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Autore: cartacciabianca    22/05/2011    5 recensioni
Il fallimento è una circostanza spietata. Più che il buon animo o l’indulgere dei tuoi nemici, è la sorte a stabilire se avrai o meno un’altra possibilità. Quando un veleno fatale scorre nelle vene rendendoti cieco verso la speranza, a quale altro Dio potresti appellarti se non a quello del destino?
Cinque uomini cambieranno il corso della storia: aprendo una cicatrice nel cuore della corruzione, spargeranno i semi di una nuova rinascita. Solo dopo che sarà caduta, infatti, Roma potrà risorgere dalle ceneri del male e indossare un nuovo vessillo. Ma ad intralciare il compimento della loro sì altruista missione, c’è un essere malvagio capace di fronteggiare a testa alta qualsiasi avversario. Cesare Borgia è lungi dal permettere che gli Assassini irrompano in casa sua e calpestino lo stemma di famiglia. Per impedirlo sfrutterà il mezzo tramandato per secoli accanto al suo nome.
Nella più profonda ciecità, cosa possono insegnare un gruppo di pescatori affamati, un giovane contadino analfabeta, una vedova e i suoi due figli? Da Monteriggioni a Roma, e da Roma a Trevignano: una fuga disperata per le campagne Romane. L'ultima.
Fan fiction ambientata in un periodo ipotetico 1502/1503.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Ezio Auditore, Nuovo personaggio
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Helleborus'
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Helleborus
Capitolo VII
Furor et Venia
(Grazia e follia)

Lo squittire di un topolino che curiosava nella sua uniforme lo svegliò, e poco dopo sentì un paio di unghiette fredde graffiargli il pettorale. Adriano ruzzolò su un fianco andando a pesare dolorosamente sulle anche, ma il movimento brusco gli costò una smorfia da maschera veneziana; eppure il sorcio, spaventato, zompò fuori dai suoi vestiti e sgattaiolò nell’oscurità. Quella sudicia bestiolina si era piazzata lì a mangiucchiare il cotone della camicia e sarebbe tornata volentieri ad assaggiare anche dell’altro se il ragazzo avesse abbassato la guardia.
Un rivolo di sangue omai secco gli era colato dalla tempia fino al collo e, dovunque fosse, nessuno si era preso o si sarebbe preso la briga di medicarlo.
Dopo un respiro profondo, Adriano constatò di avere libere mani e caviglie.
Perché non ho usato queste per scacciare quel ratto? Mi sarei risparmiato fatiche e sofferenze inutili...
Tentò di sollevare la testa, ma dalla nuca partì una scossa improvvisa che si diffuse in tutto il corpo. Era paralizzato dal dolore. Ecco perché!, si disse mordendosi la lingua pur di non fiatare e, dopo averli strizzati, aprì gli occhi.
L’orientamento l’aveva abbandonato disteso su un pavimento umido, freddo e cosparso di sterpaglia. Soltanto una delle quattro pareti aveva un piccolo spiraglio sull’esterno, dove era ancora notte e pioveva senza pietà. Oltre le sbarre di quella che aveva tanto l’odore di una cella, si apriva un androne inghiottito dalla penombra. Due fiaccole delimitavano i piedritti di un arco, dopo il quale, sotto una volta a crociera, c’erano un tavolo con tre sedie, una botola e del fieno per terra. Appoggiati sul ripiano alcuni volumi - tra cui una copia della Sacra Bibbia - e una mappa, forse la piantina delle carceri; una coppia di bicchieri di peltro, un otre con del vino rosso, una mela morsa e un coltello da frutta che non era servito, a quanto pareva.
In disparte, nell’angolo dell’anticamera e ammucchiato come spazzatura, Adriano riconobbe tutto il suo equipaggiamento: la sottile striscia di fattura romana e la cinquedea; i coltellini da lancio, l’unica bomba fumogena che entrava nella piccola sacca e il suo meccanismo di lama celata, del quale sentiva la mancanza come se gli avessero amputato un braccio o un’intera gamba… poi il taccuino, i pugnali e la scarsella con gli spiccioli per retribuire possibili informatori. C’era anche lo schizzo di pianta del Vaticano che il ragazzo aveva disegnato a mano libera la sera precendente, nella stanza condivisa con Davide al rifugio. Si era seduto sul letto e ne aveva curato i particolari con l’attenzione di un artista, tutto il giorno, aspettando la notte che avrebbe segnato il destino della Confraternita.
Accompagnati dal boato di un tuono, i ricordi cominciarono a ricostruirsi, diligentemente, nell’ordine cronologico causa effetto, fino all’ultimo atto della tragedia.
Il tramonto dal tetto dell’Isola Tiberina, Roma deserta, la curiosa sacca rigonfia di Vittorio, la lapide costantiniana e il prato verde, soffice, attorno alle Mura Vaticane; il lenzuolo il traforo segreto il Belvedere Cesare Guardie Papali sangue…
Il Maestro avvelenato, la sua e la vita degli Apprendisti nelle mani del Signore.
Si udì una porta sbattere: assieme alla tempesta fecero irruzione nell’anticamera i passi di quattro piedi e due voci maschili.
“Avresti dovuto puntare più in alto ad ogni lancio. Hai perso anche ‘sta sera,” si lamentava il primo, serio ma poco interessato.
“Ma ve l’ho detto! Messer Aurelio, voi non ascoltate: quello spagnolo di merda, Gabriel, l’ha spostato anche ‘sta sera! È un mese che mi alleno con quel bersaglio, fatevelo dire dal ragazzo nuovo, come si chiama… Simone, che prendevo sempre il centro! Viene la Notte delle Sentinelle e, guarda caso, non mi avvicino nemmeno al terzo anello!” ribbatté il secondo.
I due uomini entrarono nel campo visivo del ragazzo e sostarono sotto alla campata. Erano entrambi fradici dall’elmo alla punta degli stivali.
“Allora perché non lo dici a tutti, eh? Perché la prossima settimana non alzi il culo e dici a tutti che Gabriel sposta il piatto?” sbottò l’altro, innervosito, mentre si strizzava il mantello.
Silenzio.
“Fottuta pioggia…” borbottò togliendosi l’elmo da capitano. Svelò un volto marcato dall’arte militare e un taglio cortissimo di capelli scuri, e poi prese a sgrullarsi l’acqua di dosso come un cane bagnato. Tornò rivolto al compagno: “Rosicone, te lo dico io perché: perché nessun altro manca il bersaglio come lo manchi tu e il piatto è sempre nello stesso posto, alla stessa altezza, tutta la settimana!” concluse con arroganza sedendosi al tavolo. “Sei solo un dannatissimo senza palle, e a quelli come te, tra le mie fila, i coglioni glieli facevo spuntare usando le tonsille!”
L’altro richiuse la porta, muto.
In quei brevi secondi di tranquillità, Adriano rifletté:
Nulla scredita l’ipotesi che il Gran Maestro sia morto o stato catturato a sua volta. Leone, Davide e Vittorio potrebbero essere da qualche parte tra queste mura e perciò devo scoprire il più possibile su dove e sono e con chi ho a che fare.
La sua mente da bravo discepolo infiltrato cercava di lavorare, accumulando informazioni. Un’attività inutile e dispendiosa, ma almeno lo teneva impegnato.
Il primo, messer Aurelio - nome che all’Apprendista suonava familiare - aveva un represso accento del nord ed era il più anziano tra le due sentinelle. Rivestito d’argento e di porpora, e con quell’aria da pezzo grosso, era chiaro appartenesse agli alti ranghi tanto che Adriano si chiese fin da subito cosa ci facesse in quella squallida prigione. L’atteggiamento scomposto dei vigilanti professionali se conviene imbruttiva la prestigiosa uniforme borgiana che indossava e tutto il suo ruolo. Si era stravaccato sulla sedia con la fierezza di un grasso leone in pensione.
Adriano serrò la mascella e sentì aumentare vertiginosamente il disprezzo verso quegli sporchi mercenari italici senza etica dipendenti da frustino spagnolo. Quanti ne aveva visti ammazzare la propria gente?
Il secondo armigero, stretto nella sua divisa da Guardia Agile, aveva baffi giovani e si muoveva come un gracile micetto, a confronto. Adriano capì subito che era troppo intimorito dal suo superiore anche solo per sedere allo stesso tavolo.
Guardandosi un po’ attorno, Aurelio aveva adocchiato il meccanismo della lama celata confiscato al prigioniero e si era proteso ad afferrarlo senza muovere le chiappe dalla sedia. Studiò l’oggetto con distacco, l’aria incerta di chi dubita della sua natura e del suo scopo.
“Non avete saputo?” chiese la sentinella Agile, compita. “Abbiamo un ospite speciale,” aggiunse, e lo disse come per vantarsene.
Una malinconia infinita attanagliò lo stomaco di Adriano al sentir pronunciare quelle parole. Niente. A quanto pare sono solo… ma allo stesso tempo rinvigoriva la speranza che qualcuno si fosse salvato e fosse rientrato al Rifugio.
“Sì, ho saputo: mi hanno mandato apposta”, mormorò il Capitano assorto: ora guardava il meccanismo della lama con un insolito rispetto. Poco dopo sorrise apparentemente senza motivo. “Un pesce piccolo… ma ho saputo anche che Sarto si è beccato una freccia in culo per portarlo qua,” ghignò.
Risero entrambi, e finalmente pure il secondo uomo si mise seduto.
Adriano collegò quel nuovo nome, Sarto, allo sfocato ricordo del suo sequestratore: un Ufficiale Papale.
“Adesso sappiamo dove ha lavorato il Diavolo per tutto questo tempo,” commentò Aurelio senza staccare gli occhi dalla lama celata; se la rigirava nella mano come aspettandosi da essa un qualche sortilegio: che il metallo cominciasse a brillare, per esempio, o levitasse tra le sue dita.
“Dove?” domandò l’Agile, al quale era sfuggito il senso della sua osservazione.
La calma negli occhi del Capitano mutò d’un tratto in tempesta. “Nelle tane di questi topi di fogna!” ruggì afferrando un bicchiere di peltro dal tavolo e scagliandolo attraverso la stanza rabbiosamente, dritto nella cella del prigioniero.
Adriano nascose la testa tra i gomiti.
Il bicchiere lisciò le sbarre, cozzò contro la parete di fondo e rotolò ai piedi del giovane che rimase immobile, un tutt’uno con la pietra del pavimento.
L’Agile non disse nulla; si limitò a lasciar sbollentare gli spiriti del suo Capitano guardando tutt’altra parte.
Il ragazzo tenne il naso premuto sui mattoni del pavimento e spalancò gli occhi nell’oscurità delle braccia chiuse.
Aurelio Enrico Pulciani.
Adesso Adriano ricordava.
Due settimane prima lui e Davide, coperti dalle frecce di Vittorio, avevano sventrato la pattuglia del Capitano al Palazzo Lateranense. Tale diversivo aveva consentito al Gran Maestro di agire indisturbato attorno alla Basilica di San Giovanni, ove era entrato scortato da Leone. Ne era valso un fruttuoso interrogatorio al freschissimo Cardinale Diacono Giovanni Colonna, il quale aveva confermato che, la notte dell’attacco, Cesare avrebbe passeggiato dove previsto: in Vaticano.
Adriano se lo ripeté ancora una volta, e ricevette la risposta alle sue domande.
Aurelio Enrico Pulciani.
Ex Capitano della Guardia nel Rione Laterano, degradato a sentinella della Prigione di Castel Sant’Angelo per grazia degli Assassini che avevano decimato i suoi uomini. Era uno spadaccino micidiale, uno dei tanti rettili ammaestrati cui il Valentino si circondava affidando loro volentieri la sorveglianza delle zone calde.
Stentava a immaginare cosa sarebbe stato di lui non appena Aurelio avesse scoperto che era sveglio. Poiché da bravo Templare ce l’aveva a morte con gli Assassini, al Capitano era stata esplicitamente concessa l’autorità di torturare il ragazzo nel modo che preferiva. Perché Adriano sapeva che ci sarebbe stato un interrogatorio. Sapeva che nessuno si sarebbe fatto scrupoli per la sua giovane età, sapeva che non avrebbero esitato ad ammazzarlo e ad appendere la sua testa incappucciata da qualche parte; magari proprio su Ponte Fabricio, alle porte del Rifugio, come ammonimento per chi si stava proclamando salvatore di Roma e sovvertitore dei Borgia.
Adriano sentì la porta aprirsi di nuovo e il frastuono dell’intemperia fare irruzione nell’anticamera. L’attenzione dei due uomini seduti al tavolo volò in quella direzione, fuori dal campo visivo del ragazzo.
“Messer Pulciani, mastro Gabriel vorrebbe conferire con Fenicio Bèrtoli privatamente. È questione di minuti,” esordì una voce estranea, maschile.
Fenicio… la Guardia Agile si chiama Fenico.
“Sta bene,” ammiccò Aurelio al giovane lì affianco.
Fenicio si alzò, si congedò con un inchino e lasciò l’anticamera di corsa. Appena richiuse la porta alle sue spalle, l’atmosfera tornò a farsi silenziosa.
Dalla sua posizione, Ariano poté notare Enrico accigliarsi.
“Mi dispiace, Capitano, ma ho ricevuto l’ordine di non lasciarvi solo col prigioniero,” disse il balestriere fuori dalla visuale dell’assassino. Lo sentì spostarsi  più lontano dal Pulciani di quanto non lo fosse già.
Aurelio sbuffò. “Sai che nuove…”
“Cos’è?” domandò la guardia alludendo alla lama celata nelle mani del Capitano.
Aurelio gliela lanciò con sprezzo, come per liberarsene, e il balestriere l’afferrò al volo tirandosela allo stomaco. Quando capì di cosa si trattava, allontanò immediatamente l’oggetto da sé e lo poggiò sul ripiano.
“Hai la faccia di chi li manderebbe tutti all’Inferno, Simone,” chiosò Aurelio compiaciuto versandosi del vino nell’unico bicchiere rimasto.
Simone, l’ultimo arrivato…
Il ragazzo doveva aver cambiato improvvisamente color di faccia. “Mio padre pattugliava sui tetti di Navona ed era un brav’uomo. Hanno trovato il corpo al cambio della guardia, sgozzato come un cane, pugnalato due volte,” il tono di chi ha rivisto la scena mille volte e infierirebbe altrettanto sui cadaveri dei responsabili.
Aurelio: un sorso di vino. “La sai usare, quella?” chiese.
Il giovane estrasse la balestra dall’astuccio e ne solleticò la scocca, facendola sibilare. “Avrei ereditato il suo mestiere in ogni caso, perciò ho praticato molto sotto la guida del mio vecchio, prima che morisse.” Quando parlò di nuovo, Adriano sentì con chiarezza l’ardore e la determinazione suscitati dalla vendetta…  e in un istante, per associazione, ricordò la rovina che era stata la trasferta in Vaticano.
“Se ne ammazzo uno con la sua balestra, potrò pagargli la tomba che merita,” concluse Simone.
Aurelio non poté replicare, perché qualcuno piombò nell’anticamera dopo aver spalancato la porta. “Gabriel e Fenicio si stanno scannando!” li informò con eccitazione tutt’altro che professionale un’altra guardia, sparendo subito dopo.
Simone non cercò neanche l’approvazione negli occhi del Capitano e si catapultò sotto la pioggia senza pensarci due volte, correndo a sedare la mischia.
Enrico e il prigioniero rimasero soli.
Calò un silenzio pesante,  rotto solo dallo scrosciare della pioggia oltre l’ingresso che né quella guardia, né Simone, uscendo, si erano presi la briga di chiudere.
Adriano respirava piano. Provò a distrarsi concentrandosi sul dovere e sulla sua condizione.
Le guardie del Castello giocano al bersaglio tutte le settimane. Sono sicuro che si scommettono anche le braghe, sotto al naso di Cesare, perciò se riuscissi a trasmettere queste informazioni al Rifugio… e se sopravvivessi fino alla prossima Notte delle Sentinelle, Messer Machiavelli saprebbe che per quell’occasione il corpo di guardia è “distratto”; potrebbe inviare un paio dei suoi, e tirarmi fuori di qui prima che…
Tra un pensiero e un altro Adriano urtò per errore il bicchiere di peltro che giaceva vicino ai suoi piedi e l’oggetto, logicamente, spostandosi produsse rumore.
Adriano si morse a sangue le labbra come punizione. Ogni tentativo di riflettere oltre venne represso nella paura, mentre un liquido caldo e amarognolo che gli scivolò in gola.
La sua copertura era saltata: ora che era cosciente, il prigioniero poteva essere interrogato.
Dopo essere rimasto immobile come una statua, a guardare la pioggia cadere sui corridoi delle mura di Sant’Angelo aldilà della soglia, il Capitano Enrico si alzò con una lentezza straziante e andò a serrare i battenti. Fece due giri di chiave. Dopodiché venne verso la cella del ragazzo.
Adriano chiuse forte le braccia attorno alla testa e si rannicchiò più stretto.
Ogni passo, scandito dal tacco degli schinieri da guerra, tuonava sul pavimento del buio androne ricordando i tamburi di un’esecuzione.
Silenzio.
Lo scampanellio di chiavi.
Chiavistello, cigolio dei cardini.
Uno scatto e la fuga?
No.
Le armi troppo lontane, le ossa troppo deboli.
La resa dei conti.



…prima che sia troppo tardi.




***

Il corpo del Gran Maestro, rannicchiato a poppa, galleggiava su quel sottile strato di acqua piovana che si era raccolta sul fondo dello scafo.
“Davide, quanto manca all’alba?”
Il ragazzo interruppe la sua litania e guardò il cielo con una smorfia, mentre la sottile pioggerella gli cadeva sul volto pallido. “Te lo direi volentieri, Vittorio, ma le nuvole…”
“Inventa una scusa migliore, se non vuoi faticare” ridacchiò Leone dando un colpo di remi più potente.
Davide si accigliò. “Non era una scusa,” disse aggrappandosi al legno del parapetto. “Prova tu a trovare qualche stella, poi dimmi se Orione è tramontato.”
Vittorio s’intromise prima che Leone potesse replicare. Il mastro arciere guardò Davide e offrì le scuse per la sciocca domanda.
Stringendosi nelle spalle, lo stratega tornò alle sue preghiere.  
Ad un tratto, Vittorio fu certo che qualcosa lo avesse sfiorato all’altezza della caviglia. Quando abbassò lo sguardo, vide che la mano sinistra del Gran Maestro era abbandonata vicino al suo stivale, dove Vittorio ricordava di non avercela lasciata.
Mollò il timone all’istante, ma gli altri due se ne accorsero solo quando la barca cominciò a virare insolitamente. Si rannicchiò su di lui e poté sentire con chiarezza il respiro spezzato di Ezio, che iniziava a manifestare delle anomale convulsioni al braccio della spalla ferita.  
Davide venne in suo aiuto scavalcando i banchi e assieme distesero il Gran Maestro su quello alle spalle di Leone.
“Respira più forte, ma non è un buon segno.”
Davide sbiancò visibilmente nel notare le convulsioni dell’arto. I suoi occhi anticiparono la domanda delle sue labbra: “Cosa facciamo?”
“Semplice: torniamo indietro.”
Davide e Vittorio sincronizzarono lo sguardo sulla schiena del loro terzo compagno.
Leone ripeté senza voltarsi: “Torniamo indietro e diamo alle Guardie Papali quello che vogliono.”
“Di cosa parla?” chiese Davide all’arciere.
Pessimo sarcasmo, Leone; davvero pessimo. Vittorio scosse la testa, facendo credere a Davide di aver preferito non capire, e tornò chino sul Maestro.
Gli spasmi al braccio del Maestro cessarono sotto i loro nasi, ma Ezio continuava a respirare con fatica. Provarono a metterlo seduto, appoggiandolo alla balaustra del gozzo, e per alcuni minuti parve migliorare.  
Davide prese il timone, mentre Vittorio andava a medicare la ferita sotto la guida del giovane stratega.
Il mastro arciere scostò la veste e applicò una nuova dose di farmaco sul tampone. L’emorragia era cessata, ma complessivamente Ezio non aveva perso molto sangue. Vittorio non si sforzò nemmeno a immaginare quali oli e quali spezie componessero quella miscela disinfettante datagli dal cerusico trasteverino. Aveva altresì un odore fortissimo di muschio e decomposizione.
Durante tutta la medicazione, il mastro arciere si affidò agli unici sensi del tatto e dell’olfatto. Non sarebbero stati né il buio né quella pioggia puntigliosa ad intralciare la sua premura verso il Gran Maestro. Fosse il destino di Ezio Auditore ormai segnato e diventasse pure quel vecchio gozzo la sua tomba, Vittorio sarebbe morto medicandolo.
E fu in quell’attimo di folle determinazione che il fato lo commiserò ancora una volta.
Il gozzo si fermò oscillando sulla corrente, perché Golia aveva smesso di remare.
“Torniamo indietro,” disse di nuovo Leone.
Esasperato, Davide si alzò. Leone, con grande stupore degli altri due, fece ruotare il remo sinistro nello scalmo e lo colpì dietro al ginocchio con violenza, rimettendolo seduto. Lo stratega cadde sulla prua contorcendosi dal dolore, e per quanto gridava Golia poteva avergli rotto tutta la gamba.
Vittorio era sconcertato. “Leone, cosa…!?”
Questi lo interruppe: “Posso sperare che adesso ti degnerai di ascoltarmi?” chiese. “O devo sempre spaccare qualcosa per attirare un po’ d’attenzione?!.”
“Vaffanculo!” sbraitò Davide alle sue spalle.
Leone si alzò e liberò il remo dallo scalmo, per poi voltarsi e minacciare ancora il compagno. “Ripetilo, se hai le palle!” sibilò.
“Basta, Leone. Adesso stai esagerando,” lo riprese Vittorio col tono serio e canzonatorio del genitore che ricorda al figlio il proprio posto.
Guardando Leone negli occhi, Vittorio si preparò al peggio: l’ncertezza e la paura, impossessate chiaramente di lui, sfogarono come la peste su quel corpo provato. Vittorio avrebbe dovuto prevedere che il prossimo a cedere, dopo Davide e la sua disperazione cattolica, sarebbe stato proprio Leone, e in qualche modo arginarlo da se stesso. Il suo ruolo nel gruppo, dopotutto, era proprio quello: sanare il sanabile.
“Ti ascolto, Leone, ma prima chiedi scusa a Davide e rimettiti seduto.”
L’uomo con i calzettoni a righe fece tutt’altro. Si voltò dalla parte di Vittorio e minacciò anche questi con la pala scheggiata. I muscoli pulsanti, il respiro agitato. “Non dirmi cosa devo fare! Chi ti ha promosso, eh? Lo Spirito Santo?! Lui non credo proprio!” ruggì indicando il Gran Maestro ai piedi del mastro arciere.
Vittorio tacque, inginocchiato sul figlio di Giovanni, pensando a cosa dire.
Leone prese fiato. “Perché siamo qui, Vittorio?” gli domandò. “Per rubare una barca e sperare di arrivare vivi fino a Monteriggioni? Oppure credi davvero che qualche anima pia ci prenda con sé e ci consigli un buon medico? Sai almeno dove siamo? Se questo è il lago di Bracciano come penso che sia, le Guardie di Cesare hanno tutta l’autorità che gli serve per romperci il culo e sbatterseli di nuovo, i reggenti, perché qui, gli Orsini, sono caduti nel ‘98!” concluse con un ringhio.
“Lo so bene,” pronunciò calmo Vittorio, cercando di dissuadere il compagno dall’ira che sembrava diventata una moda. “Ma non hai motivo di comportarti così, di aggredirci; cosa ti abbiamo fatto?”
Si pentì molto presto di aver scelto quelle parole.
Leone avvampò. “Quello è un fottuto incapace,” sbottò puntando Davide con il remo, “e questo una testa di cazzo che ha firmato per tutti noi un posto all’Inferno!” Dio solo sa cosa astené Leone dal calciare il Gran Maestro, disteso ai suoi piedi.
Davide sbiancò. Lui che con Leone ne aveva passati tanti, di litigi, aveva capito che il loro compagno era arrivato a un punto di non ritorno. Quando partivano le parolacce, c’era poco che potessero fare…
Vittorio rimase a lungo immobile, ma appena osò prendere fiato, l’altro sopraggiunse.
“Perciò adesso ascoltami: torniamo indietro, consegniamo questa merda d’uomo alle Guardie Papali e avremo fatto l’unica mossa saggia della giornata.”
Alludeva al Gran Maestro, con disprezzo.
“Bastardo infame… come osi?!” esordì Davide, sconvolto.
“Leone, renditi conto di cosa stai dicendo…” pervenne Vittorio. Il baratro più  profondo che può toccare la disperazione di un uomo è quello della follia. Leone ci era dentro con tutte le scarpe.
“Ragiona con me, Vittorio:” cominciò improvvisamente tranquillo. “Non gli resta molto da vivere, lo sappiamo benissimo, perciò è questione di minuti prima che sia buono solo per i pesci. E i nostri pesci, Vittorio, sono le Guardie che Cesare ci ha incollato alle chiappe. Per come la vedo io, ottenuta anche solo una parte, ma una grossa parte, di quello che cercano, si dimenticheranno del resto e noi saremo liberi di rientrare a Roma indisturbati! Torneremo da messer Machiavelli, arruoleremo nuovi adepti, ci occuperemo della villa. Noi, Vittorio, insieme. In futuro potremo riorganizzarci, tagliare la testa a Cesare, quel figlio di puttana, una volta per tutte. È la cosa giusta, tu sai che è l’unica cosa giusta da fare,” sottolineò, poi parve illuminarsi e si corresse oltremodo: “l’unica che lui ci ordinerebbe di fare… se mai si risvegliasse da questa post-sbronza pietosa,” concluse con dell’altro sarcasmo di pessimo gusto.
Nonostante la sfacciataggine e quella mancanza di rispetto considerevole, Leone era riuscito ad insinuare il dubbio ancora una volta, con la sua dote di politico incompreso. Era una decisione razionale, dopotutto, dovette ammettere Vittorio a se stesso, seppur dettata unicamente dall’istinto di sopravvivenza. Il ragionamento di Leone aveva senso, ma questo perché il sopra citato non era uno stupido, anzi! Il problema di Leone, lo stesso che Davide era troppo orgoglioso di contare come unico e solo, era che usava la sua intelligenza nel modo e nel momento sbagliato.
“Sei con me, fratello?” Leone gli porse un braccio, lieto di farselo stringere, ma Vittorio indugiò guardando oltre la sua figura, dove gli occhi di Davide, infossati e cerchiati dall’angoscia e dal dolore, lo supplicavano come quelli di un cerbiatto ferito. È troppo convinto… devi fare qualcosa, dicevano.
Il mastro arciere prese la sua decisione, a nome del gruppo, e non volle ascoltare altre ragioni.
Agire. Subito. Nel bene della Confraternita.
Con una manovra improvvisa e fulminea, Vittorio strappò il remo dalle mani di Golia e lo incastonò nuovamente nello scalmo, mentre Leone, sorpreso e senza avere il tempo di fermarlo, si gonfiava dalla rabbia.
“Torna al tuo posto e continua a remare,” dettò il mastro arciere. “Non è un consiglio, ma l’ordine di un tuo superiore,” concluse autoritario.
Leone strinse i pugni lungo i fianchi così forte da scrocchiarsi le nocche.
Vittorio riprese il timone. Davide, facendo attenzione a non pesare sul ginocchio indolenzito, tornò seduto sulla prua.
Leone si era impuntato, di nuovo, e stentava ad ubbidire. Quei placidi occhi azzurri che amavano la vita e la guerra allo stesso modo erano diventati specchi della paura e del rancore. I muscoli di tutto il corpo pulsavano gonfi sotto i vestiti pregni di pioggia.
Accadde in una frazione di secondo: salì la prua e scese la poppa. Vittorio non riuscì né a parare né a schivare le nocche di Leone, che gli affondarono nella mascella e lo sbilanciarono all’indietro. Incassato il colpo, Vittorio precipitò dritto in acqua.
Appena il gozzo smise di oscillare, Leone si voltò verso la prua.
“Cristo Santo!” imprecò Davide sporgendosi dalla balaustra con un moto istintivo del quale, però, si pentì in fretta. “Perché?!” domandò poi guardando Leone senza che Vittorio fosse ancora riemerso.
“Perché vi siete rammolliti, e io voglio vivere per farmi ancora tua sorella!”
Lo stratega inorridì, e per qualcosa che non era il dolore alla gamba. “Tu… cosa?”
“Non dirmi che in tutto questo tempo non te l’ha mai detto?” si stupì Leone con un sorriso malvagio. “Ma come? Ho sempre pensato che fosse uno dei motivi per cui mi manderesti volentieri sotto terra.” Si mise seduto, impugnò i remi e iniziò a far ruotare la barca nella direzione dalla quale erano venuti.
“Carolina… la mia Carolina,” mormorò Davide a fior di labbra, sconcertato.
“Da quando ha aperto quel bordello, non è più solo la tua Carolina,” sghignazzò dando la prima remata verso terra.
Davide si guardò indietro, dove era scomparso Vittorio e lo specchio d’acqua s’increspava al cadere dalla pioggia. Si chiese perché aspettare tanto prima di vederlo riaffiorare.
Un paio di braccia emersero all’improvviso e trascinarono Leone in acqua con un gran chiasso. Poi Vittorio si sostituì a lui, rimontando fulmineo sul gozzo.
A quel punto la priorità dello stratega fu non perdere l’equilibrio per via della barca che ondeggiava.
Quando Leone ricomparve e spalancò le fauci per riempirsi d’aria i polmoni, si ritrovò una lama puntata alla tempia.
“Spero che il bagnetto ti abbia schiarito le idee.” Vittorio, l’uniforme tanto appiccicata al corpo da sembrare una seconda pelle e invaso da impercettibili tremori, impugnava saldamente la sua spada romana contro Golia.
Il pelo biondo cenere del leone gli copriva un occhio. L’altro era tornato alla sua solita luce. L’uomo borbottò qualcosa d’incomprensibile, ma alla fine accettò pacificamente la mano tesa di Davide mentre Vittorio si spostava dall’altra parte del gozzo per bilanciare il peso.
Di nuovo a bordo e con i mattoni nei vestiti, Leone prese posto vicino al Gran Maestro, al quale lanciò una breve occhiata pentita. Gettò la testa in avanti e si mise le mani tra i capelli gocciolanti, come il resto. Se pianse, non volle darlo a vedere.
Vittorio lo degnò giusto di uno sguardo, poi, reggendosi all’albero, raggiunse Davide a prua. Il ragazzo si stava massaggiando la gamba ferita e quando si accorse del mastro arciere dietro di sé, si fermò un istante. “Nessuno proverebbe pietà per degli sconosciuti, armati, comparsi dal nulla nel cuore della notte…” mormorò sconsolato, ma dietro quell’affermazione si nascondevano ben altre ragioni di malessere.
“Conosco il cuore di questa gente,” incise Vittorio guardando a nord, dove qualche altro chilometro cubo di acqua li divideva dalla costa abitata. “Ed è simile a quello di ciascuno di noi.”
“Allora Leone non mentiva,” si stupì Davide.
“Su cosa? Che il bastone del pastore è già passato su queste terre? No, Leone ha detto la verità. Bracciano e tutte le sue frazioni portano cicatrici fresche di frustino spagnolo.”
“Perciò… c’è ancora speranza… per noi,” concluse il giovane stratega cercando con gli occhi gialli quelli nel cappuccio di Vittorio.
“Rimettiti a pregare, Davide,” gli suggerì il mastro arciere tornando a poppa; impugnando il timone ordinò a Leone di riprendere i remi almeno per scaldarsi, sempre se non preferisse crepare. Ma Golia fissava qualcosa alle sue spalle e, quando anche Vittorio si voltò, non poté credere ai propri occhi.








.:Angolo d’Autrice:.
Sarà l’estate ormai prossima, oppure la semplice consapevolezza di interrogazioni e compiti in classe ormai alle spalle, ma nuovo capitolo o nuova storia che sia, ho una gran bella faccia tosta a farmi vedere di nuovo qui, con la medesima comparsa annuale dopo mesi d’inattività sia come scrittore che come recensore della sezione. Ogni tanto, sempre più raramente, ho continuato a tenere d’occhio il numero delle storie che…
Ma parlare di cose serie no, eh?
Queste otto pagine e mezza che avrò ritoccato 100 volte, prima di decidermi a postarle, sono la conseguenza del mio modo confusionario di far accadere tante cose tutte assieme, e di non avere pietà alcuna dei miei personaggi, fin troppo protagonisti delle situazioni più assurde.
Intanto, per precisazione e perché mi va di mettervi in testa Aurelio Enrico Pulciani così come l’ho immaginato io, ecco un link ad un mio primo disegno su di lui.
Seguendo, ci tenevo a confessarvi che l’altra versione della cattura di Adriano nei Giardini Papali è andata perduta sul pc di mia madre, che custodiva l’unica copia del file. Perciò, almeno per ora, non sono previsti ulteriori aggiornamenti di Helleborus Niger, la raccolta one-shot/capitoli che fa da Expansion-Pack a questa fan fiction.
La scenata di Leone, con conseguente bagnetto suo e di Vittorio, l’avevo in mente fin dal prologo, quando ho pensato che due galli come loro, su un piccolo e mal conciato gozzo a vela latina, se ne sarebbero stati tutt’altro che nel proprio pollaio. Da una parte voglio dare ragione a Leone, sul fatto che lasciare (più che consegnare – dopotutto non si sarebbero mai permessi di presentarsi personalmente con il Maestro tra le braccia agli spagnoli) la carcassa di Ezio alle guardie, pur in quelle condizioni, avrebbe facilitato loro la fuga. Dall’altra Vittorio ha tutto il diritto di decidere per lui, per Davide e per Ezio, adesso che quest’ultimo è incosciente. Una netta differenza di grado, tra il mastro arciere e Golia l’ho immaginata e speravo che si fosse intuita fin dal II capitolo, quando Ezio e Vittorio discutono negli alloggi di quest’ultimo.
L’ultima precisazione riguarda, come al solito, la costanza nella pubblicazione dei post futuri. Ovviamente, non posso parlare di costanza, ma neanche di aggiornamenti. Helleborus, a differenza di qualsivoglia long-finction che io abbia mai scritto o sulla quale stia tutt’ora sbattendo la testa, è diversa proprio per questo: sto cercando di evitare che diventi uno sfogo, o quanto meno si allontani dall’essere un diario personale del quale, a piccoli assaggi, porto sempre qualcosa in queste note d’autrice.
La verità è che ho meditato a lungo se continuare o meno la pubblicazione, pur potendo rinviare la sospensione della fiction fino al XIV capitolo. E mi rendo conto che, nella seconda eventualità, più che un torto a me stessa avrei finito col coinvolgere i miei carissimi lettori, quei quattro gatti coraggiosi che riescono a decriptare la mia scrittura catatonica e dai quali fa sempre piacere sentirsi criticare piuttosto che lodare :)
Per ora è tutto. Perdonate i banalissimi link alle pagine di wikipedia, ma non ho proprio la forza di commentare personalmente personaggi, date, e luoghi storici.
   
 
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