19. AL CALARE DELLE
TENEBRE
Does it hurt?
Does
it burn?
Do you know what you've lost?
Are you scared of the dark?
–
Ghost Of Love, The Rasmus –
Non
c’era più niente.
Dello
strazio insopportabile del
dolore iniziale non restava più nulla, nemmeno
un’ultima eco dispersa dentro di
le, languente in un angolo oscuro.
C’era
solo silenzio, la
sterminata assenza di qualsiasi sensazione, un bianco infinito e sordo,
muto,
cieco, avvolgendola in una crisalide di apatia che le avrebbe fatto
paura, se
avesse avuto qualche coscienza di sé. Dove per un momento il
ritorno della
memoria aveva riempito le lacune e ripristinato interi anni di vita,
adesso il
vuoto era ritornato a spazzare via tutto, e non aveva più
importanza se era
stata una prigioniera per tutta la sua esistenza. Non aveva importanza
nemmeno
che qualcuno aveva brama di ucciderla per motivi ancora sconosciuti.
Morire,
forse, non le sarebbe
dispiaciuto poi tanto, ora.
La
ciotola di minestra che aveva
davanti era intatta. Aveva smesso di fumare ormai diversi minuti prima
e non
emanava più quel gradevole profumo di aromi che la cameriera
aveva tanto lodato
nel passare a distribuirla dal paiolo bollente. Lei neanche
l’aveva sentita.
Se
ne stava lì, le mani giunte in
grembo, e si lasciava scorrere addosso il tempo senza sentirsene
toccata.
–
Cerbiattina, dovresti mangiare
qualcosa – le disse la voce di Lucius, distante e addolorata.
Lei
non rispose, non mosse lo
sguardo dal punto indefinito su cui li teneva fissi, non diede alcun
segno di
aver sentito.
–
Lasciala stare – mormorò Shin,
distante e addolorato quanto l’amico, ma oppresso da una
rassegnazione che
l’altro non aveva.
Regan
deglutì, stringendo le
labbra. Gli occhi le bruciavano ancora dal troppo piangere dei tre
giorni
precedenti, e ora che aveva consumato tutte le lacrime, avrebbe solo
voluto
averne altre, pur di non sentire quel vuoto logorante. Avrebbe solo
voluto
poter ancora sentire qualsiasi cosa.
–
Non mangia da tre giorni.
Lasciarsi morire non le sarà di alcun aiuto –
replicò Lucius, sottovoce.
Regan
sentiva i loro occhi
pesarle addosso, ma non le importava.
–
Mangerà quando se la sentirà. –
Shin
era tranquillo, del tutto
alieno alla preoccupazione marcata di Lucius, solo più
rigido e composto del
solito. Più triste, anche. Benché la sua indole
fosse diversa, era una quiete
strana persino per lui, soprattutto in mezzo alla gente vivace che
consumava il
suo pasto serale presso Il Crocevia,
la locanda rustica in cui alloggiavano loro tre lì a Lumbar.
Il
mondo viveva, fuori da lei,
vivace e brioso in un venerdì sera che, freddo o piovoso,
quasi imponeva di
mettere le castagne ad arrostire sul fuoco e stappare i vini aromatici
da
riscaldare. Qualche mercante si rallegrava dei viaggi imminenti verso
il tepore
della Terra di Asante e un gruppo di giovani bisticciava su una partita
a carte
dagli esiti poco graditi.
Il
volto di Derian guardava Regan
da una dimensione che nessun altro poteva vedere. Le sorrideva, come
aveva
sempre fatto, e le tendeva una mano dicendole che era tutto a posto,
che non
doveva temere, perché anche se lui non c’era
più, lei non era sola.
Ricordava,
ora, con spietata
lucidità tutte le volte che era stato riportato nella
stanza, sempre la stessa,
indebolito fino a non riuscire a reggersi in piedi, a causa dei salassi
a cui
era costantemente sottoposto, eppure era l’unica cosa che lo
tenesse in vita,
perché se Desmond fosse riuscito a scoprire il segreto per
appropriarsi del suo
dono, lui sarebbe stato ucciso seduta stante.
Era
quello che Regan non riusciva
a capire: Derian era sempre stato prezioso, per Desmond, tanto da
ricevere lo
stesso trattamento di favore che aveva avuto lei, mentre gli altri
prigionieri
restavano sottochiave nelle loro celle nei sotterranei, buie e umide,
lasciati
a sé stessi. E allora perché Derian era stato
ucciso, proprio quella notte in
cui la Corte aveva incontrato la sua fine?
Si
sforzava di ricordare, ma la
luce della memoria non aveva toccato quei lidi, e tutto ciò
che le restava tra
le mani era la consapevolezza che la persona che era stata tutto per
lei, per
una vita intera, era stata assassinata.
Perché non sono morta io?
Se
lo chiedeva da giorni, ormai.
Se morire fosse toccato a lei, le cose sarebbero state più
facili per tutti.
–
Se proprio non ti va di
mangiare, almeno bevi. –
Lucius le aveva appena
riempito il bicchiere
di latte caldo e glielo spingeva davanti con una faccia che non
ammetteva
repliche. Regan stette a guardare la sua mano ancora attaccata al
bicchiere.
Aveva lo stomaco chiuso, ma lo accontentò, pensando che se
non altro almeno lui
si sarebbe sentito meglio. Vuotò il bicchiere a piccoli
sorsi, e fu nauseante
come se glielo avessero costretto giù per la gola con la
forza.
Due
giorni dopo, la situazione
non era migliorata.
Arrivarono
alla Taverna che il buio era
già calato da un
pezzo. La settimana pattuita con l’informatore era passata ed
era giunto il
momento di raccogliere qualche frutto.
Il
freddo delle nevicate al Nord
stava scendendo e l’odore di ghiaccio ormai era sensibile
nell’aria. Pian piano
l’inverno si sarebbe imposto anche sulle Terre del Sud.
Lucius
smontò da Freyr e aiutò
Regan a scendere a sua volta. Shin aveva già legato Freya
sotto l’apposita
tettoia rifornita di fieno e li stava aspettando.
Come
la volta precedente, Regan
fu costretta a nascondersi quasi completamente nel mantello. Non le
importava
più molto di quello che avrebbero o non avrebbero scoperto.
Andava avanti per
inerzia, aspettando che l’apatia svanisse, se mai fosse
successo.
C’era
molta meno clientela,
stavolta. L’abbassarsi delle temperature e
l’inoltrarsi della stagione doveva
aver spinto i viaggiatori di passaggio verso mete più
confortevoli o di ritorno
verso casa. Trovarono l’uomo nella saletta privata, deserta.
Quando si
sedettero, lui guardò Lucius senza sforzarsi di nascondere
l’avidità nei suoi
occhi.
–
Hai quello che cercavamo? – gli
domandò Lucius.
Lui
sorrise in modo inquietante.
–
E voi? –
Per
tutta risposta, Lucius adagiò
sul tavolo il famoso tomo dal valore inestimabile, una mano appoggiata
sopra in
attesa. Dopo una rapida valutazione del libro, l’uomo
ricambiò il gesto
sfilandosi un fascicolo da sotto il mantello da viaggio.
–
Qui dentro c’è tutto ciò che
potreste mai sperare di trovare riguardo a quel simbolo –
Consegnò il fascicolo
a Lucius. – Appartiene a un Ordine minore che si
istituì circa undici secoli
fa, poco prima che le sette furono messe al bando. Si facevano chiamare
Veglianti, poiché si riunivano di notte, nelle viscere della
terra. Erano più
che altro giovani idealisti visionari con manie di grandezza.
Discutevano del
Male, della corruzione e della decadenza del mondo. Svanirono nel nulla
due
secoli dopo e da allora si è persa ogni traccia. Non hanno
lasciato nulla
dietro di sé, se non vaghe voci che a tratti si confondono
con le leggende. –
–
In che senso? – indagò Lucius.
–
I documenti sono antichi, molte
parti mancanti – premise l’altro, solenne come non
mai. – E la lingua è
atavica, difficile da tradurre con precisione. Pare che il loro Ordine
abbia
rivendicato l’uccisione di Lucifero. –
Sia
Lucius che Shin sgranarono
gli occhi.
Regan
non stava prestando molta
attenzione, ma le sembrò strano che persone appartenenti
allo stesso Ordine che
si vantava di aver liberato il mondo da un flagello come Lucifero ora
ce
l’avessero con lei, probabilmente il demone più
insignificante delle Sette
Terre.
–
C’è altro? –
Le
dita dell’uomo sfiorarono
devote il panno che ricopriva l’oggetto delle sue brame.
–
I membri dell’Ordine erano
tutti uomini colti e abbastanza facoltosi da permettersi di finanziare
le loro
attività, e c’era anche una piccola minoranza di
donne, tutte erudite. Alcuni
di loro hanno collaborato per stilare in un manoscritto i resoconti
dettagliati
dei loro studi, una sorta di manuale per i posteri. Pare ne esistono
solo tre
copie e quella che ho rintracciato io è drasticamente
danneggiata e incompleta:
sono stati sottratti capitoli interi. –
–
Quindi qualcuno potrebbe essere
in possesso delle parti mancanti – concluse Lucius,
pensieroso.
–
Non è da escludere. –
Era
tutto.
Lasciarono
il libro antico nelle
mani veneranti dell’uomo senza nome e portarono via il
fascicolo con le loro
informazioni.
–
Non è molto – sospirò Lucius,
mentre slegavano i cavalli. – Ma meglio di niente. Se non
altro abbiamo un
punto di partenza, adesso. –
–
Eppure quel simbolo mi ricorda
qualcosa – mormorò Regan, persa nei suoi pensieri.
Shin
aggrottò la fronte in sella
a Freya.
–
Che cosa vuoi dire? –
Non
lo sapeva con sicurezza
nemmeno lei. Era la stessa sensazione che le dava l’incubo
con la falce di luna
e il sole dorato: qualcosa che aveva già visto ma non
riusciva a ricollegare
alla realtà.
–
Non riesco a capire. Forse mi
sbaglio e basta. –
–
Ti verrà in mente – le disse
Lucius, felice che finalmente lei desse qualche segno di vita, dopo
giorni di
silenzio.
Era
l’ottava pomeridiana quando
varcarono le porte della cittadina. L’ora di cena era passata
da un pezzo ma
avrebbero trovato le cucine ancora aperte e attive a Il
Crocevia.
Regan
non mangiò nemmeno quella
sera, deludendo così le speranze di Lucius. Lui e Shin
disquisirono fino a
notte fonda di quanto avevano appreso sull’Ordine dei
Veglianti, avanzando
ipotesi su ipotesi in cerca di possibili spiegazioni che svelassero il
loro
interesse verso Regan.
Lei
dormiva già quando anche loro
due si coricarono nei rispettivi letti.
La
notte era tranquilla e
silenziosa, in quella zona. Si sentiva solo qualche sporadico frullare
di ali e
il verso di qualche rapace notturno, su tutto il resto la quiete faceva
da sovrana.
Si
svegliò di soprassalto, e per
una volta non fu per via di qualche brutto sogno.
L’aveva
sentito dentro e sulla
pelle, come fili che si erano intrecciati sotto le sue dita e avevano
iniziato
a tirare, fino a svegliarla, e adesso continuava a esercitare una forza
inaudita su di lei, strappandola alle lenzuola calde e trascinandola
fuori dal
letto.
Non
avrebbe saputo come
definirlo. Era solo più forte di lei.
Non
considerò essere scalza, né
che tutto ciò che indossava era una sottoveste ridicolmente
leggera. I fili
invisibili che la irretivano come un burattino la condussero fuori
dalla stanza
a passo felpato, e poi giù per la scale, fino in strada. A
nulla servì lo
strepitare del buonsenso: il richiamo era troppo forte e lei ne era
così
affascinata che nemmeno se avesse potuto vi si sarebbe sottratta.
Le
strade erano deserte, lucidate
e scurite dall’umidità, e i lampioni sembravano
batuffoli di luce soffusa
sospesi nel vuoto, tanta era la nebbia delle campagne.
C’era
una via secondaria, poco
più avanti, che si apriva sulla destra. Era da lì
che veniva il richiamo. I
fili si tesero, la sua volontà si affievolì.
Seguì la tensione che la traeva in
quella direzione senza opporre alcuna resistenza, desidero, anzi, di
scoprire
che cosa fosse ad attirarla in quel modo.
Udì
un fruscio alle sue spalle.
Si fermò e si voltò indietro, senza trovare altro
che ombre disegnate dalle
pallide luci. Rimase in ascolto per un po’, ma non accadde
nulla, così si
inoltrò nel vicolo. Era difficile vedere, lì
dentro, perché gli alti muri delle
case oscuravano ogni cosa. Avvertiva una presenza lì vicino,
ma non osava
addentrarsi in tenebre così impenetrabili.
Ora
che era lì, si rendeva conto
che il richiamo che sentiva era simile a un lamento.
Più luce… servirebbe
più luce.
Si
alzò un vento insistente,
freddo, dapprima, poi appena intepidito, quel tanto che
bastò a permetterle di
non congelare. In pochi secondi si liberò un occhiello di
cielo e da lì la luna
fece capolino, inviando i suoi raggi a rischiarare la strada.
Socchiudendo gli
occhi, Regan riuscì a distinguere almeno i contorni delle
cose che
intralciavano il passaggio: un paio di casse distrutte abbandonate, un
cumulo
di legna muffita, persino una pentolaccia riversa a terra in cui al
momento
stava banchettando un gruppetto di ratti. Li scavalcò senza
badarvi: ciò che la
stava chiamando, qualunque cosa fosse, doveva essere appena fuori da
quel
vicolo.
Più
si avvicinava, più certi
rumori che prima erano stati inudibili e poi indistinti acquisivano
concretezza
e riconoscibilità: sembravano versi animali, sibili sinistri
e affannosi come
di cani famelici. E poi c’era qualcos’altro, non
qualcosa di tangibile, ma una
sofferenza sorda lasciata ad aleggiare nell’aria,
l’invocazione di una fine che
non sopraggiungeva.
Bastò
un passo fuori dal vicolo e
capì da dove era provenuto il richiamo che l’aveva
svegliata: una strada più
grande, deserta come tutto il villaggio, e a terra, a pochi passi da
lei, il
corpo esanime di un uomo disteso a braccia spalancate.
Regan
si portò le mani alla
bocca, terrorizzata: attorno al cadavere si affollavano creature
abominevoli,
solo vagamente simili a qualcosa che un tempo doveva essere stato una
persona.
Erano in cinque, magri come scheletri, vestiti di cenci, la pelle
sottile e
rugosa macchiata in diversi punti da grossi lividi violacei. Avevano
occhi
infossati, cerchiati di scuro, rossi come fuoco vivo, e labbra
sottilissime e
ceree, che lasciavano scoperti denti bianchi e appuntiti. Emettevano
urla
terribili, rese acute da un’agonia che li consumava da
dentro, fino ad emergere
prepotentemente negli sguardi pieni di follia.
Si
accorsero subito di lei e le
loro pupille divennero spilli in quel rosso spaventoso. Le loro bocche
disgustose si spalancarono e ne emersero strida soverchianti.
Regan
non riusciva a muoversi, e
nemmeno a urlare. Era paralizzata dalle grida strazianti che
provenivano da
ogni dove e da nessuna parte, assordandola. Si portò le mani
alle orecchie,
accasciandosi contro il muro al suo fianco. Altre urla si stavano
mescolando a
quelle dei mostri nella sua testa. Più deboli e
più umane, ma altrettanto
insopportabili. Figure senza volto apparvero davanti ai suoi occhi
chiusi,
bocche distorte dalla sofferenza, lamenti simili a richiami di spiriti
torturati.
D’un
tratto una figura nero balzò
sulla scena. Il viso era nascosto da una sciarpa avvolta stretta fin
sopra il
naso, e brandiva una spada contro i cinque esseri furenti.
–
Scappa, stupida! – le ringhiò
la voce volgare di un uomo che le sembrava di conoscere. Sebbene non si
fidasse
di lui, non se lo fece ripetere due volte: non appena vide che i mostri
si
avventavano contro di lui, Regan si voltò e
fuggì. Due di loro, però, le
andarono dietro.
Si
mise a correre alla cieca, le
mani premute sulle orecchie, e si precipitò giù
per la strada, che dal
villaggio scendeva verso l’aperta campagna. I suoi piedi nudi
calpestavano la
pietra scivolosa e più volte rischiò di cadere.
Sentiva quegli esseri
rivoltanti inseguirla, il loro alito caldo e nauseabondo sul collo; non
sarebbe
riuscita a correre a lungo, e ora sapeva anche perché: anni
di clausura in una
stanza non avevano certo favorito le sue capacità atletiche.
L’aria
le bruciava nei polmoni
che a stento riuscivano a respirare. Cercò di svoltare in
una stradina
laterale, ma una lastra dissestata la fece inciampare.
Rovinò a terra, e il
ginocchio sinistro colpì la pietra con tale violenza che lei
non riuscì più a
muoverlo dal dolore. L’insorgere di un bruciore pulsante le
disse che doveva
anche essersi ferita.
Aveva
il viso mezzo immerso in una
pozzanghera, i capelli appiccicati alle guance e sugli occhi, e le
faceva male
dappertutto. E le creature a momenti le sarebbero state addosso.
Avrebbe
voluto sfogare il proprio
tormento in un urlo liberatorio, ma il suo torace era compresso
dall’incapacità
di respirare. Ansimava, frastornata da una vertigine crescente, e la
sua vista
era troppo annebbiata perché riuscisse a distinguere lo
spazio circostante.
Tutto ciò che sapeva era che i mostri erano ormai a pochi
passi da lei.
Riusciva a sentire i loro respiri gutturali, il fetore dei loro aliti
famelici
sempre più vicino.
Era
spacciata.
Cercò
a tentoni con le mani una
rientranza o una sporgenza, qualcosa a cui aggrapparsi per aiutarsi a
rialzarsi,
ma non trovò altro che ruvidi blocchi di pietra. Era
completamente indifesa
alla mercé di quelle creature.
Ad
un tratto qualcosa di affilato
le sferzò l’avambraccio, squarciandole la manica e
la carne al di sotto di
essa. A Regan venne la pelle d’oca nel rendersi conto di
essere circondata.
–
No, per favore… –
Era
una preghiera verso le voci
nella sua mente, non quelle al di fuori. Più i mostri erano
vicini, peggiore
era il frastuono interno che le torturava la mente.
Nel
mezzo del susseguirsi
tortuoso di immagini e suoni, un lampo di luce improvviso venne a
squarciare il
buio.
Udì
solo il crescendo smisurato
dei versi animaleschi che si sollevò a un soffio dal suo
viso. Per un frammento
di secondo quasi impercettibile, mentre il dolore della ferita iniziava
a farsi
sentire, gli occhi di Derian balenarono nella sua mente martoriata, per
poi
svanire subito dopo, lasciando posto al solo e puro terrore.
Ma
poi un altro lampo accecante
seguì il primo, e gli esseri deformi strillarono inferociti.
Regan
non sapeva nemmeno se il
suo cuore stesse ancora battendo, tale era la velocità delle
sue pulsazioni. Le
sue ginocchia stavano per venir meno, quando si sentì
afferrare per la vita e
trascinare via di prepotenza, una mano premuta sulla bocca per
impedirle di
gridare.
Aveva
la vista annebbiata, ma
riuscì a distinguere un pugnale che vibrava
nell’aria e si avventava con
violenta precisione sulle gole dei due esseri, recidendole una dopo
l’altra da
parte a parte. Quelli gridarono, voci acute e pungenti come aghi, e
stramazzarono al suolo, straziati dall’agonia.
Un
istante dopo, senza nemmeno
sapere come, Regan si ritrovò sul tetto di
un’abitazione a guardare, stordita e
spaventata, il vuoto davanti a sé. Poi sentì la
presa di due braccia esili ma
ferme ammorbidirsi attorno al suo corpo, ma non del tutto,
perché le sue gambe
non sarebbero riuscite a reggerla.
–
Ti senti bene? –
Guardò
in su: i grandi occhi
scuri di uno sconosciuto la osservavano, freddi e distaccati.
Era
un ragazzo che doveva avere
non molti anni più di lei, alto e asciutto, con lunghi
capelli neri tenuti indietro
da un una fascia di pelle e un aspetto tutt’altro che
mascolino. Per certi
versi le ricordava Shin, per altri Lucius, ma diversamente da loro, lui
mostrava un’aridità emotiva innaturale.
Riconosceva in lui l’ardore e la
durezza tipiche dei demoni.
Al
lungo collo candido portava
una moltitudine di sottilissime catene e lacci di cuoio da cui
pendevano
altrettanti cristalli trasparenti dai colori più disparati.
Regan ne riconobbe
un paio: erano identici a quelli portati da Gerjen e soci.
Cristalli di Ladri di Anime.
–
Che cos’erano, quelli? –
domandò, ancora tremante.
–
Cràdhan –
rispose lui. – Dannati. Persone la cui anima è
stata
trafugata da vivi, rimasti a indugiare sul confine tra vita e morte
senza
trovare pace. –
Regan
ricordava ciò che le aveva
raccontato Shin riguardo certi Ladri di Anime incapaci, ma non pensava
che
rubare maldestramente un’anima potesse ridurre le vittime in
quello stato
orribile.
–
Saresti potuta morire nel
peggior modo immaginabile, lo sai? – le disse il ragazzo,
severo, rinfoderando
in pugnale nella cintola. Aveva modi bruschi, guardinghi.
–
Cosa vuoi dire? –
Le
labbra piene del giovane si
incurvarono in modo sgradevole.
–
Ti succhiano l’anima per
saziare la loro sete, e una volta che te l’hanno portata via,
non c’è più
niente da fare: o qualcuno ha la pietà di ucciderti prima
che sia tardi, o
diventi come loro. –
Regan
inorridì: non era proprio
la fine migliore a cui si potesse aspirare.
Studiò
di sottecchi lo
sconosciuto e cercò di capire se fosse un amico o un nemico.
per un attimo
considerò la possibilità che fosse stato lui
l’uomo dal volto nascosto di poco
prima, che la voce le fosse parsa più matura a causa della
sciarpa sulla bocca,
ma era troppo alto e snello per poter essere lui.
E allora l’altro chi era?
C’era
qualcuno che stava cercando
di proteggerla e che ci teneva a non essere riconosciuto. Doveva
assolutamente
dirlo a Lucius.
Lucius.
Le venne una stretta al
cuore a pensare a lui, e a Shin: chissà se si erano accorti
che lei non c’era,
se già la stavano cercando. Le sarebbe spettata una bella
ramanzina, non appena
fosse tornata da loro.
–
Andiamo. –
Il
ragazzo la sollevò tra le
proprie braccia e fece per saltare giù dal tetto.
–
Aspetta! – lo fermò lei. – I
miei amici sono… –
–
Non mi interessa dove sono i
tuoi amici. Non posso stare a badare a te, adesso. Se ci sono dei
Dannati, vuol
dire che ci sono nei paraggi dei Ladri di Anime, e non ho intenzione di
permettere che lascino il villaggio… vivi.
Non avere paura di me – aggiunse subito dopo, vendendola
spalancare gli occhi. –
Faccio del male solo a chi fa del male. –
Qualche
raggio di luna discese su
di lui mentre atterrava di nuovo sulla strada. Regan poté
così distinguere una
rara sfumatura rossastra nel castano degli occhi, incastonati in un
viso aguzzo
e astuto di un’avvenenza delicata, smile a quella di Shin.
Tuttavia lo sguardo
di quel ragazzo era intriso di qualcosa che, ne era certa,
né gli occhi né il
cuore di Shin avevano mai conosciuto: odio. Puro, semplice,
irrefrenabile odio.
–
Dove mi stai portando? – gli
chiese, timorosa, mentre lui correva con confidenza tra le viuzze buie.
Non osò
supplicarlo di condurla alla locanda: sconvolta com’era, non
avrebbe nemmeno
saputo dirgliene il nome, o indicargli la strada.
Lui
si limitò a rispondere:
–
In un posto sicuro. –
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A/N:
ringrazio tutti quanti per le letture e i commenti, in particolar modo Milou_ (acqua,
acqua... ;) ) e LovelyAndy
(Regan non ha esattamente preso tutti i poteri dei Derian, ma solo
l'immunità ai veleni, che si trasmette solo quando qualcuno
raccoglie l'ultimo respiro di un morente). Scusate la lunga assenza,
sono stata molto presa e in mezzo c'è stata anche la
settimana di ferie dei miei sogni, quindi... rieccomi nel mondo reale,
aimè. ^^
Commenti a pareri sono sempre ben accolti, quindi... alla prossima! :)
Dal prossimo capitolo:
La prima
deviazione forzata del
piano originale, che per secoli era filato liscio senza in minimo
intoppo, era
avvenuta poco meno di cinque lustri prima, quando Sharlit aveva tradito
e la
bambina dai capelli di sangue era disgraziatamente caduta in mani
ignote, che
ne avevano fatto completamente perdere le tracce. Da allora, i cinque
prescelti
dell’Ordine, lui incluso, non erano più riusciti a
riportare il corso degli
eventi entro il loro controllo.
Era stato
un puro colpo di
fortuna che si fosse trovato a Somege proprio la notte in cui tutto era
avvenuto: avrebbe potuto riconoscere lo sprigionarsi di
quell’energia
sovrannaturale anche se si fosse trovato sepolto sei piedi sottoterra.
Ora che la
ragazza era stata
ritrovata, dovevano agire con la massima prudenza: erano mille anni che
l’Ordine non aveva a che fare con un obiettivo di
età così matura. Tutti gli
altri erano stati neutralizzati dai loro predecessori quando ancora in
fasce o
poco più che lattanti.
Tutti,
tranne uno. Ma lì la
storia si confondeva con il mito e quasi nessuno sapeva più
la verità.
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