14. UNA LACRIMA DAL
CIELO
Are you crying or is
it the rain
Falling down to wash away your tears?
– Are You Crying?,
Cinema Bizarre –
Aveva
occhi di un verde
innaturale e l’aspetto di una bambina che non aveva ancora
finito di crescere,
minuta e dal viso innocente, con lineamenti morbidi che contrastavano
con il
turgore provocante delle labbra, di un rosa molto più
intenso della pelle, e le
mani piccole e leggere.
Era
un peccato che una fanciulla
così graziosa dovesse morire.
Arith
non poté fare a meno di
dispiacersi per lei, anche se sapeva che non avrebbe dovuto. Non
c’era posto
per la pietà nel suo mestiere, aveva convissuto con questa
consapevolezza da
sempre, fin da quando, ancora bambino, aveva iniziato a fare il
ladruncolo a
Torresco, seconda città di Corterra, rubacchiando ai
forestieri e al mercato.
La
sua giovane età e la sua
discreta conoscenza degli aspetti più gretti e insabbiati
del Mondo Occulto lo
rendevano diverso dai suoi confratelli dell’Ordine, la
maggioranza dei quali
proveniva dai ceti medi della società, gente benestante e di
cultura che della
realtà da cui proveniva lui conosceva solo ciò
che aveva sentito dire, o di cui
aveva letto in qualche libro.
Arith
quella sera cercava di fare
del proprio meglio per sembrare uno di quei cadetti della Domus Aurea
che si
atteggiavano a grandi soldati con la schiena eretta e il passo
marziale, ma la
sua natura selvatica stentava ad adattarsi. Si sentiva a disagio
nell’elegante
divisa pregiata e tutta la sua attenzione era per i movimenti da
seguire nel
ritmo della danza dettata dalla musica. Non era cosa per lui, quella.
Genesis
gli aveva spiegato cosa
doveva fare: isolare la ragazza, renderla innocua e, con la massima
discrezione
possibile, portarla fuori dal palazzo il più rapidamente
possibile.
Dianthe
era da qualche parte
nella sala e lo teneva sotto controllo da lontano, anche se lui non
riusciva a
scorgerla. La copertura aveva funzionato e nessuno aveva fatto caso a
lui,
quando si era presentato con lei a braccetto. Ora doveva solo fare in
modo di
mettere in atto il piano.
Portava
un anello molto
particolare alla mano sinistra, all’interno del quale erano
state nascoste
poche gocce di una droga soporifera che gli sarebbero servite per
portare via
la ragazza senza rischiare che lei si ribellasse e attirasse quindi
attenzioni
scomode. La sua vittima mostrava già sintomi evidenti di
stanchezza e lo
seguiva a fatica. Sarebbe stato facile.
Sfregò
il medio tra indice e
anulare, facendo ruotare l’anello quanto bastò per
far sporgere la minuscola
punta affilata dal palmo e fece cadere il grumo di cera che lo
sigillava.
Strinse appena più forte la vita della sua compagna di
danze, in un punto in cui
gli incroci tra i nastri del corsetto gli permisero di pungerla senza
fatica.
Lei non se ne accorse nemmeno.
–
Vi vedo pallida, milady – le
disse quindi, accompagnandola fuori dalla pista con tutta la
delicatezza di cui
era capace.
Lei
si portò una mano alla testa,
le palpebre che battevano nel tentativo di schiarirle la vista, ma era
inutile.
La droga stava già iniziando a fare effetto e di
lì a pochi minuti sarebbe
svenuta, priva di sensi.
–
Permettete che vi accompagni a
prendere una boccata d’aria fresca. –
Lei
cercò di opporsi.
–
No, io… Lucius… –
A
sentire quel nome, Arith non
riuscì a controllare un sussulto di sorpresa. Aveva quasi
dimenticato che nei
paraggi c’era anche lui, anche se in quel momento, secondo il
piano, doveva
essere opportunamente distratto, lontano da lì.
–
Venite, vi farà bene. –
Si
accertò che nessuno li stesse
guardando e la condusse fuori da una delle grandi portefinestre
lasciata
socchiusa per permettere all’aria viziata di ricambiarsi
almeno in minima
parte. Sulla terrazza, com’era facilmente prevedibile, non
c’era nessuno.
La
ragazza si lasciò sfuggire un
gemito stupito all’improvviso contatto con il gelo notturno.
–
Vi prego, non dovrei essere
qui… – lo supplicò. Era lievemente
stordita, la sua mano si aggrappava debole
al suo braccio, ma era fin troppo lucida, quando invece avrebbe dovuto
aver già
perso conoscenza.
Qualcosa
non andava.
Con
la coda dell’occhio controllò
l’anello: la spina con il microscopico foro nel mezzo era
umida del liquido
ambrato che aveva secreto e, agitando la mano, ne non cadde una goccia.
Era
vuoto, e dunque perché la ragazza era ancora cosciente?
Un
brivido di panico attraversò
Arith lungo la spina dorsale. Era impossibile che la droga non sortisse
effetti.
Senza
volerlo, strinse
convulsamente il braccio della ragazza, la quale si dimenò
in protesta.
–
Per favore, lasciatemi! – gli
intimò, e una nota di sospetto mista a timore si era accesa
nella sua voce.
Preso
completamente alla
sprovvista, Arith dovette improvvisare. Non poteva ucciderla
lì, come nulla
fosse: sarebbe stato troppo pericoloso e non era in grado di prevederne
le
conseguenze nemmeno in minima parte. Finché prima non fosse
stato eseguito il
Rito, lei doveva restare in vita, e questo complicava drasticamente le
cose:
sarebbe stato arduo portarla via senza farsi notare, e non poteva
nemmeno
rischiare di tramortirla, temendo che avrebbe potuto esserle fatale.
La
afferrò per un polso e la
trascinò indietro quando lei tentò di tornare
verso la portafinestra ancora
aperta. La attirò vicino a sé, pronto a chiuderle
la bocca se avesse provato a
urlare. Era spaventata, ma tutta la sua paura si concentrava nello
sguardo e
nel pulsare incontrollato del cuore. Di nuovo, tornò quella
pietà indesiderata
a farlo sentire lo spietato carnefice di un agnello scarificale.
Ma
non era così. Lei doveva
morire. Era assolutamente
necessario, perché più a lungo viveva e meno
sarebbe stata in grado di tenere a
bada ciò che l’antica magia dell’Ordine
aveva relegato dentro di lei, e più
sarebbe diventata pericolosa. Era giusto che morisse, come nei secoli
erano
morti tutti gli altri prima di lei. E da un lato l’orgoglio
lottava con il
senso di responsabilità, battendosi per decidere se fosse
peggio rischiare la
pelle per l’ira del Supremo Esecutore o rischiarla nel
commettere un’esecuzione
che non aveva né il potere né le competenze di
gestire.
Arith
chiuse gli occhi per un
secondo, e quando li riaprì aveva solo la sua missione in
testa, l’importanza
predominante dell’esatta collocazione di ogni singolo
particolare fondamentale
per il raggiungimento ottimale dei loro scopi. Le sue dita serravano il
polso
della ragazza con prepotenza, bloccandole la circolazione, e intanto la
sua
mente lavorava febbrile, alla ricerca di una soluzione, di una via
d’uscita che
potesse risolvere l’imprevedibile.
All’improvviso
l’intuizione di
una presenza alle sue spalle lo fece voltare e al contempo lasciare la
presa
sulla ragazza.
Era
un ragazzo vestito di bianco
da capo a piedi, snello e slanciato, molto giovane, e sorrideva
affabile da dietro
la sua maschera, stagliato nel buio contro la luce sprigionata dalla
sala
dietro di lui.
–
Domando scusa per
l’interruzione, ma avete rapito la fanciulla a cui avevo
intenzione di chiedere
un ballo – disse, così gentile e cortese che per
niente al mondo avrebbe fatto
supporre che si trovasse lì per altra ragione al di fuori di
ciò che aveva
appena dichiarato.
Per
un momento la mano di Arith
indugiò lungo il suo fianco, pronta a scattare verso il
pugnale che teneva
nascosto sotto alla casacca, ma ci ripensò. Non era prudente
ingaggiare una
lotta con tutti i ranghi più alti della Lega al di
là della parete.
–
Domando io scusa a voi per
l’inconveniente – rispose, esibendosi in quel che
ritenne potesse passare per
un cenno ossequioso, e intanto il ragazzo si avvicinò in un
ondeggiare di
capelli così biondi da confondersi quasi con gli abiti che
indossava. Allungò
con disinvoltura una mano protetta da un guanto bianco verso la ragazza
e lei
la prese, tremante, affidandosi a lui senza osare più
guardare in su.
Arith
si accorse di stare sudando
freddo.
Non
aveva scelta: doveva
andarsene al più presto e trovare il modo di mettere Dianthe
al corrente della
mancata riuscita del piano.
–
Mi dispiace – aggiunse
frettoloso con un altro inchino, e stavolta di congedo. –
Vogliate scusarmi. –
Girò
sui tacchi e si diresse
verso la sala, cercando di adottare un’andatura calma e
disinvolta. Quando fu
entrato e fuori dal campo visivo esterno, afferrò un
bicchiere di liquore dal
vassoio di uno dei camerieri che si aggiravano tra gli ospiti e lo
svuotò in un
sorso, stringendo il cristallo così forte che gli si
frantumò in mano.
Fortunatamente il chiasso era così elevato che nessuno lo
udì.
La
stanza immensa era un coro di
suoni e profumi, voci che si sovrapponevano a sinfonie, fragranze
fiorite ad
accompagnare l’aroma pungente dei vini e dei liquori
fruttati, e risate,
brusii, frusciare di seta e tintinnio di cristalli.
Arith
rimase lì, un braccio
appoggiato alla parete, la testa china, e stette a guardare il proprio
sangue
che sgorgava dai tagli e gli colava tra le dita ruvide.
Genesis
sarebbe andato su tutte
le furie: dopo Alioth, aveva fallito anche lui.
Shin
doveva ancora ben
comprendere quanto era appena successo. Aveva intuito il pericolo e
aveva udito
quel richiamo che iniziava ormai a essergli familiare, lo aveva seguito
come
una chiara traccia disegnata nell’aria e quello che aveva
trovato alla fine non
se lo sapeva ancora spiegare. Non aveva ritenuto saggio trattenere lo
sconosciuto: il suo atteggiamento gli aveva comunicato tensione e,
chiunque
egli fosse, aveva avuto la netta impressione che ostacolarlo non
avrebbe
giocato in suo favore. Se n’era andato senza interferire, e
già questo era una
buona cosa. Ora restava solo da svelare la sua identità, e
qualcosa gli diceva
che non sarebbe stato semplice.
Regan
tremava rifugiata sotto al
suo braccio, forse per il freddo, forse per lo spavento, forse per
entrambe le
cose, ed era strano, perché di solito era abbastanza
sconsiderata e ingenua da
non avere mai paura di niente. Shin percepì il sollievo
ammorbidire
sensibilmente il rigore dei suoi muscoli tesi e acquietare il suo
respiro fino
a che tornò normale. Era così sconvolta che non
doveva averlo nemmeno
riconosciuto.
–
Perdonate l’irruenza, ma ho
avuto l’impressione che voi non gradiste particolarmente la
compagnia del
vostro precedente cavaliere – le sussurrò,
scherzoso.
Lei
si staccò da lui quel tanto
che le bastò per riuscire a guardarlo in faccia.
–
Shin? – esclamò, sorpresa, dopo
aver strizzato gli occhi per distinguere qualcosa
nell’oscurità. – Sei tu? –
Lui
si limitò a sorriderle.
–
Va tutto bene? –
Lei
sembrava talmente felice di
vederlo che annuì e basta, lasciando al linguaggio del corpo
il compito di
esprimere, tra un brivido e l’altro, tutto il resto della sua
gratitudine.
Lui
si sbottonò in fretta il
farsetto e glielo pose sulle spalle nude. Lei accettò senza
fare complimenti e
lo ringraziò.
–
Che cosa voleva quel tizio? –
le chiese poi. Aveva una brutta sensazione.
Regan
era confusa. Gli raccontò
brevemente quello che era successo, ma non ne sembrava veramente
convinta
nemmeno lei.
–
Non lo so. Stavamo ballando, ma
io non mi sentivo bene… questo corsetto è
maledettamente stretto. Sembrava che
volesse davvero aiutarmi, ma quando mi ha presa in quel modo, appena io
ho
provato ad andarmene… ho seriamente temuto il peggio.
–
Shin
si rabbuiò.
–
Ha cercato di metterti le mani
addosso? –
–
No – rispose lei, sicura. –
Anzi, sembrava quasi che non volesse guardami. Però non
voleva che me ne
andassi, e io… –
Paura,
umiliazione, impotenza,
rabbia, e molto altro: dentro di lei era esploso un conflitto di
emozioni che
si manifestava con quell’incoerenza nei discorsi e nel vagare
inarrestabile del
suo sguardo. Shin poteva cogliere ciascuna di esse, separandole
l’una
dall’altra e collegandole con precisione con ciascuna delle
sue reazioni.
La
temperatura era scesa
sensibilmente, durante la giornata: su all’estremo Nord
doveva aver già
iniziato a nevicare e all’orizzonte si poteva intravedere
l’avvicinarsi del
maltempo.
–
Regan – la afferrò per le
spalle, scuotendola dolcemente. – Sta’ tranquilla,
va tutto bene. Ora
rientriamo, non è il caso di rimanere qui fuori. Sei gelida.
–
Fece
per muoversi, ma lei rimase
lì dov’era, immobile a fissare il nulla.
La
luna era un ritaglio
opalescente nel cielo plumbeo che pesanti nuvoloni violacei stavano
rapidamente
ricoprendo. Venti freddi scendevano dalle montagne, portando con
sé odore di
ghiaccio e di terra bagnata.
–
Non è una bella cosa, vero? –
Regan
sollevò su di lui uno
sguardo vacuo, pallida come un cencio.
–
Sentirsi inermi alla mercé di
qualcuno, intendo. Quell’uomo avrebbe potuto sopraffarti
senza il minimo sforzo
e tu non avresti potuto farci niente. Non è piacevole,
giusto? –
Gli
occhi lucidi, lei si morse il
labbro e assentì appena. Shin la rassicurò con un
sorriso.
–
Forse adesso riconsidererai
l’importanza di addestrarti – mormorò.
Lei
fremette sotto il suo
braccio.
–
Ti sembra il momento di
provocarmi sensi di colpa? – sbottò dopo una
piccola esitazione.
Shin
si ritrovò suo malgrado a
ridere. Lieto che fosse tornata in sé, nonostante tutto, la
invitò a rientrare.
Si guardò intorno con attenzione, ma non c’era
alcuna traccia dello sconosciuto
di poco prima. Forse era stato abbastanza scaltro da defilarsi.
La
pelle d’oca di Regan impiegò
un paio di minuti a passare, una volta al caldo. Prima di ogni altra
cosa, Shin
la portò alla zona del banchetto. Le fece bere un
po’ di the caldo e mandare
giù un pasticcino alla crema che lei non gradì
affatto, ma che se non altro la
aiutò a riprendersi.
Non
avrebbe voluto disturbare
Lucius, ma non aveva alternative, e prima lo avesse trovato, meglio
sarebbe
stato, perché la piccola disavventura di Regan gli puzzava
di bruciato.
Incontrarono
Mariek ed Ember
Edelberg vicino a un tavolo, in compagnia di due ragazze che lui non
aveva mai
visto. Fu Regan a domandare se avessero visto Lucius e loro li
indirizzarono
verso il salottino attiguo la sala da ballo.
Shin
non aveva un buon rapporto
con la famiglia Edelberg, o, per meglio dire, erano loro a non avere un
buon
rapporto con lui. Già normalmente le persone non guardavano
con favore a uno
scherzo della natura come lui, angelo figlio di demoni, e che
dell’una e
dell’altra razza possedeva inspiegabilmente i poteri, ancora
peggio era quando
lo scherzo della natura veniva investito membro ufficiale della Lega
alla
tenera età di trentadue anni soltanto, più
bambino che uomo, e ancora adesso,
tre anni dopo, gli allievi suoi coetanei dell’Accademia, nel
pieno del loro
percorso formativo, incapaci di spiegarsi cosa potesse rendere lui
superiore a
loro, giustificavano il fatto con pettegolezzi e malelingue secondo i
quali era
tutta una questione di raccomandazione e amicizie ai piani alti. Tra
questi,
ovviamente, non mancavano i ragazzi Edelberg.
Come
avevano detto i gemelli,
trovarono Lucius immerso nella quiete isolata del salottino, separato
dal
salone da ballo da pesanti tendaggi di broccato verde scuro che erano
stati
debitamente tirati per assicurare riservatezza e intimità.
Sedeva
su una poltrona accanto al
camino, tranquillo, e conversava con una donna voltata di spalle che fu
facilmente riconoscibile come Lady Soile Leljen.
Chi altri poteva essere, se non lei?
Ai
piedi del camino, accucciato
pacificamente, c’era un grosso lupo grigio che sonnecchiava,
ma le orecchie
erano ben ritte e vigili a captare ogni minima variazione
nell’ambiente
circostante. Kirppu, il severo Guardiano di Soile. Fu lui il primo ad
avvedersi
del loro arrivo: sollevò la testa di scatto, di punto in
bianco, e in un attimo
era in piedi e all’erta. Gli occhi neri e imperscrutabili
puntarono
immediatamente a Regan, che non conosceva, mentre Lucius e Soile si
voltavano
nel vederli avvicinarsi.
Regan
si strinse diffidente a
Shin quando il lupo prese a ringhiare contro di lei, le orecchie tese
all’indietro, il pelo ritto sulla schiena possente. Era
gigantesco, la testa
che arrivava fin sopra il gomito della donna, e, proprio come se stesse
fronteggiando un nemico pericoloso, scopriva i denti color avorio,
aguzzi e
minacciosi. Lei a stento notò che gliene mancava uno, in
parte affascinata da
quella bestia magnifica, in parte messa a disagio non da lui, ma colei
che
c’era al suo fianco.
–
Tranquillo, Kirppu – sussurrò
quest’ultima al lupo con una carezza affettuosa sul muso, e
questo immediatamente
si placò, ma non tornò a dormire. Si sedette
soltanto e lì rimase, guardingo.
Shin
si inchinò, la mano come di
consuetudine accostata chiusa al petto, e subito lei sollevò
una mano, come a
dirgli che non era affatto necessario, e allora lui si
risollevò, serio.
–
Cerbiattina! – Lucius si era
alzato e le era andato incontro baldanzoso, come fosse stato a casa
sua. – Sei
venuta a conoscere Lady Leljen? –
Regan
odiò con tutta sé stessa
ogni singola sfumatura del tono radioso che trapelò da
quelle parole.
–
Non potevo certo aspettare che
ti sognassi di presentarmela tu, sbaglio? –
replicò, più duramente di quel che
si era imposta, ma Lucius nemmeno se ne accorse. Non si accorse nemmeno
del
farsetto di Shin che lei aveva indosso, né della sua aria
sconvolta. Prese la
mano di Soile e la invitò a venire avanti, un intenditore
che presentava fiero
la sua opera prediletta.
Meccanicamente,
Regan fece un
passo indietro senza volerlo, ma il braccio di Shin che ancora le
circondava le
spalle la trattenne. Da come la stava guardando, intuì che
Soile dovesse
conoscere molte più cose di lei di quanto si fosse
aspettata, e il discutibile
piacere non era certo reciproco.
–
Rimanderemo le presentazioni
ufficiali a un secondo momento – intervenne Shin in tono
pratico. – Adesso
abbiamo una questione più importante da discutere.
–
Lucius
e Soile si scambiarono
un’occhiata indecifrabile
Regan
nutriva il folle impulso di
frapporsi fra loro e spingerli lontani, ma il buonsenso la
obbligò a
trattenersi. Non riusciva a capire cosa Lucius ci vedesse in lei, e si
rifiutava di credere che il suo palese interesse verso di lei fosse
soltanto
mosso dalla sua incredibile bellezza. Lei era più grande di
lui di almeno una
decina di anni, più donna che ragazza, ed era
così lontana dall’allegria e dai
modi scanzonati di lui che a Regan era impossibile riuscire a
intravedere dei
possibili fili di affinità che potessero in alcun modo
collegarli.
Shin,
nel frattempo, l’aveva
lasciata andare e stava riassumendo l’accaduto a bassa voce e
le espressioni
dei suoi interlocutori erano tutt’altro che rilassate.
–
Impossibile che un allievo
dell’Accademia possa sapere qualcosa di lei – stava
bisbigliando Lucius. –
Forse aveva solo bevuto un po’… –
–
Non giurerei che fosse
veramente un allievo della Domus, Lucius – rispose Shin.
– Era vestito come se
lo fosse, ma francamente aveva un aspetto un po’ troppo
maturo. –
–
Non può trattarsi di un
infiltrato. Nessuno entra qui dentro senza delle credenziali, le mie
guardie
sono intransigenti e il perimetro della muraglia è difeso da
sigilli che ho
posto io stessa – affermò Soile, e da come lo
disse era chiaro che non
ammettesse repliche.
Lucius
si accostò al camino,
appoggiandosi con un gomito alla spessa mensola di legno scuro che lo
sovrastava, e il suo sguardo si perse tra le fiamme.
–
Desmond non dà segni di sé da
quando la sua Corte è caduta, e dubito che a questo punto
tenterà mai di
mettere le mani su Regan. I soli che abbiano dimostrato interesse per
lei,
finora, sono stati Gerjen e compari, e per puro caso, e quella gente
mascherata
su cui ancora non sappiamo niente. –
–
Quasi niente. –
Lucius
si voltò a guardare Shin,
il quale aveva parlato così piano che sicuramente era stato
solo un
ragionamento con sé stesso, più che una
puntualizzazione.
–
Come hai detto? –
–
Qualcosa lo sappiamo: vogliono
Regan e operano sotto un emblema preciso. –
–
Un emblema che ci è sconosciuto
quanto loro. –
–
Un emblema che tu, Lucius,
potresti avere le carte per smascherare. –
Si
voltarono entrambi verso
Soile, impassibile, e nel suo sguardo c’era un invito
implicito che si
indirizzava direttamente a Lucius e, a giudicare dalla rigida
consapevolezza
nella sua espressione, lui aveva perfettamente inteso ciò
che a Regan non era
dato carpire.
Lei
era lì, ma era come se non ci
fosse. Parlavano tra di loro, congetturavano, valutavano, e nessuno si
degnava
di coinvolgerla.
–
Continuate pure, non
preoccupatevi. La faccenda non mi riguarda –
sibilò e, livida di rabbia e
umiliazione, sollevò malamente le gonne e corse via verso il
salone.
–
Cerbiattina, aspetta! –
Ignorò
Lucius e oltrepassò la
soglia, scansando il pesante tendaggio in modo tanto sgarbato che quasi
se lo
trascinò dietro.
–
Ci penso io – sentì dire da
Shin, ma non se ne curò.
Non
aveva memoria e con ogni
probabilità chi le stava dando la caccia ne sapeva
più di lei di quanto non ne
sapesse lei stessa, e coloro che si erano lasciati considerare suoi
amici la
stavano trattando come un elemento secondario. Lei sapeva poco di
qualunque
cosa, era vero, e non era in grado di fare praticamente niente, ma non
poteva
accettare di essere deliberatamente esclusa da questioni che
riguardavano la
sua stessa sopravvivenza.
Forse
aveva ragione Lucius a
trattarla come una bambina, forse era davvero immatura e capricciosa e
irragionevole
e stupida e quant’altro, ma non le sembrava una gran pretesa
essere almeno considerata.
Se
non fosse stata Anneli a
parlargliene, non avrebbe mai scoperto di Soile fino a che non se la
fosse
ritrovata di fronte, così, dal nulla, proprio come era
accaduto quella sera
stessa, e arrivando a una rivelazione di tale portata senza una vaga
preparazione psicologica forse tutto quanto le sarebbe stato molto meno
accettabile di quanto già non fosse.
Si
fece largo tra un gruppetto di
ragazzini che sghignazzavano tra loro e per poco non
inciampò in una signora
tarchiata che, travolta, lanciò uno strillo stizzito. Non si
fermò a
controllare che danni si fosse lasciata dietro. Si ritrovò,
non sapeva nemmeno
lei come, a imboccare il breve corridoio antistante la scalinata
d’ingresso che
scendeva conducendo al piazzale di passaggio delle carrozze, al momento
deserto. Scese passando in mezzo alle due guardie che vigilavano sul
portone
spalancato, e solo quando il vento le sferzò il viso si
accorse di avere le
guance rigate di lacrime. Si lasciò cadere
sull’ultimo gradino, esausta e
delusa, e si raccolse le ginocchia al petto, mentre piccole gocce di
pioggia
iniziavano a caderle intorno.
Il
cuore le batteva furioso nel
petto, pompando sangue bollente senza riuscire a riscaldarla. Aveva
anche perso
il farsetto di Shin, da qualche parte mentre correva, ma il suo ultimo
pensiero
era tornare indietro a cercarlo.
Inorridì
quando un singhiozzo le
proruppe dalle labbra. Non voleva apparire più debole di
quanto già non fosse,
ma era ormai possibile controllarsi. La rabbia stillava lacrime come
fossero
state di sua proprietà, e la schiacciava a terra come un
macigno.
Per
la prima volta da quando
aveva riaperto gli occhi su un’esistenza di cui aveva
smarrito i ricordi, si
sentiva imperdonabilmente sola.
–
Devi perdonarla. È molto
impulsiva. –
Soile
sorrise laconica. Gli dava
le spalle, e Lucius intravedeva solo il suo profilo ritagliato contro i
bagliori caldi che irradiavano dal focolare. A volte sembrava fargli
male da
quanto la sentiva lontana, altre volte, invece, si lasciava avvicinare
tanto
che scintille pericolose crepitavano nel soffio di vuoto che li
separava, e lui
era costretto a ritrarsi come una falena che scampava
all’ultimo alla fatalità
del fuoco che la attirava. Ma Soile non era fuoco. Non più,
almeno, e non c’era
nulla al mondo che lui avrebbe desiderato di più che
rivedere in lei quel
calore che c’era stato un tempo, quando tutto era diverso,
quando i suoi
sorrisi riuscivano a raggiungerle anche gli occhi.
–
Posso comprendere il suo stato
d’animo. Non abbiamo mostrato molto tatto verso di lei
– disse lei, le braccia
piegate a circondarle la vita.
–
Temo sia stata colpa mia –
ammise lui, abbozzando un sorriso di scuse. – Tendo sempre a
perdere il
contatto con la realtà quando… –
Lasciò
morire la frase così,
perché sapeva che il resto sarebbe stato inopportuno, e a
lei non serviva
sentirglielo dire per saperlo che quando c’era lei per lui
non c’era
nient’altro.
–
Quello che hai detto prima, in
merito alle mie carte –
riprese. –
Dicevi sul serio? –
Lei
si girò con una lentezza
esasperante. Seria. Compita. Surreale come una bambola di porcellana.
–
Di tutti noi, sei tu quello con
più conoscenze utili, anche se non propriamente definibili
legali. Se c’è
qualcuno che può scoprire davvero qualcosa, quello sei tu.
–
–
Sai bene che non è così facile
– disse lui, non preoccupato, ma vagamente dubbioso.
– Ci vogliono notevoli mezzi di
persuasione, se così vogliamo
chiamarli, per ottenere un certo tipo di informazioni, ma anche
ammettendo di
disporre di una merce di scambio valida, e non ne disponiamo, non so
cosa
potremmo ricavarne, se persino i libri più antichi delle
biblioteche della Lega
non hanno fornito il minimo indizio. –
Soile
assottigliò
impercettibilmente gli occhi.
–
Credo di non averti mai visto
così arrendevole da che ti conosco. Che fine ha fatto il
Lucius tenace e
cocciuto che conosco io? –
Non
le rispose. Il sincero
affetto che nutriva per Regan gli tirava la mano, pregandolo di andare
a da lei
a vedere come stesse, chiederle scusa, e invece dentro
l’egoismo scalpitava,
con i suoi artigli affilati e velenosi, facendosi strada a colpi bassi
e
meschini, sussurrandogli all’orecchio con voce maledettamente
ragionevole che
non aveva ancora voglia di andarsene da lì, di privarsi
della compagnia di
Soile che così a lungo aveva cercato, senza poterne godere.
Soile…
Imperscrutabile, irraggiungibile, impossibile
Soile…
Era
sempre così: o lei, o il
resto del mondo. E lui provava spesso un’inestinguibile
vergogna per l’opzione
che la sua volontà, indipendentemente da qualsiasi altro
fattore, avrebbe
scelto. Ma non si trattava solo di lui, specialmente adesso. Non si
trattava
solo delle sue scelte e di ciò che voleva lui. Adesso si
trattava di decidere
se restare ad aspettare il prossimo colpo di un nemico ignoto o
rimboccarsi le
maniche per cercare di prevederlo. Adesso era ora di mettere in gioco
quelle carte che lui teneva da
sempre
gelosamente custodite nella manica, briciole di un passato che non gli
apparteneva più e che lui stesso rinnegava dal
più profondo dell’anima, ma che
all’occorrenza era disposto a riesumare, in casi eccezionali
di estrema
necessità, e questo si apprestava a diventare uno di quelli.
C’era
Shin a sorvegliarla, ma dalla
cima della scalinata, a riguardosa distanza. Quando lo raggiunse,
intercettò
per un momento il suo sguardo e vi scorse il riflesso di una profonda
tristezza
che non gli apparteneva.
–
Mi dispiace – esalò Lucius,
divorato dal senso di colpa, e non era con lui che si stava scusando,
ma con
quello che gli aveva visto negli occhi. Con la figura di Regan
raggomitolata su
sé stessa sotto la pioggia battente.
Shin
non disse nulla. Gli fece
solo un cenno con la testa di raggiungerla, e lui obbedì.
Quando le fu accanto,
lei non lo guardò nemmeno.
–
Scusami. –
Lei
non si mosse né fiatò, e lui
non ritenne opportuno aggiungere altro. Le appoggiò solo una
mano sulla testa, e
lei ne sentì distintamente il calore sui capelli fradici, un
tepore più
profondo di un semplice contatto fisico che le scivolò
dentro, scendendo fino a
quel punto in cui il suo stesso sangue non era riuscito ad arrivare.
–
Alzati – le ordinò con
dolcezza, porgendole una mano.
Regan
si lasciò tirare su. Si
lasciò confortare dal suo abbraccio e rimase
così, stretta a lui sotto il
temporale. Piangeva e basta, in silenzio, soffocando i singhiozzi
sommessi
contro di lui, e Lucius lo accettò come un segno di perdono.
Dalla sommità
della scalinata, Shin osservava la scena con mesto distacco, ma
un’ombra di
addolorata compassione gli velava ancora lo sguardo.
–
Coraggio, cerbiattina, basta,
adesso. –
Le
fece sollevare il viso e le
asciugò gli occhi, anche se era impossibile capire quali
lacrime fossero le sue
e quali quelle precipitate dal cielo. Sarebbe bastato portarsi un dito
alle
labbra per capire la differenza: le sue sarebbero state salate.
La
avvolse con il pesante tessuto
che si era buttato sul braccio uscendo e lei se lo strinse addosso,
riconoscente. Era così grande e pesante che pendeva
dappertutto e strisciava
per terra.
–
Che cos’è questa cosa? – gli
chiese, studiando perplessa le morbide pieghe dal colore indecifrabile
alla
scarsità di luce. – Non è il mio
mantello. –
–
Infatti. È la tenda che hai
elegantemente strappato durante la tua fuga indignata. –
Come
aveva sperato, Regan non
seppe resistere alla sua piccola trovata e le scappò un
sorriso più forte del
comprensibile rancore. Le sorrise di rimando.
–
Su, ora ricomponiti, da brava.
Dobbiamo andare a salutare Eleonora e Calien. –
Lei
batté le ciglia fradice di
acqua, confusa.
–
Cosa significa? –
Lucius
si concesse un momento e
inspirò a fondo, chiudendole bene i lembi del mantello
improvvisato intorno al
collo scoperto.
–
Staremo via per qualche giorno.
–
-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------
A/N:
allora, allora, allora… ormai direi che i personaggi
più importanti sono stati
tutti presentati. Adesso si tratta solo di conoscere meglio sia loro
che ciò
che li lega, e, credetemi, ce n’è di storie da
dissotterrare! J
Intanto, qualche risposta alle vostre
recensioni:
Xx
Kin YourichixX: eccoti
accontentata, postato! Il Cavaliere Bianco era chi ti aspettavi che
fosse? ;)
Concordo con te, comunque: Lucius sa essere un
bell’insensibile, certe volte. XD
Ma sa farsi perdonare, direi, no?
Shadow_Soul:
non ti preoccupare per il brano
che
hai citato, mi fa molto piacere quando qualche lettore riporta qualche
parte
che lo ha colpito particolarmente, aiuta anche me a capire meglio i
punti di
forza dei vai capitoli, ed effettivamente penso che quello che hai
citato tu
sia forse uno dei più “forti” dello
scorso capitolo. Immagino che, dopo aver
letto questo, tu sia ancora scontenta o quasi,
però… ;)
mioho:
intanto, benvenuta! Leggere il
tuo
commento è stato un grande piacere, ho scorto nel tuo modo
di esprimerti una
certa maturità intellettuale e quindi ne sono rimasta molto
compiaciuta. Ti ringrazio
davvero tanto per i complimenti. Mi ha molto incuriosito, invece, il
tuo punto
di vista sugli intrecci sentimentali. Non mi esprimo in merito,
perché i
rapporti tra i vari personaggi sono ancora un mistero per loro stessi e
vista
la lunghezza prevista per l’intera storia direi che
c’è tutto il tempo per
confermare o ribaltare le prospettive attuali. Hai anche puntualizzato
uno dei
miei punti deboli più smaccati: la tendenza a mettere
sofferenza e tragedie
ovunque! XD Ebbene sì, ciascuno dei personaggi centrali ha
un passato
abbastanza travagliato e le sue belle cicatrici, sia fisiche che
emotive. Io sono
abbastanza sadica e sguazzo felice nel dolore e nella sofferenza,
quindi potrai
ben immaginare come questo non sia solo che l’inizio. XD
Posso dirti che pian
piano i nodi verranno sciolti e si scoprirà come e
perché ognuno si è procurato
le rispettive ferite, a volte magari andandosele anche un po’
a cercare. Venena
ti assicuro che tornerà e il suo apporto sarà
determinante, quindi aspetta e vedrai.
;) Ah, un’altra cosa: non farti scrupoli sulla lunghezza
delle recensioni,
perché a me piace avere qualcosa di consistente da leggere,
anche perché tre
righe che dicono “Bello, mi piace, continua!” non
servono a molto. ^^
Milou_:
grazie mille per i complimenti!
*-*
Alla fine abbiamo scoperto che il Cavaliere Bianco non era esattamente
il “cattivo”,
ma spero sia stata una sorpresa e non una delusione. ;)
Orbene,
vi lascio
con un assaggino del prossimo capitolo e il solito invito a lasciare la
vostra
opinione, positiva o negativa che sia. J
Una goccia di sudore colò dalla fronte
di Regan e lei se la asciugò con
una manica, fermandosi contro un albero a riprendere fiato. La
temperatura, in
quella specie di serra naturale, era quasi estiva.
– Dovremo arrampicarci su e
giù per questo groviglio vegetale ancora
per molto? – ansimò.
Lucius e Shin si fermarono ad aspettarla, poco
più avanti.
– Che ti avevo detto? Una lamentela
continua – commentò il primo,
rivolgendosi all’altro.
Shin non fece in tempo a sorridere,
perché dovette scansare assieme a
Lucius la zolla di muschio che Regan scagliò loro contro.
– Ha un buona mira, se non altro.
–
|