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Autore: Lady Vibeke    09/05/2011    6 recensioni
Una donna urla, la voce frammentata da singhiozzi.
Tutto è buio.
Battiti di cuore come tamburi attorno a lei, stretta tra braccia esili. Occhi innocenti di bambina si sgranano nell’angoscia dell’incapacità di comprendere quel caos improvviso.
– Dammi la bambina – Sentenzia la persona senza volto, ed è un ordine ineluttabile che impregna l’oscurità.
C’è il terrore che spadroneggia nella bimba. Troppo piccola per capire, ma abbastanza grande per rendersi conto del pericolo. E intanto quelle braccia insistono a volerla proteggere.
– Se la consegnate a me, sarà salva. Loro stanno arrivando. Se riescono a trovarla, la prenderanno e la uccideranno sotto ai vostri occhi. Datela a me. –
– Cosa vuoi da lei? –
Un lampo squarcia le tenebre. Il volto di una donna appare per un brevissimo istante al di sotto del cappuccio.
– Voglio salvarle la vita. –
Il silenzio della tensione calca sulle loro teste, impietoso. In lontananza, nitriti selvaggi si mescolano a un rumore di zoccoli in corsa.
Le braccia della ragazza si allentano attorno al corpicino indifeso della piccola. Altre due braccia sottili si aprono in un invito. Tutto è preda di una tensione innaturale. Tutto è immobile.
Poi un lampo di luce rossa divora ogni cosa.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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14. UNA LACRIMA DAL CIELO

 

Are you crying or is it the rain
Falling down to wash away your tears?

– Are You Crying?, Cinema Bizarre –

 

 

Aveva occhi di un verde innaturale e l’aspetto di una bambina che non aveva ancora finito di crescere, minuta e dal viso innocente, con lineamenti morbidi che contrastavano con il turgore provocante delle labbra, di un rosa molto più intenso della pelle, e le mani piccole e leggere.

Era un peccato che una fanciulla così graziosa dovesse morire.

Arith non poté fare a meno di dispiacersi per lei, anche se sapeva che non avrebbe dovuto. Non c’era posto per la pietà nel suo mestiere, aveva convissuto con questa consapevolezza da sempre, fin da quando, ancora bambino, aveva iniziato a fare il ladruncolo a Torresco, seconda città di Corterra, rubacchiando ai forestieri e al mercato.

La sua giovane età e la sua discreta conoscenza degli aspetti più gretti e insabbiati del Mondo Occulto lo rendevano diverso dai suoi confratelli dell’Ordine, la maggioranza dei quali proveniva dai ceti medi della società, gente benestante e di cultura che della realtà da cui proveniva lui conosceva solo ciò che aveva sentito dire, o di cui aveva letto in qualche libro.

Arith quella sera cercava di fare del proprio meglio per sembrare uno di quei cadetti della Domus Aurea che si atteggiavano a grandi soldati con la schiena eretta e il passo marziale, ma la sua natura selvatica stentava ad adattarsi. Si sentiva a disagio nell’elegante divisa pregiata e tutta la sua attenzione era per i movimenti da seguire nel ritmo della danza dettata dalla musica. Non era cosa per lui, quella.

Genesis gli aveva spiegato cosa doveva fare: isolare la ragazza, renderla innocua e, con la massima discrezione possibile, portarla fuori dal palazzo il più rapidamente possibile.

Dianthe era da qualche parte nella sala e lo teneva sotto controllo da lontano, anche se lui non riusciva a scorgerla. La copertura aveva funzionato e nessuno aveva fatto caso a lui, quando si era presentato con lei a braccetto. Ora doveva solo fare in modo di mettere in atto il piano.

Portava un anello molto particolare alla mano sinistra, all’interno del quale erano state nascoste poche gocce di una droga soporifera che gli sarebbero servite per portare via la ragazza senza rischiare che lei si ribellasse e attirasse quindi attenzioni scomode. La sua vittima mostrava già sintomi evidenti di stanchezza e lo seguiva a fatica. Sarebbe stato facile.

Sfregò il medio tra indice e anulare, facendo ruotare l’anello quanto bastò per far sporgere la minuscola punta affilata dal palmo e fece cadere il grumo di cera che lo sigillava. Strinse appena più forte la vita della sua compagna di danze, in un punto in cui gli incroci tra i nastri del corsetto gli permisero di pungerla senza fatica. Lei non se ne accorse nemmeno.

– Vi vedo pallida, milady – le disse quindi, accompagnandola fuori dalla pista con tutta la delicatezza di cui era capace.

Lei si portò una mano alla testa, le palpebre che battevano nel tentativo di schiarirle la vista, ma era inutile. La droga stava già iniziando a fare effetto e di lì a pochi minuti sarebbe svenuta, priva di sensi.

– Permettete che vi accompagni a prendere una boccata d’aria fresca. –

Lei cercò di opporsi.

– No, io… Lucius… –

A sentire quel nome, Arith non riuscì a controllare un sussulto di sorpresa. Aveva quasi dimenticato che nei paraggi c’era anche lui, anche se in quel momento, secondo il piano, doveva essere opportunamente distratto, lontano da lì.

– Venite, vi farà bene. –

Si accertò che nessuno li stesse guardando e la condusse fuori da una delle grandi portefinestre lasciata socchiusa per permettere all’aria viziata di ricambiarsi almeno in minima parte. Sulla terrazza, com’era facilmente prevedibile, non c’era nessuno.

La ragazza si lasciò sfuggire un gemito stupito all’improvviso contatto con il gelo notturno.

– Vi prego, non dovrei essere qui… – lo supplicò. Era lievemente stordita, la sua mano si aggrappava debole al suo braccio, ma era fin troppo lucida, quando invece avrebbe dovuto aver già perso conoscenza.

Qualcosa non andava.

Con la coda dell’occhio controllò l’anello: la spina con il microscopico foro nel mezzo era umida del liquido ambrato che aveva secreto e, agitando la mano, ne non cadde una goccia. Era vuoto, e dunque perché la ragazza era ancora cosciente?

Un brivido di panico attraversò Arith lungo la spina dorsale. Era impossibile che la droga non sortisse effetti.

Senza volerlo, strinse convulsamente il braccio della ragazza, la quale si dimenò in protesta.

– Per favore, lasciatemi! – gli intimò, e una nota di sospetto mista a timore si era accesa nella sua voce.

Preso completamente alla sprovvista, Arith dovette improvvisare. Non poteva ucciderla lì, come nulla fosse: sarebbe stato troppo pericoloso e non era in grado di prevederne le conseguenze nemmeno in minima parte. Finché prima non fosse stato eseguito il Rito, lei doveva restare in vita, e questo complicava drasticamente le cose: sarebbe stato arduo portarla via senza farsi notare, e non poteva nemmeno rischiare di tramortirla, temendo che avrebbe potuto esserle fatale.

La afferrò per un polso e la trascinò indietro quando lei tentò di tornare verso la portafinestra ancora aperta. La attirò vicino a sé, pronto a chiuderle la bocca se avesse provato a urlare. Era spaventata, ma tutta la sua paura si concentrava nello sguardo e nel pulsare incontrollato del cuore. Di nuovo, tornò quella pietà indesiderata a farlo sentire lo spietato carnefice di un agnello scarificale.

Ma non era così. Lei doveva morire. Era assolutamente necessario, perché più a lungo viveva e meno sarebbe stata in grado di tenere a bada ciò che l’antica magia dell’Ordine aveva relegato dentro di lei, e più sarebbe diventata pericolosa. Era giusto che morisse, come nei secoli erano morti tutti gli altri prima di lei. E da un lato l’orgoglio lottava con il senso di responsabilità, battendosi per decidere se fosse peggio rischiare la pelle per l’ira del Supremo Esecutore o rischiarla nel commettere un’esecuzione che non aveva né il potere né le competenze di gestire.

Arith chiuse gli occhi per un secondo, e quando li riaprì aveva solo la sua missione in testa, l’importanza predominante dell’esatta collocazione di ogni singolo particolare fondamentale per il raggiungimento ottimale dei loro scopi. Le sue dita serravano il polso della ragazza con prepotenza, bloccandole la circolazione, e intanto la sua mente lavorava febbrile, alla ricerca di una soluzione, di una via d’uscita che potesse risolvere l’imprevedibile.

All’improvviso l’intuizione di una presenza alle sue spalle lo fece voltare e al contempo lasciare la presa sulla ragazza.

Era un ragazzo vestito di bianco da capo a piedi, snello e slanciato, molto giovane, e sorrideva affabile da dietro la sua maschera, stagliato nel buio contro la luce sprigionata dalla sala dietro di lui.

– Domando scusa per l’interruzione, ma avete rapito la fanciulla a cui avevo intenzione di chiedere un ballo – disse, così gentile e cortese che per niente al mondo avrebbe fatto supporre che si trovasse lì per altra ragione al di fuori di ciò che aveva appena dichiarato.

Per un momento la mano di Arith indugiò lungo il suo fianco, pronta a scattare verso il pugnale che teneva nascosto sotto alla casacca, ma ci ripensò. Non era prudente ingaggiare una lotta con tutti i ranghi più alti della Lega al di là della parete.

– Domando io scusa a voi per l’inconveniente – rispose, esibendosi in quel che ritenne potesse passare per un cenno ossequioso, e intanto il ragazzo si avvicinò in un ondeggiare di capelli così biondi da confondersi quasi con gli abiti che indossava. Allungò con disinvoltura una mano protetta da un guanto bianco verso la ragazza e lei la prese, tremante, affidandosi a lui senza osare più guardare in su.

Arith si accorse di stare sudando freddo.

Non aveva scelta: doveva andarsene al più presto e trovare il modo di mettere Dianthe al corrente della mancata riuscita del piano.

– Mi dispiace – aggiunse frettoloso con un altro inchino, e stavolta di congedo. – Vogliate scusarmi. –

Girò sui tacchi e si diresse verso la sala, cercando di adottare un’andatura calma e disinvolta. Quando fu entrato e fuori dal campo visivo esterno, afferrò un bicchiere di liquore dal vassoio di uno dei camerieri che si aggiravano tra gli ospiti e lo svuotò in un sorso, stringendo il cristallo così forte che gli si frantumò in mano. Fortunatamente il chiasso era così elevato che nessuno lo udì.

La stanza immensa era un coro di suoni e profumi, voci che si sovrapponevano a sinfonie, fragranze fiorite ad accompagnare l’aroma pungente dei vini e dei liquori fruttati, e risate, brusii, frusciare di seta e tintinnio di cristalli.

Arith rimase lì, un braccio appoggiato alla parete, la testa china, e stette a guardare il proprio sangue che sgorgava dai tagli e gli colava tra le dita ruvide.

Genesis sarebbe andato su tutte le furie: dopo Alioth, aveva fallito anche lui.

 

 

Shin doveva ancora ben comprendere quanto era appena successo. Aveva intuito il pericolo e aveva udito quel richiamo che iniziava ormai a essergli familiare, lo aveva seguito come una chiara traccia disegnata nell’aria e quello che aveva trovato alla fine non se lo sapeva ancora spiegare. Non aveva ritenuto saggio trattenere lo sconosciuto: il suo atteggiamento gli aveva comunicato tensione e, chiunque egli fosse, aveva avuto la netta impressione che ostacolarlo non avrebbe giocato in suo favore. Se n’era andato senza interferire, e già questo era una buona cosa. Ora restava solo da svelare la sua identità, e qualcosa gli diceva che non sarebbe stato semplice.

Regan tremava rifugiata sotto al suo braccio, forse per il freddo, forse per lo spavento, forse per entrambe le cose, ed era strano, perché di solito era abbastanza sconsiderata e ingenua da non avere mai paura di niente. Shin percepì il sollievo ammorbidire sensibilmente il rigore dei suoi muscoli tesi e acquietare il suo respiro fino a che tornò normale. Era così sconvolta che non doveva averlo nemmeno riconosciuto.

– Perdonate l’irruenza, ma ho avuto l’impressione che voi non gradiste particolarmente la compagnia del vostro precedente cavaliere – le sussurrò, scherzoso.

Lei si staccò da lui quel tanto che le bastò per riuscire a guardarlo in faccia.

– Shin? – esclamò, sorpresa, dopo aver strizzato gli occhi per distinguere qualcosa nell’oscurità. – Sei tu? –

Lui si limitò a sorriderle.

– Va tutto bene? –

Lei sembrava talmente felice di vederlo che annuì e basta, lasciando al linguaggio del corpo il compito di esprimere, tra un brivido e l’altro, tutto il resto della sua gratitudine.

Lui si sbottonò in fretta il farsetto e glielo pose sulle spalle nude. Lei accettò senza fare complimenti e lo ringraziò.

– Che cosa voleva quel tizio? – le chiese poi. Aveva una brutta sensazione.

Regan era confusa. Gli raccontò brevemente quello che era successo, ma non ne sembrava veramente convinta nemmeno lei.

– Non lo so. Stavamo ballando, ma io non mi sentivo bene… questo corsetto è maledettamente stretto. Sembrava che volesse davvero aiutarmi, ma quando mi ha presa in quel modo, appena io ho provato ad andarmene… ho seriamente temuto il peggio. –

Shin si rabbuiò.

– Ha cercato di metterti le mani addosso? –

– No – rispose lei, sicura. – Anzi, sembrava quasi che non volesse guardami. Però non voleva che me ne andassi, e io… –

Paura, umiliazione, impotenza, rabbia, e molto altro: dentro di lei era esploso un conflitto di emozioni che si manifestava con quell’incoerenza nei discorsi e nel vagare inarrestabile del suo sguardo. Shin poteva cogliere ciascuna di esse, separandole l’una dall’altra e collegandole con precisione con ciascuna delle sue reazioni.

La temperatura era scesa sensibilmente, durante la giornata: su all’estremo Nord doveva aver già iniziato a nevicare e all’orizzonte si poteva intravedere l’avvicinarsi del maltempo.

– Regan – la afferrò per le spalle, scuotendola dolcemente. – Sta’ tranquilla, va tutto bene. Ora rientriamo, non è il caso di rimanere qui fuori. Sei gelida. –

Fece per muoversi, ma lei rimase lì dov’era, immobile a fissare il nulla.

La luna era un ritaglio opalescente nel cielo plumbeo che pesanti nuvoloni violacei stavano rapidamente ricoprendo. Venti freddi scendevano dalle montagne, portando con sé odore di ghiaccio e di terra bagnata.

– Non è una bella cosa, vero? –

Regan sollevò su di lui uno sguardo vacuo, pallida come un cencio.

– Sentirsi inermi alla mercé di qualcuno, intendo. Quell’uomo avrebbe potuto sopraffarti senza il minimo sforzo e tu non avresti potuto farci niente. Non è piacevole, giusto? –

Gli occhi lucidi, lei si morse il labbro e assentì appena. Shin la rassicurò con un sorriso.

– Forse adesso riconsidererai l’importanza di addestrarti – mormorò.

Lei fremette sotto il suo braccio.

– Ti sembra il momento di provocarmi sensi di colpa? – sbottò dopo una piccola esitazione.

Shin si ritrovò suo malgrado a ridere. Lieto che fosse tornata in sé, nonostante tutto, la invitò a rientrare. Si guardò intorno con attenzione, ma non c’era alcuna traccia dello sconosciuto di poco prima. Forse era stato abbastanza scaltro da defilarsi.

La pelle d’oca di Regan impiegò un paio di minuti a passare, una volta al caldo. Prima di ogni altra cosa, Shin la portò alla zona del banchetto. Le fece bere un po’ di the caldo e mandare giù un pasticcino alla crema che lei non gradì affatto, ma che se non altro la aiutò a riprendersi.

Non avrebbe voluto disturbare Lucius, ma non aveva alternative, e prima lo avesse trovato, meglio sarebbe stato, perché la piccola disavventura di Regan gli puzzava di bruciato.

Incontrarono Mariek ed Ember Edelberg vicino a un tavolo, in compagnia di due ragazze che lui non aveva mai visto. Fu Regan a domandare se avessero visto Lucius e loro li indirizzarono verso il salottino attiguo la sala da ballo.

Shin non aveva un buon rapporto con la famiglia Edelberg, o, per meglio dire, erano loro a non avere un buon rapporto con lui. Già normalmente le persone non guardavano con favore a uno scherzo della natura come lui, angelo figlio di demoni, e che dell’una e dell’altra razza possedeva inspiegabilmente i poteri, ancora peggio era quando lo scherzo della natura veniva investito membro ufficiale della Lega alla tenera età di trentadue anni soltanto, più bambino che uomo, e ancora adesso, tre anni dopo, gli allievi suoi coetanei dell’Accademia, nel pieno del loro percorso formativo, incapaci di spiegarsi cosa potesse rendere lui superiore a loro, giustificavano il fatto con pettegolezzi e malelingue secondo i quali era tutta una questione di raccomandazione e amicizie ai piani alti. Tra questi, ovviamente, non mancavano i ragazzi Edelberg.

Come avevano detto i gemelli, trovarono Lucius immerso nella quiete isolata del salottino, separato dal salone da ballo da pesanti tendaggi di broccato verde scuro che erano stati debitamente tirati per assicurare riservatezza e intimità.

Sedeva su una poltrona accanto al camino, tranquillo, e conversava con una donna voltata di spalle che fu facilmente riconoscibile come Lady Soile Leljen.

Chi altri poteva essere, se non lei?

Ai piedi del camino, accucciato pacificamente, c’era un grosso lupo grigio che sonnecchiava, ma le orecchie erano ben ritte e vigili a captare ogni minima variazione nell’ambiente circostante. Kirppu, il severo Guardiano di Soile. Fu lui il primo ad avvedersi del loro arrivo: sollevò la testa di scatto, di punto in bianco, e in un attimo era in piedi e all’erta. Gli occhi neri e imperscrutabili puntarono immediatamente a Regan, che non conosceva, mentre Lucius e Soile si voltavano nel vederli avvicinarsi.

 

 

Regan si strinse diffidente a Shin quando il lupo prese a ringhiare contro di lei, le orecchie tese all’indietro, il pelo ritto sulla schiena possente. Era gigantesco, la testa che arrivava fin sopra il gomito della donna, e, proprio come se stesse fronteggiando un nemico pericoloso, scopriva i denti color avorio, aguzzi e minacciosi. Lei a stento notò che gliene mancava uno, in parte affascinata da quella bestia magnifica, in parte messa a disagio non da lui, ma colei che c’era al suo fianco.

– Tranquillo, Kirppu – sussurrò quest’ultima al lupo con una carezza affettuosa sul muso, e questo immediatamente si placò, ma non tornò a dormire. Si sedette soltanto e lì rimase, guardingo.

Shin si inchinò, la mano come di consuetudine accostata chiusa al petto, e subito lei sollevò una mano, come a dirgli che non era affatto necessario, e allora lui si risollevò, serio.

– Cerbiattina! – Lucius si era alzato e le era andato incontro baldanzoso, come fosse stato a casa sua. – Sei venuta a conoscere Lady Leljen? –

Regan odiò con tutta sé stessa ogni singola sfumatura del tono radioso che trapelò da quelle parole.

– Non potevo certo aspettare che ti sognassi di presentarmela tu, sbaglio? – replicò, più duramente di quel che si era imposta, ma Lucius nemmeno se ne accorse. Non si accorse nemmeno del farsetto di Shin che lei aveva indosso, né della sua aria sconvolta. Prese la mano di Soile e la invitò a venire avanti, un intenditore che presentava fiero la sua opera prediletta.

Meccanicamente, Regan fece un passo indietro senza volerlo, ma il braccio di Shin che ancora le circondava le spalle la trattenne. Da come la stava guardando, intuì che Soile dovesse conoscere molte più cose di lei di quanto si fosse aspettata, e il discutibile piacere non era certo reciproco.

– Rimanderemo le presentazioni ufficiali a un secondo momento – intervenne Shin in tono pratico. – Adesso abbiamo una questione più importante da discutere. –

Lucius e Soile si scambiarono un’occhiata indecifrabile

Regan nutriva il folle impulso di frapporsi fra loro e spingerli lontani, ma il buonsenso la obbligò a trattenersi. Non riusciva a capire cosa Lucius ci vedesse in lei, e si rifiutava di credere che il suo palese interesse verso di lei fosse soltanto mosso dalla sua incredibile bellezza. Lei era più grande di lui di almeno una decina di anni, più donna che ragazza, ed era così lontana dall’allegria e dai modi scanzonati di lui che a Regan era impossibile riuscire a intravedere dei possibili fili di affinità che potessero in alcun modo collegarli.

Shin, nel frattempo, l’aveva lasciata andare e stava riassumendo l’accaduto a bassa voce e le espressioni dei suoi interlocutori erano tutt’altro che rilassate.

– Impossibile che un allievo dell’Accademia possa sapere qualcosa di lei – stava bisbigliando Lucius. – Forse aveva solo bevuto un po’… –

– Non giurerei che fosse veramente un allievo della Domus, Lucius – rispose Shin. – Era vestito come se lo fosse, ma francamente aveva un aspetto un po’ troppo maturo. –

– Non può trattarsi di un infiltrato. Nessuno entra qui dentro senza delle credenziali, le mie guardie sono intransigenti e il perimetro della muraglia è difeso da sigilli che ho posto io stessa – affermò Soile, e da come lo disse era chiaro che non ammettesse repliche.

Lucius si accostò al camino, appoggiandosi con un gomito alla spessa mensola di legno scuro che lo sovrastava, e il suo sguardo si perse tra le fiamme.

– Desmond non dà segni di sé da quando la sua Corte è caduta, e dubito che a questo punto tenterà mai di mettere le mani su Regan. I soli che abbiano dimostrato interesse per lei, finora, sono stati Gerjen e compari, e per puro caso, e quella gente mascherata su cui ancora non sappiamo niente. –

­– Quasi niente. –

Lucius si voltò a guardare Shin, il quale aveva parlato così piano che sicuramente era stato solo un ragionamento con sé stesso, più che una puntualizzazione.

– Come hai detto? –

– Qualcosa lo sappiamo: vogliono Regan e operano sotto un emblema preciso. –

– Un emblema che ci è sconosciuto quanto loro. –

– Un emblema che tu, Lucius, potresti avere le carte per smascherare. –

Si voltarono entrambi verso Soile, impassibile, e nel suo sguardo c’era un invito implicito che si indirizzava direttamente a Lucius e, a giudicare dalla rigida consapevolezza nella sua espressione, lui aveva perfettamente inteso ciò che a Regan non era dato carpire.

Lei era lì, ma era come se non ci fosse. Parlavano tra di loro, congetturavano, valutavano, e nessuno si degnava di coinvolgerla.

– Continuate pure, non preoccupatevi. La faccenda non mi riguarda – sibilò e, livida di rabbia e umiliazione, sollevò malamente le gonne e corse via verso il salone.

– Cerbiattina, aspetta! –

Ignorò Lucius e oltrepassò la soglia, scansando il pesante tendaggio in modo tanto sgarbato che quasi se lo trascinò dietro.

– Ci penso io – sentì dire da Shin, ma non se ne curò.

Non aveva memoria e con ogni probabilità chi le stava dando la caccia ne sapeva più di lei di quanto non ne sapesse lei stessa, e coloro che si erano lasciati considerare suoi amici la stavano trattando come un elemento secondario. Lei sapeva poco di qualunque cosa, era vero, e non era in grado di fare praticamente niente, ma non poteva accettare di essere deliberatamente esclusa da questioni che riguardavano la sua stessa sopravvivenza.

Forse aveva ragione Lucius a trattarla come una bambina, forse era davvero immatura e capricciosa e irragionevole e stupida e quant’altro, ma non le sembrava una gran pretesa essere almeno considerata.

Se non fosse stata Anneli a parlargliene, non avrebbe mai scoperto di Soile fino a che non se la fosse ritrovata di fronte, così, dal nulla, proprio come era accaduto quella sera stessa, e arrivando a una rivelazione di tale portata senza una vaga preparazione psicologica forse tutto quanto le sarebbe stato molto meno accettabile di quanto già non fosse.

Si fece largo tra un gruppetto di ragazzini che sghignazzavano tra loro e per poco non inciampò in una signora tarchiata che, travolta, lanciò uno strillo stizzito. Non si fermò a controllare che danni si fosse lasciata dietro. Si ritrovò, non sapeva nemmeno lei come, a imboccare il breve corridoio antistante la scalinata d’ingresso che scendeva conducendo al piazzale di passaggio delle carrozze, al momento deserto. Scese passando in mezzo alle due guardie che vigilavano sul portone spalancato, e solo quando il vento le sferzò il viso si accorse di avere le guance rigate di lacrime. Si lasciò cadere sull’ultimo gradino, esausta e delusa, e si raccolse le ginocchia al petto, mentre piccole gocce di pioggia iniziavano a caderle intorno.

Il cuore le batteva furioso nel petto, pompando sangue bollente senza riuscire a riscaldarla. Aveva anche perso il farsetto di Shin, da qualche parte mentre correva, ma il suo ultimo pensiero era tornare indietro a cercarlo.

Inorridì quando un singhiozzo le proruppe dalle labbra. Non voleva apparire più debole di quanto già non fosse, ma era ormai possibile controllarsi. La rabbia stillava lacrime come fossero state di sua proprietà, e la schiacciava a terra come un macigno.

Per la prima volta da quando aveva riaperto gli occhi su un’esistenza di cui aveva smarrito i ricordi, si sentiva imperdonabilmente sola.

 

 

– Devi perdonarla. È molto impulsiva. –

Soile sorrise laconica. Gli dava le spalle, e Lucius intravedeva solo il suo profilo ritagliato contro i bagliori caldi che irradiavano dal focolare. A volte sembrava fargli male da quanto la sentiva lontana, altre volte, invece, si lasciava avvicinare tanto che scintille pericolose crepitavano nel soffio di vuoto che li separava, e lui era costretto a ritrarsi come una falena che scampava all’ultimo alla fatalità del fuoco che la attirava. Ma Soile non era fuoco. Non più, almeno, e non c’era nulla al mondo che lui avrebbe desiderato di più che rivedere in lei quel calore che c’era stato un tempo, quando tutto era diverso, quando i suoi sorrisi riuscivano a raggiungerle anche gli occhi.

– Posso comprendere il suo stato d’animo. Non abbiamo mostrato molto tatto verso di lei – disse lei, le braccia piegate a circondarle la vita.

– Temo sia stata colpa mia – ammise lui, abbozzando un sorriso di scuse. – Tendo sempre a perdere il contatto con la realtà quando… –

Lasciò morire la frase così, perché sapeva che il resto sarebbe stato inopportuno, e a lei non serviva sentirglielo dire per saperlo che quando c’era lei per lui non c’era nient’altro.

– Quello che hai detto prima, in merito alle mie carte – riprese. – Dicevi sul serio? –

Lei si girò con una lentezza esasperante. Seria. Compita. Surreale come una bambola di porcellana.

– Di tutti noi, sei tu quello con più conoscenze utili, anche se non propriamente definibili legali. Se c’è qualcuno che può scoprire davvero qualcosa, quello sei tu. –

– Sai bene che non è così facile – disse lui, non preoccupato, ma vagamente dubbioso. – Ci vogliono notevoli mezzi di persuasione, se così vogliamo chiamarli, per ottenere un certo tipo di informazioni, ma anche ammettendo di disporre di una merce di scambio valida, e non ne disponiamo, non so cosa potremmo ricavarne, se persino i libri più antichi delle biblioteche della Lega non hanno fornito il minimo indizio. –

Soile assottigliò impercettibilmente gli occhi.

– Credo di non averti mai visto così arrendevole da che ti conosco. Che fine ha fatto il Lucius tenace e cocciuto che conosco io? –

Non le rispose. Il sincero affetto che nutriva per Regan gli tirava la mano, pregandolo di andare a da lei a vedere come stesse, chiederle scusa, e invece dentro l’egoismo scalpitava, con i suoi artigli affilati e velenosi, facendosi strada a colpi bassi e meschini, sussurrandogli all’orecchio con voce maledettamente ragionevole che non aveva ancora voglia di andarsene da lì, di privarsi della compagnia di Soile che così a lungo aveva cercato, senza poterne godere.

Soile…

Imperscrutabile, irraggiungibile, impossibile Soile…

Era sempre così: o lei, o il resto del mondo. E lui provava spesso un’inestinguibile vergogna per l’opzione che la sua volontà, indipendentemente da qualsiasi altro fattore, avrebbe scelto. Ma non si trattava solo di lui, specialmente adesso. Non si trattava solo delle sue scelte e di ciò che voleva lui. Adesso si trattava di decidere se restare ad aspettare il prossimo colpo di un nemico ignoto o rimboccarsi le maniche per cercare di prevederlo. Adesso era ora di mettere in gioco quelle carte che lui teneva da sempre gelosamente custodite nella manica, briciole di un passato che non gli apparteneva più e che lui stesso rinnegava dal più profondo dell’anima, ma che all’occorrenza era disposto a riesumare, in casi eccezionali di estrema necessità, e questo si apprestava a diventare uno di quelli.

 

 

C’era Shin a sorvegliarla, ma dalla cima della scalinata, a riguardosa distanza. Quando lo raggiunse, intercettò per un momento il suo sguardo e vi scorse il riflesso di una profonda tristezza che non gli apparteneva.

– Mi dispiace – esalò Lucius, divorato dal senso di colpa, e non era con lui che si stava scusando, ma con quello che gli aveva visto negli occhi. Con la figura di Regan raggomitolata su sé stessa sotto la pioggia battente.

Shin non disse nulla. Gli fece solo un cenno con la testa di raggiungerla, e lui obbedì. Quando le fu accanto, lei non lo guardò nemmeno.

– Scusami. –

Lei non si mosse né fiatò, e lui non ritenne opportuno aggiungere altro. Le appoggiò solo una mano sulla testa, e lei ne sentì distintamente il calore sui capelli fradici, un tepore più profondo di un semplice contatto fisico che le scivolò dentro, scendendo fino a quel punto in cui il suo stesso sangue non era riuscito ad arrivare.

– Alzati – le ordinò con dolcezza, porgendole una mano.

Regan si lasciò tirare su. Si lasciò confortare dal suo abbraccio e rimase così, stretta a lui sotto il temporale. Piangeva e basta, in silenzio, soffocando i singhiozzi sommessi contro di lui, e Lucius lo accettò come un segno di perdono. Dalla sommità della scalinata, Shin osservava la scena con mesto distacco, ma un’ombra di addolorata compassione gli velava ancora lo sguardo.

– Coraggio, cerbiattina, basta, adesso. –

Le fece sollevare il viso e le asciugò gli occhi, anche se era impossibile capire quali lacrime fossero le sue e quali quelle precipitate dal cielo. Sarebbe bastato portarsi un dito alle labbra per capire la differenza: le sue sarebbero state salate.

La avvolse con il pesante tessuto che si era buttato sul braccio uscendo e lei se lo strinse addosso, riconoscente. Era così grande e pesante che pendeva dappertutto e strisciava per terra.

– Che cos’è questa cosa? – gli chiese, studiando perplessa le morbide pieghe dal colore indecifrabile alla scarsità di luce. – Non è il mio mantello. –

– Infatti. È la tenda che hai elegantemente strappato durante la tua fuga indignata. –

Come aveva sperato, Regan non seppe resistere alla sua piccola trovata e le scappò un sorriso più forte del comprensibile rancore. Le sorrise di rimando.

– Su, ora ricomponiti, da brava. Dobbiamo andare a salutare Eleonora e Calien. –

Lei batté le ciglia fradice di acqua, confusa.

– Cosa significa? –

Lucius si concesse un momento e inspirò a fondo, chiudendole bene i lembi del mantello improvvisato intorno al collo scoperto.

– Staremo via per qualche giorno. –

 

 

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A/N: allora, allora, allora… ormai direi che i personaggi più importanti sono stati tutti presentati. Adesso si tratta solo di conoscere meglio sia loro che ciò che li lega, e, credetemi, ce n’è di storie da dissotterrare! J

Intanto, qualche risposta alle vostre recensioni:

Xx Kin YourichixX: eccoti accontentata, postato! Il Cavaliere Bianco era chi ti aspettavi che fosse? ;) Concordo con te, comunque: Lucius sa essere un bell’insensibile, certe volte. XD Ma sa farsi perdonare, direi, no?

Shadow_Soul: non ti preoccupare per il brano che hai citato, mi fa molto piacere quando qualche lettore riporta qualche parte che lo ha colpito particolarmente, aiuta anche me a capire meglio i punti di forza dei vai capitoli, ed effettivamente penso che quello che hai citato tu sia forse uno dei più “forti” dello scorso capitolo. Immagino che, dopo aver letto questo, tu sia ancora scontenta o quasi, però… ;)

mioho: intanto, benvenuta! Leggere il tuo commento è stato un grande piacere, ho scorto nel tuo modo di esprimerti una certa maturità intellettuale e quindi ne sono rimasta molto compiaciuta. Ti ringrazio davvero tanto per i complimenti. Mi ha molto incuriosito, invece, il tuo punto di vista sugli intrecci sentimentali. Non mi esprimo in merito, perché i rapporti tra i vari personaggi sono ancora un mistero per loro stessi e vista la lunghezza prevista per l’intera storia direi che c’è tutto il tempo per confermare o ribaltare le prospettive attuali. Hai anche puntualizzato uno dei miei punti deboli più smaccati: la tendenza a mettere sofferenza e tragedie ovunque! XD Ebbene sì, ciascuno dei personaggi centrali ha un passato abbastanza travagliato e le sue belle cicatrici, sia fisiche che emotive. Io sono abbastanza sadica e sguazzo felice nel dolore e nella sofferenza, quindi potrai ben immaginare come questo non sia solo che l’inizio. XD Posso dirti che pian piano i nodi verranno sciolti e si scoprirà come e perché ognuno si è procurato le rispettive ferite, a volte magari andandosele anche un po’ a cercare. Venena ti assicuro che tornerà e il suo apporto sarà determinante, quindi aspetta e vedrai. ;) Ah, un’altra cosa: non farti scrupoli sulla lunghezza delle recensioni, perché a me piace avere qualcosa di consistente da leggere, anche perché tre righe che dicono “Bello, mi piace, continua!” non servono a molto. ^^

Milou_: grazie mille per i complimenti! *-* Alla fine abbiamo scoperto che il Cavaliere Bianco non era esattamente il “cattivo”, ma spero sia stata una sorpresa e non una delusione. ;)

 

Orbene, vi lascio con un assaggino del prossimo capitolo e il solito invito a lasciare la vostra opinione, positiva o negativa che sia. J

 

Una goccia di sudore colò dalla fronte di Regan e lei se la asciugò con una manica, fermandosi contro un albero a riprendere fiato. La temperatura, in quella specie di serra naturale, era quasi estiva.

– Dovremo arrampicarci su e giù per questo groviglio vegetale ancora per molto? – ansimò.

Lucius e Shin si fermarono ad aspettarla, poco più avanti.

– Che ti avevo detto? Una lamentela continua – commentò il primo, rivolgendosi all’altro.

Shin non fece in tempo a sorridere, perché dovette scansare assieme a Lucius la zolla di muschio che Regan scagliò loro contro.

– Ha un buona mira, se non altro. –

   
 
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