Continuo a ringraziarvi.
Tutti i lettori silenziosi e tutti quelli che, a fine lettura, trovano la
voglia e il tempo di recensire. Ogni parola è una spinta ed un sorriso in più.
Grazie.
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Capitolo 5 – Arretrati
Aspettavano davanti a quel portone di legno e si sentivano
congelare. Non serviva a niente rinchiudersi nei cappotti, sfregarsi le mani,
nascondere il viso nelle sciarpe. I loro passi nervosi suonavano secchi sul
marciapiede.
"Lo sapevi già?" chiese Edward. Sua madre lo guardò confusa.
"Che frequentava un'altra donna, che stava con quella Tania. Lo
sapevi?"
Esme fece spallucce, per un istante sembrò una bambina. "Lo
sospettavo, in fondo credo di averlo sempre saputo. Ieri sera mi ha detto che
stanno insieme da un anno."
Un anno? Perché gli faceva male il petto? Perché aveva voglia di
vomitare?
Studiò gli occhi di sua madre e gli parvero stranamente calmi e
controllati. Sospettava che dietro a tutto quel controllo ci fosse qualche
goccia di vodka.
Quando videro arrivare una berlina scura tirarono un sospiro di
sollievo e, allo stesso tempo, si immobilizzarono. Scesero due uomini in
giaccia e cravatta e li salutarono: Carlisle con un cenno del capo e l’avvocato
con due calorose strette di mano. Seguirono lo sconosciuto lungo le scalinate
di marmo e si accomodarono tutti in una grande sala. Quella delle riunioni,
immaginò Edward. Non si concesse il tempo di guardare le pareti tappezzate di
foto ed onorificenze, i mobili di legno lucidati, il vassoio pieno di tazzine e
biscotti: aveva gli occhi fissi su suo padre.
Si avvicinarono al grande tavolo che troneggiava al centro della
stanza e si sedettero. Edward e sua madre da un lato, Carlisle e l'avvocato
dall'altro. Quest'ultimo, da buon orchestratore, prese parola per primo.
"Buongiorno," la sua voce era forzatamente accogliente
quanto il suo sorriso. "Mi chiamo Garrett Denali e sono l'avvocato del
signor Cullen. Vi ringrazio per essere venuti,"
In quel momento esatto entrò un altro signore in giacca e
cravatta. Molto più disordinato, spettinato e grassoccio di quello che avevano
di fronte. Li raggiunse quasi correndo e, con il fiato corto, si affrettò a
presentarsi.
"Scusatemi, scusate il ritardo. Sono Mike Newton, l'avvocato
della signora."
Allungò la mano sudaticcia verso il suo collega, che continuava a
sfoggiare il sorriso di circostanza, condito adesso anche da un pizzico di
soddisfazione e superiorità, e poi verso Carlisle, che la strinse come se
potesse attaccargli la peste. Con una smorfia sgangherata stampata sulle
labbra, quello che a quanto pare era il loro avvocato si accomodò accanto ad
Esme, con la pancia strizzata dal bordo del tavolo. I suoi occhi incontrarono
quelli di Edward, che lo guardava già incazzato nero. Il fatto che lo avessero
scelto completamente a caso sfogliando le pagine gialle gli dava il diritto di
presentarsi in ritardo con la grazia e la professionalità di un elefante? Forse
sì.
"Certo che potevi vestirti un po' meglio." gli sussurrò
all'orecchio sua madre. Indossava jeans e felpa, era comodo, era a suo agio ed
era diverso da quel gruppetto di pinguini imbalsamati. E lei, sua madre, tra
tutte le preoccupazioni che potevano tormentarla decideva di assecondare
proprio quella che riguardava gli abiti e la presenza di suo figlio. Quella più
facile, forse. Quella meno dolorosa. Lui sbuffò ignorandola, si sistemò meglio
sulla sedia e si preparò ad ascoltare. Capì fin da subito che l'incontro
sarebbe stato condotto dall'avvocato Denali, il loro si limitava ad annuire e a
subire.
Carlisle aveva già presentato l'istanza di divorzio, mostrare i
documenti ad Esme era il motivo per cui si era presentato a casa loro la sera
prima. Edward aveva fatto bene a preoccuparsi, la sua era stata un'intuizione
giusta. Mancava solo la firma di sua madre e la discussione dei termini.
Con gesti ampi e teatrali Garrett tirò fuori dalla ventiqattrore
fogli e cartelle.
"Come assegno mensile proponiamo duemila dollari. Una bella
cifra." affermò, quasi sovrappensiero, come se il rumore delle carte che
si distendevano sul tavolo potesse coprirgli la voce. E fu proprio in quel
momento, tra carte e parole, che intervenne per la prima volta Edward.
"Di sicuro non sono un esperto come lei, avvocato." La
voce era composta, educata, ma vide lo stesso suo padre fremere dall'altra
parte del tavolo. "Ma so che, dopo la separazione, chi se ne va deve
assicurare uno stile di vita pari al precedente. Sbaglio?"
"Giusto, Edward." Lo chiamò per nome, come se lo
conoscesse, e gli sorrise accondiscendente, come se fosse un bambino.
"Allora duemila dollari non bastano. Almeno tremila, mille
dollari ciascuno."
Lasciò che le sue parole, forti e nette, aleggiassero nell'aria e
poi guardò sua madre. Lei sapeva alla perfezione quanto guadagnava suo marito,
avrebbe potuto ribattere e sparare molto più in alto, ma non lo fece. Si limitò
ad annuire timidamente, sostenendo suo figlio.
"E va bene," tuonò Carlisle. Era scocciato, stava
sprecando il suo tempo prezioso lì con loro. "Che tremila dollari
siano."
"Vogliamo anche un'auto." ribattè pronto Edward.
"Cosa?"
Fu suo padre a rispondergli, ma lui parlò guardando l'avvocato.
"Prima ne avevamo una, e ne abbiamo bisogno ancora. Senza contare che prima
o poi la mia maledetta bicicletta cadrà a pezzi. Vogliamo un'auto."
Un'occhiata tra Garrett e Carlisle, e anche questa richiesta
venne soddisfatta. Subito dopo vennero stabilite tutte le altre condizioni che
avrebbero permesso a Carlisle di sbarazzarsi della sua vecchia famiglia: la
casa resterà alla moglie e ai figli, l'affidamento sarà congiunto, le visite
settimanali cambieranno in base alle esigenze dei ragazzi. A mezza voce,
Carlisle assicurò che avrebbe vissuto nelle vicinanze.
"Gli arretrati?" Ancora una volta, i grandi discorsi
degli avvocati vennero interrotti dal ragazzo in felpa.
Questa volta perfino Garrett apparve spaesato, preso in
contropiede. "Arretrati di cosa?"
Edward lanciò un'occhiata fulminea a quel Mike Newton. Quando hai
intenzione di iniziare a fare il tuo cazzo di lavoro? Scosse leggermente la
testa e poi appoggiò i gomiti sul tavolo. Sentì la mano di sua madre
stringergli la coscia attraverso i jeans. Non sapeva se era per sostenerlo o
per fermarlo, nel dubbio andò avanti.
"Il suo cliente se n'è andato di casa a settembre, e noi non
abbiamo mai visto nè lui nè i suoi soldi. Sono quattro mesi, dodicimila dollari."
E gli venne assicurato anche il pagamento degli arretrati.
Quando uscirono una folata di vento li investì. Mentre madre e
figlio era impegnati ad abbottonarsi i cappotti, Carlisle bofonchiò un saluto e
si incamminò a piedi verso il centro. Edward lo seguì con lo sguardo, poi fissò
Esme. "Aspettami qui, torno subito."
Non fece in tempo ad ascoltare le proteste e le preoccupazioni di
sua madre perché aveva già iniziato a camminare. Passi veloci, scattosi,
incazzati. Lo raggiunse quasi subito, lo afferrò per una spalla e suo padre fu
costretto a guardarlo.
"Ieri sera hai detto che ci devi delle spiegazioni." Si
sforzò per scandire le parole, con il vento freddo che gli frustava la faccia e
tentava di portargli via la voce. "Beh, le voglio adesso."
"Edward, Cristo Santo. Sono di fretta, non lo vedi?"
"Non mi provocare, Carlisle." Non lo chiamò papà, non
ce la fece. Riuscì a malapena a ringhiare il suo nome.
"E va bene," scosse la testa, si portò le mani alle
tempie. "Cosa vuoi sapere?"
"Perché te ne sei andato?" Dai, questa è facile.
"E' una lunga storia." tagliò corto.
"Allora sarà meglio che ti sbrighi. Hai fretta,
giusto?"
"Senti, Edward. Le cose tra me e tua madre non andavano bene
da molto, molto tempo."
"E hai deciso di consolarti con una venticinquenne, fin qui
ci sono."
Lo guardò male, aveva lo stesso sguardo di quando stava per
metterlo in punizione. Ma questa volta non poteva. Non poteva zittirlo,
negargli la cena, spedirlo in camera sua.
"E' davvero una brava ragazza. Avrai modo di conoscerla, tu
e tua sorella avrete modo di conoscerla. E vi piacerà, te lo assicuro. È
davvero una ragazza adorab-"
"E dovevi per forza scappare? Non potevi stare con lei senza
sparire come uno schifoso latitante?"
Urlava, sbraitava, contro la faccia che tanto odiava. E Carlisle
improvvisamente si fece più serio, cupo, sembrava quasi in difficoltà. Edward
credette di vedergli addirittura gli occhi un po' lucidi, ma forse era solo il
vento.
"A settembre... a settembre Tania ha avuto un incidente. Un grave
incidente. Si è dovuta sottoporre a tante operazioni, costose e soprattutto
faticose. Ha perso l’uso delle gambe, da un giorno all’altro si è ritrovata su
una maledetta sedia a rotelle. Dovevo starle accanto, Edward. Dovevo dedicarmi
completamente a lei."
Alzò la testa e guardò suo figlio negli occhi. Si denudò di
fronte a lui, gli mostrò quello che realmente era: un uomo innamorato che soffriva per il dolore
della sua donna.
"Aveva bisogno di me, lo capisci?" Aveva perso la sua
solita compostezza, era disperato. "Lo capisci, Edward?"
Lo capiva? Non lo sapeva. Non sapeva più nulla. Ma, tra tutte
quelle novità e tutta quella confusione, una sola era la certezza: non poteva
perdonarlo, non poteva dimenticare tutto il male chiuso in casa sua per mesi.
Tutto quel male lo aveva avvelenato.
"Peccato che mentre eri impegnato a fare il buon samaritano
ti sei scordato di fare il padre."
Gli sputò contro le ultime parole, gli dette le spalle e tornò da
sua madre.
Tornando verso casa, con Esme che arrancava al suo fianco, non
riuscì a parlare. Sembrava che la voce si fosse congelata e che il cervello non
funzionasse più. Era bloccato, in pausa.
Riusciva a pensare solo ad una cosa, solo ad una persona. E
quando pensava ai suoi capelli morbidi riusciva perfino a dimenticare il
freddo. Prese il cellulare dalla tasca dei jeans e le dita scivolarono ansiose
sui tasti.
Preparati, stasera ti porto a cena fuori.
Finalmente l'avrebbe rivista. Finalmente il primo appuntamento.
Il primo appuntamento vero, con i sorrisi, l'imbarazzo, i baci. E questa volta
non poteva fallire. Lei non era una delle tante, non era una di quelle da poter
dimenticare dopo la seconda serata andata alla deriva. Lei no.
Avrebbe noleggiato un'auto... Dio, per lei avrebbe noleggiato
perfino una limousine. Avrebbe prenotato un ristorante di lusso, avrebbe tirato
fuori l'abito per le occasioni speciali, quello che piaceva tanto a sua madre.
Avrebbe speso uno stipendio intero, ma non gli importava.
Il telefono vibrò nella sua mano ghiacciata.
Non vedo l'ora. Ti passo a prendere alle 20.
Lesse il messaggio, vide l’auto noleggiata svanire e sentì un po'
di orgoglio sbriciolarsi. Ma alla fine lo mise da parte e si arrese a quel
piccolo sorriso che gli solleticava le labbra.
Il colpo di clacson lo fece sobbalzare. Si guardò un'ultima volta
nello specchio.
"E' arrivata, è qui." Rosalie apparve alla porta e fece
aumentare l'ansia del fratello.
Jeans, maglioncino, scarpe nè eleganti nè sportive.
"Può andare?" le chiese.
"Sì, stai bene."
"Mamma dov'è?"
"In camera." rispose, con voce improvvisamente vuota e
distaccata. "Sù muoviti, non la fare aspettare!"
Afferrò il cappotto, le chiavi, il cellulare. Si infilò il
portafoglio nella tasca dei pantaloni e si inginocchiò davanti a Rose. Le
dispiaceva lasciarla sola, l'aveva già fatto tante volte quando doveva andare
alla tavola calda, ma questa volta era diverso. Le aveva preparato la cena –
una cena che sua madre, tornando alle care vecchie abitudini, aveva rifiutato
con un lamento – e, dopo mangiato, l'aveva vista lanciare un’occhiata al puzzle
da completare con aria sognante.
Edward aveva paura di tutte quelle cose che sua sorella non
riusciva a dire, né a lui né a nessun altro al mondo. Tutte quelle emozioni che
le ribollivano in quel corpo così piccolo ma che prima o poi sarebbero scoppiate,
distruggendola.
"Non ti preoccupare," lo anticipò. "Starò
benissimo. Tra poco mi lavo i denti e vado a letto."
"Non leggere troppo." Le lasciò un bacio sulla fronte.
"Solo qualche pagina" sulle labbra le si dipinse un
sorriso furbo e poi, scappando in camera sua, gridò: "Divertitevi!"
Prima di scendere le scale, Edward bussò alla porta di sua madre.
"Mamma, io vado!" Nel silenzio, distinse un mugolio.
Almeno era sempre viva. Ubriaca fradicia, ma viva.
Bella era appoggiata sul cofano della macchina, con le mani
chiuse intorno ad una pochette. Indossava i jeans, una giacchetta stretta sotto
il seno, un paio di stivali bassi. Ed era bellissima.
Edward evitò di attraversare di corsa il giardino solo per
conservare un minimo di amor proprio, ma quando le fu vicino abbastanza da
toccarla, l'afferrò per i fianchi e la sollevò in aria. Respirò il suo profumo,
sorrise sui suoi capelli. Gli sembrava di essere sbarcato su un altro mondo
senza neanche essersene accorto.
"Sei bellissima." sussurrò, dopo un tempo ed un
abbraccio che sembrarono infiniti.
Lei lo guardò, gli occhi le brillavano. "Tu invece sei
orribile. Inguardabile." E scoppiò in una delle sue risate. Quelle piene,
imbarazzate e calde che facevano impazzire Edward.
"Forza, sali in macchina." Senza smettere di sorridere,
aprì la sua portiera e si mise al volante. Si voltò verso di lui. "Hai
prenotato in un ristorante, vero?"
Lui rispose subito, come se volesse dimostrarle che aveva pensato
a tutto, che non doveva preoccuparsi di niente. Poteva gestire tutto quanto,
anche se non aveva una macchina ed era costretto a farsi scarrozzare.
"Certo. È un ristorante bellissimo, ci andavamo sempre dopo i
concerti."
"I tuoi concerti?" chiese curiosa. Edward annuì,
godendosi la sua espressione attenta. "Prima o poi mi dovrai far sentire
quanto sei bravo, lo sai vero?"
"Prima o poi."
"Comunque, mio caro pianista, devi disdire la
prenotazione." Lo guardava con gli occhi accesi ed emozionati, e non
riuscì a non arrossire.
"Scusa?"
"Hai capito bene. Chiama il ristorante e digli che stasera
non avranno l'onore di averci come ospiti."
"E perché mai dovrei fare una cosa del genere?"
"Prima di tutto perché te lo dico io, e poi perché ho altri
progetti per noi due."
Edward la guardò, mentre si metteva la cintura e girava le chiavi,
e gli sembrò diversa. Più spigliata, più intraprendente, nonostante il rossore.
Ancora più donna. Era così sicura di sè che lo fece quasi eccitare. Capì che si
sarebbe lasciato portare ovunque, avrebbe accettato qualsiasi suo progetto.
Qualunque cosa, per quel noi due.
Parcheggiò accanto al marciapiede, in una strada buia e poco
trafficata. Edward la seguì in silenzio, curioso ma paziente. Percorsero un
vicolo stretto e quando svoltarono erano all'entrata di un parco. Gli alberi e
le panchine erano decorati con tante piccole lampadine, la strada che tagliava
l'erba era ordinata e piena di sassolini. Il vento per fortuna era calato,
tutto sembrava sospeso, in pace. Ad Edward parve di sentire lo stesso profumo
di calma e felicità che aleggiava sul portico di casa sua la sera della
Vigilia.
"Magico, vero?" sussurrò lei.
C'era già stato, ce l'aveva portato sua madre qualche volta,
quando era piccolo. Forse perché erano passati tanti anni, forse perché lui era
cresciuto, o forse perché era lì con Bella, ma sembrava tutto completamente
nuovo. "Si, magico."
Passarono accanto ad una pista di pattinaggio quasi deserta,
ignorarono due innamorati stretti sotto un gazebo di legno. Camminavano
lentamente, come se il tempo non ci fosse. Edward le prese la mano, e tutto
diventò magico davvero.
"Eccoci."
C'era un piccolo baracchino, incastrato tra due immensi alberi.
L'insegna era luminosa e un uomo che sembrava un gigante chiaccherava
allegramente con un cliente.
"Hot-dog?"
"Non ti piacciono?" gli chiese, ad un tratto
preoccupata.
Edward la guardò negli occhi e si rese conto che l'aveva fatto
per lui. Aveva evitato che noleggiasse un'auto, che mangiassero in un
ristorante di lusso, che spendesse uno stipendio per il loro primo
appuntamento. Avrebbe voluto dirle che non importava, che tutti quei soldi li
avrebbe spesi più che volentieri. Avrebbe voluto portarla davvero in un posto
lussuoso, dove un cameriere le versava il vino e la trattava da signora. Ma non
parlò. Non seppe far altro che commuoversi davanti a quella donna a cui era
bastato così poco per conoscerlo e per capirlo. Lasciò che l'eco della sua
domanda si disperdesse tra gli alberi, e la baciò.
Erano seduti su una panchina, le gambe di Bella distese sulle
cosce di Edward. Avevano finito gli hot-dog, bevuto le loro bibite ed avevano
anche fatto il bis. Edward si era accorto che lei tremava, e gli aveva dato la
sua giacca. Adesso era lui a tremare come una foglia e malediva la favolosa
idea di non indossare una camicia sotto quel maglioncino, ma lo sforzo per non
farlo notare a lei riusciva quasi a scaldarlo.
Avevano già parlato del viaggio di Bella, della salute di
Charlie, di quanto si erano mancati, di quanto tutto era più bello adesso. Ma
nessuno dei due aveva accennato a Rosalie, a Esme, a Carlisle.
"Ieri sera è tornato mio padre." Lo disse veloce, tutto
d'un fiato, come si fa quando si strappano i cerotti. Lei lo guardò con gli
occhi traboccanti di preoccupazione, poi gli appoggiò la testa sul petto e lui
la circondò con le braccia.
“Non per restare,” continuò, raccogliendo la forza da
quell'abbraccio. "è tornato per chiedere il divorzio e presentarci la sua
nuova compagna."
"Edward, mi dispiace."
"Lei è giovane, bella, gentile. Si chiama Tania. Ed è sulla
sedia a rotelle." Sentì le sue parole vacillare ed il corpo di Bella
irrigidirsi contro il suo. "Ci ha lasciati perché lei ha avuto un
incidente ed aveva bisogno di lui." Lei allungò una mano e gli accarezzò i
capelli. Lui lasciò cadere la testa fino ad abbandonarsi sulla sua fronte.
"Bella... non riesco a perdonare mio padre, non riesco a provare
compassione per Tania. Sono una persona orribile."
Bella lo abbracciò ancora più forte e lui si rifugiò in quelle
braccia. Chiuse gli occhi, e ad un tratto fu solo silenzio. Nonostante tutti i
suoi sforzi, non riuscì ad ignorare quella sensazione pungente che gli
torturava lo stomaco e gli ripeteva che non si sarebbe mai sistemato niente.
Tutto sarebbe continuato a crollare, fino a soffocarlo tra le macerie.