6.
Addiction
Injustice made it's mark
All the political whores
only come out after dark
If anyone knows the way
Build me a bridge so I
won't fall astray
Inside four walls,
inside four walls my friend
They took away your
freedom
And the pigs still
preach their lies
[Nevermore –
Inside four walls]
7 Marzo 2191
Le porte scorrevoli dell’ufficio di Lee Chaolan, situato al
penultimo piano del grattacielo della Mishima Zaibatsu, si aprirono
senza alcun suono lasciando entrare una donna vestita di nero, dallo
sgauardo serio e l’aria marziale.
–Stavo proprio pensando a te, Nina– disse Lee con
un lieve sorriso mentre alzava lo sguardo dal computer su cui stava
lavorando. –Vedo che almeno qui hai la compiacenza di entrare
dalla porta–.
–Ovviamente, Lee. Siamo al centesimo piano–. Nina
si sedette davanti alla scrivania senza mutare espressione,
indifferente al tentativo di battuta di spirito dell’altro.
–E io non faccio mai niente di inutile e
innecessario–.
–Per questo sei l’Agente numero uno del Tekken
Force– osservò Lee appoggiando la schiena al
morbido schienale della poltrona. –Allora, ci sono
novità? Come se la cava il nostro detective?–.
Nina fece una smorfia e incrociò le braccia.
–Fin’ora ha fatto solo buchi nell’acqua.
Si è perfino lasciato scappare il proprietario del White
Crow. Se solo tu mi avessi dato il permesso di agire a
quest’ora io…–.
–No– la interruppe Lee –Lasciamo che
vadano avanti le pedine sacrificabili. Vedi, è come il gioco
degli scacchi: posso permettermi di perdere un fante, ma non la mia
preziosa Regina…–. Sorrise amabilmente,
guardandola dritta negli occhi.
Nina parve non lasciarsi toccare nemmeno da quello sguardo. Anzi,
assottigliò gli occhi, come una vipera pronta a mordere.
–Non l’hai già persa, la tua preziosa
regina?–.
Il sorriso sul viso dell’uomo si spense di colpo nel sentire
la sferzata nascosta in quelle parole apparentemente calme e innocue.
–Non è lei, la mia Regina. Sei tu–
disse, con un tono di voce e un’espressione assolutamente
seri. Non era il solito Lee galante e dongiovanni in quel momento.
–Davvero romantico…– sbuffò
lei.
–La guerra è alle porte, Nina.–
continuò l’uomo dai capelli argentei, continuando
a guardarla negli occhi. Voleva essere certo che l’altra
capisse pienamente il senso di quello che stava dicendo: parole che non
avrebbe mai avuto il coraggio di pronunciare apertamente davanti a suo
padre, motivo per cui si era personalmente accertato che la stanza
fosse completamente isolata dall’esterno. –Mio
padre è troppo assorto nei suoi sogni di
immortalità per accorgersi pienamente della
gravità della situazione. Ormai è chiaro che
abbiamo dei nemici, nemici di cui sappiamo ben poco, e questo li rende
ancora più pericolosi. E quando loro attaccheranno
avrò bisogno di averti al mio fianco. Non a fianco della
Mishima, non a fianco di mio padre. Al mio–.
–Ci sarò– tagliò corto lei
–Come sempre. È solo per questo che mi hai
chiamata?–.
–No– disse Lee –Voglio che tu vada a
trovare l’ex-Regina–.
Ora era il suo volto ad esibire una smorfia, una smorfia lieve, quasi
impercettibile, ma in cui Nina riconobbe un amaro sarcasmo.
–Offrile una speranza prima che salga sul patibolo–.
*
Palpitazioni, stress, tic nervosi, capogiri, tremori, iperventilazione.
Tutti chiari sintomi della Sindrome di Panico da Pre-appuntamento.
Ling Xiaoyu sedeva insieme a un mucchio di vestiti sul copriletto rosa
confetto nella sua camera, intenta a mangiucchiarsi nervosamente le
unghie, il che probabilmente le avrebbe causato un’ennesima
ondata di panico una volta che si fosse resa conto che poi avrebbe
avuto bisogno anche di una manicure; ma non riusciva a farne a meno,
non a due ore dall'appuntamento col ragazzo che conosceva come Takeshi
Kawamura. Ovviamente sapeva che non era un vero appuntamento, ma questo
rendeva la cosa ancora più preoccupante. Cosa sarebbe
successo? Non ne aveva idea.
Allungò la mano e afferrò il suo unico strumento
di salvezza: il telefono.
–Pronto, Miharu?–.
–Ling!– rispose una voce eccitata almeno quanto lei
–Stavo cominciando a preoccuparmi! Pensavo che mi avresti
chiamata molto prima!–.
–Miharu, sono in preda al panico!–
esclamò Xiaoyu continuando a divorarsi le unghie
–Non so cosa fare! Non so come mi dovrò
comportare! Non so nemmeno come vestirmi!–.
–Non hai ancora scelto?– chiese l'altra, stupita.
–Ma cosa hai fatto fino ad ora?–.
–Oh beh– ridacchiò nervosamente.
–Ho messo a soqquadro tutto il guardaroba cercando qualcosa
di adatto ma non ho la più pallida idea di come
vestirmi–. Tra sé e sé aggiunse
–E fosse solo questo il problema…–.
–Perché non metti uno di quei tuoi vestiti
tradizionali? Quello rosso lungo fino alle ginocchia–.
Xiaoyu si batté una mano sulla fronte. –Ma certo!
Ma certo! Perché non ci ho pensato subito? È
perfetto!– esclamò. E dir che aveva pensato a
tutto tranne che a quello! A volte la sua amica riusciva a tirarla
fuori dai guai con una semplicità sconcertante.
–Bene. E per il resto?–.
–Per il resto sono pronta. Devo solo darmi qualche
ritocco– disse osservandosi le unghie martoriate.
Sospirò. Avrebbe voluto parlare alla sua amica delle sue
vere preoccupazioni, ma sapeva di non poterlo fare. La sua paura non
era solo quella di uscire con la persona che sognava da anni. Avrebbe
dato qualsiasi cosa perché le sue paure fossero davvero
quelle di una ragazza qualsiasi nervosa per il suo primo appuntamento
con un ragazzo qualsiasi, ma non era così.
–Tutto bene?– chiese Miharu, preoccupata dal suo
silenzio –Sei nervosa?–.
–Da morire. Così nervosa che mentre ti parlo sto
rimbalzando sul letto–. Suo malgrado rise perché
in effetti era vero: non riusciva a stare ferma.
–Andrà tutto bene! Del resto è evidente
che gli piaci, sennò non ti avrebbe mai chiesto di uscire
con te, no?–. Benché Miharu cercasse di
confortarla, quelle parole fecero l'effetto contrario; le ricordarono
che Takeshi non era davvero interessato a lei, ma solo al suo silenzio,
probabilmente. Questo pensiero la fece intristire immediatamente.
–Già, hai ragione…–
mormorò, ben poco convinta.
*
Seduto alla scrivania con la testa fra le mani, Lei Wulong si dedicava
a pieno regime all'attività principale di ogni detective:
pensare. E benché sapesse ancora poco su quale fosse la
realtà, di cose a cui pensare ne aveva parecchie. Da una
parte aveva tre persone scomparse nel nulla: Kunimitsu, il ragazzo dai
capelli arancioni, latitante da anni, e adesso persino Marshall Law,
sparito subito dopo aver mentito all'interrogatorio. Da un lato aveva
il problema dei laboratori: una soffiata anonima indirizzava le sue
indagini sulla Biotech, senza che nessuno si fosse preso la briga di
denunciare qualcosa, e, come se non bastasse, non era ancora riuscito a
parlare col dottor Boskonovitch, che dava l'aria di essere la persona
più indaffarata della terra. Probabilmente sarebbe stato
costretto a richiedere che si presentasse al distretto di polizia per
poterlo interrogare e chiarire qualche mistero.
Per esempio: che collegamento c'era fra la Biotech e i terroristi? Non
ne aveva idea. L'unica che avrebbe potuto fare luce sul rapporto tra
gli antagonisti della Mishima e il dottor Boskonovitch era la Mishima
stessa. Ma se i suoi laboratori si rifiutavano addirittura di aprirgli
le porte, come avrebbe potuto scoprire qualcosa? Era strano, era
incredibilmente strano. In molti anni di onorata carriera non gli era
mai capitato di avere le mani così legate e di possedere
così pochi mezzi. Era come giocare a moscacieca. Era come se
qualcuno si stesse divertendo a vederlo brancolare nel buio.
Prese in mano il telefono. –Avete notizie di Marshall
Law?–.
–Gli agenti lo stanno cercando. Hanno portato la sua collega
in centrale per interrogarla ma continua a ripetere di non sapere dove
sia andato. Io stesso sto presiedendo all'interrogatorio–
rispose l'ispettore Hinagawa. –Altri ordini?–.
–Per il momento no. Continuate a tenerla sotto torchio e non
disturbatemi per ora. Io continuerò a sondare l'archivio dal
mio ufficio– disse Lei, poi attaccò la cornetta e
si alzò. Sembrava che non ci fosse nient'altro da fare a
parte aspettare. Ma il detective Wulong non era mai stato il tipo da
starsene a costruire castelli mentali dietro una scrivania: doveva
andare a vedere di persona, toccare con mano, e ora che il mistero si
era infittito per via della telefonata anonima, voleva farlo da solo.
*
Quando riprese i sensi la prima cosa che Kunimitsu vide fu lo sguardo
indemoniato della maschera di Hannya, galleggiante nelle tenebre. Le
parve un cattivo presagio. Si agitò nel letto cercando di
scacciare la fastidiosa immagine che la osservava attraverso il velo
opaco del suo stato di semicoscienza. Ma non c'era niente da fare,
Hannya continuava a guardarla con un'aria che alla kunoichi pareva di
disapprovazione.
“Perché mi guardi così,
demone?”.
Poi, improvvisamente, ricordò: aveva avuto una crisi. Per
quanto tempo? Non ne aveva idea. Non se l'era aspettato, non avrebbe
mai immaginato che l'assenza di quelle pillole avrebbe potuto
provocargli una cosa del genere.
Hannya, o meglio, Yoshimitsu scosse lentamente la testa quando si rese
conto che Kunimitsu si era ripresa.
–Perché non me l'hai detto subito?–. Il
suo tono era calmo e gentile, ma a lei parve vibrare di rimprovero e
delusione.
–Mi dispiace…– mormorò
debolmente Kunimitsu con la voce impastata. Le dispiaceva davvero
essersi ridotta così. Incapace di lottare, inutile per il
clan, inutile per il suo mondo, tutto per colpa della sua debolezza.
Sotto lo sguardo inespressivo della maschera si sentiva sprofondare.
–Mentre eri priva di sensi ci siamo presi la
libertà di farti un'analisi del sangue– disse
Yoshimitsu, con voce piatta, come se fosse un medico intento a dare una
cattiva notizia a un paziente. La differenza qui era che Kunimitsu
sapeva bene cosa avevano scoperto. –Abbiamo trovato
tracce di quella droga in capsule che chiamano H-Sinth. Ma questo
ovviamente tu lo sapevi già. Sai, la gente dice che H stia
per Heaven, anche se io la vedrei meglio come Hell–.
Kunimitsu restò in silenzio e se non fosse per il modo in
cui stringeva i pugni si sarebbe potuto credere che fosse di nuovo
addormentata.
–Suppongo che tu conosca già gli effetti di questa
sostanza, ma quasi nessuno conosce tutti gli effetti collaterali.
È bene che tu ascolti il Dottore– disse alzando lo
sguardo.
La kunoichi trasalì accorgendosi solo in quel momento che
c'era un'altra persona dall'altra parte del letto, un anziano che la
guardava bonariamente. Lo scrutò attentamente e
benché avesse la vista annebbiata lo riconobbe quasi subito.
Era il famoso Dottor Boskonovitch che aveva visto spesso sui giornali,
un pezzo di storia di Nuova Edo, uno degli scienziati che aveva reso
possibile l'uscita dai bunker e la ricolonizzazione del mondo. Uno
degli uomini più importanti di quel nuovo mondo.
–Lei…?– mormorò, stupita.
Il Dottore la guardò negli occhi senza mostrare alcuna
reazione al suo stupore. –L'H-Sinth è in grado di
creare visioni attraverso la stimolazione cerebrale–
spiegò. –Finché l'effetto dura
l'individuo crede che le visioni facciano parte di una
realtà senza tempo, vera e felice. Come un Paradiso
Sintetico, appunto. Ma ha un effetto collaterale gravissimo:
è in grado di debilitare l'organismo a tal punto da non
permettergli di funzionare correttamente una volta che essa venga
sottratta. Per dirlo in parole povere è come se distruggesse
sostanza nutritive necessarie e ne prendesse il loro posto.
Così sì è obbligati a non smettere di
prenderla. E non è nemmeno possibile disintossicarsi da
soli, perché è pericoloso. È
necessaria la presenza di un medico che somministri dei farmaci in
grado di contrastarne gli effetti e reintegrare le sostanze che
l’H-Sinth disgrega–.
Kunimitsu sapeva benissimo che un paradiso sintetico si paga a caro
prezzo, eppure non immaginava che una sostanza così diffusa
tra i vicoli e i locali della Zona Rossa nascondesse un veleno
così potente. Nessuno le aveva mai detto che cosa fosse
davvero in grado di fare. Ecco cos’era in verità
l’H-sinth: non uno spiraglio di libertà ma uno
strumento di controllo, un guinzaglio, una forma di
schiavitù nascosta dietro il paradiso artificiale
dell’evasione della realtà. Nient’altro
che l’ennesimo lavaggio del cervello a cui lei aveva cercato
di sottrarsi per tutta la vita. E invece ci era caduta in pieno.
La brutalità della verità in quelle parole
gentili era insopportabile. Non disse niente, temendo che un tremito
nella voce rivelasse agli altri due il suo turbamento.
–Che cosa vuoi fare adesso?– chiese Yoshimitsu.
–Perché, ho qualche scelta? Così sono
inutile per il clan– rispose lei con amarezza. Probabilmente
l'avrebbero tenuta rinchiusa lì dentro fino alla conclusione
della loro missione, per giorni, mesi o forse anni, a consumarsi nella
commiserazione o nell'astitenza finché non si fosse
disintossicata. Probabilmente non si meritava nient’altro. Si
chiese quanto del suo pessimismo fosse naturale e quanto fosse causato
dalla privazione della droga.
A quel punto Yoshimitsu fece qualcosa che la stupì. Si
sedette sul letto e le afferrò il polso con la stretta della
fredda mano robotica. –Certo che cel'hai, non essere
idiota– disse bruscamente. –Tutti hanno una scelta,
Kunimitsu–. Sempre tenendola per il polso guardò
Boskonovitch. –Non è vero, Dottore?–.
Kunimitsu, che in altre occasioni avrebbe spaccato la testa a chiunque
si fosse permesso di darle dell'idiota, si tirò a sedere sul
letto senza dire niente, sentendo rinascere una debole speranza.
Il Dottore annuì. –Puoi ancora entrare nel clan,
se lo desideri. Devi solo disintossicarti. Qui abbiamo alcuni medici
validi che ti possono aiutare e assistere secondo i procedimenti
tradizionali–.
–Ma ci vorranno settimane, forse mesi perché io
guarisca!– protestò lei –E nel frattempo
cosa dovrei fare?–.
I due uomini si scambiarono un'occhiata.
–Ecco…– cominciò
Boskonovitch, esitante.
–Glielo dica, dottore. È giusto che sappia che
c’è un’altra
possibilità–.
–Ecco… sì, esiste un altro metodo
più veloce, ma è ancora in fase di
sperimentazione. Si tratta di iniettare nel sangue un composto in grado
di eliminare le tossine dal tuo corpo in un paio di giorni. Ma devi
sapere che è estremamente doloroso e anche pericoloso per
chi non si trova in condizioni fisiche ottimali. Non te lo
consiglio–.
Kunimitsu capì dall'espressione grave del dottore che non le
stava mentendo.
–Quanto doloroso?– chiese, trepidante.
–Ben al di là dei normali limiti di
sopportazione– rispose il dottore. Serrò le
labbra. Era ovvio che avrebbe preferito non ricorrere a quel mezzo e
forse sperava che Kunimitsu non accettasse di farlo.
La ragazza si voltò verso Yoshimitsu. Non aveva detto una
parola ma continuava a stringerle il polso, forse non rendendosene
conto a causa dell'insensibilità dell'arto. Avrebbe pagato
qualcosa per sapere con che espressione la stava guardando in quel
momento. Apprensione, curiosità, incoraggiamento? Ma non lo
sapeva. Avrebbe dovuto decidere da sola, come aveva sempre fatto.
Si girò verso il dottore. Sospirò. –Non
importa. Lo farò–.
*
La dottoressa Chang, seduta alla sua scrivania, faceva scattare il
tappo di una penna in attesa che arrivasse l'ora di chiusura dei
laboratori e i ricercatori uscissero. Non era insolito per lei restare
fino a tardi, ma stavolta aveva altri motivi che non riguardavano i
suoi studi sulla riforestazione. Non sapeva bene cosa avrebbe dovuto
fare, ma sapeva che tanto se fosse andata a casa quella sera non
avrebbe dormito comunque: era troppo agitata.
La visita del poliziotto sembrava aver confermato tutte le sue paure:
c'era davvero qualcosa che non andava. Possibile che lei fosse la sola
in tutta la Biotech ad essersene accorta? "Prima la strana visita
notturna del dottor Abel, poi il dottor Boskonovitch che si comporta
come se fosse una cosa normale, poi l'arrivo di un poliziotto che
chiede di parlare proprio con me. E come se non bastasse ora il dottore
è irrintracciabile sul cellulare, sparito subito dopo
essersi occupato del suo esperimento!". Julia non era mai stata una dal
temperamento nervoso, ma quella situazione le faceva saltare i nervi.
"Ricapitoliamo" pensò. "Il dottor Abel crede che sia stato
sottratto qualcosa dai laboratori Mishima e il dottor Boskonovitch dice
di non saperne nulla. Chi dei due mente? Se vogliamo dare ascolto al
detective e qui sta succedendo davvero qualcosa di strano, allora
dovrebbe essere Boskonovitch a mentire. Possibile che mi stia
nascondendo qualcosa? A me, che sono la sua assistente da anni?". Julia
lasciò andare la penna e si massaggiò le tempie.
Non riusciva credere che il dottore fosse dietro a qualcosa di losco,
lo conosceva come una persona irreprensibile, una sorta di benefattore
dell'umanità. Eppure, andando a ripescare nei suoi ricordi
recenti, c'era davvero qualcosa di strano. "Non solo sparisce in
continuazione, il che è comunque scusabile dato che forse, a
differenza di me, dovrà pur avere una vita privata, ma
riceve un sacco di messaggi cartacei anonimi. Possibile che mi stia
nascondendo qualcosa? A me, che sono la sua assistente da anni, che ho
le chiavi di tutte le stanze dei laboratori?". Julia
sussultò a quel pensiero. Non era vero che aveva tutte le
chiavi perché c'era un posto a cui nemmeno lei poteva
accedere: uno degli scomparti del magazzino.
Uscì dal suo laboratorio e si guardò attorno, per
paura che ci fosse qualcun altro che tirava tardi come lei, ma ormai in
giro non c'era anima viva. Anche se non aveva le chiavi voleva comunque
andare a dare un'occhiata di ricognizione con la speranza di scoprire
qualcosa, perciò prese l'ascensore e scese fino ai
sotterranei.
Quando varcò la soglia del buio e immenso magazzino il cuore
prese a batterle più forte. Passò in fretta in
mezzo ai lunghi scaffali polverosi, pieni di ogni sorta di strumenti e
materiali di varia natura in attesa di essere utilizzati.
Ciò che le interessava erano le porte che si aprivano in
fondo allo stanzone e che contenevano gli oggetti più
preziosi. Julia ne superò nove su cui campeggiavano scritte
come "Innesti Biomeccanici" e "Microcircuiti elettronici". L'ultima non
aveva scritte ed era proprio quella di cui nessuno, eccetto il dottore,
aveva la chiave.
Julia restò a guardarla, sospirando. Se davvero era stato
sottratto qualcosa ai laboratori Mishima quello era il posto
più probabile in cui nasconderlo. Sapeva che se voleva
davvero entrarci doveva prima rubare la chiave al dottore e aveva
già qualche idea su come fare. Ma ne avrebbe avuto il
coraggio?
*
Quando il sole tramontava certi quartieri della Zona Rossa calavano nel
buio più totale. Nessun lampione illuminava le vie e le
uniche luci accese erano quelle delle stanze popolate negli Edifici
Abitativi, quelle enormi moli di cemento che si innalzavano contro il
cielo come una gigantesca e sgraziata arca di Noè senza
speranza.
Eppure era proprio dopo il tramonto che le strade si riempivano di
più. Ogni genere di persona abbandonava i propri rifugi per
occuparsi di ogni sorta di affari più o meno leciti, piccoli
capanneli si formavano a ogni angolo per scambiarsi notizie. Fra tutto
questo via vai e il sussurrare concitato sembrava che solo una persona
se ne stesse in disparte, passeggiando senza meta per le strade, in
preda ai pensieri.
–Cazzo– sibilò Hwoarang dando un calcio
a una lattina sfuggita da una busta della spazzatura. Nonostante i
lividi e le ferite ricevute al suo ultimo incontro con gli scagnozzi di
Feng Wei, da allora non si era fermato mai un momento. Aveva racimolato
tutti i suoi risparmi, era persino andato a reclamare i suoi soldi da
quelle poche persone che erano in debito verso di lui, ma quello che
aveva raccolto non era nemmeno la metà della somma che
doveva al capomafia.
"Sono con le spalle al muro" pensò. "Che cosa dovrei fare?
Scappare? Macché. È impossibile uscire da Nuova
Edo a meno che non si abbia abbastanza soldi per pagare alla fottuta
frontiera. Mi costerebbe meno saldare il debito con Feng Wei! E da
quando le altre città ci hanno messo l'embargo non
c'è nemmeno una maledettissima areonave commerciale per
imbarcarmi come clandestino. Sono rovinato, rovinato… Non
saprei nemmeno a chi chiedere un prestito. A Marshall? No, non posso
farlo. Non dopo che gli ho dato del vigliacco, maledizione. Forsei
potrei rapinare una banca… Ehi, ma dove diavolo sto
andando?".
Si fermò, cercando di capire dove fosse andato a finire a
furia di girovagare nel buio. Un sorriso beffardo gli si dipinse sulle
labbra livide quando se ne rese conto. Nonostante tutto era finito a un
tiro di schioppo dal White Crow, come se i suoi passi infingardi
l'avessero portato proprio dove per orgoglio aveva deciso di non andare.
"Sembra che nonostante tutti i miei propositi di uscire da solo da
questa situazione del cazzo io mi ritrovi sempre a sperare nell'aiuto
degli altri. Beh, già che ci sono posso andare a dare
un'occhiata al pub. Se Marshall ha davvero messo al sicuro Kunimitsu
forse potrebbe mettere al sicuro anche me. O almeno potrei chiedergli
scusa…".
L'insegna al neon, raffigurante un corvo bianco dalle ali spiegate, era
già vicina quando qualcuno esclamò
–Ehi, tu!– e gli afferrò con forza la
spalla dolorante.
–Ahia, e che cazzo!– esclamò Hwoarang
voltandosi verso l'uomo che lo aveva fermato così
bruscamente. Si ritrovò di fronte a un cinese che portava i
lunghi capelli neri legati in una coda. Un altro scagnozzo di Feng Wei
venuto a reclamare soldi? Ora sì che stava per perdere la
pazienza.
–Basta! Ne ho abbastanza di voi e dei vostri cazzo di soldi!
– ringhiò Hwoarang, cercando di divincolarsi dalla
presa –Il tuo capo mi ha detto che ho una settimana di tempo,
quindi perché non mi lasciate in pace? Che è, si
è rimangiato la parola?–.
L'altro uomo sgranò gli occhi, senza capire. –Che
cosa?–.
Hwoarang impallidì a vista d'occhio. A causa del buio non
era riuscito a scrutare bene il suo assalitore, ma ora che lo guardava
meglio si rese conto che quell'uomo non aveva per niente l'aria
opulenta del mafioso. Piuttosto aveva l'aria di…
–Oh, merda! Uno sbirro!– esclamò il
ragazzo liberandosi dalla presa grazie all'attimo di smarrimento
dell'altro uomo. Fece uno scatto e corse via più forte che
poteva verso i vicoli da cui era uscito. Non era ridotto bene ma
liberarsi degli inseguitori era sempre stata una delle sue
specialità più ammirate da tutti gli sbandati del
suo Blocco.
–Fermo!– intimò il poliziotto mentre lo
inseguiva. –Detective Wulong, Polizia!–.
–Col cazzo!– gridò Hwoarang mentre
sfrecciava in un vicolo, forse, si trovò a pensare, lo
stesso in cui era passata Kunimitsu per seminare i cyberpoliziotti. Dei
bidoni gli sbarravano la strada; ci saltò sopra e con un
potente calcio li spedì a rotolare alle sue spalle.
Con la coda dell'occhio vide il detective intento a schivarli
goffamente. Esultò mentalmente: nonostante le sue ferite era
ancora in grado di dare del filo da torcere a uno schifoso piedipiatti.
–Fermati! È un ordine!– gridò
ancora il poliziotto unendo il suono della sua voce a quello dei loro
passi veloci. Un momento dopo Hwoarang sentì degli spari
riecheggiare fra i muri di cemento.
–Fanculo, questo mi ammazza!– ansimò il
ragazzo coprendosi le mani con la testa, per reazione istintiva. Si
voltò un solo istante per vedere se il poliziotto mirava a
lui o al cielo, ma ciò gli fu fatale. Inciampò in
un groviglio di cavi di scarto e cadde lungo disteso al suolo.
Il poliziotto fu subito su di lui. –Hai finito di scappare,
terrorista!– esclamò Lei Wulong con il fiato
spezzato dalla corsa mentre gli bloccava le mani dietro la schiena.
–Ti ho riconosciuto subito anche con quella faccia piena di
lividi!–.
–Terrorista!?– esclamò Hwoarang,
sbigottito, mentre cercava di liberarsi dalla presa con tutte le sue
forze, ma in breve sentì la temuta stretta delle manette che
si chiudevano attorno ai suoi polsi. –Ma che dici, sbirro,
sei suonato?–.
–In piedi!– grugnì il detective
afferrando Hwoarang e tirandolo su in malo modo.
–Amico, devi avermi preso per un altro!–
replicò il ragazzo barcollando per la spinta. –Io
non so niente di terroristi!–.
–Ah no?– replicò il detective con uno
sbuffo divertito. –E allora perché sei
scappato?–.
Hwoarang si assestò in piedi e rivolse al poliziotto uno
sguardo di sfida. –Perché, ho anche bisogno di un
motivo per scappare da uno di voi cani rabbiosi? Credi che non sappia
cosa fate a quelli come me?–.
–Bada a come parli, ragazzo– lo ammonì
Lei afferrandolo per un braccio e dandogli una scrollata.
–Su, in marcia!–.
Il detective si avviò tra i cumuli di rifiuti trascinando
con sé uno Hwoarang estremamente recalcitrante.
–Li pestate a sangue, più di quanto quegli altri
bastardi non abbiano già fatto con me–
continuò con uno sguardo carico d'odio. Ma il poliziotto
continuava a camminare senza degnarlo di un'occhiata.
–Se non parlano, passate a maniere ancora più dure
e meno lecite. Finchè il poveraccio non è
costretto ad ammettere anche colpe che non ha commesso e a fare i nomi
di altra gente. Anche gente innocente, tanto per voi è
uguale. No?–.
–Sciocchezze– rispose Wulong guardando dritto
davanti a sé.
–Per voi basta che uno abiti nella Zona Rossa ed è
già un pericolo pubblico. Quanti di noi avete già
portato nell'Isola, eh? Per voi siamo carne da macello!–.
–Ora basta!– esclamò l'altro, punto sul
vivo. Si fermò e lo afferrò per il bavero,
guardandolo dritto negli occhi. Non amava le maniere forti, ma quel
tizio sembrava costringerlo a usarle; non poteva lasciare che
continuasse a infangare il nome della Cyberpolizia con delle false
accuse. –Chi ti ha raccontato queste bugie? La polizia non fa
cose del genere!–.
Hwoarang avrebbe alzato un sopracciglio per manifestare la sua
incredulità, se la sua faccia non fosse stata
così dolorante. –Sbirro, o sei un grandissimo
paraculo o sei la persona più ingenua della
terra–.
Stava per aggiungere altro quando un movimento a poca distanza
attirò la sua attenzione. Un folto gruppo di uomini
dall'aspetto poco rassicurante aveva fatto il loro ingresso a pochi
passi da loro. Hwoarang non li conosceva, ma a giudicare dagli
ideogrammi e dagli stemmi che avevano cuciti sui vestiti di pelle, si
trattava di una banda di motociclisti. Sgranò gli occhi,
incredulo per la sua fortuna.
–Ehi, ragazzi! Guardate qui, uno sbirro!–
urlò con quanto fiato aveva in gola.
Gli uomini girarono alla testa all'unisono e in breve sulla faccia di
molti di loro apparve un ghigno divertito.
–Guarda guarda…– disse un uomo non
più tanto giovane che aveva l'aria di essere il capo.
Portava una maschera antismog sulla parte inferiore del volto e teneva
i capelli ingrigiti legati in una coda. Aveva uno sguardo severo e
penetrante e, a giudicare dal taglio degli occhi, doveva essere anche
lui di origine koreana. –Uno sbirro di merda ha
catturato un ragazzo e a quanto vedo lo ha anche riempito di botte. E
nella nostra zona, per di più! Vi sembrano cose da farsi,
ragazzi?–.
Gli altri teppisti, sghignazzando, fecero segno di no e cominciarono
avvicinarsi lentamente ai due. Alcuni tirarono fuori dei coltelli,
altri dei nunchaku, altri delle mazze da baseball.
Questa volta fu il detective a impallidire. –No, vi
sbagliate! Non l'ho picchiato io!–.
–ADDOSSO!– gridò il capobanda alzando un
braccio contro il cielo. In men che non si dica tutta la schiera di
teppisti fu addosso al malcapitato poliziotto, gridando e roteando le
loro armi come dei guerrieri all'attacco in un campo di battaglia.
Lei Wulong, vedendosi in netta minoranza, fu costretto a scappare a
darsi immediatamente alla fuga. Cercò di trascinarsi dietro
il suo prigioniero ma questi gli faceva una tale resistenza che dopo
pochi passi fu costretto a mollare la presa.
E fu così che Hwoarang cadde rovinosamente al suolo per la
seconda volta nel giro di qualche minuto.
–Cazzo, che botta…–.
Restò a guardare l'asfalto mentre le grida si allontanavano.
Si sentiva stanco, incredibilmente stanco. Quasi quasi se ne sarebbe
rimastò lì disteso ad arrendersi al sonno, ma
qualcuno lo prese per un braccio e lo tirò su. Era il capo
della banda.
–Grazie, amico. Mi avete salvato la vita–
farfugliò.
–Di niente, ragazzo– disse l'uomo dandogli una
vigorosa pacca sulla spalla dolorante. Hwoarang strinse i denti e
strabuzzò gli occhi.
–La mia banda non lascia nessuno in mano a uno sporco sbirro,
quanto è vero che mi chiamo Baek Doo San. Ora vieni con me,
andiamo a raggiungere gli altri. E poi troveremo qualcuno in grado di
aprire queste manette–.
E così i due si avviarono nel buio della Zona Rossa seguendo
le grida in lontananza.
*
Kunimitsu osservava con apprensione il dottor Boskonovitch mentre
questi faceva su e giù per il laboratorio, manovrando fiale
piene di liquidi dai colori strani e strumenti elettronici. Se ne stava
semisdraiata su una comoda poltrona reclinabile, simile a quella di uno
studio dentistico, situata al centro della sala, eppure non riusciva
minimamente a rilassarsi. Di certo le cinghie di cuoio con cui era
stata legata al lettino non erano d’aiuto.
–È solo per evitare che tu ti faccia male.
Sai… nel caso che tu abbia degli spasmi–
spiegò Yoshimitsu, in piedi accanto a lei.
–Se stai cercando di rassicurarmi non ci stai riuscendo per
niente– osservò Kunimitsu con un certo sarcasmo.
–Se non vuoi farlo sei ancora in tempo per tornare indietro,
sai?–.
–No, voglio farlo. Devo farlo–. Era la sua scelta,
solo sua, e non sarebbe tornata indietro. In fondo le sembrava
abbastanza equo passare qualche minuto o qualche ora di sofferenza pur
di redimersi dagli anni di stupidità che aveva vissuto,
sprecando la sua vita con l’H Sinth.
Il dottore si avvicinò. Aveva uno sguardo serio in volto e
teneva una piccola siringa piena di liquido cristallino in mano.
–Siamo pronti?–.
La kunoichi annuì. –Sì–.
–Ti spiego un’altra volta come funziona.
Inietterò questo siero nel tuo braccio.
Impiegherà circa dieci secondi per cominciare a fare
effetto, dopodiché le tossine rilasciate
dall’H-Sinth inizieranno ad abbandonare il sistema
circolatorio e i tessuti. Questa prima fase sarà breve, ma
estremamente dolorosa. Chi l’ha provato ha
detto…–
–…che preferirebbe morire che essere sottoposto di
nuovo a qualcosa del genere– continuò lei,
ripetendo parole che il dottore le aveva già detto
più volte, forse nella speranza di dissuaserla –Ma
non si preoccupi, non ho intenzione di averne bisogno di
nuovo–.
Le venne quasi da ridere. Sembrava così forte e sicura di
sé mentre diceva queste cose, eppure la realtà
era che stava morendo di paura e se non stava tremando era solo
perché le cinghie erano troppo strette per permetterle di
muoversi. Guardò Yoshimitsu, chiedendosi se fosse in grado
di leggere la realtà, se riuscisse a vederla al di
là della sua maschera, ma l’espressione di Hannya
era sempre la solita, inamobivile, e lei non era in grado di sapere di
più.
–Permettimi di sollevarti la maschera un istante–
disse lui ad un certo punto –È meglio se tieni
qualcosa tra i denti, così non rischierai di staccarti la
lingua–.
Kunimitsu sbuffò, non molto contenta di sentirsi parlare di
lingue staccate quando già stava facendo
un’immensa fatica a mantenere il suo autocontrollo.
–Certo che tu sai proprio come mettere una ragazza a proprio
agio, eh? Avanti, muoviti–.
Yoshimitsu non disse una parola a sua discolpa: in effetti era meglio
se la kunoichi se ne stava concentrata a considerarlo la persona
più indelicata sulla faccia della Terra, piuttosto che
pensare a quello che stava per fare. E sì, lui lo sapeva che
stava morendo di paura. Era abbastanza sicuro che in condizioni normali
Kunimitsu non avrebbe permesso a nessuno di sollevare la sua maschera e
che piuttosto gli avrebbe affettato una mano, anche da legata
com’era. Invece non disse niente mentre lui le scopriva la
metà inferiore del viso e le metteva un rettangolino di
gomma fra le labbra rosee. Lei lo strinse fra i denti, contenta di aver
qualcosa a cui aggrapparsi fisicamente, qualcosa su cui concentrarsi.
–Iniziamo– disse il dottore con tono grave e senza
indugiare oltre si avvicinò al fianco della ragazza. Il
sottilissimo ago entrò nella pelle senza
difficoltà e per alcuni momenti l’unica cosa che
la kunoichi potè sentire fu quella lieve puntura e una
curiosa sensazione di freddo che si spandeva lentamente nel suo
braccio, mentre il fluido scorreva nelle sue vene. Le fece venire un
brivido, ma in fondo non era così spiacevole.
Poi, man mano che i secondi passavano, iniziò a capire con
assoluta precisione perché le persone che si erano
disintossicate in quel modo avrebbero preferito la morte piuttosto che
farlo di nuovo.
Era terribile.
Era come se stesse bruciando dentro, come se quel ghiaccio
incandescente nelle sue vene stesse divorando la sua carne e scavando
le sue ossa. In quel momento avrebbe dato qualsiasi cosa per tornare
indietro, avrebbe voluto piangere, avrebbe voluto urlare, ma teneva i
denti così stretti attorno a quel pezzo di gomma che non
riuscì a emettere alcun suono. Avrebbe addirittura invocato
la morte, se solo avesse potuto, ma non riusciva a parlare e le cinghie
premevano così tanto sulla sua pelle da impedirle non solo
di abbandonarsi agli spasmi che la scuotevano, ma anche di fare
qualsiasi gesto volontario.
No, non poteva scappare a quel dolore micidiale, poteva solo resistere.
Resistere e sperare che passasse presto.
Per sua fortuna, dopo quello che a lei parve un tempo infinito, ma che
in realtà dovettero essere solo pochi minuti, i suoi sensi
cominciarono ad affievolirsi: si appannò la luce al neon del
laboratorio, si attutirono i suoni e infine si attutì anche
la sua percezione del dolore, finché i sensi non
l’abbandonarono del tutto e non sentì
più nulla. Non sentì nemmeno la mano di
Yoshimitsu posata sul suo braccio ancora scosso da fremiti.
–Sono fiero di te, Kunimitsu…–
*
Seduto su una cassa di lattine davanti a un falò Hwoarang
guardava con riconoscenza i polsi arrossati ma ormai liberi da manette.
Attorno a lui era tutto un rombare di motociclette e uno schiamazzare
di gente riunita attorno a dei bidoni in cui danzavano le fiamme,
rimedio antico contro il buio e il freddo in un angolo della
città in cui anche la tecnologia basilare sembrava non
essere ancora arrivata. I membri della banda avevano messo in fuga il
poliziotto e ora si erano ritirati in uno dei loro luoghi di ritrovo:
un’ampia spianata nel bel mezzo di un cantiere edile
abbandonato ormai da anni.
–Ehi!– tuonò una voce gioviale alle sue
spalle. Hwoarang si girò appena in tempo per vedere il capo
della gang sedersi accanto a lui e porgergli una lattina di birra.
–Tieni, non fare complimenti. Per stasera sei nostro
ospite–.
Il ragazzo prese la lattina mormorando un ringraziamento e rimase a
guardare le fiamme che danzavano di fronte ai suoi occhi, senza dire
una parola. Ora che finalmente era fuori pericolo la stanchezza
accumulata negli ultimi giorni gli era piombata tutta addosso assieme
alla consapevolezza di quanto fosse dura la situazione in cui si
trovava. Non solo la mafia, ma ora come se non bastasse anche la
polizia gli stava alle calcagna e benché non ne sapesse il
motivo aveva la netta sensazione che la scomparsa di Kunimitsu
c’entrasse qualcosa: troppe coincidenze legate al White Crow.
Ma se anche il pub era ormai troppo pericoloso per lui dove poteva
rifugiarsi in una situazione del genere?
Si sorprese a pensare a quanto fino ad ora fosse dipeso
dall’aiuto degli altri: Kunimitsu, Marshall, la gang di
motociclisti. Forse, dopo tutto, la sua indole da ribelle e da
fuorilegge non era altro che spacconaggine, una maschera per mostrarsi
più forte di quanto in realtà fosse.
–Non per farmi i fatti tuoi…– disse
Baek, interrompendo il corso dei suoi tetri pensieri –Ma
com’è che quello sbirro ce l’aveva con
te?–.
Hwoarang fece un’alzata di spalle. –Sembra che mi
abbia scambiato per un terrorista–.
–Terrorista?–. Un guizzo passò negli
occhi dell’uomo, ma il giovane non lo notò,
assorto com’era a fissare il nulla nel fuoco.
–Strano. Non sento mai nominare la parola
“terrorismo” dalla polizia e, credimi, io con
quella merda ci ho avuto a che fare più spesso di quanto
possa piacermi, quindi so come funziona la loro testa. Ai piani alti
non piace che girino voci su gente a cui non piace il governo. Vogliono
che la gente creda di vivere in un fottuto mondo felice.
Perciò se sei nemico dello stato gli sbirri preferiscono
levarti di mezzo senza fiatare–.
Hwoarang annuì distrattamente, gli occhi persi nel fuoco,
meritandosi così un doloroso scappellotto dietro al collo.
–Oh! Per che cos’era quello!?–
gridò, confuso da quella mossa inaspettata.
–Non mi stai ascoltando, ragazzino! Hai capito cosa ti ho
detto?–.
–Sì sì…–
mugugnò Hwoarang, massaggiandosi dietro il collo.
“Ma cosa vuole questo vecchio pazzo? –La polizia
non parla mai di terrorismo, e quindi?–.
–Avrai sentito parlare delle esplosioni nell’Inner
Core, no? O sei uno di quegli sfattoni drogati che stanno tutto il
giorno sdraiati sul marciapiede mentre questo mondo di merda gli vomita
addosso?–.
Hwoarang lo guardò con perplessità. Quel Baek
aveva un’aria gioviale e tranquilla all’inizio, pur
essendo il leader di una banda di malviventi, ma improvvisamente si era
animato di una severità e di una rabbia che non si sarebbe
aspettato nemmeno da uno come lui. Diamine, faceva quasi paura.
–Sì che ne ho sentito parlare, per chi mi hai
preso!? E ho capito cosa vuoi dire. Pensi che il fatto che la polizia
sia in movimento voglia dire che le voci sono vere? Che finalmente
c’è una Resistenza all’opera?–.
–Bene, sei sveglio dopo tutto. Per un momento ho pensato che
tu fossi una di quelle nullità dal cervello
bollito– disse Baek dandogli una pacca sulla spalla.
–Come ti chiami, ragazzo?–.
–Mi chiamano Hwoarang–.
–“Hwoarang”?–. Baek parve
sorpreso. –Il titolo onorifico che si dava ai giovani
guerrieri sotto il regno di Chinhung nel VI secolo Dopo
Cristo?–.
Ora era Hwoarang a essere sorpreso. Da quando gli stati non esistevano
più, spazzati via dalla guerra, quasi ogni forma di cultura
e tradizione locale, compresa la storia nazionale, era scomparsa sotto
l’imperante globalizzazione. Il regime aveva cancellato la
storia dei popoli per far posto al glorioso racconto di come Heihachi
Mishima avesse riportato il benessere, perciò dopo tanti
anni di governo totalitario era una rarità incontrare gente
che avesse una memoria storica che arrivasse a un secolo prima dello
scoppio del conflitto nucleare. Lui stesso non ne sapeva
granché, a dire il vero: aveva solo incontraro il nome
“Hwoarang” in un vecchio trattato d’arti
marziali e lo aveva adottato come suo perché gli era parso
figo. Punto.
–Sì, perché?–.
–Non è che per caso pratichi il
Taekwondo?–. Avrebbe potuto giurare che in quel momento gli
occhi da falco di Baek stavano brillando.
–Sì. O meglio, lo praticavo qualche anno
fa…– rispose, sempre più perplesso.
–Poi il mio maestro si è fatto
arrestare–.
Trasalì letteralmente quando l’uomo
balzò in piedi di colpo, animato da un’energia
straordinario. –Ragazzo, è il tuo giorno
fortunato! Io sono 5° Dan!–.
–…e quindi?–.
–E quindi hai trovato il tuo nuovo maestro!–.
Hwoarang scoppiò in una mezza risata. Sì, certo,
come se con tutto quello che gli era crollato addosso avesse ancora
tempo per dedicarsi alle arti marziali!. –Mi spiace vecchio,
ma non mi interessa. Ho troppi casini per darmi allo sport–.
Un’altra manata gli piombò fra capo e collo,
facendogli quasi strabuzzare gli occhi.
–OOH! La vogliamo finire!?– gridò.
–Punto uno– sibilò Baek, visibilmente
alterato, puntandogli l’indice contro il petto –Il
Tae Kwon Do non è uno sport: è uno stile di vita,
è una filosofia, è ferrea disciplina…
solo un debole abbandona! Tu sei un debole?–.
“Debole”. Quella parola affondò come un
pugnale. –No che non lo sono!–.
–Punto due: lo so che sei nei casini. Cazzo, basta guardarti
come sei ridotto in faccia. Per questo ti sto offrendo una
soluzione– disse, continuando ad affondargli il dito nel
petto.
–E quale sarebbe?–.
–Punto tre…– continuò
l’altro, ignorandolo bellamente –Io non sono
vecchio, ok? Non ho nemmeno 50 anni!–.
–Ma quale sarebbe la soluzione?– chiese ancora
Hwoarang, piuttosto spazientito.
Baek lo guardò dall’alto, il volto fiero e deciso
solcato da un sorriso che era insieme burbero e benevolo.
–Entra nella gang. Ci chiamiamo Sam-Jang,
“Fuoco”. Troverai un maestro e forse anche la fine
dei tuoi problemi–.
Il ragazzo restituì lo sguardo con un’espressione
un po’ sconvolta. Chi era questo vecchio pazzo che sembrava
così deciso a sconvolgergli la vita? –Ma se non ho
nemmeno una cazzo di moto! –.
–Non ti serve una cazzo di moto, cretino–
brontolò l’altro –Ti serve solo
un’occasione per rialzarti, e io te la sto
offrendo–.
*
Quando l’Agente Williams aprì la porta della
stanza degli interrogatori non poté impedire al suo volto
solitamente serio di contrarsi in una smorfia di disgusto. Il pensiero
del colloquio totalmente indesiderato che le toccava fare era quasi
fastidioso quanto la patetica vista che le si profilava davanti.
Una donna stava seduta con i gomiti poggiati sul tavolo e le mani fra i
capelli rossi, esausta per le lunghe ore di interrogatorio.
Sollevò la testa al sentire la porta che si apriva e i suoi
occhi cerchiati si spalancarono dalla sorpresa.
–Cosa ci fai tu qui!?– protestò
riprendendosi istantaneamente dalla sonnolenza –Rischi di far
saltare la copertura!–.
Nina sollevò imperiosamente una mano zittendo
l’altra donna. –Ho un lasciapassare. E comunque la
vera domanda non è cosa ci faccio io qui. La vera domanda
è cosa ci fai tu qui, Anna– replicò
squadrando l’altra donna dall’alto in basso, con
sufficienza. Guardandola si rese conto che in tutto quel tempo sua
sorella non le era mancata per niente. –Non ti sei ancora
chiesta perché la Squadra Speciale ti abbia portato qui pur
sapendo benissimo chi sei? –.
–Certo– sbottò Anna –Nessuno
al di fuori della Squadra Speciale deve sapere chi sono. Se il
detective Wulong e i suoi compagni di squadra venissero a sapere della
nostra esistenza sarebbe un…–.
–Sbagliato– la interruppe nuovamente Nina. Scosse
lentamente la testa abbozzando un sorriso ironico. Ridicola. Le veniva
quasi da ridere. –Anna, Anna, Anna… Possibile che
tu non ci sia arrivata da sola? Pensavi davvero che l’avresti
fatta franca a lungo?–. Si sedette anche lei mentre Anna
ricambiava il suo sguardo con improvviso e crescente orrore.
–C-cosa?– balbettò.
–Del resto non me ne stupisco: il doppio gioco è
sempre stata la tua specialità. È stata la tua
abilità a guadagnarti la fiducia delle persone che ci ha
permesso di arrestare molti oppositori del regime, in passato. Ma
pensavi davvero di ingannare il Tekken Force con le sue stesse
armi?–.
–Io non so di cosa tu stia parlando–
replicò Anna tentando di apparire sicura di sé,
ma le ore di interrogatorio avevano già esaurito i suoi
nervi; un tempo forse avrebbe resistito per giorni interi ma ormai non
era più quella di una volta.
–Ah no? Cominciamo dal principio, allora–. Nina si
rilassò appoggiando la schiena contro la sedia mentre
continuava a gettare il suo sguardo gelido sulla persona che le stava
di fronte. La odiava, l’aveva sempre odiata. Ora si sarebbe
presa tutto il tempo necessario per assistere con compiacimento alla
capitolazione di quella donna che, pur possedendo il suo stesso sangue,
aveva per lei lo stesso valore di una spina nel fianco.
–Due anni fa i Mishima ti hanno scelto per una missione
delicata: infiltrarsi nel White Crow, uno dei principali punti di
ritrovo della Zona Rossa nonché il principale luogo di
riunione degli oppositori del regime. Ci sei riuscita senza molti
problemi e per un anno hai continuato a informarci su ogni possibile
tentativo di rivolta. Poi però le cose sono cambiate. Hai
cominciato a fare rapporto sempre meno frequentemente, a darci
informazioni che si rivelavano sbagliate, a denunciare persone quando
ormai erano già scappate all’estero.
Perché, Anna?–.
–Non è colpa mia!– protestò
accoratamente. –Si sono accorti che qualunque cosa facessero
venivano scoperti e si sono fatti più prudenti. Nemmeno
Marshall mi ha mai detto tutto quello che sa. Io sono un membro del
Tekken Force, il Tekken Force è tutta la mia vita! Come
potete sospettare di me?–.
Nina studiò il suo volto contratto dall’ira, gli
occhi scintillanti di fervore che sembravano sfidarla a provare che
mentisse. Uno sguardo inesperto l’avrebbe giudicata sincera
ma Nina sapeva bene che Anna conosceva i trucchi del mestiere almeno
quanto lei. Un membro del Tekken Force era allenato sia a mentire senza
farsi scoprire che a riconoscere la bugia sui volto altrui. Sul volto
di Anna non lesse offesa per essere sospettata, ma solo paura, una
paura senza fine.
–Se c’è una cosa che ho imparato in
questi anni è che non ci si può fidare di
nessuno. Le parole non valgono, valgono solo i fatti. E tu in quanto a
fatti ti sei dimostrata molto scarsa, ultimamente. –.
–E questo basta a fare di me una traditrice?–
chiese Anna, sprezzante.
–No, questo fa di te una persona inutile. Il che è
anche peggio di essere una traditrice. Un agente del Tekken Force
è un’arma e le armi inutili vengono
buttate–.
–Che sciocchezze, Nina. Io non sono mai stata inutile. Tu
dovresti saperlo bene, no? – disse Anna, sforzandosi di
ridacchiare. Era sempre stata brava a fingere di essere qualcun altro.
Ora poteva anche fingere di non essere terrorizzata –Sono
stata sempre io la preferita di nostro padre e se tu non avessi fatto
la puttana in mia assenza sarei ancora la preferita di Lee–.
Il successivo movimento di Nina fu così fulmineo che nemmeno
Anna se ne accorse finché non si ritrovò la gola
premuta fra le dita della sorella.
Guardò con orrore l’espressione fredda e decisa di
Nina. Conosceva bene quella presa, sapeva che con il giusto movimento e
la giusta pressione avrebbe potuto ucciderla in pochi istanti. Ma dopo
qualche istante l’Agente W abbandonò la presa
lasciandola a emettere dei brevi rantoli soffocati.
–Ti ho sempre ritenuta una sciocca, Anna, ma mai fino a
questo punto. Io non getterei mai la mia vita, la mia
libertà, la mia carriera per un uomo. Tu invece
l’hai fatto– disse Nina, ora in piedi davanti al
tavolo, osservando sua sorella in difficoltà senza alcuna
simpatia. Tutto ciò che provava era disgusto. –Hai
gettato tutto ciò che eri per l’amicizia o
addirittura… l’amore… di quel Law, non
è così? Non sei mai stata altro che una debole e
quindi ti sei lasciata sedurre da degli stupidi sentimenti. E tutto
ciò è patetico. Patetico–.
–No… non è vero…–
ansimò Anna, con una mano contro la gola, mentre gli occhi
le si riempivano di lacrime. E invece era davvero così.
Prima ancora che fosse nata il suo destino e quello della sua sorella
era già stato deciso. Era stata cresciuta come un arma,
priva di cuore, priva di emozioni, sensibile solo agli ordini che le
venivano impartiti dai Mishima. Aveva imparato ad uccidere senza
provare niente, a mentire senza provare senso di colpa, a sedurre senza
innamorarsi, ad agire ad occhi chiusi senza chiedersi mai il
perché. Poi aveva cominciato la sua missione sotto copertura
nella Zona Rossa; e lì aveva capito. Aveva capito che tutta
la sua vita era basata sul puro niente e aveva provato orrore di se
stessa, di tutto ciò che era stata fino ad ora. Aveva visto
il dolore e le speranze nelle altre persone comprendendo quanto di
umano mancava in lei. Era cambiata in una maniera che Nina non poteva
nemmeno sperare di comprendere e aveva tradito il Tekken Force e la
Mishima Zaibatsu, firmando la sua condanna.
–Ti consiglio di dirci spontaneamente tutto quello che ci hai
nascosto sul White Crow e i terroristi– continuò
Nina. –Altrimenti ci toccherà usare i nostri
metodi; e tu sai bene quanto spiacevoli possano essere.
Dopodichè sarai uccisa e il tuo corpo verrà usato
come cavia ai Laboratori Mishima–. Almeno da morta si sarebbe
rivelata utile, pensò. –Se invece decidi di
confessare potrei anche chiedere a Lee di farti risparmiare, in memoria
dei vecchi tempi–.
Detto questo Nina le voltò le spalle e fece per andarsene.
–Oh, dimenticavo– disse mentre apriva la porta e
lanciava un’ultima occhiata carica d’odio alla
sorella. –Ovviamente farò in modo che tutti i
tuoi… amichetti del White Crow sappiano chi sei
veramente–.
La porta si chiuse con un clangore metallico e al sentire quel suono
sinistro Anna Williams capì che la sua vita era finita.
Inside
four walls, inside four walls my friend
They took away your freedom
But they'll never take your mind
[Nevermore – Inside four Walls]
N.d.q.F.d.A (Note di
quella fedifraga dell'autrice)
Non.... non odiatemi, vi prego! D:
So che è passato un anno dall'ultimo aggiornamento, so anche
che i lettori che mi hanno seguito da quando ho cominciato questa
storia (sempre che siano ancora miei lettori xD) probabilmente avranno
rimosso cosa è successo negli ingarbugliatissimi capitoli
precedenti ma... non odiatemi!
*si prostra al suolo*
Comunque, forse vi interesserà sapere che se siete arrivati
fin qua avete già letto più di 80 pagine word!
Pian piano questa storia sta diventando sempre più
voluminosa, quindi spero che non me la tirerete dietro o rischierei un
serio trauma cranico.
Al prossimo capitolo!
*scappa*
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