gamle4
Eton,
Inghilterra.
Gennaio
1980
La
ruota del Fato ha cominciato a girare. E lui, per primo, sente.
Nessuna
chiamata, a destarlo: Minosse, re antico, ne viene cullato sin dalla
nascita, come una ninna nanna. Destinato agli Inferi, attratto
dall’oscurità, si nasconde poco e tuttavia finge
molto: non ha
ancora coscienza di sé e del suo futuro, né tanto
meno può
prevederlo. Ma percepisce il girare della ruota, e sa attendere,
Minosse, re antico. I mostri sono suoi figli, li sono sempre stati:
di vita in vita, dal possente Minotauro ai genii delle foreste
norvegesi. I mostri sono suoi figli, e quando non gli appaiono, li
tira con i suoi fili. Li colleziona come bambole. In attesa.
Capitolo
IV
Rowing
Il
prato verde tagliato corto si estendeva nella sua dolce pendenza sino
all’acqua scura, che baluginava ad ogni colpo di remo,
muovendosi
pigra e quasi senza rumore.
Gli
scrosci lenti e il vociare dei ragazzi che scendevano dalle canoe
attraversavano l’aria piatta e fredda sino a giungere
distanti alle
orecchie di Minos. Il ragazzo cincischiava slacciandosi e
riallacciandosi le stringhe delle scarpe, già seduto
sull’erba,
evidentemente poco interessato a rimettere a posto remi ed attrezzi.
Un
ragazzo decisamente più robusto di lui lo urtò di
proposito, senza
ricevere dal compagno
la benché minima occhiata. Quella arrivò tardi,
intensa ed
indecifrabile, nascosta dalla folta frangia, e rivolta più
che a lui
alle sue spalle; ma quello già stava facendo finta di
niente,
mettendo via le lunghe aste di legno, un sorrisetto complice ad un
compagno di canottaggio. Che, tanto per dar manforte
all’amico, si
era già piazzato davanti a Minos, pestandogli le stringhe.
Ci
fu un gran sghignazzare, fino a che proprio lui, che era il
più
magro, pallido ed esile dei tre si alzò in piedi, e con uno
spintone
spedì il tizio dei remi dritto in acqua.
Un
grande scroscio, molti ragazzi si voltarono, e le risate del tizio
delle stringhe aumentarono inspiegabilmente di volume, mentre il
norvegese si sfregava le mani: “Idiota. Te lo do io il
remo.”
Con
somma calma, riemersero due mani.
Poi
riemerse tutto il corpo, giovane, robusto e temprato dagli
allenamenti di rowing.
Senza
dire una parola, il ragazzo risalì sulla riva,
strizzò la
canottiera, la rimise nei pantaloni.
Il perfetto gentiluomo.
Umidiccio.
“Holy
God,
Minos. Non sai stare allo scherzo.”
“Ti
faccio passare io la voglia di… e tu non ridere”
anticipò con
un’occhiata gialla l’altro, che ovviamente si stava
sbellicando.
Il Lord zuppo, intanto, si rinfrancava come ogni suo pari discorrendo
sulle condizioni metereologiche: “Mh. Il sole è
così tiepido,
questa mattina, non è vero?”
Non abbastanza per riscaldarlo,
evidentemente, perché dovette togliersi la canottiera, dopo
qualche
vano secondo di speranza nella pallida mattina lattiginosa di Eton.
Minos lo degnò vagamente di uno sguardo, stendendosi
sull’erba con
una studiata aria sofisticata:
“Voi
inglesi non sapete far altro che parlare del tempo.”
“E
la cosa peggiore è che è la cosa più
interessante, qui intorno”
chiosò il terzo dello sparuto gruppetto, ignorando sia il
gesto
ostentato con cui il norvegese si calcava in testa un cappello
alquanto improbabile (e quasi sicuramente fuori regolamento), che lo
spogliarello del biondino. Costui, che più che sfoggiare
chissà
cosa aveva intenzione di evitare di prendersi un raffreddore,
pensò
bene di finire di mettere a posto i remi. Nel mentre, diede prova di
un’ironia un po' più diretta: “La
Norvegia, immagino, è molto
più vivace.”
“Puoi scommetterci.” Sbottò invece
l’interpellato, alzandosi mezzo seduto. “In
Scandinavia, o
splende il sole o infuria la tormenta. Nessuna mediocre via di
mezzo.”
“Posso immaginare” non raccolse, l’altro,
schizzandogli appena qualche goccia d’acqua mentre tornava a
sdraiarsi vicino gli altri due, sul prato. Tutti gli altri ragazzi si
stavano già andando a cambiare, per godere il più
possibile dei
minuti di tempo libero dopo l’allenamento.
“Non resisteresti
una notte” sfoderò un ghigno spettrale, tornando
alla carica,
quello che l’inglese aveva avuto la sfortuna di ritrovarsi
per quel
semestre come vicino di stanza: “Agli ululati della
tormenta…”
Lui
alzò un aristocratico sopracciglio all’espressione
da fantasma con
cui quell’altro, evidentemente, voleva spaventarlo:
“Che
assurdità. Non dici altro che
assurdità.”
Minos
rovesciò il capo indietro, ridendo, e da quella posizione
rivolse un
ghigno anche all’altro ragazzo:
“E tu? E tu resisteresti?”
“Io?
Io le cose che ululano...” ghignò lui
“…me le mangio.”
E
da là sopra gli fece il verso,
restituendogli una smorfiaccia da fantasma. Il biondino, ignaro
dell’improvvisa complicità degli altri due, aveva
intrecciato le
mani sotto la nuca, godendosi il tepore di quella mattinata gentile.
Ma venne interpellato ben presto:
“Non
come il piccolo lord, qua.”
“Già.
Mangia solo porridge,
lui.”
“Minos.
Ryan.”
Calmissimo e immobile, non aprì nemmeno gli occhi.
“Fuck
off.”
Nessuno
si fece impressionare dalla sua
piazzata, men che mai un giovane principe norvegese, che si
alzò
apposta per oscurargli il sole sulla faccia, incitandolo a male
parole. Sembrava molto più allegro e divertito di quanto
fosse nel
rigore reale di Oslo, o tra le nevi incantate di Gamlehaugen; era
più
rapido, più reattivo, gli occhi più svegli. La
parlantina più
sciolta, toni di voce più alti, si divertiva ora a scuotere
alla
buona con un piede il compagno che oziava sul prato, pronunciando il
suo nome come se fosse qualche cosa d’irrimediabilmente
comico:
“Avanti,
Charles.
Siamo sempre stati cordiali l’uno con l’altro, ma
adesso che
siamo vicini di stanza dovresti fare lo sforzo di socializzare, non
ti pare?”
Nessuna
reazione.
“Sii…”
gli schiacciò lo stomaco col piede.
“…socievole!”
Peccato
che gli studenti dell’Eton College non fossero
accondiscendenti
come i suoi domestici, né docilmente sottomessi come le sue
bambole:
si prese senza troppe cerimonie una gomitata un pancia e venne
atterrato da un inglese deciso e scocciato. Erano in vita sua le
prime volte che finiva per prendere botte, ma aveva cominciato
inspiegabilmente a prenderci gusto. Rise, malignamente ma rise,
opponendo una blanda resistenza, per quel che ne era capace.
Ad
un certo punto Ryan decise che tutto quel contatto fisico a casaccio
gli piaceva.
“Non
è un comportamento da gentiluomini, il tuo” stava
impartendo
lezione Charles, tenendo giù Minos con un ginocchio. E gli
arrivò
l’altro addosso.
“Levati!”
protestò, rauco. Tuttavia, cercare di scalzare via un altro
atleta
in maniera composta
è auspicabile, per un Lord, ma non sempre fattibile;
riuscì a
saltare indietro con più decisione solo quando la risatina
spettrale
di Minos cominciò a suonare troppo melliflua. Tutti e due si
tolsero
presto di mezzo e rimasero a guardarlo abbastanza perplessi. Charles
fece gesto di spolverarsi una camicia che non aveva, dal momento che
era ancora a torso nudo: “Minos! Le lezioni del professor
Talbot
non ti hanno insegnato nulla? Contegno!”
“Intanto
ti sei levato.”
Lui
scosse il capo, apparentemente cambiando argomento:
“È
quasi l’ora del tè.”
“Mancano
tre quarti d’ora!”
Mentre
gli
altri due battibeccavano, Minos, da steso che si era rimesso, si
rivoltò a pancia in giù, ozioso. Passò
le dita lungo un filo
d’erba e lo staccò, tacendo per ancora qualche
minuto. Poi domandò
ai due compagni, senza voltarsi a guardarli:
“Voi
che cos’avete fatto durante le vacanze di Natale?”
Dopo
i primi secondi di silenzio, passati a guardarsi come se dovessero
consultarsi, il biondino assunse un’aria molto seria, quasi
contrita:
“Ho cantato molte carole.”
Il
più scuro dei due invece si limitò ad alzare le
spalle:
“Ho
ripreso a masticare coca.”
Charles
si voltò con aria scandalizzata verso il
ragazzo di fianco.
“Ah,
ma tu racconta pure delle carole.”
“Mia
sorella” lo fulminò con un’occhiataccia,
infatti, riprendendo a
raccontare “suonava il piano.”
Ha
una sorella?,
fu l’espressione scambiatasi in simultanea degli altri due.
“…quando
era ancora in vita.”
“Ah.”
“Quindi
da quest’anno ho iniziato a suonare io.”
“Com’è
inglese, questa faccenda delle sorelle che muoiono.”
“Passane
anche a me” s’intromise subito Minos, i capelli
sulla fronte che
rendevano indecifrabile l’espressione del viso. Sembrava
attento e
vigile. Naturalmente si riferiva alla coca.
“Nah”
ghignò il moretto, che effettivamente qualcosa ruminava, al
momento,
ma poteva essere anche solo un filo d’erba. “Ai
ragazzini
magrolini fa male.”
“Magrolino.
Tskch.”
Lo guardò malissimo lui, punto sul vivo. Non era affatto
come diceva
Ryan, per giunta, nonostante l’idiota allungasse le manacce
per
pungolarlo alle costole, come a dimostrargli quanto fossero in
rilievo. Era anzi di corporatura sana ed atletica, teneva il passo in
marcia, sfilava dritto facendo la sua figura nelle processioni
studentesche: era solo che di fianco a entrambi i compagni, di indole
più sportiva, la sua muscolatura scadeva al confronto. Se
gli altri
due non avessero colto ogni opportunità buona per
rinfacciarglielo,
non vi avrebbe dato neanche troppo peso.
Charles
sospirava, intanto,
il viso rivolto al lago che si perdeva fra le fronde, senza badare a
loro.
“Little
Elizabeth…”
“Ma
secondo te” interloquì il moro, le sopracciglia
contratte, prima
di sputare a terra il filo d’erba ripetutamente masticato
“è una
tara genetica degli inglesi, o è solo lui?”
Solo
lui e Coleridge, stava
per dire Minos. Ma
anche Byron, pensò. E Wordsworth. E
Keats. Quindi tacque. Forse era una tara degli inglesi.
“Non
saprei” rispose quindi, indifferente, ad una domanda
altrettanto
indifferente. “Non ho sorelle morte.”
“Io
sì, ma non faccio mica tutte quelle scene.”
“Dovresti
trovarti un hobby, Minos, anche dove vivi tu” li riscosse la
voce
profonda del ragazzo seduto poco avanti. Serio, come se le sorelle
fossero un hobby. Poi spostò gli occhi verso Ryan,
guardandolo come
se fosse un totale insensibile.
“Ho
già un hobby. E non m’interessano i
marmocchi.”
Aveva
parlato Minos, adesso, gli occhi gialli attenti.
La
conversazione si era portata su toni assurdamente surreali, e persino
lo scroscio dell’acqua si era fermato. Guardò con
attenzione i
suoi due
compagni di college, senza un motivo particolare – senza
pensare a suo fratello minore, il suo fratellastro di sei anni che
avrebbe regnato sulla vasta Norvegia. O alla bambina, sua sorella.
Non gli importava.
Schiuse
le labbra, in quel silenzio irreale e morto,
e fissò lo sguardo in quello di Ryan, scuro e fermo quanto
il suo.
Irreale.
“Anche
tu?”
“Cosa?”
“Sorelle
morte.”
Lui
serrò le labbra, sbrigativo. Ma non distolse gli occhi dai
due,
affascinato.
“Ah.
Sì.” Tono plumbeo. Occhi fissi. Charles guardava
l’acqua. “Due.”
Surreale.
Il racconto. Il tono della voce. L’acqua.
L’atmosfera
si fece pesante. Come avevano fatto a non avvertirla, molto prima?
Il
biondo seduto sulla riva smise di sfidare il debole sole di gennaio.
Si rimise la canottiera, distogliendo col rumore della stoffa e dei
remi goffamente
urtati l’attenzione da quell’atmosfera densa e
inquietante:“…and
we all ate Christmas pudding.”
Una
qualsiasi inglesità che era matematico catturasse
l’attenzione dei
due compagni, i
quali infatti recuperarono in fretta la loro verve.
“Ah,
certo” ghignò Minos. “E tu?”
“Io?”
rispose Ryan, sgrattandosi i capelli scuri. “Le cose che
facciamo
tutti gli anni. La corsa coi lama…”
“La
corsa coi lama!” rise Minos nel suo modo maligno e
sarcastico,
mentre Charles guardava Ryan come se gli avesse detto che andava a
lezione senza cravatta.
“Eh.
Perché, non è una noia mortale?”
ribatté quello, un sorrisetto.
“Sempre
a dire assurdità… lama! Ma come ti vengono in
mente?”
Ma
fu
la voce di Minos che inspiegabilmente catturò
l’attenzione di
entrambi.
“Io…”
Si
voltarono.
Il
ragazzo disteso aveva appoggiato
il mento su entrambe le mani: un ghigno allungato, una mezzaluna
pallida gli solcava il volto bianco. I due ragazzi si bloccarono,
senza cambiare espressione, di fronte a quel sorriso, a quello
spettro, a quella marionetta dall’espressione sardonica che
li
fissava entrambi. Videro scintillare due lampi dorati da sotto i
capelli, come se il mondo, l’orario delle lezioni,
l’acqua del
lago si fosse fermata per accogliere qualcosa.
E
lui schiuse le labbra, improvvisamente perfido.
“Io
ho trovato un giocattolo.”
~
Gamlehaugen’s
corner by
Rucci
Prepotente
cambio scena, prepotente cambio di personaggi. Rimane solo Minos,
sempre generoso nel distribuire le sue angherie al prossimo. Anche se
in questo capitolo lo si vede soprattutto subire, non
tarderà a
prendere in mano i fili della situazione, come ben avrete immaginato;
ma abbiamo voluto mostrarvelo anche così, in bilico fra un
mondo
prevalentemente terreno e ancora l’altro.
Lo scenario è meno suggestivo e ricco di spunti della
foresta
norvegese, e ci sono in gioco personaggi decisamente più
pragmatici
con cui raffrontarsi: qual è il legame con le forze infere?
La struttura
della fanfic, ad ogni modo, è impostata a 'triadi' di
capitoli, di
cui la prima è già conclusa: tre a tre sono
autoconclusive, se
così si può dire. Ma ovviamente si richiamano
tutte a vicenda.
Questa è la
seconda: speriamo che vi piaccia abbastanza da continuare,
perché
abbiamo bisogno di tanto supporto, con tutti i progetti che abbiamo
in corso. Sììì, sono troppiii!
Dannazione! Vogliamo la stanza
dello spirito e del tempo! Ci spetta di diritto! *C*;
Grazie
a…
Shinji
e Ayako,
che ci hanno commentato nello scorso capitolo. Ma a tutti coloro che
hanno letto e seguito la fic, che l'hanno gradita tanto da metterla
fra preferiti e seguiti, cercheremo di non deludervi. Davvero. Un
bacio.
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