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Autore: cartacciabianca    16/10/2011    2 recensioni
Il fallimento è una circostanza spietata. Più che il buon animo o l’indulgere dei tuoi nemici, è la sorte a stabilire se avrai o meno un’altra possibilità. Quando un veleno fatale scorre nelle vene rendendoti cieco verso la speranza, a quale altro Dio potresti appellarti se non a quello del destino?
Cinque uomini cambieranno il corso della storia: aprendo una cicatrice nel cuore della corruzione, spargeranno i semi di una nuova rinascita. Solo dopo che sarà caduta, infatti, Roma potrà risorgere dalle ceneri del male e indossare un nuovo vessillo. Ma ad intralciare il compimento della loro sì altruista missione, c’è un essere malvagio capace di fronteggiare a testa alta qualsiasi avversario. Cesare Borgia è lungi dal permettere che gli Assassini irrompano in casa sua e calpestino lo stemma di famiglia. Per impedirlo sfrutterà il mezzo tramandato per secoli accanto al suo nome.
Nella più profonda ciecità, cosa possono insegnare un gruppo di pescatori affamati, un giovane contadino analfabeta, una vedova e i suoi due figli? Da Monteriggioni a Roma, e da Roma a Trevignano: una fuga disperata per le campagne Romane. L'ultima.
Fan fiction ambientata in un periodo ipotetico 1502/1503.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Ezio Auditore, Nuovo personaggio
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Helleborus'
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Helleborus
Capitolo VIII
Vento secondo vei
(navigare secondo il vento)


Noé, ATTENTO!” si udì gridare ad un tratto.
Qualcosa urtò con violenza lo scafo del gozzo, che s’inclinò col rischio di cappottarsi. Vittorio fu costretto a reggersi al banco di poppa, lo stesso sul quale si era gettato Leone. Il corpo inerte del Gran Maestro scivolò fino a prua, da dove Davide, invece, fece capolino in acqua.
Senza pensarci due volte, Leone si lanciò a soccorrere il compagno e, sporgendosi dalla balaustra, lo afferrò saldamente per un braccio. “Reggiti, idiota!” gridò issandolo con una forza mostruosa nuovamente a bordo. Tremando come non mai, Davide si accovacciò e si strinse le braccia attorno al copro, piantando le unghie nella sua stessa carne. Le labbra gli si erano improvvisamente gonfiate perdendo colore, gli occhi, annegati nella paura, schizzavano fuori dalle orbite.
Vittorio si voltò, dimenticandosi dei compagni, e vide che il timone era andato distrutto nell’impatto tra la poppa del gozzo e la prua di una piccola barchetta. Di questa, le cime lascate liberarono il boma, mandandolo fuori controllo. La vela trapezoidale cominciò a sbattere, schioccando, mentre la pioggia le scivolava magicamente addosso senza impregnarla.
“Francesco, per Dio! Perché ti sei ferm…!”
Alzando lo sguardo, Vittorio incontrò gli occhi azzurri di un ragazzo che si stava risollevando in quel momento dalla balaustra del gozzo, fin dentro al quale l'aveva scaraventato il contraccolpo violento. Ma il giovane non terminò la frase, perché si rese conto di avere di fronte tutt’altra persona.
“E voi chi diavolo siete?” domandò, ritraendosi sorpreso.
Vittorio andò dritto al dunque: “Dovete aiutarci, vi prego, abbiamo un ferito.”
Ci fu un lungo attimo d’esitazione, durante il quale quel ragazzo sembrò valutare ogni ruga visibile sul volto di Vittorio. Distogliendo lo sguardo dall’Assassino, lanciò un’occhiata al corpo del Maestro; in fine si adocchiò intorno, con l’aria di chi sta cercando qualcosa.
Solo allora Vittorio notò un’imbarcazione gemella ferma poco distante. Anche quello scafo era molto piccolo, con la stessa forma di vela, e l’Assassino capì che era stato il suo passeggero a cacciare quel grido di avvertimento un istante prima dell’incidente. “Noé, sei vivo?” gridò costui dal lontano.
Il ragazzo parve ignorarlo, continuando a cercare laborioso intorno a sé. Quando l’ebbe trovato, strizzò e si rimise il berretto in testa; dopodiché si gettò ad afferrare saldamente la balaustra del vecchio gozzo. “Cosa avete detto che vi serve?” chiese calcolando i danni al timone.
Fu con un immensa gioia che Vittorio gustò la sua voce giovane e il tono disponibile. “Un medico,” rispose.
“Ne conosco uno che sarebbe entusiasta di sapere chi è il suo paziente, prima di visitarlo.” Inutile negare che di quei tempi la prudenza non era mai troppa.
Vittorio scrutò l’individuo che aveva di fronte, studiandolo come il ragazzo aveva fatto poco prima con lui.
“Forestieri, ma soprattutto uomini liberi derisi dal destino,” disse pesando le parole.
Il giovane lo squadrò a lungo. “Quanti?” Riusciva a guardare Vittorio in faccia, sotto al cappuccio, ma non a contare con esattezza la gente sul gozzo assieme a lui, oltre al ferito.
“Cin…” iniziò Vittorio, ma s’interruppe scuotendo la testa e guardando a terra. Quella domanda, così freddamente posta, fu una nuova pugnalata nello stomaco per l’abbandono di Adriano. “Quattro,” si corresse.
“Mi spiace, ma se avete fretta, il mio amico ed io possiamo portare solo due persone, e se una di queste dev’essere lui…” sembrava realmente dispiaciuto mentre guardava il Gran Maestro e annotava le sue condizioni.
Vittorio si voltò. “Davide, andrai…”
Prima di concludere, ricordando la gamba indolenzita e vedendolo bagnato e tremolante, Vittorio capì che non sarebbe riuscito a farlo alzare di lì neanche con un piede di porco.
“Va’ tu, Vittorio,” s’intromise Leone, a sorpresa. “Se venisse il momento, saresti tu il più degno tra noi di essergli a fianco.”
Le sue erano state parole di un profondo pentimento e un radicato rispetto, uscite dal cuore, che Vittorio non poté rinnegare. Leone era tornato tra loro.
Il giovane barcaiolo annuì e spostò l’attenzione sull’altra vela gemella. “Francesco! Portati di bolina e parcheggia il tuo culo secco accanto ai signori!” ordinò all’amico.
Mais certainement, mon capitan!” rispose quello riprendendo velocità e preparandosi alla manovra.
“Voi!” il ragazzo richiamò l’attenzione di Davide e Leone. “Mi dispiace per il vostro timone, lo aggiusterò personalmente. Ma per adesso, Se non preferite passare la notte qui, dovrete seguirci verso la costa remando; nel caso ci perdeste, tenete questa. Sapete usarla?” domandò allungandosi per porgere allo stratega un oggettino rotondo estratto dalla fasciatura sulla vita.
Davide lo riconobbe subito e lo assicurò in una bisaccia, stirando un sorriso poco convinto quando il ragazzo gli diede qualche indicazione sulla destinazione.
“Vittorio…” lo strega cercò il suo sguardo, ma il mastro arciere era già affaccendato tra le bisacce.
“Prepariamoci.”
Leone lanciò un’occhiata oltre il parapetto, annotò le due barchette entrambe assicurate al gozzo, ma non riuscì a sorridere mentre divideva, assieme a Vittorio, le bisacce e le armi dal Gran Maestro e le scorte mediche. Tutta la faccenda ancora non lo convinceva, e tutta quell’improvvisa ospitalità era sospetta. Per acquietare il proprio animo indagatore, si disse che in ogni caso aveva già unito la sua alla condanna dei suoi compagni tempo addietro, nel giorno della loro iniziazione.
Il mastro arciere e Golia trasportarono il corpo di Ezio sulla barchetta di Francesco, adagiandolo sul fondo dello scafo tra le reti e le funi, ma in modo da non intralciare i percorsi di quest’ultime. A trasloco completato, la prima barchetta prese il vento e partì.
“Il vostro nome,” chiese Vittorio incontrando per la seconda volta lo sguardo del giovane, poco prima che questi si sistemasse al timone della seconda barchetta.
Quello sorrise e gli porse la mano. “Emanuele, Emanuele Graziato Serraioli. Per servirvi.”
L’assassino accettò la presa e si lasciò aiutare a salire in barca.

Davide e Leone seguirono le vele fin quando poterono, ma dovettero arrendersi e cambiare strategia quando queste scomparvero del tutto inghiottite dalla notte, come il pescatore aveva previsto.
“Tiralo fuori.”
Davide sobbalzò, arrossendo.
“Idiota! L’affare che ti ha dato quel ragazzo, o come si chiama,” sbottò Leone, esasperato. “Dai, tiralo fuori!” Diede un ultimo colpo di remi, poi si fermò ad aspettare che Davide facesse il richiesto.
Lo stratega lo fulminò con un’occhiataccia. “È una bussola,” sottolineò, disprezzando l’ignoranza di quell’uomo ancora una volta. “E continua a remare,” aggiunse dopo aver dato una breve sbirciata, “è la direzione giusta.” Rimise in tasca l’oggetto e non ne volle più sapere.
Leone sbuffò. “Ti pesa tanto tenertela in mano?” Col timone ridotto a brandelli aumentava il rischio che il gozzo scarrocciasse e andasse fuori rotta, perciò sarebbe tornato utile che Davide avesse la bussola sotto agli occhi; ma il ragazzo si era rifiutato con tutto se stesso anche solo di toccarla.
“Perché?” domandò Leone, laconico, continuando a remare come se in realtà non gli importasse.
Davide abbassò la testa, poggiando il mento sul petto. “Non ti riguarda, e non è né il momento né il posto per fare conversazione,” concluse starnutendo.
“Tuo padre ti picchiava da piccolo con una bussola?” ammiccò l’altro.
Davide serrò i pugni. “Se anche fosse?”    
Leone scoppiò in una fragorosa risata.
“Non mi ha picchiato con una bussola, ma è stata l’unica cosa che ha lasciato a me e mia madre prima di sposarsi un’altra.”
Leone inarcò un sopracciglio. “… una bussola.”
“Sì, una bussola!” Davide scattò in piedi gridando, e il gozzo ondeggiò. “Una maledettissima, fottutissima, squallidissima, inutilissima bussola! Disse che aveva un valore di pochi ducati, ma che avrei potuto utilizzarla per trovare le donne facili con cui andare a letto una volta e mai più, come lui aveva fatto con mia madre.”
Leone tacque. Era una storia assurda, alla quale poteva dare peso solo un deficiente come Davide.

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« ! El capitán, por  amor de Dios! Las antorchas están agotando ! » (1)
“Fate tacere quel figlio di buona donna,” fu l’ordine secco dell’uomo in testa al convoglio.
Alla guardia spagnola venne aperta la gola e il suo corpo inerte scivolò giù dalla sella, fino a terra, dove si riversò con lui anche la sua torcia, che, a contatto con la terra bagnata, si spense all’istante.
Il drappello rimase al buio nel giro di pochi minuti, ma l’ultimo lume a cadere fu proprio quello del Capitano, che se ne liberò gettandolo in un cespuglio. Dopodiché la foresta inghiottì le loro ombre, mentre gli unici suoni che tradivano la loro presenza erano gli zoccoli dei cavalli sul selciato umido e i tintinnii di staffe, armi e armature.
Cercare di proseguire oltre fu del tutto inutile. Giravano su loro stessi, lo sapeva. Ma sapeva soprattutto cosa avrebbe raccontato a Cesare quando entrambi, servo e padrone, fossero rientrati a Roma: uno scontro aperto, un’imboscata, magari; dopotutto non era fantasia troppo grande testimoniare qualche gruppo ribelle sul lago di Bracciano. Un’unica bugia avrebbe coperto sia il fallimento, sia l’omicidio di tutte le guardie spagnole che erano partite con lui quella notte. Il Capitano ne aveva ordinato le esecuzioni una dopo l’altra per i motivi più stupidi. L’ultimo giustiziato, c’era da ammetterlo, aveva benevolmente cercato di distoglierlo dalla missione e riportarlo sulla strada di casa. Prima di morire si era lamentato coloritamente della fame, del freddo, del buio e delle zanzare; ma il Capitano si rese conto che sulla storia delle torce avrebbe dovuto prenderlo sul serio.
Fece per dare l’ordine di richiamare i cani, ma si ricordò di aver fatto ammazzare anche gli unici ad avere la loro fiducia. “Stupidi mastini spagnoli…” borbottò voltando il cavallo con un colpo di talloni e una tirata di redini. “Ci ritiriamo!” disse, e partì al trotto.
I cavalli degli altri soldati si allargarono nervosamente per lasciarlo passare. Si affiancò a lui, recuperando terreno, una Guardia Papale che gli parlò in latino.
“Con quale scusa vi arrampicherete sugli specchi, Domenico da Fossalto, quando Roma pretenderà la testa di noi tutti?” sottolineò il suo nome come se fosse pronto a tradirlo in tribunale.
“Voi parlate della mia città o degli invasori che la hanno impunemente sottomessa?” rise triste il Capitano.
La Guardia Pontificia colse il senso dell’allusione che lei stessa aveva fatto. “E’ per l’odio verso Vostra Signoria che avete reciso le gole agli spagnoli della nostra scorta?” lo disse col tono dell’avvocato in voce d’accusa. “Non avete lasciato testimoni, me ne compiaccio, ma…”
“Fate il vostro lavoro, ed io il mio,” chiuse così una discussione che non voleva trasformare in un’udienza.  
“Questo è alto tradimento, Capitano.”
“Ditemi qualcosa che non so, ma fatelo anche per voi stesso. Hià!” Domenico partì al galoppo e tutti i suoi uomini lo imitarono, lasciando indietro la Guardia Papale.
L’armigero Pontificio, ancora sconcertato, richiamò l’attenzione di un cavaliere italico che si aggiustava le armi in spalla. Mostrò lui un sacchetto che gli lasciò pesare sulla sua mano. L’italiano ne rimase colpito e non poco.
“E’ solo metà di quello che ti darò quando avrai finito,” disse masticando il volgare del luogo.
Il soldato fu tutt’orecchi.

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Nonostante i vorticosi giri di corrente che li avevano allontanati l’uno dall’altro, Emanuele e Francesco riuscirono ad orientarsi e a puntare le prue verso la riva. Un’improvvisa ripresa di vento cominciò a tirare le funi, e per una breve illusione le barche acquistarono maggiore velocità; ma il peso di due corpi per scafo e la pioggia crescente erano costantemente lì a ricordar loro l’urgenza di raggiungere la costa.
Accovacciato tra le reti, Vittorio stringeva a sé l’equipaggiamento medico sottratto a Davide prima di imbarcarsi col Serraioli. Gli sarebbe stato utile al cospetto del cerusico che non poteva pagare in altro modo dal baratto.
Messer Capitano Emanuele, tenendo il timone in una mano e la scotta nell’altra, gli lanciava ogni tanto un’occhiata indagatrice; soprattutto adesso che il suo passeggero gli dava le spalle, non si era lasciato sfuggire la spada romana al fianco dell’assassino. Quando lo sguardo cadde anche su arco e faretra, la bocca non poté trattenersi oltre:
“Mercenari,” sentenziò tornando a fissare l’orizzonte, dove la piccola vela del compagno Francesco andava sparendo tra le onde.
Vittorio si schiarì la gola reprimendo un colpo di tosse. “Ve l’ho detto, io e i miei compagni…”
“Non m’interessa chi siete o da dove venite. Dovete solo promettermi che non farete alcun male alla mia gente.”
L’aveva recitato senza intonazione alcuna, quasi di prima lettura da un testo che gli era stato messo sotto agli occhi. Vittorio sgranò i propri e cercò di capire con chi avesse a che fare: un cordiale giovinetto magnanimo o un occasionale alleato? Ad ogni modo, se c’era la possibilità di far visitare il Maestro più affondo e con più calma, non era da lasciarsela sfuggire.
Sigillò quella promessa con un sorriso, ma poco dopo fu costretto a nascondere una smorfia sotto ai baffi, perché un brivido freddo gli salì con artigli di ghiaccio tutte e trentatré le vertebre.
Emanuele se ne accorse. “Resistete, manca poco.”
Il mastro arciere guardò alle proprie spalle cercando di scorgere il gozzo con il resto dei suoi compagni a bordo, ma inutilmente.
“Ora reggetevi e abbassate la testa,” disse ad un tratto il ragazzo, “dobbiamo fare un cambio di mura,” spiegò inoltre assemblando i preliminari della manovra.
Vittorio ubbidì e si schiacciò come meglio poté alla coperta.
Avvertì solo un leggero inclinarsi della barca, che inizialmente rallentò, poi i passi frettolosi di Emanuele che correva sull’altra fiancata a bilanciare il peso, mentre il boma gli lisciava il cappuccio. Non appena il ragazzo cazzò (2) la randa, facendo schioccare la scotta, la vela fu gonfia di vento e con un balzo in avanti la barca riprese a tagliare le onde.
L’assassino approfittò del nuovo percorso in linea retta per sistemarsi più comodo. Si appoggiò con un fianco all’unico albero piantato in mezzo alla coperta, non più larga di dieci spanne. Si aggiustò il cappuccio sul viso, un gesto divenuto naturale ma che fece insospettire oltremodo il suo ospite. Eppure Emanuele non fece altre domande, e Vittorio gliene fu grato. Meno innocenti sapevano chi erano davvero quei quattro incappucciati e meno innocenti sarebbero morti per proteggere o svendere il loro segreto.
Dopo un’altra serie di cambi di mura (3), la piccola imbarcazione si arenò bruscamente sulla spiaggia.
Un agglomerato di poche e povere luci si arrampicava sulla collina di fronte, interrompendosi all’improvviso nella parte alta. C’era un solo focolare, sulla spiaggia, che illuminava lo scafo ad albero nudo di due imbarcazioni più grandi.
“Francesco!” chiamò questi, mollando tutte le funi tenute strette fino ad allora.
Il ragazzo emerse dall’oscurità e venne loro incontro di corsa.
Vittorio balzò agilmente fuori dalla barchetta e lo prese per un braccio. “Lui dov’è? Qualcun altro lo ha visto?” chiese strattonandolo a sé.
Francesco guardò prima lui poi l’amico Emanuele, come per dargli la colpa del livido che avrebbe lasciato quell’uomo sulla sua pelle. “Sul carro della Sabina, dietro le colonne. Mi hanno aiutato Rachele e Corrado, da solo non ce la facevo a sollevarlo,” rispose.
Più preoccupato che mai, Vittorio lasciò andare il ragazzo.
“Bravo, ora chiudi le vele e metti a posto,” disse il Serraioli a Francesco. “Io accompagno Messer…” fece una pausa.
“Vittorio.”
“…Messer Vittorio, da Bea,” concluse Emanuele avviandosi. L’assassino lo imitò.
Francesco si protese a chiudere la vela, ma poco dopo si riscosse e raggiunse l’amico di corsa. “Cosa? Beatrice? Sei impazzito? Non puoi portare due estranei in casa sua così, perché ti va!” lo rimproverò mentre la pioggia gli entrava in bocca.
“Doriano è a Roma ed io non conosco altri dottori, qui!” sbottò Emanuele strizzandosi il capello. “Ora fa’ come ti ho detto, ma sbrigati! La vera tempesta comincerà tra poco, e stare sotto la pioggia non fa bene a nessuno.”
“E che dico agli altri due?” domandò Francesco indicando il lago alle proprie spalle.
Vittorio si sentì chiamato in causa, ma si astené dal parlare quando notò l’espressione crucciata del Serraioli.
Infatti, dopo averci riflettuto un po’ su, Emanuele rispose prontamente: “portali da Martina. Ci vediamo lì.”
Francesco rimase immobile a guardare le sagome di Emanuele e Vittorio scomparire; dopodiché tornò al suo lavoro sulla spiaggia.
Il carro su cui giaceva il Gran Maestro degli Assassini era trainato da una vecchia cavalla nera e lo trovarono dove aveva detto Francesco: dietro una serie di quattro antiche colonne dell’ordine corinzio, che un tempo dovevano essere appartenute ad un edificio andato distrutto. Infatti c’erano ruderi un po’ ovunque, lungo la strada che dalla spiaggia saliva verso il centro abitato.
“Insisto perché sediate al mio, di fianco,” disse il ragazzo.
Vittorio dovette rinunciare a quel principio di idea che aveva di sistemarsi al capezzale del Gran Maestro, sul retro del carro. Non biasimò il giovane Emanuele sulla richiesta, coraggiosamente imposta in modo così esplicito. Al suo posto si sarebbe garantito altrettanto. Montò alla destra del Serraioli, che imbracciò le redini e fece galoppare l’animale senza mezze andature.
“Questa solitamente è la carrozza privata dei nostri pesci,” spiegò il giovane con una punta d’ironia.
Vittorio ripensò alle reti sulle quali si era seduto durante il tragitto in barca. Pur ricordando di averle viste vuote e avendo tante domande da porre, non indagò oltre. Non era il momento, si disse. Piuttosto si voltò più volte a controllare il Maestro, mantenendo un rispettoso e grato silenzio.
Distogliendo l’attenzione dalla stradina sterrata, Emanuele continuava a guardarlo di sottecchi. L’uniforme e il bizzarro cappuccio a becco d’aquila del suo ospite lo incuriosivano sopra ogni dire. Ma pure lui, come Vittorio, non fece ulteriori indagini sulla sua persona, anche se avrebbe voluto. Francesco aveva detto il vero: ci voleva una bella faccia tosta ad accogliere così spensieratamente due completi estranei, di cui uno ferito grave e l’altro armato fino ai denti. L’unica domanda che forse avrebbe dovuto porre, prima di ogni altra, era cosa ci stavano a fare Messer Vittorio e i suoi compagni su quel vecchio gozzo in mezzo al lago. Il resto non importava più, ormai; nobile o mercenario, banchiere o contadino, sguattero o capitano non faceva differenza alcuna: con la Tiara in capo a un Borgia, tutto l’italici populi era condannato allo stesso pietoso destino.




*
1. "Capitano, per l'amor di Dio! Le torce si stanno spegnendo!"
2. S'intende cazzare la scotta, in linguaggio velico, quando il velista tira la fune che tiene tesa, o lascata, la vela.
3. S'intende cambio di mura quando il velista porta la barca ad avere il vento che batte sul fianco opposto dell'imbarcazione. Manovre interessate: strambata e virata.
*



.:Angolo d’Autrice:.
Qualche giorno fa ho risposto alla recensione di Emy_n_Joz al capitolo settimo. In quella risposta, senza freno, ho confessato (a mo’ di elenco della spesa) gli umori che hanno interceduto con la pubblicazione della mia storia. Avendo scritto il tutto di getto e con una sincerità inimitabile, spero non me ne voglia (la suddetta Emy_n_Joz) se riporterò esattamente le mie parole qui sotto, affinché sia di comune informazione.

Risposta alla Recensione di Emy_n_Joz al capitolo VII:

«Finalmente sto avendo un po' di tregua da me stessa per dedicarmi ad EFP, ma non con la stessa costanza di una volta, ahimé.
Era da tempo che volevo rispondere alla tua recensione, soprattutto perché ad un certo punto mi sono sentita come abbandonata dalla storia in sé e dagli stessi personaggi che avevo creato, quasi come se mi avessero voltato le spalle con tutto quello spessore realistico che avevo donato loro. E' stato terribile vederli persino sfumare dalla carta, nei disperati tentativi di tenerli stretti a me con gomma e matita.
Cos'è realmente che mi ha frenato nella pubblicazione? Il fatto, probabilmente, che non avevo più delle solide basi con le quali confrontarmi. Io stessa ho smarrito il concetto di realtà, di vita... Ho dato via troppe parti di me a troppe discipline diverse, e arrivata al momento in cui non avevo più fiato da sprecare, si è rotto... si è rotto anche quel piccolo che mi consolava più di ogni altra cosa: la scrittura.
I capitoli seguenti, fino al XII, li ho sempre avuti e li ho tutt'ora. Da riguardare sicuramente, dopo lo scorrere di questi lunghi mesi in apnea, ma che non ho intenzione di modificare se non solo stilisticamente. La trama c'è, c'è sempre stata ed ha continuato a tormentarmi (fortunatamente) anche quando ero io, la prima, a respingerla, a metterla da parte. Perciò so con certezza quando finirà questa storia. Ma non il tempo che impiegherò a scriverla. E' comunque un'emozione che non ho intenzione di farmi mancare, quella di mettere la parola fine.»

Tutto qui.
Come detto poco fa, ho sentito il bisogno di liberarmi di queste parole ed è stato un lapsus improvviso. Non ho alcuna preferenza di questo genere nei miei recensori, lasciare questa risposta ad Emy è stato del tutto… casuale. Dicendomi “ah, finalmente ho un po’ di tempo per rispondere alle ultime due recensioni non corrisposte”, non immaginavo che sarei finita col parlare di me in quel modo…
Anyway, miei carissimi, spero che la mia ennesima comparsa trimestrale non vi abbia turbato troppo. Prendetevi tutto il tempo che vi serve per leggere anche questo capitolo (partorito un po’ di fretta, all’epoca, ma rivisto più volte nelle ultime settimane.) Vi sarete resi conto da soli che con me potete andare molto calmi nel commentare! XD

Non voglio dilungarmi oltre in altre chiacchiere politiche. Veniamo al capitolo.

Mi ha fatto un immenso piacere scoprire che alla stragrande parte dei miei followers è piaciuta la prima parte del capitolo scorso. In realtà, coinvolgere Adriano direttamente, raccontando della sua prigioni, è un’aggiunta moderna. Agli albori di Helleborus non avevo intenzione di dilungarmi troppo su di lui, nonostante avessi già stampato chiaro in mente il ruolo che avrebbe ricoperto nella confraternita. Perciò vi ringrazio: questo mi ha fatto capire che posso deliberatamente decidere del suo destino. Il mio piano malvagio sta andando a compimento… Muhahahaha!
LOL
Emanuele e Francesco sono i primi abitanti di Trevignano, e anche i primi miei personaggi originali, con cui la banda bassotti ha a che fare. Sono pescatori, spero sia abbastanza chiaro, ma che nelle nottate libere hanno ben altro passatempo del quale parlerò in seguito.
Leone e Davide da soli sul gozzo sono stati un libro aperto, per me! Spero che l’idea possa divertirvi altrettanto.
In fine, vorrei rimandarvi ad un primo abbozzo della scena nel lago, fatto non molto tempo fa. Ve la linko soprattutto per darvi un’immagine più chiara di come mi sono divertita a portare i piccoli Optimist indietro di quattrocento anni! Ahahahah!
A voi: [link]
Sono ben visibili Emanuele e Francesco nelle due barchette. Davide sulla prua del gozzo e Leone piegato a tirare su il Gran Maestro, pronto a metterlo sull’altra imbarcazione.

È tutto, gente.
La vostra poco presente, ma fedele,

cartacciabianca 
   
 
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