Videogiochi > Tekken
Segui la storia  |       
Autore: morrigan89    29/05/2011    1 recensioni
Anno 2191. Il pianeta Terra è stato devastato da una Guerra Nucleare. La città di Nuova Edo è sotto dittatura della potente Mishima Zaibatsu, la violenza è all’ordine del giorno, la libertà è un sogno destinato a pochi. Tra i resti di un mondo morente si intrecciano le vicende di alcuni personaggi, alcuni guidati dall’avidità, altri dall’odio, alcuni dai propri desideri innocenti, altri dai propri ideali.
-Perché non tutti i cuori sono morti-.
Genere: Azione, Drammatico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hwoarang, Jin Kazama, Kunimitsu, Ling Xiaoyu, Sorpresa
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
6.    Addiction



Injustice made it's mark
All the political whores only come out after dark
If anyone knows the way
Build me a bridge so I won't fall astray

Inside four walls, inside four walls my friend
They took away your freedom
And the pigs still preach their lies

[Nevermore – Inside four walls]




7 Marzo 2191



Le porte scorrevoli dell’ufficio di Lee Chaolan, situato al penultimo piano del grattacielo della Mishima Zaibatsu, si aprirono senza alcun suono lasciando entrare una donna vestita di nero, dallo sgauardo serio e l’aria marziale.
–Stavo proprio pensando a te, Nina– disse Lee con un lieve sorriso mentre alzava lo sguardo dal computer su cui stava lavorando. –Vedo che almeno qui hai la compiacenza di entrare dalla porta–.
–Ovviamente, Lee. Siamo al centesimo piano–. Nina si sedette davanti alla scrivania senza mutare espressione, indifferente al tentativo di battuta di spirito dell’altro. –E io non faccio mai niente di inutile e innecessario–.
–Per questo sei l’Agente numero uno del Tekken Force– osservò Lee appoggiando la schiena al morbido schienale della poltrona. –Allora, ci sono novità? Come se la cava il nostro detective?–.
Nina fece una smorfia e incrociò le braccia. –Fin’ora ha fatto solo buchi nell’acqua. Si è perfino lasciato scappare il proprietario del White Crow. Se solo tu mi avessi dato il permesso di agire a quest’ora io…–.
–No– la interruppe Lee –Lasciamo che vadano avanti le pedine sacrificabili. Vedi, è come il gioco degli scacchi: posso permettermi di perdere un fante, ma non la mia preziosa Regina…–. Sorrise amabilmente, guardandola dritta negli occhi.
Nina parve non lasciarsi toccare nemmeno da quello sguardo. Anzi, assottigliò gli occhi, come una vipera pronta a mordere. –Non l’hai già persa, la tua preziosa regina?–.
Il sorriso sul viso dell’uomo si spense di colpo nel sentire la sferzata nascosta in quelle parole apparentemente calme e innocue. –Non è lei, la mia Regina. Sei tu– disse, con un tono di voce e un’espressione assolutamente seri. Non era il solito Lee galante e dongiovanni in quel momento.
–Davvero romantico…– sbuffò lei.
–La guerra è alle porte, Nina.– continuò l’uomo dai capelli argentei, continuando a guardarla negli occhi. Voleva essere certo che l’altra capisse pienamente il senso di quello che stava dicendo: parole che non avrebbe mai avuto il coraggio di pronunciare apertamente davanti a suo padre, motivo per cui si era personalmente accertato che la stanza fosse completamente isolata dall’esterno. –Mio padre è troppo assorto nei suoi sogni di immortalità per accorgersi pienamente della gravità della situazione. Ormai è chiaro che abbiamo dei nemici, nemici di cui sappiamo ben poco, e questo li rende ancora più pericolosi. E quando loro attaccheranno avrò bisogno di averti al mio fianco. Non a fianco della Mishima, non a fianco di mio padre. Al mio–.
–Ci sarò– tagliò corto lei –Come sempre. È solo per questo che mi hai chiamata?–.
–No– disse Lee –Voglio che tu vada a trovare l’ex-Regina–.  
Ora era il suo volto ad esibire una smorfia, una smorfia lieve, quasi impercettibile, ma in cui Nina riconobbe un amaro sarcasmo.
–Offrile una speranza prima che salga sul patibolo–.


*


Palpitazioni, stress, tic nervosi, capogiri, tremori, iperventilazione. Tutti chiari sintomi della Sindrome di Panico da Pre-appuntamento.
Ling Xiaoyu sedeva insieme a un mucchio di vestiti sul copriletto rosa confetto nella sua camera, intenta a mangiucchiarsi nervosamente le unghie, il che probabilmente le avrebbe causato un’ennesima ondata di panico una volta che si fosse resa conto che poi avrebbe avuto bisogno anche di una manicure; ma non riusciva a farne a meno, non a due ore dall'appuntamento col ragazzo che conosceva come Takeshi Kawamura. Ovviamente sapeva che non era un vero appuntamento, ma questo rendeva la cosa ancora più preoccupante. Cosa sarebbe successo? Non ne aveva idea.
Allungò la mano e afferrò il suo unico strumento di salvezza: il telefono.
–Pronto, Miharu?–.
–Ling!– rispose una voce eccitata almeno quanto lei –Stavo cominciando a preoccuparmi! Pensavo che mi avresti chiamata molto prima!–.
–Miharu, sono in preda al panico!– esclamò Xiaoyu continuando a divorarsi le unghie –Non so cosa fare! Non so come mi dovrò comportare! Non so nemmeno come vestirmi!–.
–Non hai ancora scelto?– chiese l'altra, stupita. –Ma cosa hai fatto fino ad ora?–.
–Oh beh– ridacchiò nervosamente. –Ho messo a soqquadro tutto il guardaroba cercando qualcosa di adatto ma non ho la più pallida idea di come vestirmi–. Tra sé e sé aggiunse –E fosse solo questo il problema…–.
–Perché non metti uno di quei tuoi vestiti tradizionali? Quello rosso lungo fino alle ginocchia–.
Xiaoyu si batté una mano sulla fronte. –Ma certo! Ma certo! Perché non ci ho pensato subito? È perfetto!– esclamò. E dir che aveva pensato a tutto tranne che a quello! A volte la sua amica riusciva a tirarla fuori dai guai con una semplicità sconcertante.
–Bene. E per il resto?–.
–Per il resto sono pronta. Devo solo darmi qualche ritocco– disse osservandosi le unghie martoriate. Sospirò. Avrebbe voluto parlare alla sua amica delle sue vere preoccupazioni, ma sapeva di non poterlo fare. La sua paura non era solo quella di uscire con la persona che sognava da anni. Avrebbe dato qualsiasi cosa perché le sue paure fossero davvero quelle di una ragazza qualsiasi nervosa per il suo primo appuntamento con un ragazzo qualsiasi, ma non era così.
–Tutto bene?– chiese Miharu, preoccupata dal suo silenzio –Sei nervosa?–.
–Da morire. Così nervosa che mentre ti parlo sto rimbalzando sul letto–. Suo malgrado rise perché in effetti era vero: non riusciva a stare ferma.
–Andrà tutto bene! Del resto è evidente che gli piaci, sennò non ti avrebbe mai chiesto di uscire con te, no?–. Benché Miharu cercasse di confortarla, quelle parole fecero l'effetto contrario; le ricordarono che Takeshi non era davvero interessato a lei, ma solo al suo silenzio, probabilmente. Questo pensiero la fece intristire immediatamente.
–Già, hai ragione…– mormorò, ben poco convinta.  


*


Seduto alla scrivania con la testa fra le mani, Lei Wulong si dedicava a pieno regime all'attività principale di ogni detective: pensare. E benché sapesse ancora poco su quale fosse la realtà, di cose a cui pensare ne aveva parecchie. Da una parte aveva tre persone scomparse nel nulla: Kunimitsu, il ragazzo dai capelli arancioni, latitante da anni, e adesso persino Marshall Law, sparito subito dopo aver mentito all'interrogatorio. Da un lato aveva il problema dei laboratori: una soffiata anonima indirizzava le sue indagini sulla Biotech, senza che nessuno si fosse preso la briga di denunciare qualcosa, e, come se non bastasse, non era ancora riuscito a parlare col dottor Boskonovitch, che dava l'aria di essere la persona più indaffarata della terra. Probabilmente sarebbe stato costretto a richiedere che si presentasse al distretto di polizia per poterlo interrogare e chiarire qualche mistero.
Per esempio: che collegamento c'era fra la Biotech e i terroristi? Non ne aveva idea. L'unica che avrebbe potuto fare luce sul rapporto tra gli antagonisti della Mishima e il dottor Boskonovitch era la Mishima stessa. Ma se i suoi laboratori si rifiutavano addirittura di aprirgli le porte, come avrebbe potuto scoprire qualcosa? Era strano, era incredibilmente strano. In molti anni di onorata carriera non gli era mai capitato di avere le mani così legate e di possedere così pochi mezzi. Era come giocare a moscacieca. Era come se qualcuno si stesse divertendo a vederlo brancolare nel buio.
Prese in mano il telefono. –Avete notizie di Marshall Law?–.
–Gli agenti lo stanno cercando. Hanno portato la sua collega in centrale per interrogarla ma continua a ripetere di non sapere dove sia andato. Io stesso sto presiedendo all'interrogatorio– rispose l'ispettore Hinagawa. –Altri ordini?–.
–Per il momento no. Continuate a tenerla sotto torchio e non disturbatemi per ora. Io continuerò a sondare l'archivio dal mio ufficio– disse Lei, poi attaccò la cornetta e si alzò. Sembrava che non ci fosse nient'altro da fare a parte aspettare. Ma il detective Wulong non era mai stato il tipo da starsene a costruire castelli mentali dietro una scrivania: doveva andare a vedere di persona, toccare con mano, e ora che il mistero si era infittito per via della telefonata anonima, voleva farlo da solo.


*


Quando riprese i sensi la prima cosa che Kunimitsu vide fu lo sguardo indemoniato della maschera di Hannya, galleggiante nelle tenebre. Le parve un cattivo presagio. Si agitò nel letto cercando di scacciare la fastidiosa immagine che la osservava attraverso il velo opaco del suo stato di semicoscienza. Ma non c'era niente da fare, Hannya continuava a guardarla con un'aria che alla kunoichi pareva di disapprovazione.
“Perché mi guardi così, demone?”.
Poi, improvvisamente, ricordò: aveva avuto una crisi. Per quanto tempo? Non ne aveva idea. Non se l'era aspettato, non avrebbe mai immaginato che l'assenza di quelle pillole avrebbe potuto provocargli una cosa del genere.
Hannya, o meglio, Yoshimitsu scosse lentamente la testa quando si rese conto che Kunimitsu si era ripresa.
–Perché non me l'hai detto subito?–. Il suo tono era calmo e gentile, ma a lei parve vibrare di rimprovero e delusione.
–Mi dispiace…– mormorò debolmente Kunimitsu con la voce impastata. Le dispiaceva davvero essersi ridotta così. Incapace di lottare, inutile per il clan, inutile per il suo mondo, tutto per colpa della sua debolezza. Sotto lo sguardo inespressivo della maschera si sentiva sprofondare.
–Mentre eri priva di sensi ci siamo presi la libertà di farti un'analisi del sangue– disse Yoshimitsu, con voce piatta, come se fosse un medico intento a dare una cattiva notizia a un paziente. La differenza qui era che Kunimitsu sapeva bene cosa avevano scoperto.  –Abbiamo trovato tracce di quella droga in capsule che chiamano H-Sinth. Ma questo ovviamente tu lo sapevi già. Sai, la gente dice che H stia per Heaven, anche se io la vedrei meglio come Hell–.
Kunimitsu restò in silenzio e se non fosse per il modo in cui stringeva i pugni si sarebbe potuto credere che fosse di nuovo addormentata.
–Suppongo che tu conosca già gli effetti di questa sostanza, ma quasi nessuno conosce tutti gli effetti collaterali. È bene che tu ascolti il Dottore– disse alzando lo sguardo.
La kunoichi trasalì accorgendosi solo in quel momento che c'era un'altra persona dall'altra parte del letto, un anziano che la guardava bonariamente. Lo scrutò attentamente e benché avesse la vista annebbiata lo riconobbe quasi subito. Era il famoso Dottor Boskonovitch che aveva visto spesso sui giornali, un pezzo di storia di Nuova Edo, uno degli scienziati che aveva reso possibile l'uscita dai bunker e la ricolonizzazione del mondo. Uno degli uomini più importanti di quel nuovo mondo.
–Lei…?– mormorò, stupita.
Il Dottore la guardò negli occhi senza mostrare alcuna reazione al suo stupore. –L'H-Sinth è in grado di creare visioni attraverso la stimolazione cerebrale– spiegò. –Finché l'effetto dura l'individuo crede che le visioni facciano parte di una realtà senza tempo, vera e felice. Come un Paradiso Sintetico, appunto. Ma ha un effetto collaterale gravissimo: è in grado di debilitare l'organismo a tal punto da non permettergli di funzionare correttamente una volta che essa venga sottratta. Per dirlo in parole povere è come se distruggesse sostanza nutritive necessarie e ne prendesse il loro posto. Così sì è obbligati a non smettere di prenderla. E non è nemmeno possibile disintossicarsi da soli, perché è pericoloso. È necessaria la presenza di un medico che somministri dei farmaci in grado di contrastarne gli effetti e reintegrare le sostanze che l’H-Sinth disgrega–.
Kunimitsu sapeva benissimo che un paradiso sintetico si paga a caro prezzo, eppure non immaginava che una sostanza così diffusa tra i vicoli e i locali della Zona Rossa nascondesse un veleno così potente. Nessuno le aveva mai detto che cosa fosse davvero in grado di fare. Ecco cos’era in verità l’H-sinth: non uno spiraglio di libertà ma uno strumento di controllo, un guinzaglio, una forma di schiavitù nascosta dietro il paradiso artificiale dell’evasione della realtà. Nient’altro che l’ennesimo lavaggio del cervello a cui lei aveva cercato di sottrarsi per tutta la vita. E invece ci era caduta in pieno.
La brutalità della verità in quelle parole gentili era insopportabile. Non disse niente, temendo che un tremito nella voce rivelasse agli altri due il suo turbamento.
–Che cosa vuoi fare adesso?– chiese Yoshimitsu.
–Perché, ho qualche scelta? Così sono inutile per il clan– rispose lei con amarezza. Probabilmente l'avrebbero tenuta rinchiusa lì dentro fino alla conclusione della loro missione, per giorni, mesi o forse anni, a consumarsi nella commiserazione o nell'astitenza finché non si fosse disintossicata. Probabilmente non si meritava nient’altro. Si chiese quanto del suo pessimismo fosse naturale e quanto fosse causato dalla privazione della droga.
A quel punto Yoshimitsu fece qualcosa che la stupì. Si sedette sul letto e le afferrò il polso con la stretta della fredda mano robotica. –Certo che cel'hai, non essere idiota– disse bruscamente. –Tutti hanno una scelta, Kunimitsu–. Sempre tenendola per il polso guardò Boskonovitch. –Non è vero, Dottore?–.
Kunimitsu, che in altre occasioni avrebbe spaccato la testa a chiunque si fosse permesso di darle dell'idiota, si tirò a sedere sul letto senza dire niente, sentendo rinascere una debole speranza.
Il Dottore annuì. –Puoi ancora entrare nel clan, se lo desideri. Devi solo disintossicarti. Qui abbiamo alcuni medici validi che ti possono aiutare e assistere secondo i procedimenti tradizionali–.
–Ma ci vorranno settimane, forse mesi perché io guarisca!– protestò lei –E nel frattempo cosa dovrei fare?–.
I due uomini si scambiarono un'occhiata. –Ecco…– cominciò Boskonovitch, esitante.
–Glielo dica, dottore. È giusto che sappia che c’è un’altra possibilità–.
–Ecco… sì, esiste un altro metodo più veloce, ma è ancora in fase di sperimentazione. Si tratta di iniettare nel sangue un composto in grado di eliminare le tossine dal tuo corpo in un paio di giorni. Ma devi sapere che è estremamente doloroso e anche pericoloso per chi non si trova in condizioni fisiche ottimali. Non te lo consiglio–.
Kunimitsu capì dall'espressione grave del dottore che non le stava mentendo.
–Quanto doloroso?– chiese, trepidante.
–Ben al di là dei normali limiti di sopportazione– rispose il dottore. Serrò le labbra. Era ovvio che avrebbe preferito non ricorrere a quel mezzo e forse sperava che Kunimitsu non accettasse di farlo.
La ragazza si voltò verso Yoshimitsu. Non aveva detto una parola ma continuava a stringerle il polso, forse non rendendosene conto a causa dell'insensibilità dell'arto. Avrebbe pagato qualcosa per sapere con che espressione la stava guardando in quel momento. Apprensione, curiosità, incoraggiamento? Ma non lo sapeva. Avrebbe dovuto decidere da sola, come aveva sempre fatto.
Si girò verso il dottore. Sospirò. –Non importa. Lo farò–.
 

*


La dottoressa Chang, seduta alla sua scrivania, faceva scattare il tappo di una penna in attesa che arrivasse l'ora di chiusura dei laboratori e i ricercatori uscissero. Non era insolito per lei restare fino a tardi, ma stavolta aveva altri motivi che non riguardavano i suoi studi sulla riforestazione. Non sapeva bene cosa avrebbe dovuto fare, ma sapeva che tanto se fosse andata a casa quella sera non avrebbe dormito comunque: era troppo agitata.
La visita del poliziotto sembrava aver confermato tutte le sue paure: c'era davvero qualcosa che non andava. Possibile che lei fosse la sola in tutta la Biotech ad essersene accorta? "Prima la strana visita notturna del dottor Abel, poi il dottor Boskonovitch che si comporta come se fosse una cosa normale, poi l'arrivo di un poliziotto che chiede di parlare proprio con me. E come se non bastasse ora il dottore è irrintracciabile sul cellulare, sparito subito dopo essersi occupato del suo esperimento!". Julia non era mai stata una dal temperamento nervoso, ma quella situazione le faceva saltare i nervi.
"Ricapitoliamo" pensò. "Il dottor Abel crede che sia stato sottratto qualcosa dai laboratori Mishima e il dottor Boskonovitch dice di non saperne nulla. Chi dei due mente? Se vogliamo dare ascolto al detective e qui sta succedendo davvero qualcosa di strano, allora dovrebbe essere Boskonovitch a mentire. Possibile che mi stia nascondendo qualcosa? A me, che sono la sua assistente da anni?". Julia lasciò andare la penna e si massaggiò le tempie. Non riusciva credere che il dottore fosse dietro a qualcosa di losco, lo conosceva come una persona irreprensibile, una sorta di benefattore dell'umanità. Eppure, andando a ripescare nei suoi ricordi recenti, c'era davvero qualcosa di strano. "Non solo sparisce in continuazione, il che è comunque scusabile dato che forse, a differenza di me, dovrà pur avere una vita privata, ma riceve un sacco di messaggi cartacei anonimi. Possibile che mi stia nascondendo qualcosa? A me, che sono la sua assistente da anni, che ho le chiavi di tutte le stanze dei laboratori?". Julia sussultò a quel pensiero. Non era vero che aveva tutte le chiavi perché c'era un posto a cui nemmeno lei poteva accedere: uno degli scomparti del magazzino.
Uscì dal suo laboratorio e si guardò attorno, per paura che ci fosse qualcun altro che tirava tardi come lei, ma ormai in giro non c'era anima viva. Anche se non aveva le chiavi voleva comunque andare a dare un'occhiata di ricognizione con la speranza di scoprire qualcosa, perciò prese l'ascensore e scese fino ai sotterranei.
Quando varcò la soglia del buio e immenso magazzino il cuore prese a batterle più forte. Passò in fretta in mezzo ai lunghi scaffali polverosi, pieni di ogni sorta di strumenti e materiali di varia natura in attesa di essere utilizzati. Ciò che le interessava erano le porte che si aprivano in fondo allo stanzone e che contenevano gli oggetti più preziosi. Julia ne superò nove su cui campeggiavano scritte come "Innesti Biomeccanici" e "Microcircuiti elettronici". L'ultima non aveva scritte ed era proprio quella di cui nessuno, eccetto il dottore, aveva la chiave.
Julia restò a guardarla, sospirando. Se davvero era stato sottratto qualcosa ai laboratori Mishima quello era il posto più probabile in cui nasconderlo. Sapeva che se voleva davvero entrarci doveva prima rubare la chiave al dottore e aveva già qualche idea su come fare. Ma ne avrebbe avuto il coraggio?


*


Quando il sole tramontava certi quartieri della Zona Rossa calavano nel buio più totale. Nessun lampione illuminava le vie e le uniche luci accese erano quelle delle stanze popolate negli Edifici Abitativi, quelle enormi moli di cemento che si innalzavano contro il cielo come una gigantesca e sgraziata arca di Noè senza speranza.
Eppure era proprio dopo il tramonto che le strade si riempivano di più. Ogni genere di persona abbandonava i propri rifugi per occuparsi di ogni sorta di affari più o meno leciti, piccoli capanneli si formavano a ogni angolo per scambiarsi notizie. Fra tutto questo via vai e il sussurrare concitato sembrava che solo una persona se ne stesse in disparte, passeggiando senza meta per le strade, in preda ai pensieri.
–Cazzo– sibilò Hwoarang dando un calcio a una lattina sfuggita da una busta della spazzatura. Nonostante i lividi e le ferite ricevute al suo ultimo incontro con gli scagnozzi di Feng Wei, da allora non si era fermato mai un momento. Aveva racimolato tutti i suoi risparmi, era persino andato a reclamare i suoi soldi da quelle poche persone che erano in debito verso di lui, ma quello che aveva raccolto non era nemmeno la metà della somma che doveva al capomafia.
"Sono con le spalle al muro" pensò. "Che cosa dovrei fare? Scappare? Macché. È impossibile uscire da Nuova Edo a meno che non si abbia abbastanza soldi per pagare alla fottuta frontiera. Mi costerebbe meno saldare il debito con Feng Wei! E da quando le altre città ci hanno messo l'embargo non c'è nemmeno una maledettissima areonave commerciale per imbarcarmi come clandestino. Sono rovinato, rovinato… Non saprei nemmeno a chi chiedere un prestito. A Marshall? No, non posso farlo. Non dopo che gli ho dato del vigliacco, maledizione. Forsei potrei rapinare una banca… Ehi, ma dove diavolo sto andando?".
Si fermò, cercando di capire dove fosse andato a finire a furia di girovagare nel buio. Un sorriso beffardo gli si dipinse sulle labbra livide quando se ne rese conto. Nonostante tutto era finito a un tiro di schioppo dal White Crow, come se i suoi passi infingardi l'avessero portato proprio dove per orgoglio aveva deciso di non andare.
"Sembra che nonostante tutti i miei propositi di uscire da solo da questa situazione del cazzo io mi ritrovi sempre a sperare nell'aiuto degli altri. Beh, già che ci sono posso andare a dare un'occhiata al pub. Se Marshall ha davvero messo al sicuro Kunimitsu forse potrebbe mettere al sicuro anche me. O almeno potrei chiedergli scusa…".
L'insegna al neon, raffigurante un corvo bianco dalle ali spiegate, era già vicina quando qualcuno esclamò –Ehi, tu!– e gli afferrò con forza la spalla dolorante.
–Ahia, e che cazzo!– esclamò Hwoarang voltandosi verso l'uomo che lo aveva fermato così bruscamente. Si ritrovò di fronte a un cinese che portava i lunghi capelli neri legati in una coda. Un altro scagnozzo di Feng Wei venuto a reclamare soldi? Ora sì che stava per perdere la pazienza.
–Basta! Ne ho abbastanza di voi e dei vostri cazzo di soldi! – ringhiò Hwoarang, cercando di divincolarsi dalla presa –Il tuo capo mi ha detto che ho una settimana di tempo, quindi perché non mi lasciate in pace? Che è, si è rimangiato la parola?–.
L'altro uomo sgranò gli occhi, senza capire. –Che cosa?–.
Hwoarang impallidì a vista d'occhio. A causa del buio non era riuscito a scrutare bene il suo assalitore, ma ora che lo guardava meglio si rese conto che quell'uomo non aveva per niente l'aria opulenta del mafioso. Piuttosto aveva l'aria di…
–Oh, merda! Uno sbirro!– esclamò il ragazzo liberandosi dalla presa grazie all'attimo di smarrimento dell'altro uomo. Fece uno scatto e corse via più forte che poteva verso i vicoli da cui era uscito. Non era ridotto bene ma liberarsi degli inseguitori era sempre stata una delle sue specialità più ammirate da tutti gli sbandati del suo Blocco.
–Fermo!– intimò il poliziotto mentre lo inseguiva. –Detective Wulong, Polizia!–.
–Col cazzo!– gridò Hwoarang mentre sfrecciava in un vicolo, forse, si trovò a pensare, lo stesso in cui era passata Kunimitsu per seminare i cyberpoliziotti. Dei bidoni gli sbarravano la strada; ci saltò sopra e con un potente calcio li spedì a rotolare alle sue spalle.
Con la coda dell'occhio vide il detective intento a schivarli goffamente. Esultò mentalmente: nonostante le sue ferite era ancora in grado di dare del filo da torcere a uno schifoso piedipiatti.
–Fermati! È un ordine!– gridò ancora il poliziotto unendo il suono della sua voce a quello dei loro passi veloci. Un momento dopo Hwoarang sentì degli spari riecheggiare fra i muri di cemento.
–Fanculo, questo mi ammazza!– ansimò il ragazzo coprendosi le mani con la testa, per reazione istintiva. Si voltò un solo istante per vedere se il poliziotto mirava a lui o al cielo, ma ciò gli fu fatale. Inciampò in un groviglio di cavi di scarto e cadde lungo disteso al suolo.
Il poliziotto fu subito su di lui. –Hai finito di scappare, terrorista!– esclamò Lei Wulong con il fiato spezzato dalla corsa mentre gli bloccava le mani dietro la schiena. –Ti ho riconosciuto subito anche con quella faccia piena di lividi!–.
–Terrorista!?– esclamò Hwoarang, sbigottito, mentre cercava di liberarsi dalla presa con tutte le sue forze, ma in breve sentì la temuta stretta delle manette che si chiudevano attorno ai suoi polsi. –Ma che dici, sbirro, sei suonato?–.
–In piedi!– grugnì il detective afferrando Hwoarang e tirandolo su in malo modo.
–Amico, devi avermi preso per un altro!– replicò il ragazzo barcollando per la spinta. –Io non so niente di terroristi!–.
–Ah no?– replicò il detective con uno sbuffo divertito. –E allora perché sei scappato?–.
Hwoarang si assestò in piedi e rivolse al poliziotto uno sguardo di sfida. –Perché, ho anche bisogno di un motivo per scappare da uno di voi cani rabbiosi? Credi che non sappia cosa fate a quelli come me?–.
–Bada a come parli, ragazzo– lo ammonì Lei afferrandolo per un braccio e dandogli una scrollata. –Su, in marcia!–.
Il detective si avviò tra i cumuli di rifiuti trascinando con sé uno Hwoarang estremamente recalcitrante.
–Li pestate a sangue, più di quanto quegli altri bastardi non abbiano già fatto con me– continuò con uno sguardo carico d'odio. Ma il poliziotto continuava a camminare senza degnarlo di un'occhiata.
–Se non parlano, passate a maniere ancora più dure e meno lecite. Finchè il poveraccio non è costretto ad ammettere anche colpe che non ha commesso e a fare i nomi di altra gente. Anche gente innocente, tanto per voi è uguale. No?–.
–Sciocchezze– rispose Wulong guardando dritto davanti a sé.
–Per voi basta che uno abiti nella Zona Rossa ed è già un pericolo pubblico. Quanti di noi avete già portato nell'Isola, eh? Per voi siamo carne da macello!–.
–Ora basta!– esclamò l'altro, punto sul vivo. Si fermò e lo afferrò per il bavero, guardandolo dritto negli occhi. Non amava le maniere forti, ma quel tizio sembrava costringerlo a usarle; non poteva lasciare che continuasse a infangare il nome della Cyberpolizia con delle false accuse. –Chi ti ha raccontato queste bugie? La polizia non fa cose del genere!–.
Hwoarang avrebbe alzato un sopracciglio per manifestare la sua incredulità, se la sua faccia non fosse stata così dolorante. –Sbirro, o sei un grandissimo paraculo o sei la persona più ingenua della terra–.
Stava per aggiungere altro quando un movimento a poca distanza attirò la sua attenzione. Un folto gruppo di uomini dall'aspetto poco rassicurante aveva fatto il loro ingresso a pochi passi da loro. Hwoarang non li conosceva, ma a giudicare dagli ideogrammi e dagli stemmi che avevano cuciti sui vestiti di pelle, si trattava di una banda di motociclisti. Sgranò gli occhi, incredulo per la sua fortuna.
–Ehi, ragazzi! Guardate qui, uno sbirro!– urlò con quanto fiato aveva in gola.
Gli uomini girarono alla testa all'unisono e in breve sulla faccia di molti di loro apparve un ghigno divertito.
–Guarda guarda…– disse un uomo non più tanto giovane che aveva l'aria di essere il capo. Portava una maschera antismog sulla parte inferiore del volto e teneva i capelli ingrigiti legati in una coda. Aveva uno sguardo severo e penetrante e, a giudicare dal taglio degli occhi, doveva essere anche lui di origine koreana. –Uno sbirro di  merda ha catturato un ragazzo e a quanto vedo lo ha anche riempito di botte. E nella nostra zona, per di più! Vi sembrano cose da farsi, ragazzi?–.
Gli altri teppisti, sghignazzando, fecero segno di no e cominciarono avvicinarsi lentamente ai due. Alcuni tirarono fuori dei coltelli, altri dei nunchaku, altri delle mazze da baseball.
Questa volta fu il detective a impallidire. –No, vi sbagliate! Non l'ho picchiato io!–.
–ADDOSSO!– gridò il capobanda alzando un braccio contro il cielo. In men che non si dica tutta la schiera di teppisti fu addosso al malcapitato poliziotto, gridando e roteando le loro armi come dei guerrieri all'attacco in un campo di battaglia.
Lei Wulong, vedendosi in netta minoranza, fu costretto a scappare a darsi immediatamente alla fuga. Cercò di trascinarsi dietro il suo prigioniero ma questi gli faceva una tale resistenza che dopo pochi passi fu costretto a mollare la presa.
E fu così che Hwoarang cadde rovinosamente al suolo per la seconda volta nel giro di qualche minuto.
–Cazzo, che botta…–.
Restò a guardare l'asfalto mentre le grida si allontanavano. Si sentiva stanco, incredibilmente stanco. Quasi quasi se ne sarebbe rimastò lì disteso ad arrendersi al sonno, ma qualcuno lo prese per un braccio e lo tirò su. Era il capo della banda.
–Grazie, amico. Mi avete salvato la vita– farfugliò.
–Di niente, ragazzo– disse l'uomo dandogli una vigorosa pacca sulla spalla dolorante. Hwoarang strinse i denti e strabuzzò gli occhi.
–La mia banda non lascia nessuno in mano a uno sporco sbirro, quanto è vero che mi chiamo Baek Doo San. Ora vieni con me, andiamo a raggiungere gli altri. E poi troveremo qualcuno in grado di aprire queste manette–.  
E così i due si avviarono nel buio della Zona Rossa seguendo le grida in lontananza.
 

*


Kunimitsu osservava con apprensione il dottor Boskonovitch mentre questi faceva su e giù per il laboratorio, manovrando fiale piene di liquidi dai colori strani e strumenti elettronici. Se ne stava semisdraiata su una comoda poltrona reclinabile, simile a quella di uno studio dentistico, situata al centro della sala, eppure non riusciva minimamente a rilassarsi. Di certo le cinghie di cuoio con cui era stata legata al lettino non erano d’aiuto.
–È solo per evitare che tu ti faccia male. Sai… nel caso che tu abbia degli spasmi– spiegò Yoshimitsu, in piedi accanto a lei.
–Se stai cercando di rassicurarmi non ci stai riuscendo per niente– osservò Kunimitsu con un certo sarcasmo.
–Se non vuoi farlo sei ancora in tempo per tornare indietro, sai?–.
–No, voglio farlo. Devo farlo–. Era la sua scelta, solo sua, e non sarebbe tornata indietro. In fondo le sembrava abbastanza equo passare qualche minuto o qualche ora di sofferenza pur di redimersi dagli anni di stupidità che aveva vissuto, sprecando la sua vita con l’H Sinth.
Il dottore si avvicinò. Aveva uno sguardo serio in volto e teneva una piccola siringa piena di liquido cristallino in mano. –Siamo pronti?–.
La kunoichi annuì. –Sì–.
–Ti spiego un’altra volta come funziona. Inietterò questo siero nel tuo braccio. Impiegherà circa dieci secondi per cominciare a fare effetto, dopodiché le tossine rilasciate dall’H-Sinth inizieranno ad abbandonare il sistema circolatorio e i tessuti. Questa prima fase sarà breve, ma estremamente dolorosa. Chi l’ha provato ha detto…–
–…che preferirebbe morire che essere sottoposto di nuovo a qualcosa del genere– continuò lei, ripetendo parole che il dottore le aveva già detto più volte, forse nella speranza di dissuaserla –Ma non si preoccupi, non ho intenzione di averne bisogno di nuovo–.
Le venne quasi da ridere. Sembrava così forte e sicura di sé mentre diceva queste cose, eppure la realtà era che stava morendo di paura e se non stava tremando era solo perché le cinghie erano troppo strette per permetterle di muoversi. Guardò Yoshimitsu, chiedendosi se fosse in grado di leggere la realtà, se riuscisse a vederla al di là della sua maschera, ma l’espressione di Hannya era sempre la solita, inamobivile, e lei non era in grado di sapere di più.
–Permettimi di sollevarti la maschera un istante– disse lui ad un certo punto –È meglio se tieni qualcosa tra i denti, così non rischierai di staccarti la lingua–.
Kunimitsu sbuffò, non molto contenta di sentirsi parlare di lingue staccate quando già stava facendo un’immensa fatica a mantenere il suo autocontrollo. –Certo che tu sai proprio come mettere una ragazza a proprio agio, eh? Avanti, muoviti–.
Yoshimitsu non disse una parola a sua discolpa: in effetti era meglio se la kunoichi se ne stava concentrata a considerarlo la persona più indelicata sulla faccia della Terra, piuttosto che pensare a quello che stava per fare. E sì, lui lo sapeva che stava morendo di paura. Era abbastanza sicuro che in condizioni normali Kunimitsu non avrebbe permesso a nessuno di sollevare la sua maschera e che piuttosto gli avrebbe affettato una mano, anche da legata com’era. Invece non disse niente mentre lui le scopriva la metà inferiore del viso e le metteva un rettangolino di gomma fra le labbra rosee. Lei lo strinse fra i denti, contenta di aver qualcosa a cui aggrapparsi fisicamente, qualcosa su cui concentrarsi.
–Iniziamo– disse il dottore con tono grave e senza indugiare oltre si avvicinò al fianco della ragazza. Il sottilissimo ago entrò nella pelle senza difficoltà e per alcuni momenti l’unica cosa che la kunoichi potè sentire fu quella lieve puntura e una curiosa sensazione di freddo che si spandeva lentamente nel suo braccio, mentre il fluido scorreva nelle sue vene. Le fece venire un brivido, ma in fondo non era così spiacevole.
Poi, man mano che i secondi passavano, iniziò a capire con assoluta precisione perché le persone che si erano disintossicate in quel modo avrebbero preferito la morte piuttosto che farlo di nuovo.
Era terribile.
Era come se stesse bruciando dentro, come se quel ghiaccio incandescente nelle sue vene stesse divorando la sua carne e scavando le sue ossa. In quel momento avrebbe dato qualsiasi cosa per tornare indietro, avrebbe voluto piangere, avrebbe voluto urlare, ma teneva i denti così stretti attorno a quel pezzo di gomma che non riuscì a emettere alcun suono. Avrebbe addirittura invocato la morte, se solo avesse potuto, ma non riusciva a parlare e le cinghie premevano così tanto sulla sua pelle da impedirle non solo di abbandonarsi agli spasmi che la scuotevano, ma anche di fare qualsiasi gesto volontario.
No, non poteva scappare a quel dolore micidiale, poteva solo resistere. Resistere e sperare che passasse presto.
Per sua fortuna, dopo quello che a lei parve un tempo infinito, ma che in realtà dovettero essere solo pochi minuti, i suoi sensi cominciarono ad affievolirsi: si appannò la luce al neon del laboratorio, si attutirono i suoni e infine si attutì anche la sua percezione del dolore, finché i sensi non l’abbandonarono del tutto e non sentì più nulla. Non sentì nemmeno la mano di Yoshimitsu posata sul suo braccio ancora scosso da fremiti.
–Sono fiero di te, Kunimitsu…–


*


Seduto su una cassa di lattine davanti a un falò Hwoarang guardava con riconoscenza i polsi arrossati ma ormai liberi da manette.
Attorno a lui era tutto un rombare di motociclette e uno schiamazzare di gente riunita attorno a dei bidoni in cui danzavano le fiamme, rimedio antico contro il buio e il freddo in un angolo della città in cui anche la tecnologia basilare sembrava non essere ancora arrivata. I membri della banda avevano messo in fuga il poliziotto e ora si erano ritirati in uno dei loro luoghi di ritrovo: un’ampia spianata nel bel mezzo di un cantiere edile abbandonato ormai da anni.
–Ehi!– tuonò una voce gioviale alle sue spalle. Hwoarang si girò appena in tempo per vedere il capo della gang sedersi accanto a lui e porgergli una lattina di birra. –Tieni, non fare complimenti. Per stasera sei nostro ospite–.
Il ragazzo prese la lattina mormorando un ringraziamento e rimase a guardare le fiamme che danzavano di fronte ai suoi occhi, senza dire una parola. Ora che finalmente era fuori pericolo la stanchezza accumulata negli ultimi giorni gli era piombata tutta addosso assieme alla consapevolezza di quanto fosse dura la situazione in cui si trovava. Non solo la mafia, ma ora come se non bastasse anche la polizia gli stava alle calcagna e benché non ne sapesse il motivo aveva la netta sensazione che la scomparsa di Kunimitsu c’entrasse qualcosa: troppe coincidenze legate al White Crow. Ma se anche il pub era ormai troppo pericoloso per lui dove poteva rifugiarsi in una situazione del genere?
Si sorprese a pensare a quanto fino ad ora fosse dipeso dall’aiuto degli altri: Kunimitsu, Marshall, la gang di motociclisti. Forse, dopo tutto, la sua indole da ribelle e da fuorilegge non era altro che spacconaggine, una maschera per mostrarsi più forte di quanto in realtà fosse.
–Non per farmi i fatti tuoi…– disse Baek, interrompendo il corso dei suoi tetri pensieri –Ma com’è che quello sbirro ce l’aveva con te?–.
Hwoarang fece un’alzata di spalle. –Sembra che mi abbia scambiato per un terrorista–.
–Terrorista?–. Un guizzo passò negli occhi dell’uomo, ma il giovane non lo notò, assorto com’era a fissare il nulla nel fuoco. –Strano. Non sento mai nominare la parola “terrorismo” dalla polizia e, credimi, io con quella merda ci ho avuto a che fare più spesso di quanto possa piacermi, quindi so come funziona la loro testa. Ai piani alti non piace che girino voci su gente a cui non piace il governo. Vogliono che la gente creda di vivere in un fottuto mondo felice. Perciò se sei nemico dello stato gli sbirri preferiscono levarti di mezzo senza fiatare–.
Hwoarang annuì distrattamente, gli occhi persi nel fuoco, meritandosi così un doloroso scappellotto dietro al collo.
–Oh! Per che cos’era quello!?– gridò, confuso da quella mossa inaspettata.
–Non mi stai ascoltando, ragazzino! Hai capito cosa ti ho detto?–.
–Sì sì…– mugugnò Hwoarang, massaggiandosi dietro il collo. “Ma cosa vuole questo vecchio pazzo? –La polizia non parla mai di terrorismo, e quindi?–.  
–Avrai sentito parlare delle esplosioni nell’Inner Core, no? O sei uno di quegli sfattoni drogati che stanno tutto il giorno sdraiati sul marciapiede mentre questo mondo di merda gli vomita addosso?–.
Hwoarang lo guardò con perplessità. Quel Baek aveva un’aria gioviale e tranquilla all’inizio, pur essendo il leader di una banda di malviventi, ma improvvisamente si era animato di una severità e di una rabbia che non si sarebbe aspettato nemmeno da uno come lui. Diamine, faceva quasi paura.
–Sì che ne ho sentito parlare, per chi mi hai preso!? E ho capito cosa vuoi dire. Pensi che il fatto che la polizia sia in movimento voglia dire che le voci sono vere? Che finalmente c’è una Resistenza all’opera?–.
–Bene, sei sveglio dopo tutto. Per un momento ho pensato che tu fossi una di quelle nullità dal cervello bollito– disse Baek dandogli una pacca sulla spalla. –Come ti chiami, ragazzo?–.
–Mi chiamano Hwoarang–.
–“Hwoarang”?–. Baek parve sorpreso. –Il titolo onorifico che si dava ai giovani guerrieri sotto il regno di Chinhung nel VI secolo Dopo Cristo?–.
Ora era Hwoarang a essere sorpreso. Da quando gli stati non esistevano più, spazzati via dalla guerra, quasi ogni forma di cultura e tradizione locale, compresa la storia nazionale, era scomparsa sotto l’imperante globalizzazione. Il regime aveva cancellato la storia dei popoli per far posto al glorioso racconto di come Heihachi Mishima avesse riportato il benessere, perciò dopo tanti anni di governo totalitario era una rarità incontrare gente che avesse una memoria storica che arrivasse a un secolo prima dello scoppio del conflitto nucleare. Lui stesso non ne sapeva granché, a dire il vero: aveva solo incontraro il nome “Hwoarang” in un vecchio trattato d’arti marziali e lo aveva adottato come suo perché gli era parso figo. Punto.
–Sì, perché?–.
–Non è che per caso pratichi il Taekwondo?–. Avrebbe potuto giurare che in quel momento gli occhi da falco di Baek stavano brillando.
–Sì. O meglio, lo praticavo qualche anno fa…– rispose, sempre più perplesso. –Poi il mio maestro si è fatto arrestare–.
Trasalì letteralmente quando l’uomo balzò in piedi di colpo, animato da un’energia straordinario. –Ragazzo, è il tuo giorno fortunato! Io sono 5° Dan!–.
–…e quindi?–.
–E quindi hai trovato il tuo nuovo maestro!–.
Hwoarang scoppiò in una mezza risata. Sì, certo, come se con tutto quello che gli era crollato addosso avesse ancora tempo per dedicarsi alle arti marziali!. –Mi spiace vecchio, ma non mi interessa. Ho troppi casini per darmi allo sport–.
Un’altra manata gli piombò fra capo e collo, facendogli quasi strabuzzare gli occhi.
–OOH! La vogliamo finire!?– gridò.
–Punto uno– sibilò Baek, visibilmente alterato, puntandogli l’indice contro il petto –Il Tae Kwon Do non è uno sport: è uno stile di vita, è una filosofia, è ferrea disciplina… solo un debole abbandona! Tu sei un debole?–.
“Debole”. Quella parola affondò come un pugnale. –No che non lo sono!–.
–Punto due: lo so che sei nei casini. Cazzo, basta guardarti come sei ridotto in faccia. Per questo ti sto offrendo una soluzione– disse, continuando ad affondargli il dito nel petto.
–E quale sarebbe?–.
–Punto tre…– continuò l’altro, ignorandolo bellamente –Io non sono vecchio, ok? Non ho nemmeno 50 anni!–.
–Ma quale sarebbe la soluzione?– chiese ancora Hwoarang, piuttosto spazientito.
Baek lo guardò dall’alto, il volto fiero e deciso solcato da un sorriso che era insieme burbero e benevolo. –Entra nella gang. Ci chiamiamo Sam-Jang, “Fuoco”. Troverai un maestro e forse anche la fine dei tuoi problemi–.
Il ragazzo restituì lo sguardo con un’espressione un po’ sconvolta. Chi era questo vecchio pazzo che sembrava così deciso a sconvolgergli la vita? –Ma se non ho nemmeno una cazzo di moto! –.
–Non ti serve una cazzo di moto, cretino– brontolò l’altro –Ti serve solo un’occasione per rialzarti, e io te la sto offrendo–.


*


Quando l’Agente Williams aprì la porta della stanza degli interrogatori non poté impedire al suo volto solitamente serio di contrarsi in una smorfia di disgusto. Il pensiero del colloquio totalmente indesiderato che le toccava fare era quasi fastidioso quanto la patetica vista che le si profilava davanti.
Una donna stava seduta con i gomiti poggiati sul tavolo e le mani fra i capelli rossi, esausta per le lunghe ore di interrogatorio. Sollevò la testa al sentire la porta che si apriva e i suoi occhi cerchiati si spalancarono dalla sorpresa.
–Cosa ci fai tu qui!?– protestò riprendendosi istantaneamente dalla sonnolenza –Rischi di far saltare la copertura!–.
Nina sollevò imperiosamente una mano zittendo l’altra donna. –Ho un lasciapassare. E comunque la vera domanda non è cosa ci faccio io qui. La vera domanda è cosa ci fai tu qui, Anna– replicò squadrando l’altra donna dall’alto in basso, con sufficienza. Guardandola si rese conto che in tutto quel tempo sua sorella non le era mancata per niente. –Non ti sei ancora chiesta perché la Squadra Speciale ti abbia portato qui pur sapendo benissimo chi sei? –.
–Certo– sbottò Anna –Nessuno al di fuori della Squadra Speciale deve sapere chi sono. Se il detective Wulong e i suoi compagni di squadra venissero a sapere della nostra esistenza sarebbe un…–.
–Sbagliato– la interruppe nuovamente Nina. Scosse lentamente la testa abbozzando un sorriso ironico. Ridicola. Le veniva quasi da ridere. –Anna, Anna, Anna… Possibile che tu non ci sia arrivata da sola? Pensavi davvero che l’avresti fatta franca a lungo?–. Si sedette anche lei mentre Anna ricambiava il suo sguardo con improvviso e crescente orrore.
–C-cosa?– balbettò.
–Del resto non me ne stupisco: il doppio gioco è sempre stata la tua specialità. È stata la tua abilità a guadagnarti la fiducia delle persone che ci ha permesso di arrestare molti oppositori del regime, in passato. Ma pensavi davvero di ingannare il Tekken Force con le sue stesse armi?–.
–Io non so di cosa tu stia parlando– replicò Anna tentando di apparire sicura di sé, ma le ore di interrogatorio avevano già esaurito i suoi nervi; un tempo forse avrebbe resistito per giorni interi ma ormai non era più quella di una volta.
–Ah no? Cominciamo dal principio, allora–. Nina si rilassò appoggiando la schiena contro la sedia mentre continuava a gettare il suo sguardo gelido sulla persona che le stava di fronte. La odiava, l’aveva sempre odiata. Ora si sarebbe presa tutto il tempo necessario per assistere con compiacimento alla capitolazione di quella donna che, pur possedendo il suo stesso sangue, aveva per lei lo stesso valore di una spina nel fianco.
–Due anni fa i Mishima ti hanno scelto per una missione delicata: infiltrarsi nel White Crow, uno dei principali punti di ritrovo della Zona Rossa nonché il principale luogo di riunione degli oppositori del regime. Ci sei riuscita senza molti problemi e per un anno hai continuato a informarci su ogni possibile tentativo di rivolta. Poi però le cose sono cambiate. Hai cominciato a fare rapporto sempre meno frequentemente, a darci informazioni che si rivelavano sbagliate, a denunciare persone quando ormai erano già scappate all’estero. Perché, Anna?–.
–Non è colpa mia!– protestò accoratamente. –Si sono accorti che qualunque cosa facessero venivano scoperti e si sono fatti più prudenti. Nemmeno Marshall mi ha mai detto tutto quello che sa. Io sono un membro del Tekken Force, il Tekken Force è tutta la mia vita! Come potete sospettare di me?–.
Nina studiò il suo volto contratto dall’ira, gli occhi scintillanti di fervore che sembravano sfidarla a provare che mentisse. Uno sguardo inesperto l’avrebbe giudicata sincera ma Nina sapeva bene che Anna conosceva i trucchi del mestiere almeno quanto lei. Un membro del Tekken Force era allenato sia a mentire senza farsi scoprire che a riconoscere la bugia sui volto altrui. Sul volto di Anna non lesse offesa per essere sospettata, ma solo paura, una paura senza fine.
–Se c’è una cosa che ho imparato in questi anni è che non ci si può fidare di nessuno. Le parole non valgono, valgono solo i fatti. E tu in quanto a fatti ti sei dimostrata molto scarsa, ultimamente. –.
–E questo basta a fare di me una traditrice?– chiese Anna, sprezzante.
–No, questo fa di te una persona inutile. Il che è anche peggio di essere una traditrice. Un agente del Tekken Force è un’arma e le armi inutili vengono buttate–.
–Che sciocchezze, Nina. Io non sono mai stata inutile. Tu dovresti saperlo bene, no? – disse Anna, sforzandosi di ridacchiare. Era sempre stata brava a fingere di essere qualcun altro. Ora poteva anche fingere di non essere terrorizzata –Sono stata sempre io la preferita di nostro padre e se tu non avessi fatto la puttana in mia assenza sarei ancora la preferita di Lee–.
Il successivo movimento di Nina fu così fulmineo che nemmeno Anna se ne accorse finché non si ritrovò la gola premuta fra le dita della sorella.
Guardò con orrore l’espressione fredda e decisa di Nina. Conosceva bene quella presa, sapeva che con il giusto movimento e la giusta pressione avrebbe potuto ucciderla in pochi istanti. Ma dopo qualche istante l’Agente W abbandonò la presa lasciandola a emettere dei brevi rantoli soffocati.
–Ti ho sempre ritenuta una sciocca, Anna, ma mai fino a questo punto. Io non getterei mai la mia vita, la mia libertà, la mia carriera per un uomo. Tu invece l’hai fatto– disse Nina, ora in piedi davanti al tavolo, osservando sua sorella in difficoltà senza alcuna simpatia. Tutto ciò che provava era disgusto. –Hai gettato tutto ciò che eri per l’amicizia o addirittura… l’amore… di quel Law, non è così? Non sei mai stata altro che una debole e quindi ti sei lasciata sedurre da degli stupidi sentimenti. E tutto ciò è patetico. Patetico–.
–No… non è vero…– ansimò Anna, con una mano contro la gola, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. E invece era davvero così.
Prima ancora che fosse nata il suo destino e quello della sua sorella era già stato deciso. Era stata cresciuta come un arma, priva di cuore, priva di emozioni, sensibile solo agli ordini che le venivano impartiti dai Mishima. Aveva imparato ad uccidere senza provare niente, a mentire senza provare senso di colpa, a sedurre senza innamorarsi, ad agire ad occhi chiusi senza chiedersi mai il perché. Poi aveva cominciato la sua missione sotto copertura nella Zona Rossa; e lì aveva capito. Aveva capito che tutta la sua vita era basata sul puro niente e aveva provato orrore di se stessa, di tutto ciò che era stata fino ad ora. Aveva visto il dolore e le speranze nelle altre persone comprendendo quanto di umano mancava in lei. Era cambiata in una maniera che Nina non poteva nemmeno sperare di comprendere e aveva tradito il Tekken Force e la Mishima Zaibatsu, firmando la sua condanna.
–Ti consiglio di dirci spontaneamente tutto quello che ci hai nascosto sul White Crow e i terroristi– continuò Nina. –Altrimenti ci toccherà usare i nostri metodi; e tu sai bene quanto spiacevoli possano essere. Dopodichè sarai uccisa e il tuo corpo verrà usato come cavia ai Laboratori Mishima–. Almeno da morta si sarebbe rivelata utile, pensò. –Se invece decidi di confessare potrei anche chiedere a Lee di farti risparmiare, in memoria dei vecchi tempi–.
Detto questo Nina le voltò le spalle e fece per andarsene.
–Oh, dimenticavo– disse mentre apriva la porta e lanciava un’ultima occhiata carica d’odio alla sorella. –Ovviamente farò in modo che tutti i tuoi… amichetti del White Crow sappiano chi sei veramente–.
La porta si chiuse con un clangore metallico e al sentire quel suono sinistro Anna Williams capì che la sua vita era finita.



Inside four walls, inside four walls my friend
They took away your freedom

But they'll never take your mind

[Nevermore – Inside four Walls]








N.d.q.F.d.A (Note di quella fedifraga dell'autrice)
Non.... non odiatemi, vi prego! D:
So che è passato un anno dall'ultimo aggiornamento, so anche che i lettori che mi hanno seguito da quando ho cominciato questa storia (sempre che siano ancora miei lettori xD) probabilmente avranno rimosso cosa è successo negli ingarbugliatissimi capitoli precedenti ma... non odiatemi!
*si prostra al suolo*
Comunque, forse vi interesserà sapere che se siete arrivati fin qua avete già letto più di 80 pagine word! Pian piano questa storia sta diventando sempre più voluminosa, quindi spero che non me la tirerete dietro o rischierei un serio trauma cranico.
Al prossimo capitolo!
*scappa*
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Tekken / Vai alla pagina dell'autore: morrigan89