That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Old Tales
Terre del Nord - I.005
- La Radura
La notte era ormai giunta al culmine, le stelle e i pianeti
attraversavano lenti e inesorabili il cielo, dispiegando con le loro
danze arcane le trame oscure del destino. L'acqua gelida le lambiva
appena gli zoccoli, mentre Banrigh avanzava cauta lungo la riva
sinistra del fiume, lo faceva tutti i giorni e tutte le notti, da anni,
competeva a lei controllare quella porzione della foresta, eppure,
quella notte, l'oscurità carica di segni la rendeva inquieta
e la sua mente si distraeva di continuo, portandola a pensieri lontani.
Volse lo sguardo di nuovo al massiccio che sovrastava il fiume, aveva
ordinato a Magorian, il maggiore dei suoi figli, di portare i fratelli
lassù, dove la foresta avrebbe potuto celarli a occhi
estranei, al sicuro, rapidamente, e il giovane si era fatto seguire
promettendo ai più piccoli di insegnar loro il significato
della luce rossa di Marte. La luce rossa di Marte... erano anni che su
An Monadh la stella non appariva così fulgida e splendente,
come negli ultimi tempi, di un intenso rosso rubino, pregno di funesti
significati: Banrigh lo sapeva, il rosso dell'astro infiammava il cielo
quando il rosso del sangue era prossimo a essere versato sulla terra.
Stava per accadere qualcosa di oscuro, lo sentiva da giorni, lo capiva
da numerosi segni, qualcosa di oscuro forse era già
penetrato e si muoveva nella foresta, senza accettare di sottomettersi
alla natura: quasi tutti gli animali della montagna erano inquieti e
spaventati, molti rifuggivano l'acqua e si nascondevano nel folto della
vegetazione, persino il fiume sembrava scorrere più
lentamente da quando gli uccelli arrivavano da est, portando la notizia
di una terribile battaglia, nella quale avevano trovato la morte
centinaia di uomini. E ora, bagnata da tanto sangue impuro, la terra
era percorsa da orde di spiriti inquieti, che reclamavano a loro volta
morte e vendetta.
Banrigh tremò: conosceva il cuore degli uomini, la loro
follia, la loro violenza, non dovevano entrare e turbare, con la loro
ferocia e la loro arroganza, la pace della foresta, non dovevano
sfregiarne la purezza con la loro disperazione. A volte capitava che
qualche incauto si spingesse nei boschi di An Monadh per cacciare il
lupo o il cinghiale, ma difficilmente faceva ritorno a casa, di solito
si perdeva e moriva nei dirupi, o sbranato dalle fiere, e anche quando
riusciva a salvarsi, la paura provata nei suoi vagabondaggi tra quei
sentieri oscuri, s’incideva tanto profondamente nella sua
anima, da fargli perdere per sempre il senno. Per questo, nel corso
degli anni, tra gli uomini si era diffusa la superstizione che ci fosse
uno spirito maligno sulla montagna e il timore di essere ghermiti e
uccisi da un demone li teneva opportunamente alla larga. Di colpo il
vento, che spirava da sud, scompigliò le chiome del Centauro
e parlò più chiaramente a Banrigh, che
l'ascoltò trepidante: il lamento degli alberi e il canto
atterrito degli uccelli notturni raccontavano di fiamme cadute dal
cielo e di creature del bosco morte arse nell'incendio. Quella notte,
il timore provato dagli uomini verso i segreti di An Monadh sembrava
non essere più sufficiente a fermare gli invasori, la loro
brutalità li stava spingendo fin lì e i loro
scopi non avevano nulla a che fare con il lupo, né con il
cervo. Il Centauro temette che si stesse compiendo il destino, che
fosse giunta la notte, la notte più lunga, quella in cui la
foresta di An Monadh sarebbe stata violata e sfregiata dall'odio e dal
sangue. Annusò l'aria, sentì il vento pregno
dell'aroma pungente del legno e della carne bruciata, con un alto grido
richiamò a sé Magorian e gli ordinò di
correre lontano, di portare i fratelli con sé, di avvisare
gli anziani che le profezie si stavano compiendo. Mentre suo figlio si
allontanava da lei, Banrigh corse veloce lungo la riva,
annusò più e più volte l'aria per
orientarsi, ma a mano a mano che si avvicinava all'incendio,
iniziò a sentire che la notte e la voce degli alberi erano
permeate anche di Magia, una Magia diversa da quella che praticavano il
Mago e la Strega della radura, una Magia ancora più antica,
più potente, che serbava in sé dolcezza e dolore.
Come tutti i Centauri, Banrigh conosceva la Divinazione ma non la
maggior parte delle altre Arti Magiche, non comprendeva con chiarezza
il messaggio portato dal vento, eppure quello che scorreva nel sussurro
delle fronde la colpiva direttamente al cuore, riempiendola di angoscia
e di tormento.
Continuò a correre rapida lungo la riva del fiume,
avvicinandosi sempre più alla radura dei Maghi, tendendo
l'orecchio e riascoltando più volte il messaggio, fin quando
comprese: la Strega stava morendo e chiedeva aiuto per salvare i suoi
figli. Un tremito percorse la schiena della Custode del fiume, si
fermò all'istante, turbata, poi riprese ad avanzare
lentamente, a capo chino, senza sapere cosa fare: le leggi del suo
popolo le imponevano di non immischiarsi nelle faccende degli umani, ma
non poteva dimenticare chi aveva salvato il suo bambino. Banrigh
sollevò lo sguardo un'ultima volta verso il cielo, nelle sue
iridi color dell'ambra si rispecchiò funesto il rosseggiare
dell'astro, attese ancora un attimo, poi, con il cuore stretto
dall'apprensione, il Centauro riprese a galoppare rapida, nel folto
della foresta.
***
Non era come le altre volte, Sheira aveva sentito fin dall'inizio del
travaglio che il suo corpo non reagiva come avrebbe dovuto. Non era
ancora così vecchia da non poter dare alla luce un altro
figlio senza correre rischi, il prossimo sarebbe stato solo il suo
trentatreesimo inverno, eppure si sentiva mortalmente stanca, sfinita,
prosciugata, incapace di reagire. Non aveva voluto dire nulla a
Cormacc, perché il suo uomo sembrava aver recuperato grazie
all'idea di quel bambino una serenità che Sheira non gli
vedeva da tanto, troppo tempo, ma a se stessa non aveva potuto mentire:
in quei mesi, da quando si era resa conto di essere di nuovo incinta, i
segni che aveva letto nei suoni della notte, nel fluire del fiume,
erano stati tutt'altro che rassicuranti e la Strega si era convinta che
la civetta e il lupo cantassero un lamento funebre alla sua creatura,
già prima che venisse al mondo, confermando ancora una volta
la sentenza della sua gente, motivo di orgoglio e, al tempo stesso,
condanna.
“La vostra unione sarà benedetta da due figli,
destinati a un futuro di gloria e grandezza”.
Due figli. Avevano sempre parlato di due soli figli. Per
questo, in tutti quegli anni, pur amando il suo uomo con passione e
devozione, aveva spesso assunto, di nascosto da lui, le erbe che
l'aiutassero a non restare incinta perché, dopo aver perduto
due dei suoi bambini alla nascita, non voleva più soffrire
di un dolore tanto orrendo, non voleva più sentire il suo
cuore indurirsi come pietra e frantumarsi in mille pezzi, mentre
affidava la sua stessa carne, ancora calda del suo ventre, al riposo
della terra. Ora che teneva la sua Diorbhal sul petto, però,
ora che sentiva la forza, la Magia, il calore della sua bambina, Sheira
intuiva la verità: i veggenti si sbagliavano, c'erano i nomi
di tre figli incisi nel suo destino. Per la Strega, però,
non si sarebbe levato di nuovo il sole, Sheira sentiva che non avrebbe
visto l'alba. Il lupo da mesi piangeva per la custode di Habarcat, non
per la sua bambina. Ora lo sapeva. Era normale per
una Strega del Nord restare priva di forze per alcuni giorni, il tempo
di trasmettere, con il sangue e il latte, il potere ai propri figli, ma
non c'era nulla di normale nel freddo che raggelava le sue membra, in
quel torpore sempre più pesante, nel suo sangue che
continuava a fluire via da lei, inarrestabile, nonostante gli infusi e
la Magia che Cormacc le aveva praticato per arrestarlo.
Il Mago la strinse a sé, trepidante, Sheira sentiva che
aveva paura quasi quanto lei: Cormacc non era un veggente e non
riconosceva i segni nell'acqua e nel fuoco, ma la sua esperienza e la
sua abilità come Guaritore dovevano averlo messo in allerta,
lo percepiva dal passo veloce, dal respiro affannato, dall'urgenza con
cui la serrava a sé, mentre cercava di raggiungere non la
Sorgente, ma la grotta lungo il fiume. Cormacc aveva paura di perderla,
temeva per la sua infinita debolezza, temeva per quel corpo che tanto
amava e desiderava, sempre tanto forte e malizioso e ora
invece… Ora così fragile da non sorreggere
nemmeno il peso insignificante della loro bambina.
L'aveva implorato di lasciarla lì, tra gli alberi, di andare
avanti da solo, fino alla Sorgente, di portare in salvo Diorbhal, con
la Magia sarebbe riuscito a farla sopravvivere anche senza la mamma, di
fuggire con i ragazzi, a nord, sempre più a nord, ma non era
servito a niente: Cormacc era uguale a lei, innamorato come lo era lei,
non l'avrebbe lasciata per nulla al mondo, nemmeno per i loro figli,
voleva mantenere fino alla fine la promessa che le aveva fatto, quella
che la Strega serbava gelosamente nel suo cuore, con la stessa emozione
di quando non era ancora una donna, ma solo una ragazzina. Avrebbe
desiderato vivere ancora a lungo accanto al suo compagno, seguire la
crescita dei suoi ragazzi, accarezzare il volto di Cuilén e
Domnhall un'ultima volta, sapeva bene che gli dei la richiamavano a
sé troppo presto, troppo in fretta, lasciando in sospeso
troppe cose, ma Sheira non riusciva a maledirli né a
ribellarsi, non aveva rimpianti, anzi si sentiva grata e fortunata,
perché aveva ricevuto e donato tutto l'amore che
può unire un uomo e una donna ed entrambi ai propri figli, e
l'unico desiderio che le restava da realizzare, ora, era vedere la sua
famiglia, tutta la sua famiglia, in salvo. Per questo,
perché il suo tempo era finito e nessuno poteva farci
niente, pregava gli dei che la prendessero subito con sé,
lì, tra le braccia del suo uomo, così che di
fronte all'ineluttabilità della morte Cormacc si arrendesse
e la lasciasse andare, pensando infine a se stesso e a tutto
ciò che avevano creato insieme, con il loro amore.
Gli dei non erano intenzionati a prestarle ascolto, però,
anzi il destino giunse a travolgerli più rapido e feroce
della morte stessa: la foresta si riempì improvvisamente di
sibili strani, di frecce infuocate che cadevano dal cielo tra gli
alberi, erano stati raggiunti dagli uomini di Glower, i cani forse
avevano seguito l'odore del suo sangue caduto tra le foglie, e ora li
braccavano, sicuri e decisi, nel groviglio della foresta. Pur
senza parlare, avevano compreso: se non avessero rotto il patto fatto
con i Centauri e non avessero reagito, sarebbe finita, sarebbe finita
per tutti loro. Mosso dalla disperazione, Cormacc era intenzionato a
fare di tutto per difendere ciò che nella vita aveva di
più sacro e prezioso, non si sarebbe dato per vinto, fino
alla fine: Sheira lo vide fermarsi, turbato, guardarsi attorno, poi la
depose a terra, nell'incavo formato dalle radici di una sacra quercia,
in un punto in cui il terreno avvallava, creando una barriera contro le
frecce, nascosto tra il fogliame. Il Mago avvolse con cura la
bambina e gliela serrò tra le braccia, perché non
le scivolasse a terra, poi le coprì con il suo mantello,
perché conservassero a lungo il suo calore, ma quando
provò a tracciare un cerchio magico tutto intorno al loro
nascondiglio, così che le sue donne, in sua assenza, fossero
protette da qualsiasi minaccia proveniente dal bosco, non ci
riuscì completamente, perché la paura e la
disperazione offuscavano il suo potere. La Strega comprese e
lo guardò con sgomento, mentre le mani del Mago tremavano:
non c’era nulla nella foresta di An Monadh capace di opporsi
alla Magia di Cormacc o alla sua, la natura, volontariamente, si
prostrava sempre al potere di un Daur, ma occorreva essere saldi nel
dominio del proprio cuore e della propria mente, senza farsi turbare
dalle emozioni... Cormacc tentò ancora ma, di nuovo, non
completò il cerchio, allora mise sulle labbra di Sheira un
impasto d'erbe, le portava sempre nella sacca di pelle che teneva al
collo, la Strega riconobbe l'odore dell'avena, dell'ortica,
dell'astragalo e della passiflora, ne aveva masticato molto in quei
giorni, traendone però solo brevi momenti di
lucidità e forza: questa volta doveva resistere, a qualsiasi
costo, doveva resistere.
“Mastica lentamente, a lungo:
ti darà un poco di sostegno. Ti prego... devi resistere,
almeno finché non sarò tornato da te, devi
resistere per la nostra bambina... farò presto, li
spaventerò e li metterò in fuga, ma tu devi
restare lucida, Sheira, o Diorbhal piangerà e quegli uomini
non troveranno solo te... troveranno e faranno del male anche a lei...
”
L'aveva salutata con una carezza sui capelli, con un sorriso, il suo
bel sorriso, con un bacio sulle labbra, talmente appassionato da aver
in sé il fuoco del primo e la disperazione dell'ultimo: lo
sapevano entrambi che quello era un addio, quando lo vide immergersi
nella boscaglia, nella direzione da cui salivano fumo e rosseggiare di
fiamme, Sheira scoppiò in lacrime, perché sapeva
che non l'avrebbe visto mai più, che Cormacc non sarebbe
più tornato né da lei, né dalla loro
bambina. Restò immobile, preda della disperazione
più profonda, finché sentì muoversi,
lieve, sua figlia tra le braccia e un vagito infranse il silenzio della
foresta: no, non poteva cedere, non poteva lasciarsi andare
così, se voleva dare a Diorbhal una possibilità
di salvarsi, doveva impedire che la trovassero e sfruttare le poche
forze e il poco tempo che le erbe le avrebbero
concesso. Sheira masticò l'impasto e attese di
sentire un poco di forza tornarle nelle membra, stringendosi il
mantello addosso, così da non disperdere il calore, poi fece
appena leva sui gomiti tirandosi su quasi a sedere, con estrema
difficoltà, scoprì la testolina della piccola, su
cui spuntava già un folto ciuffo di capelli corvini, si
aprì la veste e la accostò tremante al seno, la
guardò poppare, avida, latte e vita, ogni stilla le toglieva
altra forza ma la trasmetteva alla sua bambina, e Sheira sorrise,
incitandola a prenderle tutto ciò che poteva, la sua vita,
il suo sangue, la sua Magia, la sua
speranza. Ammirò quel nasino minuscolo e quegli
occhi ancora serrati, le labbra rosse e umide, le manine chiuse a pugno
che sembravano nuotare lente nell'aria e poi aggrapparsi sicure e forti
a lei; sospirò a fondo, con le lacrime che le inondavano
inesorabili il viso e le appannavano ancora di più la vista,
poi raccolse con le dita il sangue che usciva ancora copioso dal suo
ventre e tracciò la runa di Cormacc sul collo della
piccolina. Una volta soddisfatta la fame di Diorbhal, Sheira si
sentì di nuovo mortalmente intorpidita, allora, temendo di
essere prossima alla fine, rapida, cercò di soffiarle le
preghiere antiche sulle orecchie, sulle labbra, sul viso, sul cuore,
affidandola alla protezione degli Antichi e sperando che la propria
voce e il proprio ricordo si fissassero per sempre nella memoria della
sua bambina, poi riprese a cullarla piano, finché non la
vide addormentarsi di nuovo tra le sue braccia. Lentamente, si
tolse il caldo mantello di Cormacc e l'avvolse per bene, la depose tra
le foglie, accanto a sé, poi, prostrata a terra, ormai quasi
del tutto priva di forze e vita, grattò il terriccio con le
unghie, tutto intorno al giaciglio della piccola, con
difficoltà, fino a ferirsi le mani, continuando a bagnare
del suo sangue la terra, e componendo, sfinita, ostinata, le rune del
nord, del sud, dell'est e dell'ovest intorno a lei, tra le foglie,
aiutandosi con quello che trovava, pezzetti di legno, sassi,
interrompendosi più volte, sbagliando più volte,
rifacendo i segni più volte, finché la piccola
non fu racchiusa nel cerchio magico più potente, quello che
non poteva essere spezzato da niente e da nessuno, nemmeno dalla Magia
di un Daur.
Gliene aveva parlato per la prima volta sua madre, prima di morire,
quando aveva appena nove anni, le aveva spiegato che come custode di
Habarcat, era destinata ad apprendere Magie sopraffine dai maestri, con
cui guidare e rafforzare la Sacra Fiamma per il bene dei Daur, ma
esisteva un'altra Magia, più forte di tutte le altre, capace
di sconfiggere qualsiasi altro potere, una Magia che non
s’insegnava e non si apprendeva, una Magia innata che
scaturiva forte, pura, indomita direttamente dal cuore: era
l’amore, l'amore che lega una madre al proprio
bambino. Sheira recitò il nome della sua Diorbhal
con tutto l’amore che sentiva nell’anima, con le
poche forze che le restavano tracciò quel nome col suo
sangue nella terra sacra, e l'affidò alla natura e agli
spiriti dei suoi antenati, perché la proteggessero e
trovassero il modo di salvarla. Infine, stremata, si
aggrappò al tronco della quercia che la sovrastava e
tremando di freddo e di febbre, s’inginocchiò ai
suoi piedi, baciò la corteccia e vi appoggiò la
testa, pensò con forza ai suoi tre figli e
supplicò lo spirito dell'albero di mandare un messaggio,
attraverso le fronde, in ogni angolo della foresta, fino a Banrigh, il
Centauro Custode del fiume. Quando erano giunti nella foresta
di An Monadh, sedici anni prima, era stata lei il primo Centauro che
avevano incontrato, subito dopo aver attraversato il fiume: la femmina
si era avvicinata a loro, austera e distaccata, non amava avere a che
fare con i Maghi, ma il suo compito la costringeva a svelarsi, doveva
conoscere le loro intenzioni, assicurarsi che portassero nel cuore e
nella mente sentimenti di pace, e concedere loro il passaggio solo se
intenzionati a rispettare la natura. Sheira e Cormacc le
avevano promesso che non avrebbero usato la Magia contro le altre
creature, che non avrebbero cacciato oltre le loro
necessità, che non avrebbero alterato gli equilibri della
foresta, e per sedici anni avevano mantenuto quei
giuramenti. Da allora, avevano visto la Custode del fiume solo
un'altra volta, quando Cormacc aveva trovato un giovane Centauro ferito
dai dardi di un cacciatore babbano e l'aveva salvato dalla morte con la
sua Magia: quando era arrivata alla radura, di notte, per cercarlo,
scoprirono che era il più giovane dei suoi figli e Banrigh
li aveva ringraziati e benedetti, pregando la Natura di ricompensarli
con ogni bene. Ora era Sheira ad aver bisogno dei Centauri,
non per sé ma per la sua bambina: se Cormacc fosse morto,
qualcun altro doveva portare Diorbhal dai fratelli alla Sorgente, ed
era sicura che Banrigh, una madre, non si sarebbe tirata indietro,
benché il suo popolo non amasse immischiarsi nelle faccende
umane. Sì, Sheira era sicura che Banrigh non si
sarebbe tirata indietro. Doveva andarsene da lì,
però, doveva lasciare sua figlia da sola nel giaciglio di
lana e foglie, protetta da una Magia che solo l’amore di
un'altra madre avrebbe potuto spezzare: come la volpe, che abbandona la
tana per allontanare i cacciatori dai suoi cuccioli, anche Sheira
doveva separarsi da Diorbhal, non poteva restare lì, il suo
sangue avrebbe attirato i cani e alla presenza di quegli uomini mossi
dall'odio, sapeva che Banrigh non si sarebbe mai avvicinata. La Strega
baciò un'ultima volta la sua bambina, poi si levò
lentamente in piedi, iniziò ad avanzare, tremando e
ondeggiando, la mente ormai offuscata le impediva di mantenere una
direzione precisa, solo l'abbaiare del cane e le urla degli uomini
atterriti dal suo compagno le indicavano, in mezzo al groviglio di
rami, alberi e foglie, dove si stesse consumando la battaglia.
Avanzò, infreddolita, esangue, decisa a raggiungere il
signore di Glower: sapeva che era lì per lei, se si fosse
lasciata catturare e uccidere, avrebbe soddisfatto il suo odio e
avrebbe dato a Cormacc una possibilità di
salvarsi. Quando le foglie si richiusero dietro di lei e
Sheira intravide più vivido il rosseggiare del fuoco, il
silenzio atterrito della foresta alle sue spalle fu percorso di nuovo
dal pianto della sua bambina: con le lacrime agli occhi, Sheira si fece
forza, e appoggiandosi a un altro tronco, avanzò di un altro
passo.
Fu l'ultimo. Esausta, sentì la sua Magia spegnersi
lentamente, e scivolarle dalle membra come un velo leggero, portando
via con sé il suo ultimo respiro: la Strega si
accasciò a terra priva di vita, tra le foglie, come una
bambola addormentata, il corpo baciato dalla rugiada, gli occhi di
mercurio socchiusi sullo splendore del cielo tempestato di stelle.
***
“Ho colpito il cane! Mio
signore, ho colpito il cane!”
Kenneth mac Maìl, lo scudiero del signore di Glower-o
'er-em, abbassò l'arco, asciugandosi con un braccio la
fronte madida di sudore e impiastrata di polvere e sangue: non poteva
crederci, ce l'aveva fatta, quel demonio fatto di zanne e artigli, che
aveva visto dilaniare e uccidere molti dei suoi compagni, era caduto
sotto il suo dardo e ora giaceva da qualche parte a terra, di
là della fitta selva di rovi che aveva davanti. Da
dove si trovava non vedeva il corpo, e pregava il Signore che non lo
mandassero in quella tetra oscurità a cercarlo, ma era certo
che il mostro fosse morto, non poteva essere altrimenti, l'aveva
colpito in pieno petto e la striscia di sangue che ora vedeva a terra
era troppo abbondante per chiunque, di sicuro anche per un figlio del
demonio come quello. Al solo pensiero, si rifece per
l'ennesima volta il segno della Croce, mentre Áed
mac Taidg, il suo signore, gli si avvicinava, la faccia illuminata da
un ghigno di follia che voleva essere un sorriso: di colpo tutta la
fatica della guerra e di quella notte di caccia, la paura, la
disperazione davanti alla morte dei suoi uomini e di suo figlio,
sembravano spariti dal suo cuore, uno sguardo smanioso era dipinto sul
suo volto, mentre sputava improperi e oscenità che
culminarono, arroganti, in un urlo che pervase tutta la foresta.
“Ora vengo a prendere anche a
te, puttana maledetta!”
Áed raggiunse lo scudiero avanzando con ampie falcate,
seguito dall'onnipresente Gregorius, il monaco irlandese che svolgeva
le funzioni di cappellano di corte, un omino basso e tarchiato, con il
volto da faina, la chierica lucida e i pochi capelli che gli erano
rimasti in testa candidi e arruffati. Kenneth sapeva che era
un uomo di Dio, ma ogni volta che il monaco gli posava gli occhi
addosso, si sentiva pervaso da un senso di profonda inquietudine,
qualcosa di persino più terribile del disagio che provava
quando doveva confessarsi e raccontare quanto la sua carne fosse
debole, fallace, imperfetta.
“Trova il corpo e portalo qui,
Gregorius vuole studiare quella dannata bestia!”
Lo scudiero guardò inorridito Áed, mentre il suo
signore si allontanava di nuovo, diretto ai portatori di cani,
chiamando un nome che si perse nel silenzio irreale della foresta, dopo
avergli imposto quella che sembrava una condanna a morte, non il premio
per una miracolosa impresa. Il soldato tremò per
alcuni istanti poi, segnatosi con la Croce del Signore, si fece largo
tra la vegetazione, pregando tutti i Santi che lo proteggessero:
superò la selva di spine, si guardò attorno,
capì la direzione da prendere quando notò dei
brandelli di pelo e carne sanguinante attaccati a dei rametti,
avanzò timoroso, finché gli sembrò che
il cuore gli si fermasse del tutto nel petto. Tra le foglie, a terra,
invece di un cane, c’era il corpo inanimato di un uomo,
trafitto da una freccia in pieno petto. Kenneth non poteva
credere a quello che vedeva, doveva per forza essere uno dei maledetti
intrighi dei Maghi o il potere sinistro della foresta di An
Monadh… eppure... No, dentro di sé sapeva che non
era un errore, non era un caso, non era una Magia: quella che aveva di
fronte piantata nel petto dell'uomo, era proprio una delle sue
frecce. Tremò: se la freccia era davvero la sua
allora ai suoi piedi, c'era la terribile dimostrazione
dell’esistenza di Satana sulla terra, perché solo
uno spirito tanto immondo poteva trasformare un uomo in un cane e
servirsene per arrecare morte e sofferenza. Era talmente sconvolto da
quella scoperta da voler urlare, ma era ancora più
terrorizzato, tanto che non ci riuscì. Non sapeva
cosa fare. Non aveva il coraggio di avvicinarsi e guardare meglio, di
toccare e capire se era davvero morto, l’unica cosa che
voleva era allontanarsi il più possibile da lì,
magari chiamare i suoi compagni in quel punto, di certo non voleva
restare da solo con quell'essere; d’altra parte, era anche
vero che il suo signore gli aveva impartito un ordine e sapeva quanto
potesse diventare violento di fronte a un rifiuto. Doveva
portargli quel corpo il più velocemente possibile, non aveva
altra scelta. Kenneth si fece coraggio, titubante si
avvicinò e dopo averlo toccato con la spada, vedendo che non
reagiva, si piegò, prendendo l’uomo per le gambe e
trascinandolo attraverso le sterpaglie: il corpo era possente, pesante,
ancora caldo, ma era veramente morto, non reagiva in alcun modo al suo
tocco. Lo scudiero prese via via più fiducia e si
mosse sempre meno lentamente, l'orecchio teso a cogliere qualsiasi
fruscio sorgesse tra le foglie intorno a sé. All'improvviso,
così piegato, qualcosa attirò la sua attenzione
da dietro dei cespugli: si fermò, lasciò cadere a
terra le gambe dell'uomo, estrasse di nuovo la spada dal fodero e
scostò con la punta della lama alcuni rovi per vedere
meglio. Pallida come la luna, a terra, dietro dei cespugli,
vide una specie di bambola che sembrava riposare tra le foglie, avvolta
in una tunica scura, il viso e i capelli in parte coperti da un
mantello, la pelle delle gambe e delle braccia esposte in buona parte
alla vista.
Possibile che fosse la Strega? Possibile che anche lei fosse
morta? E se era così, che cosa l'aveva uccisa?
Rimase per alcuni secondi a guardarla, quel volto, già solo
a guardarlo da lontano, gli trasmetteva un senso di pace, voleva
avvicinarsi, toccarla, baciarla, solo con difficoltà l'uomo
riuscì a ritornare in sé e a ricordare chi fosse
e soprattutto cosa fosse quell'essere. No, non doveva
avvicinarsi o sarebbe caduto sotto qualche maleficio di quella dannata
Strega, magari il turbamento, l'attrazione che provava in quel momento
era proprio frutto degli incanti del demonio per strappargli
l’anima e farla bruciare all’inferno. Si
ritrasse e, mettendo da parte, di nuovo, qualsiasi cautela,
iniziò a urlare a squarciagola perché corressero
tutti lì: aveva trovato anche la Strega.
***
Áed fremeva di eccitazione, tutto preso dai suoi pensieri,
mentre ritornava verso Gregorius: aveva appena parlato con i portatori
dei cani e distribuito i compiti, stando ai suoi calcoli, ora che il
mostro che difendeva la Strega era morto, dovevano esserci almeno altri
quattro Adoratori di Satana, attorno a loro, nascosti nelle tenebre
della foresta. Eppure, benché fossero in evidente
inferiorità numerica e strategica, non conoscendo il bosco,
il signore di Glower si sentiva ottimista e pregustava la vittoria,
perché poteva opporre alle arti demoniache dei Maghi, la
croce e il rosario del suo cappellano. Sentiva che li avrebbe catturati
presto, vivi o morti, tutti quanti. Pregava di riuscire a
prendere lui stesso la Strega, la voleva uccidere con le sue mani, ma
non voleva chiudere quella storia subito, più ci pensava e
più si convinceva che la morte era troppo poco, voleva farla
soffrire, nel più orribile dei modi. Oltre alla
fattucchiera, poi, c'erano l'uomo che aveva provato a impiccare, senza
riuscirci, e quel figlio maschio di circa diciotto anni, quello che
aveva visto al collo della Strega al mercato di Fonn Abhuinn: avrebbe
fatto pendere dalla forca entrambi gli uomini, sulla pubblica piazza,
anzi, sarebbe stato lui stesso il boia, voleva far vedere a tutti che
si era pentito dei suoi peccati, che era tornato a essere un uomo
timorato di Dio. E, soprattutto, avrebbe costretto la Strega ad
assistere, così che provasse, vedendo con i suoi occhi la
morte del proprio figlio, lo stesso dolore devastante che
Áed aveva sentito spezzargli il cuore, quando aveva raccolto
il corpo esanime di Mael dalla nuda terra.
Mael…
Suo figlio, il suo unico figlio… Non c'era solo il dolore
per la morte e il desiderio di vendetta a dominare la mente del signore
di Glower, c’era anche una strana, folle speranza: se era
nato maschio e il rigore dell'inverno non l'aveva già
strappato alla madre, doveva esserci almeno un altro bambino, di non
più di cinque o sei anni, ricordava bene che la Strega era
incinta l'ultima volta che l'aveva vista, quando, con quel maledetto
cane, aveva salvato il suo uomo dal boia. E chissà,
magari ne aveva altri ancora. Da quando il cappellano gli
aveva assicurato che i bambini maschi, al contrario delle femmine,
erano offerti al demonio non alla nascita ma al compimento dei dieci
anni, l’idea di scontrarsi con la Strega l’aveva
riempito d’inquietudine, odio, esaltazione ma anche di un
desiderio che aveva vergogna ad ammettere persino con se
stesso. Áed cercava di ricordare che si trattava
pur sempre del figlio di una Strega, ma il suo pensiero tornava sempre
lì: se la fattucchiera avesse avuto dei figli maschi di non
più di dieci anni… se fossero stati ancora dei
bambini normali… se, una volta battezzati e opportunamente
riconsacrati, fossero davvero stati liberi dal
Male… Bambini maschi, uguali a tutti gli altri,
probabilmente più forti e robusti di tutti gli
altri… Áed aveva paura a formulare razionalmente
quel pensiero, ma dentro di sé la smania e
l’eccitazione si fondevano e si libravano superando timore e
superstizione: potevano essere cresciuti come dei figli? Dei figli
perfetti? Se avesse trovato quel bambino, quei bambini, se
fossero davvero stati dei maschi, avrebbe potuto prenderli e allevarli
come propri? Se col battesimo il cappellano poteva davvero
farne dei buoni Cristiani, per quale motivo non avrebbe dovuto
prenderli con sé? Quella donna maledetta gli aveva
promesso un figlio maschio e lui... Le aveva persino offerto,
anni prima, ben venti monete d'argento per averlo e invece, ora, di
nuovo, si ritrovava senza niente... Sì, quei figli
gli spettavano di diritto e lui non intendeva né poteva
aspettare oltre! Áed avrebbe ottenuto il maschio,
anzi i maschi, che il destino gli doveva. Un uomo aveva il
diritto di perpetuare il proprio nome... E se sua moglie non era stata
capace di... allora lui aveva il diritto persino…
Ricordò di colpo la fierezza dello sguardo di mercurio
dell’Adoratrice di Satana, l'altezzoso rifiuto che gli aveva
opposto, la voluttà di quel corpo pieno, quella Strega gli
turbava i sogni e il corpo ormai da anni, e di colpo l'ira, il dolore,
la sete di vendetta si fusero al desiderio fisico di possederla e lo
travolsero. Áed temette di diventare pazzo,
respirò a fondo: perché prendere il figlio di un
altro uomo, un bastardo, quando poteva averne uno proprio? Se avesse
trovato dei maschi, glieli avrebbe strappati e li avrebbe cresciuti per
farne dei buoni soldati, certo, ma si sarebbe tenuto anche lei, voleva
tenersi anche lei, demonio o non demonio, la voleva, prigioniera, nelle
segrete, come l’animale che era, la voleva per prenderla ogni
volta che ne avrebbe avuto voglia, finché lei,
così feconda, gli avrebbe dato il maschio, anzi tutti i
maschi che il destino finora non gli aveva concesso. Solo alla fine,
quando si fosse stancato, quando avesse ottenuto tutto ciò
che desiderava, si sarebbe sbarazzato anche di lei. Sì,
avrebbe fatto così... Quanto alle figlie della Strega...
quelle non si potevano salvare nemmeno con il battesimo, pertanto non
aveva senso tenere in vita altre bocche da sfamare, nemmeno per trarne,
un giorno, soddisfazione... Non le avrebbe tenute nemmeno come serve,
le avrebbe fatte bruciare tutte, subito, si sarebbe vendicato
così della Strega, l'avrebbe costretta ad assistere
all'orrore che avrebbe scatenato contro i suoi figli, proprio come a
lui era toccato vedere la morte di Mael. Sapeva di essere
dalla parte del giusto, lo dimostrava l'esser riusciti già
ad ammazzare quel maledetto cane... Nemmeno per un istante
Áed pensò che quella minima vittoria era stata
ottenuta a costo di tante, troppe vite, che stava mandando a morire la
sua gente, per quella che era solo un’ossessione, una follia,
non riusciva a comprendere che qualsiasi vendetta, nemmeno la
più turpe, gli avrebbe reso suo figlio.
All’improvviso le urla di Kenneth dal fitto della foresta,
là tra quei rovi in cui gli aveva ordinato di entrare, lo
ridestarono dal suo delirio personale: Áed mise mano alla
spada, diede una rapida occhiata al cappellano perché lo
seguisse e lo proteggesse con la Croce, ritornò sui suoi
passi, il cuore in tumulto, l'ira affamata a governargli il corpo e la
mente. Aveva sentito bene? Kenneth aveva proprio detto di aver trovato
anche la Strega? O forse il suo scudiero era già impazzito?
Tutti sapevano che su An Monadh era stata gettata una potente
maledizione, ma Áed non se ne curava, avanzava sicuro, ora
che la vendetta stava per essere consumata, non aveva alcun timore,
nulla sarebbe riuscito a fermarlo, nemmeno la più oscura
delle creature uscite dall’inferno. Quando vide i rovi
schiacciarsi al passaggio del suo scudiero e l’uomo,
apparentemente incolume, avvicinarsi, i suoi occhi fissarono carichi di
attesa l'oscurità alle sue spalle e il dolore cupo per Mael
spazzò via, di nuovo, qualsiasi altro sentimento.
“Dov'è?”
Non aspettò nemmeno che lo scudiero formulasse una risposta,
lo superò e si fece largo tra il fogliame, mentre Kenneth
farfugliava qualcosa su un cane, che non era un cane ma un uomo, lo
implorava di non andare, di aspettare di essere raggiunti anche da
altri, di non far conto solo sulla Croce di Gregorius, che lo seguiva a
capo chino, muto, particolarmente pensieroso. Áed non gli
prestò ascolto, non gli interessava più niente,
solo stringere le sue dita attorno al collo della
Strega. Rapido raggiunse il luogo in cui giaceva il corpo
seminudo del condannato alla forca, lo riconobbe subito dal naso curvo
in una piega strana, si compiacque quando vide la freccia mortale
conficcata nel petto, proprio all'altezza del cuore, sentì
quasi un piacere fisico pensando che la Strega avesse visto il dardo
penetrare nella carne amata, lacerarla, danneggiarla, togliere per
sempre la vita al suo uomo. Si avvicinò ancora di
più, sempre con Gregorius al seguito, sollevò la
spada che reggeva nella destra, l’aveva tenuta sempre
sguainata da quando era entrato nei territori di An Monadh,
ammirò il luccichio metallico della lama, poi di colpo la
calò sul corpo dell'uomo, rapida per tre volte, per sfregio,
dritta in pieno petto, allargando ancora di più la ferita
provocata dalla freccia. Con un sorriso di soddisfazione sulle labbra,
proseguì nell'oscurità della vegetazione, nella
direzione che gli aveva indicato lo scudiero appena l’aveva
raggiunto: la Strega era lì, oltre quelle foglie, che lo
aspettava. Ordinò al cappellano di seguirlo e a Kenneth di
trascinare l'uomo-cane fino al fiume.
***
Kenneth si chinò di nuovo sul corpo del Mago, lo prese per
le gambe e si mosse a ritroso per alcuni passi, rassicurato dal fatto
che presto sarebbe uscito dal folto della vegetazione e avrebbe
raggiunto una radura scoperta, in riva al fiume, dove avrebbe atteso al
sicuro i portatori dei cani. Aveva persino sentito alcuni fruscii
dietro di sé, probabilmente stava già arrivando
uno dei segugi. All'improvviso, però, mentre con
fatica trascinava il corpo del Mago, si ritrovò a cadere a
terra, all'indietro, perdendo la presa sul morto: forse era inciampato
su un ramo, o su un sasso, o addirittura sui suoi stessi piedi, corse a
guardarsi i calzari per capire cosa l'avesse fermato. Con orrore vide
che due serpenti gli si stavano annodando stretti alle caviglie.
Cercò di sollevarsi a sedere, di estrarre la spada dal
fodero per assestare un colpo preciso che uccidesse i rettili e lo
liberasse, ma anche sul suo polso si stavano già annodando
un paio di serpi dalla testa verde, apparsi dal nulla. Provò
a urlare per chiedere aiuto, ma la voce non gli uscì dalla
gola: sinuoso, un altro rettile gli si stava stringendo al collo,
serrandolo via via sempre con più forza, togliendogli il
fiato poco alla volta, annebbiandogli sempre più la vista e
la mente. Kenneth era sicuro che a quell’ora, quasi prossima
all’alba, i serpenti dormissero ancora, nascosti nelle loro
tane o sotto le pietre, e rabbrividì ancora di
più al pensiero che quelle bestie non si stessero
comportando secondo natura, che una forza demoniaca avesse preso il
controllo delle loro azioni. Non fu capace, però,
di connettere a lungo i suoi pensieri, la serpe sul collo strinse
ancora di più, trasformando il suo difficoltoso respiro in
una specie di rantolo, mentre alle caviglie e ai polsi, affilati, i
dentini delle serpi gli penetravano ripetutamente la carne,
iniettandogli più e più volte, nel sangue, il
loro fluido venefico. Lo scudiero voleva implorare
pietà, urlando tutto il suo dolore e la sua paura, mentre le
serpi colpivano e colpivano ancora, ma ormai, anche se la serpe non
stringeva abbastanza il suo collo da farlo morire soffocato, non
riusciva quasi più a respirare. L’uomo si
sentì girare la testa, il freddo e il fuoco si alternavano
nelle sue membra, l'oscurità prendeva a poco a poco il suo
sguardo rendendolo semicieco, mentre si dibatteva per la febbre e il
dolore, senza tregua, percorso dalla più atroce delle
torture, in attesa che il veleno giungesse al cuore e il suo corpo
cedesse all’oblio.
L'ultima cosa che vide, mentre il suo corpo era devastato dalle
convulsioni, fu un'ombra: ne vide distintamente solo una gamba, ma la
sua mente alterata riconobbe la gamba di un
uomo. L’ombra si muoveva a pochi passi da lui, al
limitare di ciò che restava del suo campo visivo, si
chinò a raccogliere la sua spada, a pochi centimetri dalle
sue mani, lo sentì, chiaramente, la sua voce era simile al
sibilare del serpente, e si levava appena in un canto
sconosciuto. Kenneth ne era convinto, le serpi facevano
scempio della sua vita aizzate proprio da quello strano canto.
L’ombra avanzò fino a inginocchiarsi sul corpo
dell’uomo che era stato un cane, non si curò in
alcun modo di Kenneth, non gli alleviò le sofferenze
togliendogli la vita, si sollevò invece poco dopo, la spada
stretta nel pugno, e penetrò tra la vegetazione, lasciando
lo scudiero lì, a morire nelle più atroci
sofferenze, come un animale.
*continua*
NdA:
Ringrazio tutti coloro che hanno letto, aggiunto alle liste e/o
commentato. Abbiamo ritrovato due personaggi che avevamo
conosciuto nel primo capitolo, Aed e il suo scudiero, e
conosciuto Banrigh (= in gaelico questa parola significa
"signora", "regina"). Per il nome di uno dei suoi figli ho usato il
nome del capo dei Centauri al tempo di Harry Potter,
Magorian. Per Sheira era quasi scontato un certo tipo di finale (fatto
di violenza sessuale, sangue e dolore), data la situazione, ma appunto
sarebbe stato il finale più scontato, ecco quindi che, se
proprio si doveva parlare di morte, ho voluto caratterizzare
i suoi ultimi istanti non con l'odio ma con l'amore,
ricollegandomi al filone della Rowling di madri che muoiono salvando i
propri figli. Il momento "horror" arriva alla fine, e in questo modo ho
anche fatto fuori tre personaggi in due capitoli. Un bacione.
Valeria
Scheda
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