That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Slytherin's Blood
Chains - IV.007
- Chains
Sirius Black
King's Cross, Londra - lun. 3 gennaio 1972
Mi
ero svegliato molto presto, quella mattina, cosa insolita per me: era
freddo e sembrava ancora notte fonda, ma ero troppo emozionato all'idea
di rivedere i miei amici per restare a poltrire. Ero saltato
via dal letto, avevo guardato fuori e avevo visto i giardini della
piazzetta immersi in un lago di neve, i fiocchi che volteggiavano
grossi e fitti alla luce dei lampioni. Con la coperta avvolta
sulle spalle e le pantofole calde ai piedi, ero rimasto alla finestra,
a lungo, finché l'oscurità era stinta nel grigio
tortora del mattino, a partire dai palazzi babbani che si ergevano
sullo sfondo poi, via via, sempre più vicino; quando la
luminosità soffusa era giunta alle panchine innevate di
Grimmauld Place, avevo sorriso: era giorno, presto sarei fuggito
lontano da lì. Kreacher aveva bussato poco dopo ed
io ero corso a lavarmi e vestirmi, diligente, avevo sceso le scale
reprimendo a stento l'eccitazione e pregustando l'attimo in cui avrei
salutato, in perfetto stile Black, tutta l'"allegra”
famigliola, seduta attorno alla tavola. Ghignai, immaginavo
che “mammina” fosse altrettanto trepidante, quella
mattina, anche lei sarebbe stata entusiasta, nei limiti concessi a una
Black, vedendomi, perché finalmente sarei sparito per mesi,
non avrebbe più dovuto passare giornate intere a memorizzare
con precisione maniacale tutto ciò che sfioravo anche solo
con lo sguardo, per poi imporre agli Elfi di disinfestarlo o gettarlo
via: “Niente germi Gryffindors nella Sacra Casa dei miei
padri!” ripetei tra me, nella mia mente, imitandone,
stridulo, la voce “melodiosa”. Avevo
soffocato un altro ghigno impertinente entrando nella stanza, appena
l'avevo vista a capotavola, austera, l'abito scuro e pesante, i capelli
raccolti: sembrava proprio un'adorabile... cornacchia imbalsamata!
Avevo raggiunto in silenzio il mio posto, mi ero seduto composto, come
mi era stato insegnato, e avevo addentato soddisfatto la colazione,
perso nelle fantasticherie sui sette lunghissimi mesi che sarebbero
passati prima di dover rimettere piede in quell’odiata
stanza. Sette meravigliosi mesi fatti di giochi e scoperte, in
compagnia dei miei amici: ci sarebbero stati anche lo studio e le
interrogazioni, vero, ma erano dettagli privi d’importanza,
per me, un piccolo sacrificio in nome della mia libertà, da
godere appieno almeno fino al mio ritorno. Già...
alla fine di quei mesi sarei dovuto ritornare a casa... e non per pochi
giorni... Abbassai gli occhi sulla mia colazione, portai la tazza alle
labbra, sentii il liquido caldo scivolarmi nello stomaco, mentre
qualcosa di gelido dentro di me mi faceva rabbrividire. Solo
quando mi fossi liberato per sempre di Grimmauld Place sarei stato
felice: sarebbe stato il giorno più bello, per me,
perché da quel momento mia madre sarebbe uscita dalla mia
vita. Avevo sofferto per lei, chiedendomi perché
non mi volesse bene, avevo incolpato me stesso e avevo cercato di
essere bravo, ma non era servito, mi ero ripetuto che non dipendeva da
me, che tutti i Black crescevano così, soli, mi ero fatto
forza e mi ero rifugiato nell'indifferenza e nel mio orgoglio,
dicendomi che erano cose senza importanza, ma non era bastato: era
riuscita a ferirmi lo stesso quando aveva detto che non ero
più suo figlio. E a ben pensarci, quello non era
stato neanche il momento peggiore... Quando avevo visto la
soddisfazione nei suoi occhi, leggendo rabbia e odio nei
miei... Era stato allora che qualcosa era morto dentro di me,
per sempre: se solo nell'odio riusciva a riconoscermi come suo figlio,
se essere suo significava solo questo, avevo giurato a me stesso che
avrei preferito morire che assomigliarle ed essere amato da lei, non le
avrei più concesso nulla di me, né odio
né paura, non sarebbe più esistita per me, come
io non ero mai esistito per lei. Io non ero suo figlio, lei
non era mia madre: Walburga Irma Black, la donna che mi aveva generato,
era solo una delle catene che si frapponevano tra me e la
libertà di essere ciò che volevo. Non
sapevo ancora come fare, era ancora un desiderio confuso, soprattutto
nei gesti concreti da compiere, ma il mio unico vero desiderio era
trovare il modo di spezzarle.
In realtà, però, quella mattina, non era andato
tutto come avevo immaginato, o come mi ero ripromesso nelle mie
fantasie ribelli: non avevo tenuto conto, infatti, che Regulus avrebbe
fatto “quella faccia” e questo dettaglio aveva un
po' affievolito la mia determinazione e il senso di felicità
all'idea di lasciarmi quella casa e i suoi abitanti alle
spalle. Certo si era contenuto e aveva nascosto bene i suoi
pensieri, da bravo Black, ma era mio fratello ed io lo conoscevo come
le mie tasche, bastava guardarlo per capire che non aveva dormito molto
nemmeno lui, quella notte, anche se per motivi opposti ai
miei. Durante quelle vacanze, con sorpresa e sollievo, mi ero
reso conto che nonostante lo Smistamento, l'odio di nostra madre nei
miei confronti e la venerazione che Regulus provava per lei, tra noi
non era cambiato molto, era rimasto se stesso, non mi aveva rinnegato,
continuava a considerarmi suo fratello, come lui lo era per
me. Ed io, pur entusiasta per le avventure che mi aspettavano
a scuola, e benché a volte Regulus fosse una vera piattola
insopportabile, sapevo che avrei sentito la sua mancanza,
perché... Lo guardai, in imbarazzo, poi, come
animata di vita propria, la mia bocca bofonchiò un invito a
giocare a scacchi magici, per ingannare l'attesa: quel gioco lo
entusiasmava, al contrario io cercavo sempre di sottrarmi, per questo,
invitarlo per primo gli fece luccicare gli occhi di felicità
e sorpresa. Ne era uscita una partita agguerrita, che avevo
giocato con impegno, anche se alla fine Regulus mi aveva battuto, come
accadeva sempre: stavolta, però, mi era sembrato molto
più soddisfatto, forse perché aveva potuto
dimostrare di essere capace di vincere grazie alla sua
abilità, non solo a causa della mia annoiata
indolenza. O chissà, magari aveva intuito che
quello era il mio modo contorto di dirgli che gli volevo bene, che mi
sarebbe mancato, che non l'avrei dimenticato, nonostante le meraviglie
del castello. Regulus mi fece appena il cenno di un sorriso ed io mi
convinsi che sì, aveva compreso: con quella partita
appassionata, eravamo riusciti a dirci quelle cose “troppo
insignificanti e disdicevoli per dei veri Black”, quei
“vergognosi” sentimenti che ci era stato insegnato
a nascondere e negare sempre, fin da bambini. A volte sognavo
di essere diverso, di riuscire a superare tutto quello che mi era stato
inculcato, sarebbe stata la più meravigliosa forma di
ribellione, la libertà più grande, ma per quanto
li odiassi, quegli insegnamenti erano incisi così a fondo in
me che riuscivano ad avere la meglio sulla mia volontà,
influenzando spesso, troppo spesso, i miei comportamenti . Me
ne stavo rendendo conto con i miei amici, nel confronto quotidiano tra
i nostri modi di essere: per quanto li stimassi e gli volessi bene, io
non riuscivo a essere “libero” di esprimere come mi
sentivo, come faceva James, ma nemmeno riuscivo a infischiarmene di
tutto, come faceva Rigel. (1) A
mano a mano che si avvicinava il momento di avviarci a King's Cross,
vidi mio fratello che osservava sempre più speranzoso
Kreacher che ci portava i mantelli e nostro padre che trafficava con il
vaso della Metropolvere davanti al caminetto: voleva accompagnarci ma
non aveva il coraggio di chiedere; alla fine, la mamma, fino a quel
momento chiusa in un altero silenzio, a osservarci senza lasciarsi
sfuggire una sola nostra mossa, si era animata di colpo solo per
negargli il permesso di venire con noi.
“Sali in camera, Regulus, e
preparati a ricevere il tuo precettore: ho disposto che tu riprenda le
tue lezioni già questa mattina. Sei un Black, non puoi
perdere altro tempo in sciocchezze!”
Mio fratello aveva alzato gli occhi su di lei, l'avevo visto
socchiudere le labbra per dire qualcosa, avevo sperato,
chissà, in un'educata quanto improbabile protesta, invece,
vedendo l'espressione torva di nostra madre, aveva subito chinato lo
sguardo e aveva annuito, senza ribattere. Come si conviene e
ci si aspetta dal figlio perfetto. Non ero grande abbastanza
da capire tutte le sfumature, ma in quello scambio di sguardi c'era la
sintesi delle parole di nostra madre: Regulus era il suo unico figlio,
salvezza dell'onore e della purezza del Casato, tutta la pressione
della famiglia era concentrata su di lui, ultima speranza per i Black
di avere una Sacra discendenza Slytherin; persino la più
innocente delle distrazioni, pertanto, sarebbe stata causa di biasimo
per lui, quasi avesse commesso un peccato imperdonabile. E
Regulus era terrorizzato all'idea di deluderla. Essere l'unico
figlio di “sua” madre significava tutto questo,
queste erano le catene che avvinghiavano la sua vita: per un attimo
pensai che a mettergliele fossi stato io, con la mia ribellione, ma
sapevo che le aveva sempre portate, indipendentemente da me,
perché questo era il prezzo dell'amore che nostra madre
provava per lui... sempre e solo per lui. Quell'idea mi
provocò un brivido lungo tutta la schiena, ma
durò appena un istante, volevo reagire, mi avrebbe fatto
piacere restare ancora con mio fratello, andare insieme alla stazione
e... Nei miei sogni ad occhi aperti, l'avrei coinvolto in una
battaglia a palle di neve, ci saremmo azzuffati e rotolati a terra,
fino a perdere il fiato, poi ci saremmo aiutati a rialzarci e avremmo
riso togliendoci i fiocchi di dosso, avremmo fatto tutte quelle cose
divertenti che fanno tutti i fratelli... tutte quelle cose che quella
megera ci aveva sempre negato! Strinsi le mani a pugno,
sentivo le lacrime montarmi dentro, parole furiose salirmi alle labbra,
ma quando all'improvviso intercettai gli occhi di mio padre che mi
osservavano furtivi dallo specchio, tornai in me, spaventato all'idea
che avesse capito e volesse punirmi.
“Oggi è molto
freddo, e vista la situazione attuale, è meglio evitare di
attardarsi in stazione più del dovuto; avete,
però, tutto il tempo di salutarvi con calma qui, al caldo,
mentre io finisco di vestirmi. Appena ce ne saremo andati, salirai di
sopra, Regulus, come vuole tua madre.”
Con un cipiglio severo che prometteva tempesta, la mamma
fulminò anche papà, ma lui fece finta di nulla,
impegnato a sistemarsi alla perfezione il mantello davanti allo
specchio; non compresi quell'inaspettato intervento, perché
avesse cercato di dare una giustificazione logica a un divieto che
trasudava tutta la cattiveria di nostra madre e soprattutto
perché l'avesse, di fatto, contraddetta, ordinando a mio
fratello di andare in camera solo dopo che fossimo partiti: ci pensai a
lungo, senza venirne a capo, come accadeva sempre quando cercavo di
comprendere mio padre. Lo vidi riflesso nello specchio,
l'espressione impenetrabile, che ci controllava con la coda
dell'occhio, mentre nostra madre vibrava di rabbia e Regulus ed io ci
salutavamo senza troppe smancerie, con una distaccata stretta di mano e
un abbraccio composto, come si conviene ai Black. Avrei voluto
salutarlo come facevano a casa Sherton, con un abbraccio caloroso, ma
noi... noi eravamo e saremmo sempre stati diversi.
Entrammo infine nel caminetto e arrivammo al Paiolo Magico con la
Metropolvere, da lì ci avviammo a piedi a King's Cross,
mezzora prima della partenza del treno, mio padre perso nei suoi
pensieri, io nei miei: lo guardavo muoversi risoluto, tra la folla
distratta, ritto e solenne, pochi passi davanti a me, tanto da riuscire
a vederlo di tre quarti, stretto nel suo abito caldo ed elegante;
forse, anzi di sicuro, era schifato da tutti i Babbani che ci
circondavano ma non lasciava trasparire alcuna emozione, era troppo
poco Black dimostrare la pur minima reazione al mondo
circostante. Sicuro che non mi avrebbe degnato della minima
considerazione, tornai a pensare ai miei amici: con loro avrei
dimenticato quelle terribili vacanze, pregustavo l'abbraccio con James,
Remus e Peter, immaginavo le chiacchiere sui regali, il Quidditch, le
avventure che ci attendevano; James, inoltre, aveva promesso di
parlarci del suo “misterioso mistero”, dopo Natale,
qualcosa che ci avrebbe permesso di conoscere ogni segreto del castello
e diventarne i padroni incontrastati: morivo di curiosità,
le supposizioni cui mi ero abbandonato in quei giorni erano riuscite a
distrarmi dall'atmosfera di casa, certo, ma non avevo ancora idea di
cosa nascondesse quel cespuglio di rovi. Trattenni a stento
una risata, ripensando alle condizioni in cui Remus ed io l'avevamo
lasciato pochi giorni prima, con quei capelli sparati per aria come i
tentacoli di Medusa, dopo aver passato un'intera notte di paura a
tentare di porre rimedio alla sua zucca pelata! Quante
risate... Al castello, però, più di ogni
altra cosa, non vedevo l'ora di riabbracciare Meissa: le avrei potuto
parlare da solo su, al cortile della Torre dell'Orologio, mi sarei
assicurato che stesse bene, e l'avrei consolata, perché mi
era bastato incrociare i suoi occhi tristi, alla festa di Narcissa, per
intuire quanto la storia di Mirzam la facesse star male ed io non
volevo più vederla così. Quando con lei
avevo ammirato i fuochi magici a Herrengton, alla fine del ricevimento,
mi ero sentito... Quello che avevo provato per lei, quando
Meissa mi aveva baciato e il suo calore era stato così
vicino alla mia pelle... Quella sensazione nuova, fatta non
solo di farfalle nello stomaco ma... Mi aveva turbato e reso
strano... felice... ma anche spaventato. Avrei voluto darle un
bacio anch'io, avrei voluto dirle... Invece, all'improvviso,
tutto si era trasformato in angoscia e paura, tutto era sparito,
proprio com’era sparita lei, nel buio e nella neve: avevo
temuto di averla perduta per sempre, di non poterla più
vedere, baciare, di non poter più sentire, mai
più, la sua risata, la sua voce, i suoi racconti...
Avevo pregato che fosse solo un brutto incubo e lei era
tornata, ma giorno dopo giorno, all'orrore si era aggiunto altro
orrore. No, dovevo vederla, non avrei aspettato di arrivare al
castello, l'avrei cercata già sul treno, era deciso!
“Kreacher ha portato i tuoi
bagagli nello scompartimento di tua cugina, viaggerai con lei,
comportandoti come si deve: non mettere in imbarazzo lei, te stesso e
tutti noi, intesi?”
Quando avevo visto mio padre rallentare sotto la pensilina per poi
fermarsi in un punto riparato, lontano dalla barriera del binario e
dalla vista di parenti e conoscenti, ero ritornato bruscamente con i
piedi per terra, poi, quando si era voltato e mi aveva messo una mano
sulla spalla, ancor prima che iniziasse a parlare e che io registrassi
le sue parole, avevo sentito salirmi alla gola il senso di nausea che
mi coglieva sempre dinanzi alle sue prediche. Annuii, deciso a
fingere di ubbidire, per poi fare di testa mia, appena se ne fosse
andato, tanto sarebbero passati mesi prima di incorrere nella sua
collera, e di sicuro in quel periodo avrei combinato qualcos'altro che
a mia madre sarebbe apparso offensivo e sconveniente, qualcosa per cui
avrei meritato un'altra sua punizione esemplare. Che senso
aveva, dunque, sopportare un lungo viaggio con la mia irritante cugina
e i suoi compari, invece di stare con i miei amici?
“... il tuo impegno a scuola,
le tue capacità come Mago, i tuoi comportamenti dovranno
essere, sempre, più che all'altezza del nome che porti...
non ti saranno concessi altri errori, lo sai...”
Fin da piccolo, l'unica cosa che tutti volevano da me era che fossi
all'altezza della perfezione del Casato e mio padre si era sempre
rivolto a me solo quando doveva ricordarmelo: ora che, smistato nella
casa di Godric, l'impresa più imbarazzante e sicuramente la
più imperdonabile che potessi combinare, ero
“difettato”, avevo ancora più
difficoltà a trovare il senso di quella
“lagna”.
“... ricordati
sempre che è un diritto, un onore e una
responsabilità, essere ciò che sei... un Black...
e che di là di quel … cravattino... ”
Spesso mi chiedevo se non avessi desiderato finire tra i Griffyndors
solo per essere lasciato in pace, per mettere fine a quella perenne
pretesa di perfezione, assumere un incancellabile marchio d'infamia che
mi rendesse inadatto a qualsiasi loro losco scopo, un colpo di mano per
riprendermi la mia libertà. Tenendo conto delle sue
reazioni, con mia madre c'ero riuscito, ma mio padre?
“… è
quella di un Black la vita che ti attende una volta che uscirai da
quella scuola...”
Non capivo se il suo incostante interesse per me fosse una tattica, o
se fosse davvero preoccupato, se cercasse di rimediare allo scandalo,
di contenere i danni, o mi considerasse ancora suo figlio, al contrario
del resto della famiglia, perché per
lui... Perché? Era quello il punto:
perché? Che cosa ero io per lui? Che cosa ero stato
finora, io, per lui?
“... non deludermi,
Sirius... Sei e sarai sempre mio figlio, non
dimenticarlo...”
... mio figlio...
Lo guardai, anzi lo fissai, cercando di capire quanto credeva a quelle
due parole, aspettandomi di vedere la sua solita faccia da sfinge,
quella che mi strappava via dall'anima, sempre, le parole che gli avrei
voluto urlare contro:
“Sono e sarò sempre tuo figlio, certo,
purché m'impegni a non combinare altri danni che ti mettano
in imbarazzo! Non è così? Non è
così?”
Stavolta però, il suo non era lo sguardo di un
uomo sfuggente: forse quella non era solo la solita predica sui doveri
e sull'onore, forse era preoccupato per me, come la sera che mi aveva
difeso dai nonni, o quando era entrato nella mia stanza e mi aveva
accarezzato la testa. Allora perché poi quell'uomo
spariva e al suo posto tornava il solito Orion Arcturus Black, mio
padre? Avrei voluto capire, avevo tante cose da chiedergli, ma anche
negli ultimi giorni, pur sapendo che avevo bisogno di lui, di un
confronto, era sempre stato irraggiungibile, non mi aveva concesso
occasioni per parlargli: dalla sera di Natale, in cui avevamo fatto
sparire l'Athame di Mirzam, era stato sempre sulle sue, più
pensieroso del solito, aveva passato molto tempo nel suo studio, dietro
i suoi giornali, o chissà dove, senza rivolgerci che mezze
parole. Al fidanzamento di Narcissa l'avevo visto nervoso
anche con Alshain, non avevo capito quale fosse il problema, speravo
fosse per la situazione che si era creata, non che avesse esaudito la
volontà di nostra madre e che avesse rotto i rapporti con
gli Sherton. Non avevo nemmeno capito perché,
invece di brindare come la maggior parte degli altri invitati, era
sbiancato di colpo quando era giunta la notizia della morte del
ministro Longbottom. Stavo ancora pensando a quella sera, ormai
prossimi alla barriera del binario 9 e ¾, quando un Babbano
corpulento e agitato mi venne addosso e quasi mi buttò a
terra, mio padre riuscì ad afferrarmi in tempo per una
manica del mantello ed evitò che cadessi, poi, con gli occhi
feroci, colmi di rabbia e disgusto, si voltò verso di lui e
continuò a guardarlo a lungo, quasi ringhiando.
“Feccia! Maledetta feccia
immonda! E dannato Dumbledore e dannati presidi! Manica di idioti! Ecco
cosa accade, per le loro stupide fissazioni! Basterebbe collegare i
camini di Hogwarts alla Metropolvere e non saremmo costretti a
mischiarci con... con questi... questi… Sciagurati! Ma
finirà, prima o poi... eccome se finirà! In un
modo o nell'altro, deve finire... E tu copriti, per Salazar! Se ti
ammalassi, dovrei farti curare lì, di nuovo, tu, un Black,
da quella masnada d’incompetenti!”
Non capii molto altro delle sue invettive, appena passata la barriera,
era avanzato lungo la banchina, tra Maghi e Streghe e bagagli,
sprezzante e imperioso, volgendo freddi saluti sbrigativi a destra e
sinistra, quasi si vergognasse di attardarsi con me al seguito o forse
ancora sconvolto. Infine, mi aveva spinto sul vagone senza
tante cerimonie, si era limitato a tenere appoggiata una mano sulla mia
spalla, in silenzio, per un tempo che forse era stato più
lungo del necessario. O era solo una mia impressione? Strinsi
i denti. No, non era giusto che facesse così, che
mi riempisse di dubbi e non mi desse mai risposte, avrebbe fatto meno
male se non avessi pensato al possibile significato di quel leggero
tocco sulle spalle, se non mi fossi fatto altre domande o altre
illusioni su mio padre, se mi fossi concentrato solo sull'assoluta
indifferenza mostrata, appena pochi giorni prima, al mio
ritorno. Eppure quel tocco mi era rimasto sulla pelle, come la
carezza che pensavo di aver sognato. Salii gli scalini e mi voltai, era
dietro di me, impenetrabile, mi avventurai nel corridoio, fino allo
scompartimento di mia cugina, volevo recuperare le mie cose e
dileguarmi, non sarei rimasto con Narcissa per nulla al mondo, d'altra
parte nemmeno lei poteva desiderare avere tra i piedi un cugino
rinnegato, motivo di vergogna e disagio alla presenza delle
amiche e del suo Malfoy. Indugiai sull'ingresso, la sola idea
di vedere il ghigno viscido di quel pallone gonfiato mi dava il
voltastomaco, ma per fortuna non c'erano ancora nessuno dei due; mi
affacciai dal finestrino per salutare e illudere mio padre che stessi
ubbidendo alle sue raccomandazioni, ma come mi aspettavo, non c'era
già più, smaterializzato per andare
chissà dove, forse a Nocturne Alley. Sollevato,
presi le mie poche cose e, con il sorriso del prigioniero che ha appena
riconquistato la libertà, m’immersi senza altre
esitazioni nel vociare allegro del corridoio.
Ora sì, finalmente, posso dire di essere sulla via di casa!
***
Rigel Sherton
King's Cross, Londra - lun. 3 gennaio 1972
Appena superai la barriera del binario 9 e
¾, il fischio acuto dell'Espresso per Hogwarts
m'investì ed io rabbrividii, un po' per il freddo, un po'
perché non sapevo decidermi se fosse peggio restare a casa o
tornare a scuola.
“Muoviti, Rigel, o questa
è la volta buona che perdiamo il treno!”
Sollevai lo sguardo sull'orologio che sovrastava il binario, la
lancetta era quasi in verticale, ma mancavano ancora alcuni minuti alla
partenza; mi guardai attorno: in un'atmosfera irreale, fatta di saluti
mesti e frettolosi, ben diversa dal caos frenetico del primo settembre,
vedevo qua e là, dinanzi alle porte dei vari vagoni, pochi
altri Maghi e Streghe, infagottati nei pesanti mantelli scuri, che si
attardavano a dare gli ultimi consigli ai figli, o si salutavano per
poi smaterializzarsi veloci e infreddoliti, lasciando tanti musetti
immalinconiti appiccicati al vetro dei finestrini illuminati, gli occhi
persi nella vastità della stazione dei Maghi. Gli
anni precedenti anch’io avevo preso molto male il rientro
dalla pausa natalizia, un po' perché quei pochi giorni non
erano sufficienti a farmi sentire la mancanza degli amici, un po'
all'idea dei sette mesi d’intenso studio che mi separavano
dalla libertà sfrenata dell'estate. Quelle appena passate,
però, erano state giornate tutt'altro che spensierate e,
stravolto dagli eventi, una parte di me preferiva affrontare
un'interrogazione della terribile Minerva McGonagall che rivedere
Bartemious Crouch mettere a soqquadro la nostra casa. Come se
il fatto di non assistere di persona cambiasse in qualche modo la
realtà... Sospirai: no, non sarei stato presente,
non avrei visto, ma Crouch avrebbe continuato a importunare la mia
famiglia, il Ministero avrebbe inseguito mio fratello, la mamma avrebbe
pianto. Strinsi i pugni, mentre con la coda dell'occhio
scorgevo attaccato al muro l'ennesimo volantino con la faccia di mio
fratello, ricercato per omicidio: ecco perché mio padre
aveva deviato all'ultimo dalla direzione intrapresa, non voleva che
Meissa ci passasse vicino e lo vedesse. Quei pensieri mi
toglievano il respiro e mi facevano crescere dentro una rabbia feroce,
soprattutto perché non potevo farci nulla, anzi…
una parte di me aveva ancora tanta, troppa paura di quanto stava
accadendo, desiderava solo fuggire lontano, nascondersi, non pensare a
niente, proprio come fossi ancora un bambino, anzi no... Come fossi un
vigliacco.
E tu
preferiresti morire che essere considerato un vigliacco, vero Rigel? (2)
“Rigel, dai, gli Emerson si
trovano nel terzo vagone, laggiù!”
Tentai di contenere di nuovo quei pensieri e accelerai il passo,
turbato, fino quasi a raggiungere Meissa, stretta alla mano destra di
papà: avanzammo rapidi, intabarrati nei nostri mantelli con
i cappucci calati a nasconderci i volti; Doimòs ci aveva
preceduti, portando i nostri pochi bagagli fino allo scompartimento e
già tornava indietro, pronto a ricevere altri
ordini. Eravamo arrivati tardi di proposito, lo sapevo,
papà non voleva fermarsi a parlare con nessuno, nemmeno con
Orion, immaginavo non volesse che assistessimo ancora a certe reazioni,
allo stupore e alla preoccupazione di chi ci conosceva e ci rispettava,
all'odio di chi credeva alle assurdità di cui eravamo
accusati, all'irrisione di chi attendeva, da anni, solo di vederci
cadere. Ero grato a nostro padre per averci evitato tutto
questo, almeno finché gli era stato possibile: a scuola
sarebbe stato tutto diverso, mia sorella ed io avremmo dovuto
fronteggiare la nostra dose di situazioni spiacevoli, era inevitabile,
e non era difficile immaginare che il peggio non ci sarebbe toccato
incrociando i Gryffindors nei corridoi, ma nei sotterranei, con i
nostri “amici”. Il sospetto che Mirzam si
fosse macchiato dell'omicidio del Ministro lo rendeva agli occhi di
molti un eroe, ma altri credevano che l’avesse fatto in nome
del Signore Oscuro e in disaccordo con nostro padre, ovvero che fosse
in atto una sfida della Confraternita al Lord stesso. C'era
insomma il rischio che tra gli Slytherins fossimo trattati da
traditori, anche perché già prima degli eventi di
Yule molti dubitavano dei nostri atteggiamenti
“aperti”; per non parlare, poi, della
possibilità che i nostri “amici” delle
altre Case si allontanassero da noi, spaventati dalle
dicerie. Nella mia ingenuità di ragazzino, fatta di
bianco e di nero, di buoni e di cattivi, non mi era facile immaginare
questi scenari, ma mio padre mi aveva ricordato cosa mi era successo
negli spogliatoi dopo la partita con i Gryffindors e mi aveva spiegato
che la guerra non guarda in faccia nessuno: anche gli innocenti,
indipendentemente dalle loro idee e dalle loro azioni, si ritrovano
coinvolti, vedono le proprie amicizie travolte, sono giudicati non per
se stessi, ma per le idee del gruppo cui appartengono,
perché non esiste più logica e ricordo, ma solo
paura e irrazionalità. A quella
possibilità, reagivo con freddezza: se un
“amico” mi avesse giudicato per i pregiudizi su
“quelli come me”, senza riconoscere le mie
differenze come persona, non aveva senso considerarlo
“amico”, e non mi sarei dispiaciuto troppo se
avessi perso i contatti con soggetti simili. Quando avevo quei
pensieri, immancabilmente il volto di Rabastan Lestrange si
materializzava nella mia mente e un senso di cupa oppressione sembrava
togliermi il respiro. Più di tutto,
però, mi preoccupava Meissa, ne temevo le reazioni,
perché avrebbe dovuto crescere nella menzogna, credendo
nostro fratello un seguace di Milord: speravo che non si lasciasse
condizionare al punto da trasformare il suo amore per Mirzam in
disprezzo, o peggio ancora, che non aderisse a sua volta a certe orride
convinzioni, solo per il desiderio di compiacerlo. Se qualcuno
mi avesse detto, appena poche settimane prima, che mi sarei trovato in
una situazione simile, a fare certi pensieri e certe considerazioni sui
miei fratelli, ne avrei riso e avrei detto “Farei di tutto
per spezzare io stesso il legame tra quella stupida e quel pallone
gonfiato!” Avevo sempre mal sopportato il loro
rapporto, li disprezzavo e li prendevo in giro, ma in realtà
soffrivo perché mi sentivo escluso dalla loro
complicità... ne ero... sì, lo sapevo...
geloso... (1) Sognavo
di diventare un giorno come Mirzam, forte nel Quidditch come lui, ma
per mio fratello, nonostante facessi di tutto per mettermi in luce,
sembrava sempre che io non esistessi, mi trattava da bambino, da
stupido, invece di passare il tempo a insegnarmi quello che sapeva, mi
riprendeva e mi umiliava, per compiacere quella smorfiosa di Meissa, o
per stupido divertimento. Così, a mia volta, lo
ignoravo o lo insultavo per le sue idee, cercavo di farlo arrabbiare e
quello che nasceva come un tentativo di avvicinamento, finiva col
trasformarsi sempre in rissa. E ora, di colpo...
Anche se avevo promesso che avrei mantenuto il segreto, per proteggere
tutta la famiglia, mi sconvolgeva pensare alle conseguenze del mio
giuramento: mi ero svegliato spesso, in piena notte, madido di sudore,
perché nei miei incubi, nonostante la Magia, non riuscivo ad
assistere senza intervenire, a mostrarmi indifferente, a mentire e
rinnegare mio fratello, ma urlavo la sua innocenza e quanto fossi fiero
di lui, del suo coraggio nell'assumersi tanti rischi, solo per
proteggerci. O mi ritrovavo a pregare che tornasse, che gli
dei mi concedessero un'occasione per dirgli...
Cosa Rigel? Cosa
vorresti dirmi? (2)
Mi sentivo spesso la sua voce irridente nella testa ma non
riuscivo a darmi delle risposte. Forse, il giorno che
l’avessi avuto di nuovo di fronte... forse... forse l'avrei
preso a pugni... Sì, ci saremmo davvero presi a
pugni, quel giorno, ed io mi sarei sfogato, fino a svenire, per non
sentirmi più spezzato, stretto tra catene che mi facevano
impazzire e mi tenevano prigioniero... Doveva sapere quanto
avessi bisogno di lui... cosa pensassi davvero di lui...
Mio padre era giunto al vagone, si voltò di nuovo per
esortarmi, Meissa mi tirava per la manica, spazientita, non vedeva
l'ora di mettersi alla ricerca del suo principe Black, non sapeva che
le avrei dovuto rovinare la festa, tanto per cambiare: la mamma,
rimasta a Doire con i bambini, era stata categorica, non dovevo
perderla di vista per nessun motivo, non dovevamo muoverci dallo
scompartimento nessuno dei due, ma restare con gli Emerson per tutto il
viaggio, lontani dagli altri. Non la trovavo una cattiva idea:
William mi piaceva, sotto quell'apparenza di ragazzino educato e
rispettoso si celava un animo curioso e un pò folle, per
questo era uno dei miei amici più cari, su di lui contavo
molto, ero sicuro che non avrebbe cambiato idea sulla nostra amicizia
per gli ultimi avvenimenti, lui non era come i miei compagni
Slytherins, tendeva a ragionare con la sua testa e ad avere idee
stravaganti come le mie, potevo rilassarmi e farmi sfuggire delle
battute dissacranti sui riti del Nord o su Salazar, o sul futuro che
avrei voluto per quelli come noi, senza paura che mi desse del pazzo,
del visionario o del traditore. Inoltre, in quei giorni bui,
suo padre era stato una presenza costante e preziosa, e secondo me
l’unica possibilità di uscire dal baratro in cui
eravamo sprofondati, era ripartire da quelle poche persone che avevano
dimostrato di meritare la nostra fiducia: Kenneth Emerson era una di
queste. Meissa aveva già superato i primi due
gradini in velocità quando rischiò di scivolare
sull'ultimo, feci per sorreggerla, ma papà mi
anticipò: lo osservai scambiare con lei uno dei loro
sguardi, uno di quelli capaci di riscaldare il cuore, vidi le
lentiggini di mia sorella, all'inizio immalinconita e triste,
illuminarsi e rapida recuperare un timido sorriso, scoccargli un bacio
sulla guancia, infine immergersi un po' più fiduciosa ed
entusiasta nella penombra ovattata del vagone. Il treno
fischiò ancora ed io rabbrividii anche di più:
dovevo chiudere certi pensieri in un angolo e lasciarli lì,
preoccuparmi solo della scuola, del Quidditch, degli amici, immergermi
nel mio mondo, confidando che al nostro ritorno le cose sarebbero state
diverse. Migliori. Passai accanto a mio padre,
fissando la terra per non guardarlo, pronto a salire i tre gradini
sotto il suo sguardo attento; all'improvviso sentii la sua mano forte e
protettiva sulla mia spalla, alzai gli occhi su di lui e incrociai i
suoi, un po' nascosti dal cappuccio del mantello calato sul
volto. Era pallido e anche se i Medimaghi sostenevano che si
era ripreso, a me sembrava piuttosto sofferente; sul suo volto,
però, mi parve aleggiasse anche una ferma determinazione:
non sapevo cosa fosse successo, quando aveva seguito il padre di Evan
nello studiolo dei Black, se fosse una novità positiva, o
foriera di altri dispiaceri, evidentemente, però, aveva
preso una qualche decisione. Conoscendolo, più
della malattia e degli eventi, ciò che l'aveva provato in
quelle settimane era stato il dover assistere inerme a quanto accadeva
a tutti noi, non essere riuscito a prevederlo e a proteggerci: aveva
perduto il controllo della situazione e, con esso, alcune delle sue
solide certezze.
“Voglio sapere costantemente
come stai e cosa succede, intesi? Ti ho insegnato a usare il fuoco per
parlarmi direttamente, ma fai attenzione a non farti vedere, non tutti
capirebbero...”
“Terrò d'occhio
Meissa per te, e riferirò, non ti preoccupare!”
Lo dissi con una lieve nota sarcastica, per apparire distante, ma non
si lasciò ingannare. Sfuggii un'altra volta il suo
sguardo insistente, ero in imbarazzo per quello che era successo tra
noi, per le parole che c’eravamo detti, per le lacrime che
non ero riuscito a trattenere, e ora la sua stretta sulla mia spalla
era di nuovo così possessiva, la voce così
convincente, sicura, che rischiavo di perdere il controllo di
me. Era lì, a un passo, sarebbe bastato che
tendessi la mano, che mi sporgessi di pochi centimetri, e sarei stato
accolto nel suo abbraccio: non era una soluzione al male che sentivo
dentro, lo sapevo, ma la sicurezza del suo calore era già
stata capace di infondermi un minimo di fiducia, ed io avevo bisogno di
credere che ce l'avremmo fatta, che prima o poi saremmo usciti da
quell'incubo.
“... no, davvero...
avrò cura di entrambi... e ti chiamerò se avremo
bisogno di te... ”
Gli strinsi la mano, esitai ancora un attimo, lo guardai, poi mi
voltai, senza abbracciarlo: non ero più arrabbiato con lui,
mi aveva promesso che avrebbe fatto di tutto per Mirzam, ma io non ero
più un bambino, tanto meno un vigliacco...
E più di ogni cosa,
non vuoi che io o nostro padre ti consideriamo un debole...
(2)
Ripensavo spesso a quanto era accaduto al braciere, alla
paura di morire che avevo provato, a come il Mangiamorte mi avesse
aperto gli occhi, su me stesso e sulle mie idee... Sospirai e m'immersi
a mia volta nel tepore e nel giocoso vociare del treno: gli occhi di
mio padre, lo sentivo, restarono fissi sulla mia schiena, poi seguirono
la mia figura attraverso il corridoio e i finestrini, mentre l'espresso
per Hogwarts, alla fine, si metteva in marcia. Non guardai
fuori, non c'era bisogno: mio padre sarebbe rimasto lì, fino
all'ultimo, fino a veder sparire la sagoma del treno, inghiottita nel
turbinio dei fiocchi di neve. Anche se lontani, anche se su strade
oscure, sarebbe stato sempre al nostro fianco.
Al fianco di ognuno di noi. (2)
***
Remus Lupin
King's Cross, Londra - lun. 3 gennaio 1972
“Non posso credere che tu
l'abbia fatto, James! Non hai nemmeno messo piede sul treno
e...”
“Che cosa avrei dovuto fare
secondo te? Era lì, con quel suo solito ghigno da gufo,
mentre mi rialzavo... È stato lui, ti dico! E per quanto mi
riguarda... se l'è cercata!”
“Non hai le prove che sia
stato lui e non qualcun altro... magari sei solo
inciampato!”
“Io non inciampo!”
“Tutte scuse! Ce l'hai con lui
per un solo motivo e sai benissimo di “chi” sto
parlando...”
“Non è vero!
È lui che provoca me, ogni volta che mi vede! Io nemmeno lo
considero!”
Tornai a guardare fuori, facendo NO con la testa, mentre James si
sistemava il bavero del cappotto fissandomi in cagnesco e Peter cercava
di far da paciere offrendoci le sue Cioccorane. Era successo
tutto all'improvviso, come un temporale che spezza di colpo l'afa
estiva. Era bastato che s’incrociassero, che si
guardassero e le Fatture erano volate da un capo all'altro del vagone,
provocando in pochi secondi l'inevitabile. Al contrario di James, io
non ero per niente convinto che fosse caduto per un dispetto, anzi,
Potter era così tra le nuvole a volte... però era
vero che, dal loro primo incontro, proprio su quel treno, appena pochi
mesi prima, ogni volta che quei due si erano trovati a meno di cinque
metri l'uno dall'altro, accadevano le cose più
impensate. E le conseguenze erano sempre le
stesse. Soprattutto se c'era anche “quella
rossa” di mezzo. E quando James Potter incrociava
Severus Snape, “Evans la rossa” era sempre di mezzo.
All'inizio non mi ero accorto di nulla, stavo fingendo di leggere un
libro, tutto preso dalle mie riflessioni sulla luna piena di pochi
giorni prima; il 31 Dicembre non era stato giorno di festa per me, e in
generale era stato un giorno orribile per molti e per tanti motivi: il
vecchio anno era finito, infatti, con l'assassinio del Ministro
Longbottom e branchi di Lupi Mannari avevano attaccato alcuni villaggi
dello Wiltshire e del Galles, gettando nel terrore tutta la
Comunità Magica. Il livello di preoccupazione, in
quei giorni, era salita al punto che molti non si fidavano a rispedire
i figli a scuola, ma il Preside Dumbledore, in un'intervista al Daily
Prophet, era stato chiaro, "Non c'è luogo più
sicuro di Hogwarts per i ragazzi", e per rassicurare tutti aveva
sollecitato Bartemious Crouch affinché l'Espresso fosse
scortato da alcuni Aurors fino a Hogsmeade. Aveva inoltre
affidato la sicurezza degli studenti non solo, come sempre, ai Prefetti
e ai Capocasa, ma anche all'esperienza di alcuni professori: quella
mattina, perciò, ad accompagnarci c'erano la McGonagall,
Pascal e Vitious, oltre al solito Slughorn, abituato a viaggiare in
treno, per dar vita a un incontro del suo SlugClub già prima
di rimettere piede nel castello. Mentre riflettevo sui
commenti di mio padre, che trovava strano che l'omicidio del Ministro
non fosse stato accompagnato dal teschio verde rilucente in cielo,
l'ormai tristemente noto marchio con cui gli adepti del Signore Oscuro
firmavano i loro omicidi, Peter era rientrato trafelato nel nostro
scompartimento urlando “Stanno per picchiarsi! James
è caduto... Stanno per picchiarsi!”. Ero
subito saltato in piedi, avevo abbandonato il libro di Incantesimi sul
sedile ed ero uscito di corsa con lui, sperando di poter fare qualcosa
per impedire l'ennesima catastrofe, ma quando li avevamo raggiunti,
muovendoci a fatica in mezzo agli altri ragazzini già
accalcati ed esaltati dalla rissa, se le stavano dando di santa
ragione, rotolandosi a terra, nel passaggio stretto del corridoio.
Anche la McGonagall era arrivata... due secondi prima che riuscissimo a
separarli. Non sapevo se ridere o piangere, James era
incorreggibile: non avevamo nemmeno lasciato il binario e
già Potter aveva rimediato la prima punizione del nuovo
anno, per una settimana sarebbe stato a disposizione di Mastro Filch,
di sicuro avrebbe dovuto sistemare gli ammuffiti archivi polverosi
dell'arcigno custode.
Il treno fischiò, poi, finalmente, ci mettemmo in
marcia. Mi sembrava una vita che fossi lì, in
attesa, forse perché mia madre mi aveva portato in stazione
molto presto, molto prima degli altri, non voleva incontrare nessuno,
tanto meno parlarci: da quando “era successo”,
aveva paura degli sguardi e delle domande della gente, aveva paura di
leggere negli occhi del prossimo una forma di biasimo per il mio
aspetto malato... O forse... forse temeva di non riuscire a trattenere
oltre il dolore, di non riuscire a tenerlo più segreto nel
suo cuore, di cedere e spazzare via le menzogne che lei e mio padre mi
avevano cucito addosso, per anni, rivelando infine quello che mi era
davvero successo, quello che ero diventato. Da quando ero
stato morso, non solo la mia vita, ma quella di tutta la mia famiglia
era cambiata, per tutti noi i giorni erano ormai fatti soltanto di
paura, vergogna, solitudine e dolore. Finché quel
giorno, il giorno in cui il preside Dumbledore era venuto a casa nostra
per parlare alla mia famiglia del mio futuro... (1)
Ripensai con un brivido a quel pomeriggio uggioso, la primavera
precedente, il giorno del mio undicesimo compleanno: appena avevano
sentito bussare alla porta, i miei mi avevano mandato in camera mia, ma
io, cosa insolita per me, non avevo ubbidito, ero rimasto nel
corridoio, protetto dalla penombra, a osservare quell'uomo anziano,
sembrava quasi un centenario, con la barba lunga e maestosa, del tutto
bianca, eppure carico di un’energia incredibile. Avevo
sentito quell'energia quando i suoi occhi profondi e celesti, furtivi,
mi avevano intravisto dietro la porta e si erano soffermati su di me, a
lungo, senza tradire la mia presenza, scrutandomi senza la
pietà cui ero abituato, ma con curiosità, forse
persino con simpatia. Avevo distolto gli occhi da quell'uomo
solo quando mia madre era scoppiata in lacrime: appena il vecchio le
aveva spiegato il motivo della visita, aveva iniziato a far No con la
testa, come chi non vuol sentire, aveva iniziato a balbettare che non
era possibile, che io non potevo fare nulla del genere, che io non
potevo uscire da quella casa. Mio padre, da parte sua, era
rimasto in silenzio, come sempre, annichilito da quel senso di colpa
che gli mozzava la voce e gli faceva trascinare i piedi a terra come un
vecchio. Avevo iniziato a tremare quasi senza accorgermene,
mille pensieri si agitavano in me, contrastanti, avevo ascoltato quelle
parole cariche di speranza e nel mio cuore si era acceso di nuovo il
desiderio di andare a scuola, vedere altri bambini come me, giocare con
loro, imparare tutte quelle cose di cui i miei mi avevano parlato
quando ero più piccolo... Poi avevano
smesso... Sarebbe stato bellissimo se davvero io avessi
potuto... Se solo avessi potuto...
“Io
non sono più come gli altri...”
Me lo ripetevo sempre. Come potevo pensare di vivere in mezzo agli
altri se, con le lacrime agli occhi, persino mia madre, impaurita, era
costretta a chiudermi in cantina una volta al mese? A volte, doveva
persino mettermi delle catene, per impedire che mi ferissi, poi mi
lasciava lì, da solo, sconvolta dalla paura e dalla
disperazione, dal desiderio di fare qualcosa per me, qualcosa
d’impossibile, eppure spaventata dal mostro che stavo per
diventare... Tremai al pensiero di quello che mi succedeva
dopo... La paura... Il desiderio di non restare
solo. Il dolore. Dopo... Un’interminabile
notte dopo, al mattino, con il viso ancor più devastato
dalla disperazione, mia madre scendeva a liberarmi, mi curava le
ferite, per ore, restando tutto il tempo in silenzio, un silenzio fatto
di sofferenza e vergogna, d’impotenza e senso di colpa: io la
guardavo, sempre di sottecchi, e dai suoi occhi spenti alla fine avevo
capito che ogni ferita che portavo sulla pelle, le si incideva a fondo
nel cuore, come una piaga infuocata e infetta. I primi tempi,
per un po', l'avevo scongiurata di restare con me, di aiutarmi, di non
abbandonarmi, lì, da solo, al buio, poi, luna dopo luna,
avevo capito che non ero forte abbastanza da frenare la belva nascosta
dentro di me, nemmeno in nome di tutto l'amore che provavo per
lei. Sarei stato un pericolo anche per lei, per lei che mi
aveva messo al mondo. Ero destinato a trasformarmi in un
mostro anche con la mia mamma. Ero maledetto.
"Posso
garantirvi la sua sicurezza e quella degli altri ospiti del castello...
Dovremo soltanto agire in segreto, perché possa restare tra
noi senza dicerie e problemi, fino al termine dei suoi studi: ne
saranno a conoscenza solo i membri del mio staff, della cui
collaborazione mi servirò per approntare quanto
sarà necessario al ragazzo. Ve lo assicuro, non dovrete
preoccuparvi, mi prenderò cura personalmente di vostro
figlio! Diamogli una possibilità di vivere come tutti gli
altri!”
Questo aveva detto quell'uomo dalla lunga barba bianca e l'aspetto di
un centenario: il preside della famosa scuola di Hogwarts, aveva di
colpo aperto una breccia di dubbio e di speranza, di nuovo, dentro di
me, con le sue parole cariche di promesse e prospettive, ai miei occhi
era diventato subito l'incarnazione dei miei sogni segreti, la
possibilità che esistesse, anche per uno come me, un
maledetto come me, un destino diverso, qualcosa di più di
una vita fatta solo di paura e dolore. Quella non doveva
essere la mia unica realtà, non potevo essere nato solo per
soffrire! Mio padre era rimasto a lungo in silenzio, come ogni
volta che si trattava di prendere delle decisioni sul mio futuro, si
era passato la mano sul volto, soffermandosi sulla barba prematuramente
ingrigita, aveva preso tra le sue le mani della mamma, infine si era
schiarito la voce, aveva alzato appena gli occhi castani su quelli
celesti del vecchio preside, aveva annuito e in un sussurro aveva detto
soltanto “D'accordo...”. Da
quel momento, la mia vita si era velocizzata e arricchita, le mie
giornate vuote, tutte uguali, si erano riempite di entusiasmo e
speranza, che si alternavano sempre di più alla paura di non
farcela, quando mi scontravo con la realtà della luna
piena. Ultimamente, però, sembrava che il
plenilunio mi facesse più male: non erano solo le ferite a
essere inferte con forza maggiore, quello me lo aspettavo, visto che
stavo crescendo; era anche il pensiero di quei bambini innocenti, a
come io, un mostro, un pericolo, mi sarei mossi di nascosto tra
loro... Apparentemente innocuo, proprio come chi mi aveva
aggredito. Tremai.
Quella mattina, svegliandomi, pensando a James, Sirius, Peter, a cosa
avevano fatto i Mannari nel Galles e a quanto era stata violenta la
luna su di me, avevo pensato di non partire, però alla fine
non avevo trovato la forza per chiedere a mia madre di farmi restare a
casa. Eravamo arrivati presto, il treno si era appena
arrestato, sbuffando, dopo il lungo viaggio notturno che da Hogsmeade
l'aveva riportato a Londra: la mamma mi aveva fatto le ultime
raccomandazioni, mi aveva stretto la sciarpa pesante con cura attorno
al collo e mi aveva pettinato con le dita, soffermandosi in una carezza
sulle mie guance, poi mi aveva fatto salire, aiutandomi a sistemare i
bagagli, perché ero troppo debole per farlo da
solo. Alla fine, prossima alle lacrime come me, mi aveva
affidato alle cure della “Signora dei Dolcetti”:
era gentile, mi aveva guardato ma non si era soffermata troppo sui miei
graffi, non mi aveva ammorbato di pietà o
curiosità come pressoché tutti, mi aveva invece
sorriso, aveva aperto un cassettino del carrello, ne aveva estratto un
grosso involto fatto di carta dorata e me l’aveva offerto,
dicendomi che “Il
cioccolato è una medicina potente, che cura ogni dolore
dell'anima...” Anch’io le avevo
sorriso, il primo sorriso di quella mattina, avevo spezzato il
cioccolato in quattro pezzi e avevo addentato uno spigoletto del mio,
pensando ai miei amici, alle chiacchierate che avremmo fatto nel
dormitorio, al calduccio dei nostri baldacchini: d'improvviso mi ero
ricordato quanto fosse bello tornare a scuola, bello perché
quando James e Sirius e Peter mi coinvolgevano in qualcuna delle loro
sconclusionate trovate, anche se ci mettevamo nei guai, riuscivo sempre
a dimenticare, per un po', a non pensare a cosa fossi, a illudermi di
essere come tutti gli altri. Il primo ad arrivare,
interrompendo le mie altalenanti considerazioni, era stato proprio
Peter, che si portava dietro l'odore inconfondibile delle ciambelle di
sua madre: spesso gliene spediva e noi le sbafavamo nella nostra
stanza, in piena notte, raccontandoci truci storie di fantasmi e
vampiri; di solito Peter si spaventava a morte e finiva col rifugiarsi
sotto le coperte per non sentire, poi però usciva fuori, con
il musetto smunto, simile a quello di un topino che occhieggia un pezzo
di formaggio dalla tana, e tornava a ridere con noi, raccontandoci a
sua volta una sua storia.
Smisi di guardare fuori dal finestrino e di pensare a cos’era
successo fino a quel momento, mi voltai e notai che come sempre Peter
lanciava sguardi incerti a me e a James, un po' smarrito, allora gli
sorrisi per fargli capire, se ce ne fosse stato bisogno, che mi era
mancato. In quei giorni “di festa” mi
erano mancati tutti i miei amici. James, risoluto, stava in piedi,
dritto come una sentinella, sulla porta, guardando a sinistra e a
destra e battendo il ritmo dei suoi pensieri con dei lievi calci,
assestati contro lo stipite metallico.
“Basta così, ormai
abbiamo atteso a sufficienza, il treno è pure
partito… è arrivato il momento di cercare quel
damerino... andiamo a scoprire dove si è
nascosto...”
“Basta che non trovi qualche
altro Slytherin con cui azzuffarti!”
“Per amor di quella precisione
che tanto ami, Lupin, sappi che io non mi azzuffo, al limite, da bravo
Griffyndor, cerco di dare il giusto a chi se lo merita, e gli
Slytherins se le meritano! Tutti!”
“In realtà, poco
fa, se non fosse stato per la McGonagall, a prenderle saresti stato
tu...”
James si voltò e fissò tutto offeso Peter, il
quale, come al solito, dopo aver detto la verità, aveva
subito abbassato gli occhi per fissarsi impaurito la punta delle scarpe.
“Non le stavo prendendo,
chairo? Ero sotto, ma solo perché loro erano in due ed io da
solo!”
“Lei? Che c'entra lei?
È solo una ragazza! E non ti ha fatto proprio
niente...”
“Ti sbagli, Peter... lei...
appunto... lei è una ragazza ed io sono un cavaliere, sono
un Griffyndor, non una serpe sleale come quello là... non
potevo certo rispondere ai suoi incantesimi!”
“Lily non ti ha lanciato alcun
incantesimo, James, sei tu che eri, come al solito, così
preso dai suoi verdi occhioni da cerbiatta da scordarti persino come si
fa a difendersi... e Snape ne ha approfittato per saltarti
addosso!”
James divenne rosso, anzi purpureo, bofonchiò qualcosa che
non compresi sulla dolcezza dei cerbiatti, poi cambiò
discorso, repentino, si guardò allo specchio e
cercò di spianarsi i capelli, ancora arruffati per la zuffa,
infine, come se nulla fosse, si affacciò dallo
scompartimento, mettendosi sulle punte dei piedi, per cercare lSirius
tra la folla accalcata lungo il corridoio.
“State a vedere che
“Sua Maestà “Toujours
Pur”” è riuscito a perdere il
treno!”
James distolse la nostra attenzione dai suoi problemi per rivolgerla,
abile, su Sirius: Peter, pur timido, non riuscì a trattenere
uno sbuffo divertito, era difficile anche per lui non ridere delle
imitazioni e delle caricature che James faceva di Black, quando il
nostro amico non si accorgeva. Una volta, alla lezione di
Slughorn, mentre Sirius era interrogato, Potter aveva persino disegnato
su uno spigolo della pergamena una specie di principino con la corona
in testa e lo scettro in mano, che impartiva ordini a tutti, per non
parlare di quando, nei corridoi, si metteva in coda alla fila,
imitandone il passo da aristocratico o l'aria sognante con cui
osservava Meissa Sherton. Anch’io ridevo di Sirius,
dei suoi modi a volte un po' sopra le righe, ma quando lo osservavo
immerso nei suoi pensieri, mi rendevo conto che, per essere un
ragazzino che in teoria aveva proprio tutto, non aveva l'espressione
soddisfatta e arrogante del rampollo viziato, anzi mi ero ormai
convinto che non mentisse quando diceva di non essere per niente fiero
di essere un Black. Mi resi conto che mi mancava: spesso era
difficile averci a che fare, per quei suoi bruschi cambi di umore, per
i suoi silenzi, o per certe risposte non sempre simpatiche, ma mi
mancava. Soprattutto, ora che eravamo in treno, non riuscivo
più a controllare la mia ansia e i miei timori, avevo
già trovato strano che non avesse risposto nemmeno a una
lettera, dopo che aveva insistito tanto perché ci
scrivessimo tutti i giorni, durante le vacanze. Avevo paura che fosse
successo qualcosa di brutto, che non scherzasse quando diceva che i
suoi non avevano preso bene la storia del cravattino: temevo le loro
reazioni, chissà che cosa gli avevano fatto: forse avevano
deciso di toglierlo dalla scuola?
“Qualcuno di voi ha avuto
notizie di Sirius, durante le vacanze?”
La buttai lì, con noncuranza, senza guardarli, osservando
anzi il paesaggio innevato che filava rapido fuori dai finestrini,
speravo quasi di sentirmi dire che era solo a me che non aveva
risposto, in fondo che se ne faceva di un'amicizia con me, un
licantropo, malato e squattrinato, il rampollo, pur Griffyndor, di una
delle più famose famiglie magiche della Gran
Bretagna? Quando non ricevetti alcuna conferma nemmeno da
loro, però, mi voltai e li fissai: Peter abbassò
subito gli occhi, non sapendo cosa dire, James sostenne il mio sguardo,
mettendosi sulla difensiva, come chi ha già intuito che la
discussione sta per finire in modo spiacevole.
“Io non ho saputo
più nulla di lui, da quando siamo tornati. E tu
Remus?”
“Nemmeno io, Peter...
James?”
“Non possono averlo mandato a
Durmstrang, vero? In caso ce lo manderanno a settembre, no? Ha iniziato
a frequentare Hogwarts, non può sospendere per sei mesi... o
perderà l'anno!”
Guardai Peter, con una morsa pesante che mi stringeva il petto: aveva
espresso ad alta voce il sospetto che avevamo tutti, la paura che mi
aveva preso quando, dopo tre lettere, non avevo ricevuto alcuna notizia
di Sirius, di fatto sparito nel nulla dopo il nostro rientro a
Londra. James ci fissò uno dopo l'altro, ancora
più serio, le mani che si stringevano a pugno e
l'espressione determinata, mentre un silenzio angosciato scendeva nello
scompartimento.
“Al massimo ha perso il treno,
ne sono sicuro... so quello che dico, Remus! Ho visto uno dei suoi zii,
uno dei pochi normali, penso, visto che pare sia un collega di mio
padre... Quello lì, un certo Alphard mi pare, non ha
accennato a nulla su trasferimenti o punizioni, mi ha anzi detto che
Sirius gli ha parlato molto di noi... Per questo sono convinto che quel
damerino abbia solo fatto tardi, o magari è in coda al
treno, con la sua elegante, raffinata, schizzinosa cuginetta
slytherin...”
“Se fossi rimasto
là, a quest'ora sarei morto... di noia... No, no... meglio
seguire il treno a piedi in mezzo alla tormenta, che stare insieme alla
coppietta dell'anno...”
Alle nostre spalle si levò, irridente, una voce
inconfondibile, seguita da una sonora risata. Ci voltammo:
fermo sulla porta, il cappotto scuro e i capelli in disordine di chi si
è messo a correre per i corridoi del treno, Sirius Black era
di fronte a noi, la faccia illuminata dall'inconfondibile sorriso
malandrino. James fu il primo, a ruota anche Peter ed io ci
lanciammo su di lui per avvolgerlo in un abbraccio soffocante,
finché, prossimi ormai tutti e quattro all'asfissia, e
rendendoci conto che qualcuno, passando per il corridoio, poteva
vederci, ci staccammo, cercando di ricomporci, invano. Sirius ci
fissò, ancora più divertito, poi, con la consueta
faccia da schiaffi delle migliori occasioni, si guardò
intorno e a sorpresa invece di deporre e sistemare le sue cose, fece il
cenno di essere pronto ad andarsene di nuovo.
“Che intendi fare adesso, per
Merlino e tutti i Fondatori?”
“Me ne vado... È
stato un piacere conoscervi, Messeri… ma... il mio destino
è dividere il mio viaggio con tre pessimi soggetti di mia
conoscenza... pensavo fossero qui, ma qui ci siete solo voi... tre
mammolette che frignano perché hanno perso il loro amichetto
del cuore... Salazar, ragazzi... avreste dovuto sentirvi... al posto
vostro imparerei a darmi un contegno, sapete?”
“Che cosa? Ma sentite questo
idiota! Noi eravamo preoccupati per lui e questo ci deride! Te la do io
la mammoletta, Black, e anche una lezione di contegno, preparati a
supplicare pietà! Ragazzi, voi tenetelo fermo!”
Al segnale di James, ridendo, gli fummo di nuovo addosso, Peter ed io
lo prendemmo per le braccia e lo trascinammo dentro a fatica, James,
furtivo, tirò le tende per nascondere la malandrinata in
atto, poi si unì a noi, lanciandoglisi sopra, costringendolo
sul sedile, deciso ad attuare feroci propositi di vendetta, a
cominciare da una serrata sessione di solletico.
“Potter, che… hai
fatto?... SEI UNA BALENA! cos'è... ti sei strafogato di
dolcetti? … ahahah... no dai... no... ... …
Aiut... … NO... No... ahahahh.... noooooooo... ahahah...
aiut... ahahahah... bastard... … NOOOOOOOO... ahahahahah....
bastaaaaaaaaa... … ahahahah... Ok, ok... …
bast...ahahahah... ok... d'accordo... no dai... davvero... basta...
basta... ahahahah… hai vinto tu... ahahaah... ahahahah....
NOOOOOOOO… mi … mi... mi siete mancati
… … basta... dico davvero... ahahahah...
smettila... ahahah… anche voi... lo giuro…
ahahahahah.... davvero… ora basta, però...
… basta... ahahahah… ”
James lo illuse di aver finito, poi si avventò ancora su di
lui, io rischiai di perdere la presa, cercando di trattenermi dal
ridere, osservando come Sirius si dimenava e cercava di sottrarsi con
le lacrime agli occhi alla tortura sempre più insopportabile
e temeva la seconda fase della vendetta.
“Basta? Avete sentito la
mammoletta? IO non ho nemmeno iniziato, con te, Black! Questo, per
esempio, è per dirti quanto ho apprezzato quel TUO simpatico
scherzetto di Natale ai miei capelli!”
“No, dai... basta... no...
no... nOOOOOOO... piet...”
...
...
...
Bofonchiando, Sirius riuscì a riemergere dalla nostra
stretta solo molti minuti dopo, recuperando aria a fatica, scarmigliato
e rosso come un peperone; un po' instabile sulle gambe saltò
su e cercò di guardarsi allo specchio, incredulo si
tastò il viso, si rimirò persino di profilo, noi
intanto, accaldati, soffocando ormai a stento le risate, recuperammo i
nostri posti sui sedili, ammirando a distanza Sirius Orion Black alle
prese con il nostro capolavoro. A sorpresa, non si scompose,
non fece osservazioni, né si lamentò, anzi, con
un’espressione stranamente ispirata e seriosa,
iniziò a parlare in modo strampalato, quasi fosse un antico
bardo:
“Messer James Charlus Potter
da Godric's Hollow, in virtù dei poteri conferitimi da
“Sua Signoria”, Lady Walburga Black, Somma Custode
della Sacra Dignità Purosangue...”
Per alcuni secondi la sua voce si incrinò in un sbuffo
divertito.
“... v’insignisco
del titolo di Gran Ciambellano del Venerabile
“Contegno” Black, per l'esaustiva lezione appena
impartita a tutti i presenti… Milady …”
Sirius iniziò a impostare la faccia e la figura secondo la
gestualità tipica di sua madre e a camminare con passo
cerimoniale dinanzi a noi, come si conviene a una Strega di alto
lignaggio.
“… si rammarica di
non aver potuto presenziare, sarebbe stata
“onorata” di assistere in prima persona…
e magari... perchè no? partecipare anche alla dimostrazione
pratica...”
Non riuscimmo a resistere oltre, né Sirius poté
continuare, scoppiammo a ridere, tutti insieme, per l'irridente
imitazione che Sirius stava facendo di sua madre, con quella
espressione seria e composta che strideva come non mai con la coppia di
giganteschi baffoni da gatto, al gusto di cioccolato, che
orgogliosamente ornava la sua faccia... Simile a quelle che
ornavano le nostre.
*continua*
NdA:
Comincio subito ringraziando per le letture, le preferenze, i commenti,
sia coloro che hanno scoperto la storia nelle ultime settimane, sia i
lettori “storici”.
Il capitolo è piuttosto introspettivo:, molti personaggi
stanno "crescendo":
1a) Sirius inizia a dar evidenti segni di insofferenza verso sua madre
e a capire che la sua felicità è lontana da casa
Black, ormai Regulus è l'unico elemento che lo tiene legato
al passato e permangono i dubbi e la relazione contrastata con suo
padre, che qui un po' si ribella nei confronti della moglie. Il nostro
futuro Felpato nota anche un'altra amara verità: i tanto
odiati precetti dei Black gli sono ormai sotto pelle e per quanto lui
voglia, non riesce a esserne immune... questo è un dettaglio
che ricorrerà spesso: ho sentito spesso liquidare la
“faccenda Sirius” con gli aggettivi
“pazzo, viziato, bullo” ecc ecc, come se l'impatto
della famiglia d'origine fosse soltanto fisico-genetico... Per me non
occorre risalire ai matrimoni tra consanguinei e tirar fuori la pazzia:
è un ragazzino, prossimo all'adolescenza, educato in un
certo modo da una famiglia che non brilla per affettività,
rifiutato per lo smistamento, che per la prima volta nella sua vita si
trova a contatto con ragazzi che ammira, lontani anni luce da come
è fatto lui e il suo mondo. Soprattutto ammira James, libero
e amato, cresciuto senza l'obbligo della perfezione assoluta e
apprezzato per se stesso, non per ciò che i genitori
pretendono da lui...
1b) Questa parte relativa a Remus è stata scritta molto
prima che la Rowling pubblicasse gli inediti su Lupin in Pottermore,
pertanto i dettagli non sono coerenti con quanto oggi è
noto. (2015)
1c) Rigel è un ragazzino orgoglioso e testardo, quando si
sente rifiutato o svalutato, reagisce come fanno molti, con rabbia,
indifferenza e freddezza... in breve si chiude e nega i suoi
sentimenti, rimuove il pensiero di ciò che lo fa soffrire e
in questo momento l'unico suo desiderio è non essere
considerato debole da suo padre, avendo svelato fin troppo di se stesso
mettendosi a piangere di fronte a lui, pieno di rabbia e
frustrazione.
2) Le parti in corsivo e grassetto sono le parole che Rigel sente in
testa, con la voce di suo fratello Mirzam.
Non mi dilungo oltre. Un bacione e alla prossima!
Valeria
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