguardo con
fare quasi divertito. – C’è chi in un
paio di occhi ha trovato il mondo intero.
–
Un’immagine
le divampò nella
mente, un lampo fugace privo di trama e significato: due occhi scuri,
venati di
bronzo, che nascondevano quello che forse poteva essere il fantasma di
un
sorriso. Svanì in quell’istante stesso,
così come era venuta, e Regan restò
sola con il suo vuoto.
Quelle
parole così belle e
toccanti l’avevano gettata in uno strano sconforto.
Più si cercava dentro,
scavando nella nebbia e strappando ragnatele di confusione,
più si convinceva
che per lei non c’era mai stata nessuna casa.
Era uno strano fenomeno quello che provava in certe occasioni, come
quando era
uscita dal covo di Angina e si era ritrovata circondata dalla natura, o
come
poco prima, quando aveva toccato la neve: conosceva la sensazione,
sebbene non
ricordasse di averla sperimentata, eppure questa acquisiva concretezza
solo
dopo averla vissuta, come se il suo precedente conoscerla fosse solo il
banale
risultato di una descrizione imprecisa a opera di qualcun altro.
–
Su, vieni. –
Lucius
le afferrò un polso, ormai
già proiettato verso mete mentali che lei avrebbe scoperto
solo a momenti. La
condusse alla porta della casa con le luci accese e bussò,
un sorriso
sgargiante che gli andava da un orecchio all’altro, come un
soldato che
rientrava a casa dopo lunghi anni di guerra.
Si
sentirono dei passi provenire
dall’interno, voci sommesse che si parlavano. Un attimo dopo,
la porta si aprì.
La
donna che apparve sull’uscio
era giovane e di una bellezza florida e fresca che poteva appartenere
soltanto
a un essere umano. Il viso pulito, un ovale perfetto, era rischiarato
da
un’evidente gioia, così come gli occhi, grandi e
grigi, orlati da ciglia scure.
Da
qualche parte, giù, nel
profondo, una parte sconosciuta del cuore di Regan gemette.
–
Lucius! Oh, santo cielo, che
bella sorpresa! –
Una
cascata di capelli bruni
piovve sulle spalle di Lucius, mentre la donna si gettava tra le sue
braccia
per stringerlo a sé.
–
Eleonora. –
C’era
un tale amore in quel tono
che la neve si sarebbe potuta sciogliere da un momento
all’altro, vittima di un
calore che nemmeno il sole stesso avrebbe potuto eguagliare.
Eleonora, ripeté Regan tra
sé. Dunque non aveva preso un colossale
abbaglio: quella che aveva davanti era davvero un’umana. Il
che era quantomeno
bizzarro, dato che i soli umani che solitamente avevano occasione di
calpestare
il suolo delle Sette Terre erano quelli presi in consegna dalla Lega,
in
seguito a qualche abuso ad opera di criminali Occulti in cerca di fonti
di
guadagno alternative.
Finalmente,
dopo un abbraccio che
durò molto più di quanto necessario, Lucius si
ricordò di lei e la presentò
all’umana:
–
Eleonora, lei è Regan. Sarà nostra
ospite per un po’. Regan, Eleonora. –
–
Lieta di fare la tua conoscenza
– Eleonora le prese una mano tra le sue e gliela strinse.
–
Si saluta così, nel suo mondo –
spiegò Lucius a Regan, che aveva già fatto due
più due da sola.
Eleonora
li fece entrare e Regan
si sentì accogliere da un buonissimo profumo di torta alle
mele.
All’interno
la casa era
esattamente come Regan la aveva immaginata: colori caldi di legno e
scoppiettii
di camino acceso, trapunte di pezze colorate ripiegate accuratamente un
po’
ovunque, un paio drappeggiate disordinatamente sopra un sofà
nella sala
circolare che faceva da anticamera.
–
Siete arrivati giusto in tempo
per la cena. Stavamo preparando la tavola. –
Il
plurale si spiegò non appena
fecero ingresso in cucina: un bambino che non poteva avere
più di dodici anni –
non sei, come un bambino umano, perché la sua era una palese
natura di demone –
era intento a disporre delle posate accanto ai due piatti che
già aveva
sistemato sulla tavola imbandita. A parte la zazzera bionda, era in
tutto e per
tutto identico a Eleonora.
–
E questo bravo ometto è il
nostro piccolo Calien – annunciò Lucius,
indicandolo.
Appena
lo vide, il bambino
abbandonò la propria occupazione per saltargli
precipitosamente al collo con
l’euforia di un figlio che ritrovava il padre.
Regan
scacciò via come mosche
moleste i pruriginosi interrogativi che la scena le suscitò
e si obbligò a
concentrarsi sulla tavola: scorse un cestino di pane fresco con accanto
una
zuppiera fumante dall’invitante aroma di spezie e verdure
stufate, e una serie
di tortini di riso e patate impilati in un vassoio da portata.
L’appetito si
risvegliò nel suo stomaco.
–
Accomodati, Regan, non fare
complimenti! –
Eleonora
la spinse gentilmente
verso una delle sedie e la fece sistemare.
Consumarono
insieme tre squisite
portate, dividendosi porzioni esigue, dato che Eleonora non aveva
atteso ospiti
per cena, ma il pane di segale e la torta di mele ancora calda
supplirono
egregiamente alla mancata abbondanza del resto del pasto.
Regan
conobbe così Eleonora
Ferrante, figlia di duchi di un reame delle terre degli umani, e suo
figlio
Calien, che scoprì essere figlio di un demone. La loro
storia era triste, piena
di incomprensioni e separazioni dolorose. Eleonora aveva solo
diciannove anni
quando aveva conosciuto Hermes, giovane demone che una notte, durante
una
pattuglia, la aveva sentita gridare in un vicolo e la aveva strappata
alle
grinfie di quattro malviventi appena prima che questi riuscissero a
metterle le
mani addosso. Da quella volta, ogni notte il demone tornava a farle
visita, e
non portava scuse con sé, se non la voglia di rivederla. Da
lì, il passo verso
l’amore era stato breve, e presto Eleonora si era resa conto
di aspettare un
bambino. Una notte, dopo un breve periodo di assenza, Hermes
tornò a cercarla,
ma lei non c’era più. I suoi genitori, ciechi
timorati di Dio, avevano preso
molto male la sua storia d’amore con la loro unica figlia, e
avevano dunque deciso
di ripudiare la ragazza e rinchiuderla in un convento a espiare i suoi
peccati.
Hermes, da quel giorno, non la rivide mai più, né
conobbe mai suo figlio.
Lucius lo conobbe durante una missione per conto della Lega: riverso a
terra
con gli occhi vitrei, bianco come un cencio, ma incredibilmente ancora
vivo.
Qualcuno aveva tentato di rubargli l’anima, ma aveva compiuto
un’opera alquanto
maldestra, e lo aveva lasciato lì, ad agonizzare attendendo
la fine. Non era
stato in grado di parlare, ma Lucius gli aveva letto negli occhi una
preghiera,
e nella sua mente aveva trovato Eleonora. Compresa quale fosse la
supplica che
quell’estraneo gli stava urlando in silenzio, gli promise che
ci avrebbe
pensato lui. Un secondo dopo, Hermes spirò.
–
Quando finalmente riuscii a
trovare Eleonora, fu difficile spiegarle la situazione –
stava raccontando
Lucius, nostalgico, un bicchiere di sidro di mele cotogne in mano,
comodamente
sprofondato in una poltrona dall’alto schienale.
Finita
la cena, si erano spostati
nel salottino che faceva da anticamera alla cucina e ora sedevano
davanti al
fuoco, godendone il tepore. Il piccolo Calien, accoccolato in grembo
alla
madre, dormiva profondamente.
–
All’epoca lavoravo coma
cameriera in un’osteria di basso borgo –
ricordò Eleonora, lo sguardo distante,
perso in affanni fortunatamente remoti. – Ero fuggita dal
convento subito dopo
aver partorito, perché temevo che mi avrebbero portato via
il mio bambino. Ero
costretta a spostarmi spesso, perché lui cresceva
più lentamente dei suoi coetanei,
la gente lo avrebbe guardato con sospetto, e io non volevo che gli
fosse fatto
del male. –
Accarezzò
con una tenerezza
dolorosa il visetto tondo del figlio, salendo tra i capelli, e un
sorriso la
colorò di serenità.
–
Quando Lucius venne da me,
capii subito che cos’era. Capii anche che era successo
qualcosa a Hermes. –
Un
cesto di noci, nocciole e
mandorle dolci occupava il tavolino su cui si andò a posare
il suo sguardo, e
qualche candela profumata di cannella gli bruciava intorno. Seduta a
terra dal lato
opposto, le gambe piegate al petto, Regan ascoltava rapita, assorbendo
con
inconsapevole avidità i meravigliosi gesti materni di
Eleonora.
–
Mi disse che non potevo
rimanere lì, che non saremmo stati al sicuro. Mi fidai
all’istante della bontà
nei suoi occhi. –
Lei
e Lucius si sorrisero. Regan
comprese di aver avuto la medesima fiducia istintiva verso di lui.
–
Mi fece raccogliere le poche
cose che avevo e ci portò qui, in questo posto splendido, e
da allora ha sempre
avuto cura di noi. –
–
Incredibile che siano già
passati dieci anni – sospirò lui.
Regan
provava una stima sempre
maggiore verso Lucius: fin dal primo momento aveva intuito che fosse
una brava
persona, degno di fiducia, ma ogni istante se ne convinceva di
più, e nuove
prove consolidavano il suo valore.
–
Era solo un ragazzino –
continuò Eleonora. – Ma sapeva il fatto suo. Ha
avuto del fegato a portarsi a
casa da un giorno all’altro una ragazza sola con un bambino.
–
–
Sciocchezze – Lucius sventolò
una mano con noncuranza. – In tutte le Sette Terre non ho
ancora avuto modo di
incontrare una cuoca brava come te, né così
avvenente. È stato tutto un mio
guadagno. –
Le
gettò un’occhiata sorniona.
Lei rise.
–
Sei un vile adulatore. –
A
Regan piaceva ascoltarli.
Chiacchieravano con confidenza, in un’intimità
calorosa che sapeva di lenzuola
pulite, latte e biscotti la mattina, abbracci e carezze prima di andare
a
dormire. Forse non erano esattamente una famiglia, ma senza alcun
dubbio
qualcosa che ci andava molto vicino.
Si
lasciò viziare da quell’atmosfera,
coccolata da un benessere di riflesso che la faceva sentire protetta,
al
sicuro.
–
Ho il sospetto che la mia
cerbiattina abbia bisogno di una bella dormita. –
Lambita
dalla voce premurosa di
Lucius, Regan aprì gli occhi, non senza una certa fatica.
Non si era nemmeno
accorta di essersi appisolata.
–
Avanti, bella addormentata,
andiamo, o mi toccherà portarti a letto in braccio. A meno
che non sia
esattamente questo il tuo scopo. –
Regan
abbozzò un sorrisino
ironico.
–
Può darsi. –
Quella
che avrebbe dovuto essere
una replica ad effetto contro una deliberata provocazione, fu
disgraziatamente
rovinata da uno sbadiglio inopportuno. Lasciò che Lucius la
tirasse su di peso,
senza alcuna fatica, come se fosse stata una piuma, e si
sfregò gli occhi appesantiti
dal sonno. Era stata una giornata interminabile, troppo ricca di eventi
per una
che si era risvegliata, senza un passato, la mattina stessa.
Prima
di andare, Lucius aiutò
Eleonora a portare Calien di sopra per metterlo a letto. Eleonora
scomparve per
un minuto in un’altra stanza, riemergendone con una pila di
biancheria pulita,
che consegnò a Regan.
–
C’è anche una camicia da notte.
Se ti servisse qualsiasi altra cosa, basta che tu venga a bussare,
d’accordo? –
–
Grazie – biascicò
Regan, commossa.
Lei
e Lucius diedero la
buonanotte, poi uscirono all’aria glaciale della notte. Era
un piccolo trauma,
dopo aver trascorso ore intere nella confortevole ospitalità
della casa di
Eleonora, ma durò poco: Lucius aprì in fretta la
porta dell’altra casa. Non era
chiusa a chiave. Dentro era identica all’altra, altrettanto
pulita e calda,
solo con un aspetto molto meno vissuto. Lucius non doveva passarci
molto tempo.
Bastò uno schiocco delle dita – che Regan
sospettò essere puramente
scenografico – perché tutte le lampade della casa
si accendessero di colpo.
–
Be’, eccoci qui. Benvenuta
nella mia umile dimora, madamigella. –
Il
profumo, lì, era di legno e
fiori secchi. Regan ne vide una dozzina di mazzi che pendevano da una
trave nel
salotto: rose, soprattutto, ma anche fiori di campo, girasoli, peonie,
lavanda.
Erano bellissimi, alcuni più scoloriti di altri, ma tutti
perfettamente
conservati. Era uno spettacolo di natura morta che le
risultò immensamente
triste.
Stava
per domandare se si
trovassero lì per un motivo particolare, ma Lucius le fece
cenno di seguirlo su
per la stretta scala di legno:
–
Vieni, ti mostro la tua stanza.
–
Il
piano di sopra, come quello
della casa di Eleonora, consisteva in un corridoio su cui si
affacciavano tre
porte: due camere da letto e una stanza da bagno.
–
La mia stanza è questa qui –
Lucius indicò la porta sulla destra, poi aprì
quella dirimpetta. – E qui starai
tu. So che non è granché – aggiunse a
mo’ di scuse. – Purtroppo sono un tipo
poco casalingo. –
Ma,
alla luce di luna che entrava
dall’ampia finestra accanto a lei, Regan la trovò
perfetta: il pavimento era
quasi integralmente nascosto da un tappeto quadrato decorato a motivi
geometrici; un letto grande stava a ridosso della parete di fronte a
lei,
coperto da un lenzuolo bianco. Accanto a esso, un cassettone ospitava
uno
specchio ovale orientabile e un candeliere a cinque braccia. Sul lato
opposto
della camera, un caminetto era incassato nel muro, sormontata da una
mensola
massiccia.
All’improvviso
Regan si sentì
un’intrusa. Lucius non aveva doveri verso di lei, nessuno lo
obbligava a farsi
carico di lei e del suo benessere, della sua sicurezza, e lei non aveva
alcun
modo di ricambiare la sua ospitalità.
Non
aveva niente.
–
Mi dispiace darti tanto
disturbo. –
Per
tutta risposta, Lucius le
arruffò i capelli.
–
Il letto è già pronto, basta
solo che tu sposti il lenzuolo – le disse poi, come non
l’avesse sentita. – Fa’
come se fossi a casa tua, intesi? Io vado a prendere qualche coperta e
un po’
di legna per il camino. –
Regan
si strinse al petto il
fagotto affidatole da Eleonora, piena di riconoscenza.
–
Grazie… di tutto. –
–
Sei una gradita ospite, credimi.
–
Le
fece piacere sentirselo dire,
soprattutto perché il suo tono prometteva
sincerità.
Rimasta
sola, raccolse il
lenzuolo e lo ripiegò con cura, appoggiandolo sul
cassettone, poi si svestì. La
parte più complicata fu slacciare il bustino: lacci
intrecciati e annodati tra
loro, così ingarbugliati per le sue mani inesperte che le
venne voglia di
cercare delle forbici per tagliarli. Alla fine, dopo che fu
miracolosamente
riuscita a districarli, le sembrò di alleggerirsi di diversi
chili. I suoi
polmoni raddoppiarono di capacità, senza
quell’aggeggio infernale. Sentendosi
leggera come una libellula, Regan si sbarazzò di tutti i
vestiti e li gettò
alla rinfusa su una sedia in un angolo e si infilò la
camicia da notte. Non era
come quella che si era trovata indosso quella mattina, risvegliandosi.
Anche
questa era di lana, ma lavorata in modo finissimo, che rendeva il
tessuto
liscio e soffice. Era bella, orlata di merletti, con la scollatura
arricciata
da un nastrino che la chiudeva al centro con una piccola asola.
Si
avvicinò allo specchio e si
sciolse lentamente i capelli, sistemandoseli con le mani; vide che la
treccia
li aveva fatti diventare mossi e ondosi, soprattutto verso le punte. Lo
sguardo
le cadde sul candeliere: Lucius si era scordato di accenderglielo. Le
candele
erano nuove, gli stoppini ancora bianchi, intatti dalla morsa del
fuoco.
Sarebbe bastato così poco per farvi divampare delle
fiammelle…
Qualcosa
le formicolò nelle vene,
solleticandole le dita, la schiena, la nuca. Fissò la
candela centrale con
insistenza, focalizzandosi proprio al centro di essa, perché
era lì che sarebbe
dovuto comparire il fuoco. Una scintilla sola sarebbe bastata. Una
sola.
L’immagine era ben nitida nella sua mente come
un’allucinazione. Le sembrava
quasi di vederlo davvero: una rapida, violenta, bollente esplosione di
fuoco.
Fuoco.
E
fuoco fu.
Regan
trasalì nel vedere
quell’unica lingua dorata sprigionarsi dal nulla proprio
sotto ai suoi occhi.
Stupefatta e orgogliosa al contempo, si dedicò anche alle
altre quattro
candele, e ciascuna si accese mansueta. Gocce più copiose
stillarono dalla sua
sottile spaccatura recondita.
–
Siete presentabile, milady? –
–
Sì – fiatò, senza riuscire a
smettere di ammirare incredula il proprio modesto, straordinario
operato.
Lucius
entrò. Con la coda
dell’occhio Regan notò che portava delle coperte
sotto a un braccio e un fascio
di legna nell’altro. Guardò prima lei, poi le
candele accese, poi di nuovo lei,
e infine si avvicinò, sorpreso quanto lei.
–
Credevo non fossi in grado di
farlo. –
–
Lo credevo anch’io. Cioè, non
ci riuscivo davvero, quando eravamo nello studio di Castalia. Non so
perché
adesso ce l’abbia fatta. –
–
È un buon segno, comunque – si
complimentò lui. Le lasciò le coperte ai piedi
del letto e accatastò i ciocchi
dentro al focolare.
–
Sapresti accendere anche
questo? –
–
Malfidente! –
Forte
del successo avuto con il
candelabro, Regan non esitò a raccogliere la sfida: come
prima, cercò di
visualizzare quanto intenzionata a fare accadere, poi si
concentrò a fondo,
ricalcando esattamente il medesimo procedimento. Tutto ciò a
cui portò uno
sforzo non trascurabile fu solo un principio di mal di testa e qualche
refolo
di fumo che saliva ozioso dalla legna.
Lucius
scoppiò a ridere:
–
Non strapazziamo troppo la tua
salute, oggi hai anche fatto abbastanza. Lascia fare a me –
Un’occhiata
fu sufficiente, e la
legna già crepitava dietro a uno scudo di rame.
–
Ottimo – Lucius valutò la
stanza girando su sé stesso. – Penso non manchi
nulla di fondamentale. C’è
qualcos’altro che ti potrebbe servire? –
–
Direi di no – sospirò lei. Si
lasciò cadere a peso morto sul letto, esausta. Sedette a
gambe incrociate e il
suo pensiero vagò al futuro, facendola sentire in trappola:
alle sua spalle
c’era un ponte crollato verso un passato che forse non
avrebbe mai più
raggiunto; davanti aveva solo incertezze, dubbi da risolvere, speranze
forse
vane da rincorrere. La sua vita era in mano ad altre persone: spettava
a degli
estranei ricostruire la sua storia, trovare le sue radici, raccontarle
chi era
stata, e chi conosceva, se mai, poi, ne fossero stati in grado.
–
Regan – Lucius le sedette
accanto con un’inconsueta compostezza e si passò
la lingua tra le labbra,
incerto. – So che non dev’essere piacevole
ritrovarsi senza una memoria su cui
poggiare i piedi, ma ti prometto che farò tutto quanto in
mio potere per
aiutarti. Ci sarà pur qualcuno, là fuori, che
sappia dirci chi sei. –
–
E se invece non ci fosse? Se
io non dovessi riuscire a ricordare? –
–
In tal caso dovresti
semplicemente accettarlo e ricostruirti una vita. A volte ricominciare
da zero
è meglio di quanto ci si possa immaginare. Cancellare il
tutto il mosaico e
ridisporre i tasselli in un disegno completamente nuovo… non
è sempre un male.
–
Qualcosa
che vibrò nella sua voce
disse a Regan che non si trattava di un’osservazione casuale.
–
Parli per esperienza? –
Il
ghiaccio dello sguardo di
Lucius scivolò su di lei in una tacita ammissione,
procurandole un brivido.
–
Ci sono cose che non si possono
cancellare – disse. – Il massimo che puoi fare
è accartocciarle e nasconderle
in fondo a un cassetto, e pregare che nessuno le trovi mai. –
Regan
non gli chiese altro,
perché sentiva che non era il momento. Quel frammento di
confessione non era lì
per essere snodato, ma solo per dimostrarle che Lucius voleva davvero
stabilire
un rapporto con lei.
–
Perché lo stai facendo? – gli
chiese nel silenzio. La trapunta sotto ai suoi piedi nudi profumava di
bucato.
–
Facendo cosa? –
Regan
non si lasciò ingannare tal
tono ignaro.
–
Tutto questo. Mi hai portato a
casa tua, mi terrai tra i piedi per chissà quanto tempo...
–
–
Ti darò la stessa risposta che
è fu data a me a suo tempo, per questa stessa domanda: siamo
sempre
responsabili delle vite che salviamo. –
Regan
annuì debolmente.
–
Sì, certo. –
Non
sapeva perché fosse così
delusa. Dopotutto, non c’erano molte altre motivazioni che
potessero spingere
qualcuno a farsi carico di un’emerita estranea.
–
Con questo non voglio dire che
ti sto aiutando perché mi sento in dovere di farlo
– specificò immediatamente
Lucius, forse intuendo il corso dei pensieri di lei. – Lo
voglio fare, e basta.
–
–
Non sai nemmeno chi sono. Non
lo so nemmeno io. –
Per
Lucius, però, la cosa
sembrava non avere la benché minima importanza.
–
Non sono le memorie a fare di
noi ciò che siamo, ma le esperienze vissute. Cosa importa,
poi, se non te ne
rammenti? Resti comunque sviluppata su quelle stesse fondamenta. Il
passato è
passato: non ritornerà, e l’impronta che ha
lasciato dentro di te non è
cambiata. Un quadro non perde bellezza solo perché la mano
che l’ha dipinto
muore. –
Regan
dovette riconoscergli un
notevole talento dialettico. Ci sapeva fare con le persone, anche nelle
situazioni più complesse: sapeva sempre cosa dire e come,
modulando
opportunamente la voce a seconda dell’interlocutore e del
livello del dialogo.
Era una cosa che aveva già notato nel vederlo interagire con
Castalia.
–
Adesso è meglio che tu ti metta
a dormire – le disse, alzandosi. – Buonanotte,
cerbiattina. Ci vediamo
domattina a colazione. –
Obbediente,
lei fu più che felice
di infilarsi sotto le coperte e tirarsele fino al mento. Anche se il
materasso
non fosse stato così comodo e le lenzuola così
profumate, era certa che avrebbe
riposato benissimo.
–
Buonanotte, Lucius. –
Lui
si fermò a tirarle le tende
sui raggi di luna e spense le candele, poi uscì, chiudendosi
la porta alle
spalle con un suono secco.
Fuori,
la foresta cantava la sua
melodia con la cadenza tipica di una terra profumata di freddo e magia.
Immersa
nel buio totale, protetta dalla semplice certezza che Lucius sarebbe
stato lì
vicino, Regan poté finalmente chiudere gli occhi e lasciarsi
sprofondare
nell’abbraccio del sonno.
Quella
notte sognò lievi cascate
di fili di rame e squarci di sangue su candida pelle.
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