Helleborus
Capitolo
VIII
Vento
secondo vei
(navigare secondo il vento)
“Noé,
ATTENTO!” si udì gridare ad un tratto.
Qualcosa urtò con violenza lo scafo del gozzo, che
s’inclinò col rischio di cappottarsi. Vittorio fu
costretto a reggersi al banco di poppa, lo stesso sul quale si era
gettato Leone. Il corpo inerte del Gran Maestro scivolò fino
a prua, da dove Davide, invece, fece capolino in acqua.
Senza pensarci due volte, Leone si lanciò a soccorrere il
compagno e, sporgendosi dalla balaustra, lo afferrò
saldamente per un braccio. “Reggiti, idiota!”
gridò issandolo con una forza mostruosa nuovamente a bordo.
Tremando come non mai, Davide si accovacciò e si strinse le
braccia attorno al copro, piantando le unghie nella sua stessa carne.
Le labbra gli si erano improvvisamente gonfiate perdendo colore, gli
occhi, annegati nella paura, schizzavano fuori dalle orbite.
Vittorio si voltò, dimenticandosi dei compagni, e vide che
il timone era andato distrutto nell’impatto tra la poppa del
gozzo e la prua di una piccola barchetta. Di questa, le cime lascate
liberarono il boma, mandandolo fuori controllo. La vela trapezoidale
cominciò a sbattere, schioccando, mentre la pioggia le
scivolava magicamente addosso senza impregnarla.
“Francesco, per Dio! Perché ti sei
ferm…!”
Alzando lo sguardo, Vittorio incontrò gli occhi azzurri di
un ragazzo che si stava risollevando in quel momento dalla balaustra
del gozzo, fin dentro al quale l'aveva scaraventato il contraccolpo
violento. Ma il giovane non terminò la frase,
perché si rese conto di avere di fronte tutt’altra
persona.
“E voi chi diavolo siete?” domandò,
ritraendosi sorpreso.
Vittorio andò dritto al dunque: “Dovete aiutarci,
vi prego, abbiamo un ferito.”
Ci fu un lungo attimo d’esitazione, durante il quale quel
ragazzo sembrò valutare ogni ruga visibile sul volto di
Vittorio. Distogliendo lo sguardo dall’Assassino,
lanciò un’occhiata al corpo del Maestro; in fine
si adocchiò intorno, con l’aria di chi sta
cercando qualcosa.
Solo allora Vittorio notò un’imbarcazione gemella
ferma poco distante. Anche quello scafo era molto piccolo, con la
stessa forma di vela, e l’Assassino capì che era
stato il suo passeggero a cacciare quel grido di avvertimento un
istante prima dell’incidente. “Noé, sei
vivo?” gridò costui dal lontano.
Il ragazzo parve ignorarlo, continuando a cercare laborioso intorno a
sé. Quando l’ebbe trovato, strizzò e si
rimise il berretto in testa; dopodiché si gettò
ad afferrare saldamente la balaustra del vecchio gozzo. “Cosa
avete detto che vi serve?” chiese calcolando i danni al
timone.
Fu con un immensa gioia che Vittorio gustò la sua voce
giovane e il tono disponibile. “Un medico,” rispose.
“Ne conosco uno che sarebbe entusiasta di sapere chi
è il suo paziente, prima di visitarlo.” Inutile
negare che di quei tempi la prudenza non era mai troppa.
Vittorio scrutò l’individuo che aveva di fronte,
studiandolo come il ragazzo aveva fatto poco prima con lui.
“Forestieri, ma soprattutto uomini liberi derisi dal
destino,” disse pesando le parole.
Il giovane lo squadrò a lungo. “Quanti?”
Riusciva a guardare Vittorio in faccia, sotto al cappuccio, ma non a
contare con esattezza la gente sul gozzo assieme a lui, oltre al
ferito.
“Cin…” iniziò Vittorio, ma
s’interruppe scuotendo la testa e guardando a terra. Quella
domanda, così freddamente posta, fu una nuova pugnalata
nello stomaco per l’abbandono di Adriano.
“Quattro,” si corresse.
“Mi spiace, ma se avete fretta, il mio amico ed io possiamo
portare solo due persone, e se una di queste dev’essere
lui…” sembrava realmente dispiaciuto mentre
guardava il Gran Maestro e annotava le sue condizioni.
Vittorio si voltò. “Davide,
andrai…”
Prima di concludere, ricordando la gamba indolenzita e vedendolo
bagnato e tremolante, Vittorio capì che non sarebbe riuscito
a farlo alzare di lì neanche con un piede di porco.
“Va’ tu, Vittorio,” s’intromise
Leone, a sorpresa. “Se venisse il momento, saresti tu il
più degno tra noi di essergli a fianco.”
Le sue erano state parole di un profondo pentimento e un radicato
rispetto, uscite dal cuore, che Vittorio non poté rinnegare.
Leone era tornato tra loro.
Il giovane barcaiolo annuì e spostò
l’attenzione sull’altra vela gemella.
“Francesco! Portati di bolina e parcheggia il tuo culo secco
accanto ai signori!” ordinò all’amico.
“Mais
certainement, mon capitan!” rispose quello
riprendendo velocità e preparandosi alla manovra.
“Voi!” il ragazzo richiamò
l’attenzione di Davide e Leone. “Mi dispiace per il
vostro timone, lo aggiusterò personalmente. Ma per adesso,
Se non preferite passare la notte qui, dovrete seguirci verso la costa
remando; nel caso ci perdeste, tenete questa. Sapete usarla?”
domandò allungandosi per porgere allo stratega un oggettino
rotondo estratto dalla fasciatura sulla vita.
Davide lo riconobbe subito e lo assicurò in una bisaccia,
stirando un sorriso poco convinto quando il ragazzo gli diede qualche
indicazione sulla destinazione.
“Vittorio…” lo strega cercò
il suo sguardo, ma il mastro arciere era già affaccendato
tra le bisacce.
“Prepariamoci.”
Leone lanciò un’occhiata oltre il parapetto,
annotò le due barchette entrambe assicurate al gozzo, ma non
riuscì a sorridere mentre divideva, assieme a Vittorio, le
bisacce e le armi dal Gran Maestro e le scorte mediche. Tutta la
faccenda ancora non lo convinceva, e tutta quell’improvvisa
ospitalità era sospetta. Per acquietare il proprio animo
indagatore, si disse che in ogni caso aveva già unito la sua
alla condanna dei suoi compagni tempo addietro, nel giorno della loro
iniziazione.
Il mastro arciere e Golia
trasportarono il corpo di Ezio sulla barchetta di Francesco,
adagiandolo sul fondo dello scafo tra le reti e le funi, ma in modo da
non intralciare i percorsi di quest’ultime. A trasloco
completato, la prima barchetta prese il vento e partì.
“Il vostro nome,” chiese Vittorio incontrando per
la seconda volta lo sguardo del giovane, poco prima che questi si
sistemasse al timone della seconda barchetta.
Quello sorrise e gli porse la mano. “Emanuele, Emanuele
Graziato Serraioli. Per servirvi.”
L’assassino accettò la presa e si
lasciò aiutare a salire in barca.
Davide e Leone seguirono le vele fin quando poterono, ma dovettero
arrendersi e cambiare strategia quando queste scomparvero del tutto
inghiottite dalla notte, come il pescatore aveva previsto.
“Tiralo fuori.”
Davide sobbalzò, arrossendo.
“Idiota! L’affare che ti ha dato quel ragazzo, o
come si chiama,” sbottò Leone, esasperato.
“Dai, tiralo fuori!” Diede un ultimo colpo di remi,
poi si fermò ad aspettare che Davide facesse il richiesto.
Lo stratega lo fulminò con un’occhiataccia.
“È una bussola,”
sottolineò, disprezzando l’ignoranza di
quell’uomo ancora una volta. “E continua a
remare,” aggiunse dopo aver dato una breve sbirciata,
“è la direzione giusta.” Rimise in tasca
l’oggetto e non ne volle più sapere.
Leone sbuffò. “Ti pesa tanto tenertela in
mano?” Col timone ridotto a brandelli aumentava il rischio
che il gozzo scarrocciasse e andasse fuori rotta, perciò
sarebbe tornato utile che Davide avesse la bussola sotto agli occhi; ma
il ragazzo si era rifiutato con tutto se stesso anche solo di toccarla.
“Perché?” domandò Leone,
laconico, continuando a remare come se in realtà non gli
importasse.
Davide abbassò la testa, poggiando il mento sul petto.
“Non ti riguarda, e non è né il momento
né il posto per fare conversazione,” concluse
starnutendo.
“Tuo padre ti picchiava da piccolo con una
bussola?” ammiccò l’altro.
Davide serrò i pugni. “Se anche
fosse?”
Leone scoppiò in una fragorosa risata.
“Non mi ha picchiato con una bussola, ma è stata
l’unica cosa che ha lasciato a me e mia madre prima di
sposarsi un’altra.”
Leone inarcò un sopracciglio. “… una
bussola.”
“Sì, una bussola!” Davide
scattò in piedi gridando, e il gozzo ondeggiò.
“Una maledettissima, fottutissima, squallidissima,
inutilissima bussola! Disse che aveva un valore di pochi ducati, ma che
avrei potuto utilizzarla per trovare le donne facili con cui andare a
letto una volta e mai più, come lui aveva fatto con mia
madre.”
Leone tacque. Era una storia assurda, alla quale poteva dare peso solo
un deficiente come Davide.
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« ! El
capitán, por amor de Dios! Las antorchas
están agotando ! » (1)
“Fate tacere quel figlio di buona donna,” fu
l’ordine secco dell’uomo in testa al convoglio.
Alla guardia spagnola venne aperta la gola e il suo corpo inerte
scivolò giù dalla sella, fino a terra, dove si
riversò con lui anche la sua torcia, che, a contatto con la
terra bagnata, si spense all’istante.
Il drappello rimase al buio nel giro di pochi minuti, ma
l’ultimo lume a cadere fu proprio quello del Capitano, che se
ne liberò gettandolo in un cespuglio. Dopodiché
la foresta inghiottì le loro ombre, mentre gli unici suoni
che tradivano la loro presenza erano gli zoccoli dei cavalli sul
selciato umido e i tintinnii di staffe, armi e armature.
Cercare di proseguire oltre fu del tutto inutile. Giravano su loro
stessi, lo sapeva. Ma sapeva soprattutto cosa avrebbe raccontato a
Cesare quando entrambi, servo e padrone, fossero rientrati a Roma: uno
scontro aperto, un’imboscata, magari; dopotutto non era
fantasia troppo grande testimoniare qualche gruppo ribelle sul lago di
Bracciano. Un’unica bugia avrebbe coperto sia il fallimento,
sia l’omicidio di tutte le guardie spagnole che erano partite
con lui quella notte. Il Capitano ne aveva ordinato le esecuzioni una
dopo l’altra per i motivi più stupidi.
L’ultimo giustiziato, c’era da ammetterlo, aveva
benevolmente cercato di distoglierlo dalla missione e riportarlo sulla
strada di casa. Prima di morire si era lamentato coloritamente della
fame, del freddo, del buio e delle zanzare; ma il Capitano si rese
conto che sulla storia delle torce avrebbe dovuto prenderlo sul serio.
Fece per dare l’ordine di richiamare i cani, ma si
ricordò di aver fatto ammazzare anche gli unici ad avere la
loro fiducia. “Stupidi mastini
spagnoli…” borbottò voltando il cavallo
con un colpo di talloni e una tirata di redini. “Ci
ritiriamo!” disse, e partì al trotto.
I cavalli degli altri soldati si allargarono nervosamente per lasciarlo
passare. Si affiancò a lui, recuperando terreno, una Guardia
Papale che gli parlò in latino.
“Con quale scusa vi arrampicherete sugli specchi, Domenico da
Fossalto, quando Roma pretenderà la testa di noi
tutti?” sottolineò il suo nome come se fosse
pronto a tradirlo in tribunale.
“Voi parlate della mia città o degli invasori che
la hanno impunemente sottomessa?” rise triste il Capitano.
La Guardia Pontificia colse il senso dell’allusione che lei
stessa aveva fatto. “E’ per l’odio verso
Vostra Signoria che avete reciso le gole agli spagnoli della nostra
scorta?” lo disse col tono dell’avvocato in voce
d’accusa. “Non avete lasciato testimoni, me ne
compiaccio, ma…”
“Fate il vostro lavoro, ed io il mio,” chiuse
così una discussione che non voleva trasformare in
un’udienza.
“Questo è alto tradimento, Capitano.”
“Ditemi qualcosa che non so, ma fatelo anche per voi stesso.
Hià!” Domenico partì al galoppo e tutti
i suoi uomini lo imitarono, lasciando indietro la Guardia Papale.
L’armigero Pontificio, ancora sconcertato,
richiamò l’attenzione di un cavaliere italico che
si aggiustava le armi in spalla. Mostrò lui un sacchetto che
gli lasciò pesare sulla sua mano. L’italiano ne
rimase colpito e non poco.
“E’ solo metà di quello che ti
darò quando avrai finito,” disse masticando il
volgare del luogo.
Il soldato fu tutt’orecchi.
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Nonostante i vorticosi giri di corrente che li avevano allontanati
l’uno dall’altro, Emanuele e Francesco riuscirono
ad orientarsi e a puntare le prue verso la riva.
Un’improvvisa ripresa di vento cominciò a tirare
le funi, e per una breve illusione le barche acquistarono maggiore
velocità; ma il peso di due corpi per scafo e la pioggia
crescente erano costantemente lì a ricordar loro
l’urgenza di raggiungere la costa.
Accovacciato tra le reti, Vittorio stringeva a sé
l’equipaggiamento medico sottratto a Davide prima di
imbarcarsi col Serraioli. Gli sarebbe stato utile al cospetto del
cerusico che non poteva pagare in altro modo dal baratto.
Messer Capitano Emanuele, tenendo il timone in una mano e la scotta
nell’altra, gli lanciava ogni tanto un’occhiata
indagatrice; soprattutto adesso che il suo passeggero gli dava le
spalle, non si era lasciato sfuggire la spada romana al fianco
dell’assassino. Quando lo sguardo cadde anche su arco e
faretra, la bocca non poté trattenersi oltre:
“Mercenari,” sentenziò tornando a
fissare l’orizzonte, dove la piccola vela del compagno
Francesco andava sparendo tra le onde.
Vittorio si schiarì la gola reprimendo un colpo di tosse.
“Ve l’ho detto, io e i miei
compagni…”
“Non m’interessa chi siete o da dove venite. Dovete
solo promettermi che non farete alcun male alla mia gente.”
L’aveva recitato senza intonazione alcuna, quasi di prima
lettura da un testo che gli era stato messo sotto agli occhi. Vittorio
sgranò i propri e cercò di capire con chi avesse
a che fare: un cordiale giovinetto magnanimo o un occasionale alleato?
Ad ogni modo, se c’era la possibilità di far
visitare il Maestro più affondo e con più calma,
non era da lasciarsela sfuggire.
Sigillò quella promessa con un sorriso, ma poco dopo fu
costretto a nascondere una smorfia sotto ai baffi, perché un
brivido freddo gli salì con artigli di ghiaccio tutte e
trentatré le vertebre.
Emanuele se ne accorse. “Resistete, manca poco.”
Il mastro arciere guardò alle proprie spalle cercando di
scorgere il gozzo con il resto dei suoi compagni a bordo, ma
inutilmente.
“Ora reggetevi e abbassate la testa,” disse ad un
tratto il ragazzo, “dobbiamo fare un cambio di
mura,” spiegò inoltre assemblando i preliminari
della manovra.
Vittorio ubbidì e si schiacciò come meglio
poté alla coperta.
Avvertì solo un leggero inclinarsi della barca, che
inizialmente rallentò, poi i passi frettolosi di Emanuele
che correva sull’altra fiancata a bilanciare il peso, mentre
il boma gli lisciava il cappuccio. Non appena il ragazzo cazzò (2)
la randa, facendo schioccare la scotta, la vela fu gonfia di vento e
con un balzo in avanti la barca riprese a tagliare le onde.
L’assassino approfittò del nuovo percorso in linea
retta per sistemarsi più comodo. Si appoggiò con
un fianco all’unico albero piantato in mezzo alla coperta,
non più larga di dieci spanne. Si aggiustò il
cappuccio sul viso, un gesto divenuto naturale ma che fece insospettire
oltremodo il suo ospite. Eppure Emanuele non fece altre domande, e
Vittorio gliene fu grato. Meno innocenti sapevano chi erano davvero
quei quattro incappucciati e meno innocenti sarebbero morti per
proteggere o svendere il loro segreto.
Dopo un’altra serie di cambi
di mura (3),
la piccola imbarcazione si arenò bruscamente sulla spiaggia.
Un agglomerato di poche e povere luci si arrampicava sulla collina di
fronte, interrompendosi all’improvviso nella parte alta.
C’era un solo focolare, sulla spiaggia, che illuminava lo
scafo ad albero nudo di due imbarcazioni più grandi.
“Francesco!” chiamò questi, mollando
tutte le funi tenute strette fino ad allora.
Il ragazzo emerse dall’oscurità e venne loro
incontro di corsa.
Vittorio balzò agilmente fuori dalla barchetta e lo prese
per un braccio. “Lui dov’è? Qualcun
altro lo ha visto?” chiese strattonandolo a sé.
Francesco guardò prima lui poi l’amico Emanuele,
come per dargli la colpa del livido che avrebbe lasciato
quell’uomo sulla sua pelle. “Sul carro della
Sabina, dietro le colonne. Mi hanno aiutato Rachele e Corrado, da solo
non ce la facevo a sollevarlo,” rispose.
Più preoccupato che mai, Vittorio lasciò andare
il ragazzo.
“Bravo, ora chiudi le vele e metti a posto,” disse
il Serraioli a Francesco. “Io accompagno
Messer…” fece una pausa.
“Vittorio.”
“…Messer Vittorio, da Bea,” concluse
Emanuele avviandosi. L’assassino lo imitò.
Francesco si protese a chiudere la vela, ma poco dopo si riscosse e
raggiunse l’amico di corsa. “Cosa? Beatrice? Sei
impazzito? Non puoi portare due estranei in casa sua così,
perché ti va!” lo rimproverò mentre la
pioggia gli entrava in bocca.
“Doriano è a Roma ed io non conosco altri dottori,
qui!” sbottò Emanuele strizzandosi il capello.
“Ora fa’ come ti ho detto, ma sbrigati! La vera
tempesta comincerà tra poco, e stare sotto la pioggia non fa
bene a nessuno.”
“E che dico agli altri due?” domandò
Francesco indicando il lago alle proprie spalle.
Vittorio si sentì chiamato in causa, ma si astené
dal parlare quando notò l’espressione crucciata
del Serraioli.
Infatti, dopo averci riflettuto un po’ su, Emanuele rispose
prontamente: “portali da Martina. Ci vediamo
lì.”
Francesco rimase immobile a guardare le sagome di Emanuele e Vittorio
scomparire; dopodiché tornò al suo lavoro sulla
spiaggia.
Il carro su cui giaceva il Gran Maestro degli Assassini era trainato da
una vecchia cavalla nera e lo trovarono dove aveva detto Francesco:
dietro una serie di quattro antiche colonne dell’ordine
corinzio, che un tempo dovevano essere appartenute ad un edificio
andato distrutto. Infatti c’erano ruderi un po’
ovunque, lungo la strada che dalla spiaggia saliva verso il centro
abitato.
“Insisto perché sediate al mio, di
fianco,” disse il ragazzo.
Vittorio dovette rinunciare a quel principio di idea che aveva di
sistemarsi al capezzale del Gran Maestro, sul retro del carro. Non
biasimò il giovane Emanuele sulla richiesta, coraggiosamente
imposta in modo così esplicito. Al suo posto si sarebbe
garantito altrettanto. Montò alla destra del Serraioli, che
imbracciò le redini e fece galoppare l’animale
senza mezze andature.
“Questa solitamente è la carrozza privata dei
nostri pesci,” spiegò il giovane con una punta
d’ironia.
Vittorio ripensò alle reti sulle quali si era seduto durante
il tragitto in barca. Pur ricordando di averle viste vuote e avendo
tante domande da porre, non indagò oltre. Non era il
momento, si disse. Piuttosto si voltò più volte a
controllare il Maestro, mantenendo un rispettoso e grato silenzio.
Distogliendo l’attenzione dalla stradina sterrata, Emanuele
continuava a guardarlo di sottecchi. L’uniforme e il bizzarro
cappuccio a becco d’aquila del suo ospite lo incuriosivano
sopra ogni dire. Ma pure lui, come Vittorio, non fece ulteriori
indagini sulla sua persona, anche se avrebbe voluto. Francesco aveva
detto il vero: ci voleva una bella faccia tosta ad accogliere
così spensieratamente due completi estranei, di cui uno
ferito grave e l’altro armato fino ai denti.
L’unica domanda che forse avrebbe dovuto porre, prima di ogni
altra, era cosa ci stavano a fare Messer Vittorio e i suoi compagni su
quel vecchio gozzo in mezzo al lago. Il resto non importava
più, ormai; nobile o mercenario, banchiere o contadino,
sguattero o capitano non faceva differenza alcuna: con la Tiara in capo
a un Borgia, tutto l’italici
populi era condannato allo stesso pietoso destino.
*
1. "Capitano, per
l'amor di Dio! Le torce si stanno spegnendo!"
2. S'intende cazzare la scotta,
in linguaggio velico, quando il velista tira la fune che tiene tesa, o lascata, la vela.
3. S'intende cambio
di mura quando il velista porta la barca ad avere il vento
che batte sul fianco opposto dell'imbarcazione. Manovre interessate: strambata e virata.
*
.:Angolo
d’Autrice:.
Qualche giorno fa ho risposto alla recensione di Emy_n_Joz
al capitolo settimo. In quella risposta, senza freno, ho confessato (a
mo’ di elenco della spesa) gli umori che hanno interceduto
con la pubblicazione della mia storia. Avendo scritto il tutto di getto
e con una sincerità inimitabile, spero non me ne voglia (la
suddetta Emy_n_Joz) se riporterò esattamente le mie parole
qui sotto, affinché sia di comune informazione.
Risposta alla Recensione
di Emy_n_Joz al capitolo VII:
«Finalmente
sto avendo un po' di tregua da me stessa per dedicarmi ad EFP, ma non
con la stessa costanza di una volta, ahimé.
Era da tempo che volevo
rispondere alla tua recensione, soprattutto perché ad un
certo punto mi sono sentita come abbandonata dalla storia in
sé e dagli stessi personaggi che avevo creato, quasi come se
mi avessero voltato le spalle con tutto quello spessore realistico che
avevo donato loro. E' stato terribile vederli persino sfumare dalla
carta, nei disperati tentativi di tenerli stretti a me con gomma e
matita.
Cos'è
realmente che mi ha frenato nella pubblicazione? Il fatto,
probabilmente, che non avevo più delle solide basi con le
quali confrontarmi. Io stessa ho smarrito il concetto di
realtà, di vita... Ho dato via troppe parti di me a troppe
discipline diverse, e arrivata al momento in cui non avevo
più fiato da sprecare, si è rotto... si
è rotto anche quel piccolo che mi consolava più
di ogni altra cosa: la scrittura.
I capitoli seguenti,
fino al XII, li ho sempre avuti e li ho tutt'ora. Da riguardare
sicuramente, dopo lo scorrere di questi lunghi mesi in apnea, ma che
non ho intenzione di modificare se non solo stilisticamente. La trama
c'è, c'è sempre stata ed ha continuato a
tormentarmi (fortunatamente) anche quando ero io, la prima, a
respingerla, a metterla da parte. Perciò so con certezza
quando finirà questa storia. Ma non il tempo che
impiegherò a scriverla. E' comunque un'emozione che non ho
intenzione di farmi mancare, quella di mettere la parola
fine.»
Tutto qui.
Come detto poco fa, ho sentito il bisogno di liberarmi di queste parole
ed è stato un lapsus improvviso. Non ho alcuna preferenza di
questo genere nei miei recensori, lasciare questa risposta ad Emy
è stato del tutto… casuale. Dicendomi
“ah, finalmente ho un po’ di tempo per rispondere
alle ultime due recensioni non corrisposte”, non immaginavo
che sarei finita col parlare di me in quel modo…
Anyway, miei carissimi, spero che la mia ennesima comparsa trimestrale
non vi abbia turbato troppo. Prendetevi tutto il tempo che vi serve per
leggere anche questo capitolo (partorito un po’ di fretta,
all’epoca, ma rivisto più volte nelle ultime
settimane.) Vi sarete resi conto da soli che con me potete andare molto
calmi nel commentare! XD
Non voglio dilungarmi oltre in altre chiacchiere politiche. Veniamo al
capitolo.
Mi ha fatto un immenso piacere scoprire che alla stragrande parte dei
miei followers è piaciuta la prima parte del capitolo
scorso. In realtà, coinvolgere Adriano direttamente,
raccontando della sua prigioni, è un’aggiunta
moderna. Agli albori di Helleborus non avevo intenzione di dilungarmi
troppo su di lui, nonostante avessi già stampato chiaro in
mente il ruolo che avrebbe ricoperto nella confraternita.
Perciò vi ringrazio: questo mi ha fatto capire che posso
deliberatamente decidere del suo destino. Il mio piano malvagio sta
andando a compimento… Muhahahaha!
LOL
Emanuele e Francesco sono i primi abitanti di Trevignano, e anche i
primi miei personaggi originali, con cui la banda bassotti ha a che
fare. Sono pescatori, spero sia abbastanza chiaro, ma che nelle nottate
libere hanno ben altro passatempo del quale parlerò in
seguito.
Leone e Davide da soli sul gozzo sono stati un libro aperto, per me!
Spero che l’idea possa divertirvi altrettanto.
In fine, vorrei rimandarvi ad un primo abbozzo della scena nel lago,
fatto non molto tempo fa. Ve la linko soprattutto per darvi
un’immagine più chiara di come mi sono divertita a
portare i piccoli Optimist indietro di quattrocento anni! Ahahahah!
A voi: [link]
Sono ben visibili Emanuele e Francesco nelle due barchette. Davide
sulla prua del gozzo e Leone piegato a tirare su il Gran Maestro,
pronto a metterlo sull’altra imbarcazione.
È tutto, gente.
La vostra poco presente, ma fedele,
cartacciabianca
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