4. RITORNO AL MONDO
I close my eyes
Move slowly through drowning waves
Going away on a strange day
– A Strange Day, The
Cure –
The.
Biscotti alle mandorle.
Frittelle allo zenzero. Pane scottato. Forse marmellata di frutti di
bosco. Fu
questo tripudio di fragranze allettanti a salutare il risveglio di
Regan,
quella mattina.
Dalle
pesanti tende penetrava
qualche cocciuta lama di luce polverosa che si insinuava tra le fessure
per
allungarsi, raggio su raggio, sulla fitta trama del tappeto. Le carezze
del sole
del mattino arrivavano anche al viso di Regan, dolci e leggere,
spingendola
pian piano ad aprire gli occhi su una nuova giornata. Si
scoprì felice e
straordinariamente piena di vigore. Il suo stomaco reclamava di essere
tempestivamente riempito e forse un getto di acqua fresca la avrebbe
aiutata a
svegliarsi del tutto, ma per il resto non si era mai sentita meglio in
vita
sua.
Per
quel che ne potesse sapere.
Quando
scostò le tende e spalancò
la finestra, l’odore dell’inverno le
inondò i polmoni, mentre il biancore
accecante della neve baciata dal sole la costringeva a strizzare gli
occhi,
schermandoseli con una mano. Nella sua semplicità, il
panorama era mozzafiato.
Qualcosa
si mosse su un ramo del
grosso abete appena fuori dal muretto di recinzione e un po’
di neve cadde a
terra. Subito dopo, un grosso corvo nero saltellò in avanti
da dietro alle
fronde e si voltò verso di lei, inclinando la testa di lato
in modo buffo.
–
Buongiorno, Rok –
La
bestiola piegò la testa
dall’altra parte e arruffò le penne, gracchiando
verso il cielo. Regan non
seppe se considerarlo un buongiorno o che altro, ma, tanto per
soddisfazione
personale, optò per la prima.
Scese
di sotto a piedi nudi,
seguendo quasi ipnotizzata il profumo delle vivande che già
immaginava
affollare il tavolo della cucina. Non appena entrò, infatti,
trovò Lucius già
seduto, circondato da una quantità di cibarie
inimmaginabile. Soltanto il
contenuto del suo piatto sarebbe bastato a sfamare un villaggio di
discrete
dimensioni. Eleonora, invece, si affaccendava davanti al fuoco,
mescolando un
paiolo di latte.
–
Buongiorno! – la accolse
Lucius, bofonchiando ai limiti della comprensibilità, dato
che la sua bocca era
occupata da una notevole porzione di frittella.
–
Ciao, Regan – le disse invece
Eleonora con un gran sorriso. – Ti chiedo scusa a nome di
questo buzzurro per
la sua scarsa galanteria – una sberla affettuosa
colpì la nuca di Lucius. –
Ancora non c’è stato verso di insegnargli come ci
si comporta in presenza di
una donna. –
–
Potrei stupirti – si difese
lui, con tutta la dignità che gli poteva consentire una
bocca puntellata di
granelli di zucchero, prontamente rimossi dalla punta della lingua che
passò a
sfiorare rapidamente le labbra.
–
Quando vedrò, crederò. Siediti,
piccola – Eleonora fece cenno a Regan di prendere posto.
– Sarai affamata. –
Regan
non perse tempo in inutili
complimenti: occupò la prima sedia che trovò e
iniziò a scandagliare quel che
la mensa offriva, giungendo presto alla conclusione che scegliere era
una
perdita di tempo: avrebbe semplicemente preso un po’ di tutto.
–
Dov’è Calien? – domandò,
mentre
si faceva allungare da Lucius il vassoio del pane.
Una
sonora risata mostrò le due
perfette file di denti bianchi di Eleonora.
–
Dorme. Oggi è domenica, prima
di mezzogiorno non ci degnerà della sua presenza. –
Portò
in tavolo il paiolo del
latte e prese posto al fianco di Lucius. Mentre la osservava, Regan fu
colta da
una buffa epifania: quella donna doveva essere nata qualche anno dopo
di lei,
eppure il suo aspetto era più maturo. Doveva essere strano
per gli umani
crescere così in fretta, come se la vita sfuggisse loro da
sotto le dita senza
lasciare loro il tempo di rendersi davvero conto di quel che avevano
avuto tra
le mani.
Regan
consumò tre fette di pane
imburrato e spalmato di gustosa marmellata senza quasi farci caso, e
altrettanto fece con una mela che divise con Eleonora e una tazza di
latte in
cui intinse qualche frittella e un paio di biscotti.
–
A quanto vedo qualcuno era
particolarmente affamato – commentò Lucius di
fronte al piatto vuoto che
giaceva sotto al naso di Regan. – Altro che cerbiattina,
mangi come un lupo
famelico! –
Regan
si rifiutò categoricamente
di avvampare e tuffò con indifferenza un ultimo biscotto nel
proprio latte.
–
Lasciala stare, ha bisogno di
mangiare! – lo sgridò Eleonora.
–
Stavo solo scherzando! Mi fa
piacere vederla così arzilla. Avevo intenzione di portarla a
fare un giro a Kauneus,
più tardi. –
–
Davvero? – fece Regan, molto
interessata. Stava letteralmente morendo dalla voglia di uscire e
curiosare un
po’ in giro: la sera prima era rimasta affascinata dal centro
e voleva vedere
come si sarebbe presentato durante il giorno.
Lucius
annuì.
–
Ti servirà un po’ di
guardaroba. Non puoi andartene in giro a oltranza con i vestiti di
Angina. –
–
Perché no? – si lamentò lei. Si
dava il caso che i vestiti di Angina le piacessero molto di
più dei classici
abiti femminili che si portavano in città. Non che si
sentisse granché a suo
agio nemmeno con quelli, ma tra i due mali preferiva nettamente il
minore.
–
Penso che tu dia già
sufficientemente nell’occhio con la tua fluente chioma, senza
andarci a cercare
ulteriori appariscenze con abbigliamenti da poco di buono. –
–
Stai dando ad Angina della poco
di buono? –
–
Mi permetto di farlo solo in
sua assenza, o mi darebbe del bieco adulatore. –
Per
quel poco che la conosceva,
Regan ritenne che fosse più che probabile.
–
E chi pagherà per questi
acquisti? –
–
Io – rispose Lucius, come se
fosse talmente ovvio che era ridicolo anche solo dubitarne.
Regan
iniziava a sentirsi a
disagio: se già le era intollerabile l’idea di
dover essere quasi completamente
dipendente da qualcun altro, il pensiero di dover essere mantenuta
gratuitamente senza possibilità di sdebitarsi era
addirittura al di fuori del
considerabile.
–
No, grazie. Hai già fatto
abbastanza per me. –
Ci
fu un attimo di silenzio,
durante il quale Lucius ed Eleonora condivisero un’occhiata
fugace.
–
Come si vede che non ti conosce
– sghignazzò lei.
–
Cerbiattina, l’insulsa somma
che mi costerebbe qualche vestito da metterti addosso è
l’ultimo dei miei
pensieri, e quando dico l’ultimo, credimi, intendo proprio
l’ultimo – le disse
invece lui.
–
Regan – Eleonora le appoggiò
una mano sul polso. – Mi sono fatta i tuoi stessi scrupoli,
all’inizio, quando
Lucius mi portò qui. Mi ha dato una casa per me e mio figlio
e non mi hai mai
chiesto nulla. Con il tempo sono stata io a trovare il modo di
ripagarlo, come
vedi. –
Indicò
la tavola imbandita, la
tovaglia pulita e ricamata negli angoli da foglie e virgulti avvolti in
spirali.
–
Pensa che all’inizio non ero
nemmeno capace di cucinare – proseguì Eleonora,
con una luce spensierata negli
occhi. – Cosa se ne fa una futura duchessa
dell’arte culinaria, se tanto le
spetta uno stuolo di servitori, quando sarà sposata?
–
Dalle
sue parole e dal modo in
cui le pronunciò, era facile capire che tutto ciò
che si era lasciata alle
spalle non le avesse mai causato la benché minima nostalgia,
e, anzi, era stata
una liberazione, per lei, andarsene.
–
Non potresti prestarmi qualche
tuo vecchio vestito? –
–
Lo avrai – le assicurò Lucius. –
Per uscire a comprartene qualcuno per te. –
–
Anche volendo, Regan, nessuno
dei miei vestiti si adatterebbe alla tua figura – la
blandì Eleonora. – Te li
dovrei stringere e, credimi, il cucito non è proprio il mio
forte. –
Effettivamente, come Regan
scoprì due ore
dopo, anche il più attillato abito di Eleonora a lei andava
decisamente
abbondate in quei punti strategici che in una donna adulta erano
già
perfettamente sviluppati, ma che per lei ancora scarseggiavano.
–
Non badare a come ti sta questo
– le disse Eleonora, dopo averle aggiustato addosso
l’ampia gonna del vestito
blu, intercettando la sua espressione scoraggiata. – Le sarte
in città ti
sapranno consigliare qualcosa che ti si addica di più.
–
Era
molto semplice, di un colore
indaco tenue e una striscia bianca centrale che dal seno scendeva fino
all’orlo, il corpetto impreziosito da una serie di lacci
intrecciati che
Eleonora le strinse con misericordiosa moderazione.
–
So cosa si prova a farsi stritolare
in uno di questi affari infernali. –
Fu
però impossibile trovarle un
paio di scarpe intonate: Eleonora aveva un piede non molto
più piccolo di
quello di Regan, ma abbastanza perché la sua misura fosse
incompatibile. Le
toccò quindi rimettersi gli stivali, scoprendo peraltro che
non stavano poi
così male come aveva temuto.
E
così non c’era stato verso di
opporsi, né scusa che tenesse: a metà mattina
Lucius le aveva messo in spalla
il mantello nero donatole da Angina, l’aveva trascinata fuori
di casa e, sotto
all’occhio vigile di Rok, l’aveva condotta sul
retro, dove sorgeva una piccola
stalla che la sera prima non aveva notato. C’erano tre
cavalli, dentro: uno
stallone nero, una giumenta morella e, nello stesso cubicolo, un
puledro con
una stella bianca tra gli occhi. Erano bestie magnifiche, lustre e
superbe, ed
era evidente che Lucius tenesse molto a loro, perché
c’erano montagne di fieno
a riscaldarli e le mangiatoie erano colme di frutta e verdura, sia
d’avanzo che
fresche.
Regan
si avvicinò con remissione
al fiero stallone e allungò una mano verso il suo muso.
–
Attenta, non è molto… –
Qualsiasi
cosa Lucius fosse stato
sul punto di dire, rimase impronunciata. La mano di Regan si era
già posata sul
pelo ispido del cavallo e lo stava accarezzando piano. Riusciva a
sentire la
potenza nei suoi muscoli tesi, il calore del sangue che gli pulsava
nelle vene,
e il cuore che lo spingeva. Sentiva la sua vita scorrerle prorompente
sotto le
dita.
Era
quasi assordante, nelle sue
orecchie, ma meraviglioso.
–
Freyr, vecchio mio, da quando
in qua ti lasci domare da qualche moina? – si sorprese
Lucius, dando qualche
colpetto al collo possente dell’animale, il quale rispose con
uno sbuffo
permaloso e si ritrasse, sfuggendo alla portata di Regan.
–
Considerati onorata. Generalmente
questo ragazzaccio accoglie gli estranei con minacce di morte imminente.
–
Lucius sellò la
giumenta con gesti accorti e
adoranti, poi la portò fuori, e lei accolse con un nitrito
lieto la folata
d’aria fresca che la sfiorò appena uscita.
–
Freya è la più mansueta con la
gente nuova. Non dobbiamo fare molta strada, ci sopporterà
bene entrambi. –
Regan
evitò di sottolineare che
quello alto e grave di muscoli era lui.
–
Ora reggiti bene a me – le
ordinò Lucius. Le lasciò appena il tempo di
aggrapparsi ai suoi fianchi: spronò
dolcemente la giumenta e questa partì immediatamente con una
piccola impennata.
Cavalcare
era abissalmente
diverso da come lo aveva immaginato: per Lucius sembrava naturale, come
se lui
e Freya fossero stati una cosa sola, ma se non ci fosse stato lui,
Regan non
aveva idea di come sarebbe riuscita a rimanere in groppa, soprattutto a
quella
velocità. Nonostante la scomodità,
però, le piaceva, e anche molto. Il rumore
attutito ma potente degli zoccoli di Freya che battevano veloci sul
terreno le
mandava scariche di ecitazione in tutto il corpo; provava il forte
desiderio di
poter prendere le briglie e condurre quella corsa straordinaria. Le sue
dita
affondarono istintivamente nell’addome di Lucius, incontrando
muscoli tesi
sotto a diversi strati di stoffe. Riusciva quasi a indovinarne le
linee, la
precisa trama che tratteggiavano sotto i suoi palmi.
–
Ti piace? – urlò Lucius nel
vento.
–
È fantastico! – urlò lei,
entusiasta.
Impiegarono
meno di quanto Regan
si sarebbe aspettata per raggiungere il centro della città.
Quello che nella
stanchezza della notte precedente le era parso un tragitto
interminabile, ora
era volato sulle invisibili ali della velocissima Freya, che li aveva
portati
la galoppo come se non avessero avuto peso. Rok li aveva seguiti dal
cielo.
Kauneus
non aveva una distinzione
vera e propria tra centro e sobborghi, sostanzialmente
perché i palazzi delle
famiglie nobili e degli arricchiti erano tutto ciò che si
poteva scorgere in
ogni dove. Solo nel cuore della città – una zona
che si estendeva entro il
raggio di mezzo miglio partire dalla Piazza del Vecchio Regno
– si incontravano
le botteghe e le taverne, punto nevralgico della vita cittadina. Tutto
era a
misura degli alti tenori di vita degli abitanti e costruito sulla loro
rispettabilità. All’epoca
dell’istituzione delle Monarchie, un millennio prima,
Norden era stata la Terra da cui erano provenute tutte le famiglie dei
regnanti
e tuttora restava la sede preferenziale delle antiche
nobiltà del Mondo
Occulto. Le casate nobiliari residenti al di fuori di Norden
tendenzialmente
non erano viste di buon occhio da quelle che invece vi dimoravano da
sempre,
poiché la distanza dal cuore di origine del potere regnante
stesso veniva
considerato una manovra per sottrarsi al controllo centrale e tramare
contro lo
status quo delle Terre, come era già accaduto in passato.
Nomi di antichi
lignaggi come Dresden e Kashman erano diventati sinonimi di traditore e
coloro
che li portavano venivano guardati con sospetto, sopportando ancora,
dopo
centinaia di anni, il peso degli errori commessi dai loro antenati.
Lasciarono
Freya in una piccola
scuderia dove a quanto pareva Lucius era quasi di casa.
Salutò lo stalliere con
un cenno e gli lasciò cinque corone in più,
raccomandandosi che la cavalla
fosse debitamente foraggiata.
Passeggiando
per la città, Lucius
le impose di tenerlo a braccetto, come stavano facendo tutti gli uomini
con le
dame che accompagnavano.
–
Perché? Non sono una vecchia
rimbambita, so camminare anche da sola! – protestò
lei.
–
Perché è così che una fanciulla
rispettabile si accompagna a un gentiluomo in pubblico –
tagliò corto Lucius,
ma non era del tutto certa che fosse serio. –
L’immagine ha un notevole peso. Forse
non lo diresti, ma qui hanno tutti una certa stima di me. –
–
Ancora non ho capito il motivo.
–
–
Credo sia perché sono bello,
simpatico e discretamente talentuoso. –
–
Dimentichi dotato di
invidiabile modestia. –
–
Oh, è vero, quella me la scordo
sempre! –
Per
strada Lucius si fermò a una
bancarella dietro cui stava una donnina minuscola sepolta sotto strati
e strati
di vaporosa lana variopinta. C’era un grosso paiolo fumante
sul banco, che
emanava un odore speziato molto intenso misto a miele e limone.
–
Sima, bevanda tradizionale di
Norden, una delle più antiche.
Delizioso e ottimo contro il freddo. Vuoi assaggiare? –
Regan
spinse via a naso storto il
bicchiere che Lucius le offriva, nauseata dal sentore di alcol.
C’era una sartoria
lì vicino, e a un certo
punto ci si ritrovò dentro senza che nemmeno le fosse
chiesto se le andasse di
entrarci.
–
Vedi qualcosa che ti piace? –
le domandò, mentre lei osservava alcuni modelli esposti
sulle stampelle. Era
una sala scura, colma di grotteschi manichini acefali che indossavano
gli abiti
in vendita con una rigidità che metteva inquietudine. Le
altre due clienti
presenti, madre e figlia, non sembravano affatto disturbate da quelle
presenze
inanimate e passavano in rassegna un gruppo di abiti di fattura molto
più
modesta rispetto a quelli che stava guardando lei, ma pur sempre
fastosi.
Sarebbe
stato scortese rispondere
a Lucius un no secco come quello che Regan aveva in mente,
così finse un vago
interesse per l’abito più lungo e ricercato che
avesse mai visto: rifiniture,
decori e dettagli rosso carminio venavano il prezioso tessuto di un
bianco
cangiante che ne rifletteva lievi sfumature su ogni piega che si
formava.
Neve colata di sangue.
–
Questo non è male – commentò,
mentre già si immaginava a inciampare come una stupida in
tutto quel’eccesso di
stoffa. Lo stile di Angina poteva non essere altrettanto scenografico,
ma
senz’altro le si addiceva meglio.
–
Lo prendiamo – disse Lucius a
una donna dall’aria austera che supervisionava gli acquisti
da dietro alle
sottili lenti di due occhialetti a mezzaluna. Questa si
affrettò verso la
stampella e in un lampo l’abito era devotamente ripiegato tra
le sue braccia.
Accadde lo stesso con un altro paio di abiti; fosse stato per Lucius,
si
sarebbero portati via mezza sartoria. Sembrava che per lui i soldi non
avessero
né valore né limite.
–
Cercate di stare dritta e
ferma, milady. –
Regan
si raddrizzò meglio che
poté mentre la sarta le infilava spilli in ogni dove,
sollevando, accorciando,
stringendo. Milady era un
appellativo
che proprio non le si pennellava bene addosso. Se ne stava in piedi su
una
specie di sgabello in una stanzetta nel retrobottega; c’era
un caminetto a
riscaldare l’ambiente e un angolo era stato adibito al cambio
degli abiti,
separato dal resto dello spazio da una tenda rosso scuro. Lucius sedeva
su una
poltrona in disparte, seguendo con scarso interesse l’opera
della donna, da
dedicandone in compenso parecchio alle reazioni di Regan, che lo
guardava
funerea come se quegli spilli, anziché nel tessuto, glieli
stessero conficcando
nella carne viva.
–
Non essere così entusiasta.
Madame Shawn potrebbe pensare che tu dia troppa importanza al tuo
guardaroba –
la prese in giro Lucius, le gambe accavallate in una posa rilassata.
Lei
si limitò a mostrargli la
punta della lingua, cosa che fortunatamente Madame Shawn non
notò, o si sarebbe
resa conto di quanto quel milady
fosse inappropriato. Regan si rifiutò categoricamente di
rimanere là dentro a
tempo indeterminato per farsi adattare ciascuno dei capi rimanenti.
Lasciò che
la sarta le prendesse le misure, poi, nonostante le sue aperte
rimostranze, la
lasciarono a occuparsi di tutto senza un modello reale su cui lavorare.
Regan
preferì non indagare sulla quantità
d’oro che c’era nel pesante sacchetto che
Lucius depose in mano alla donna.
Prima
dell’ora di pranzo Lucius
riuscì anche a trascinarla a comprare qualche paio di
scarpe. Andandosene in
giro assieme a lui, Regan si sentiva una specie di
celebrità. Sembrava che
tutti lo conoscessero: chi non si fermava a salutarlo personalmente,
gli
sventolava una mano dall’altro lato della strada, o
affrettava un cenno
passando.
–
Sei davvero così famoso?
– gli disse, dopo che
l’ennesima dama gli ebbe rivolto un sorriso così
sfacciatamente civettuolo da
passare per provocazione, che lui aveva puntualmente ignorato.
–
Diciamo pure di sì. –
–
Sei una personalità di spicco,
per caso? Perché non mi era sembrato che il Coordinatore
Generale ti trattasse
con molto riguardo. –
–
Castalia mi tratta così perché
sono una personalità di spicco.
Avrai notato che le piaccio quanto un spillo conficcato in un occhio.
–
–
A voler essere proprio generosi…
–
Lui
emise una breve risata di
approvazione.
–
Esattamente. Sai, non sono
certo così popolare per merito nel mio fascino, anche se so
che è difficile
crederlo. –
Mentre camminavano, Regan si
guardava intorno
avida. Le insegne delle botteghe erano una delle cose più
affascinanti che trovò: in legno o in rame, dipinte o naturali, con
simboli, disegni o
interi motti incisi assieme al nome.
–
E allora per che cosa lo sei? –
Lucius
si fermò davanti all’ingresso
di una taverna che recava l’insegna Quercia
d’Argento con un sorrisetto misterioso:
–
La luna brilla perché guarda il
sole – fu la sua altrettanto misteriosa risposta.
Era
impossibile guardarlo senza
lasciarsi distrarre dall’azzurro tempestoso delle sue iridi.
Qualcosa si
nascondeva dietro al suo sipario di spavalderia, ma di cosa si
trattasse, Regan
non lo avrebbe saputo dire.
Ben
felice di prendersi una
tregua dall’andirivieni che le era toccato sopportare per
tutta la mattinata,
seguì Lucius dentro alla taverna, dove un’ondata
di denso tepore li accolse. Non
aveva molto appetito a causa della colazione abbondante, ma aveva
voglia di
qualcosa di caldo con cui riscaldarsi le mani intirizzite dal freddo.
–
Hey, guardate un po’ chi viene
a degnarci della sua presenza! –
Era
stata una voce maschile a
levarsi al di sopra del chiacchiericcio indistinto degli avventori per
raggiungere lei e Lucius fin nell’ingresso. Regan lo
individuò in fondo alla
sala: un ragazzo biondo che sventolava un braccio per attirare
l’attenzione,
circondato da una manciata di compagni.
Lucius
sollevò una mano per
ricambiare.
–
Mariek – i due si scambiarono
una pacca sulla schiena. – Come stai? –
–
Ma come fai a distinguerci
sempre? Parola mia, vecchio, un giorno riuscirò a estorcerti
il tuo segreto. –
Un
altro ragazzo era spuntato dal
nugolo che affollava il tavolo e si era fatto avanti; era identico al
primo.
Entrambi magri e biondissimi, lineamenti tracciati con precisione e
simmetria
impeccabili, con occhi neri e insolenti e dotati della bellezza
affilata tipica
delle genti del Nord. Regan riusciva a distinguerli solo
perché Mariek portava
i capelli legati e l’altro no.
–
Me lo porterò nella tomba,
Ember, te lo posso assicurare. –
C’era
un numero non ben definito
di mantelli, sciarpe e guanti ammassati a
un’estremità della tavola, e quel che
restava dello spazio era ingombro di piatti e scodelle, vassoi ancora
pieni a
metà, brocche di vino, acqua e calici. A occupare la panca
c’era una mezza
dozzina di giovani dall’aria un po’ brilla e in
vena di risate.
–
Non ci presenti la tua nuova
amica? –
Un
terzo ragazzo si era alzato
per raggiungerli. Anche lui, come i primi due, aveva lunghi capelli
dorati e
occhi neri screziati di trasparenze più chiare. Doveva
essere di qualche anno
più giovane, ma tutti e tre si somigliavano tanto da non
poter essere altro che
tre fratelli.
Lucius
confermò subito la sua
intuizione:
–
Regan, ricordi Prince? Bene,
loro sono i suoi fratelli minori: Ember e Mariek, flagelli gemelli dei
cuori di
tutte le giovani dame di Kauneus e delle allieve
dell’Accademia della Domus
Aurea, e questo è… –
–
Aeden – si presentò
autonomamente il terzo, esibendo un baciamano che tolse a Regan ogni
facoltà di
parola. Per quanto stupefacente, Lucius aveva amici che sapessero cosa
fosse il
galateo, a quanto sembrava.
–
Anneli e Prince non ci sono? –
–
Anneli è a casa a studiare –
rispose Ember sottovoce con una smorfia, come se si trattasse di un
fatto di
cui vergognarsi – E Prince è in giro a setacciare
le Sette Terre per mettere
insieme qualche ipotesi decente su quanto successo alla Corte.
È partito
stamattina con qualcuno dei suoi. Desmond è ancora
ufficialmente disperso e
nessuno crede veramente che sia finito maciullato tra le ceneri della
sua
casetta –
Regan
serrò i pugni. Da un lato
detestava la frustrazione che l’amnesia le causava,
impedendole di essere di
qualche aiuto a quella gente, dall’altro continuava a essere
fermamente
convinta che, come aveva detto Angina, forse non era un male che avesse
dimenticato. Non possedendo ricordi, si basava sugli istinti che le
erano
rimasti incisi dentro, tracce indelebili di eventi dimenticati che
ancora
agivano, attraverso nebbiose sensazioni, per guidarla lungo un sentiero
che era
costretta a percorrere a occhi chiusi. Quegli stessi istinti, del tutto
spogli
di razionalità, le suggerivano una strana inquietudine, nel
sentir proferire il
nome di quell’uomo.
–
Sedetevi! – Mariek gesticolò in
direzione dei posti vuoti sulla panca. – Unitevi a noi. Vi
facciamo portare dei
piatti, c’è ancora una montagna di roba da
mangiare! –
Quando
Lucius aveva detto a Regan
di essere molto popolare, lei lo aveva preso come una battuta
eccessivamente
gonfiata, mentre invece sembrava essere la verità nuda e
cruda: l’oste in
persona era venuto a porre i suoi omaggi, così lieto di
rivedere il “caro
ragazzo” che decise che avrebbe offerto lui da bere. Anche i
ragazzi della
piccola combriccola lo trattavano con una sorta di amichevole reverenza
e
pendevano dalle sue labbra, sebbene fosse più giovane della
metà di loro. E
lui, dal proprio canto, era perfettamente a suo agio tra loro,
ridanciano e
rumoroso, come un leader tra i suoi seguaci. Gli altri tre ragazzi del
gruppo
erano compagni di Accademia dei fratelli Edelberg, anch’essi
rampolli di
notabili di Kauneus. Due di loro, i cugini Emeric e Kama Devore, due
ragazzoni
dai riccioli rossi, avrebbero terminato il loro percorso accademico a
fine
anno, mentre l’altro, Breys Devore, fratello di Emeric, era
abbastanza giovane
da aver appena cominciato.
Nessuno
di loro diede segno di
provare verso Regan una particolare curiosità che esulasse
da quella che ci si
sarebbe aspettata da un manipolo di giovanotti scapestrati di fronte a
una
piacente donzella.
–
Hai detto che si fermerà da te
per qualche tempo, Lucius? – stava informandosi Ember,
occhieggiandola suadente
dall’capo lato del tavolo.
Accanto
a lei, Lucius annuì,
infilandosi in bocca una generosa forchettata di arrosto.
–
A tempo indeterminato. –
Avevano
raccontato che Regan era
stata affidata a lui per via di circostanze particolari, senza
addentrarsi
troppo in dettagli superflui di cui non era il caso discutere in
pubblico. Da
come però reagirono gli Edelberg, era facile sospettare che
sapessero qualcosa
più degli altri.
–
Prince lavora per la Lega – le spiegò
infatti Lucius in un orecchio. – Il Nucleo di Norden
è uno dei più funzionali,
assieme a quello di Brenner e Corterra. Sono pronto a scommettere che
la sua
famiglia sia stata tra i primi a venire a conoscenza della tua storia.
–
–
Spero vivamente che avremo il
piacere di rivederti spesso, Regan – stava dicendole Mariek
con una strizzatina
d’occhio sfacciata.
–
La vita sociale di Lucius non è
mai stata granché brillante – intervenne Ember,
sporgendosi verso di lei
attraverso il tavolo. – Lui è uno che preferisce
la solitudine al sano
divertimento… vallo a capire. Quindi vedi di convincerlo a
portarti a qualche
festicciola delle nostre, a Medilana. Ti garantisco che sapremmo farti
divertire! –
–
Oh, puoi starne certa – Accanto
a lei, Aeden sorrise soavemente ai due fratelli maggiori. –
Hanno un animo così
altruista e generoso da non saper negare l’onore della
propria compagnia a
qualunque bella fanciulla abbia la sventura in incrociare il loro
cammino. –
Lui
era diverso dai gemelli: più
serio e composto, più maturo, tanto negli atteggiamenti
quanto nei discorsi, e
sembrava fosse lui a tenere a bada loro, anziché il
contrario, come la naturale
gerarchia avrebbe voluto.
–
Le fanciulle non si limitano a
incrociare il nostro cammino, fratellino. Loro ci si buttano a
capofitto –
sghignazzò Mariek, e lui ed Ember scoppiarono a ridere.
Aeden
sospirò e volse gli occhi
al cielo come un padre che aveva a che fare con figli ingestibili e li
lasciò
nel loro brodo.
–
Nostro padre ha chiesto di te –
disse a Lucius. – Era parecchio che non tornavi a Kauneus. Ci
farebbe piacere
una tua visita, qualcuno di questi giorni. –
Regan
ascoltava interessata. Non
sapeva granché di Lucius e le sarebbe piaciuto conoscere
qualcosa di più, di
lui. Aveva un rapporto piuttosto intimo con gli Edelberg, a quanto
pareva.
–
Vi conoscete da molto tempo? –
indagò.
–
Una decade, anno più, anno meno
– rispose Lucius. – Lord Edelberg è
stato uno dei primi a darmi fiducia, quando
sono entrato nella Lega, e da allora mi ha sempre tenuto sotto alla sua
ala protettrice.
–
–
Non che tu ne abbia bisogno,
vero? – si intromise Ember, emergendo per un momento dal
discorso che stava
intrattenendo con i Devore.
Il
ragazzo di nome Emeric gli
diede man forte:
–
Nessuno meno di lui.
–
–
Il mio cuore brama il momento
in cui sarò anch’io un membro della Lega
– sospirò Mariek, languido, con una
mano sul cuore. – Dedicare la mia umile vita al servizio
della Luce del Nord… a
cosa potrei aspirare, di più? –
–
A uscire dalla Domus senza una
reputazione da buffone perdigiorno, per esempio –
completò Aeden al posto suo,
facendo ridere tutti.
Era
la seconda volta che Regan
sentiva nominare questa misteriosa Luce del Nord e ancora non era
riuscita a
capire di cosa si trattasse. Stava per domandare qualche delucidazione,
ma
qualcosa la bloccò: c’era un uomo seduto a un
tavolo in un angolo. Era solo,
con nient’altro che una fiasca di un vino dalla colorazione
violacea molto
scura davanti, che di tanto in tanto si versava nel calice.
L’ombra gettata dal
cappello che non si era tolto, dando prova di una certa maleducazione,
gli
nascondeva metà del volto. Le sembrò strano che,
nonostante i suoi abiti
fossero di un certo pregio, fossero così sciupati. La stava
osservando.
–
Serviti, sciocchina, non hai
fame? –
Regan
si accorse che Lucius si
era già riempito un piatto di vivande e le stava porgendo un
vassoio rotondo
con delle costine di maiale. Quando guardò di nuovo,
l’uomo si stava facendo i
fatti suoi e fissava cogitabondo il fondo del suo calice.
–
Cerbiattina, parlo con te. –
–
Perché la gente mi fissa? –
Sbottò lei, infastidita.
–
Perché sei molto carina? –
Lei
gli propinò un’occhiata torva.
Lui
rimase immobile un istante,
poi posò il vassoio e la guardò con compassione.
Si avvicinò a lei e sospirò.
–
Dovrai farci l’abitudine, temo.
Sei abbastanza vistosa, sai? –
Le
sistemò una ciocca dietro
all’orecchio con una dolcezza lenitiva, un gesto che in un
luogo come quello,
pieno di parlottii e occhi indiscreti, era decisamente fuori luogo.
–
Fintanto che ti fisseranno
senza nuocerti, non mi preoccuperò. –
–
E io quand’è che mi dovrò
preoccupare? –
–
Mai, finché ci sarò io. –
La
vibrazione di una promessa.
La
sua voce calda era balsamo per
qualsiasi turbamento. Non che lei fosse veramente preoccupata; trovava
solo una
scocciatura avere sempre degli occhi puntati addosso in quel modo,
nemmeno
fosse stata un mostro.
Eppure era esattamente come
un mostro che
l’aveva guardata la guardia, a Medilana.
–
Su, adesso mangia qualcosa, da
brava – Lucius le rifilò nel piatto un paio di
costine. – E ringrazia i
signorini Edelberg per averci offerto il pranzo. –
–
Chiamami un’altra volta signorino
e ti offrirò un pugnale nello
sterno – lo minacciò Mariek.
Ember
allungò una gomitata al
gemello:
–
Signorino Edelberg, non siate
scortese! –
–
Signorina Edelberg, evitate di fare
le veci della vostra balia! –
–
Razza di… –
–
Devi scusare la loro puerilità,
Regan – le disse Aeden, coprendo l’insulto
del proprio fratello. – Hanno un
cervello in due e come vedi non funziona nemmeno tanto bene. –
–
Se il nostro cervello fosse
attivo quanto tu sei noioso, ne saresti sicuramente entusiasta
– lo rimbeccò
Ember, sdegnoso.
A
Regan piaceva starli a
guardare. Le piaceva la loro complicità, il modo scherzoso
con cui si
insultavano e prendevano in giro. In Ember e Mariek, soprattutto,
percepiva un
legame fortissimo, e in un certo senso Aeden aveva ragione: era come se
fossero
un’unica entità divisa a metà, lo
stesso spirito che due corpi distinti. E quel
senso di appartenenza che quei ragazzi mostravano di provare
l’uno verso
l’altro, in lei mancava completamente. Come aveva detto
Lucius, anche senza
ricordi, le esperienze lasciavano impronte tangibili
nell’anima, e l’impronta
di una famiglia in lei non c’era.
Trascorse
un pomeriggio piacevole
alla taverna. Tra un boccone e l’altro e aneddoti
più che pittoreschi
raccontati dai ragazzi circa certe loro avventure entro le storiche
mura della
Domus Aurea, le ore si consumarono velocemente, tanto che, senza che se
ne
rendessero conto, l’oste era passato ad accendere i lumi dei
tavoli e delle
pareti. Due grossi lampadari, inoltre, ribollivano ora di una morbida
luce
dorata sopra le teste degli avventori.
Era
sera, fuori, anche se l’ora
non era poi così tarda. Da una delle finestre si poteva
intravedere l’orologio
di una torre che, nel baluginio lunare del kival,
segnava appena la quarta pomeridiana. Il buio scendeva più
in fretta, al Nord,
durante l’inverno.
Le
poche dame che avevano animato
l’atmosfera con cori di risolini e pettegolezzi indiscreti si
stavano alzando,
probabilmente per recarsi di nuovo a casa dai mariti e dai figli,
appena in
tempo per dare istruzioni ai domestici per la cena. Gli uomini e i
giovani si
sarebbero attardati ancora un po’, meno vincolati dai sacri
doveri delle
matrone. Dalle cucine già proveniva l’odore
invitante delle pietanze serali e a
breve i tavoli sarebbero stati liberati dalle bottiglie di liquori e
teiere di
tisane fumanti per lasciare posto ai calderoni delle minestre e degli
stufati.
Sporte di pane erano già pronte per essere distribuite con
le ordinazioni, da
intingere nelle salse o tuffare nei densi brodi aromatizzati.
Regan
si scoprì a pensare che le
sarebbe piaciuto lavorare in un posto simile, anche soltanto per poter
sentire
tutti i giorni quei profumi, e il calore e l’allegria della
gente che si
incontrava. Ne era incantata, come una bambina di fronte alla prima
bambola
della sua vita.
–
Ti sei divertita? – le chiese
Lucius mentre uscivano, e la quinta era ormai prossima sulla torre
dell’orologio.
–
Molto. E credo anche di aver
mangiato a sufficienza da poter digiunare per il resto
dell’inverno. –
–
Eleonora non ne sarà contenta.
Sono pronto a scommettere che ha già preparato una lauta
cenetta per noi. –
Una
grossa ombra sorvolò le loro
teste. Rok doveva essere nei paraggi. Qualche fiocco di neve, intanto,
aveva
iniziato ad abbandonare il cielo, tracciando ghirigori invisibili
nell’aria
fredda mentre lentamente scivolava verso la terra. Uno si
andò ad adagiare
proprio sulla punta del naso di Regan, strappandole un sorriso.
–
È straordinario, vero? – disse
Lucius, guardando in su. Anche lui stava sorridendo. –
C’è qualcosa di magico a
Norden che nelle altre Terre non c’è. –
Era
amore quello che gli si
leggeva negli occhi d’acqua, un’emozione che
luccicava di vita propria, come un
riflesso di qualcosa di più profondo.
“Casa è dove è il
cuore.”
–
Hey, Lucius! –
Pochi
metri avanti a loro, due
ragazze sventolavano le mani guantate con aria civettuola. Si
avvicinarono
ridacchiando e sussurrandosi qualcosa. Lucius concesse loro un saluto
galante:
–
Lady Sapphire. Lady Somerville.
–
–
Non avevo idea che tu fossi in
città! – ciarlò la prima, una bruna
dall’aria scaltra, alta e magra come un
fuso. – Mi ero rassegnata a dover attendere il Solstizio per
rivederti. –
La
sua amica, più bassa e
decisamente meno aggraziata di lei, gli scoccò
un’occhiata di apprezzamento, ma
non osò aprire bocca.
Regan,
che si era volutamente
tenuta in disparte fingendo di osservare una statua equestre
lì vicino,
ascoltava facendo finta di niente.
–
Non mi aspettavo nemmeno io di
rientrare – stava replicando Lucius, serafico come suo
solito. – Non so neppure
quanto mi fermerò, a dire il vero. –
–
Abbiamo speranze di vederti al
ballo? –
–
Difficile a dirsi. Ma la
speranza è sempre l’ultima a morire, dopotutto
–
Continuarono
a scambiarsi
pochezze degne di una combriccola di comari, e Regan intuiva nel tono
salottiero di Lucius una celata patina di fastidio, che lei peraltro
condivideva pienamente. Le due ragazze erano più mature di
lei, ma
probabilmente anche di lui, eppure l’atteggiamento della
bruna – Lady Sapphire –
era un pubblico manifesto di tentata – e palesemente fallita
– seduzione.
Un
suono insolito nel vicolo lì
accanto distrasse Regan dal suo attento origliare. Le era sembrato un
guaito, o
forse un vagito. Proveniva da un angolo in fondo allo stretto
passaggio. Decise
che, piuttosto che sorbirsi la voce petulante di Lady Sapphire che
faceva la
civetta con Lucius, poteva anche arrischiarsi ad andare a controllare
di che
cosa si trattasse.
Senza
pensarci, si allontanò e si
mise a setacciare il vicolo. C’era una botte colma di
rifiuti, avanzi di cibo
putrescenti della taverna, e una catasta di legname umido su cui si era
già
formato un discreto strato di neve.
–
C’è nessuno? – provò a
chiedere. Ciò che le giunse in risposta fu un mugolio
sommesso indistinguibile.
Sembrava quasi il verso di un animale.
Seguì
una specie di scia
sensoriale, attirata da chissà quale istinto verso una
seconda botte, anch’essa
adibita a deposito per rifiuti. Notò una serie di trappole
legate da catene sparse
a terra, con esche di carne e formaggio ammuffito. Con tutta quella
sporcizia,
i topi dovevano prosperare. Era buio, lì in mezzo: i due
muri erano così
ravvicinati che la luce del giorno a stento penetrava, lasciando il kival privo della sua caratteristica
fosforescenza.
D’un
tratto una catena si mosse,
facendola sussultare. Si diede della sciocca: si trattava sicuramente
di un
ratto che era rimasto vittima delle trappole. Guardò meglio,
cercando tra la
densità delle ombre, ma non riusciva a distinguere nulla.
Poi lo vide, in un
angolo debolmente rischiarato dalla luce che penetrava da una finestra.
Era
un esserino bizzarro, alto
circa trenta centimetri, e sembrava uno strano ibrido tra un gatto e un
orso in
miniatura. Era completamente ricoperto di una folta pelliccia fulva,
lunghi
arti sottili ripiegati in una posa accovacciata. Due enormi occhi neri
e
lucenti occupavano metà del volto, appena sopra un minuscolo
naso nero e un
muso schiacciato. Le sue dita filiformi erano strette attorno a quello
che
aveva tutta l’aria di essere un bracciale d’oro
zecchino. Una delle sue
zampette era imprigionata nella morsa impietosa di una tagliola,
lasciando
macchie di sangue sul terreno.
Non
appena la vide, l’animale
arretrò spaurito, stringendo gelosamente il gioiello,
trascinandosi dietro
anche la tagliola. Regan sentì il suo dolore come fosse
dentro di lei. Mossa a
pietà, si accovacciò e allungò una
mano verso di lui.
–
Tranquillo, ti voglio aiutare. –
Naturalmente
sapeva che la
bestiola non avrebbe compreso, ma non avrebbe saputo che altro fare per
rassicurarlo se non usare quel tono gentile.
–
Non ti farò del male, te lo
prometto. –
Parve
funzionare: il buffo
animaletto non le andò incontro, ma se non altro non
tentò di scappare. Era
calmo, anche se non accennava ad allentare la presa sul bracciale.
Regan cercò
di fare piano: si accostò lentamente, continuando a ripetere
alla creatura che
le sue intenzioni era buone. Non sapeva nemmeno lei perché
lo facesse, ma
funzionava.
Le
ci volle un po’, buio com’era,
per capire come allentare la tagliola. Trovò la leva dopo un
paio di tentativi
alla cieca che le costarono qualche taglio, ma alla fine la molla
scattò.
–
Piano, ora. Sei ferito – disse
all’animale, prendendolo tra le proprie mani. Era soffice e
leggero e tremava
come una foglia. Sotto alle mani di Regan pulsava nitida la sua
sofferenza,
mista però a una fiducia che la fece piacere riconoscere.
Gli sfiorò la ferita
con cautela: non era profonda, ma rischiava di infettarsi se non fosse
stata
debitamente disinfettata. Avrebbe voluto poter essere in grado di
guarirlo, ma
era un potere da angelo, quello, e lei di certo non lo possedeva.
Proprio
mentre lo pensava, però, nel punto in cui le sue dita
toccavano la carne viva
il sangue iniziò a riassorbirsi.
Regan
ritrasse la mano, il cuore
che saltava stupefatto un battito. Quello che stava succedendo non era
normale.
Abbassò
lo sguardo sul muso della
bestiola: la stava guardando con gli occhioni spalancati da
un’espressione che,
per quanto assurdo potesse sembrare, si sarebbe potuta dire
supplichevole.
Benché
non sapesse esattamente
cosa fare, Regan provò di nuovo ad appoggiare le dita sullo
squarcio nella
folta pelliccia. Non accadde nulla.
Forse,
si disse, si era
immaginata tutto.
Io non posso guarirti...
Fu
come era accaduto con il
candeliere a casa di Lucius: bastò il semplice pensiero,
quasi ignaro e privo
di reale volontà. Una scintilla di energia si accese e senza
che lei se ne
rendesse conto la ferita di rimarginò in un alone di
sollievo. Regan non
riusciva a capacitarsene: era impossibile che lei avesse fatto quello
che aveva
appena fatto.
Un
rumore improvviso le fece
sollevare di scatto la testa. Non vide che un’ombra muoversi
tra altre ombre.
– Regan!
–
L’esserino,
spaventato dal
richiamo imperioso di Lucius, scalpitò furiosamente,
sgusciandole via dalle
mani. Non riuscì nemmeno a vederlo, tanto fu lesto nel
dileguarsi. Nello stesso
istante, un uccello volò via dal tetto della taverna,
facendo cadere un cumulo
di neve.
–
Sei impazzita? Mi sembrava di
averti ripetuto più di una volta di restare con me!
–
La
prese per un braccio e la
sollevò come se fosse stata una piuma, trascinandola fuori dal vicolo alla luce
bianca delle vie
principali.
–
Cos’hai fatto alle mani? –
–
C’era un animale incastrato in
una tagliola… l’ho liberato. –
–
L’hai… – Lucius la guardò
incredulo. – D’accordo, lascia che ti spieghi una
cosa, e voglio che tu mi stia
bene a sentire – la afferrò per le spalle,
piegandosi appena sulle ginocchia
per poterla vedere meglio negli occhi. – Io ho rischiato la
pelle per sottrarti
alle grinfie di un losco figuro che non aveva certo intenzione di darti
un
buffetto su una guancia, e il suddetto losco figuro è
attualmente ancora chissà
dove a piede libero, e adesso tu, se permetti, dovresti avere la
cortesia di
ricambiare il mio gesto sforzandoti di non andarti a cercare i guai
dietro ogni
angolo. Pensi di poterlo fare? –
–
Ma io… –
–
Pensi di poterlo fare? – ripeté
Lucius, marcando di più le parole.
Regan,
che non aveva avuto alcuna
intenzione andarsi a cercare guai, non poté far altro che
assentire.
–
Bene. Andiamo, adesso. Si è
fatto tardi, Eleonora si starà chiedendo dove siamo finiti.
–
Se
all’andata la strada le era
sembrata così breve, al ritorno divenne interminabile. Freya
galoppò senza
sosta tra la neve che scendeva fitta e silenziosa, nuvole di vapore che
si
sollevavano dalle sue narici. Stretta a Lucius, gli occhi chiusi, Regan
respirava
nel vento ghiacciato un profumo che per lei un po’
già sapeva di casa.
–
Dov’è Lucius? – chiese due
giorni dopo, a colazione.
Le
aveva lasciato nient’altro che
un biglietto sul tavolo della cucina con due righe buttate
giù di fretta in cui
le diceva di andare da Eleonora, che le avrebbe spiegato lei, e le
raccomandava
di non uscire dalla recinzione delle case.
–
È andato a Cittanuova. Il
Coordinatore di Astereis l’ha convocato all’alba
per un consulto urgente. –
–
Pensi che si tratterrà a
lungo? –
–
Dipende dal motivo del
consulto. A volte va e torna in giornata, altre sta via dei giorni.
–
Calien
era già sveglio e arzillo:
sedeva a gambe incrociate sul tappeto accanto al focolare, la zazzera
bionda
irrorata dai bagliori del fuoco, e giocava con le fiamme, stando
semplicemente
a guardarle, e sembrava che esse gli obbedissero come se fossero sue
schiave,
completamente succubi della sua volontà, allungandosi,
attorcigliandosi,
avvolgendosi tra loro in spirali e volute straordinarie. Sembrava
così
semplice, a vedersi.
Eleonora
canticchiava allegra,
rassettando la cucina illuminata da un terso sole invernale. Non
sembrava
preoccupata. Era la decima mattutina passata, ma Regan fece sparire
senza
troppi problemi tutto ciò che le fu proposto, poi Eleonora
sparecchiò e mise
tutto nel lavello.
–
Mi dispiace, ma temo che oggi
ti toccherà annoiarti –
Regan
le diede una mano a ripiegare
la tovaglia.
–
Stavo pensando di uscire a fare
due passi – buttò lì, pur sapendo che
Lucius glielo aveva espressamente
vietato.
–
Tu non vai da nessuna parte, da
sola. Se vuoi puoi uscire in giardino a fare a palle di neve con
Calien. –
–
Che differenza fa? – si lamentò
Regan, che fin dal primo momento che era scesa dalla carrozza di Prince
Edelberg aveva desiderato addentrarsi nel bosco.
–
Il perimetro del giardino segna
il confine dei sigilli che proteggono questo posto. –
Regan
si diede della sciocca per
non esserci arrivata da sola. Aveva davvero creduto che Lucius la
lasciasse
sola senza alcun tipo di protezione?
–
È per te e Calien che ha fatto
tutto questo? –
Eleonora
si apprestò a lavare le
stoviglie. Si raccolse i capelli con un nastro e raccolse
dell’acqua in una
bacinella.
–
I sigilli c’erano già, quando
siamo arrivati noi. Quello che ha fatto per noi è un
Segreto. –
–
In che senso “un segreto”? –
–
Non conosco i dettagli di
questo tipo di sigillo – ammise Eleonora. – So
quello che ha provato a
spiegarmi Lucius. –
Le
raccontò quel che sapeva.
Regan
apprese così che i Segreti
erano una magia molto complessa che in pochi erano in grado di
compiere. Si
trattava di rinchiudere determinate informazioni in piccole sfere di
cristallo,
cosicché rimanessero inapprendibili da individui
indesiderati. Solo il custode
del Segreto poteva trasmetterlo e decidere se chi ne era a conoscenza
lo
trasmettesse a sua volta. Se Lucius aveva davvero creato un Segreto per
tenere
nascosti Eleonora e Calien, forse era davvero il personaggio importante
che
diceva di essere. Una parte di lei si sentì lusingata,
poiché lui le aveva
permesso di apprendere quel Segreto, e questo significava che aveva
fiducia in
lei, che non la credeva un’impostora.
–
Mi dispiace, piccola, ma finché
lui non c’è, sei confinata qua dentro assieme a
noi. –
Un
pensiero sfiorò all’improvviso
la mente di Regan.
–
Se tu e Calien siete protetti
da un Segreto… significa che non ve potete andare da questa
casa? –
Eleonora,
che le dava le spalle,
smise per un momento di strofinare sui piatti.
–
Lucius ci porta in tanti posti –
rispose la voce trasognata di Calien, ancora intento a fissare il
fuoco. – Ma
sono lontani da qui. La gente non ci deve riconoscere. La mamma deve
sempre
nascondersi, se no la guardano male. –
L’espressione
di affetto mista a
malinconia di Eleonora faceva stringere il cuore.
–
Sono deplorevolmente umana, non
c’è verso di nasconderlo –
commentò spensierata. – Mi si riconosce a colpo
d’occhio. Per fortuna nei posti affollati riesco a
confondermi bene, nessuno si
accorge della vibrazione diversa della mia anima. Ci piacciono i
mercati e le
feste dei villaggi, vero tesoro? –
Calien
si voltò con un gran
sorriso.
–
E le fiere per la vendemmia e
delle nuove stagioni! –
–
Va matto per gli spettacoli
degli ammaestratori di falchi. –
–
E per le mele candite! –
Regan
passò il resto della giornata
a fantasticare sui racconti che Eleonora e Calien le avevano
snocciolato su
tutti i viaggi che avevano fatto con Lucius. Avevano visitato ben poco
Norden,
per evitare di incontrare conoscenti scomodi, ma le altre sei Terre
avevano
lasciato molti ricordi positivi in loro, e adesso Regan si sentiva
bruciare dal
desiderio di poter percorrere le imponenti mura di Fortre, divise in
due
anelli, uno che cingeva la capitale lungo i confini e l’altro
che separava la
Città di Sopra, abitata dalle poche famiglie nobili, dalla
Città di Sotto, la
zona del popolo e della vita cittadina; voleva andare a Vihrea a vedere
i
leggendari giardini pensili e le vaste coltivazioni floreali che
occupavano
metà dei campi delle campagne, e camminare sulle strade di
vetro di Shjarna, e
guardare le rovine custodite al di sotto di esse; e poi
c’erano i fuochi
d’artificio che si tenevano ad Hazar, nella Terra di Asante,
per il Solstizio d’Estate,
e un milione di altre cose che la avevano ingolosita solo a sentirle
nominare,
anche non volendo contare l’entusiasmo che era trapelato da
ciascuno di quegli
aneddoti.
Passò
le due notti successive in
una stanzetta a casa di Eleonora, che si era categoricamente rifiutata
di
lasciarla dormire da sola nella casa vuota di Lucius. Nelle lunghe ore
davanti
al camino, prima di andare a letto, Eleonora le aveva raccontato
qualcosa in
più su di sé e la vita nel suo mondo, e Regan
comprese in fretta che a volte
avere dei genitori che ti trattavano come un oggetto era ben peggio che
non
averne affatto.
Lucius
rientrò nella tarda sera
del terzo giorno, imbrattato di neve, con il viso solcato da ombre di
stanchezza e l’aria di chi ne aveva viste delle belle.
–
Cos’è successo? – gli chiese
Regan, ansiosa, nel vederlo apparire sulla soglia in quello stato.
–
Non ora, cerbiattina – mormorò
lui stancamente, e chiese a Eleonora per poteva preparargli un bagno
caldo.
Regan notò che aveva una busta in mano, con un marchio di
ceralacca scarlatta
spezzato a metà.
–
Rimandiamo a domani tutte le
spiegazioni. Ora voglio solo acqua calda e il mio letto. –
Piantò
in mano a Regan la busta e
arrancò al piano di sopra, sfilandosi il pastrano
gocciolante. Si reggeva il
fianco sinistro con la mano, come se gli dolesse.
Lei
osservò meglio il sigillo e
scoprì di conoscerlo. Era più stilizzato del
ricamo sullo stendardo che aveva
visto non molto giorni prima, ma ugualmente riconoscibile: lo stemma
degli
Edelberg. Se Lucius l’aveva data a lei, si disse, era
perché voleva che la
leggesse.
Curiosa,
sollevò il lembo di
carta che chiudeva la busta e ne estrasse un cartoncino color crema
scritto da
un’elegante calligrafia inclinata. Quando lesse, per poco il
foglio non le
cadde di mano.
“Lord e Lady Edelberg hanno il piacere di
invitare a cena il Signor
Lucius Henker e la sua gentile ospite, Miss Regan, per una cena
informale la
sera del sette di dicembre.”
Il
giorno dopo erano seduti sul
grosso tronco muschioso di un abete abbattuto, nei pressi di un
ruscello
ghiacciato nella foresta. Nonostante la temperatura rigida e i densi
sbuffi di
vapore in cui si addensava ogni respiro, era piacevole stare
lì.
–
Ho sbrigato una faccenda veloce
a Cittanuova, poi sono stato convocato Radislav, il Coordinatore del
Nucleo di
Mauercast. È riuscito a individuare un piccolo manipolo di
scagnozzi di Desmond
scampati al crollo del castello, giorni fa, e ha chiesto il mio aiuto
per
stanarli e catturarli. Erano malconci quanto lo eri tu quando ti ho
trovata, ma
per nostra fortuna non si sono rimessi altrettanto in fretta.
–
Lucius
fissava le proprie mani
con un’espressione vacua, come se i suoi occhi non potessero
vedere.
Regan
deglutì un groppo alla
gola.
–
Siete riusciti a interrogarli?
Avete scoperto qualcosa? –
Le
labbra di lui si contrassero
in una piega amara che già la diceva lunga.
–
Interrogarli è stato facile.
Hanno convocato Shin, per farlo. –
A
Regan balzarono subito in mente
due miti occhi neri e un sorriso placido.
–
Shin? Quell’angelo che… –
–
Sì, lui. Non potevamo rischiare
di fare invadere le loro menti da un demone. Si sarebbero opposti, e
temevamo
che il dolore avrebbe dato loro il colpo di grazia. Non avevano alcuna
intenzione di collaborare e le… i mezzi di persuasione in
uso nel Nucleo di Radislav
sarebbero stati letali, in ogni caso. –
Il
vento cantava in un pianto
straziante tra gli alberi, che si piegavano al suo passaggio con un
fruscio
nostalgico, lacrime gelate che colavano silenti tra il verde argenteo.
Sottili
ciuffi corvini ondeggiavano sul viso pallido di Lucius.
–
Siamo riusciti a estrapolare
qualche informazione, anche se si è rivelata
pressoché inutile –
–
Sapete che cos’è successo
quella sera? – domandò lei, sentendo con orrore la
voce che le fremeva tra le
labbra.
Aveva
paura. Paura che avessero
scoperto qualcosa che avrebbe cambiato la sua posizione. Ma Lucius
aveva
un’aria tranquilla, quasi abbacchiata.
–
I prigionieri erano cinque, e
tutti e cinque hanno dato all’incirca la medesima versione:
sembrava tutto
tranquillo, poi è scoppiato il finimondo. Desmond si era
già ritirato nell’ala
nord del castello, dove si trovano le sue stanze. Non sappiamo se con
lui ci
fosse qualcuno; è un’ala ad accesso strettamente
limitato, secondo loro, e in
pochi hanno il privilegio di potervi entrare. Tra la Nuova e la prima
del
mattino, la terra ha cominciato a tremare, sempre più forte.
Non hanno nemmeno
avuto il tempo di cedere al panico. C’è stato un
lampo di luce che ha
inghiottito ogni cosa, e un istante dopo tutto è precipitato
– Si abbandonò a
un sospiro esausto e frustrato. – Non ricordano altro.
–
Si
voltò verso Regan, e la
piccola zanna che gli pendeva dall’orecchio
oscillò lentamente.
–
Abbiamo provato a chiedere loro
di una ragazza dai capelli rossi come il sangue –
Lei
trattenne involontariamente
il respiro.
–
Nessuno sapeva niente –
proseguì lui. – Non ti hanno mai vista o sentita
nominare, né tra i loro né tra
i prigionieri. È come se tu fossi spuntata dal nulla.
–
Regan
teneva lo sguardo
inchiodato a terra, sulla punta umida degli stivali che indossava, non
sapendo
se rallegrarsi o rattristarsi. Non era una criminale, dunque, ma
nemmeno una
vittima. Restava ancora aperto l’interrogativo principale,
ossia: che cosa ci
faceva, lei, là?
–
Sono stati portati tutti a Helgrad,
ora – le disse Lucius, come se ciò chiudesse la
questione. – Resteranno
rinchiusi nella prigione di Vankar fino al processo. –
Vankar.
Regan associò subito quel
nome a delle storie il cui eco stava riaffiorando nebuloso nella sua
memoria:
il carcere più antico delle Sette Terre, arroccato sul
ciglio della rupe più
alta di Mauercast, appena oltre i confini della seconda
città della Terra, sorvegliato
da due draghi millenari a cui, si vociferava, venivano dati in pasto i
detenuti
divenuti scomodi, o quelli considerati indegni di un regolare processo,
come i
Segnati e i Ladri di Anime.
–
Ora, veniamo alle cose serie –
Lucius si disfò della patina seria che aveva finora portato
e ornò ad essere il
solito scanzonato. – Pare che qualcuno si sia fatto degli
amichetti… –
Regan
inarcò un sopracciglio
nella sua direzione.
–
Sbaglio o avevi detto che gli
Edelberg sono tra i pochi a sapere veramente chi sono? Vorranno di
sicuro
vedere da vicino la bizzarra straniera –
–
Sono pronto a scommettere, in
effetti, che Lord Edelberg nutra una qual certa curiosità
intellettuale verso
di te. È stato una grande guida per molti giovani neomembri
della Lega, un
tempo. Ma ho anche la vaga impressione che tu stessi piuttosto
simpatica ai
ragazzi. –
–
Ma se ho a stento aperto bocca,
alla taverna! –
Lucius
volse pazientemente lo
sguardo al cielo, una sterminata distesa di blu graffiata dal sole,
ormai quasi
allo zenit.
–
Non dire sciocchezze,
cerbiattina. Sai bene a quale tipo di simpatia
alludevo. –
Regan
dissimulò un sorrisetto
compiaciuto. Lo sguardo le cadde sul gomito di Lucius, stretto al suo
fianco in
una posa innaturale.
–
Ti hanno ferito, vero? –
Le
fece quasi male a chiederlo.
Si era affezionata a lui, le spiaceva vederlo così.
–
Sono già stato rammendato a
dovere – ironizzò Lucius. Una risatina incurante
gli scosse le spalle prima di
smorzarsi in una silenziosa smorfia sofferente.
–
Ti fa così male? –
Lui
sollevò stoicamente un angolo
della bocca.
–
Ho imparato a sopportare dolori
peggiori. –
Benché
qualcosa nelle vibrazioni
della sua voce aveva suggerito che alludesse ad altro, a qualcosa che
le parole
non avrebbero potuto raccontare, i disegni tracciati dalle cicatrici
che gli
segnavano il corpo erano rimaste ben impresse dentro di lei, tracce
indelebili
di violenze che lei poteva soltanto immaginare.
–
Non chiedermelo adesso – esordì
lui, una mano sollevata, bruciandole sul tempo la domanda che aveva
appena
iniziato ad affiorarle sulle labbra. – È una
storia troppo lunga e ora non
abbiamo tempo. C’è un posto in cui ti devo
portare. –
Regan,
che uscendo di casa si era
persa quel particolare, sgranò gli occhi stupita.
–
Dove? – balbettò, colta
dall’ansia. L’ultima cosa che le serviva era un
altro incontro traumatico con
qualche personaggio della risma di Castalia Reis.
–
Nella Terra di Sonnerg – Lucius
si alzò in piedi e la esortò a fare lo stesso. Un
lupo ululava in lontananza;
qualche grosso volatile si librò via da un ramo poco
distante, disturbato da
quel richiamo. – Nel Bosco di Aurin c’è
qualcuno che vorrei che tu incontrassi.
–
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A/N:
grazie mille a tesorinangel, darkwish, VesiSchwartz (con
cui vedo che ho molto in comune :) ) e Maharet per le
bellissime recensioni. Adesso inizieremo a entrare nel vivo della
storia, quindi bisogna cominciare a rizzare le orecchie, e vedo che
qualcuno ha già cominciato. ;)
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