Il Cacciatore fissava con occhi
vacui la lapide di fronte a sé.
Tutti gli altri abitanti di NevediNotte che avevano partecipato alla
Santa Messa se n’erano ormai andati dopo il seppellimento, e
perfino il nuovo parroco era tornato a casa.
«Cacciatore?», lo chiamò Neve. La voce triste si
fondeva con il forte vento, il quale soffiava ormai da giorni, portando
con sé i fiocchi di neve. Il Cacciatore non sollevò gli
occhi, e lo spettro decise comunque di continuare. «Ha fatto
tanto per noi. Era l’ultimo tassello del puzzle perché
tutto questo finisse».
Le sue parole erano atte a tranquillizzarlo, a fargli capire che quella
tomba conteneva il cadavere di una persona che era morta con il sorriso
sulle labbra, perché in vita aveva dato molto a tanti ed era
sempre rimasta fedele ai propri ideali, arrivando perfino a voler
trascorrere da single tutta la vita per non mancare di rispetto al suo
amore non corrisposto.
L’uomo dai capelli bruni continuò a fissare quella lapide
senza muoversi, sbattendo solo le palpebre. Non una lacrima in quegli
occhi scuri. Non un sentimento in quel viso severo.
A un occhio disattendo sarebbe sembrato solo assorto, ma Neve sapeva
bene che il Cacciatore, dentro di sé, soffriva come poche volte
gli era accaduto.
La neve continuava a cadere accompagnata dal vento; e ormai aveva
ricoperto le tombe e le parti superiori delle lapidi del cimitero. Neve
fluttuava in posizione seduta sulla lapide della tomba accanto a quella
dove era il bruno, con il lungo vestito candido che ne copriva
l’iscrizione.
Il gatto poltergeist era seduto sul suo grembo, e si lasciava
accarezzare. Anche lui aveva compreso che quel giorno era accaduto
qualcosa di molto triste per i suoi due amici a due zampe.
Solo dopo parecchi minuti il Cacciatore si rivolse al fantasma,
parlandole con voce triste e profonda:
«Sai bene che questo incubo non finirà mai,
Even…», le disse il Cacciatore. «Abbiamo solo
ristabilito l’equilibrio, ma quanto durerà?».
Lei annuì, facendo i grattini dietro le orecchie al poltergeist.
«Lo so, ma… io ho assolto il mio compito. Non ho
più rimpianti, e la tua missione è ormai terminata. Ora,
posso andare via», gli disse, tendendogli la mano. «Tu,
invece?».
Lui la guardò e scosse il capo.
«Io non posso accedere né all’Inferno, né al
Paradiso, né al Purgatorio. Io sparirò qui». Lo
aveva capito ormai da secoli. Un essere senza anima non avrebbe avuto
futuro dopo la morte. L’avrebbe atteso solo il nulla.
«Ricordi cosa diceva Padre Bernardo? Dio è grande e
misericordioso e accetta tutte le persone buone che bussano alla porta
della sua Casa», gli disse la donna.
«Io non sono buono», sussurrò lui, accarezzando la tomba sulla quale
era seduto.
«Invece lo sei: hai lottato per il bene di tutti…», gli sorrise. «E
anche
lei l’ha sempre
saputo».
Il Cacciatore, allora, abbozzò un sorriso.
«Even… posso chiederti un ultimo favore?».
«Certo…».
«Posso andarmene prima di te?».
Quella proposta fece rimanere senza parole il fantasma, e il Cacciatore
si affrettò a spiegare:
«Ormai, qui non è rimasto nessuno di coloro che sono
diventati importanti per me, a parte te… Appena te ne andrai
via, io rimarrò solo. Mi sarebbe piaciuto morire prima di
qualcuno…».
Even annuì piano, capendo ciò che il Cacciatore doveva provare in quel
momento.
Era sempre stato burbero e scontroso davanti agli altri, ma nel buio
della sua casetta piena di carcasse, lui penava e si disperava nella
solitudine che lo corrodeva dentro.
«Allora… Addio, Cacciatore… Spero di rivederti nell’aldilà…».
Il bruno sospirò felice e un braccio gli si staccò dal
corpo, rimanendo intrappolato a ciondoloni tra i pesanti vestiti. Poi
fu il momento della mano inguantata, che cadde a terra, sulla tomba,
puzzando di cadavere. E così, a seguire, il suo corpo
cominciò pian piano a disfarsi, come un oggetto che abbia ormai
terminato il proprio ciclo di vita. Il Cacciatore stava trattenendo da
giorni quel processo di autodistruzione, perché voleva morire il
più tardi possibile.
Pezzi di carne, cute, ossa e tessuti caddero a terra, tra la neve,
sotto gli occhi impotenti di Neve, che lacrimarono appena.
Conosceva il Cacciatore da secoli ed erano sempre rimasti insieme in
quella lotta contro le Creature che andava avanti da tempo immemore.
«Grazie di tutto, Even… Grazie per non avermi lasciato
solo in tutti questi anni…», sussurrò il bruno, con
voce roca. «Salutami tutti quelli che ho conosciuto e che non mi
hanno trattato come l’ammasso di carne che sono, e ringrazia
anche da parte mia coloro che ci hanno aiutato in questa guerra di cui
nessuno saprà mai l’esistenza… E di’ alla
Dottoressa che se fossi nato umano avrei davvero voluto una donna
coraggiosa e buona come lei al mio fianco».
«Lei, nel suo cuore, lo sapeva già,
bambino…», sorrise Neve, mentre lo vedeva perdere sempre
più consistenza, finché non crollò del tutto a
terra, riverso al suolo, come a voler dormire per sempre là,
sulla tomba della Dottoressa dei Morti.
Neve si asciugò le lacrime e sollevò il micio per posargli un bacio
sulla testina.
Lui la guardò interrogativo con i suoi grandi occhi rossi come tizzoni
ardenti, e lei gli disse piano:
«Sei rimasto solo tu, ora. Io devo andare… I fantasmi
rimangono sulla terra finché hanno dei rimpianti, e ora è
il tempo per me di riabbracciare Xuěyún».
«Miè!», miagolò gioioso il gatto, strofinando
la testina contro il viso dello spettro. Fece un piccolo saltello e si
arrampicò sulla sua spalla, mettendosi comodo, come se non
volesse che se ne andasse.
«Ehi», lo sgridò appena, prendendolo e facendolo
saltare sulla neve fresca. «Anche io vorrei portarti con me, ma
devi restare… altrimenti, chi baderà al
villaggio?», gli domandò.
Il gatto miagolò piano, capendo quello che Neve voleva dire.
«Mi raccomando… Ora il villaggio è in mano tua.
Proteggilo come hai sempre fatto», sorrise composta. «Ciao,
gattino… È da non so quanto che desidero questo momento,
ma non riesco a essere pienamente felice… Anche io, come il
Cacciatore, mi ero affezionata tanto alle persone che ho conosciuto
attraverso i secoli, e anche io come lui soffrivo nel vederli morire,
ma il fatto di essere già passata a miglior vita mi ha aiutato a
sopportare meglio la sofferenza che mi affliggeva»,
sussurrò, chiudendo gli occhi.
In quel momento, Neve avvertì come se il vento la stesse
abbracciando, trasmettendole calore. Quel calore umano che aveva quasi
dimenticato.
«Mi mancherà questa città… Spero di
incontrare tutti i miei amici nel posto dove
andrò…», sussurrò, per poi scomparire con
una folata di vento un po’ più forte, come se non fosse
mai esistita.
In quel cimitero rimase solo un ammasso di carne avvolto da degli
stracci, che presto sarebbero diventati cibo per i cani del musher,
già attratti da quel forte odore di carogna.
Il gattino poltergeist andò dal Cacciatore e gli leccò il
volto senza più lineamenti, come un ammasso di carne sciolta. Un
ultimo saluto anche da parte sua.
Ben presto i cani giunsero al cimitero, dove il felino li attendeva,
sdraiato sopra la lapide della Dottoressa.
Li guardò con i suoi occhi rossi. Li conosceva molto bene: otto
bellissimi bastardini.
Aldebaran, Orion, Polaris, Crux, Lattea, Sirius, Alfa e Centauri.
Erano rimasti senza il padrone, ormai. Ed erano mesi che un nuovo
musher non metteva piede lì a NevediNotte.
“Mangiate. Voi conoscete già le creature, che hanno
portato via il vostro padrone. Mi aiuterete a vegliare su questo
villaggio, dove l’equilibrio potrebbe essere rotto da un momento
all’altro”, sembravano voler dire gli occhi del felino.
I cani si avvicinarono sommessamente e mangiarono i resti di carne; ce
n’erano di tutti i tipi: alce, camoscio, orso, lupo, volpe...
Tutto. Tranne carne umana.
Il gatto si stiracchiò ronfando, lasciando la coda a ciondoloni
davanti all’iscrizione sulla lapide, sulla quale era inciso un
epitaffio; il nome e la data erano coperti dalla neve, ma
l’iscrizione tombale era ben chiara.
“Qui
giace colei che difese sempre i più deboli, dandolo loro voce e
incollandone i sogni infranti, affinché potessero avere
giustizia: i morti”.
Era stata sepolta accanto a un’altra tomba, risalente a
centinaia di anni prima, quella che si diceva fosse la più
antica di tutto il cimitero, la quale recava una scritta in latino al
sapore di speranza:
Even, detta il Fiore del Freddo
624 – 651
“Non piangere se mi ami.
Il tuo sorriso mi dà pace”.
E nel bosco lì vicino, intanto, un paio di occhi rossi nascosti
nell’ombra guardavano il villaggio dove ancora nevicava in quella
notte senza luna.
Come ogni giorno da quando era stata posta la prima pietra, avrebbe
smesso di nevicare all’alba, dando tempo alla neve di celare i
peccati della notte.