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Autore: Lady Vibeke    13/03/2011    4 recensioni
Una donna urla, la voce frammentata da singhiozzi.
Tutto è buio.
Battiti di cuore come tamburi attorno a lei, stretta tra braccia esili. Occhi innocenti di bambina si sgranano nell’angoscia dell’incapacità di comprendere quel caos improvviso.
– Dammi la bambina – Sentenzia la persona senza volto, ed è un ordine ineluttabile che impregna l’oscurità.
C’è il terrore che spadroneggia nella bimba. Troppo piccola per capire, ma abbastanza grande per rendersi conto del pericolo. E intanto quelle braccia insistono a volerla proteggere.
– Se la consegnate a me, sarà salva. Loro stanno arrivando. Se riescono a trovarla, la prenderanno e la uccideranno sotto ai vostri occhi. Datela a me. –
– Cosa vuoi da lei? –
Un lampo squarcia le tenebre. Il volto di una donna appare per un brevissimo istante al di sotto del cappuccio.
– Voglio salvarle la vita. –
Il silenzio della tensione calca sulle loro teste, impietoso. In lontananza, nitriti selvaggi si mescolano a un rumore di zoccoli in corsa.
Le braccia della ragazza si allentano attorno al corpicino indifeso della piccola. Altre due braccia sottili si aprono in un invito. Tutto è preda di una tensione innaturale. Tutto è immobile.
Poi un lampo di luce rossa divora ogni cosa.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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4. RITORNO AL MONDO

I close my eyes
Move slowly through drowning waves
Going away on a strange day

– A Strange Day, The Cure –

The. Biscotti alle mandorle. Frittelle allo zenzero. Pane scottato. Forse marmellata di frutti di bosco. Fu questo tripudio di fragranze allettanti a salutare il risveglio di Regan, quella mattina.

Dalle pesanti tende penetrava qualche cocciuta lama di luce polverosa che si insinuava tra le fessure per allungarsi, raggio su raggio, sulla fitta trama del tappeto. Le carezze del sole del mattino arrivavano anche al viso di Regan, dolci e leggere, spingendola pian piano ad aprire gli occhi su una nuova giornata. Si scoprì felice e straordinariamente piena di vigore. Il suo stomaco reclamava di essere tempestivamente riempito e forse un getto di acqua fresca la avrebbe aiutata a svegliarsi del tutto, ma per il resto non si era mai sentita meglio in vita sua.

Per quel che ne potesse sapere.

Quando scostò le tende e spalancò la finestra, l’odore dell’inverno le inondò i polmoni, mentre il biancore accecante della neve baciata dal sole la costringeva a strizzare gli occhi, schermandoseli con una mano. Nella sua semplicità, il panorama era mozzafiato.

Qualcosa si mosse su un ramo del grosso abete appena fuori dal muretto di recinzione e un po’ di neve cadde a terra. Subito dopo, un grosso corvo nero saltellò in avanti da dietro alle fronde e si voltò verso di lei, inclinando la testa di lato in modo buffo.

– Buongiorno, Rok –

La bestiola piegò la testa dall’altra parte e arruffò le penne, gracchiando verso il cielo. Regan non seppe se considerarlo un buongiorno o che altro, ma, tanto per soddisfazione personale, optò per la prima.

Scese di sotto a piedi nudi, seguendo quasi ipnotizzata il profumo delle vivande che già immaginava affollare il tavolo della cucina. Non appena entrò, infatti, trovò Lucius già seduto, circondato da una quantità di cibarie inimmaginabile. Soltanto il contenuto del suo piatto sarebbe bastato a sfamare un villaggio di discrete dimensioni. Eleonora, invece, si affaccendava davanti al fuoco, mescolando un paiolo di latte.

– Buongiorno! – la accolse Lucius, bofonchiando ai limiti della comprensibilità, dato che la sua bocca era occupata da una notevole porzione di frittella.

– Ciao, Regan – le disse invece Eleonora con un gran sorriso. – Ti chiedo scusa a nome di questo buzzurro per la sua scarsa galanteria – una sberla affettuosa colpì la nuca di Lucius. – Ancora non c’è stato verso di insegnargli come ci si comporta in presenza di una donna. –

– Potrei stupirti – si difese lui, con tutta la dignità che gli poteva consentire una bocca puntellata di granelli di zucchero, prontamente rimossi dalla punta della lingua che passò a sfiorare rapidamente le labbra.

– Quando vedrò, crederò. Siediti, piccola – Eleonora fece cenno a Regan di prendere posto. – Sarai affamata. –

Regan non perse tempo in inutili complimenti: occupò la prima sedia che trovò e iniziò a scandagliare quel che la mensa offriva, giungendo presto alla conclusione che scegliere era una perdita di tempo: avrebbe semplicemente preso un po’ di tutto.

– Dov’è Calien? – domandò, mentre si faceva allungare da Lucius il vassoio del pane.

Una sonora risata mostrò le due perfette file di denti bianchi di Eleonora.

– Dorme. Oggi è domenica, prima di mezzogiorno non ci degnerà della sua presenza. –

Portò in tavolo il paiolo del latte e prese posto al fianco di Lucius. Mentre la osservava, Regan fu colta da una buffa epifania: quella donna doveva essere nata qualche anno dopo di lei, eppure il suo aspetto era più maturo. Doveva essere strano per gli umani crescere così in fretta, come se la vita sfuggisse loro da sotto le dita senza lasciare loro il tempo di rendersi davvero conto di quel che avevano avuto tra le mani.

Regan consumò tre fette di pane imburrato e spalmato di gustosa marmellata senza quasi farci caso, e altrettanto fece con una mela che divise con Eleonora e una tazza di latte in cui intinse qualche frittella e un paio di biscotti.

– A quanto vedo qualcuno era particolarmente affamato – commentò Lucius di fronte al piatto vuoto che giaceva sotto al naso di Regan. – Altro che cerbiattina, mangi come un lupo famelico! –

Regan si rifiutò categoricamente di avvampare e tuffò con indifferenza un ultimo biscotto nel proprio latte.

– Lasciala stare, ha bisogno di mangiare! – lo sgridò Eleonora.

– Stavo solo scherzando! Mi fa piacere vederla così arzilla. Avevo intenzione di portarla a fare un giro a Kauneus, più tardi. –

– Davvero? – fece Regan, molto interessata. Stava letteralmente morendo dalla voglia di uscire e curiosare un po’ in giro: la sera prima era rimasta affascinata dal centro e voleva vedere come si sarebbe presentato durante il giorno.

Lucius annuì.

– Ti servirà un po’ di guardaroba. Non puoi andartene in giro a oltranza con i vestiti di Angina. –

– Perché no? – si lamentò lei. Si dava il caso che i vestiti di Angina le piacessero molto di più dei classici abiti femminili che si portavano in città. Non che si sentisse granché a suo agio nemmeno con quelli, ma tra i due mali preferiva nettamente il minore.

– Penso che tu dia già sufficientemente nell’occhio con la tua fluente chioma, senza andarci a cercare ulteriori appariscenze con abbigliamenti da poco di buono. –

– Stai dando ad Angina della poco di buono? –

– Mi permetto di farlo solo in sua assenza, o mi darebbe del bieco adulatore. –

Per quel poco che la conosceva, Regan ritenne che fosse più che probabile.

– E chi pagherà per questi acquisti? –

– Io – rispose Lucius, come se fosse talmente ovvio che era ridicolo anche solo dubitarne.

Regan iniziava a sentirsi a disagio: se già le era intollerabile l’idea di dover essere quasi completamente dipendente da qualcun altro, il pensiero di dover essere mantenuta gratuitamente senza possibilità di sdebitarsi era addirittura al di fuori del considerabile.

– No, grazie. Hai già fatto abbastanza per me. –

Ci fu un attimo di silenzio, durante il quale Lucius ed Eleonora condivisero un’occhiata fugace.

– Come si vede che non ti conosce – sghignazzò lei.

– Cerbiattina, l’insulsa somma che mi costerebbe qualche vestito da metterti addosso è l’ultimo dei miei pensieri, e quando dico l’ultimo, credimi, intendo proprio l’ultimo – le disse invece lui.

– Regan – Eleonora le appoggiò una mano sul polso. – Mi sono fatta i tuoi stessi scrupoli, all’inizio, quando Lucius mi portò qui. Mi ha dato una casa per me e mio figlio e non mi hai mai chiesto nulla. Con il tempo sono stata io a trovare il modo di ripagarlo, come vedi. –

Indicò la tavola imbandita, la tovaglia pulita e ricamata negli angoli da foglie e virgulti avvolti in spirali.

– Pensa che all’inizio non ero nemmeno capace di cucinare – proseguì Eleonora, con una luce spensierata negli occhi. – Cosa se ne fa una futura duchessa dell’arte culinaria, se tanto le spetta uno stuolo di servitori, quando sarà sposata? –

Dalle sue parole e dal modo in cui le pronunciò, era facile capire che tutto ciò che si era lasciata alle spalle non le avesse mai causato la benché minima nostalgia, e, anzi, era stata una liberazione, per lei, andarsene.

– Non potresti prestarmi qualche tuo vecchio vestito? –

– Lo avrai – le assicurò Lucius. – Per uscire a comprartene qualcuno per te. –

– Anche volendo, Regan, nessuno dei miei vestiti si adatterebbe alla tua figura – la blandì Eleonora. – Te li dovrei stringere e, credimi, il cucito non è proprio il mio forte. –

Effettivamente, come Regan scoprì due ore dopo, anche il più attillato abito di Eleonora a lei andava decisamente abbondate in quei punti strategici che in una donna adulta erano già perfettamente sviluppati, ma che per lei ancora scarseggiavano.

– Non badare a come ti sta questo – le disse Eleonora, dopo averle aggiustato addosso l’ampia gonna del vestito blu, intercettando la sua espressione scoraggiata. – Le sarte in città ti sapranno consigliare qualcosa che ti si addica di più. –

Era molto semplice, di un colore indaco tenue e una striscia bianca centrale che dal seno scendeva fino all’orlo, il corpetto impreziosito da una serie di lacci intrecciati che Eleonora le strinse con misericordiosa moderazione.

– So cosa si prova a farsi stritolare in uno di questi affari infernali. –

Fu però impossibile trovarle un paio di scarpe intonate: Eleonora aveva un piede non molto più piccolo di quello di Regan, ma abbastanza perché la sua misura fosse incompatibile. Le toccò quindi rimettersi gli stivali, scoprendo peraltro che non stavano poi così male come aveva temuto.

E così non c’era stato verso di opporsi, né scusa che tenesse: a metà mattina Lucius le aveva messo in spalla il mantello nero donatole da Angina, l’aveva trascinata fuori di casa e, sotto all’occhio vigile di Rok, l’aveva condotta sul retro, dove sorgeva una piccola stalla che la sera prima non aveva notato. C’erano tre cavalli, dentro: uno stallone nero, una giumenta morella e, nello stesso cubicolo, un puledro con una stella bianca tra gli occhi. Erano bestie magnifiche, lustre e superbe, ed era evidente che Lucius tenesse molto a loro, perché c’erano montagne di fieno a riscaldarli e le mangiatoie erano colme di frutta e verdura, sia d’avanzo che fresche.

Regan si avvicinò con remissione al fiero stallone e allungò una mano verso il suo muso.

– Attenta, non è molto… –

Qualsiasi cosa Lucius fosse stato sul punto di dire, rimase impronunciata. La mano di Regan si era già posata sul pelo ispido del cavallo e lo stava accarezzando piano. Riusciva a sentire la potenza nei suoi muscoli tesi, il calore del sangue che gli pulsava nelle vene, e il cuore che lo spingeva. Sentiva la sua vita scorrerle prorompente sotto le dita.

Era quasi assordante, nelle sue orecchie, ma meraviglioso.

– Freyr, vecchio mio, da quando in qua ti lasci domare da qualche moina? – si sorprese Lucius, dando qualche colpetto al collo possente dell’animale, il quale rispose con uno sbuffo permaloso e si ritrasse, sfuggendo alla portata di Regan.

– Considerati onorata. Generalmente questo ragazzaccio accoglie gli estranei con minacce di morte imminente. –

Lucius sellò la giumenta con gesti accorti e adoranti, poi la portò fuori, e lei accolse con un nitrito lieto la folata d’aria fresca che la sfiorò appena uscita.

– Freya è la più mansueta con la gente nuova. Non dobbiamo fare molta strada, ci sopporterà bene entrambi. –

Regan evitò di sottolineare che quello alto e grave di muscoli era lui.

– Ora reggiti bene a me – le ordinò Lucius. Le lasciò appena il tempo di aggrapparsi ai suoi fianchi: spronò dolcemente la giumenta e questa partì immediatamente con una piccola impennata.

Cavalcare era abissalmente diverso da come lo aveva immaginato: per Lucius sembrava naturale, come se lui e Freya fossero stati una cosa sola, ma se non ci fosse stato lui, Regan non aveva idea di come sarebbe riuscita a rimanere in groppa, soprattutto a quella velocità. Nonostante la scomodità, però, le piaceva, e anche molto. Il rumore attutito ma potente degli zoccoli di Freya che battevano veloci sul terreno le mandava scariche di ecitazione in tutto il corpo; provava il forte desiderio di poter prendere le briglie e condurre quella corsa straordinaria. Le sue dita affondarono istintivamente nell’addome di Lucius, incontrando muscoli tesi sotto a diversi strati di stoffe. Riusciva quasi a indovinarne le linee, la precisa trama che tratteggiavano sotto i suoi palmi.

– Ti piace? – urlò Lucius nel vento.

– È fantastico! – urlò lei, entusiasta.

Impiegarono meno di quanto Regan si sarebbe aspettata per raggiungere il centro della città. Quello che nella stanchezza della notte precedente le era parso un tragitto interminabile, ora era volato sulle invisibili ali della velocissima Freya, che li aveva portati la galoppo come se non avessero avuto peso. Rok li aveva seguiti dal cielo.

Kauneus non aveva una distinzione vera e propria tra centro e sobborghi, sostanzialmente perché i palazzi delle famiglie nobili e degli arricchiti erano tutto ciò che si poteva scorgere in ogni dove. Solo nel cuore della città – una zona che si estendeva entro il raggio di mezzo miglio partire dalla Piazza del Vecchio Regno – si incontravano le botteghe e le taverne, punto nevralgico della vita cittadina. Tutto era a misura degli alti tenori di vita degli abitanti e costruito sulla loro rispettabilità. All’epoca dell’istituzione delle Monarchie, un millennio prima, Norden era stata la Terra da cui erano provenute tutte le famiglie dei regnanti e tuttora restava la sede preferenziale delle antiche nobiltà del Mondo Occulto. Le casate nobiliari residenti al di fuori di Norden tendenzialmente non erano viste di buon occhio da quelle che invece vi dimoravano da sempre, poiché la distanza dal cuore di origine del potere regnante stesso veniva considerato una manovra per sottrarsi al controllo centrale e tramare contro lo status quo delle Terre, come era già accaduto in passato. Nomi di antichi lignaggi come Dresden e Kashman erano diventati sinonimi di traditore e coloro che li portavano venivano guardati con sospetto, sopportando ancora, dopo centinaia di anni, il peso degli errori commessi dai loro antenati.

Lasciarono Freya in una piccola scuderia dove a quanto pareva Lucius era quasi di casa. Salutò lo stalliere con un cenno e gli lasciò cinque corone in più, raccomandandosi che la cavalla fosse debitamente foraggiata.

Passeggiando per la città, Lucius le impose di tenerlo a braccetto, come stavano facendo tutti gli uomini con le dame che accompagnavano.

– Perché? Non sono una vecchia rimbambita, so camminare anche da sola! – protestò lei.

– Perché è così che una fanciulla rispettabile si accompagna a un gentiluomo in pubblico – tagliò corto Lucius, ma non era del tutto certa che fosse serio. – L’immagine ha un notevole peso. Forse non lo diresti, ma qui hanno tutti una certa stima di me. –

– Ancora non ho capito il motivo. –

– Credo sia perché sono bello, simpatico e discretamente talentuoso. –

– Dimentichi dotato di invidiabile modestia. –

– Oh, è vero, quella me la scordo sempre! –

Per strada Lucius si fermò a una bancarella dietro cui stava una donnina minuscola sepolta sotto strati e strati di vaporosa lana variopinta. C’era un grosso paiolo fumante sul banco, che emanava un odore speziato molto intenso misto a miele e limone.

Sima, bevanda tradizionale di Norden, una delle più antiche. Delizioso e ottimo contro il freddo. Vuoi assaggiare? –

Regan spinse via a naso storto il bicchiere che Lucius le offriva, nauseata dal sentore di alcol.

C’era una sartoria lì vicino, e a un certo punto ci si ritrovò dentro senza che nemmeno le fosse chiesto se le andasse di entrarci.

– Vedi qualcosa che ti piace? – le domandò, mentre lei osservava alcuni modelli esposti sulle stampelle. Era una sala scura, colma di grotteschi manichini acefali che indossavano gli abiti in vendita con una rigidità che metteva inquietudine. Le altre due clienti presenti, madre e figlia, non sembravano affatto disturbate da quelle presenze inanimate e passavano in rassegna un gruppo di abiti di fattura molto più modesta rispetto a quelli che stava guardando lei, ma pur sempre fastosi.

Sarebbe stato scortese rispondere a Lucius un no secco come quello che Regan aveva in mente, così finse un vago interesse per l’abito più lungo e ricercato che avesse mai visto: rifiniture, decori e dettagli rosso carminio venavano il prezioso tessuto di un bianco cangiante che ne rifletteva lievi sfumature su ogni piega che si formava.

Neve colata di sangue.

– Questo non è male – commentò, mentre già si immaginava a inciampare come una stupida in tutto quel’eccesso di stoffa. Lo stile di Angina poteva non essere altrettanto scenografico, ma senz’altro le si addiceva meglio.

– Lo prendiamo – disse Lucius a una donna dall’aria austera che supervisionava gli acquisti da dietro alle sottili lenti di due occhialetti a mezzaluna. Questa si affrettò verso la stampella e in un lampo l’abito era devotamente ripiegato tra le sue braccia. Accadde lo stesso con un altro paio di abiti; fosse stato per Lucius, si sarebbero portati via mezza sartoria. Sembrava che per lui i soldi non avessero né valore né limite.

– Cercate di stare dritta e ferma, milady. –

Regan si raddrizzò meglio che poté mentre la sarta le infilava spilli in ogni dove, sollevando, accorciando, stringendo. Milady era un appellativo che proprio non le si pennellava bene addosso. Se ne stava in piedi su una specie di sgabello in una stanzetta nel retrobottega; c’era un caminetto a riscaldare l’ambiente e un angolo era stato adibito al cambio degli abiti, separato dal resto dello spazio da una tenda rosso scuro. Lucius sedeva su una poltrona in disparte, seguendo con scarso interesse l’opera della donna, da dedicandone in compenso parecchio alle reazioni di Regan, che lo guardava funerea come se quegli spilli, anziché nel tessuto, glieli stessero conficcando nella carne viva.

– Non essere così entusiasta. Madame Shawn potrebbe pensare che tu dia troppa importanza al tuo guardaroba – la prese in giro Lucius, le gambe accavallate in una posa rilassata.

Lei si limitò a mostrargli la punta della lingua, cosa che fortunatamente Madame Shawn non notò, o si sarebbe resa conto di quanto quel milady fosse inappropriato. Regan si rifiutò categoricamente di rimanere là dentro a tempo indeterminato per farsi adattare ciascuno dei capi rimanenti. Lasciò che la sarta le prendesse le misure, poi, nonostante le sue aperte rimostranze, la lasciarono a occuparsi di tutto senza un modello reale su cui lavorare. Regan preferì non indagare sulla quantità d’oro che c’era nel pesante sacchetto che Lucius depose in mano alla donna.

Prima dell’ora di pranzo Lucius riuscì anche a trascinarla a comprare qualche paio di scarpe. Andandosene in giro assieme a lui, Regan si sentiva una specie di celebrità. Sembrava che tutti lo conoscessero: chi non si fermava a salutarlo personalmente, gli sventolava una mano dall’altro lato della strada, o affrettava un cenno passando.

– Sei davvero così famoso? – gli disse, dopo che l’ennesima dama gli ebbe rivolto un sorriso così sfacciatamente civettuolo da passare per provocazione, che lui aveva puntualmente ignorato.

– Diciamo pure di sì. –

– Sei una personalità di spicco, per caso? Perché non mi era sembrato che il Coordinatore Generale ti trattasse con molto riguardo. –

– Castalia mi tratta così perché sono una personalità di spicco. Avrai notato che le piaccio quanto un spillo conficcato in un occhio. –

– A voler essere proprio generosi… –

Lui emise una breve risata di approvazione.

– Esattamente. Sai, non sono certo così popolare per merito nel mio fascino, anche se so che è difficile crederlo. –

Mentre camminavano, Regan si guardava intorno avida. Le insegne delle botteghe erano una delle cose più affascinanti che trovò: in legno o in rame, dipinte o naturali, con simboli, disegni o interi motti incisi assieme al nome.

– E allora per che cosa lo sei? –

Lucius si fermò davanti all’ingresso di una taverna che recava l’insegna Quercia d’Argento con un sorrisetto misterioso:

– La luna brilla perché guarda il sole – fu la sua altrettanto misteriosa risposta.

Era impossibile guardarlo senza lasciarsi distrarre dall’azzurro tempestoso delle sue iridi. Qualcosa si nascondeva dietro al suo sipario di spavalderia, ma di cosa si trattasse, Regan non lo avrebbe saputo dire.

Ben felice di prendersi una tregua dall’andirivieni che le era toccato sopportare per tutta la mattinata, seguì Lucius dentro alla taverna, dove un’ondata di denso tepore li accolse. Non aveva molto appetito a causa della colazione abbondante, ma aveva voglia di qualcosa di caldo con cui riscaldarsi le mani intirizzite dal freddo.

– Hey, guardate un po’ chi viene a degnarci della sua presenza! –

Era stata una voce maschile a levarsi al di sopra del chiacchiericcio indistinto degli avventori per raggiungere lei e Lucius fin nell’ingresso. Regan lo individuò in fondo alla sala: un ragazzo biondo che sventolava un braccio per attirare l’attenzione, circondato da una manciata di compagni.

Lucius sollevò una mano per ricambiare.

– Mariek – i due si scambiarono una pacca sulla schiena. – Come stai? –

– Ma come fai a distinguerci sempre? Parola mia, vecchio, un giorno riuscirò a estorcerti il tuo segreto. –

Un altro ragazzo era spuntato dal nugolo che affollava il tavolo e si era fatto avanti; era identico al primo. Entrambi magri e biondissimi, lineamenti tracciati con precisione e simmetria impeccabili, con occhi neri e insolenti e dotati della bellezza affilata tipica delle genti del Nord. Regan riusciva a distinguerli solo perché Mariek portava i capelli legati e l’altro no.

– Me lo porterò nella tomba, Ember, te lo posso assicurare. –

C’era un numero non ben definito di mantelli, sciarpe e guanti ammassati a un’estremità della tavola, e quel che restava dello spazio era ingombro di piatti e scodelle, vassoi ancora pieni a metà, brocche di vino, acqua e calici. A occupare la panca c’era una mezza dozzina di giovani dall’aria un po’ brilla e in vena di risate.

– Non ci presenti la tua nuova amica? –

Un terzo ragazzo si era alzato per raggiungerli. Anche lui, come i primi due, aveva lunghi capelli dorati e occhi neri screziati di trasparenze più chiare. Doveva essere di qualche anno più giovane, ma tutti e tre si somigliavano tanto da non poter essere altro che tre fratelli.

Lucius confermò subito la sua intuizione:

– Regan, ricordi Prince? Bene, loro sono i suoi fratelli minori: Ember e Mariek, flagelli gemelli dei cuori di tutte le giovani dame di Kauneus e delle allieve dell’Accademia della Domus Aurea, e questo è… –

– Aeden – si presentò autonomamente il terzo, esibendo un baciamano che tolse a Regan ogni facoltà di parola. Per quanto stupefacente, Lucius aveva amici che sapessero cosa fosse il galateo, a quanto sembrava.

– Anneli e Prince non ci sono? –

– Anneli è a casa a studiare – rispose Ember sottovoce con una smorfia, come se si trattasse di un fatto di cui vergognarsi – E Prince è in giro a setacciare le Sette Terre per mettere insieme qualche ipotesi decente su quanto successo alla Corte. È partito stamattina con qualcuno dei suoi. Desmond è ancora ufficialmente disperso e nessuno crede veramente che sia finito maciullato tra le ceneri della sua casetta –

Regan serrò i pugni. Da un lato detestava la frustrazione che l’amnesia le causava, impedendole di essere di qualche aiuto a quella gente, dall’altro continuava a essere fermamente convinta che, come aveva detto Angina, forse non era un male che avesse dimenticato. Non possedendo ricordi, si basava sugli istinti che le erano rimasti incisi dentro, tracce indelebili di eventi dimenticati che ancora agivano, attraverso nebbiose sensazioni, per guidarla lungo un sentiero che era costretta a percorrere a occhi chiusi. Quegli stessi istinti, del tutto spogli di razionalità, le suggerivano una strana inquietudine, nel sentir proferire il nome di quell’uomo.

– Sedetevi! – Mariek gesticolò in direzione dei posti vuoti sulla panca. – Unitevi a noi. Vi facciamo portare dei piatti, c’è ancora una montagna di roba da mangiare! –

Quando Lucius aveva detto a Regan di essere molto popolare, lei lo aveva preso come una battuta eccessivamente gonfiata, mentre invece sembrava essere la verità nuda e cruda: l’oste in persona era venuto a porre i suoi omaggi, così lieto di rivedere il “caro ragazzo” che decise che avrebbe offerto lui da bere. Anche i ragazzi della piccola combriccola lo trattavano con una sorta di amichevole reverenza e pendevano dalle sue labbra, sebbene fosse più giovane della metà di loro. E lui, dal proprio canto, era perfettamente a suo agio tra loro, ridanciano e rumoroso, come un leader tra i suoi seguaci. Gli altri tre ragazzi del gruppo erano compagni di Accademia dei fratelli Edelberg, anch’essi rampolli di notabili di Kauneus. Due di loro, i cugini Emeric e Kama Devore, due ragazzoni dai riccioli rossi, avrebbero terminato il loro percorso accademico a fine anno, mentre l’altro, Breys Devore, fratello di Emeric, era abbastanza giovane da aver appena cominciato.

Nessuno di loro diede segno di provare verso Regan una particolare curiosità che esulasse da quella che ci si sarebbe aspettata da un manipolo di giovanotti scapestrati di fronte a una piacente donzella.

– Hai detto che si fermerà da te per qualche tempo, Lucius? – stava informandosi Ember, occhieggiandola suadente dall’capo lato del tavolo.

Accanto a lei, Lucius annuì, infilandosi in bocca una generosa forchettata di arrosto.

– A tempo indeterminato. –

Avevano raccontato che Regan era stata affidata a lui per via di circostanze particolari, senza addentrarsi troppo in dettagli superflui di cui non era il caso discutere in pubblico. Da come però reagirono gli Edelberg, era facile sospettare che sapessero qualcosa più degli altri.

– Prince lavora per la Lega – le spiegò infatti Lucius in un orecchio. – Il Nucleo di Norden è uno dei più funzionali, assieme a quello di Brenner e Corterra. Sono pronto a scommettere che la sua famiglia sia stata tra i primi a venire a conoscenza della tua storia. –

– Spero vivamente che avremo il piacere di rivederti spesso, Regan – stava dicendole Mariek con una strizzatina d’occhio sfacciata.

– La vita sociale di Lucius non è mai stata granché brillante – intervenne Ember, sporgendosi verso di lei attraverso il tavolo. – Lui è uno che preferisce la solitudine al sano divertimento… vallo a capire. Quindi vedi di convincerlo a portarti a qualche festicciola delle nostre, a Medilana. Ti garantisco che sapremmo farti divertire! –

– Oh, puoi starne certa – Accanto a lei, Aeden sorrise soavemente ai due fratelli maggiori. – Hanno un animo così altruista e generoso da non saper negare l’onore della propria compagnia a qualunque bella fanciulla abbia la sventura in incrociare il loro cammino. –

Lui era diverso dai gemelli: più serio e composto, più maturo, tanto negli atteggiamenti quanto nei discorsi, e sembrava fosse lui a tenere a bada loro, anziché il contrario, come la naturale gerarchia avrebbe voluto.

– Le fanciulle non si limitano a incrociare il nostro cammino, fratellino. Loro ci si buttano a capofitto – sghignazzò Mariek, e lui ed Ember scoppiarono a ridere.

Aeden sospirò e volse gli occhi al cielo come un padre che aveva a che fare con figli ingestibili e li lasciò nel loro brodo.

– Nostro padre ha chiesto di te – disse a Lucius. – Era parecchio che non tornavi a Kauneus. Ci farebbe piacere una tua visita, qualcuno di questi giorni. –

Regan ascoltava interessata. Non sapeva granché di Lucius e le sarebbe piaciuto conoscere qualcosa di più, di lui. Aveva un rapporto piuttosto intimo con gli Edelberg, a quanto pareva.

– Vi conoscete da molto tempo? – indagò.

– Una decade, anno più, anno meno – rispose Lucius. – Lord Edelberg è stato uno dei primi a darmi fiducia, quando sono entrato nella Lega, e da allora mi ha sempre tenuto sotto alla sua ala protettrice. –

– Non che tu ne abbia bisogno, vero? – si intromise Ember, emergendo per un momento dal discorso che stava intrattenendo con i Devore.

Il ragazzo di nome Emeric gli diede man forte:

Nessuno meno di lui. –

– Il mio cuore brama il momento in cui sarò anch’io un membro della Lega – sospirò Mariek, languido, con una mano sul cuore. – Dedicare la mia umile vita al servizio della Luce del Nord… a cosa potrei aspirare, di più? –

– A uscire dalla Domus senza una reputazione da buffone perdigiorno, per esempio – completò Aeden al posto suo, facendo ridere tutti.

Era la seconda volta che Regan sentiva nominare questa misteriosa Luce del Nord e ancora non era riuscita a capire di cosa si trattasse. Stava per domandare qualche delucidazione, ma qualcosa la bloccò: c’era un uomo seduto a un tavolo in un angolo. Era solo, con nient’altro che una fiasca di un vino dalla colorazione violacea molto scura davanti, che di tanto in tanto si versava nel calice. L’ombra gettata dal cappello che non si era tolto, dando prova di una certa maleducazione, gli nascondeva metà del volto. Le sembrò strano che, nonostante i suoi abiti fossero di un certo pregio, fossero così sciupati. La stava osservando.

– Serviti, sciocchina, non hai fame? –

Regan si accorse che Lucius si era già riempito un piatto di vivande e le stava porgendo un vassoio rotondo con delle costine di maiale. Quando guardò di nuovo, l’uomo si stava facendo i fatti suoi e fissava cogitabondo il fondo del suo calice.

– Cerbiattina, parlo con te. –

– Perché la gente mi fissa? –­ Sbottò lei, infastidita.

– Perché sei molto carina? –

­Lei gli propinò un’occhiata torva.

Lui rimase immobile un istante, poi posò il vassoio e la guardò con compassione. Si avvicinò a lei e sospirò.

– Dovrai farci l’abitudine, temo. Sei abbastanza vistosa, sai? –

Le sistemò una ciocca dietro all’orecchio con una dolcezza lenitiva, un gesto che in un luogo come quello, pieno di parlottii e occhi indiscreti, era decisamente fuori luogo.

– Fintanto che ti fisseranno senza nuocerti, non mi preoccuperò. –

– E io quand’è che mi dovrò preoccupare? –

– Mai, finché ci sarò io. ­–

La vibrazione di una promessa.

La sua voce calda era balsamo per qualsiasi turbamento. Non che lei fosse veramente preoccupata; trovava solo una scocciatura avere sempre degli occhi puntati addosso in quel modo, nemmeno fosse stata un mostro.

Eppure era esattamente come un mostro che l’aveva guardata la guardia, a Medilana.

– Su, adesso mangia qualcosa, da brava – Lucius le rifilò nel piatto un paio di costine. – E ringrazia i signorini Edelberg per averci offerto il pranzo. –

– Chiamami un’altra volta signorino e ti offrirò un pugnale nello sterno – lo minacciò Mariek.

Ember allungò una gomitata al gemello:

– Signorino Edelberg, non siate scortese! –

Signorina Edelberg, evitate di fare le veci della vostra balia! –

– Razza di… –

– Devi scusare la loro puerilità, Regan ­– le disse Aeden, coprendo l’insulto del proprio fratello. – Hanno un cervello in due e come vedi non funziona nemmeno tanto bene. –

– Se il nostro cervello fosse attivo quanto tu sei noioso, ne saresti sicuramente entusiasta – lo rimbeccò Ember, sdegnoso.

A Regan piaceva starli a guardare. Le piaceva la loro complicità, il modo scherzoso con cui si insultavano e prendevano in giro. In Ember e Mariek, soprattutto, percepiva un legame fortissimo, e in un certo senso Aeden aveva ragione: era come se fossero un’unica entità divisa a metà, lo stesso spirito che due corpi distinti. E quel senso di appartenenza che quei ragazzi mostravano di provare l’uno verso l’altro, in lei mancava completamente. Come aveva detto Lucius, anche senza ricordi, le esperienze lasciavano impronte tangibili nell’anima, e l’impronta di una famiglia in lei non c’era.

Trascorse un pomeriggio piacevole alla taverna. Tra un boccone e l’altro e aneddoti più che pittoreschi raccontati dai ragazzi circa certe loro avventure entro le storiche mura della Domus Aurea, le ore si consumarono velocemente, tanto che, senza che se ne rendessero conto, l’oste era passato ad accendere i lumi dei tavoli e delle pareti. Due grossi lampadari, inoltre, ribollivano ora di una morbida luce dorata sopra le teste degli avventori.

Era sera, fuori, anche se l’ora non era poi così tarda. Da una delle finestre si poteva intravedere l’orologio di una torre che, nel baluginio lunare del kival, segnava appena la quarta pomeridiana. Il buio scendeva più in fretta, al Nord, durante l’inverno.

Le poche dame che avevano animato l’atmosfera con cori di risolini e pettegolezzi indiscreti si stavano alzando, probabilmente per recarsi di nuovo a casa dai mariti e dai figli, appena in tempo per dare istruzioni ai domestici per la cena. Gli uomini e i giovani si sarebbero attardati ancora un po’, meno vincolati dai sacri doveri delle matrone. Dalle cucine già proveniva l’odore invitante delle pietanze serali e a breve i tavoli sarebbero stati liberati dalle bottiglie di liquori e teiere di tisane fumanti per lasciare posto ai calderoni delle minestre e degli stufati. Sporte di pane erano già pronte per essere distribuite con le ordinazioni, da intingere nelle salse o tuffare nei densi brodi aromatizzati.

Regan si scoprì a pensare che le sarebbe piaciuto lavorare in un posto simile, anche soltanto per poter sentire tutti i giorni quei profumi, e il calore e l’allegria della gente che si incontrava. Ne era incantata, come una bambina di fronte alla prima bambola della sua vita.

– Ti sei divertita? – le chiese Lucius mentre uscivano, e la quinta era ormai prossima sulla torre dell’orologio.

– Molto. E credo anche di aver mangiato a sufficienza da poter digiunare per il resto dell’inverno. –

– Eleonora non ne sarà contenta. Sono pronto a scommettere che ha già preparato una lauta cenetta per noi. –

Una grossa ombra sorvolò le loro teste. Rok doveva essere nei paraggi. Qualche fiocco di neve, intanto, aveva iniziato ad abbandonare il cielo, tracciando ghirigori invisibili nell’aria fredda mentre lentamente scivolava verso la terra. Uno si andò ad adagiare proprio sulla punta del naso di Regan, strappandole un sorriso.

– È straordinario, vero? – disse Lucius, guardando in su. Anche lui stava sorridendo. – C’è qualcosa di magico a Norden che nelle altre Terre non c’è. –

Era amore quello che gli si leggeva negli occhi d’acqua, un’emozione che luccicava di vita propria, come un riflesso di qualcosa di più profondo.

“Casa è dove è il cuore.”

– Hey, Lucius! –

Pochi metri avanti a loro, due ragazze sventolavano le mani guantate con aria civettuola. Si avvicinarono ridacchiando e sussurrandosi qualcosa. Lucius concesse loro un saluto galante:

– Lady Sapphire. Lady Somerville. –

– Non avevo idea che tu fossi in città! – ciarlò la prima, una bruna dall’aria scaltra, alta e magra come un fuso. – Mi ero rassegnata a dover attendere il Solstizio per rivederti. –

La sua amica, più bassa e decisamente meno aggraziata di lei, gli scoccò un’occhiata di apprezzamento, ma non osò aprire bocca.

Regan, che si era volutamente tenuta in disparte fingendo di osservare una statua equestre lì vicino, ascoltava facendo finta di niente.

– Non mi aspettavo nemmeno io di rientrare – stava replicando Lucius, serafico come suo solito. – Non so neppure quanto mi fermerò, a dire il vero. –

– Abbiamo speranze di vederti al ballo? –

– Difficile a dirsi. Ma la speranza è sempre l’ultima a morire, dopotutto –

Continuarono a scambiarsi pochezze degne di una combriccola di comari, e Regan intuiva nel tono salottiero di Lucius una celata patina di fastidio, che lei peraltro condivideva pienamente. Le due ragazze erano più mature di lei, ma probabilmente anche di lui, eppure l’atteggiamento della bruna – Lady Sapphire – era un pubblico manifesto di tentata – e palesemente fallita – seduzione.

Un suono insolito nel vicolo lì accanto distrasse Regan dal suo attento origliare. Le era sembrato un guaito, o forse un vagito. Proveniva da un angolo in fondo allo stretto passaggio. Decise che, piuttosto che sorbirsi la voce petulante di Lady Sapphire che faceva la civetta con Lucius, poteva anche arrischiarsi ad andare a controllare di che cosa si trattasse.

Senza pensarci, si allontanò e si mise a setacciare il vicolo. C’era una botte colma di rifiuti, avanzi di cibo putrescenti della taverna, e una catasta di legname umido su cui si era già formato un discreto strato di neve.

– C’è nessuno? – provò a chiedere. Ciò che le giunse in risposta fu un mugolio sommesso indistinguibile. Sembrava quasi il verso di un animale.

Seguì una specie di scia sensoriale, attirata da chissà quale istinto verso una seconda botte, anch’essa adibita a deposito per rifiuti. Notò una serie di trappole legate da catene sparse a terra, con esche di carne e formaggio ammuffito. Con tutta quella sporcizia, i topi dovevano prosperare. Era buio, lì in mezzo: i due muri erano così ravvicinati che la luce del giorno a stento penetrava, lasciando il kival privo della sua caratteristica fosforescenza.

D’un tratto una catena si mosse, facendola sussultare. Si diede della sciocca: si trattava sicuramente di un ratto che era rimasto vittima delle trappole. Guardò meglio, cercando tra la densità delle ombre, ma non riusciva a distinguere nulla. Poi lo vide, in un angolo debolmente rischiarato dalla luce che penetrava da una finestra.

Era un esserino bizzarro, alto circa trenta centimetri, e sembrava uno strano ibrido tra un gatto e un orso in miniatura. Era completamente ricoperto di una folta pelliccia fulva, lunghi arti sottili ripiegati in una posa accovacciata. Due enormi occhi neri e lucenti occupavano metà del volto, appena sopra un minuscolo naso nero e un muso schiacciato. Le sue dita filiformi erano strette attorno a quello che aveva tutta l’aria di essere un bracciale d’oro zecchino. Una delle sue zampette era imprigionata nella morsa impietosa di una tagliola, lasciando macchie di sangue sul terreno.

Non appena la vide, l’animale arretrò spaurito, stringendo gelosamente il gioiello, trascinandosi dietro anche la tagliola. Regan sentì il suo dolore come fosse dentro di lei. Mossa a pietà, si accovacciò e allungò una mano verso di lui.

– Tranquillo, ti voglio aiutare. –

Naturalmente sapeva che la bestiola non avrebbe compreso, ma non avrebbe saputo che altro fare per rassicurarlo se non usare quel tono gentile.

– Non ti farò del male, te lo prometto. –

Parve funzionare: il buffo animaletto non le andò incontro, ma se non altro non tentò di scappare. Era calmo, anche se non accennava ad allentare la presa sul bracciale. Regan cercò di fare piano: si accostò lentamente, continuando a ripetere alla creatura che le sue intenzioni era buone. Non sapeva nemmeno lei perché lo facesse, ma funzionava.

Le ci volle un po’, buio com’era, per capire come allentare la tagliola. Trovò la leva dopo un paio di tentativi alla cieca che le costarono qualche taglio, ma alla fine la molla scattò.

– Piano, ora. Sei ferito – disse all’animale, prendendolo tra le proprie mani. Era soffice e leggero e tremava come una foglia. Sotto alle mani di Regan pulsava nitida la sua sofferenza, mista però a una fiducia che la fece piacere riconoscere. Gli sfiorò la ferita con cautela: non era profonda, ma rischiava di infettarsi se non fosse stata debitamente disinfettata. Avrebbe voluto poter essere in grado di guarirlo, ma era un potere da angelo, quello, e lei di certo non lo possedeva. Proprio mentre lo pensava, però, nel punto in cui le sue dita toccavano la carne viva il sangue iniziò a riassorbirsi.

Regan ritrasse la mano, il cuore che saltava stupefatto un battito. Quello che stava succedendo non era normale.

Abbassò lo sguardo sul muso della bestiola: la stava guardando con gli occhioni spalancati da un’espressione che, per quanto assurdo potesse sembrare, si sarebbe potuta dire supplichevole.

Benché non sapesse esattamente cosa fare, Regan provò di nuovo ad appoggiare le dita sullo squarcio nella folta pelliccia. Non accadde nulla.

Forse, si disse, si era immaginata tutto.

Io non posso guarirti...

Fu come era accaduto con il candeliere a casa di Lucius: bastò il semplice pensiero, quasi ignaro e privo di reale volontà. Una scintilla di energia si accese e senza che lei se ne rendesse conto la ferita di rimarginò in un alone di sollievo. Regan non riusciva a capacitarsene: era impossibile che lei avesse fatto quello che aveva appena fatto.

Un rumore improvviso le fece sollevare di scatto la testa. Non vide che un’ombra muoversi tra altre ombre.

– Regan! –

L’esserino, spaventato dal richiamo imperioso di Lucius, scalpitò furiosamente, sgusciandole via dalle mani. Non riuscì nemmeno a vederlo, tanto fu lesto nel dileguarsi. Nello stesso istante, un uccello volò via dal tetto della taverna, facendo cadere un cumulo di neve.

– Sei impazzita? Mi sembrava di averti ripetuto più di una volta di restare con me! –

La prese per un braccio e la sollevò come se fosse stata una piuma, trascinandola fuori dal vicolo alla luce bianca delle vie principali.

– Cos’hai fatto alle mani? –

– C’era un animale incastrato in una tagliola… l’ho liberato. –

– L’hai… – Lucius la guardò incredulo. – D’accordo, lascia che ti spieghi una cosa, e voglio che tu mi stia bene a sentire – la afferrò per le spalle, piegandosi appena sulle ginocchia per poterla vedere meglio negli occhi. – Io ho rischiato la pelle per sottrarti alle grinfie di un losco figuro che non aveva certo intenzione di darti un buffetto su una guancia, e il suddetto losco figuro è attualmente ancora chissà dove a piede libero, e adesso tu, se permetti, dovresti avere la cortesia di ricambiare il mio gesto sforzandoti di non andarti a cercare i guai dietro ogni angolo. Pensi di poterlo fare? –

– Ma io… –

– Pensi di poterlo fare? – ripeté Lucius, marcando di più le parole.

Regan, che non aveva avuto alcuna intenzione andarsi a cercare guai, non poté far altro che assentire.

– Bene. Andiamo, adesso. Si è fatto tardi, Eleonora si starà chiedendo dove siamo finiti. –

Se all’andata la strada le era sembrata così breve, al ritorno divenne interminabile. Freya galoppò senza sosta tra la neve che scendeva fitta e silenziosa, nuvole di vapore che si sollevavano dalle sue narici. Stretta a Lucius, gli occhi chiusi, Regan respirava nel vento ghiacciato un profumo che per lei un po’ già sapeva di casa.



– Dov’è Lucius? – chiese due giorni dopo, a colazione.

Le aveva lasciato nient’altro che un biglietto sul tavolo della cucina con due righe buttate giù di fretta in cui le diceva di andare da Eleonora, che le avrebbe spiegato lei, e le raccomandava di non uscire dalla recinzione delle case.

– È andato a Cittanuova. Il Coordinatore di Astereis l’ha convocato all’alba per un consulto urgente. –

­– Pensi che si tratterrà a lungo? –

– Dipende dal motivo del consulto. A volte va e torna in giornata, altre sta via dei giorni. –

Calien era già sveglio e arzillo: sedeva a gambe incrociate sul tappeto accanto al focolare, la zazzera bionda irrorata dai bagliori del fuoco, e giocava con le fiamme, stando semplicemente a guardarle, e sembrava che esse gli obbedissero come se fossero sue schiave, completamente succubi della sua volontà, allungandosi, attorcigliandosi, avvolgendosi tra loro in spirali e volute straordinarie. Sembrava così semplice, a vedersi.

Eleonora canticchiava allegra, rassettando la cucina illuminata da un terso sole invernale. Non sembrava preoccupata. Era la decima mattutina passata, ma Regan fece sparire senza troppi problemi tutto ciò che le fu proposto, poi Eleonora sparecchiò e mise tutto nel lavello.

– Mi dispiace, ma temo che oggi ti toccherà annoiarti –

Regan le diede una mano a ripiegare la tovaglia.

– Stavo pensando di uscire a fare due passi – buttò lì, pur sapendo che Lucius glielo aveva espressamente vietato.

– Tu non vai da nessuna parte, da sola. Se vuoi puoi uscire in giardino a fare a palle di neve con Calien. –

– Che differenza fa? – si lamentò Regan, che fin dal primo momento che era scesa dalla carrozza di Prince Edelberg aveva desiderato addentrarsi nel bosco.

– Il perimetro del giardino segna il confine dei sigilli che proteggono questo posto. –

Regan si diede della sciocca per non esserci arrivata da sola. Aveva davvero creduto che Lucius la lasciasse sola senza alcun tipo di protezione?

– È per te e Calien che ha fatto tutto questo? –

Eleonora si apprestò a lavare le stoviglie. Si raccolse i capelli con un nastro e raccolse dell’acqua in una bacinella.

– I sigilli c’erano già, quando siamo arrivati noi. Quello che ha fatto per noi è un Segreto. –

– In che senso “un segreto”? –

– Non conosco i dettagli di questo tipo di sigillo – ammise Eleonora. – So quello che ha provato a spiegarmi Lucius. –

Le raccontò quel che sapeva.

Regan apprese così che i Segreti erano una magia molto complessa che in pochi erano in grado di compiere. Si trattava di rinchiudere determinate informazioni in piccole sfere di cristallo, cosicché rimanessero inapprendibili da individui indesiderati. Solo il custode del Segreto poteva trasmetterlo e decidere se chi ne era a conoscenza lo trasmettesse a sua volta. Se Lucius aveva davvero creato un Segreto per tenere nascosti Eleonora e Calien, forse era davvero il personaggio importante che diceva di essere. Una parte di lei si sentì lusingata, poiché lui le aveva permesso di apprendere quel Segreto, e questo significava che aveva fiducia in lei, che non la credeva un’impostora.

– Mi dispiace, piccola, ma finché lui non c’è, sei confinata qua dentro assieme a noi. –

Un pensiero sfiorò all’improvviso la mente di Regan.

– Se tu e Calien siete protetti da un Segreto… significa che non ve potete andare da questa casa? –

Eleonora, che le dava le spalle, smise per un momento di strofinare sui piatti.

– Lucius ci porta in tanti posti – rispose la voce trasognata di Calien, ancora intento a fissare il fuoco. – Ma sono lontani da qui. La gente non ci deve riconoscere. La mamma deve sempre nascondersi, se no la guardano male. –

L’espressione di affetto mista a malinconia di Eleonora faceva stringere il cuore.

– Sono deplorevolmente umana, non c’è verso di nasconderlo – commentò spensierata. – Mi si riconosce a colpo d’occhio. Per fortuna nei posti affollati riesco a confondermi bene, nessuno si accorge della vibrazione diversa della mia anima. Ci piacciono i mercati e le feste dei villaggi, vero tesoro? –

Calien si voltò con un gran sorriso.

– E le fiere per la vendemmia e delle nuove stagioni! –

– Va matto per gli spettacoli degli ammaestratori di falchi. –

– E per le mele candite! –

Regan passò il resto della giornata a fantasticare sui racconti che Eleonora e Calien le avevano snocciolato su tutti i viaggi che avevano fatto con Lucius. Avevano visitato ben poco Norden, per evitare di incontrare conoscenti scomodi, ma le altre sei Terre avevano lasciato molti ricordi positivi in loro, e adesso Regan si sentiva bruciare dal desiderio di poter percorrere le imponenti mura di Fortre, divise in due anelli, uno che cingeva la capitale lungo i confini e l’altro che separava la Città di Sopra, abitata dalle poche famiglie nobili, dalla Città di Sotto, la zona del popolo e della vita cittadina; voleva andare a Vihrea a vedere i leggendari giardini pensili e le vaste coltivazioni floreali che occupavano metà dei campi delle campagne, e camminare sulle strade di vetro di Shjarna, e guardare le rovine custodite al di sotto di esse; e poi c’erano i fuochi d’artificio che si tenevano ad Hazar, nella Terra di Asante, per il Solstizio d’Estate, e un milione di altre cose che la avevano ingolosita solo a sentirle nominare, anche non volendo contare l’entusiasmo che era trapelato da ciascuno di quegli aneddoti.

Passò le due notti successive in una stanzetta a casa di Eleonora, che si era categoricamente rifiutata di lasciarla dormire da sola nella casa vuota di Lucius. Nelle lunghe ore davanti al camino, prima di andare a letto, Eleonora le aveva raccontato qualcosa in più su di sé e la vita nel suo mondo, e Regan comprese in fretta che a volte avere dei genitori che ti trattavano come un oggetto era ben peggio che non averne affatto.

Lucius rientrò nella tarda sera del terzo giorno, imbrattato di neve, con il viso solcato da ombre di stanchezza e l’aria di chi ne aveva viste delle belle.

– Cos’è successo? – gli chiese Regan, ansiosa, nel vederlo apparire sulla soglia in quello stato.

– Non ora, cerbiattina – mormorò lui stancamente, e chiese a Eleonora per poteva preparargli un bagno caldo. Regan notò che aveva una busta in mano, con un marchio di ceralacca scarlatta spezzato a metà.

– Rimandiamo a domani tutte le spiegazioni. Ora voglio solo acqua calda e il mio letto. –

Piantò in mano a Regan la busta e arrancò al piano di sopra, sfilandosi il pastrano gocciolante. Si reggeva il fianco sinistro con la mano, come se gli dolesse.

Lei osservò meglio il sigillo e scoprì di conoscerlo. Era più stilizzato del ricamo sullo stendardo che aveva visto non molto giorni prima, ma ugualmente riconoscibile: lo stemma degli Edelberg. Se Lucius l’aveva data a lei, si disse, era perché voleva che la leggesse.

Curiosa, sollevò il lembo di carta che chiudeva la busta e ne estrasse un cartoncino color crema scritto da un’elegante calligrafia inclinata. Quando lesse, per poco il foglio non le cadde di mano.

“Lord e Lady Edelberg hanno il piacere di invitare a cena il Signor Lucius Henker e la sua gentile ospite, Miss Regan, per una cena informale la sera del sette di dicembre.”



Il giorno dopo erano seduti sul grosso tronco muschioso di un abete abbattuto, nei pressi di un ruscello ghiacciato nella foresta. Nonostante la temperatura rigida e i densi sbuffi di vapore in cui si addensava ogni respiro, era piacevole stare lì.

– Ho sbrigato una faccenda veloce a Cittanuova, poi sono stato convocato Radislav, il Coordinatore del Nucleo di Mauercast. È riuscito a individuare un piccolo manipolo di scagnozzi di Desmond scampati al crollo del castello, giorni fa, e ha chiesto il mio aiuto per stanarli e catturarli. Erano malconci quanto lo eri tu quando ti ho trovata, ma per nostra fortuna non si sono rimessi altrettanto in fretta. –

Lucius fissava le proprie mani con un’espressione vacua, come se i suoi occhi non potessero vedere.

Regan deglutì un groppo alla gola.

– Siete riusciti a interrogarli? Avete scoperto qualcosa? –

Le labbra di lui si contrassero in una piega amara che già la diceva lunga.

– Interrogarli è stato facile. Hanno convocato Shin, per farlo. –

A Regan balzarono subito in mente due miti occhi neri e un sorriso placido.

– Shin? Quell’angelo che… –

– Sì, lui. Non potevamo rischiare di fare invadere le loro menti da un demone. Si sarebbero opposti, e temevamo che il dolore avrebbe dato loro il colpo di grazia. Non avevano alcuna intenzione di collaborare e le… i mezzi di persuasione in uso nel Nucleo di Radislav sarebbero stati letali, in ogni caso. –

Il vento cantava in un pianto straziante tra gli alberi, che si piegavano al suo passaggio con un fruscio nostalgico, lacrime gelate che colavano silenti tra il verde argenteo. Sottili ciuffi corvini ondeggiavano sul viso pallido di Lucius.

– Siamo riusciti a estrapolare qualche informazione, anche se si è rivelata pressoché inutile –

– Sapete che cos’è successo quella sera? – domandò lei, sentendo con orrore la voce che le fremeva tra le labbra.

Aveva paura. Paura che avessero scoperto qualcosa che avrebbe cambiato la sua posizione. Ma Lucius aveva un’aria tranquilla, quasi abbacchiata.

– I prigionieri erano cinque, e tutti e cinque hanno dato all’incirca la medesima versione: sembrava tutto tranquillo, poi è scoppiato il finimondo. Desmond si era già ritirato nell’ala nord del castello, dove si trovano le sue stanze. Non sappiamo se con lui ci fosse qualcuno; è un’ala ad accesso strettamente limitato, secondo loro, e in pochi hanno il privilegio di potervi entrare. Tra la Nuova e la prima del mattino, la terra ha cominciato a tremare, sempre più forte. Non hanno nemmeno avuto il tempo di cedere al panico. C’è stato un lampo di luce che ha inghiottito ogni cosa, e un istante dopo tutto è precipitato – Si abbandonò a un sospiro esausto e frustrato. – Non ricordano altro. –

Si voltò verso Regan, e la piccola zanna che gli pendeva dall’orecchio oscillò lentamente.

– Abbiamo provato a chiedere loro di una ragazza dai capelli rossi come il sangue –

Lei trattenne involontariamente il respiro.

– Nessuno sapeva niente – proseguì lui. – Non ti hanno mai vista o sentita nominare, né tra i loro né tra i prigionieri. È come se tu fossi spuntata dal nulla. –

Regan teneva lo sguardo inchiodato a terra, sulla punta umida degli stivali che indossava, non sapendo se rallegrarsi o rattristarsi. Non era una criminale, dunque, ma nemmeno una vittima. Restava ancora aperto l’interrogativo principale, ossia: che cosa ci faceva, lei, là?

– Sono stati portati tutti a Helgrad, ora – le disse Lucius, come se ciò chiudesse la questione. – Resteranno rinchiusi nella prigione di Vankar fino al processo. –

Vankar. Regan associò subito quel nome a delle storie il cui eco stava riaffiorando nebuloso nella sua memoria: il carcere più antico delle Sette Terre, arroccato sul ciglio della rupe più alta di Mauercast, appena oltre i confini della seconda città della Terra, sorvegliato da due draghi millenari a cui, si vociferava, venivano dati in pasto i detenuti divenuti scomodi, o quelli considerati indegni di un regolare processo, come i Segnati e i Ladri di Anime.

– Ora, veniamo alle cose serie – Lucius si disfò della patina seria che aveva finora portato e ornò ad essere il solito scanzonato. – Pare che qualcuno si sia fatto degli amichetti… –

Regan inarcò un sopracciglio nella sua direzione.

– Sbaglio o avevi detto che gli Edelberg sono tra i pochi a sapere veramente chi sono? Vorranno di sicuro vedere da vicino la bizzarra straniera –

– Sono pronto a scommettere, in effetti, che Lord Edelberg nutra una qual certa curiosità intellettuale verso di te. È stato una grande guida per molti giovani neomembri della Lega, un tempo. Ma ho anche la vaga impressione che tu stessi piuttosto simpatica ai ragazzi. –

– Ma se ho a stento aperto bocca, alla taverna! –

Lucius volse pazientemente lo sguardo al cielo, una sterminata distesa di blu graffiata dal sole, ormai quasi allo zenit.

– Non dire sciocchezze, cerbiattina. Sai bene a quale tipo di simpatia alludevo. –

Regan dissimulò un sorrisetto compiaciuto. Lo sguardo le cadde sul gomito di Lucius, stretto al suo fianco in una posa innaturale.

– Ti hanno ferito, vero? –

Le fece quasi male a chiederlo. Si era affezionata a lui, le spiaceva vederlo così.

– Sono già stato rammendato a dovere – ironizzò Lucius. Una risatina incurante gli scosse le spalle prima di smorzarsi in una silenziosa smorfia sofferente.

– Ti fa così male? –

Lui sollevò stoicamente un angolo della bocca.

– Ho imparato a sopportare dolori peggiori. –

Benché qualcosa nelle vibrazioni della sua voce aveva suggerito che alludesse ad altro, a qualcosa che le parole non avrebbero potuto raccontare, i disegni tracciati dalle cicatrici che gli segnavano il corpo erano rimaste ben impresse dentro di lei, tracce indelebili di violenze che lei poteva soltanto immaginare.

– Non chiedermelo adesso – esordì lui, una mano sollevata, bruciandole sul tempo la domanda che aveva appena iniziato ad affiorarle sulle labbra. – È una storia troppo lunga e ora non abbiamo tempo. C’è un posto in cui ti devo portare. –

Regan, che uscendo di casa si era persa quel particolare, sgranò gli occhi stupita.

– Dove? – balbettò, colta dall’ansia. L’ultima cosa che le serviva era un altro incontro traumatico con qualche personaggio della risma di Castalia Reis.

– Nella Terra di Sonnerg – Lucius si alzò in piedi e la esortò a fare lo stesso. Un lupo ululava in lontananza; qualche grosso volatile si librò via da un ramo poco distante, disturbato da quel richiamo. – Nel Bosco di Aurin c’è qualcuno che vorrei che tu incontrassi. –




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A/N: grazie mille a tesorinangel, darkwish, VesiSchwartz (con cui vedo che ho molto in comune :) ) e Maharet per le bellissime recensioni. Adesso inizieremo a entrare nel vivo della storia, quindi bisogna cominciare a rizzare le orecchie, e vedo che qualcuno ha già cominciato. ;)
   
 
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