Libri > Harry Potter
Segui la storia  |       
Autore: Terre_del_Nord    28/09/2011    9 recensioni
Sirius Black e la sua Nobile Casata; gli Sherton e la Confraternita del Nord; l’Ascesa di Lord Voldemort e dei suoi Mangiamorte; gli Intrighi di Lestrange e Malfoy; le leggende di Potere e Sangue risalenti a Salazar Slytherin. E Hogwarts, i primi passi dei Malandrini e di chi, Amico o Nemico, condivise la loro Storia. UNA STORIA DI AMORE E DI GUERRA.
Anni 70. Il Mondo Magico, alle prese con Lord Voldemort, sempre più potente e feroce, farà da sfondo dark a storie d'amicizia per la vita, a un complicato rapporto tra un padre e i suoi figli, a vicende di fratelli divisi dalle scelte e dal sangue, a storie d'amore romantiche e avventurose. Gli eventi sono narrati in 1° persona da vari personaggi, canon e originali. "Nuovo Personaggio" indica la famiglia Sherton e altri OC.
*
HABARCAT (Chap. 1/20) *** ORION (Chap. 21/24) *** HOGWARTS (Chap. 25/39) *** MIRZAM (Chap. 40/52) *** STORM IN HEAVEN (Chap. 53/62) *** CHAINS (Chap. 63/X) *** FEAR (Chap.97/) ***
*
VINCITRICE 1° TURNO "Harry Potter Final Contest"
*
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: I Malandrini, Mangiamorte, Nuovo personaggio, Regulus Black, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'That Love is All There is'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

That Love is All There is
Terre_del_Nord

Slytherin's Blood

Chains - IV.007 - Chains

IV.007


Sirius Black
King's Cross, Londra - lun. 3 gennaio 1972

Mi ero svegliato molto presto, quella mattina, cosa insolita per me: era freddo e sembrava ancora notte fonda, ma ero troppo emozionato all'idea di rivedere i miei amici per restare a poltrire. Ero saltato via dal letto, avevo guardato fuori e avevo visto i giardini della piazzetta immersi in un lago di neve, i fiocchi che volteggiavano grossi e fitti alla luce dei lampioni. Con la coperta avvolta sulle spalle e le pantofole calde ai piedi, ero rimasto alla finestra, a lungo, finché l'oscurità era stinta nel grigio tortora del mattino, a partire dai palazzi babbani che si ergevano sullo sfondo poi, via via, sempre più vicino; quando la luminosità soffusa era giunta alle panchine innevate di Grimmauld Place, avevo sorriso: era giorno, presto sarei fuggito lontano da lì. Kreacher aveva bussato poco dopo ed io ero corso a lavarmi e vestirmi, diligente, avevo sceso le scale reprimendo a stento l'eccitazione e pregustando l'attimo in cui avrei salutato, in perfetto stile Black, tutta l'"allegra” famigliola, seduta attorno alla tavola. Ghignai, immaginavo che “mammina” fosse altrettanto trepidante, quella mattina, anche lei sarebbe stata entusiasta, nei limiti concessi a una Black, vedendomi, perché finalmente sarei sparito per mesi, non avrebbe più dovuto passare giornate intere a memorizzare con precisione maniacale tutto ciò che sfioravo anche solo con lo sguardo, per poi imporre agli Elfi di disinfestarlo o gettarlo via: “Niente germi Gryffindors nella Sacra Casa dei miei padri!” ripetei tra me, nella mia mente, imitandone, stridulo, la voce “melodiosa”. Avevo soffocato un altro ghigno impertinente entrando nella stanza, appena l'avevo vista a capotavola, austera, l'abito scuro e pesante, i capelli raccolti: sembrava proprio un'adorabile... cornacchia imbalsamata! Avevo raggiunto in silenzio il mio posto, mi ero seduto composto, come mi era stato insegnato, e avevo addentato soddisfatto la colazione, perso nelle fantasticherie sui sette lunghissimi mesi che sarebbero passati prima di dover rimettere piede in quell’odiata stanza. Sette meravigliosi mesi fatti di giochi e scoperte, in compagnia dei miei amici: ci sarebbero stati anche lo studio e le interrogazioni, vero, ma erano dettagli privi d’importanza, per me, un piccolo sacrificio in nome della mia libertà, da godere appieno almeno fino al mio ritorno. Già... alla fine di quei mesi sarei dovuto ritornare a casa... e non per pochi giorni... Abbassai gli occhi sulla mia colazione, portai la tazza alle labbra, sentii il liquido caldo scivolarmi nello stomaco, mentre qualcosa di gelido dentro di me mi faceva rabbrividire. Solo quando mi fossi liberato per sempre di Grimmauld Place sarei stato felice: sarebbe stato il giorno più bello, per me, perché da quel momento mia madre sarebbe uscita dalla mia vita. Avevo sofferto per lei, chiedendomi perché non mi volesse bene, avevo incolpato me stesso e avevo cercato di essere bravo, ma non era servito, mi ero ripetuto che non dipendeva da me, che tutti i Black crescevano così, soli, mi ero fatto forza e mi ero rifugiato nell'indifferenza e nel mio orgoglio, dicendomi che erano cose senza importanza, ma non era bastato: era riuscita a ferirmi lo stesso quando aveva detto che non ero più suo figlio. E a ben pensarci, quello non era stato neanche il momento peggiore... Quando avevo visto la soddisfazione nei suoi occhi, leggendo rabbia e odio nei miei... Era stato allora che qualcosa era morto dentro di me, per sempre: se solo nell'odio riusciva a riconoscermi come suo figlio, se essere suo significava solo questo, avevo giurato a me stesso che avrei preferito morire che assomigliarle ed essere amato da lei, non le avrei più concesso nulla di me, né odio né paura, non sarebbe più esistita per me, come io non ero mai esistito per lei. Io non ero suo figlio, lei non era mia madre: Walburga Irma Black, la donna che mi aveva generato, era solo una delle catene che si frapponevano tra me e la libertà di essere ciò che volevo. Non sapevo ancora come fare, era ancora un desiderio confuso, soprattutto nei gesti concreti da compiere, ma il mio unico vero desiderio era trovare il modo di spezzarle.
In realtà, però, quella mattina, non era andato tutto come avevo immaginato, o come mi ero ripromesso nelle mie fantasie ribelli: non avevo tenuto conto, infatti, che Regulus avrebbe fatto “quella faccia” e questo dettaglio aveva un po' affievolito la mia determinazione e il senso di felicità all'idea di lasciarmi quella casa e i suoi abitanti alle spalle. Certo si era contenuto e aveva nascosto bene i suoi pensieri, da bravo Black, ma era mio fratello ed io lo conoscevo come le mie tasche, bastava guardarlo per capire che non aveva dormito molto nemmeno lui, quella notte, anche se per motivi opposti ai miei. Durante quelle vacanze, con sorpresa e sollievo, mi ero reso conto che nonostante lo Smistamento, l'odio di nostra madre nei miei confronti e la venerazione che Regulus provava per lei, tra noi non era cambiato molto, era rimasto se stesso, non mi aveva rinnegato, continuava a considerarmi suo fratello, come lui lo era per me. Ed io, pur entusiasta per le avventure che mi aspettavano a scuola, e benché a volte Regulus fosse una vera piattola insopportabile, sapevo che avrei sentito la sua mancanza, perché... Lo guardai, in imbarazzo, poi, come animata di vita propria, la mia bocca bofonchiò un invito a giocare a scacchi magici, per ingannare l'attesa: quel gioco lo entusiasmava, al contrario io cercavo sempre di sottrarmi, per questo, invitarlo per primo gli fece luccicare gli occhi di felicità e sorpresa. Ne era uscita una partita agguerrita, che avevo giocato con impegno, anche se alla fine Regulus mi aveva battuto, come accadeva sempre: stavolta, però, mi era sembrato molto più soddisfatto, forse perché aveva potuto dimostrare di essere capace di vincere grazie alla sua abilità, non solo a causa della mia annoiata indolenza. O chissà, magari aveva intuito che quello era il mio modo contorto di dirgli che gli volevo bene, che mi sarebbe mancato, che non l'avrei dimenticato, nonostante le meraviglie del castello. Regulus mi fece appena il cenno di un sorriso ed io mi convinsi che sì, aveva compreso: con quella partita appassionata, eravamo riusciti a dirci quelle cose “troppo insignificanti e disdicevoli per dei veri Black”, quei “vergognosi” sentimenti che ci era stato insegnato a nascondere e negare sempre, fin da bambini. A volte sognavo di essere diverso, di riuscire a superare tutto quello che mi era stato inculcato, sarebbe stata la più meravigliosa forma di ribellione, la libertà più grande, ma per quanto li odiassi, quegli insegnamenti erano incisi così a fondo in me che riuscivano ad avere la meglio sulla mia volontà, influenzando spesso, troppo spesso, i miei comportamenti . Me ne stavo rendendo conto con i miei amici, nel confronto quotidiano tra i nostri modi di essere: per quanto li stimassi e gli volessi bene, io non riuscivo a essere “libero” di esprimere come mi sentivo, come faceva James, ma nemmeno riuscivo a infischiarmene di tutto, come faceva Rigel. (1) A mano a mano che si avvicinava il momento di avviarci a King's Cross, vidi mio fratello che osservava sempre più speranzoso Kreacher che ci portava i mantelli e nostro padre che trafficava con il vaso della Metropolvere davanti al caminetto: voleva accompagnarci ma non aveva il coraggio di chiedere; alla fine, la mamma, fino a quel momento chiusa in un altero silenzio, a osservarci senza lasciarsi sfuggire una sola nostra mossa, si era animata di colpo solo per negargli il permesso di venire con noi.
 
    “Sali in camera, Regulus, e preparati a ricevere il tuo precettore: ho disposto che tu riprenda le tue lezioni già questa mattina. Sei un Black, non puoi perdere altro tempo in sciocchezze!”

Mio fratello aveva alzato gli occhi su di lei, l'avevo visto socchiudere le labbra per dire qualcosa, avevo sperato, chissà, in un'educata quanto improbabile protesta, invece, vedendo l'espressione torva di nostra madre, aveva subito chinato lo sguardo e aveva annuito, senza ribattere. Come si conviene e ci si aspetta dal figlio perfetto. Non ero grande abbastanza da capire tutte le sfumature, ma in quello scambio di sguardi c'era la sintesi delle parole di nostra madre: Regulus era il suo unico figlio, salvezza dell'onore e della purezza del Casato, tutta la pressione della famiglia era concentrata su di lui, ultima speranza per i Black di avere una Sacra discendenza Slytherin; persino la più innocente delle distrazioni, pertanto, sarebbe stata causa di biasimo per lui, quasi avesse commesso un peccato imperdonabile. E Regulus era terrorizzato all'idea di deluderla. Essere l'unico figlio di “sua” madre significava tutto questo, queste erano le catene che avvinghiavano la sua vita: per un attimo pensai che a mettergliele fossi stato io, con la mia ribellione, ma sapevo che le aveva sempre portate, indipendentemente da me, perché questo era il prezzo dell'amore che nostra madre provava per lui... sempre e solo per lui. Quell'idea mi provocò un brivido lungo tutta la schiena, ma durò appena un istante, volevo reagire, mi avrebbe fatto piacere restare ancora con mio fratello, andare insieme alla stazione e... Nei miei sogni ad occhi aperti, l'avrei coinvolto in una battaglia a palle di neve, ci saremmo azzuffati e rotolati a terra, fino a perdere il fiato, poi ci saremmo aiutati a rialzarci e avremmo riso togliendoci i fiocchi di dosso, avremmo fatto tutte quelle cose divertenti che fanno tutti i fratelli... tutte quelle cose che quella megera ci aveva sempre negato! Strinsi le mani a pugno, sentivo le lacrime montarmi dentro, parole furiose salirmi alle labbra, ma quando all'improvviso intercettai gli occhi di mio padre che mi osservavano furtivi dallo specchio, tornai in me, spaventato all'idea che avesse capito e volesse punirmi.

    “Oggi è molto freddo, e vista la situazione attuale, è meglio evitare di attardarsi in stazione più del dovuto; avete, però, tutto il tempo di salutarvi con calma qui, al caldo, mentre io finisco di vestirmi. Appena ce ne saremo andati, salirai di sopra, Regulus, come vuole tua madre.”

Con un cipiglio severo che prometteva tempesta, la mamma fulminò anche papà, ma lui fece finta di nulla, impegnato a sistemarsi alla perfezione il mantello davanti allo specchio; non compresi quell'inaspettato intervento, perché avesse cercato di dare una giustificazione logica a un divieto che trasudava tutta la cattiveria di nostra madre e soprattutto perché l'avesse, di fatto, contraddetta, ordinando a mio fratello di andare in camera solo dopo che fossimo partiti: ci pensai a lungo, senza venirne a capo, come accadeva sempre quando cercavo di comprendere mio padre. Lo vidi riflesso nello specchio, l'espressione impenetrabile, che ci controllava con la coda dell'occhio, mentre nostra madre vibrava di rabbia e Regulus ed io ci salutavamo senza troppe smancerie, con una distaccata stretta di mano e un abbraccio composto, come si conviene ai Black. Avrei voluto salutarlo come facevano a casa Sherton, con un abbraccio caloroso, ma noi... noi eravamo e saremmo sempre stati diversi.
Entrammo infine nel caminetto e arrivammo al Paiolo Magico con la Metropolvere, da lì ci avviammo a piedi a King's Cross, mezzora prima della partenza del treno, mio padre perso nei suoi pensieri, io nei miei: lo guardavo muoversi risoluto, tra la folla distratta, ritto e solenne, pochi passi davanti a me, tanto da riuscire a vederlo di tre quarti, stretto nel suo abito caldo ed elegante; forse, anzi di sicuro, era schifato da tutti i Babbani che ci circondavano ma non lasciava trasparire alcuna emozione, era troppo poco Black dimostrare la pur minima reazione al mondo circostante. Sicuro che non mi avrebbe degnato della minima considerazione, tornai a pensare ai miei amici: con loro avrei dimenticato quelle terribili vacanze, pregustavo l'abbraccio con James, Remus e Peter, immaginavo le chiacchiere sui regali, il Quidditch, le avventure che ci attendevano; James, inoltre, aveva promesso di parlarci del suo “misterioso mistero”, dopo Natale, qualcosa che ci avrebbe permesso di conoscere ogni segreto del castello e diventarne i padroni incontrastati: morivo di curiosità, le supposizioni cui mi ero abbandonato in quei giorni erano riuscite a distrarmi dall'atmosfera di casa, certo, ma non avevo ancora idea di cosa nascondesse quel cespuglio di rovi. Trattenni a stento una risata, ripensando alle condizioni in cui Remus ed io l'avevamo lasciato pochi giorni prima, con quei capelli sparati per aria come i tentacoli di Medusa, dopo aver passato un'intera notte di paura a tentare di porre rimedio alla sua zucca pelata! Quante risate... Al castello, però, più di ogni altra cosa, non vedevo l'ora di riabbracciare Meissa: le avrei potuto parlare da solo su, al cortile della Torre dell'Orologio, mi sarei assicurato che stesse bene, e l'avrei consolata, perché mi era bastato incrociare i suoi occhi tristi, alla festa di Narcissa, per intuire quanto la storia di Mirzam la facesse star male ed io non volevo più vederla così. Quando con lei avevo ammirato i fuochi magici a Herrengton, alla fine del ricevimento, mi ero sentito...  Quello che avevo provato per lei, quando Meissa mi aveva baciato e il suo calore era stato così vicino alla mia pelle...  Quella sensazione nuova, fatta non solo di farfalle nello stomaco ma...  Mi aveva turbato e reso strano... felice... ma anche spaventato. Avrei voluto darle un bacio anch'io, avrei voluto dirle... Invece, all'improvviso, tutto si era trasformato in angoscia e paura, tutto era sparito, proprio com’era sparita lei, nel buio e nella neve: avevo temuto di averla perduta per sempre, di non poterla più vedere, baciare, di non poter più sentire, mai più, la sua risata, la sua voce, i suoi racconti...  Avevo pregato che fosse solo un brutto incubo e lei era tornata, ma giorno dopo giorno, all'orrore si era aggiunto altro orrore. No, dovevo vederla, non avrei aspettato di arrivare al castello, l'avrei cercata già sul treno, era deciso!
   
    “Kreacher ha portato i tuoi bagagli nello scompartimento di tua cugina, viaggerai con lei, comportandoti come si deve: non mettere in imbarazzo lei, te stesso e tutti noi, intesi?”

Quando avevo visto mio padre rallentare sotto la pensilina per poi fermarsi in un punto riparato, lontano dalla barriera del binario e dalla vista di parenti e conoscenti, ero ritornato bruscamente con i piedi per terra, poi, quando si era voltato e mi aveva messo una mano sulla spalla, ancor prima che iniziasse a parlare e che io registrassi le sue parole, avevo sentito salirmi alla gola il senso di nausea che mi coglieva sempre dinanzi alle sue prediche. Annuii, deciso a fingere di ubbidire, per poi fare di testa mia, appena se ne fosse andato, tanto sarebbero passati mesi prima di incorrere nella sua collera, e di sicuro in quel periodo avrei combinato qualcos'altro che a mia madre sarebbe apparso offensivo e sconveniente, qualcosa per cui avrei meritato un'altra sua punizione esemplare. Che senso aveva, dunque, sopportare un lungo viaggio con la mia irritante cugina e i suoi compari, invece di stare con i miei amici?

    “... il tuo impegno a scuola, le tue capacità come Mago, i tuoi comportamenti dovranno essere, sempre, più che all'altezza del nome che porti... non ti saranno concessi altri errori, lo sai...”

Fin da piccolo, l'unica cosa che tutti volevano da me era che fossi all'altezza della perfezione del Casato e mio padre si era sempre rivolto a me solo quando doveva ricordarmelo: ora che, smistato nella casa di Godric, l'impresa più imbarazzante e sicuramente la più imperdonabile che potessi combinare, ero “difettato”, avevo ancora più difficoltà a trovare il senso di quella “lagna”.

     “... ricordati sempre che è un diritto, un onore e una responsabilità, essere ciò che sei... un Black... e che di là di quel … cravattino... ”

Spesso mi chiedevo se non avessi desiderato finire tra i Griffyndors solo per essere lasciato in pace, per mettere fine a quella perenne pretesa di perfezione, assumere un incancellabile marchio d'infamia che mi rendesse inadatto a qualsiasi loro losco scopo, un colpo di mano per riprendermi la mia libertà. Tenendo conto delle sue reazioni, con mia madre c'ero riuscito, ma mio padre?

    “… è quella di un Black la vita che ti attende una volta che uscirai da quella scuola...”

Non capivo se il suo incostante interesse per me fosse una tattica, o se fosse davvero preoccupato, se cercasse di rimediare allo scandalo, di contenere i danni, o mi considerasse ancora suo figlio, al contrario del resto della famiglia, perché per lui... Perché?  Era quello il punto: perché? Che cosa ero io per lui? Che cosa ero stato finora, io, per lui?

    “... non deludermi, Sirius...  Sei e sarai sempre mio figlio, non dimenticarlo...”
   
    ... mio figlio...

Lo guardai, anzi lo fissai, cercando di capire quanto credeva a quelle due parole, aspettandomi di vedere la sua solita faccia da sfinge, quella che mi strappava via dall'anima, sempre, le parole che gli avrei voluto urlare contro:
  
     “Sono e sarò sempre tuo figlio, certo, purché m'impegni a non combinare altri danni che ti mettano in imbarazzo! Non è così? Non è così?”
  
 Stavolta però, il suo non era lo sguardo di un uomo sfuggente: forse quella non era solo la solita predica sui doveri e sull'onore, forse era preoccupato per me, come la sera che mi aveva difeso dai nonni, o quando era entrato nella mia stanza e mi aveva accarezzato la testa. Allora perché poi quell'uomo spariva e al suo posto tornava il solito Orion Arcturus Black, mio padre? Avrei voluto capire, avevo tante cose da chiedergli, ma anche negli ultimi giorni, pur sapendo che avevo bisogno di lui, di un confronto, era sempre stato irraggiungibile, non mi aveva concesso occasioni per parlargli: dalla sera di Natale, in cui avevamo fatto sparire l'Athame di Mirzam, era stato sempre sulle sue, più pensieroso del solito, aveva passato molto tempo nel suo studio, dietro i suoi giornali, o chissà dove, senza rivolgerci che mezze parole. Al fidanzamento di Narcissa l'avevo visto nervoso anche con Alshain, non avevo capito quale fosse il problema, speravo fosse per la situazione che si era creata, non che avesse esaudito la volontà di nostra madre e che avesse rotto i rapporti con gli Sherton. Non avevo nemmeno capito perché, invece di brindare come la maggior parte degli altri invitati, era sbiancato di colpo quando era giunta la notizia della morte del ministro Longbottom. Stavo ancora pensando a quella sera, ormai prossimi alla barriera del binario 9 e ¾, quando un Babbano corpulento e agitato mi venne addosso e quasi mi buttò a terra, mio padre riuscì ad afferrarmi in tempo per una manica del mantello ed evitò che cadessi, poi, con gli occhi feroci, colmi di rabbia e disgusto, si voltò verso di lui e continuò a guardarlo a lungo, quasi ringhiando.

    “Feccia! Maledetta feccia immonda! E dannato Dumbledore e dannati presidi! Manica di idioti! Ecco cosa accade, per le loro stupide fissazioni! Basterebbe collegare i camini di Hogwarts alla Metropolvere e non saremmo costretti a mischiarci con... con questi... questi… Sciagurati! Ma finirà, prima o poi... eccome se finirà! In un modo o nell'altro, deve finire... E tu copriti, per Salazar! Se ti ammalassi, dovrei farti curare lì, di nuovo, tu, un Black, da quella masnada d’incompetenti!”

Non capii molto altro delle sue invettive, appena passata la barriera, era avanzato lungo la banchina, tra Maghi e Streghe e bagagli, sprezzante e imperioso, volgendo freddi saluti sbrigativi a destra e sinistra, quasi si vergognasse di attardarsi con me al seguito o forse ancora sconvolto. Infine, mi aveva spinto sul vagone senza tante cerimonie, si era limitato a tenere appoggiata una mano sulla mia spalla, in silenzio, per un tempo che forse era stato più lungo del necessario. O era solo una mia impressione? Strinsi i denti. No, non era giusto che facesse così, che mi riempisse di dubbi e non mi desse mai risposte, avrebbe fatto meno male se non avessi pensato al possibile significato di quel leggero tocco sulle spalle, se non mi fossi fatto altre domande o altre illusioni su mio padre, se mi fossi concentrato solo sull'assoluta indifferenza mostrata, appena pochi giorni prima, al mio ritorno. Eppure quel tocco mi era rimasto sulla pelle, come la carezza che pensavo di aver sognato. Salii gli scalini e mi voltai, era dietro di me, impenetrabile, mi avventurai nel corridoio, fino allo scompartimento di mia cugina, volevo recuperare le mie cose e dileguarmi, non sarei rimasto con Narcissa per nulla al mondo, d'altra parte nemmeno lei poteva desiderare avere tra i piedi un cugino rinnegato, motivo di vergogna e disagio alla presenza  delle amiche e del suo Malfoy. Indugiai sull'ingresso, la sola idea di vedere il ghigno viscido di quel pallone gonfiato mi dava il voltastomaco, ma per fortuna non c'erano ancora nessuno dei due; mi affacciai dal finestrino per salutare e illudere mio padre che stessi ubbidendo alle sue raccomandazioni, ma come mi aspettavo, non c'era già più, smaterializzato per andare chissà dove, forse a Nocturne Alley. Sollevato, presi le mie poche cose e, con il sorriso del prigioniero che ha appena riconquistato la libertà, m’immersi senza altre esitazioni nel vociare allegro del corridoio.

    Ora sì, finalmente, posso dire di essere sulla via di casa!

***

Rigel Sherton
King's Cross, Londra - lun. 3 gennaio 1972

Appena superai la barriera del binario 9 e ¾, il fischio acuto dell'Espresso per Hogwarts m'investì ed io rabbrividii, un po' per il freddo, un po' perché non sapevo decidermi se fosse peggio restare a casa o tornare a scuola.

    “Muoviti, Rigel, o questa è la volta buona che perdiamo il treno!”
   
Sollevai lo sguardo sull'orologio che sovrastava il binario, la lancetta era quasi in verticale, ma mancavano ancora alcuni minuti alla partenza; mi guardai attorno: in un'atmosfera irreale, fatta di saluti mesti e frettolosi, ben diversa dal caos frenetico del primo settembre, vedevo qua e là, dinanzi alle porte dei vari vagoni, pochi altri Maghi e Streghe, infagottati nei pesanti mantelli scuri, che si attardavano a dare gli ultimi consigli ai figli, o si salutavano per poi smaterializzarsi veloci e infreddoliti, lasciando tanti musetti immalinconiti appiccicati al vetro dei finestrini illuminati, gli occhi persi nella vastità della stazione dei Maghi. Gli anni precedenti anch’io avevo preso molto male il rientro dalla pausa natalizia, un po' perché quei pochi giorni non erano sufficienti a farmi sentire la mancanza degli amici, un po' all'idea dei sette mesi d’intenso studio che mi separavano dalla libertà sfrenata dell'estate. Quelle appena passate, però, erano state giornate tutt'altro che spensierate e, stravolto dagli eventi, una parte di me preferiva affrontare un'interrogazione della terribile Minerva McGonagall che rivedere Bartemious Crouch mettere a soqquadro la nostra casa. Come se il fatto di non assistere di persona cambiasse in qualche modo la realtà... Sospirai: no, non sarei stato presente, non avrei visto, ma Crouch avrebbe continuato a importunare la mia famiglia, il Ministero avrebbe inseguito mio fratello, la mamma avrebbe pianto. Strinsi i pugni, mentre con la coda dell'occhio scorgevo attaccato al muro l'ennesimo volantino con la faccia di mio fratello, ricercato per omicidio: ecco perché mio padre aveva deviato all'ultimo dalla direzione intrapresa, non voleva che Meissa ci passasse vicino e lo vedesse. Quei pensieri mi toglievano il respiro e mi facevano crescere dentro una rabbia feroce, soprattutto perché non potevo farci nulla, anzi… una parte di me aveva ancora tanta, troppa paura di quanto stava accadendo, desiderava solo fuggire lontano, nascondersi, non pensare a niente, proprio come fossi ancora un bambino, anzi no... Come fossi un vigliacco.
  
    E tu preferiresti morire che essere considerato un vigliacco, vero Rigel? (2)

    “Rigel, dai, gli Emerson si trovano nel terzo vagone, laggiù!”

Tentai di contenere di nuovo quei pensieri e accelerai il passo, turbato, fino quasi a raggiungere Meissa, stretta alla mano destra di papà: avanzammo rapidi, intabarrati nei nostri mantelli con i cappucci calati a nasconderci i volti; Doimòs ci aveva preceduti, portando i nostri pochi bagagli fino allo scompartimento e già tornava indietro, pronto a ricevere altri ordini. Eravamo arrivati tardi di proposito, lo sapevo, papà non voleva fermarsi a parlare con nessuno, nemmeno con Orion, immaginavo non volesse che assistessimo ancora a certe reazioni, allo stupore e alla preoccupazione di chi ci conosceva e ci rispettava, all'odio di chi credeva alle assurdità di cui eravamo accusati, all'irrisione di chi attendeva, da anni, solo di vederci cadere. Ero grato a nostro padre per averci evitato tutto questo, almeno finché gli era stato possibile: a scuola sarebbe stato tutto diverso, mia sorella ed io avremmo dovuto fronteggiare la nostra dose di situazioni spiacevoli, era inevitabile, e non era difficile immaginare che il peggio non ci sarebbe toccato incrociando i Gryffindors nei corridoi, ma nei sotterranei, con i nostri “amici”. Il sospetto che Mirzam si fosse macchiato dell'omicidio del Ministro lo rendeva agli occhi di molti un eroe, ma altri credevano che l’avesse fatto in nome del Signore Oscuro e in disaccordo con nostro padre, ovvero che fosse in atto una sfida della Confraternita al Lord stesso. C'era insomma il rischio che tra gli Slytherins fossimo trattati da traditori, anche perché già prima degli eventi di Yule molti dubitavano dei nostri atteggiamenti “aperti”; per non parlare, poi, della possibilità che i nostri “amici” delle altre Case si allontanassero da noi, spaventati dalle dicerie. Nella mia ingenuità di ragazzino, fatta di bianco e di nero, di buoni e di cattivi, non mi era facile immaginare questi scenari, ma mio padre mi aveva ricordato cosa mi era successo negli spogliatoi dopo la partita con i Gryffindors e mi aveva spiegato che la guerra non guarda in faccia nessuno: anche gli innocenti, indipendentemente dalle loro idee e dalle loro azioni, si ritrovano coinvolti, vedono le proprie amicizie travolte, sono giudicati non per se stessi, ma per le idee del gruppo cui appartengono, perché non esiste più logica e ricordo, ma solo paura e irrazionalità. A quella possibilità, reagivo con freddezza: se un “amico” mi avesse giudicato per i pregiudizi su “quelli come me”, senza riconoscere le mie differenze come persona, non aveva senso considerarlo “amico”, e non mi sarei dispiaciuto troppo se avessi perso i contatti con soggetti simili. Quando avevo quei pensieri, immancabilmente il volto di Rabastan Lestrange si materializzava nella mia mente e un senso di cupa oppressione sembrava togliermi il respiro. Più di tutto, però, mi preoccupava Meissa, ne temevo le reazioni, perché avrebbe dovuto crescere nella menzogna, credendo nostro fratello un seguace di Milord: speravo che non si lasciasse condizionare al punto da trasformare il suo amore per Mirzam in disprezzo, o peggio ancora, che non aderisse a sua volta a certe orride convinzioni, solo per il desiderio di compiacerlo. Se qualcuno mi avesse detto, appena poche settimane prima, che mi sarei trovato in una situazione simile, a fare certi pensieri e certe considerazioni sui miei fratelli, ne avrei riso e avrei detto “Farei di tutto per spezzare io stesso il legame tra quella stupida e quel pallone gonfiato!” Avevo sempre mal sopportato il loro rapporto, li disprezzavo e li prendevo in giro, ma in realtà soffrivo perché mi sentivo escluso dalla loro complicità... ne ero... sì, lo sapevo... geloso... (1) Sognavo di diventare un giorno come Mirzam, forte nel Quidditch come lui, ma per mio fratello, nonostante facessi di tutto per mettermi in luce, sembrava sempre che io non esistessi, mi trattava da bambino, da stupido, invece di passare il tempo a insegnarmi quello che sapeva, mi riprendeva e mi umiliava, per compiacere quella smorfiosa di Meissa, o per stupido divertimento. Così, a mia volta, lo ignoravo o lo insultavo per le sue idee, cercavo di farlo arrabbiare e quello che nasceva come un tentativo di avvicinamento, finiva col trasformarsi sempre in rissa. E ora, di colpo...
Anche se avevo promesso che avrei mantenuto il segreto, per proteggere tutta la famiglia, mi sconvolgeva pensare alle conseguenze del mio giuramento: mi ero svegliato spesso, in piena notte, madido di sudore, perché nei miei incubi, nonostante la Magia, non riuscivo ad assistere senza intervenire, a mostrarmi indifferente, a mentire e rinnegare mio fratello, ma urlavo la sua innocenza e quanto fossi fiero di lui, del suo coraggio nell'assumersi tanti rischi, solo per proteggerci. O mi ritrovavo a pregare che tornasse, che gli dei mi concedessero un'occasione per dirgli...

    Cosa Rigel? Cosa vorresti dirmi?
(2)

Mi sentivo spesso la sua voce irridente nella testa ma non riuscivo a darmi delle risposte.  Forse, il giorno che l’avessi avuto di nuovo di fronte... forse... forse l'avrei preso a pugni... Sì, ci saremmo davvero presi a pugni, quel giorno, ed io mi sarei sfogato, fino a svenire, per non sentirmi più spezzato, stretto tra catene che mi facevano impazzire e mi tenevano prigioniero...  Doveva sapere quanto avessi bisogno di lui... cosa pensassi davvero di lui...
Mio padre era giunto al vagone, si voltò di nuovo per esortarmi, Meissa mi tirava per la manica, spazientita, non vedeva l'ora di mettersi alla ricerca del suo principe Black, non sapeva che le avrei dovuto rovinare la festa, tanto per cambiare: la mamma, rimasta a Doire con i bambini, era stata categorica, non dovevo perderla di vista per nessun motivo, non dovevamo muoverci dallo scompartimento nessuno dei due, ma restare con gli Emerson per tutto il viaggio, lontani dagli altri. Non la trovavo una cattiva idea: William mi piaceva, sotto quell'apparenza di ragazzino educato e rispettoso si celava un animo curioso e un pò folle, per questo era uno dei miei amici più cari, su di lui contavo molto, ero sicuro che non avrebbe cambiato idea sulla nostra amicizia per gli ultimi avvenimenti, lui non era come i miei compagni Slytherins, tendeva a ragionare con la sua testa e ad avere idee stravaganti come le mie, potevo rilassarmi e farmi sfuggire delle battute dissacranti sui riti del Nord o su Salazar, o sul futuro che avrei voluto per quelli come noi, senza paura che mi desse del pazzo, del visionario o del traditore. Inoltre, in quei giorni bui, suo padre era stato una presenza costante e preziosa, e secondo me l’unica possibilità di uscire dal baratro in cui eravamo sprofondati, era ripartire da quelle poche persone che avevano dimostrato di meritare la nostra fiducia: Kenneth Emerson era una di queste. Meissa aveva già superato i primi due gradini in velocità quando rischiò di scivolare sull'ultimo, feci per sorreggerla, ma papà mi anticipò: lo osservai scambiare con lei uno dei loro sguardi, uno di quelli capaci di riscaldare il cuore, vidi le lentiggini di mia sorella, all'inizio immalinconita e triste, illuminarsi e rapida recuperare un timido sorriso, scoccargli un bacio sulla guancia, infine immergersi un po' più fiduciosa ed entusiasta nella penombra ovattata del vagone. Il treno fischiò ancora ed io rabbrividii anche di più: dovevo chiudere certi pensieri in un angolo e lasciarli lì, preoccuparmi solo della scuola, del Quidditch, degli amici, immergermi nel mio mondo, confidando che al nostro ritorno le cose sarebbero state diverse. Migliori. Passai accanto a mio padre, fissando la terra per non guardarlo, pronto a salire i tre gradini sotto il suo sguardo attento; all'improvviso sentii la sua mano forte e protettiva sulla mia spalla, alzai gli occhi su di lui e incrociai i suoi, un po' nascosti dal cappuccio del mantello calato sul volto. Era pallido e anche se i Medimaghi sostenevano che si era ripreso, a me sembrava piuttosto sofferente; sul suo volto, però, mi parve aleggiasse anche una ferma determinazione: non sapevo cosa fosse successo, quando aveva seguito il padre di Evan nello studiolo dei Black, se fosse una novità positiva, o foriera di altri dispiaceri, evidentemente, però, aveva preso una qualche decisione. Conoscendolo, più della malattia e degli eventi, ciò che l'aveva provato in quelle settimane era stato il dover assistere inerme a quanto accadeva a tutti noi, non essere riuscito a prevederlo e a proteggerci: aveva perduto il controllo della situazione e, con esso, alcune delle sue solide certezze.

    “Voglio sapere costantemente come stai e cosa succede, intesi? Ti ho insegnato a usare il fuoco per parlarmi direttamente, ma fai attenzione a non farti vedere, non tutti capirebbero...”
    “Terrò d'occhio Meissa per te, e riferirò, non ti preoccupare!”

Lo dissi con una lieve nota sarcastica, per apparire distante, ma non si lasciò ingannare. Sfuggii un'altra volta il suo sguardo insistente, ero in imbarazzo per quello che era successo tra noi, per le parole che c’eravamo detti, per le lacrime che non ero riuscito a trattenere, e ora la sua stretta sulla mia spalla era di nuovo così possessiva, la voce così convincente, sicura, che rischiavo di perdere il controllo di me. Era lì, a un passo, sarebbe bastato che tendessi la mano, che mi sporgessi di pochi centimetri, e sarei stato accolto nel suo abbraccio: non era una soluzione al male che sentivo dentro, lo sapevo, ma la sicurezza del suo calore era già stata capace di infondermi un minimo di fiducia, ed io avevo bisogno di credere che ce l'avremmo fatta, che prima o poi saremmo usciti da quell'incubo.

    “... no, davvero... avrò cura di entrambi... e ti chiamerò se avremo bisogno di te... ”

Gli strinsi la mano, esitai ancora un attimo, lo guardai, poi mi voltai, senza abbracciarlo: non ero più arrabbiato con lui, mi aveva promesso che avrebbe fatto di tutto per Mirzam, ma io non ero più un bambino, tanto meno un vigliacco...  

    E più di ogni cosa, non vuoi che io o nostro padre ti consideriamo un debole...
(2)

Ripensavo spesso a quanto era accaduto al braciere, alla paura di morire che avevo provato, a come il Mangiamorte mi avesse aperto gli occhi, su me stesso e sulle mie idee... Sospirai e m'immersi a mia volta nel tepore e nel giocoso vociare del treno: gli occhi di mio padre, lo sentivo, restarono fissi sulla mia schiena, poi seguirono la mia figura attraverso il corridoio e i finestrini, mentre l'espresso per Hogwarts, alla fine, si metteva in marcia. Non guardai fuori, non c'era bisogno: mio padre sarebbe rimasto lì, fino all'ultimo, fino a veder sparire la sagoma del treno, inghiottita nel turbinio dei fiocchi di neve. Anche se lontani, anche se su strade oscure, sarebbe stato sempre al nostro fianco.

    Al fianco di ognuno di noi(2)


***

Remus Lupin
King's Cross, Londra - lun. 3 gennaio 1972

    “Non posso credere che tu l'abbia fatto, James! Non hai nemmeno messo piede sul treno e...”
    “Che cosa avrei dovuto fare secondo te? Era lì, con quel suo solito ghigno da gufo, mentre mi rialzavo... È stato lui, ti dico! E per quanto mi riguarda... se l'è cercata!”
    “Non hai le prove che sia stato lui e non qualcun altro...  magari sei solo inciampato!”
    “Io non inciampo!”
    “Tutte scuse! Ce l'hai con lui per un solo motivo e sai benissimo di “chi” sto parlando...”
    “Non è vero! È lui che provoca me, ogni volta che mi vede! Io nemmeno lo considero!”

Tornai a guardare fuori, facendo NO con la testa, mentre James si sistemava il bavero del cappotto fissandomi in cagnesco e Peter cercava di far da paciere offrendoci le sue Cioccorane. Era successo tutto all'improvviso, come un temporale che spezza di colpo l'afa estiva. Era bastato che s’incrociassero, che si guardassero e le Fatture erano volate da un capo all'altro del vagone, provocando in pochi secondi l'inevitabile. Al contrario di James, io non ero per niente convinto che fosse caduto per un dispetto, anzi, Potter era così tra le nuvole a volte... però era vero che, dal loro primo incontro, proprio su quel treno, appena pochi mesi prima, ogni volta che quei due si erano trovati a meno di cinque metri l'uno dall'altro, accadevano le cose più impensate. E le conseguenze erano sempre le stesse. Soprattutto se c'era anche “quella rossa” di mezzo. E quando James Potter incrociava Severus Snape, “Evans la rossa” era sempre di mezzo.
All'inizio non mi ero accorto di nulla, stavo fingendo di leggere un libro, tutto preso dalle mie riflessioni sulla luna piena di pochi giorni prima; il 31 Dicembre non era stato giorno di festa per me, e in generale era stato un giorno orribile per molti e per tanti motivi: il vecchio anno era finito, infatti, con l'assassinio del Ministro Longbottom e branchi di Lupi Mannari avevano attaccato alcuni villaggi dello Wiltshire e del Galles, gettando nel terrore tutta la Comunità Magica. Il livello di preoccupazione, in quei giorni, era salita al punto che molti non si fidavano a rispedire i figli a scuola, ma il Preside Dumbledore, in un'intervista al Daily Prophet, era stato chiaro, "Non c'è luogo più sicuro di Hogwarts per i ragazzi", e per rassicurare tutti aveva sollecitato Bartemious Crouch affinché l'Espresso fosse scortato da alcuni Aurors fino a Hogsmeade. Aveva inoltre affidato la sicurezza degli studenti non solo, come sempre, ai Prefetti e ai Capocasa, ma anche all'esperienza di alcuni professori: quella mattina, perciò, ad accompagnarci c'erano la McGonagall, Pascal e Vitious, oltre al solito Slughorn, abituato a viaggiare in treno, per dar vita a un incontro del suo SlugClub già prima di rimettere piede nel castello. Mentre riflettevo sui commenti di mio padre, che trovava strano che l'omicidio del Ministro non fosse stato accompagnato dal teschio verde rilucente in cielo, l'ormai tristemente noto marchio con cui gli adepti del Signore Oscuro firmavano i loro omicidi, Peter era rientrato trafelato nel nostro scompartimento urlando “Stanno per picchiarsi! James è caduto... Stanno per picchiarsi!”. Ero subito saltato in piedi, avevo abbandonato il libro di Incantesimi sul sedile ed ero uscito di corsa con lui, sperando di poter fare qualcosa per impedire l'ennesima catastrofe, ma quando li avevamo raggiunti, muovendoci a fatica in mezzo agli altri ragazzini già accalcati ed esaltati dalla rissa, se le stavano dando di santa ragione, rotolandosi a terra, nel passaggio stretto del corridoio. Anche la McGonagall era arrivata... due secondi prima che riuscissimo a separarli. Non sapevo se ridere o piangere, James era incorreggibile: non avevamo nemmeno lasciato il binario e già Potter aveva rimediato la prima punizione del nuovo anno, per una settimana sarebbe stato a disposizione di Mastro Filch, di sicuro avrebbe dovuto sistemare gli ammuffiti archivi polverosi dell'arcigno custode.
Il treno fischiò, poi, finalmente, ci mettemmo in marcia. Mi sembrava una vita che fossi lì, in attesa, forse perché mia madre mi aveva portato in stazione molto presto, molto prima degli altri, non voleva incontrare nessuno, tanto meno parlarci: da quando “era successo”, aveva paura degli sguardi e delle domande della gente, aveva paura di leggere negli occhi del prossimo una forma di biasimo per il mio aspetto malato... O forse... forse temeva di non riuscire a trattenere oltre il dolore, di non riuscire a tenerlo più segreto nel suo cuore, di cedere e spazzare via le menzogne che lei e mio padre mi avevano cucito addosso, per anni, rivelando infine quello che mi era davvero successo, quello che ero diventato. Da quando ero stato morso, non solo la mia vita, ma quella di tutta la mia famiglia era cambiata, per tutti noi i giorni erano ormai fatti soltanto di paura, vergogna, solitudine e dolore. Finché quel giorno, il giorno in cui il preside Dumbledore era venuto a casa nostra per parlare alla mia famiglia del mio futuro... (1)
Ripensai con un brivido a quel pomeriggio uggioso, la primavera precedente, il giorno del mio undicesimo compleanno: appena avevano sentito bussare alla porta, i miei mi avevano mandato in camera mia, ma io, cosa insolita per me, non avevo ubbidito, ero rimasto nel corridoio, protetto dalla penombra, a osservare quell'uomo anziano, sembrava quasi un centenario, con la barba lunga e maestosa, del tutto bianca, eppure carico di un’energia incredibile. Avevo sentito quell'energia quando i suoi occhi profondi e celesti, furtivi, mi avevano intravisto dietro la porta e si erano soffermati su di me, a lungo, senza tradire la mia presenza, scrutandomi senza la pietà cui ero abituato, ma con curiosità, forse persino con simpatia. Avevo distolto gli occhi da quell'uomo solo quando mia madre era scoppiata in lacrime: appena il vecchio le aveva spiegato il motivo della visita, aveva iniziato a far No con la testa, come chi non vuol sentire, aveva iniziato a balbettare che non era possibile, che io non potevo fare nulla del genere, che io non potevo uscire da quella casa. Mio padre, da parte sua, era rimasto in silenzio, come sempre, annichilito da quel senso di colpa che gli mozzava la voce e gli faceva trascinare i piedi a terra come un vecchio. Avevo iniziato a tremare quasi senza accorgermene, mille pensieri si agitavano in me, contrastanti, avevo ascoltato quelle parole cariche di speranza e nel mio cuore si era acceso di nuovo il desiderio di andare a scuola, vedere altri bambini come me, giocare con loro, imparare tutte quelle cose di cui i miei mi avevano parlato quando ero più piccolo...  Poi avevano smesso... Sarebbe stato bellissimo se davvero io avessi potuto... Se solo avessi potuto...

    “Io non sono più come gli altri...”

Me lo ripetevo sempre. Come potevo pensare di vivere in mezzo agli altri se, con le lacrime agli occhi, persino mia madre, impaurita, era costretta a chiudermi in cantina una volta al mese? A volte, doveva persino mettermi delle catene, per impedire che mi ferissi, poi mi lasciava lì, da solo, sconvolta dalla paura e dalla disperazione, dal desiderio di fare qualcosa per me, qualcosa d’impossibile, eppure spaventata dal mostro che stavo per diventare... Tremai al pensiero di quello che mi succedeva dopo... La paura... Il desiderio di non restare solo. Il dolore. Dopo... Un’interminabile notte dopo, al mattino, con il viso ancor più devastato dalla disperazione, mia madre scendeva a liberarmi, mi curava le ferite, per ore, restando tutto il tempo in silenzio, un silenzio fatto di sofferenza e vergogna, d’impotenza e senso di colpa: io la guardavo, sempre di sottecchi, e dai suoi occhi spenti alla fine avevo capito che ogni ferita che portavo sulla pelle, le si incideva a fondo nel cuore, come una piaga infuocata e infetta. I primi tempi, per un po', l'avevo scongiurata di restare con me, di aiutarmi, di non abbandonarmi, lì, da solo, al buio, poi, luna dopo luna, avevo capito che non ero forte abbastanza da frenare la belva nascosta dentro di me, nemmeno in nome di tutto l'amore che provavo per lei. Sarei stato un pericolo anche per lei, per lei che mi aveva messo al mondo. Ero destinato a trasformarmi in un mostro anche con la mia mamma. Ero maledetto.
   
   "Posso garantirvi la sua sicurezza e quella degli altri ospiti del castello... Dovremo soltanto agire in segreto, perché possa restare tra noi senza dicerie e problemi, fino al termine dei suoi studi: ne saranno a conoscenza solo i membri del mio staff, della cui collaborazione mi servirò per approntare quanto sarà necessario al ragazzo. Ve lo assicuro, non dovrete preoccuparvi, mi prenderò cura personalmente di vostro figlio! Diamogli una possibilità di vivere come tutti gli altri!”

Questo aveva detto quell'uomo dalla lunga barba bianca e l'aspetto di un centenario: il preside della famosa scuola di Hogwarts, aveva di colpo aperto una breccia di dubbio e di speranza, di nuovo, dentro di me, con le sue parole cariche di promesse e prospettive, ai miei occhi era diventato subito l'incarnazione dei miei sogni segreti, la possibilità che esistesse, anche per uno come me, un maledetto come me, un destino diverso, qualcosa di più di una vita fatta solo di paura e dolore. Quella non doveva essere la mia unica realtà, non potevo essere nato solo per soffrire! Mio padre era rimasto a lungo in silenzio, come ogni volta che si trattava di prendere delle decisioni sul mio futuro, si era passato la mano sul volto, soffermandosi sulla barba prematuramente ingrigita, aveva preso tra le sue le mani della mamma, infine si era schiarito la voce, aveva alzato appena gli occhi castani su quelli celesti del vecchio preside, aveva annuito e in un sussurro aveva detto soltanto “D'accordo...”. Da quel momento, la mia vita si era velocizzata e arricchita, le mie giornate vuote, tutte uguali, si erano riempite di entusiasmo e speranza, che si alternavano sempre di più alla paura di non farcela, quando mi scontravo con la realtà della luna piena. Ultimamente, però, sembrava che il plenilunio mi facesse più male: non erano solo le ferite a essere inferte con forza maggiore, quello me lo aspettavo, visto che stavo crescendo; era anche il pensiero di quei bambini innocenti, a come io, un mostro, un pericolo, mi sarei mossi di nascosto tra loro... Apparentemente innocuo, proprio come chi mi aveva aggredito. Tremai.
Quella mattina, svegliandomi, pensando a James, Sirius, Peter, a cosa avevano fatto i Mannari nel Galles e a quanto era stata violenta la luna su di me, avevo pensato di non partire, però alla fine non avevo trovato la forza per chiedere a mia madre di farmi restare a casa. Eravamo arrivati presto, il treno si era appena arrestato, sbuffando, dopo il lungo viaggio notturno che da Hogsmeade l'aveva riportato a Londra: la mamma mi aveva fatto le ultime raccomandazioni, mi aveva stretto la sciarpa pesante con cura attorno al collo e mi aveva pettinato con le dita, soffermandosi in una carezza sulle mie guance, poi mi aveva fatto salire, aiutandomi a sistemare i bagagli, perché ero troppo debole per farlo da solo. Alla fine, prossima alle lacrime come me, mi aveva affidato alle cure della “Signora dei Dolcetti”: era gentile, mi aveva guardato ma non si era soffermata troppo sui miei graffi, non mi aveva ammorbato di pietà o curiosità come pressoché tutti, mi aveva invece sorriso, aveva aperto un cassettino del carrello, ne aveva estratto un grosso involto fatto di carta dorata e me l’aveva offerto, dicendomi che  “Il cioccolato è una medicina potente, che cura ogni dolore dell'anima...” Anch’io le avevo sorriso, il primo sorriso di quella mattina, avevo spezzato il cioccolato in quattro pezzi e avevo addentato uno spigoletto del mio, pensando ai miei amici, alle chiacchierate che avremmo fatto nel dormitorio, al calduccio dei nostri baldacchini: d'improvviso mi ero ricordato quanto fosse bello tornare a scuola, bello perché quando James e Sirius e Peter mi coinvolgevano in qualcuna delle loro sconclusionate trovate, anche se ci mettevamo nei guai, riuscivo sempre a dimenticare, per un po', a non pensare a cosa fossi, a illudermi di essere come tutti gli altri. Il primo ad arrivare, interrompendo le mie altalenanti considerazioni, era stato proprio Peter, che si portava dietro l'odore inconfondibile delle ciambelle di sua madre: spesso gliene spediva e noi le sbafavamo nella nostra stanza, in piena notte, raccontandoci truci storie di fantasmi e vampiri; di solito Peter si spaventava a morte e finiva col rifugiarsi sotto le coperte per non sentire, poi però usciva fuori, con il musetto smunto, simile a quello di un topino che occhieggia un pezzo di formaggio dalla tana, e tornava a ridere con noi, raccontandoci a sua volta una sua storia.
Smisi di guardare fuori dal finestrino e di pensare a cos’era successo fino a quel momento, mi voltai e notai che come sempre Peter lanciava sguardi incerti a me e a James, un po' smarrito, allora gli sorrisi per fargli capire, se ce ne fosse stato bisogno, che mi era mancato. In quei giorni “di festa” mi erano mancati tutti i miei amici. James, risoluto, stava in piedi, dritto come una sentinella, sulla porta, guardando a sinistra e a destra e battendo il ritmo dei suoi pensieri con dei lievi calci, assestati contro lo stipite metallico.

    “Basta così, ormai abbiamo atteso a sufficienza, il treno è pure partito… è arrivato il momento di cercare quel damerino... andiamo a scoprire dove si è nascosto...”
    “Basta che non trovi qualche altro Slytherin con cui azzuffarti!”
    “Per amor di quella precisione che tanto ami, Lupin, sappi che io non mi azzuffo, al limite, da bravo Griffyndor, cerco di dare il giusto a chi se lo merita, e gli Slytherins se le meritano! Tutti!”
    “In realtà, poco fa, se non fosse stato per la McGonagall, a prenderle saresti stato tu...”

James si voltò e fissò tutto offeso Peter, il quale, come al solito, dopo aver detto la verità, aveva subito abbassato gli occhi per fissarsi impaurito la punta delle scarpe.

    “Non le stavo prendendo, chairo? Ero sotto, ma solo perché loro erano in due ed io da solo!”
    “Lei? Che c'entra lei? È solo una ragazza! E non ti ha fatto proprio niente...”
    “Ti sbagli, Peter... lei... appunto... lei è una ragazza ed io sono un cavaliere, sono un Griffyndor, non una serpe sleale come quello là... non potevo certo rispondere ai suoi incantesimi!”
    “Lily non ti ha lanciato alcun incantesimo, James, sei tu che eri, come al solito, così preso dai suoi verdi occhioni da cerbiatta da scordarti persino come si fa a difendersi... e Snape ne ha approfittato per saltarti addosso!”

James divenne rosso, anzi purpureo, bofonchiò qualcosa che non compresi sulla dolcezza dei cerbiatti, poi cambiò discorso, repentino, si guardò allo specchio e cercò di spianarsi i capelli, ancora arruffati per la zuffa, infine, come se nulla fosse, si affacciò dallo scompartimento, mettendosi sulle punte dei piedi, per cercare lSirius tra la folla accalcata lungo il corridoio.

    “State a vedere che “Sua Maestà “Toujours Pur”” è riuscito a perdere il treno!”

James distolse la nostra attenzione dai suoi problemi per rivolgerla, abile, su Sirius: Peter, pur timido, non riuscì a trattenere uno sbuffo divertito, era difficile anche per lui non ridere delle imitazioni e delle caricature che James faceva di Black, quando il nostro amico non si accorgeva. Una volta, alla lezione di Slughorn, mentre Sirius era interrogato, Potter aveva persino disegnato su uno spigolo della pergamena una specie di principino con la corona in testa e lo scettro in mano, che impartiva ordini a tutti, per non parlare di quando, nei corridoi, si metteva in coda alla fila, imitandone il passo da aristocratico o l'aria sognante con cui osservava Meissa Sherton. Anch’io ridevo di Sirius, dei suoi modi a volte un po' sopra le righe, ma quando lo osservavo immerso nei suoi pensieri, mi rendevo conto che, per essere un ragazzino che in teoria aveva proprio tutto, non aveva l'espressione soddisfatta e arrogante del rampollo viziato, anzi mi ero ormai convinto che non mentisse quando diceva di non essere per niente fiero di essere un Black. Mi resi conto che mi mancava: spesso era difficile averci a che fare, per quei suoi bruschi cambi di umore, per i suoi silenzi, o per certe risposte non sempre simpatiche, ma mi mancava. Soprattutto, ora che eravamo in treno, non riuscivo più a controllare la mia ansia e i miei timori, avevo già trovato strano che non avesse risposto nemmeno a una lettera, dopo che aveva insistito tanto perché ci scrivessimo tutti i giorni, durante le vacanze. Avevo paura che fosse successo qualcosa di brutto, che non scherzasse quando diceva che i suoi non avevano preso bene la storia del cravattino: temevo le loro reazioni, chissà che cosa gli avevano fatto: forse avevano deciso di toglierlo dalla scuola?

    “Qualcuno di voi ha avuto notizie di Sirius, durante le vacanze?”

La buttai lì, con noncuranza, senza guardarli, osservando anzi il paesaggio innevato che filava rapido fuori dai finestrini, speravo quasi di sentirmi dire che era solo a me che non aveva risposto, in fondo che se ne faceva di un'amicizia con me, un licantropo, malato e squattrinato, il rampollo, pur Griffyndor, di una delle più famose famiglie magiche della Gran Bretagna? Quando non ricevetti alcuna conferma nemmeno da loro, però, mi voltai e li fissai: Peter abbassò subito gli occhi, non sapendo cosa dire, James sostenne il mio sguardo, mettendosi sulla difensiva, come chi ha già intuito che la discussione sta per finire in modo spiacevole.

    “Io non ho saputo più nulla di lui, da quando siamo tornati. E tu Remus?”
    “Nemmeno io, Peter... James?”
    “Non possono averlo mandato a Durmstrang, vero? In caso ce lo manderanno a settembre, no? Ha iniziato a frequentare Hogwarts, non può sospendere per sei mesi... o perderà l'anno!”

Guardai Peter, con una morsa pesante che mi stringeva il petto: aveva espresso ad alta voce il sospetto che avevamo tutti, la paura che mi aveva preso quando, dopo tre lettere, non avevo ricevuto alcuna notizia di Sirius, di fatto sparito nel nulla dopo il nostro rientro a Londra. James ci fissò uno dopo l'altro, ancora più serio, le mani che si stringevano a pugno e l'espressione determinata, mentre un silenzio angosciato scendeva nello scompartimento.
   
    “Al massimo ha perso il treno, ne sono sicuro... so quello che dico, Remus! Ho visto uno dei suoi zii, uno dei pochi normali, penso, visto che pare sia un collega di mio padre... Quello lì, un certo Alphard mi pare, non ha accennato a nulla su trasferimenti o punizioni, mi ha anzi detto che Sirius gli ha parlato molto di noi... Per questo sono convinto che quel damerino abbia solo fatto tardi, o magari è in coda al treno, con la sua elegante, raffinata, schizzinosa cuginetta slytherin...”
    “Se fossi rimasto là, a quest'ora sarei morto... di noia... No, no... meglio seguire il treno a piedi in mezzo alla tormenta, che stare insieme alla coppietta dell'anno...”

Alle nostre spalle si levò, irridente, una voce inconfondibile, seguita da una sonora risata. Ci voltammo: fermo sulla porta, il cappotto scuro e i capelli in disordine di chi si è messo a correre per i corridoi del treno, Sirius Black era di fronte a noi, la faccia illuminata dall'inconfondibile sorriso malandrino. James fu il primo, a ruota anche Peter ed io ci lanciammo su di lui per avvolgerlo in un abbraccio soffocante, finché, prossimi ormai tutti e quattro all'asfissia, e rendendoci conto che qualcuno, passando per il corridoio, poteva vederci, ci staccammo, cercando di ricomporci, invano. Sirius ci fissò, ancora più divertito, poi, con la consueta faccia da schiaffi delle migliori occasioni, si guardò intorno e a sorpresa invece di deporre e sistemare le sue cose, fece il cenno di essere pronto ad andarsene di nuovo.

    “Che intendi fare adesso, per Merlino e tutti i Fondatori?”
    “Me ne vado... È stato un piacere conoscervi, Messeri… ma... il mio destino è dividere il mio viaggio con tre pessimi soggetti di mia conoscenza... pensavo fossero qui, ma qui ci siete solo voi... tre mammolette che frignano perché hanno perso il loro amichetto del cuore... Salazar, ragazzi... avreste dovuto sentirvi... al posto vostro imparerei a darmi un contegno, sapete?”
    “Che cosa? Ma sentite questo idiota! Noi eravamo preoccupati per lui e questo ci deride! Te la do io la mammoletta, Black, e anche una lezione di contegno, preparati a supplicare pietà! Ragazzi, voi tenetelo fermo!”

Al segnale di James, ridendo, gli fummo di nuovo addosso, Peter ed io lo prendemmo per le braccia e lo trascinammo dentro a fatica, James, furtivo, tirò le tende per nascondere la malandrinata in atto, poi si unì a noi, lanciandoglisi sopra, costringendolo sul sedile, deciso ad attuare feroci propositi di vendetta, a cominciare da una serrata sessione di solletico.

    “Potter, che… hai fatto?... SEI UNA BALENA! cos'è... ti sei strafogato di dolcetti? … ahahah... no dai... no... ... … Aiut... … NO... No... ahahahh.... noooooooo... ahahah... aiut... ahahahah... bastard... … NOOOOOOOO... ahahahahah.... bastaaaaaaaaa... … ahahahah... Ok, ok... … bast...ahahahah... ok... d'accordo... no dai... davvero... basta... basta... ahahahah… hai vinto tu... ahahaah... ahahahah.... NOOOOOOOO… mi … mi... mi siete mancati … … basta... dico davvero... ahahahah... smettila... ahahah… anche voi... lo giuro… ahahahahah.... davvero… ora basta, però... … basta... ahahahah… ”

James lo illuse di aver finito, poi si avventò ancora su di lui, io rischiai di perdere la presa, cercando di trattenermi dal ridere, osservando come Sirius si dimenava e cercava di sottrarsi con le lacrime agli occhi alla tortura sempre più insopportabile e temeva la seconda fase della vendetta.

    “Basta? Avete sentito la mammoletta? IO non ho nemmeno iniziato, con te, Black! Questo, per esempio, è per dirti quanto ho apprezzato quel TUO simpatico scherzetto di Natale ai miei capelli!”
    “No, dai... basta... no... no... nOOOOOOO... piet...”
   
    ...
    ...
    ...
  
Bofonchiando, Sirius riuscì a riemergere dalla nostra stretta solo molti minuti dopo, recuperando aria a fatica, scarmigliato e rosso come un peperone; un po' instabile sulle gambe saltò su e cercò di guardarsi allo specchio, incredulo si tastò il viso, si rimirò persino di profilo, noi intanto, accaldati, soffocando ormai a stento le risate, recuperammo i nostri posti sui sedili, ammirando a distanza Sirius Orion Black alle prese con il nostro capolavoro. A sorpresa, non si scompose, non fece osservazioni, né si lamentò, anzi, con un’espressione stranamente ispirata e seriosa, iniziò a parlare in modo strampalato, quasi fosse un antico bardo:

    “Messer James Charlus Potter da Godric's Hollow, in virtù dei poteri conferitimi da “Sua Signoria”, Lady Walburga Black, Somma Custode della Sacra Dignità Purosangue...”

Per alcuni secondi la sua voce si incrinò in un sbuffo divertito.

    “... v’insignisco del titolo di Gran Ciambellano del Venerabile “Contegno” Black, per l'esaustiva lezione appena impartita a tutti i presenti… Milady …”

Sirius iniziò a impostare la faccia e la figura secondo la gestualità tipica di sua madre e a camminare con passo cerimoniale dinanzi a noi, come si conviene a una Strega di alto lignaggio.

    “… si rammarica di non aver potuto presenziare, sarebbe stata “onorata” di assistere in prima persona… e magari... perchè no? partecipare anche alla dimostrazione pratica...”

Non riuscimmo a resistere oltre, né Sirius poté continuare, scoppiammo a ridere, tutti insieme, per l'irridente imitazione che Sirius stava facendo di sua madre, con quella espressione seria e composta che strideva come non mai con la coppia di giganteschi baffoni da gatto, al gusto di cioccolato, che orgogliosamente ornava la sua faccia... Simile a quelle che ornavano le nostre.


*continua*



NdA:
Comincio subito ringraziando per le letture, le preferenze, i commenti, sia coloro che hanno scoperto la storia nelle ultime settimane, sia i lettori “storici”.
Il capitolo è piuttosto introspettivo:, molti personaggi stanno "crescendo":
1a) Sirius inizia a dar evidenti segni di insofferenza verso sua madre e a capire che la sua felicità è lontana da casa Black, ormai Regulus è l'unico elemento che lo tiene legato al passato e permangono i dubbi e la relazione contrastata con suo padre, che qui un po' si ribella nei confronti della moglie. Il nostro futuro Felpato nota anche un'altra amara verità: i tanto odiati precetti dei Black gli sono ormai sotto pelle e per quanto lui voglia, non riesce a esserne immune... questo è un dettaglio che ricorrerà spesso: ho sentito spesso liquidare la “faccenda Sirius” con gli aggettivi “pazzo, viziato, bullo” ecc ecc, come se l'impatto della famiglia d'origine fosse soltanto fisico-genetico... Per me non occorre risalire ai matrimoni tra consanguinei e tirar fuori la pazzia: è un ragazzino, prossimo all'adolescenza, educato in un certo modo da una famiglia che non brilla per affettività, rifiutato per lo smistamento, che per la prima volta nella sua vita si trova a contatto con ragazzi che ammira, lontani anni luce da come è fatto lui e il suo mondo. Soprattutto ammira James, libero e amato, cresciuto senza l'obbligo della perfezione assoluta e apprezzato per se stesso, non per ciò che i genitori pretendono da lui...
1b) Questa parte relativa a Remus è stata scritta molto prima che la Rowling pubblicasse gli inediti su Lupin in Pottermore, pertanto i dettagli non sono coerenti con quanto oggi è noto. (2015)
1c) Rigel è un ragazzino orgoglioso e testardo, quando si sente rifiutato o svalutato, reagisce come fanno molti, con rabbia, indifferenza e freddezza... in breve si chiude e nega i suoi sentimenti, rimuove il pensiero di ciò che lo fa soffrire e in questo momento l'unico suo desiderio è non essere considerato debole da suo padre, avendo svelato fin troppo di se stesso mettendosi a piangere di fronte a lui, pieno di rabbia e frustrazione. 
2) Le parti in corsivo e grassetto sono le parole che Rigel sente in testa, con la voce di suo fratello Mirzam.
Non mi dilungo oltre. Un bacione e alla prossima!

Valeria



Scheda
Immagine
  
Leggi le 9 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: Terre_del_Nord