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Autore: Lady Vibeke    21/03/2011    4 recensioni
Una donna urla, la voce frammentata da singhiozzi.
Tutto è buio.
Battiti di cuore come tamburi attorno a lei, stretta tra braccia esili. Occhi innocenti di bambina si sgranano nell’angoscia dell’incapacità di comprendere quel caos improvviso.
– Dammi la bambina – Sentenzia la persona senza volto, ed è un ordine ineluttabile che impregna l’oscurità.
C’è il terrore che spadroneggia nella bimba. Troppo piccola per capire, ma abbastanza grande per rendersi conto del pericolo. E intanto quelle braccia insistono a volerla proteggere.
– Se la consegnate a me, sarà salva. Loro stanno arrivando. Se riescono a trovarla, la prenderanno e la uccideranno sotto ai vostri occhi. Datela a me. –
– Cosa vuoi da lei? –
Un lampo squarcia le tenebre. Il volto di una donna appare per un brevissimo istante al di sotto del cappuccio.
– Voglio salvarle la vita. –
Il silenzio della tensione calca sulle loro teste, impietoso. In lontananza, nitriti selvaggi si mescolano a un rumore di zoccoli in corsa.
Le braccia della ragazza si allentano attorno al corpicino indifeso della piccola. Altre due braccia sottili si aprono in un invito. Tutto è preda di una tensione innaturale. Tutto è immobile.
Poi un lampo di luce rossa divora ogni cosa.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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5. INCONTRI

 

The sun goes down
I feel the light betray me

– Papercut, Linkin Park –

 

 

Le ci sarebbero voluti secoli per abituarsi alla sgradevole sensazione del passaggio da un Portale all’altro, e al suo stomaco probabilmente non sarebbe bastato nemmeno tutto il tempo del mondo.

Lucius le stava ridendo dietro.

– Sta’ zitto, non è divertente! – lo rimbrottò lei, rassettandosi l’abito con tutta la dignità possibile.

Dall’arcata al centro della Piazza del Vecchio Regno erano sbucati al centro di un’altra piazza, notevolmente più piccola e molto meno fastosa. Aurin era una cittadina minore di Sonnerg: occupava circa un terzo dell’estensione della capitale Vihrea, ma era molto rinomata per le sue antiche tradizioni di Arte Orafa, che da secoli si tramandava di padre in figlio all’interno delle famiglie che ne avevano scritto la storia.

– Benvenuta nella Terra del Sole, cerbiattina! –

– Un ottimo primo passo, non c’è che dire – borbottò lei.

– L’importante non è non cadere, ma sapersi rimettere in piedi –

Regan fu colta da un’improvvisa illuminazione.

– Il Coordinatore di questa Terra è una donna, vero? ­Renise, se non sbaglio –

Chissà da dove le veniva quell’informazione. Non era stata consapevole di saperlo fino a quell’esatto istante.

– Esatto. Renise Urwald, la più anziana dei Coordinatori attuali –

La prima cosa che Regan notò era che lì il clima era sensibilmente più mite che a Norden. Una corolla di botteghe e osterie si affacciava sullo spiazzo lastricato di pietra rosata, al centro della quale si ergeva un baldacchino di marmo, sormontato sulla cima della tonda cupola di vetro da una scultura laminata d’oro zecchino che raffigurava un sole dai raggi serpeggianti attorno a un nucleo vuoto. Abbassò subito lo sguardo, colta da una repentina vertigine che la costrinse a sorreggersi a Lucius per non perdere l’equilibrio. Nella sua testa che vorticava emerse una visione sbiadita, Prince Edelberg che dall’alto la guardava con un sorriso solare.

Cercando di tornare in sé, Regan arrossì. Decisamente quei Portali non le andavano a genio.

C’era parecchia gente vociante in giro e una seconda corolla orlava il limitare della piazzetta: bancarelle di frutta e ortaggi, dolciumi e scampoli si susseguivano in esplosioni di colori e profumi a perdita d’occhio, finendo per perdersi nella confusione della folla. Era strano a dirsi, ma in tutto quel marasma colorato Lucius spiccava molto più che a Kauneus: alto, completamente vestito di nero, e così pallido in confronto alla carnagione olivastra degli abitanti del posto. I suoi occhi, di un azzurro più ceruleo di quello a cui Regan si era abituata sotto ai cieli nuvolosi di Norden, vagavano qua e là, esplorando la zona guardinghi. Quel luogo le era inspiegabilmente familiare; lo aveva già visto da qualche parte, ma non riusciva a capire dove. Forse faceva parte di quelle cose che aveva dimenticato.

– Sciò, sciò, intralciatori! – berciò un vecchietto ingobbito. Li scansò malamente facendosi largo con il bastone da passeggio, portando nella mano libera un grosso paniere pieno zeppo di cavoli un po’ ammaccati. Imprecando burbero in un dialetto che Regan non conosceva, varcò il Portale e scomparve. Nel medesimo istante, uscì un uomo imbacuccato in un mantello pesante, un cappello a larghe falde calcato in testa. Le passò accanto di fretta, senza nemmeno scusarsi per la spallata che le diede mentre si affrettava a disperdersi nella folla.

Regan gli imprecò dietro, massaggiandosi la spalla indispettita.

L’urbanizzazione di Aurin era molto diversa da quella di Kauneus: niente palazzi maestosi, niente stradone lastricate, ma soltanto casette in legno e pietra e un dedalo di viuzze polverose. Regan si rallegrò di essere stata costretta a mettere gli stivali di Angina, perché altrimenti tutta quella polvere le sarebbe finita nella scarpe.

– Andiamo – Lucius le diede un colpetto d’incitamento sulla schiena. – Avremo tempo un’altra volta per fare un giro al mercato. Adesso è meglio muoversi, il sole non aspetterà di certo noi –

A Regan sfuggì il senso di quell’ultima frase, ma non si fermò a questionare.

Il villaggio non aveva mura che la recintassero o porte simboliche che ne segnassero i confini: c’era semplicemente un sentiero di terra scura che si dipanava da due lati opposti attraverso la prateria, conducendo da una parte al confine con Brenner, attraverso un fitto tappeto di alberi, e dall’altra verso le pianure. Sembrava che l’inverno, lì, non fosse nemmeno in vista, quando invece sul calendario mancava poco al Solstizio.

– Come fa questa gente a difendersi? Voglio dire, se sono artigiani dell’oro, avranno parecchie ricchezze, tra una bottega e l’altra. Faranno gola a parecchi briganti e sono circondati dal nulla, senza mura, milizie, praticamente indifesi… –

– Vedi, cerbiattina, la prima regola da imparare quando si vuole viaggiare per le Sette Terre e tornare a casa interi, o almeno vivi, è che chi si ferma alle apparenze è spacciato. Aurin ha dei guardiani che, da che esistono, non hanno mai fallito di proteggerla –

Uscendo dal paesello, una sorta di pietra miliare appoggiata tra le sterpaglie, che le si avviluppavano intorno quasi fino a inghiottirla, comunicava ai viaggiatori un messaggio nella stessa lingua del motto della Lega, a stento leggibile da quanto corroso dal tempo e dalle intemperie.

Dormientes Umbras numquam excita.

Mentre lei e Lucius, a piedi, percorrevano il sentiero verso il Bosco, Regan si accorse che il suolo scintillava come se fosse tempestato di diamanti o minuscoli cocci di vetro. Lungo i bordi della strada, larga quanto bastava per permettere il passaggio di un carro, prosperava una moltitudine di erbe e fiori che Regan non riusciva a riconoscere.

– Resta al centro del sentiero, per favore – scattò Lucius, appena lei fece per avvicinarsi a un grosso cespo di fiori dai carnosi petali gialli.

– Stavo solo… –

– Al centro, Regan – ribadì Lucius, riportandola di forza in mezzo alla stradina. – Non farmelo ripetere di nuovo –

Lei si massaggiò il braccio, un po’ ammaccata nell’orgoglio per il trattamento da bambina appena ricevuto.

– Che cos’ha di pericoloso in un campo di fiori? –

Lucius emise una risatina sinistra.

– Non è il campo di fiori in sé. È quello che lo abita –

Scettica, Regan indagò con lo sguardo tra l’erba alta e folta che danzava lambita dalla brezza fresca, ma tutto ciò che si poteva distinguere erano fiori di innumerabili varietà sparsi tra il verde a perdita d’occhio.

– Io non vedo niente –

Lui levò impazientemente gli occhi al cielo.

– Ma tu mi ascolti quando cerco di insegnarti qualcosa? Cosa ti ho appena detto in merito a chi si ferma alle apparenze? –

Sulla tentazione di credere che si stesse solamente prendendo gioco di lei vinse il buonsenso e da lì in poi Regan stette bene attenta a rimanere gomito a gomito con lui.

In linea d’aria, la distanza tra il villaggio e il Bosco appariva irrisoria; percorrere a piedi la sola via che conducesse dall’una all’altro, tuttavia, era un altro paio di maniche. C’era un laghetto paludoso sulla sinistra e la stradina lo costeggiava per un tratto, assumendone la curva arrotondata, per poi tirare nuovamente dritto e proseguire così fino a che non veniva inghiottita dalla vegetazione. Poco prima che iniziasse il Bosco, in una piccola radura secca, sorgeva una casupola decrepita, con i muri fatti di pietre grossolanamente addossate l’una all’altra e il tetto di paglia. Porta e finestre erano sprangate.

– Dov’è che stiamo andando? – domandò. Era la terza volta che ci provava, e le prime due Lucius l’aveva liquidata con un banale “Vedrai”.

– È proprio vero che la curiosità è donna –

Faceva abbastanza caldo da potersi togliere il mantello, cosa che Regan aveva già fatto da un pezzo. Lui, invece, non voleva nemmeno saperne di slacciarsi qualche alamaro.

– Che cosa sai delle ninfe, cerbiattina? –

Regan fu presa in contropiede.

Poco, ecco cosa sapeva delle ninfe.

– Abitano le macchie boscose – rispose, esternando direttamente le nozioni nell’ordine in cui le si proponevano. – E sono… be’, sono le creature più vicine alla Madre che siano mai esistite e sono antiche quanto lei –

– In pratica non sai un bel niente –

– Scusami se non sono onnisciente come te! –

– Ma come siamo permalosi! – commentò lui, ridanciano, mentre le scompigliava i capelli. – Stavo solo cercando di capire fino a che punto tu andassi istruita per l’imminente incontro con loro –

Regan stava iniziando a sprofondare nella confusione più totale e in cuor suo si augurava di aver frainteso.

– Cosa vorre… ? –

– Innanzitutto – la interruppe lui, puntandole contro un dito. – Le ninfe disprezzano profondamente qualunque essere vivente più evoluto di una scimmia. Il che ha fatto sì che si guadagnassero tutto il mio rispetto e la mia stima, ma non giocherà certo in nostro favore –

Come premessa suonava tutt’altro che rassicurante.

– In secondo luogo, la loro percezione del creato è completamente diversa dalla nostra: loro non vedono la materia, ma l’energia che vi è insita, pertanto sarai lieta di sapere che loro non ti guarderanno male perché hai i capelli color sangue. Lo faranno semplicemente perché sei una piccola sudicia demone priva di rispetto per la Madre – Lucius le rivolse quello che lei suppose dovesse essere un sorriso incoraggiante.

– Io rispetto la Madre con tutta me stessa! – protestò lei.

– Ho paura che questo sia il tuo umile e quantomeno inutile punto di vista – la contraddisse lui, ostentando un rammarico puramente caricaturale. – Vedi, ci sono parecchie filosofie al mondo e sebbene tutte si rifacciano più o meno al medesimo filo conduttore, ci sono differenze abissali negli sviluppi di ciascuna di esse. Gli umani, ad esempio, hanno ingenuamente eletto la loro razza a dominatrice del pianeta e si sono creati divinità in linea con la loro necessità di controllo sul corso degli eventi: loro offrono sacrifici propiziatori, seguono comportamenti retti per ottenere ricompense celesti dopo la morte, adorano i loro déi perché sono convinti che così si meriteranno la loro benevolenza –

Era una credenza molto comoda, vista così, come una trattativa commerciale: dare per ricevere qualcosa in cambio. Un affare, praticamente. Ma forse gli umani, effimeri e deboli com’erano, avevano qualche diritto di aggrapparsi a certe convinzioni per sopravvivere.

– Le nostre razze, invece – continuò Lucius. – Possiedono una sensibilità diversa, rispetto a loro. Noi avvertiamo sfumature più profonde nelle cose, quindi ci è più semplice comprendere la necessità di rispettare la fonte della nostra energia vitale. Ad alcuni non importa comunque – puntualizzò con una scrollata di spalle – Ma è per questo che c’è la Lega –

Il sentiero aveva iniziato a degradare progressivamente; davanti a loro, il Bosco di Aurin si stagliava contro il cielo azzurro nel suo manto verde scuro, attraverso il qualche pochi, fragili raggi di sole riuscivano a penetrare.

– Ciononostante, mangiamo gli animali, tagliamo gli alberi, scaviamo nelle montagne – stava spiegandole Lucius, nell’istante in cui entrarono nella zona ombreggiata sotto alla coltre di piante. – Non siamo in grado di vivere di sola energia, come le ninfe. La nostra dimensione corporea ci costringe a nutrirci di pezzi della Madre, dei suoi stessi figli, che agli occhi delle ninfe sono sacri e inviolabili, e a costruirci case di legno e pietra. E poi siamo avidi di possedere, di prevalere gli uni sugli altri, ci ammazziamo tra di noi… in un certo senso, è proprio questo a renderci rozze creature inferiori. A parte, naturalmente, il nostro famigerato egoismo –

– Tutti questi preamboli per dirmi che stiamo andando dalle ninfe? –

– Sì – rispose Lucius, scavalcando un tronco d’albero abbattuto.

Perché stiamo andando dalle ninfe? –

Era particolarmente scontenta della lunga gonna del vestito che era stata costretta a indossare: adesso che si stavano addentrando nella boscaglia, aveva iniziato a impigliarsi ovunque, così le toccava tenerlo raccolto tra le mani, facendo bene attenzione a non strapparlo. Era una vecchia veste dai colori tenui che era appartenuta a Eleonora, lisa e rammendata in un paio di punti. Almeno non le sarebbe dispiaciuto se si fosse rovinata.

Lui si voltò per affibbiarle un’occhiatina ironica.

– Non sei di gran supporto contro il luogo comune delle ragazze carine e stupide, sai? –

Il solo motivo per cui Regan non replicò era che era troppo distratta da ciò che la circondava: felci alte fino alla sua vita tappezzavano la terra in mezzo a cui camminavano, lasciando a malapena lo spazio necessario a passare. Il sentiero si era sensibilmente ristretto, ma aveva conservato quell’inspiegabile scintillio cristallino, anche se là sotto di luce ne arrivava pochissima. Attraverso l’aria umida le sembrava di riuscire a sentire il respiro degli alberi, le loro voci sommesse che sussurravano racconti troppo remoti perché lei ne potesse intuire le trame. Fruscii e scricchiolii si susseguivano in ogni dove, sporadicamente accompagnati da versi di dubbia natura. Nonostante questo, la pelle d’oca di Regan era dovuta alla sua meraviglia nei confronti di un luogo il cui spirito le dava l’impressione di danzarle intorno e sfiorarla per gioco, nel tentativo di catturare la sua attenzione. Era così presa da quelle sensazioni che, senza volerlo, aveva lasciato andare l’abito e quasi aveva smesso di badare a dove metteva i piedi. Lo vide con la coda dell’occhio, e non era nemmeno tanto sicura di cosa, di preciso, avesse visto: qualcosa di smile a un’ombra, ma denso e concreto, qualcosa di vivo. Era stato solo un guizzo  sotto a uno strato di foglie; forse l’immaginazione le aveva giocato un brutto scherzo. Eppure, fermandosi per controllare, qualcosa stava strisciando, nascosta nel verde.

Accigliata, si chinò con circospezione. Le foglie smisero istantaneamente di muoversi, come se un ipotetico alito di vento che un secondo prima le aveva sollevate si fosse placato proprio in quel mentre. Regan protese una mano, avanzando di un passo immersa in un torpore annichilente. La suola dello stivale calpestò l’erba fresca che nasceva là dove si interrompeva il sentiero. Le foglie tremarono un singulto fulmineo.

– Regan! –

Il terrore nel richiamo rauco di Lucius la sottrasse con inconcepibile prontezza allo stato di trance in cui si era lasciata scivolare. Si sentì strattonare via dal ciglio del percorso, sollevata da terra, e quando i suoi piedi ritrovarono il suolo, davanti a lei c’era l’espressione furiosa di Lucius, le narici bianche e dilatate, il respiro affannato. Le sue mani le spingevano le spalle fino a farle male.

– Ti spiacerebbe spiegarmi cosa c’era di così incomprensibile in “resta al centro del sentiero”? – le sibilò a un palmo dal naso. – Credi forse che te l’abbia detto così, per gioco? –

Lei aprì la bocca per rispondere, ma non uscì alcun suono. Una reazione così spropositata non se la sarebbe aspettata.

– Ti devo mettere al guinzaglio o pensi di potercela fare a proseguire secondo le istruzioni che ti ho dato in partenza? Preferisci che ti porti in braccio? –

Regan sedò seduta stante la parte di sé che le scalpitò nel petto, allettata da quell’ultima proposta, e voltò il viso altrove.

– Starò più attenta – promise.

Lucius la lasciò andare, sfogando la rabbia residua in un lungo sospiro. Persino la minima traccia di colore che poteva recare la sua pelle sembrava colata via in uno spavento che non aveva ancora cessato del tutto di scuotere il suo autocontrollo.

Non aggiunse altro. Le voltò la schiena e si rimise in marcia, le lunghe gambe che sforbiciavano falcate più lunghe e frettolose. Da lì, Regan fece una fatica non indifferente per stargli dietro.

Era intenso l’odore di terra bagnata che aleggiava in quella foresta. Era quasi come se qualcuno rimescolasse continuamente il sottobosco.

– Quando arriveremo, lascia parlare me – esordì Lucius a un tratto.

Regan non aveva problemi, da quel punto di vista, ma dal discorso precedente le era rimasta qualche lacuna dubbiosa.

– Mi chiedo se loro lasceranno parlare te, visto che ci odiano tanto –

– Perché non ascolti mai quello che dico, cerbiattina? –

– Ma sei stato proprio tu a dire… –

– Che odiano la nostra razza – completò lui. – La nostra razza, capito? Non noi nello specifico – Un sorriso furbesco gli solleticò le labbra. – E me men che meno –

– Che cos’avresti tu di così speciale? – sbottò lei

– A parte notevoli dosi di affabilità e presenza scenica, intendi? – Lucius si portò due dita alle labbra e fischiò. In un attimo, in un turbinio di ali nere, Rok planò da chissà dove e si posò sul suo avambraccio teso, becchettandogli la manica.

– Ecco che cos’ho di così speciale –

Orgoglioso, come se avesse compreso ogni singola sillaba, Rok si rizzò tutto, gonfiando il petto come un pavone.

– Non capisco –

– Rok ha voluto concedermi l’onore di scegliere di essere il mio Guardiano, anni fa. Tu lo sai che cos’è un Guardiano, vero? –

Il tono supponente di Lucius la irritò e umiliò al tempo stesso. Regan non aveva idea del perché certe informazioni fossero incise così nitidamente nelle sua memoria, altre fossero sbiadite e fumose, e altre ancora mancassero del tutto.

Ma Lucius sapeva come blandire un animo e non gli ci volle nulla per farle dimenticare l’arrabbiatura.

– I Guardiani sono il dono più inestimabile che la Madre possa concedere – disse, grattando la testolina docilmente piegata di Rok. – Un animale incontra un uomo e tra loro si crea una specie di connessione a livello spirituale. Se un animale sceglie di essere il tuo Guardiano, ne devi essere estremamente lusingato: è un evento che non accade tutti i giorni. Significa che la Madre ha una predilezione per te –

– Oh, capisco – fece Regan, corrucciata. – Sei il cocco della Madre, quindi agli occhi delle ninfe apparirai come una specie di eletto, dico bene? –

– Qualcosa del genere – gorgogliò lui, grondando compiacimento da ogni singolo poro della pelle diafana. La parte dello sbruffone che amava tanto interpretare gli calzava a pennello addosso, si sposava alla perfezione con la sua faccia da bello e maledetto, un po’ bravo ragazzo, un po’ scavezzacollo, ma a tratti, in qualche momento di inconsapevole distrazione, nelle sue iridi di ghiaccio celeste si intravedeva qualcosa di profondo e tristemente ombroso, ma durava sempre troppo poco perché se ne potessero ricavare altro che mere supposizioni.

– Ora basta perdesi in chiacchiere. Manca poco –

Si rimisero in marcia per l’ennesima volta. Via via che ci si addentrava di più, la vegetazione si infoltiva e diventava più intricata e selvaggia, ma una cosa strana saltò all’occhio di Regan solo dopo un bel po’: non c’era traccia di animali di alcun tipo. Niente orme, né tane, né rami spezzati o foglie mangiucchiate, e nemmeno versi in lontananza. Il fischio del vento era il solo suono udibile. Di tanto in tanto, folate impetuose scuotevano le fronde degli alberi sopra le loro teste, producendo un fruscio al contempo lugubre e affascinante. Regan iniziava a sentirsi male alle ginocchia, anche se non era un percorso particolarmente impegnativo, e i muscoli delle gambe erano già indolenziti. Non doveva essere granché avvezza all’attività fisica.

Mentre attraversavano una radura, una nuvola di farfalle si sollevò da un cespuglio fiorito a pochi passi da lei, spaventate dall’improvvisa intrusione. Regan le osservò incantata: erano di tonalità calde che andavano dal rosso al giallo, con piccole macchie nere a formare motivi astratti, alcune dotate di lunghe code appuntite, altre più semplici, ma tutte fluttuavano con la stessa mirabile leggiadria da un ramoscello all’altro, disegnando l’aria con i loro colori ammalianti sotto alla calda luce solare, che in quel punto trovava facile accesso nello spazio lasciato aperto dalla mancanza di alberi. Sarebbe stato bellissimo se anche una soltanto di quelle creature fosse discesa per un momento a posarsi sulla sua mano per lasciarsi ammirare da vicino.

Il desiderio di Regan non si era nemmeno formulato del tutto che una delle farfalle con le code abbandonò il gruppo per veleggiare armoniosamente verso di lei, su e giù, priva di peso, fino a che, con un ultimo battito di fragili ali, si fermò proprio al centro del palmo che le aveva disteso davanti, non senza una certa incredulità.

Era meravigliosa, impalpabile velo di colori in cui, incredibile a pensarci, risiedeva la stessa identica scintilla di vita che abitava esseri grandi migliaia di volte più di lei. Eppure in quella bellezza così delicata c’era qualche cosa di forte, un potere che Regan riusciva a distinguere ma non a comprendere.

D’un tratto dal punto in cui giaceva la farfalla scaturì un formicolio insolito, come se il sangue stesse fluendo tutto lì. Era difficile dire se fosse gradevole o meno; non che le facesse male o altro, era semplicemente strano.

– Regan! – tuonò la voce irosa di Lucius, lontana. Rok volò via dalla sua spalla. – Oh, maledizione! –

Un brivido improvviso la scosse da capo a piedi mentre un dolore simile a quello di una puntura le trapassò la mano. Si sorprese a emettere un singulto strozzato proprio mentre la farfalla se ne svolazzava via con grazia e disinvoltura, lasciando una goccia di sangue a colarle lenta verso il polso nudo. Dietro di lei, il cuore di Lucius batteva all’impazzata, mentre lui le correva incontro sciorinando imprecazioni che a lei giungevano sorde nelle orecchie ovattate.

– Regan! –

– Ti giuro che questa volta non mi sono mossa dal centro del… –

Lucius le piombò addosso con la furia di una tempesta e la sollevò da terra senza rendersene conto, prendendola per le spalle.

– Come ti senti? Ce la fai a tenere gli occhi aperti? –

– Ma che diamine stai facendo? Mettimi giù! – sbraitò lei, livida dall’imbarazzo.

– È… è tutto a posto? – si sincerò lui, attonito e bianco come un cencio.

Lei si divincolò e per poco non perse l’equilibrio nel rimettersi in piedi.

– Ma certo che è tutto a posto, mi ha solo morso una farfalla! A proposito, da quando in qua le farfalle mordono? –

Lucius boccheggiava, smunto e sconcertato, fissandola come se non l’avesse mai vista prima e senza ascoltare una sola parola.

– Come diavolo è possibile? –

– Non lo so, me lo sto domandando anch’io – disse Regan, mentre si risistemava il vestito, che le si era accartocciato addosso nel trambusto. – Voglio dire, chi penserebbe mai che delle cosine così graziose e delicate… –

– No, no, Regan, per l’amor del cielo! – Con qualcosa che era a metà tra una risata trattenuta e un rantolo impaziente, Lucius le prese febbrilmente il viso tra le mani e lo portò a un palmo di naso dal proprio. – Non capisci? Le Myrkae sono velenose! Sono mortalmente velenose, e tu… tu dovresti essere… –

Regan comprese da sola come si sarebbe dovuta concludere la frase.

Morta.

Nondimeno, la sua salute era quella perfetta di sempre, se si tralasciavano le gambe stanche e la minuscola ferita puntiforme lasciata dalla farfalla.                                                                                             

– Sei proprio sicura di sentirti bene? – insisté Lucius. Le appoggiò due dita alla gola, là dove pulsava la giugulare, e fu stupito di trovare pulsazioni forti e regolari.

– Mai stata meglio! – Regan lo cacciò via con una spinta.

– Le Myrcae non si avvicinano mai alle persone, se non vengono stuzzicate… non credevo fosse necessario metterti in guardia –

– Lucius, la vuoi smettere? – sbraitò Regan, oltre il colmo dell’esasperazione. Gli mostrò la mano, che peraltro non stava nemmeno più sanguinando. – Lo vedi? È già tutto passato. Non mi fa nemmeno male. Si vede che quell’esemplare non era velenoso, o aveva finitola dose giornaliera –

– Io proprio non capisco… – blaterò lui, scuotendo la testa.

– I vostri schiamazzi stanno disturbando il mio Bosco, demoni stranieri – disse una pacata voce femminile che sembrava provenire da ovunque e da nessuna parte, al di fuori di tempo e spazio.

Regan si guardò intorno, cercando qualcuno da individuare, ma non trovò altro che l’infinità di verde che aveva visto da più di un’ora a quella parte. Poi la vide: una sagoma a malapena distinguibile dal profilo della selva, trasparente e fluida come l’acqua, dalle fattezze vagamente rassomiglianti a quelle di una persona, che stava gradualmente acquisendo forma e una parvenza di consistenza.

Non c’erano molti dubbi circa la sua identità: quella che aveva davanti non poteva essere altro che una ninfa.

 

 

Erano ovunque attorno a lei. Decine e decine di contorni sfocati che si confondevano con l’ambiente come se potessero assumerne l’esatta consistenza, la stessa precisa essenza. Le ninfe, infondo, erano quello: essenza pura, più che creature corporee. Sapevano fondersi con le piante, le rocce, il terreno, potevano dissolversi nell’acqua e scomparire in un alito di vento. Se si trovavano in presenza di persone, erano persino in grado di imitarne le sembianze, assumendo i caratteristici tratti antropomorfi, ma di una corporeità differente, impalpabile, come fili di fumo azzurrino modellati a immagine e somiglianza di qualcosa la cui natura era troppo diversa dalla loro per poterla replicare verosimilmente.

Immobile accanto a Lucius, Regan poteva udire le loro voci sorgere una a una tutt’intorno a sé. Non suoni tangibili trasportati dall’aria, ma piuttosto echi remoti che trascendevano la materia, sfiorandole direttamente l’anima in migliaia di vibrazioni che le rimbombavano nella testa, assumendo ciascuna un proprio significato. Erano troppi, però, quei sussurri confusi; le si stavano ammassando dentro come una moltitudine di libellule impazzite, fino a stordirla.

– Basta, basta, per favore! – supplicò, coprendosi inutilmente le orecchie.

– Silenzio, sorelle –

La voce ultraterrena di poco prima aveva parlato di nuovo, e al suo ordine tutte le altre voci si sopirono immantinente, lasciando finalmente tregua alla testa sovraffollata di Regan.

Guardò in su, colma di riconoscenza. Al suo cospetto c’era una creatura che ricordava una donna, nell’aspetto: un corpo esile e longilineo, dotato di accennate forme femminili e lunghi capelli che sembravano fatti di infiniti fili d’acqua, la pelle di un inconcepibile biancore azzurrato, levigata e diafana come marmo. A Regan dava l’impressione che, se avesse allungato la mano per toccarla, sarebbe stato come tentare di afferrare una nuvola.

– Chi sei tu che odi le nostre voci senza il nostro consenso? –

Le labbra della ninfa non si erano mosse quando lei aveva pronunciato quelle parole. Due occhi perlacei privi di pupilla fissavano Regan guardinghi. C’era una bellezza strana in quell’essere, nella delicatezza dei suoi movimenti.

– Nobile Antares – Lucius si era fatto avanti, prendendo parola prima che potesse farlo lei, e allora Regan rammentò.

“Lascia parlare me.”

Lucius esibì il consueto saluto in uso nelle Terre e a questo aggiunse un inchino reverenziale.

– Questa è Regan, la giovane di cui ti ho parlato –

Lo sguardo inespressivo della ninfa discese su di lei con rinnovato interesse. A giudicare da come tutte le altre le obbedivano, doveva essere la loro regina, o qualcosa di affine.

Regan si affrettò a imitare goffamente l’inchino, facendo intanto mente locale del fatto che, se Lucius aveva parlato alla ninfa di lei, significava che era già stato lì.

Ecco perché è stato via così a lungo.

La ninfa prese a girarle intorno per studiarla. Le movenze delle sue gambe erano diverse da quelle di chi possedeva un corpo di carne e ossa: era una semplice simulazione priva di reale conoscenza meccanica.

– Sei una creatura complessa, demone bambina –

Regan lasciò correre il “bambina” solo perché ritenne più che logico apparire tale a una creatura che era nata insieme al mondo. L’incedere di Antares si avvicinava a una danza lenta, così come il vagare indagante dei suoi occhi.

Lucius, ritiratosi in un angolo, Rok di nuovo sulla spalla, seguiva con un’espressione riflessiva. Sicuramente stava ancora pensando all’incidente con la Myrka.

– Il suo sangue non ha contaminazioni, Lucius – disse la ninfa. – È una Pura, come dite voi. Demone figlia di demoni, come molti altri – La sua mano sfiorò i capelli di Regan e il suo braccio. La sensazione fu quella precisamente quella che si era immaginata: come entrare in contatto con una nuvola. – Ma se la Madre le ha dato questi colori, un motivo esiste – proseguì Antares. – Quale esso sia, non sono in grado di indovinarlo, tuttavia è immediato risalire a una somiglianza con i figli più temibili che la Madre ha voluto rendere riconoscibili: piante, fiori, serpenti, pesci, insetti… Là dove c’è del pericolo in agguato, i colori si fanno sgargianti, per colpire la vista dello sprovveduto e avvertire del rischio –

Regan si massaggiò inconsciamente la puntura alla mano, sentendosi improvvisamente molto stupida. Dopotutto, Lucius la aveva implicitamente messa in guardia da tutto ciò che si trovava oltre il bordo del sentiero, ordinandole di restare nel mezzo, ma come avrebbe potuto anche solo immaginare che delle farfalle potessero essere pericolose?

– Anima immacolata, e tuttavia aggravata da qualcosa che la luminosa innocenza ancora cela – La mano di Antares si spostò sul petto di Regan, facendola sussultare. Gli occhi di perla della ninfa la scrutarono come se volessero scavarle fin dentro al cuore.

– Sento dolore, qui – Una contrazione impercettibile delle dita immateriali. Qualcosa di simile alla compassione nello sguardo. – Chi ti ha ferita, bambina? –

E proprio lì, sotto la mano della ninfa, qualcosa si contrasse in modo anomalo, causando a Regan una fitta sgradevole.

“Chi ti ha ferita?”

– Nessuno. Non che io ricordi – balbettò Regan a disagio. Cercò Lucius con lo sguardo, invocando il suo aiuto. Lui le fu accanto in un attimo con uno dei suoi sorrisi rassicuranti, e lei si sentì subito meglio.

– Nobile Antares – disse Lucius alla ninfa. – Se Regan è una Pura, dovrebbe essere in grado di fare sfoggio di discreti poteri, mentre invece… – Si voltò verso di lei, lasciando cadere la frase a metà.

– Non possiedo risposta per questo interrogativo. Posso solo dirti che la sua natura è quella pura di un demone e nei suoi occhi non ci sono macchie di peccato – dichiarò Antares.

Regan trasse un sospiro di sollievo. Era come se il responso di giorni addietro di Shin fosse appena stato riconfermato: era pulita. Non aveva colpe per cui essere perseguita.

Ma Antares non aveva ancora finito.

– La tua innocenza ti protegge, demone bambina, ma verrà presto il tempo in cui il dolore e il male del tuo mondo la corromperanno, e tu dovrai essere pronta ad affrontare le conseguenze. Abbi fiducia in chi ne ha in te –

Regan incrociò lo sguardo di Lucius, lui le strizzò un occhio con un sorriso. Il suo cuore saltò un battito.

Sopra di loro, nel frattempo, la luce stava iniziando a calare assieme al sole.

– Vi state attardando – disse la voce atemporale di Antares, e nello stesso istante le voci delle sue sorelle risorsero in un coro di sussurri confusi. – Il tramonto si avvicina e la via del ritorno è lunga –

La testa di Lucius scattò verso l’alto e i suoi occhi si sgranarono.

– Dobbiamo andare, Regan – le disse con urgenza. – Antares – aggiunse poi, inchinandosi alla ninfa. – Ti sono grato del tempo che ci hai concesso –

– Mi rincresce solo di non esservi stata di aiuto –

– Al contrario – replicò Lucius. – Adesso sappiamo che Regan non è il frutto di qualche esperimento contro natura. Possiamo cercare le sue radici altrove, e abbiamo un campo abbastanza ristretto –

Antares annuì. Si avvicinò a Regan, i capelli d’acqua mossi da refoli di vento freddo.

– Tu possiedi un dono, demone bambina. Un dono che abbrevia la distanza tra te e la Madre, ma che allunga quella tra te e i tuoi simili. Sai di cosa parlo, non è vero? –

Invece no, Regan non aveva idea di che cosa stesse parlando. non aveva mai manifestato segni di doti particolari e, anzi, come aveva appena rimarcato Lucius, apparentemente non aveva nemmeno doti ordinarie. Lucius era perplesso, ma non di certo quanto lei, che cercava inutilmente di identificare in sé qualche caratteristica che potesse somigliare a un dono. Era difficile concentrarsi con tutte quelle voci che le risuonavano in testa.

– Andate, ora – li esortò Antares. – Il sole non vi attenderà –

– Grazie di nuovo, di tutto –

Ci fu un debole cenno di assenso da parte di Antares, poi una ventata gelida e impetuosa venne a spazzare la radura e in essa si dissolsero, come petali di pioggia, tutte le ninfe che li avevano circondati.

Durante il ritorno, Lucius fece correre Regan molto più che all’andata. La luce si era affievolita rapidamente, facendosi rosata e poi violacea, e ora stava pian piano scivolando verso il blu cobalto della sera. Sotto ai loro piedi, la scia luccicante del sentiero iniziava a emanare un fioco alone lunare. Quando rispuntarono fuori dai limiti della selva, il cielo era già abbastanza scuro da permettere alle stelle di stagliarvisi contro in tutto il loro splendore. La luna, piccola e chiara, vegliava solitaria l’ennesima notte d’inverno.

All’orizzonte, a poco meno di un miglio da loro, Aurin aveva già acceso lanterne e focolari e molti comignoli fumavano in piena attività. Il villaggio sembrava un mosaico di lucciole nella bassa foschia notturna.

– Dobbiamo sbrigarci – fiatò Lucius, trascinandosela dietro come un cagnolino disobbediente. – Non manca molto, ma è il tratto più pericoloso –

Regan non capiva cosa ci potesse essere di così pericoloso in una distesa di parti priva di potenziali nascondigli. La cosa più minacciosa che riusciva a riscontrare erano versi indistinti di animali selvatici e frullii d’ali di qualche uccello notturno. Respirò a pieni polmoni il profumo di erba bagnata che si sollevava dai campi, ma uno strattone di Lucius le impedì di goderselo.

– Non mi dirai che sei stanca –

– No, figurati! – esclamò lei, sardonica, stringendosi il bavero del mantello sulla gola irritata dal freddo. – Abbiamo solo camminato per tutto il giorno, non vedo perché dovrei esserlo! –

– Abbassa la voce –

– Altrimenti si svegliano i fiori? –

– Non dire sciocchezze –

Normalmente, si disse Regan, una battuta del genere sarebbe stata accolta con un’altra battuta, ma Lucius era serio e teso e i suoi occhi non facevano che schizzare in ogni direzione, all’erta. Era evidente che ci fosse qualcosa che non le stava dicendo.

– Vorrei tanto sapere che cosa c’è là sotto di così terrificante – bofonchiò, alterata. – Sono dei miseri praticelli alle porte del villaggio, non vedo come… –

Lucius le aveva chiuso la bocca con una mano e la teneva stretta a sé. Regan sentiva il suo cuore batterle contro la schiena.

– Zitta e ferma – le sibilò all’orecchio.

Lei fece per chiedergli cosa stesse succedendo, ma si ricordò che la mano di lui la stava ancora ammutolendo. Decise che era meglio fare come diceva lui.

Delle voci maschili e gravi provenivano da un punto indefinito in direzione di Aurin, grasse risa alticce. Forse viandanti ritardatari.

– Maledizione! – imprecò Lucius, stringendola ancora più forte. – Non ho abbastanza forze per teletrasportarci entrambi –

Senza che la mano sinistra si spostasse dalla sua bocca, la mano destra di Lucius si precipitò verso l’elsa della spada nascosta sotto il suo mantello. Non la estrasse, ma si tenne pronto a scattare.

– Non c’è tempo per tornare indietro, sono troppo vicini – Lasciò andare Regan e la spinse alle proprie spalle. – Resta dietro di me, qualunque cosa accada –

– Chi è che sta arrivando? –

Una goccia di sudore freddo solcò il volto esangue di Lucius.

– Ladri di Anime –

 

 

La nottata era tranquilla e silenziosa. Avevano venduto bene, lì a Sonnerg; Aurin non era stata che l’ultima tappa del loro itinerario commerciale: avevano venduto anime ricche di energia ai soliti, facoltosi clienti di fiducia, bramosi di conquistare poteri più grandi, o le avevano scambiate con oggetti preziosi, veleni rari, armi utili al loro mestiere. Si sarebbero spostati a Brenner, ora, a raccogliere nuova merce che poi sarebbero andati a rivendere nei mercati neri di Asante.

Erano mercenari ed erano profumatamente pagati perché erano in pochi a saper fare il loro lavoro, e per giunta così bene. Nonostante la Lega avesse la pessima abitudine di mettere loro i bastoni fra le ruote e fosse riuscita a catturare molti colleghi, loro erano sempre riusciti a sfuggire a qualunque cacciatore, persino ai più esperti, e le taglie sulle loro teste crescevano ogni giorno di più.

Gerjen sogghignò compiaciuto degli ottimi affari conclusi, le tasche gonfie di oro sonante, mentre i due compagni che camminavano dietro di lui parlottavano con l’eccesso di volume  di chi non aveva ancora del tutto smaltito la sbornia, residuo dai troppi boccali di vino con cui avevano brindato quella sera.

Non c’era anima viva nell’aperta campagna, al di fuori di loro tre. In pochi erano abbastanza potenti – o abbastanza sciocchi – da osare avventurarsi oltre i confini del villaggio dopo il calar del sole.

Erano circa a metà strada dal bosco, quando i suoi sensi innaturalmente sviluppati presentirono una vaga presenza non molto distante. Subra e Tjerk notarono il suo stato di allerta e di colpo si zittirono.

Si fermarono tutti e tre. Gerjen acuì il suo Sesto Senso. Così il loro gergo chiamava, pressappochisticamente, la capacità, comune a pochi eletti, di saper rilevare l’esatto disegno delle anime come fossero state quadri inconfondibili da valutare a vista, a volte anche a distanza.

– Sono in due, e sono demoni – disse in un sussurro rauco. – E hanno un potenziale straordinario –

Subra contrasse la mascella al di sotto della corta barba rossiccia e un ghigno avido deformò la bocca arida di Tjerk. Gerjen incrociò il suo sguardo cupido ma non gli prestò attenzione. Era di gran lunga più interessato alle due anime che avvertiva e che, diversamente alla reazione superficiale dei due compagni, stavano suscitando in lui curiosità mista a allarmismo.

Si dava il caso che avesse riconosciuto una delle due anime: ne conosceva molto bene il proprietario. Si sgranchì il collo e le dita, facendo crocchiare le nocche. Appeso al collo portava un sottile cristallo opaco entro il quale si agitavano luci e ombre angosciate.

I due demoni si erano fermati e sembrava quasi che volessero aspettarli al varco, offrendosi come docili prede rassegnate. C’erano buone possibilità che la giornata si concludesse con un bottino inestimabile.

– Che fortunata coincidenza – sussurrò tra sé, esultante. Lo stesso ghigno malvagio di Tjerk calò anche sul suo volto, sfigurato da parte a parte da una vistosa cicatrice irregolare.

 

 

Erano vicini, Lucius lo sentiva. Riusciva a distinguere una ad una le loro aure e associarle con precisione ai loro volti spietati. Percepiva l’ingordigia venale di Gerjen affilarsi come un coltello contro la pietra.

Sarebbero stati lì entro pochi minuti, se non li avevano già sentiti. Non c’era alternativa: sarebbe stato costretto ad affrontarli, e uno contro tre, anche se di notevole abilità, era uno scontro decisamente iniquo e Regan purtroppo non era in grado di aiutarlo.

– Lucius – bisbigliò Regan contro il suo collo, agitata. – Mi potresti almeno dire se devo avere paura? –

– Se tu potessi provare un’adeguata paura per ciò che sta per accadere, ti direi di sì, ma forse è meglio che tu continui a crogiolarti nella tua beata ignoranza –

Regan avrebbe avuto tutta l’intenzione di replicare per le rime, ma qualcosa le disse che il silenzio avrebbe giovato di più alla situazione.

Erano avvolti da una lievissima nebbiolina che sembrava provenire dal respiro della terra, sollevandosi da essa senza appesantirsi di umidità. Passi e voci che prima erano stati solo rumori attutiti ora erano lì, in agguato, pronti a colpire.

I tre uomini materializzarono davanti a lui e Regan come fossero spuntati dal nulla, e forse era proprio così. Era più facile, per loro, compiere magie che richiedevano grandi sforzi: loro sfruttavano l’energia delle anime che trafugavano per alimentare certi onerosi dispendi. Le usavano anche per combattere. Lucius avrebbe avuto ben scarne possibilità anche contro uno solo di loro.

– Guarda, guarda, guarda ­– tubò la voce cruda e arrogante di Gerjen. Era esattamente come lo ricordava Lucius: grosso, alto, di aspetto selvatico e feroce. – Chi si rivede dopo tanto tempo… – Il suo sorriso carico di sprezzo era quanto di più lontano dall’umana pietà di potesse figurare. – Luciferus –

Scandì quel nome con estrema lentezza, traendone tanta perversa soddisfazione quanto era il fastidio che provocò a Lucius.

Era più di un decennio che non veniva chiamato così e non gli era affatto mancato.

– Gerjen – replicò, mettendoci altrettanto sprezzo. Regan, alle sue spalle, non si muoveva di un millimetro, le mani aggrappate alla sue spalle.

– Noto che non hai perso il tuo istinto per i tesori più inestimabili – commentò l’uomo, allungando a Regan un’occhiata che rasentava il famelico.

Lui sapeva. Lui sentiva. Proprio come Lucius.

E Lucius, per la prima volta dopo un tempo che ora gli pareva infinito, aveva paura. Non per sé, per la propria incolumità, ma per quella di qualcuno altro.

– Di cosa diavolo sta parlando? – farfugliò Regan sul suo collo.

– Lei non è affar vostro – li avvertì Lucius, ignorando la domanda e rispondendole al contempo. La presa delle dita di Regan si rinsaldarono sulle sue spalle.

– Non insegnarmi a fare il mio lavoro, ragazzino – ringhiò Gerjen, e dietro di lui Tjerk e Subra si approntarono ad attaccare. – È sempre stata una tua pessima abitudine e faresti meglio ad abbandonarla, prima che irriti la persona sbagliata –

Lucius sfoderò un sorrisino modesto.

– Sai com’è, certi vizi sono come l’erba cattiva: non muoiono mai –

– Un po’ come te, vero? – gracchiò Tjerk, rancoroso. Era grande e grosso, più di quanto Lucius ricordasse, capelli lunghi e sporchi a grondargli attorno alla faccia volgare.

– Ci puoi scommettere –

Stava sudando freddo. La sua mente viaggiava alla velocità della luce, annaspando disperatamente alla ricerca di qualche soluzione, di una via di fugo, un appiglio qualsiasi che potesse cavarli da quel vicolo cieco, ma non ne trovò. Se almeno avesse potuto mettere in salvo Regan…

– Allora – riprese Gerjen, querulo, avvicinandosi. – Chi è questa deliziosa fanciulla? –

Si mise a ronzare attorno a loro, e quando la sua manica sfiorò i capelli di Regan, Lucius la sentì irrigidirsi. Girò in tondo su sé stesso, seguendo i passi di Gerjen, tenendo Regan al sicuro alle proprie spalle. C’erano tutte le premesse perché la situazione prendesse una bruttissima piega.

– Come ho già detto, non è affar vostro –

– Oh, un vero peccato – tubò Gerjen, con una nota afflitta nella voce ruvida. – Contavo di fare amicizia –

Pronunciò le ultime due parole dopo una breve pausa, così mellifluo che suonò grottesco.

Regan urlò e all’improvviso Lucius non sentì più il contatto con il calore del suo corpo. Tjerk la stringeva con un braccio possente e nella mano libera gli ardeva una palla di fuoco.

– No! –

Lucius sfoderò la spada appena in tempo per deviare la palla di fuoco, che andò a schiantarsi da qualche parte dietro di lui. In meno di un battito di ciglia, altre due spade si levarono in aria, dandogli addosso. Nel tumulto, un gufo emise un fischio acuto e si dileguò in fretta e furia, scomparendo nel nero della notte.

– Lasciami, brutto bestione! – stava strillando Regan, dibattendosi furiosa.

Distratto dalle sue lamentele, Lucius si scostò appena in tempo per evitare un fendente a tradimento da parte di Subra. La lama dello spadone gli saettò accanto, radendogli il fianco senza però riuscire a ferirlo. Schivò un secondo affondo e poi un terzo; parò a fatica un montante e balzò di lato, tentando un assalto che Gerjen evitò abilmente. Alle sua spalle, Subra si avventò in un rovescio agguerrito; si voltò appena in tempo per parare e respingerlo, e intanto Gerjen si apprestava ad attaccarlo di nuovo. Lucius si abbassò, scampando per miracolo a un colpo che quasi già si era sentito nella carne. Con un fendente rapido riuscì a ferire Subra al braccio destro, ma questi parve accorgersene appena. Per sottrarsi alla rimonta dell’offeso fece un movimento troppo brusco e azzardato: una stilettata sferzante al fianco gli rivelò che la ferita gli si era riaperta.

Maledizione.

Strinse i denti, ansante. Il fianco gli pulsava ferocemente, bollente come il sangue che stava perdendo, sottraendogli forze che già scarseggiavano.

Non aveva tempo di perdersi in duelli: doveva riuscire a sottrarre Regan alla morsa di Tjerk prima che fosse tardi. Poteva contare sul fatto che difficilmente sarebbe riuscito a teletrasportarsi con lei, dati i chiari segni di ubriachezza che ancora manifestava, ma questo non gli avrebbe impedito di farle del male. Conosceva la prassi: sarebbe stato Gerjen a prenderle l’anima, se fossero riusciti a portarla via, perché l’anima di Regan, per giunta intatta da ogni peccato, aveva un valore altissimo e Gerjen non avrebbe mai permesso che uno dei suoi scagnozzi rischiasse di rovinarla. Questo, tuttavia, non significava necessariamente che non avrebbe permesso a Tjerk di ucciderla, prima. Cercò di raggiungerlo, ma Gerjen e Subra gli sbarrarono la strada.

Regan emise un singulto strozzato. Con la coda dell’occhio, Lucius notò che il braccio tozzo e potente del Ladro le circondava la gola in una morsa serrata.

Doveva trovare in fretta una soluzione. Il sangue gli pulsava con violenza nelle orecchie, assordate da un fischio sordo che lo stava torturando. La testa gli doleva e, nonostante non fosse disposto ad ammetterlo nemmeno con sé stesso, le mani gli tremavano, sudando freddo, tanto che si chiedeva se loro lo avessero notato. Si sforzò di rinsaldare la presa sull’elsa della spada e impose al proprio corpo di ritrovare la concentrazione.

Non poteva permettere che prendessero Regan.

Il sangue gli stava inzuppando la casacca, lo sentiva denso e appiccicoso contro la pelle, rapidamente reso gelido dall’alito freddo della notte, ma fortunatamente il mantello lo copriva, celando ai suoi avversari una debolezza che gli sarebbe potuta costare cara.

– Gerjen – disse tranquillo, deglutendo a fatica nella gola secca. Fece di tutto per mitigare la tensione che si sentiva addosso, in ogni muscolo, in ogni vena. La vista gli si stava appannando. – Di’ al tuo cagnolino di lasciare andare la ragazza –

– Osi darmi ordini, ragazzino? – ruggì l’altro, la faccia contorta dal disgusto. Una luce folle gli saettava negli occhi di un azzurro sbiadito.

Regan si agitò disperata dietro alla presa di Tjerk, che la strattonò con più violenza per farla calmare.

– Sta’ buona, dolcezza. Tra poco ce ne andiamo – sghignazzò con la sua cadenza rozza.

– La piccolina viene con noi, Luciferus – ribadì Gerjen in un sussurro gutturale. Con un assalto improvviso, scattò in avanti e, approfittando della momentanea distrazione, lo disarmò. La spada di Lucius cadde a terra con un tonfo sordo; quella del Ladro finì puntata contro la sua giugulare.

Gerjen sogghignò con perversa, spietata soddisfazione.

– Tu invece te ne andrai all’altro mondo –

– Io dico di no – disse una voce che non apparteneva a nessuno di loro.

Scattarono tutti sull’attenti, guardandosi intorno in cerca della fonte da cui era provenuta quella voce. Qualche passo indietro a loro, immersa nelle nebbie, c’era una figura alta e argentea che si stava facendo avanti. Aveva appena iniziato a farsi distinguibile, che svanì nel nulla.

– Che cosa diavolo era quello? – si interrogò Subra, sospettoso.

E allora Lucius capì.

Approfittò del diversivo per scartare i due avversari e fiondarsi su Tjerk. Fortunatamente Regan ebbe la prontezza di reagire per tempo: alla cieca, sollevò una mano e la avventò sul volto del suo sequestratore, il quale ululò di dolore. Regan era riuscita a ferirgli un occhio. Lui, però, aveva a stento allentato la presa.

– Che cosa credi di fare, moccioso? – gridò Gerjen.

Lucius non ebbe il tempo di difendersi: la lama della spada dell’uomo, rapida come un dardo, scattò verso il centro del suo addome con tutta la potenza di una rabbia lunga anni.

Lucius chiuse gli occhi, preparandosi a un impatto straziante che non avvenne. Quando li riaprì, Gerjen, sbalordito, se ne stava lì, con la spada ferma a mezz’aria, come pietrificato, e come lui anche i suoi due scagnozzi. Nel medesimo istante, qualcuno si materializzò alle spalle di Lucius, schiena contro schiena.

– Ti spiace se mi unisco alle danze? – disse la stessa voce armoniosa di poco prima.

Lucius si sentì invadere da un caldo fiotto di speranza.

  Credo di non essere mai stato così felice di vederti, Shin. –

L’altro rise. Aveva le mani aperte, protese in avanti, come se stesse sorreggendo una parete invisibile.

– Prendi Regan e andiamocene – disse a Lucius. – Non li terrò a bada ancora per molto. –

– Ammazzateli! – berciò lei, mentre Lucius la districava dal braccio di Tjerk, i cui occhi, perfettamente presenti, lo fissavano con disgusto e rancore.

– Vorrei fosse così semplice, cerbiattina – tagliò corto Lucius. – Su, muoviamoci. –

La trascinò fino a Shin, senza lasciarle modo di dire altro, né di rendersi conto di cosa stesse capitando. Lesto come un fulmine, Shin abbassò le mani e lì afferrò entrambi per i fianchi.

Gerjen, Subra e Tjerk riacquisirono mobilità e le loro spade sferzarono il vuoto. Davanti a loro non era rimasto altro che il sentiero deserto.

 

   
 
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