Stella del Sud - Atto IV
Parte Seconda -
Atto Quarto
“e par che de la sua labbia si
mova
uno spirto soave pien
d’amore,
che va dicendo a
l’anima: Sospira.”
Dante Alighieri, Vita Nova, Cap.
XXVI, vv.12-14
Quel
settembre si rivelò il più caldo degli ultimi
anni e
tutti ad Alessandria non facevano altro che lamentarsi dell’afa opprimente che assediava la città da
giorni e giorni, sostenendo di non ricordare di aver mai vissuto niente
di simile. Fra di loro c’era anche Aida, la quale si era appena trascinata nella hall dopo aver discusso con lo scortese
pescatore
che aveva portato la fornitura di crostacei per il pranzo, come
accadeva ogni volta che aveva a che fare con lui, visto che l’uomo si ostinava
a trattarla come se non capisse nulla. Forse, non era un caso che Rami
le
chiedeva sempre di interagire con quel tale al posto suo.
Stremata, approfittando dell’assenza di clienti nei paraggi, la
ragazza decise di prendersi una piccola pausa e si lasciò
cadere
su uno dei divani dell’ingresso, sbuffando: tra il caldo, il
ritmo serrato di
lavoro e la mole di studio per l’ultimo, imminente esame non
riusciva a ritagliarsi nemmeno un minuto per sé; per giunta,
negli ultimi tempi, anche Giancarlo aveva avuto molto da fare e si
erano sentiti solo per pochi minuti al giorno.
Anche se l’aveva visto recentemente di persona, quando aveva
deciso di passare con lei la
prima settimana di agosto, in occasione del suo ventiquattresimo
compleanno, Aida cominciava a sentire che quel modo di incontrarsi
così saltuario non le bastava più. Infatti, dopo
essere
uscita ogni sera con lui per sette giorni consecutivi - Rami
aveva
dato loro il permesso, purché portassero con loro
Samir -, la ragazza aveva capito ancor di più quanto fosse
frustrante non poter stare con lui ogni volta che ne aveva voglia. In
particolare un pomeriggio, quando aveva fatto assaggiare al giovane
i baklava1 e
questi
le
aveva promesso che avrebbe ricambiato la gentilezza portandola in una
delle migliori gelaterie di Roma, anche se suo fratello non si
era deciso ancora a darle il permesso di partire, sostenendo che in quel periodo non poteva
abbandonare il lavoro.
Cercando di scacciare quei pensieri, la giovane sospirò, fissando il soffitto della hall
con
occhi tristi: aveva la netta impressione che Rami stesse temporeggiando
con banali scuse, per non rivelare che, in realtà, non aveva la benché
minima
intenzione di lasciarla partire, anche se le sfuggiva il motivo. Forse
non era stato troppo contento dell’invito di Giancarlo a
trascorrere qualche giorno a casa sua, ma lei non capiva il
perché, visto che, dopo aver
conosciuto i genitori di lui, suo fratello si era parecchio
tranquillizzato.
Tuttavia, con o senza quel permesso, la fanciulla sarebbe dovuta
andare comunque, non solo perché le mancava il giovane, ma,
soprattutto,
perché doveva ancora rispondere alla sua proposta, visto
che, da
quando lui le aveva chiesto di sposarlo, nessuno dei due aveva
più toccato l’argomento.
In realtà, Aida sapeva bene di provare molto
di più che semplice simpatia nei confronti di Giancarlo.
Altrimenti, come poteva spiegare i battiti del suo cuore, che acceleravano solo
a sentire la sua voce, la tristezza crescente ogni volta che si
separavano o il desiderio di perdersi nel suo abbraccio caldo e sicuro?
Eppure, in quella vicenda c’erano
più dubbi di quelli che avrebbero dovuto esserci:
avrebbe mai potuto vivere in serenità con
l’uomo che, ormai, sapeva di amare? O il suo destino sarebbe
stato quello di essere infelice per tutta la vita? Tanti, troppi
vincoli ostacolavano la sua relazione con Giancarlo e, nel
riportarli alla mente, la giovane si sentì come affogare nel
pantano dei suoi timori.
Per
ironia della sorte, ad impedire che quella palude di
negatività la inghiottisse mentre era seduta sul divano,
intervenne proprio la voce di suo fratello che,
dall’ufficio, le ordinò di portargli un
tè rosso,
poiché lui era impegnato e non poteva
spostarsi.
«L’orso bruno ti comanda a bacchetta,
eh?» esordì Jamila non appena la vide, mentre
canticchiava rimettendo a posto alcune stoviglie.
«Già, settembre è sempre il periodo
peggiore: lui è sotto stress e lo fa scontare a
noi!» si lamentò la fanciulla, afferrando un
filtro per infusi in metallo e un barattolo di latta.
«Be’, per fortuna, almeno tu hai qualcun altro che ti tratta
come se fossi una
principessa!» insinuò l’altra,
continuando a sistemare tazze e bicchieri.
A quel commento, Aida finì di scaldare l’acqua con
il
getto di vapore e sospirò, triste: «Peccato, però, che io non lo sia affatto».
Sorpresa da quella considerazione, l’amica la
fissò per
qualche istante, per poi avvicinarsi e domandarle, preoccupata:
«Dada, che c’è?»
«Niente...» mormorò la fanciulla
finendo di
preparare la bevanda, cercando in tutti i modi di arginare l’oppressione
dettata
dalla consapevolezza che la differenza di classe sociale tra lei e
Giancarlo fosse solo la punta dell’iceberg di tutte le sue
angosce.
«Non mi dire che hai litigato con il tuo bel
biondino!»
esclamò Jamila, sconcertata, come se avesse intuito che il giovane era nella mente dell’altra.
Nel sentirlo menzionare, Aida sobbalzò e la guardò, sbattendo le palpebre. Poi, come uscita da una sorta
di
trance, si affrettò a rispondere: «Oh, no, no!
È
solo che... dovrei rispondere alla sua
proposta e non so ancora che cosa dirgli».
L’altra, allora, dopo aver lanciato un’occhiata intorno a sé, approfittò del fatto che fossero sole
per avvicinarsi ancor di più alla ragazza.
«Se ti piace, non credo che ci sia tanto da dire»
fece seria, a voce bassissima.
«Accetta e basta!»
«Non è così facile!»
replicò quella, stizzita. «Non è
sufficiente che mi piaccia, ci sono
tante altre cose da mettere in conto!»
«Dada, secondo me, tu ti fai troppi problemi...»
A quel punto, Aida afferrò maldestramente un barattolo e
buttò
con rabbia due cucchiaini del suo contenuto nel bicchiere di Rami, per
poi voltarsi verso l’amica e lanciarle uno sguardo
minaccioso. Come poteva sapere quanto stava male per
quella situazione?
«E tu, Jamila, non te ne fai affatto!»
replicò, furiosa, prima di afferrare il bicchiere e darle le
spalle, allontanandosi in
tutta fretta.
«Ecco il tuo tè, Rami!»
sibilò Aida, sbattendogli il bicchiere ad un soffio dalla
sua mano e versando più della metà del contenuto
sul ripiano estraibile della scrivania,vicino alla la
tastiera e al mouse.
«Si può sapere che ti prende?!» le
chiese il fratello,
fissandola sbigottito, ritraendo troppo tardi il braccio.
La fanciulla, però, ignorò la domanda,
limitandosi a
fissarsi le unghie con fare distaccato; alla fine, dopo qualche secondo, davanti ad un simile
atteggiamento, il giovane si accigliò e scrollò
le
spalle. Poi, accostò il suo
infuso di roobois2
alle labbra per bere quel poco che era rimasto.
«Puah! Ma... è disgustoso!»
esclamò subito dopo, tirando fuori la lingua.
Aida alzò di scatto la testa verso di lui, corrugando
la fronte e aprendo appena la bocca.
«Cosa… cosa c’è?»
gli chiese, confusa.
L’altro si alzò subito dalla sedia e le si
piantò
davanti, trafiggendola con un’occhiata minacciosa: «Si può sapere che
cosa ti è saltato in
mente?! Vuoi
avvelenarmi, per caso? » la rimproverò, adirato.
Sempre più stupita, la fanciulla spostò lo
sguardo sul bicchiere ancora fumante e, timidamante, iniziò:
«Non capisco, Rami, io ci ho messo la solita
quantità di
zucchero…»
«Zucchero?!» la interruppe, però, l’altro, tra lo sconcertato ed il furibondo.
«Aida, questo tè è salato
come l’acqua del Mar Morto!»
Improvvisamente, nella mente di lei fu tutto più
chiaro: come un lampo, le riaffiorò alla mente la scena di poco
prima: aveva preso il barattolo blu anziché quello rosso.
«Oh, no, temo
di aver confuso lo zucchero con il sale!» pigolò, abbassando lo sguardo.
Tuttavia, dopo la sua confessione, l’espressione di Rami si
indurì ancora di più.
«Brava, i miei complimenti!»
sbraitò. «Non puoi permetterti queste
distrazioni!
Hai idea di quali sarebbero state le conseguenze, se fosse successo con
un ospite?»
«Rami, scusami, io…»
Ma il giovane non volle sentire ragioni: tornò alla
scrivania,
afferrò il bicchiere e, dopo aver raggiunto la finestra,
gettò l’infuso all’esterno con un gesto
rabbioso.
«Scusami un corno! Aida, vedi di scendere dalle nuvole una
volta per tutte, altrimenti provvederò io stesso!» concluse, facendo
tremare anche il pavimento.
Non sapendo cosa aggiungere, sentendosi mortificata ed incompresa, la
sorella abbassò il capo e, un attimo dopo, scappò via, diretta nella
sua stanza.
Proprio in quel momento, con il fiatone, sopraggiunse Jamila.
«Non… non dirmi che… l’hai...
già
bevuto» annaspò.
«Se intendi quella porcheria che mi ha rifilato quella
sciocca,
purtroppo sì!» replicò il concierge,
ancora
visibilmente schifato, rimettendosi seduto.
«E… dov’è Aida?»
continuò
l’altra, guardandosi intorno come se sperasse di scorgere
l’amica in qualche angolo o dietro il vaso delle orchidee
bianche.
«Se ne è andata dopo che l’ho
rimproverata» sbottò il ragazzo. «Deve
smettere di vivere nel suo mondo immaginario, o…»
«Che cosa hai fatto?!» strillò la
ragazza,
impedendogli di continuare. «Ti rendi conto di quanto sei
insensibile? Tua sorella
si trova in una fase della sua vita molto delicata!»
«Sì, lo so che settembre è un
periodaccio»
ribatté, invece, lui, fingendo di capire ciò che gli
faceva comodo.
Tuttavia, lo sguardo iracondo di Jamila gli fece presto capire
che
non aveva apprezzato il suo tentativo di lasciar cadere
l’episodio
nel dimenticatoio, perché, dopo essersi messa davanti al fidanzato,
quella sbatté entrambe le mani sulla scrivania,
facendolo sobbalzare.
«Tua sorella deve studiare, deve sostenere ancora un esame e tu
la sovraccarichi di lavoro!» lo redarguì,
intimidatoria. «Deve badare a Samir e deve provvedere a tutte le richieste!»
«Ma…» tentò di protestare il
ragazzo, prima
di essere prontamente zittito da un nuovo attacco.
«Niente “ma”! Sai bene che deve prendere
una
decisione importante da cui dipenderà la sua felicità!
Perciò, ora io e te faremo una bella chiacchierata su
quello che le dirai in allegato alle tue scuse, chiaro? E... a
proposito, non
osare dire neanche mezza parola contro Giancarlo, che ha
dimostrato di tenere davvero a lei, impiccandosi per vederla a malapena
e rispettando le tue medioevali condizioni! Rami, ricordati che non sei
non sei suo padre:
se non consentirai a quella povera ragazza di farsi una vita, giuro che
te la farò pagare!»
Il giovane subì passivamente tutta quella serie di insulti
con gli
occhi
spalancati per la sorpresa, incapace di ribattere. Di solito, infatti, era lui a
dispensare lavate di testa e si accorse che esserene per la prima volta il destinatario non era certo
molto piacevole.
«Ehm, credo che ne potremmo parlare…»
iniziò, incerto, con lo sguardo fisso sul volto di Jamila,
ridotto ad una maschera di rabbia.
Dal canto suo, quella non perse tempo nel replicare: «Se ci
tieni
alla tua incolumità, ti consiglio di rettificare quel
condizionale, sai?»
Aida era seduta sul pavimento, con la schiena appoggiata contro il muro
e le gambe
raccolte contro il petto, lasciandosi sfuggire ogni tanto un sospiro
sconsolato, mentre deplorava l’eccessiva reazione di Rami per le
sue distrazioni. Purtroppo, però, doveva ammettere che in quel
periodo non era molto presente: aveva
tanti
pensieri che le turbinavano nella mente e cominciava a sentirsi
piuttosto
stanca, incapace di fronteggiare tutti i problemi e, soprattutto, di
fare le
scelte giuste.
Tuttavia, non passò molto da quando era scappata che
qualcuno
bussò alla porta e, dopo aver ricevuto il permesso di
entrare,
Jamila si affacciò nella stanza: «Come va,
bella?»
«Un po’ meglio, grazie» rispose
Aida, stiracchiando un sorriso. Poi, con un cenno della mano,
invitò l’amica a sedersi a terra accanto a lei.
«Mi dispiace per prima, Jamila. Non volevo essere
così
scortese» esordì, dopo aver preso un bel respiro
di
incoraggiamento. «Non pensavo
davvero ciò che ho detto» aggiunse, sentendosi
tremendamente in colpa per come
l’aveva trattata. Certo, a volte, non avevano la stessa opinione,
ma quella ragazza era sempre stata buona con lei ed era davvero
l’unica su cui potesse contare in ogni momento.
«Tranquilla, non preoccuparti: hai detto la
verità,
perciò non
mi sono offesa» replicò l’altra,
mettendole una mano
su un braccio con un sorriso sulle labbra. «Tu sei sempre stata
più
riflessiva di me. E poi, al contrario di tuo fratello, ho capito che
non
ce la fai più».
Nell’udire quelle parole, la fanciulla ricambiò
debolmente
il sorriso, così Jamila, incoraggiata, si sistemò meglio,
mettendosi
a gambe incrociate davanti a lei e fissandola con aria indagatrice.
«Perciò ora non potrai rifiutarti di rispondere alla mia domanda:
cosa hai deciso di fare con il tuo affascinante innamorato?»
«Davvero ancora non lo so» rispose la
fanciulla, stringendosi di più le gambe contro il
petto e
appoggiando il mento su un ginocchio.
In risposta, l’altra sbuffò,
impaziente:
«È quasi un
anno che vi scambiate sguardi languidi... per caso vi divertite così
tanto
a giocare agli amanti contrastati, portando aventi questa ridicola tresca?»
Allarmata ed indignata da quel termine, Aida ebbe un sussulto e si mise
immediatamente sulla difensiva.
«Tra me e Giancarlo non c’è nessuna
tresca!» esclamò, contrariata.
L’amica, allora, la guardò a lungo e,
senza alcun
imbarazzo, la incalzò: «Ah, no? Allora,
perché
non vi mettete ufficialmente insieme?»
«Ma... non è così semplice!»
sbottò la
fanciulla, molto vicina all’esasperazione, poiché
non
avrebbe potuto zittire Jamila come faceva con i propri tormenti
interiori. Alla fine, dopo aver scosso ripetutamente la testa cercando di trovare dentro di sé la calma necessaria
per
affrontare, una volta per tutte, quel discorso a voce alta, distese le
gambe e chiuse gli occhi, contando fino a cinque.
«Se accettassi la sua proposta, dovrei andare via dal mio
paese e abbandonare tutti voi, che siete la
mia
famiglia» cominciò a spiegare, sentendosi
più leggera ad ogni parola che le usciva dalle labbra.
«C’é ancora la tesi da discutere a
gennaio, papà tornerà a casa per
Natale e poi io dovrei rinunciare per sempre a lavorare al Museo
Nazionale de Il Cairo...»
«Be’, come prima cosa, non ti ha mica detto che ti
sposerà domani: se ti ama davvero, capirà che hai
bisogno
di tempo» obiettò, allora, l’altra, come
se sentisse
il bisogno di aiutarla a riordinare le idee, dandole dei
punti
fermi sui quali ragionare. «Inoltre, andresti a
vivere in
Italia, non in
Patagonia! Davvero credi che in una città come Roma non
riuscirai a trovare un museo decente per cui lavorare?»
«Non lo so, Jamila. Magari, nel frattempo, potrebbe stancarsi
e trovarsi un’altra ragazza più matura,
più adatta al suo rango o, magari,
semplicemente più bella e attraente»
commentò Aida,
amareggiata, stringendosi le braccia addosso per confortarsi.
«Tu non puoi nemmeno immaginare quante colleghe gli vadano
dietro, in facoltà!»
«Non si può certo dire che siano del tutto sceme, no? Cercano semplicemente
l’uomo bello, fascinoso e
ricco» replicò l’amica, facendo una
smorfia di
disapprovazione. «Comunque, è stato lui a
parlarti
delle sue
ammiratrici?»
«Non proprio, ma, poiché mi racconta tutto, ho
capito da sola che ne ha fin troppe» aggiunse la fanciulla,
incupita, scrutando la sua interlocutrice, che si era lasciata
sfuggire un sorrisetto furbo.
«Sbaglio, o ti stai lasciando corrodere dalla
gelosia?» esclamò
quella, prendendola bonariamente in giro. «Comunque sia, non
credo che tu debba preoccuparti, se è il biondino
stesso a
confidarti queste
cose, perché significa che non ti sta nascondendo
niente»
fece una piccola pausa, poi
proseguì: «Ricordati sempre che Giancarlo ha
sfidato quel
bisbetico di tuo fratello per avere l’opportunità
di parlarti e continua a sopportare i suoi commenti velenosi solo per
vederti».
Aida, allora, volse lo sguardo verso la finestra, attraverso la quale riusciva a vedere solo uno scorcio di cielo azzurro
brillante e privo di nuvole: una campitura di colore che pareva
simboleggiare quella serenità che desiderava, ma che
non
le apparteneva.
«Io non avevo messo in conto di innamorarmi adesso»
sospirò, concentrandosi su quella tinta uniforme e, in
quanto tale, rassicurante. «Prima di conoscere
Giancarlo, non avevo mai provato nulla di simile: ero innamorata della
vita e dell’amore stesso e vivevo bene
così. Vorrei solo che Samir fosse più
grande, perché ha ancora tanto bisogno di me...»
«Tesoro, queste cose succedono e basta» intervenne Jamila, ferma. «Chi
l’avrebbe mai immaginato, dopotutto, che per quell’orso di tuo
fratello, per giunta più giovane di me, avrei abbandonato
tutto e tutti? Eppure è successo. Inoltre, non credo che
Samir sia un problema, visto che quel ragazzo sa quanto sei importante
per il tuo
fratellino, tanto da averci detto chiaramente che non vede l’ora
di prendersi cura di lui assieme a te».
Richiamata alla realtà da quell’ultima affermazione, Aida smise di
contemplare il cielo e tornò a guardare l’amica,
corrugando la fronte.
«L’ha detto a Rami e a me l’altra volta,
mentre tu e Samir vi stavate preparando per uscire con lui»
spiegò l’altra, continuando il suo discorso.
«Tuo
fratello gli
stava raccontando che, per un po’, dovremo occuparci di
vostro padre, visto che dopo otto anni di prigione non sarà
facile tornare alla vita di prima e così, Giancarlo ha
subito mostrato l’intenzione di prendersi cura sia
di te che
di
Samir».
La fanciulla cercò sul volto dell’altra anche il
più piccolo segno che potesse tradirla,
ma
non ne trovò nemmeno l’ombra.
«Che cosa stai cercando di dirmi?» chiese, allora,
incredula. «Rami non
può aver deciso di lasciare che noi...»
«Aida, ti sto dicendo che è ora di pensare ad una
tua eventuale famiglia e che Rami ha capito di dover fare lo
stesso» affermò Jamila, decisa.
«Inoltre, come hai detto tu stessa, sa che Samir è
piccolo e
ha bisogno più di te che di lui. Hai sempre ubbidito a tuo
fratello maggiore e credo che adesso anche tu meriti un
po’ di felicità, quindi vedi di dare al più presto una bella
risposta al tuo bel biondino!» concluse.
Dopo poco
si alzò e, dopo essersi spolverata la divisa, tese alla
fanciulla una
mano per aiutarla a fare altrettanto.
«Appena ti sarai calmata un po’, scendi, va bene? Rami deve
dirti una cosa» si congedò Jamila, con un sorriso.
Allora, Aida rimase a guardarla finché non fu uscita dalla
stanza, per poi dirigersi verso la cassettiera, posizionata sopra ad un
piccolo tavolinetto in fondo alla stanza, aprire il cassetto
intermedio ed estrarne una scatolina rosso cupo, che, al suo interno, conteneva un
paio di pendenti stellati. Erano il regalo che Giancarlo le aveva
mandato a luglio, in occasione del suo ventiduesimo compleanno e che
lei non aveva mai avuto il coraggio di indossare, considerandoli un
dono troppo prezioso, perché quegli
orecchini, di
fatto, erano un simbolo che riassumeva perfettamente il suo senso di
inadeguatezza verso la situazione.
Sospirando, dopo qualche minuto li rimise a posto e si affrettò a scendere al piano di sotto.
Non appena arrivò all’ultimo gradino, Aida vide Samir, appena
tornato da scuola, correrle incontro
per abbracciarla. Anche Jamila e Rami si avvicinarono in silenzio a lei e non
passò molto tempo che la ragazza spronò il
fidanzato a
parlare, lanciandogli un’occhiataccia.
«Allora? Vogliamo
fare notte?»
In risposta, il ragazzo emise un breve
grugnito, prima di cominciare a parlare.
«Aida... come mi ha fatto notare Jamila, non è
giusto che tu continui a lavorare seguendo questi ritmi, quindi, da
questo
momento e fino al tuo esame, potrai dedicarti esclusivamente allo
studio».
«Davvero?» esclamò lei,
meravigliata.
Rami annuì e aggiunse: «Devi fare ciò
che ti compete, cioè studiare».
«E..?» lo incalzò Jamila.
«E» proseguì l’altro,
sbuffando, «hai il
permesso di andare dal tuo spasimante, come sua
ospite. Per quanto non se lo meriti, gli devi una risposta».
Aida rimase così esterrefatta che cominciò a balbettare: «P-Posso davvero?»
«L’importante è che tu sia qui per
l’inizio del semestre. Devi ancora accordarti su alcuni aspetti con il relatore per la tesi».
«Ma Rami!» protestò Jamila a viva voce.
«Questo non era nei patti! I tempi sono quello che
sono...»
«Prendere o lasciare» sentenziò, però, il
concierge, irremovibile.
«Va bene» rispose, invece, Aida.
«Ho solo
una domanda da farvi: chi si prenderà cura di Samir durante
la mia
assenza?»
«Ci penserà Milia, Dada!» rispose subito
il bambino. «Starò bene,
lei mi porta al parco quando me lo promette» aggiunse,
annuendo vigorosamente.
«Visto, Dada? Ce la caveremo alla grande!» la
rassicurò l’amica, ammiccandole.
A quel punto, Aida li guardò tutti, soffermandosi in particolare sul fratello maggiore e
sorridendogli con gratitudine: «Grazie Rami, di tutto. E
grazie anche a voi, Jamila e Samir».
«Sì, sì, prego, prego, ma ora vedi di
metterti a studiare e di passare degnamente questo esame, altrimenti da
Tornatore ci andrai l’anno prossimo!»
sentenziò il
ragazzo, pratico e sbrigativo, riaccomodandosi alla sua
postazione. In realtà, sapeva bene che la sorella si stava
riferendo alla sua
decisione di lasciar liberi sia lei che Samir, ma non era tipo da
smancerie e preferiva che tutto rimanesse com’era,
poiché,
nel caso Aida avesse accettato la proposta di quell’italiano
-
di quell’occidentale! - per gli addii ci sarebbe stato tempo.
«Piantala, Rami! Vedrai che Dada farà quello che
deve con criterio e partirà sicuramente. Per compensare come
la tratti male tu, orso bruno, il suo tigrotto biondo dovrà
coccolarla per tutta la durata della sua vacanza!»
insinuò Jamila con una sfumatura quanto mai licenziosa,
lanciando ad Aida un’occhiatina molto eloquente e quella avvertì subito un discreto calore che si
spandeva
sulle sue guance. Tuttavia, era troppo contenta per preoccuparsene.
«Ovviamente, porterai i miei rispettosi saluti al signor
Marcello e alla gentilissima signora Beatrice»
proseguì poi Rami, ignorando la fidanzata e calcando con un po’ troppo trasporto e devozione sul nome della donna.
Insospettita, Jamila si voltò immediatamente verso di lui.
«Ma sentitelo, la
gentilissima signora
Beatrice... Mi stai nascondendo qualcosa, per
caso?» sibilò, minacciosa.
«Ah, non lo sapevi, Milia, che Rami ha una cotta per la mamma di
Giancarlo?» domandò ingenuamente Samir e la
ragazza, indignata, insorse istantaneamente.
«Ah allora è così che stanno le
cose!»
«Samir, che cosa ti salta in mente?»
farfugliò il
giovane, palesemente in difficoltà. «Ma no,
Jamila, non
è
come pensi tu!»
«Rami, l’hai detto tu che Beatrice era bella come
la Primavera di... di... come si chiama quel pittore, Dada? Non
ricordo!» chiese il bambino, accigliandosi.
«Botticelli» rispose, allegra, Aida, che ormai
sentiva la sua partenza davvero vicina e concreta.
Jamila, invece, ridusse gli occhi a due fessure, soffiando: «Con te
facciamo i conti dopo, gigolò ruffiano e
adulatore!»
Rami trovò la scena rischiosamente familiare ed ebbe la
netta impressione di essersi cacciato in
grossi guai.
***
L’odore di resina delle maestose conifere che la circondavano la sommerse
immediatamente, intenso e penetrante, mentre si guardava intorno,
notando che, in sua assenza, nulla di quell’immenso
parco era cambiato.
Aida percorse la fitta stuoia di aghi di pino
caduti in terra e si rimise sul selciato, apprezzando ancor di
più, grazie all’aria spumeggiante
dell’autunno romano, tutto quello che aveva già
adorato nella fredda
rigidità dell’inverno.
«Buon pomeriggio e ben tornata, Aida» la
salutò qualcuno alle sue spalle e lei, avendo
riconosciuto la voce, si voltò
all’istante.
«Buon pomeriggio, signor Marcello. Come sta?» gli
chiese, incurvando le labbra con dolcezza.
«Discretamente, grazie» rispose l’uomo,
ormai vicinissimo: era esattamente come lo ricordava, circondato da un alone di austera e raffinata bellezza.
«Comunque, dammi del tu. I
formalismi sono per quelli che non badano alla sostanza».
«Ancora non ci riesco» tentò di
giustificarsi la fanciulla, con semplicità. «Mi
dispiace, ma non penso di poterla chiamare per nome, non mi
viene proprio».
Vagamente sorpreso, quello la guardò, increspando
appena le labbra e manifestando
senza volerlo lo stesso atteggiamento che aveva il figlio quando veniva colpito
da qualcosa.
«Non riesco ancora a credere che quello scostumato si sia
deciso a rivolgere le sue attenzioni ad una ragazza così
compita. Spero che almeno tu riesca ad insegnargli la buona educazione,
dato che io non ci sono riuscito».
Aida, in risposta, abbozzò un timido sorriso, ma non disse altro. In quel
momento, sopraggiunse Beatrice, avvolta in un morbido abito azzurro
dalle rifiniture talmente particolari che la ragazza pensò
fosse di produzione sartoriale. Oppure, chissà, realizzato addirittura dalla sua stessa indossatrice.
«Ben arrivata, cara.
Hai fatto buon viaggio?» le chiese, con quella dolcezza che
l’aveva colpita sin da subito.
«Oh, sì, signora, grazie».
«E come
stanno Rami e il piccino?»
Mentre la fanciulla rispondeva alla domanda, la donna le rivolse
un’occhiata materna, poiché le ricordava molto se stessa quando era
arrivata in quella casa. All’inizio, non era stato semplice
adattarsi, poiché la Matrona, che l’aveva sempre considerata una
bambina inesperta e del tutto
incapace a condurre una casa, era stata poco incline a lasciarle le
redini della villa. Invece, il fatto che Beatrice avesse perso la
madre molto presto e si fosse dovuta
rimboccare le maniche fin da subito si era rivelato molto utile, giacché, superati gli
impacci inizali, era riuscita a cavarsela egregiamente, ripromettendosi
che, se mai un giorno, avesse avuto una nuora, si
sarebbe comportata diversamente con lei. Anche perché il ruolo della
suocera
cattiva non
l’allettava.
Inoltre, Aida aveva donato la
serenità al figlio che Beatrice tanto amava e che era stato
la sua gioia più grande, assieme a Marcello, ai tempi degli
attriti con la madre di lui, perciò non avrebbe mai potuto mettersi contro
colei che aveva reso felice il suo Pulcino.
«Beatrice, accompagneresti Aida a vedere la sua stanza, per
favore?» proruppe il marito, improvvisamente, allontanandola
dalle sue riflessioni.
«Certo,
Marcello.
Vieni con
me, cara,
le tu’
valigie
sono state già
portate di sopra» rispose subito lei, riprendendo le fila del
discoro.
«Giancarlo
sarà qui a momenti, ma l’abbiamo
ancora
tempo».
Approfittando del fatto che la donna
l’avesse menzionato, la ragazza, allora, si
arrischiò a fare la domanda che aveva in mente fin da
quando era arrivata.
«E dov’è, in questo momento?»
chiese con curiosità.
«In ufficio» rispose prontamente Marcello.
«Doveva chiudere una pratica. Sai, ha deciso di cominciare a
lavorare, nei periodi in cui è più libero.
Diciamo, che
ora ha un’ottica più... adulta, anche in questo
senso e,
nonostante i due anni di studio arretrato, vuole darsi da
fare».
«Ah, però, che bravo...»
commentò Aida, sinceramente colpita, visto che il giovane aveva
omesso di raccontarle quel particolare, forse per non darle la falsa
impressione che si stesse vantando.
«Avrà ancora molto da sgobbare, però, perché
deve imparare anche che
non tutto gli è dovuto e che solo con l’impegno
costante si ottengono i risultati» continuò
l’uomo. «A proposito, Aida, dimmi la
verità: come si comporta con te?»
«Oh, Marcello,
perché
devi esser sempre
così
prevenuto nei confronti
del nostro Pulcino?»
intervenne, invece, la moglie, stizzita.
«Fammi sentire cosa ha da dire questa ragazza!»
insistette l’altro. «Aida, rispondimi
senza timore o vergogna: ha mai provato a metterti le mani
addosso?»
«No, mai» replicò la ragazza con
decisione. «Anzi, con me è sempre molto
gentile».
«Sentito?» fece, allora, Beatrice, trionfante.
Marcello, però, non parve molto convinto; infatti, subito
dopo, proseguì: «Se dovesse prendersi certe
libertà, ti autorizzo a tirargli un bel cinquino!
Ovviamente, poi,
vienimelo a riferire, ché lo sistemo io, cominciando proprio
dai suoi adorati capelli».
A quel punto, la donna sospirò, riservando al consorte
un’occhiata di disapprovazione e puntando un pugno chiuso
contro
il fianco.
«Son giovani,
lasciali
vivere!» fece, esasperata. Poi, zittendo con un cenno il
marito che si preparava a ribattere,
sorrise all’indirizzo di Aida. «Cara, vogliamo
andare?»
«Certo, signora» le rispose la fanciulla e,
così, dopo aver salutato l’uomo, la seguì
all’interno di Villa Aurelia.
Tuttavia, non passò molto tempo che anche Giancarlo fu di
ritorno,
arrivando di gran carriera e piantandosi davanti al padre, con le mani sulle ginocchia, nel tentativo di riprendere fiato:
sembrava aver corso molto, visto che perfino i suoi ciuffi biondi,
perennemente ribelli, parevano ancor più sconvolti, tanto
erano rabbuffati.
«Hai fatto tutta la strada a piedi, per caso?» lo
dileggiò Marcello, seppur bonariamente derisorio.
«No...» fece il ragazzo, raddrizzandosi.
«Ho avuto la malaugurata idea di seguire il tuo consiglio e
prendere la metro... La odio, la odio, la odio!»
«Be’ se vuoi evitare il traffico dell’ora di
punta, la
metro rimane l’unica soluzione, a meno che tu non voglia
usare la
bicicletta e farti un bagno di smog» replicò il
padre,
prendendolo in giro.
Offeso dal suo fare canzonatorio, il giovane sbuffò:
«Non fai ridere, sai? Se facessi meno il
preistorico, invece, e mi lasciassi prendere il regalo che zio Guido ha
fatto a
me...»
«Moderati!» lo rimproverò
Marcello. «Ne
abbiamo già parlato: lo userai quando dimostrerai di
avere giudizio. Piuttosto, avete chiuso la pratica Lichtman?»
«Sì, sì, stai tranquillo».
L’altro, però, lo scrutò dubbioso e
ciò non
sfuggì a Giancarlo che, quando se ne accorse, si mise subito
sulla
difensiva, risentito.
«Cosa c’è, non ti fidi, forse? Chiama
Gerardo e
fatti confermare che è andato tutto bene!»
replicò a denti stretti.
Colpito da tanta determinazione, il padre osservò
l’espressione seria del figlio e, allora,
decise di ammorbidirsi un po’.
«Va bene, vedremo. Ora sbrigati, Aida è
già arrivata e, considerando che rimarrà qui per
pochi giorni, sei già in ritardo sulla tabella di
marcia».
A quella notizia, Giancarlo si riebbe da tutto il malumore e assunse
un’aria più contenta; poi, senza aggiungere
altro, si
fiondò come un fulmine su per la scalinata di travertino,
diretto in camera sua.
Nel vederlo sparire così, Marcello scosse la testa e,
avviandosi dalla parte
opposta, esclamò: «Magari scattasse
così anche per
altro!»
Era almeno la sesta volta che, davanti allo specchio, si sistemava la
frangetta o, peggio, cambiava abbigliamento.
E dire che, per anni, era stato convinto
che bastasse un suo mezzo sorriso per far cadere ai suoi piedi tutte le
ragazze che desiderava e che fosse sempre perfetto; quella sera,
invece, si sentiva solo un emerito
cretino.
Spazientito, Giancarlo sbuffò e si buttò a peso
morto sulla soffice poltrona dietro di lui, incurante dei capelli che
stillavano acqua sia sulla camicia
azzurra ancora sbottonata, che sui jeans. Ormai non
si sottraeva più ai confronti con il suo riflesso e lo
scrutò con aria di sfida, tenendo le braccia
conserte e strettamente annodate, attendendo che arrivasse a
sbeffeggiarlo. E, infatti, così accadde.
“Uh-uh... sogno o son desto? Il biondo Casanova in
difficoltà nell’affrontare un appuntamento con una
ragazza!”
«Chiudi il becco! Non è un appuntamento,
è solo tornata a trovarmi ed io la porterò in
giro a
vedere la città, come le avevo promesso. Fine del
discorso!»
“Come siamo scontrosi...” notò il suo
doppio, con un lieve sogghigno. “Di’
la
verità: speri che lei lo consideri come un qualcosa di
più e sei nervoso, perché sai che la posta in
gioco è alta. O sbaglio?”
«Sì, è proprio così,
soddisfatto?» sbottò il ragazzo.
“Oh, dai, rilassati, altrimenti non combinerai niente di
buono, sai?”
In risposta, Giancarlo inarcò un sopracciglio, ma cedette subito
all’istinto di liberarsi di tutta quell’oppressione
ed espirò a fondo,
sciogliendo anche le braccia dal nodo in cui le aveva serrate.
“Visto che va meglio? Comunque, se vuoi un consiglio, cerca
di essere il più naturale possibile: la sincerità
paga sempre”.
«Con lei sono sempre sincero, ma ora non
so che cosa fare, perché Aida non è come le altre ragazze e noi... non
siamo mai
usciti completamente da soli».
“Hai bisogno di aiuto per portarla in giro, per caso? Se
ti comporterai bene,
non vedo perché non dovrebbe funzionare. Prima, però, ti suggerisco di abbottonarti la camicia e di
abbandonare quell’aria da
condannato al patibolo, visto che è assolutamente fuori luogo.
Stai
per uscire con una ragazza semplice e dolce, non con Miss Mondo,
pertanto sii te stesso e sarà già un buon
inizio!”
«Questa è la prima volta che tengo davvero ad una
ragazza» ammise, allora, il giovane, sospirando. «Amo da
impazzire ogni parte di lei e non voglio che finisca tutto ancor prima di iniziare. Ho il terrore di
sbagliare e di allontanarla da me».
“Be’,
comportandoti come un
gentiluomo non troppo ingessato ed essendo sicuro di te, senza cadere
nell’arroganza, aumenterai le possibilità di ricevere una
risposta positiva.
Devi farla sentire desiderata... possibilmente senza sembrare un
pervertito, come
tuo solito!”
«Ora mi stai offendendo, lo sai bene che non mi permetterei mai
di farle qualcosa che non vuole. Io desidero solo che con me
lei possa essere felice».
“Volevo sentirtelo ripetere ancora una volta. Ah,
un’ultima cosa, bambolo”.
«Cioè?»
“Recupera la giacca corta blu dal
tuo armadio e non strafare con il profumo: ho il sospetto che il tuo
le piaccia parecchio, ma non eccedere, poiché devi dare
l’idea di
raffinata sobrietà, non di uno che se la tira!”
Il ragazzo, allora, fece come gli era stato consigliato, rimanendo
piacevolmente
sorpreso dal risultato finale.
“Bene, cocco. Ora puoi andare e, mi raccomando, stai in
campana e tieni a mente che... chi troppo vuole nulla stringe”.
A tali parole, Giancarlo aggrottò la fronte e convenne che,
dopo
quell’esperienza, di proverbi, aforismi e massime ne
avrebbe avuto abbastanza per tutta la vita.
Non appena entrò nel salone, il ragazzo vide immediatamente
Aida parlare con sua madre e si accorse che, a giudicare dal modo
familiare con cui le erano stati raccolti i capelli, attorcigliati su
loro stessi e poi ripiegati sulla nuca, doveva esserci dietro la mano
di Beatrice. Indossava un leggero vestito avorio, i suoi
soliti fermagli e un bracciale dorato che
Giancarlo non le aveva mai visto, forse perché non gli era
mai stata offerta l’occasione di vederle le braccia e le
spalle scoperte, visto che Rami aveva passato al vaglio anche la
lunghezza degli
abiti della sorella, quando le aveva permesso di uscire con lui. Non
che ne avesse il motivo, in effetti, considerata la riservatezza di
Aida.
Il ragazzo, allora, si soffermò a osservarla, appoggiato
contro lo stipite della porta, godendosi ogni suo gesto e
saziandosi solo a sentire la sua voce, certo che non
avrebbe notato la differenza se fosse stata coperta di stracci oppure
ammantata di seta e broccato. Era stato troppo tempo lontano da lei, così
decise di rimanere ancora un
po’ in silenzio ad ammirarsela in pace, finché la
madre non si accorse
di lui e lo richiamò.
«Eccoti,
finalmente, Pulcino!»
Nel sentirsi chiamare con il solito appellativo, alla sua
età e davanti alla ragazza che gli piaceva, il giovane
sospirò ed avanzò verso le due donne.
«Mamma, ti prego, basta con questi
nomignoli!» fece, leggermente imbarazzato.
«Non capisco che cosa ci sia di male»
replicò, però, lei, con fare innocente. «L’è
solo una
dimostrazione di affetto di una madre verso il proprio
figlio».
In risposta, il biondo scosse la testa: «No, mamma.
È imbarazzante».
«Ma Pulcino,
anche l’Aida
ha detto che
trova carino
questo tuo vezzeggiativo»
insistette, allora, Beatrice.
«Ah, sì?» fece lui, sorpreso, voltandosi
verso la
ragazza, notando immediatamente, che i suoi occhi scuri lo
stavano scrutando
con un misto di divertimento e sfida, come se stesse contando i secondi
che ci avrebbe impiegato per salutarla. Graziosa, fiera e semplicemente
bella come un raggio dell’aurora dopo la notte più
buia.
«Ciao, Aida» le sussurrò, con seducente,
finta noncuranza. «Noto con piacere che sei arrivata sana e
salva».
«Ciao, Giancarlo. Sì, a quanto pare
so badare a me stessa»
gli rispose lei, con tranquilla
disinvoltura. «A proposito, Samir ti
manda i suoi saluti» aggiunse, subito dopo.
«Che bravo bambino, spero di poter ricambiare presto
di persona».
Erano l’uno davanti all’altra, ma nessuno dei due
sembrava voler cedere per primo, mentre Beatrice li
scrutava con un sorriso
sottile sulle labbra, certa di poter avvertire il ronzio
dell’elettricità intorno a lei.
Poi, lanciò una rapida occhiata all’orologio a
pendolo
appeso al muro laterale.
«Oh, cari,
devo proprio andare.
Stasera si va
dai Doria e Marcello
vuole andare presto, per poter andar via il prima possibile».
Richiamato da quel commento, il ragazzo staccò a fatica gli
occhi da Aida e si rivolse alla madre.
«Papà non è mai contento in
queste occasioni, lo sai, le considera perdite di tempo»
commentò.
«Oh, che tu vuo’
farci, il babbo è un po’... ribelle, ma non manca mai ai suoi
doveri, seppur di
malavoglia» rispose la donna, stringendo le spalle.
«Be’, cari,
divertitevi! E tu, Pulcino,
abbi cura
di questa deliziosa ragazza».
«Non mancherò, mamma. Stai tranquilla».
Beatrice, allora, annuì e, dopo aver salutato i due
giovani
con un bacio, uscì dal salone, lasciando
Giancarlo e Aida soli in quel grande ambiente,
il silenzio interrotto soltanto dall’oscillazione del pendolo
dell’orologio che troneggiava sulla parete
principale.
«Peccato che si sia fatto tardi»
incominciò il
ragazzo, lentamente, rompendo quell’atmosfera densa.
«Non si potrà fare molto, questa sera, ma... hai
preferenze? C’è un posto in particolare che vorresti vedere
per primo?»
La fanciulla ci pensò un po’ su, per poi scuotere
la testa.
«Veramente no...» esordì, ma dovette
interrompersi subito, perché lui le prese
delicatamente il viso tra due dita, voltandolo piano da una parte.
«Che c’è?» chiese, perplessa.
«Hai messo gli orecchini. Finalmente hai smesso di pensare
che siano troppo preziosi per te?»
«Ecco, in realtà, no, ma ho pensato che
fosse
davvero un peccato lasciarli sul fondo del mio cassetto, visto che sono
davvero
belli» affermò, candidamente.
«È già un passo avanti. Te li ho
regalati affinché li mettessi,
non per tenerli nascosti in una scatola» le fece notare il ragazzo.
«E, poi, ti
stanno bene».
A quel punto fece una piccola pausa, in dubbio se aggiungere anche il resto. Tuttavia, dopo qualche istante di esitazione,
decise di farlo, arrossendo appena mentre parlava: «Inoltre, stasera
sei molto... carina».
Paradossalmente, quel complimento imbarazzò più
Giancarlo, che l’aveva fatto rispetto ad Aida, che l’aveva
ricevuto, la quale sorrise e replicò: «Grazie,
anche per
i fiori che mi hai fatto portare in camera. Mi fa piacere ti sia ricordato che adoro
gli
ibiscus bianchi. Invece, credo che a te piacciano i girasoli, dato che mi hai regalato anche quelli».
Il ragazzo la guardò incurvando le labbra e sollevando
leggermente le sopracciglia.
«Diciamo, più che altro, che penso valgano
più di quanto possa sembrare» le
sussurrò. «Annetta te li ha portati senza fare
commenti?»
«Quella signora dall’aria così severa?
Mi ha fatto la radiografia e alla fine ha detto una parola... qualcosa
come scric...» fece la ragazza, soprappensiero.
«Scricciolo?» l’aiutò lui.
«Sì, esatto. Adesso vediamo se riesco a
ripetere tutta la frase» gli fece, sorridendo. «Mi ha detto
“Sei davvero uno scricciolo, ma hai un visetto
pulito”».
Giancarlo vide Aida soddisfatta per esser riuscita nella sua piccola
impresa e, ammiccando, le disse: «Brava. Sai, credo proprio
che
tu le sia piaciuta. Era un da po’ che voleva vederti,
perché l’altra volta ti ha scorto solo da lontano. Comunque»
proseguì, cambiando argomento, «non abbiamo ancora deciso dove andare. Tu hai fame?»
«Non molta» ammise la fanciulla.
«Neanch’io ho particolarmente appetito e...
aspetta, mi è venuta un’idea: forse è
arrivato
il momento di farti assaggiare il vero gelato italiano!»
«Ah, be’, se non altro mi stai permettendo di
rinviare la tragedia che accadrà quando dovrò imparare ad arrotolare gli spaghetti!» replicò
Aida, scoppiando in una risata argentina. Vedendola ridere, il ragazzo si rese conto che
aveva messo un leggero strato di rossetto e, istintivamente,
pensò che se si era sistemata
così per uscire con lui, almeno un poco doveva piacerle. Si
soffermò, quindi, ad osservarle le labbra, trovandole
davvero belle, né sottili,
né eccessivamente carnose, e chiedendosi che sapore avessero.
Con le viscere in rivolta, il giovane dovette, allora, fare appello a
tutto il suo autocontrollo per non mandare a rotoli il lavoro e gli
sforzi di tutti quei mesi, perché, nonostante
si trattasse solo di un bacio,
quella mossa, al momento sbagliato, sarebbe potuta
essere controproducente. In quel frangente,
intercettò il suo riflesso che lo
guardava truce da uno specchio cinquecentesco con la cornice dorata.
Quindi, niente di niente?
“Niente!”
Neanche un bacetto?
“Ho detto di no!”
Un bacino?
“Idiota, qual è la differenza?”
«Ehm, Giancarlo?» lo richiamò, però, Aida,
incerta.
«Eh? Ah, sì. Avevamo deciso di andare a prendere
il gelato, no? Vieni, per di qua» la invitò lui,
ridestandosi dal suo confitto interiore e ricomponendosi in fretta. Poi, la prese
per mano per condurla fuori e lei, nonostante fosse si accigliata per quella risposta, decise di seguirlo comunque.
***
Il Pantheon, con la sua pianta circolare, sormontata dalla cupola
emisferica interrotta dall’oculum, e il suo pronao dalle
colonne corinzie, era plasticamente adagiato, nella tenue penombra che
precede la sera, in mezzo a quello che una volta era stato il Campo
Marzio.
Seduta a un tavolino di uno dei tanti locali affacciati sulla piazza,
Aida lo guardava, ammirata, sbattendo ogni tanto le palpebre;
Giancarlo, invece, fissava interessato lei, seduto con una gamba
sovrapposta all’altra e sostenendosi una guancia con
l’indice
ed il pollice, del tutto incurante delle tre ragazze sedute accanto a
loro che se lo stavano divorando con gli occhi.
Perfino Andrew McGregor si era recentemente dovuto ricredere sul cambiamento del suo ex
compagno di squadra in occasione del matrimonio di
Ralf e Christine, quando le damigelle d’onore erano state
corteggiate da tutti, eccetto che dal biondo. Inoltre, la giovane
sposa, con la sua
solita ingenuità, aveva anche chiesto a Giancarlo
perché non avesse portato con lui la sua fidanzata e,
allora, il ragazzo le aveva borbottato, arrossendo di colpo, che Aida
non era
ancora la sua ragazza. Tuttavia, era stato il commento di una coinvolta
Mary Anne, con tanto di
strizzata d’occhio al biondo, a far cadere ogni
dubbio dello scozzese e far inferocire ancora di più Claudia:
“Ci sta lavorando. Anzi, dovrebbe farcela prima che il padre
di lei venga scarcerato!”
«Allora, ti piace il templum
deorum? Magari più
tardi, se vuoi, possiamo anche fermarci a vederlo
dall’interno» le propose il giovane dopo un po’, inclinando
ancor di più la testa.
La fanciulla, allora, si girò verso di lui, interrompendo la
sua analisi,
e gli domandò: «Preferisci chiamarlo con il nome latino anziché greco?»
«In realtà, sì, e non solo perché non non
mai studiato il greco antico. Sai, per la legge della statistica devono
esserci almeno una o due materie nelle quali sei ferrato... In storia
dell’arte me la sono sempre cavata per via della passione
della mamma, mentre il latino lo studiavo perché era una
delle
poche cose che mi teneva legato a mio nonno. Sai, ne era un
appassionato» spiegò, con un velo di
malinconica nostalgia. «Non trovi che sia strano? Cercare di
mantener vivo un rapporto, attraverso una lingua morta».
«Non molto, direi» osservò Aida,
per poi
chiedergli, con rispettosa curiosità: «Senti molto
la sua
mancanza?»
«Ad essere onesto, a volte anche troppo»
mormorò lui, cambiando
posizione e incrociando le braccia sul tavolo. «Sono convinto
che tu gli saresti piaciuta subito. Probilmente, ti avrebbe salutata
declamando i versi Celeste
Aida, forma divina/mistico serto di luce e
fior3 e,
certamente, non avrebbe sbagliato».
A quel punto, Aida si sentì avvampare e distolse lo sguardo,
concentrandosi su alcuni piccioni che beccavano indisturbati i residui
di una cialda sbriciolata tra i sampietrini.
«Dai, non esagerare... anche se non mi dici
queste cose, io... Insomma, va bene lo stesso»
replicò, piuttosto in difficoltà.
«Dico sul serio. Cantava la sua opera preferita ogni mattina,
mentre si faceva la barba davanti allo specchio» prese a
raccontare Giancarlo, sorridendo al piacevole ricordo.
«Sarebbe molto contento di conoscere la fanciulla che ha
aiutato suo nipote».
A quel punto, l’altra si voltò nuovamente verso di lui e rimase a guardarlo di sottecchi per
un po’, prima di prendere coraggio e gli domandargli:
«Giancarlo, perché ti sei ostinato a far
passare la tua vivacità per superficialità? Per attirare l’attenzione di tuo
papà?»
A quella richiesta inaspettata, il giovane inarcò dapprima
le
sopracciglia, quindi
sospirò, scuotendo la testa.
«Be’, ecco, non solo per quello, ma anche
perché era facile
non avere preoccupazioni, era... comodo. Da superficiale puoi
permetterti
tante sviste che non sono consentite al responsabile, per quanto vivace
possa essere. Per fortuna, però, ho finalmente incontrato una graziosa
ragazza che mi ha
portato a rivedere il mio punto di vista».
Quella, allora, gli sorrise, apprezzando la sua sincerità. In
quel momento, tornò con i loro gelati la formosa
cameriera che prima gli
aveva fatto l’occhio da triglia, ma
che lui aveva prontamente ignorato.
«Credo di non aver mai preso in vita mia gusti alla
frutta. Sei sicura della scelta? Puoi ordinarne un altro, se, nel
frattempo, hai cambiato
idea».
«Intanto, assaggerò
questi. E poi, scusa, cos’hai contro i gusti che ho
preso?» si informò la ragazza.
«Niente, ma non riesco a concepirli come vero gelato. Le
creme sono un’altra cosa» ribatté il
giovane, dopo averci pensato su qualche secondo.
«Facciamo
così: assaggia e
poi mi dirai le tue impressioni, che ne dici? E non farti problemi se
vuoi
cambiare».
Annuendo, Aida prese un poco di gelato alla fragola e lo
assaggiò, per passare poi al limone, trovandoli entrambi una
delle cose più buone
che avesse mai mangiato: era davvero piacevole lasciarle sciogliere in
bocca e poi assaporarle a fondo.
«Come sono?» le chiese l’altro, alla fine
della sua sessione di degustazione.
«Molto buoni. In effetti, quello che vendono ad Alessandria
non
può certo competere con questo»
commentò lei.
Serrando appena le labbra con atteggiamento meditabondo, Giancarlo
prese un po’ di gelato alla nocciola dalla sua
coppa, si assicurò che non colasse e, inaspettatamente, lo
presentò
ad Aida.
«Ora prova quest’altro».
Sorpresa
ed imbarazzata, la
ragazza fissò prima il cucchiaino e poi lui, quindi
abbassò lo
sguardo, poiché l’essere in un luogo pubblico e
sentire su di
sé gli sguardi dei curiosi la metteva in soggezione. Dal
canto suo, il
biondo tirò indietro il braccio, intristito.
«Ho fatto qualcosa di sbagliato? Non era mia intenzione
metterti a disagio».
«No, tu non c’entri» mormorò
lei, in risposta,
non riuscendo nemmeno a guardarlo negli occhi. «Sono io che
sono
troppo... impacciata».
Il giovane, allora, la scrutò attentamente, valutando
quale fosse il modo migliore per tranquillizzarla.
«A me non dispiace» affermò, risoluto.
«E,
anche se qualcuno ci sta guardando, entro questa sera avrà
già scordato tutto» aggiunse, intuendo che, per
lei, la
fonte maggiore di disagio doveva essere la gran quantità di
persone presenti in quel momento in Piazza della Rotonda.
A quella considerazione, Aida rialzò lentamente le sue iridi
scure, cercando il contatto
con quelle blu di lui.
«In fondo, non stiamo facendo niente di così eclatante»
spiegò il biondo. «Che ne dici, vogliamo
riprovare?»
La ragazza, però, non rispose subito, poiché
prima si
guardò intorno con circospezione e, solo quando vide i
turisti concentrati sulle loro faccende, espresse un
lento cenno d’assenso.
Poco dopo, permise a Giancarlo di farle assaggiare sia la nocciola che
la stracciatella, anche se non senza un certo imbarazzo. Tuttavia, a
lui andava bene così, poiché sapeva
bene che Aida non sarebbe mai stata una ragazza disinibita
e non gli interessava affatto cambiarla. Voleva semplicemente
che stesse bene con
lui.
«Allora? Che cosa ne pensi?» le domandò,
non appena quella ebbe
mandato giù anche l’ultimo assaggio.
«Sono molto buoni anche questi. Sono buoni tutti, in realtà»
gli disse lei, timidamente, stringendo le labbra per carpirne
ancora il sapore.
Compiaciuto dal risultato, il giovane sorrise e si apprestò
a servirsi a
sua volta dalla propria coppa, quando vide entrare nel suo campo visivo
un
cucchiaino con sopra del gelato alla fragola. Meravigliato, pur sentendosi
arrossire, alzò lo sguardo su di lei.
«Da quanto ho capito, sei peggio di Samir e mangi solo quello
che ti ispira. Ma, se non assaggi nulla di nuovo, non potrai mai sapere
se potranno piacerti altre cose» gli sussurrò,
dolce.
Seguirono alcuni istanti di esitazione, nel corso dei quali i neuroni
del ragazzo fecero cortocircuito, giacché era del tutto
impreparato ad
un’evenienza del genere.
«Inoltre, mi sembra giusto ricambiare il favore»
continuò la fanciulla, piegando appena le labbra in un
sorriso
vagamente soddisfatto, come se reputasse quella proposta una piccola
vittoria personale.
In risposta, il giovane, con lo stomaco attorcigliato,
deglutì a vuoto e ci impiegò qualche istante
prima di annuire e assecondarla, tornando con
la mente a quando era il suo adorato nonno che, con pazienza e
dolcezza, lo imboccava
per farlo mangiare.
«Dunque?» gli chiese Aida, dopo che lui ebbe
mandato
giù il dolce, osservandolo incuriosita, con ancora il
cucchiaino
a mezz’aria.
«Non male, credevo peggio» esalò
Giancarlo, che in cuor suo supplicava di non essere svegliato, casomai
si fosse trattato di un bel sogno.
«Visto? Non bisogna mai partire prevenuti!»
esclamò lei, piegando la testa da un lato.
Ne seguì una lunga pausa di silenzio, durante la quale i due
ragazzi si limitarono a starsene semplicemente l’uno di
fronte all’altra, per poi riprendere a consumare i rispettivi
gelati. Fu Aida, alla fine, a parlare per prima.
«Giancarlo, posso chiederti un favore?»
«Quale?» le domandò lui, mentre si infilava
in bocca il rimasuglio di nocciola.
«Ti va di spiegarmi qualcosa di latino, oltre ad aiutarmi a
perfezionare l’italiano?»
Davanti ad una richiesta del genere, il biondo ingoiò il
boccone, evitando per un pelo di
strozzarsi.
«Ma se lo parli già divinamente!»
esclamò, stranito. «E poi il latino
è difficile, tra i nostri studenti non lo sopporta quasi
nessuno...»
«Non mi reputi all’altezza?» fece allora
l’altra,
ferita nell’orgoglio. «Tu stai imparando
l’arabo e la scrittura bustrofedica!» aggiunse, con
disarmante semplicità.
«No, figurati, non è per quello...
però...»
farfugliò il giovane, mentre lei lo osservava come se lo
stesse
mettendo alla prova, tradendo anche un certo divertimento nel vederlo
così in difficoltà. Giancarlo se ne
accorse e, infine, decise di cedere.
«Va bene,
vediamo che cosa si può fare» sospirò,
fissandola perplesso. «E, comunque, stavo dubitando
delle mie capacità di insegnante, non delle tue come
allieva».
«Provare non costa nulla» affermò
placidamente Aida, rivolgendo ancora un’occhiata al Pantheon.
***
«Non fare quella faccia! Non è poi così
male, non trovi?»
«Se proprio vuoi saperlo, io mi sto ancora chiedendo come sia
finito quaggiù. Tu e mio padre, insieme, siete peggio di
un’associazione a delinquere!»
Aida rise, poiché l’espressione sofferente e, allo stesso
tempo, rassegnata
di Giancarlo era davvero buffa. Ad Alessandria non c’era un
sistema di trasporti sotterraneo e quello de Il Cairo non
l’aveva mai usato, quindi era davvero curiosa di vederne uno.
Tuttavia, se quella mattina era stato grande l’entusiasmo di
Marcello nell’accogliere la sua richiesta, certo non si
sarebbe potuto affermare lo stesso per il figlio, che era inorridito
seduta stante.
«Cosa ci sarà mai di interessante da vedere
qui!»
sbottò il giovane. «So bene che lui vuole tenermi
lontano
dall’auto che mi spetta di diritto, ma tu avresti potuto
anche
darmi manforte, invece di assecondare le sue tremende
punizioni!»
«Oh, che tragico che sei! Non è una punizione
farti usare
i mezzi pubblici, anzi, è il miglior modo di vivere una
città» osservò, però, saggiamente lei.
«Credimi, tu
non sai nemmeno che cosa significhi essere puniti dai propri
genitori senza aver fatto niente. Con l’abbandono, per
esempio» aggiunse subito dopo, pensierosa.
Quel commento fece tacere immediatamente il giovane, che si
vergognò della propria scenata infantile: non avrebbe
certo
potuto paragonare la sua situazione a quella di Aida e non era certo
lamentandosi che le avrebbe dimostrato di essere un uomo.
«Inoltre, sono solo due fermate, non è la fine del
mondo!» proseguì la fanciulla, di nuovo contenta.
«Tre» la corresse il giovane, con scarso
entusiasmo, ma molto più contegno di poco prima. «Da Termini a
Spagna sono tre fermate».
Aida, allora, scosse la testa, facendo ondeggiare la sua treccia nera,
e prese a
guardarsi intorno, scandagliando con cura i bassifondi della linea A.
«Accidenti, quanti turisti!» esclamò,
sporgendosi qua e là per vedere meglio.
«A Roma ci sono turisti in ogni momento
dell’anno» spiegò Giancarlo.
«Non è raro trovarne nei luoghi più frequentati. In realtà, però, molte di queste
persone sono residenti».
«Ce ne sono davvero di tutte le etnie»
mormorò lei, sporgendosi un’altra volta.
«Aida, stai attenta, la gente arriva tutta insieme e
all’improvviso, rischi di perdere l’equilibrio se
fai così!» la rimproverò subito lui, preoccupato.
«Ma no, tranquil...»
In quell’istante, una mandria di persone si
materializzò sulla banchina,
correndo per non perdere la
metro che stava arrivando e una signora particolarmente in carne, nella
fretta di posizionarsi in prima linea, travolse letteralmente Aida.
D’istinto, la ragazza chiuse gli occhi e si preparò
al violento urto con lo sporco pavimento della banchina, sperando
che non fosse troppo doloroso. Tuttavia, quando l’impatto non
avvenne, aprì gli occhi lentamente e si ritrovò
sostenuta per la vita da Giancarlo.
«Che cosa ti avevo detto? Ecco perché odio questo
schifo di posto!» la riprese il ragazzo,
terribilmente
seccato, mentre lei si rimetteva in piedi, stringendosi le spalle.
«Be’, non è successo nulla, per fortuna
hai evitato che mi facessi male» gli disse,
sorridendogli timidamente, nella speranza fosse sufficiente per rabbonirlo.
«Shukran»
lo ringraziò poi.
Quello la guardò, inarcando appena un sopracciglio e
deglutendo a vuoto.
«Afwan»
le rispose, rendendosi conto d’essere rimasto improvvisamente
a corto di saliva.
«Mi dispiace di essere così sbadata» si
scusò lei subito dopo, seriamente
preoccupata, poggiandogli delicatamente una mano sul braccio e, a quel tocco, la schiena di lui fu percorsa da brivido.
«N-Non... importa» balbettò, per poi
schiarirsi la voce e ricomporsi. «Otto mesi di
tennis saranno pure valsi a qualcosa».
«Tennis? Vuoi dire che non vai più in
palestra?» fece Aida, incuriosita.
In risposta, il ragazzo le riservò un sorriso sottile e scosse la testa,
soddisfatto.
«Niente più palestra o personal trainer, visto
che, ormai, è quello
sportivo di Emiliano a mettermi sotto torchio: calcio, corsa a
Villa Borghese alle sei di mattina» sottolineò
«tennis... Ecco, forse non gli è mai interessato
il beyblade, ma per il resto pratica di tutto».
«Emiliano è quel tuo caro amico
d’infanzia...» cominciò la ragazza, cercando di ricordare chi fosse.
«... con il quale avevo litigato anni fa, sì.
Però,
ora gli ho chiesto scusa per come mi sono comportato e lui ha
capito» spiegò l’altro.
«Gli ho anche parlato di te e vuole assolutamente conoscerti.
La prossima
volta te lo presento, che ne dici?»
«Gli hai parlato di me?» repeté lei,
colpita. Giancarlo, infatti, le aveva raccontato di quanto fosse legato ad
Emiliano, che era come un fratello per lui, del fatto che la loro
lite era stata argomento tabù per troppo tempo e di come,
una
delle prime cose che aveva fatto, quando aveva deciso di cambiare vita,
fosse stata proprio affrontare il ragazzo per cercare di fare
pace.
«Certo che gli ho parlato di te»
confermò,
perplesso, come se non capisse il motivo di tanto stupore.
«È il mio migliore amico! E poi, mica faccio come
lui, che
mi ha scambiato per un terapeuta che deve aiutarlo ad ammettere che gli
piace quella ragazza irlandese» aggiunse.
«Be’, è carino che vi sosteniate a
vicenda, non
credi?» replicò Aida, trovando molto bello che
Giancarlo
avesse un’amicizia tanto profonda.
«Certamente. Comunque, lo perdono anche perché mi
ha aiutato a
perfezionare il servizio, così appena ci sarà
l’occasione giusta» disse poi il biondo, mimando
l’azione di colpire una pallina con una racchetta,
«straccerò quel pallone gonfiato di McGregor che allora finirà di professarsi il re di
Wimbledon!»
Nell’udire quell’ultima considerazione, la fanciulla
alzò lievemente un sopracciglio, divertita.
«Tu e i tuoi amici siete davvero divertenti» commentò.
«Lo sappiamo, fidati» le rispose lui, strizzandole
l’occhio. «Guarda è arrivata
l’altra metro... ed è vuota!»
Dopo un interminabile corridoio scuro, uno scorcio di Piazza di
Spagna
le si aprì davanti in tutta la sua luminosità e
Aida si
fermò, colpita in pieno dal sole mattutino che la invitava ad
esplorare quel luogo nuovo. Il perimetro
poligonale era chiuso da una cinta di palazzi d’epoca che
ospitavano negozi e boutique, intervallati da sbocchi che si aprivano
sulle note stradicciole mondane. Nel bel mezzo dello spiazzo,
circondata dai primi venditori di caldarroste e dai vetturini pronti a
portare a spasso i turisti, la Barcaccia zampillava gaia, mentre, ai
suoi lati,
residenti e villeggianti animavano la Scalinata di
Trinità dei Monti.
«Non riesco a crederci... è tutto come deve
essere! Ogni cosa è al suo posto!»
esclamò, contenta.
«Ti piace?» le domandò il ragazzo,
compiaciuto dal suo entusiasmo, rendendosi conto per la prima volta di
quali fossero le vere bellezze della sua
città, fino a quel momento a lui estranee. Quella giovane era il
suo
ponte con la
realtà, con la vita vera. Per Giancarlo, infatti, Piazza di
Spagna era
sempre stata associata unicamente allo shopping con le sue frivole
ragazze, invece, quella mattina d’ottobre, aveva appena scoperto
quanto potesse essere più interessante la contemplazione
delle opere d’arte, in compagnia di chi potesse davvero
spiegarne il significato.
All’improvviso, però, la fanciulla si
fermò, seria ed il
sorriso sul volto dei lui morì
all’istante.
«Aida, cosa c’è che non va?»
le chiese, preoccupato.
«Devo sembrarti davvero una scolaretta in gita scolastica o,
peggio, una che ha imparato a memoria la lezione e vuole mostrare tutto
il suo sapere» mormorò lei, abbassando lo
sguardo.
«Non è vero. Anzi, mi fa piacere sapere che apprezzi i
nostri beni artistici e che li hai studiati con impegno» le
rispose subito Giancarlo, rassicurante.
Allora, la ragazza si riappropriò della sua aria allegra e
riprese ad ammirare ogni singolo mattone della piazza.
«Comunque, questa è solo una tappa»
le rivelò tutto d’un tratto il biondo, quando, finalmente, si incamminarono.
In risposta, Aida sospirò divertita: «Ancora sorprese?»
«Ovviamente. Vedi, in realtà...»
Tuttavia, il ragazzo non arrivò mai a
completare la
frase, perché una ragazza bionda alquanto disattenta e in
precario equilibrio sui suoi vertiginosi tacchi, si
scontrò con Aida, rovinandole disastrosamente
addosso.
«Oh, no! Aida, stai bene?» chiese subito il giovane,
allarmato, precipitandosi
da lei.
«A dirla tutta, stavo meglio prima» rispose quella,
un po’ dolorante.
«Riesci ad alzarti? Aspetta, dammi la mano, ti aiuto
io» fece poi, premuroso, mentre l’agevolava nel
rimettersi in piedi.
Contemporaneamente, un’altra ragazza mora era corsa ad
aiutare la sua amica e, quando anche l’altra si fu rialzata,
una delle due starnazzò: «Gianni!»
Freddato da quella voce ben nota, il giovane si distrasse immediatamente dalla
fanciulla e si fermò, come se un ricordo molto lontano
e, soprattutto, molto spiacevole stesse riemergendo dalla sua
memoria. Poi, si voltò lentamente, sgomento.
«No, voi no. Tutte, ma voi no!» esalò,
orripilato. Aida lo fissò stranita, non capendo il motivo di
quella reazione e avrebbe voluto chiedergli spiegazioni, ma
non ne ebbe modo, poiché, in quel momento, giunse una terza
persona, un ragazzo alto
con i capelli castani, leggermente mossi e molto curati, il fisico
prestante e un’espressione accesa, come se fosse dio della guerra
in persona.
«Allora sei vivo! Ti avevamo dato per
disperso!» esordì il nuovo venuto, sarcastico.
Nel guardarlo meglio, Aida notò, rabbrividendo, che i suoi
occhi, tra il verde e
l’azzurro, brillavano di luce maligna e sinistra.
«Ho avuto parecchie cose da fare»
replicò Giancarlo, asciutto, rivolgendosi direttamente al
giovane.
«Cose da fare? Tu?» domandò
l’altro, falsamente stupito. «Per
esempio, Gianni...?»
«Cose mie che non ti riguardano, Massimo».
“Massimo! È Massimo Colonna!” pensò subito
la
fanciulla, ricordando i racconti del biondo. “Quindi, le due ragazze devono
essere... Rosetta e
Bianca!”
Aida, allora, si dedicò ad osservarle più attentamente e,
davanti ai loro abiti succinti che
lasciavano
davvero poco all’immaginazione, si
ritrovò ad alzare un sopracciglio: anche se pensava che le
donne dovessero sentirsi libere di indossare ciò che
volevano, in quel caso vide solo un’evidente
mancanza di buongusto, ma, forse, ad irritarla ancora di più erano i sorrisi lascivi e le occhiate
languide che
stavano rivolgendo al suo Giancarlo.
«Sono mesi che non ti fai sentire! Cosa
c’è, non ti piacciamo più?» cinguettò Bianca, sbattendo voluttuosamente le ciglia.
In risposta, il ragazzo fece tre passi indietro, sentendo la nausea che
saliva
violentemente. Rivedendo quelle due dopo essersi disintossicato dalla
loro compagnia, si rese conto di essere stato davvero un imbecille a
restare succube delle loro trame per tanto tempo.
«Potresti farti perdonare facendoci qualche bel
regalo» miagolò, invece, Rosetta, speranzosa, che, avendo
riacquistato l’equilibrio, veleggiò
verso di lui.
«Massimo ha organizzato per stasera una festa sul suo panfilo attraccato
ad Anzio. Potresti venire con noi, stavamo proprio andando a comprare un
vestito
per l’occasione».
Tutte quelle confidenze e l’eccessiva vicinanza di lei al suo
Giancarlo erano davvero troppe per i gusti di Aida, che fremette di
rabbia: il suo passato era stato sepolto da tempo e quella gatta morta non avrebbe potuto vantare più
alcun diritto su di lui, anche se, a giudicare dalle movenze con cui la
ragazza stava cercando di appoggiargli la mano sul petto, doveva
pensare il
contrario.
Al limite della sopportazione, la giovane stava quasi per gridarle di
non toccarlo, quando lui l’anticipò, scansandosi
bruscamente e
troncando di metto quel tentativo di approccio.
«Io con voi non vengo proprio da nessuna parte» le
rispose, algido e distaccato. «E aggiungo che non me ne frega niente
di ciò che fate».
La sua molestatrice rimase piuttosto interdetta da quella reazione e altrettanto fecero la
sua
amica e Massimo, il quale gli lanciò uno sguardo indagatore,
mentre una sottile ruga gli increspava la fronte abbronzata.
«Di’ un po’, Tornatore»
cominciò, contraendo le labbra in una smorfia beffarda,
«si dice in giro
che ti sei messo a sbavare dietro ad una piccola stracciona,
è vero?»
Giancarlo, che già non ne poteva più da
parecchio, fu sul
punto di rispondergli come meritava, quando un’altrettanto satura ed indignata
Aida lo precedette.
«Io non sono una piccola stracciona!»
sbottò, incollerita.
Richiamati da quell’intromissione, i tre girarono
contemporaneamente la testa verso la fanciulla e fecero
lo sforzo di accorgersi di lei.
«Non mi dire, te la fai con la cameriera! Per una volta,
te ne è capitata tra le mani una giovane e non hai certo
perso tempo. Eppure avresti potuto scegliere meglio, siete
andati in bancarotta, forse?» chiese Massimo, sogghignando
incredulo.
«Non avete più i soldi necessari per permettervi
personale nostrano, così dovete elemosinare
servitù tra i selvaggi?»
Quell’affronto, però, non fece altro che esacerbare la
già aspra contesa tra il belligerante Marte e il luminoso
Apollo, il quale non poteva sopportare che la sua musa
venisse offesa in maniera tanto ignobile.
Infatti, al giovane non era sfuggita la reazione di Aida a quelle
parole: aveva spalancato gli occhi ed era ammutolita, sconcertata da
tanta cattiveria. Giancarlo, invece, aveva assottigliato lo sguardo,
avvertendo il forte
desiderio di ridurre l’altro in fin di vita, per poi lasciarlo
a marcire, agonizzante, immerso nel bagno dei propri fluidi.
«Oh, sì che è vero: le sbavo dietro
senza ritegno» disse lui, allora, circondando con un braccio la vita di lei e stringendola a
sé con fare protettivo.
«E, comunque, non è la mia cameriera... Aida
sarà la mia futura moglie, se lo
vorrà».
A quell’aperta dichiarazione, Rosetta e Bianca sgranarono
tanto d’occhi, esterrefatte,
rivolgendo alla fanciulla sguardi scettici e malevoli, mentre Massimo
si mostrò repellente alla sola idea.
«Io non la toccherei nemmeno
con un dito, non vorrei sporcarmi» affermò,
contraendo le labbra come se fosse sul punto di rimettere.
«Tornatore, sei proprio caduto in
basso, sai? Esattamente come tua cugina, che ha preferito uno svenevole
damerino francese ad un vero uomo come me!»
«Sapendo come
l’hai trattata, dovresti solo tacere. E, comunque, Olivier vale molto più di
te».
«Mi stai facendo la predica, per caso? Be’, sei
patetico» disse con cattiveria, indicando Aida con il capo. «Cosa credi, io e
te non siamo molto diversi, infatti, sappiamo benissimo entrambi cosa
farai con la tua piccola e sudicia africana: la rimanderai
indietro non appena te la sarai scopata
a sazietà,
togliendoti lo sfizio dell’esotico. Sempre che una tale
ragazzina inibita sia in grado di darti un po’ di
soddisfazione, ovviamente» sottolineò alla fine, suscitando una
risata
maligna da parte delle sue accompagnatrici.
A quel punto, Aida trattenne il fiato, paralizzata, mentre Giancarlo
sentì il
sangue schizzargli al cervello e i globuli rossi pronti ad evaporare.
Nonostante l’istinto primario fosse quello di ridurre in coriandoli
Massimo Colonna,
dovette convenire che non aveva né tempo, né
voglia di fare un andare a trovare l’anziano vice-questore
Molinari, a cui aveva promesso che avrebbe rigato dritto.
Inoltre, Aida non
meritava ulteriori umiliazioni e traumi, ma, in ogni caso, non sarebbe certo
restato a guardare mentre veniva insultata.
«Non osare rivolgerti a lei in questo modo, lurido bastardo
razzista!» ringhiò, infatti, mordendo ogni parola.
«Lavati la bocca prima di nominarla. Tu ce l’hai
con me, perciò Aida lasciala fuori!»
Non gradendo quell’attacco, l’altro gli rivolse uno sguardo ferino e, digrignando i denti,
replicò: «Oh, che paura, il biondino alza la
cresta. Cerchi
rogne, Tornatore, per caso?»
«No, ho finito di essere il tuo compagno di giochi,
vai a cercarti qualcun altro, magari al prossimo
rave party. Ah, dimenticavo, non puoi: tuo padre non è
più pronto a venirti a tirare fuori dai guai»
fece Giancarlo, beffardo.
«Tornatore, non scherzare con il fuoco»
gli sibilò il rivale.
«Colonna, di’ al tale che ti scrive le battute di
metterci più fantasia, perché stai diventando
monotono» rincarò, invece, il ragazzo.
«Dopo lo
scandalo di luglio, non sei più nessuno, le tue minacce non sono
più credibili. E, per quanto possiamo essere uguali,
sei tu quello che è rimasto a sbattersi le mignotte. Perciò, buona
serata e ricordate... le foto del post-sbornia in prima pagina non vi
rendono
giustizia».
Le due ragazze, senza un adeguato supporto di materia grigia, non
ebbero parole per ribattere e Massimo, anche lui zittito
dall’arguzia, non fu abbastanza rapido nel rimediare un altro
insulto da
rivolgere a Giancarlo o Aida, ché già il giovane
aveva
trascinato la fanciulla lontano da quello sconcio.
Tuttavia, i due avevano appena girato l’angolo del corridoio che
portava alla
metro, quando lei si impuntò e non volle proseguire.
«Aida, che cosa c’è?»
domandò, allora, il biondo fissandola preoccupato. Quella,
però, non rispose,
limitandosi a tenere lo sguardo in basso.
«Mi dispiace, non avrei mai voluto che ti offendessero in quel
modo vergognoso.
La colpa è solo mia e di quello che sono stato, avrei dovuto
immaginare che sarebbero stati in zona... ti chiedo scusa».
La fanciulla, però, continuò a tacere, immobile,
e Giancarlo
sospirò, affranto e mortificato per quanto era accaduto.
«Grazie per quello che hai detto poco fa»
sussurrò all’improvviso Aida, restando a testa
bassa.
Distolto dai suoi pensieri, che gravitavano principalmente su come presentare il conto a
quel maledetto, il giovane rimase fermo per qualche istante, per poi
prenderla per le spalle
e costringerla a guardarlo negli occhi.
«Avrei voluto solo fare di più, ma non
è certo rompendogli tutte le ossa che Colonna
cambierà
la sua mente deviata» sospirò, accarezzandole una
guancia. «Aida... non permettere che quella gentaccia
ti
faccia sentire inferiore, perché non è vero. Tu
sei al di sopra di tutte quelle meschinità» aggiunse.
Lei, allora, lo scrutò con aria mesta e sofferente.
Esitò qualche secondo e poi
disse: «Giancarlo, posso chiederti una cosa?»
«Tutto quello che vuoi».
«Magari questa volta ti sembrerò davvero una
bambina piccola, ma... non mi importa. Potresti...
abbracciarmi?»
Il tono dolce e malinconico con cui Aida glielo aveva chiesto, gli fece
talmente stringere il cuore che, senza indugiare oltre, il ragazzo le
rispose, sorridendole con tenerezza: «Ma certo, vieni
qui».
La cinse delicatamente e lei ricambiò la stretta,
serrando le mani intorno alla stoffa della sua polo e chiudendo gli
occhi. Il petto del giovane, caldo
ed intriso del suo profumo agli agrumi così
gradevolmente asprigno, e le sue carezze furono per lei il miglior
balsamo al suo dolore.
Mentre era concentrata su tutto quello nel tentativo di dimenticare la brutta
avventura, però, le parve di udire qualcosa che non si
sarebbe mai aspettata.
«Nessuno deve permettersi di renderti triste, amore mio».
Sorpresa, la fanciulla si staccò all’istante, guardando Giancarlo a bocca aperta, chiedendosi se aveva solo
immaginato - e desiderato - che lui avesse pronunciato quelle parole o, se
lo aveva fatto davvero.
«Come, scusa? Che cosa hai detto?»
«Io? Niente» rispose l’altro, scrollando
le spalle. «Non ho aperto bocca».
Perplessa, Aida inclinò la testa da un lato; stava per
ribattere che era quasi certa che non fosse proprio così, quando lui la precedette: «Mi dispiace
solo che non siamo arrivati a vedere il
Collegio di Propaganda Fide, perché stavamo andando proprio lì».
«Davvero?» domandò lei, piacevolmente
sorpresa, lasciando cadere l’argomento.
«Già, vorrà dire che sarà
per un’altra volta» sospirò lui. Poi, la
guardò e, sorridendo, la prese per mano. «Dai,
vieni con me, c’é un’altra cosa che devi
assolutamente vedere!»
Svoltato l’ultimo angolo, l’articolato complesso
della Fontana di Trevi, nell’immaginario collettivo la fontana per eccellenza, apparve in tutta la sua indiscussa
maestosità. La piazza omonima in cui si trovava era, puntualmente, gremita di
villeggianti giunti da ogni dove solo per rendere omaggio alla famosa
opera d’arte.
Giancarlo e Aida, quindi, dovettero farsi cautamente largo tra la folla, ma,
alla
fine, riuscirono a raggiungere e scendere le scalette,
per
trovarsi all’ombra di Palazzo Poli e godere della vista su
quel connubio di acqua e marmi.
«Venire a Roma e non passare di qui sarebbe stato un autentico
reato» commentò il giovane, mentre le mostrava la
composizione barocca, al centro della
quale dominava l’imponente statua di Oceano.
«Eccezionale!» esclamò lei, con gli occhi
pieni di meraviglia, del tutto ripresasi dalla terribile esperienza
di poco prima.
Nonostante ci fosse il discreto scrosciare dei getti d’acqua,
il
vociare concitato dei turisti e gli schiamazzi gioiosi dei bambini, ad
entrambi i giovani sembrò di non essersi mai trovati in un
luogo
più tranquillo di quello.
«Un pezzo forte della Roma barocca»
osservò Aida, voltandosi in direzione del biondo, che non
perse tempo per darle qualche informazione storica in più.
«Sì, l’ultimo progetto risale al 1731 e
a Clemente XII. Sai, il bando di concorso, per la realizzazione
dell’intero complesso venne vinto dal progetto di Nicola
Salvi, che è anche...»
«... colui che ha partecipato all’appalto per la
Scalinata di Trinità dei Monti»
completò la ragazza sottovoce, senza rendersene nemmeno
conto.
Immediatamente, il biondo si voltò e la guardò, increspando le
labbra e inarcando un sopracciglio.
«Uh? Ehm, scusa» si affrettò a dire lei, ritornando
bruscamente alla realtà e realizzando di averlo interrotto.
Giancarlo, però, non si mostrò particolarmente
offeso, anzi, colse al volo l’occasione per avvicinarsi a lei
con un sorrisetto furbo stampato sulle labbra.
«Bene, bene, vedo che siamo informate».
Aida ridacchiò e decise di replicare scimmiottando una frase
che lui stesso una volta aveva rivolto a Samir: «Ragazzino, tu non sai
chi hai davanti! Io studio Belle Arti
e Franco sapeva tutto del barocco romano!»
«Ah, adesso prendiamo anche in giro?»
fece Giancarlo, puntandosi le mani sui fianchi e guardandola ridere, beandosi di ogni piccolo particolare, anche del modo
meraviglioso in cui dondolavano i suoi pendenti stellati, ogni volta che scuoteva il capo.
«Vieni qua, signorina So-Tutto-Io!» la
richiamò, allora, prendendola per un braccio e
tirandola a sé.
La fanciulla avrebbe giurato che si sarebbe vendicato con il solletico o
qualcosa di simile, invece lui si limitò a passarle un
braccio intorno alla vita, finché non si ritrovarono guancia contro guancia, e lei
a quel punto ne
approfittò per lasciarsi ubriacare ancora un po’
dal calore della sua pelle e dal suo profumo.
«Adesso le cose si fanno interessanti»
annunciò solennemente il giovane, frugandosi
in tasca ed estraendone qualcosa che, poi,
depositò nel palmo della fanciulla: era un dischetto dorato
cerchiato d’argento.
«Perché mi hai dato questa monetina?»
gli chiese quella, riprendendosi dal piacevole stordimento in cui era caduta.
«Perché l’usanza comune vuole che, se
lanci una moneta in questa fontana, il tuo ritorno a Roma è assicurato» le spiegò, enfatico.
Aida guardò accigliata prima lui e poi quel pezzetto
di metallo bicolore, rigirandoselo in mano.
«Chi è questo?» chiese, indicando il
profilo dell’uomo cinto di lauro impresso su una delle facce.
«Quello è Dante Alighieri, il nostro
più grande poeta» le rispose Giancarlo.
«Dai, lancia questi due euro e basta!»
«D-Due euro? Ma non sono un po’ troppi da lanciare in una
fontana?» domandò la giovane, leggermente
sconvolta.
«Se fossi sicuro che funzioni, stai tranquilla che ti ci farei buttare anche due
milioni» replicò lui, sicuro.
In risposta, la ragazza sospirò, imbarazzata:
«Il solito esagerato... anche se, sai, credo che sia un
po’ inutile
lanciare questa moneta».
«E perché mai?» chiese l’altro,
preoccupato e leggermente allarmato.
Notando la sua reazione, la fanciulla dispiegò le
labbra in un dolce sorriso e gli spiegò:
«Perché il mio nome,
nell’interpretazione che mi piace di più,
significa visitatrice oppure colei che torna5».
Allora, i due si guardarono per un attimo; poi, l’espressione
del ragazzo tornò serena.
«Oh, va bene. Tuttavia, per stare sicuri, lo facciamo lo
stesso, d’accordo? Avanti, fammi vedere se sei in grado di lanciarla».
«Ma è una monetina, Giancarlo, non un beyblade!
Non serve chissà che tecnica di lancio!»
tentò di protestare Aida, scoppiando a ridere e tirando
indietro il braccio.
«No, no! Non così!» la fermò,
prendendola delicatamente per i fianchi e girandola,
affinché desse le spalle alla fontana. Quindi
spiegò: «Non sarà un beyblade, ma
la tradizione vuole che il lancio venga effettuato
all’indietro per avere il risultato sperato!»
Allora, Aida lasciò che lui la sfiorasse per guidarla e sistemarla nella giusta posizione, poi prese la spinta ed
effettuò il lancio.
Un luccichio metallico descrisse un arco parabolico, rimase un poco in
sospeso ed, infine, sparì tra le increspature dell’acqua.
***
Le luci dei lampioni, risvegliatesi al calar del crepuscolo,
illuminavano le rive del Tevere; tenui bagliori si rifrangevano sulla
leggerissima coltre d’umidità rappresa che
avvolgeva l’Isola Tiberina e il suo ospedale, i quali parevano
ergersi da soli tra le acque, quasi fossero solo una surreale apparizione.
Dopo aver fatto qualche altro giro, che aveva incluso Piazza del Popolo
e Via del Corso, ed essere tornati a Villa Aurelia per cambiarsi, i
ragazzi erano usciti di nuovo. Per nulla al mondo, infatti, Giancarlo avrebbe
rinunciato a portare Aida a fare una passeggiata serale sul Lungotevere.
«Allora, che te ne pare? Certo, non sarà il Nilo,
ma anche il nostro fiume ha il suo fascino»
constatò il ragazzo, fermandosi e appoggiando i gomiti sul
muricciolo dell’argine, sovrastato da una lunga fila di
ippocastani. In lontananza, si udiva il suono attenuato di un violino:
probabilmente, all’estremità opposta del ponte,
doveva esserci un artista di strada tiratardi.
«Io lo trovo molto tranquillo e rilassante»
rispose la fanciulla, fermandosi accanto a lui, per guardarsi attentamente intorno. «È un bel posto dove venire a
passeggiare, soprattutto in serate miti come questa».
Il giovane, allora, la osservò a lungo in silenzio, sentendosi invadere dalla
sua grazia, così profonda da togliergli il fiato. Se fosse
stato per lui non avrebbe mai smesso di contemplare la sua figura
minuta, coperta da un leggero
vestitino portato senza malizia, o i suoi capelli, raccolti in una coda di lato, che le lasciava scoperto il collo.
«Sono contento che ti piaccia. In questi giorni stai vedendo
davvero poco, so che ci sono tante altre cose che dovresti visitare e, magari,
potremo pensarci quando tornerai la prossima volta»
fece il biondo, lanciando l’amo.
«Quindi, secondo te, risponderò
positivamente alla tua domanda e tornerò»
rispose pronta Aida. «Come fai ad esserne così
sicuro?»
«Perché ho fiducia nelle monetine di Trevi e
perchè, come hai detto tu, il significato del tuo nome parla
chiaro» ribatté lui, sornione.
«Be’, questo, signor Tornatore, le dice solo che
tornerò a Roma, non che tornerò da lei e che
accetterò la sua proposta» gli fece, però, notare la
fanciulla in tono scherzoso, restando sulle sue. «Le
dirò, la sua corte sta lasciando un po’ a
desiderare. Se vuole ottenere qualcosa, dovrebbe essere più
convincente».
Raccogliendo la provocazione, il ragazzo s’inumidì
le labbra con la lingua,
scoccandole un’occhiata eloquente: «Hai
suggerimenti da proporre in merito, biscottino?»
«La sua richiesta mi stupisce, poiché mi hanno
riferito delle sue
doti di gran seduttore. Dovrebbe sapere come ammaliare una
donna, non trova?» notò la giovane, ridendo, non
curandosi del fatto che il suo cardigan era sceso ancora di
più, lasciandole le spalle completamente scoperte.
Giancarlo, allora, alzò un sopracciglio, mentre,
interessato, si lisciava il mento
con il dorso della mano: era proprio quell’ingenua
vivacità d’intelletto e di atteggiamenti che gli
aveva fatto perdere la testa per lei, provocandogli quello
sconvolgimento interiore e che risvegliava le sue pulsioni. Si sentiva
irrimediabilmente attratto da
quella ragazza così spontanea, anche se aveva sempre cercato
di moderarsi negli approcci con i quali le si rivolgeva... perlomeno fino
a
quel momento.
Infatti, dopo qualche secondo, si avvicinò alla fanciulla con lentezza studiata, mettendosi
davanti a lei. Immediatamente, Aida smise di ridere, richiamata dalla
vicinanza di lui; era buio, ma,
sostanzialmente, si trovavano a tiro di lampione, così riuscì a
notare che il biondo la stava fissando con aria seria, offrendole uno
sguardo passionalmente intenso che non le aveva mai rivolto prima. In
quel momento, lui la bloccò, poggiando le mani sul corrimano in marmo,
ai suoi
lati prima di avvicinarsi, mentre lei deglutiva, incapace di
muoversi.
«In realtà, devo scoprire ancora alcune delle
mie carte, perché non
c’è gusto a mostrarle tutte al primo
giro» le sussurrò in un orecchio, con voce
suadente e vibrante. «E, se mi vuoi più focoso, non
hai che da chiedere, fiorellino».
Quindi, sorridendole maliziosamente, si staccò e si
andò a sedere nel punto più basso del parapetto,
a pochi passi di distanza da lei. Aida rabbrividì,
riflettendo sul fatto che non si era mai confrontata con il Giancarlo
latin lover passionale, dato che il giovane non le aveva mai concesso
l’opportunità di incontrarlo. Aveva avuto
esperienza del latin lover gentile, ovviamente, ma era una cosa
diversa, pertanto
ora voleva conoscere quel suo aspetto di cui aveva solo sentito
parlare, così, alla fine, fu la curiosità a prevalere
sull’imbarazzo.
Decisa, la giovane accorciò la distanza che la separava da
lui e poi si fermò; stava per
dire qualcosa, quando si sentì prendere per una mano e
trascinare via, ma senza violenza. In men che non si dica, si sorprese
seduta sulle sue ginocchia.
«Comoda?» le chiese, a quel punto, il giovane senza
scomporsi, circuendola con le braccia.
«Tutto qui? Spero che questa non sia la scala
reale» gli rispose la fanciulla,
sorprendentemente tranquilla.
In risposta, Giancarlo socchiuse gli occhi, increspando le labbra, sorpreso da una
frecciatina così pungente da parte di lei.
«Non ti facevo così esigente, gioia mia. Quella
era una carta isolata,
ma, adesso, vediamo di alzare un po’ la posta, visto che non
è da me lasciare insoddisfatta una ragazza».
Batté, quindi, un leggero colpo in su con il ginocchio e lei, colta alla sprovvista, gli finì addosso; lui,
però, la sistemò subito meglio, facendosela scivolare contro, sfilandole
la borsetta dalla mano e appoggiandola accanto a loro. Poi,
le accarezzò la coscia, senza spingersi oltre
l’orlo
dell’abito, e proseguì lungo il fianco; le
sfregò con dolcezza un braccio e risalì fin sopra
la spalla, prima di scendere con discreta rapidità,
abbassandole la spallina del vestito e sfiorandole la pelle nuda.
Avvertì che Aida sotto il suo tocco aveva sussultato, senza
ritrarsi, ma si fermò comunque per qualche istante. Non voleva
essere indelicato, turpe o, ancora, libidinoso e non aveva nessuna
intenzione di
offenderla, solo
dimostrarle anche fisicamente cosa provasse per lei. Sapeva di essere
il
primo uomo a toccarla in quel modo e, mentre esercitava su di lei
quel contatto, giurò a se stesso che avrebbe fatto di tutto
per restare anche l’ultimo.
«Ti è piaciuto il mio tris,
zucchero?»
le fece piano, sempre con la stessa voce vibrante, continuando ad
accarezzarla.
«Non male, per essere un giocatore fuori esercizio... ma io
non
sono ancora convinta» ribatté, però, l’altra,
flemmatica e
definitivamente sciolta, fiduciosamente abbandonata a lui.
«Stai facendo una puntata molto alta, gioia» le
mormorò, piegando le labbra in un sorriso molto sensuale,
«e devi accettare i rischi che questo comporta».
Poi, le sciolse i capelli lisci e setosi, facendoseli scorrere tra le
dita,
prima di stringerla ancora di più, avvertendo su di sé le
sue curve appena accennate. Allora, incominciò ad
accarezzarle la schiena,
regalandole al contempo una profusione di piccoli, lenti, baci sul
collo e sulla spalla denudata, baci dati a labbra appena schiuse,
talvolta leccandole anche lievemente la pelle esalante quel balsamico aroma
di mirra. Senza alcuna traccia di
insistenza o volgarità nei suoi gesti.
Giancarlo era l’Eros,
l’impulso vitale,
l’istinto della passione, l’impeto travolgente alla
perpetua ricerca del suo complemento, qual era appunto Aida,
l’Agape6,
l’amore puro, incondizionato e
disinteressato. Dopo tanto peregrinare aveva infine trovato
ciò che cercava: il suo equilibrio, la sua
serenità.
«Giancarlo, siamo in strada. Potrebbe passare...»
gemette flebilmente a quel punto Aida, scossa da brividi di piacere, con quel
poco di lucidità che le rimaneva.
«Qualcuno? E tu lascialo passare... lascia che ci veda... che
ci guardi... che invidi la mia fortuna fino a schiattare...» rispose lui con un sussurro, senza smettere di lambirle il
collo. Ormai era arrivato quasi a toccare le tiepide labbra di Aida con
le proprie. Cosa avrebbe dato per poterle baciare subito, peccato che non potesse farlo, non ancora...
Improvvisamente, la ragazza aprì di scatto gli occhi, stordita ed incredula:
il biondo l’aveva rimessa in piedi ed ora la guardava tra l’intrigato e il compiaciuto con la testa
inclinata da un lato, stropicciandosi una guancia con una mano e
tenendo l’altra nella tasca dei jeans. Istintivamente, si
portò le punte delle dita sul naso, dove le aveva
appena dato un colpetto con l’indice.
«L’esibizione dimostrativa finisce qui»
le disse, tranquillo. «Penso che il gran seduttore tu lo abbia conosciuto abbastanza, per oggi».
Ancora piuttosto confusa, la ragazza deglutì e si riassestò capelli ed abiti,
mentre prendeva coscienza di quanto accaduto e, imbarazzata, evitava di
guardarlo negli occhi.
«Be’, devo dire che hai stile» ammise, in un ultimo guizzo d’intraprendenza,
scrutandolo da sotto la cortina di capelli corvini.
«Lusingato dal complimento, gioia» rispose
Giancarlo, stiracchiando le labbra in un sorriso d’amara ironia.
«E perché... perché ti sei
fermato?» domandò Aida, riuscendo finalmente ad
alzare il capo.
«Perché ho promesso a tuo fratello e a mio padre
che avrei fatto il bravo. Credo che abbiano la mano piuttosto
pesante» spiegò facendo una piccola smorfia. «Soprattutto,
però, mi piacerebbe che che tu accettassi di baciarmi e
diventare la mia
ragazza perché lo vuoi veramente e non perché
soggiogata da infimi espedienti. Per una volta, vorrei essermi
guadagnato qualcosa in maniera legittima».
«E se dovessi dirti di no? Io ho bisogno di sapere la
verità: pensi che potremmo rimanere comunque
amici?» gli chiese, osservandolo attentamente.
Messo di fronte un tale bivio, il giovane spaziò la vista sul fiume, che tranquillo
continuava a scorrere lungo il suo corso. La luna si rifletteva beata
sulla sua superficie, spezzettando la sua immagine in multipli
bagliori; il muto e impenetrabile dialogo della natura faceva da
sottofondo al silenzio nel quale si era chiuso il ragazzo.
Aida non avrebbe potuto fargli domanda più semplice e al tempo stesso più
difficile di quella.
«Non prendiamoci in giro, sai benissimo che non
potrei mai vederti come una semplice amica. Aida, se non te fossi
accorta, io sono stra-cotto di te. Sono innamorato della tua dolcezza,
del tuo carattere e del tuo essere bella con semplicità».
Giancarlo aveva notato che la ragazza era trasalita a quelle parole, ma
decise comunque di proseguire: «Ciononostante, se questa dovesse
essere la tua volontà, mi sforzerò di accettarla.
Mi dispiacerebbe non vedere più te e il piccolo Samir. Forse voi non avete bisogno di me, ma io sì».
L’aria si era improvvisamente saturata, divenendo pesante e
opprimente. I due giovani si guardavano, mesti e anche
il violino aveva smesso di suonare. Alla fine, Aida emise un sospiro
lungo e carico di dolore.
«Allora, credo di poterti dire già ora quale
sarà la mia risposta».
Il ragazzo, però, scosse la testa e le poggiò un dito sulle labbra
tiepide.
«No, dimmela domani, ti prego. C’è
ancora una lunga giornata davanti a noi, l’ultima che
passerai con me. Ci sarà tempo per ogni cosa... concedimi
questo mio capriccio finale, te ne supplico».
Aida gli rivolse un’occhiata triste e sofferente, quindi
annuì. Il ragazzo, di umore non dissimile, le
offrì il proprio braccio, riconsegnandole la borsetta e
consentendole di stringersi a lui, così da nascondere il
viso nella manica del suo blazer.
«Andiamo, sarà il caso che ti porti a riposare.
Come diciamo noi, s’è fatta ’na
certa» mormorò, lentamente.
In risposta, però, ottenne solo lo sciabordio del Tevere.
***
Marcello Tornatore marciava verso gli appartamenti del figlio. Un cupo
presentimento lo aveva strappato al sonno nelle prime ore del mattino
ed essendo una di quelle persone
che preferiscono togliersi subito ogni dubbio, non aveva perso tempo a
rimuginarci oltre.
Giunto davanti alla porta, l’aprì ed
entrò senza nemmeno bussare, giacché, dentro
di sé, sapeva che non ce ne sarebbe stato bisogno.
Attraversò una ad una tutte le stanze, diretto verso quella in cui Giancarlo dormiva e, nei pressi del battente
chiuso, esitò un attimo, ma poi, scuotendo il capo,
procedette, trovando l’ambiente immerso in una rarefatta atmosfera dai toni
perlacei, le cortine aperte e nessun oggetto d’arredo fuori posto, come se Annetta ne fosse appena uscita.
Davanti a tutte quelle prove che, quella notte, la
camera non era stata abitata, l’uomo rimase immobile, la sua falsa
tranquillità tradita dalla vena pulsante sulla tempia sinistra e
dalle nocche bianche, poiché non tollerava che gliela si
facesse sotto il naso, né
si disubbidisse ad un suo ordine. Ma, sopra ogni cosa, non sopportava il
disonore.
Quella ragazza era sotto la
sua responsabilità: era poco più di una bambina,
proveniva da una cultura diversa, aveva una situazione familiare non
proprio facile e non era una svergognata, pertanto quel disgraziato di suo figlio non avrebbe
dovuto permettersi neanche di immaginare di toccarla.
Uscendo da quella stanza come una furia, Marcello, perciò, aveva in mente un
unico, ossessivo pensiero: quella volta, Giancarlo non l’avrebbe
passata liscia.
Il
riverbero del primo sole aveva sfidato l’esiguo spessore
delle tende di seta velata e filtrava, indisturbato, nella camera.
Stesi sul letto,
l’un allacciato all’altra, dormivano entrambi con
un’espressione di pura serenità dipinta sul viso. Avevano
ancora indosso gli abiti della sera
precedente, sebbene dignitosamente scomposti dal sonno, e le giacche ordinatamente sistemate accanto a loro.
Aida riposava con la testa appena poggiata sul petto di lui,
cingendogli
morbidamente il torace con un braccio, mentre Giancarlo, che
aveva una guancia sconfinante sui soffici capelli di lei, teneva ancora
una ciocca arrotolata intorno all’indice: probabilmente, il
torpore doveva averlo colto mentre ci stava giocherellando. Con
l’altro braccio, la teneva per la vita, in maniera
salda e delicata allo stesso tempo, come se temesse che qualcuno
potesse portargliela via.
Sentendosi in colpa per aver dubitato, facendo prevalere la sua
caratteristica diffidenza, l’uomo rimase a guardarli per
qualche secondo, ritto, in piedi
nella penombra della camera, non volendo profanare oltre quel momento
di
profonda intimità. Forse, avrebbe dovuto cominciare a
nutrire più fiducia nel figlio e convincersi finalmente di
una cosa: Giancarlo non era Guido.
Muovendosi lentamente, uscì richiudendosi l’anta
di mogano alle spalle, mentre un solco curvilineo gli segnava le labbra.
***
Aida aprì gli occhi, chiedendosi se il tonfo di una porta che si chiudeva fosse
reale o appartenente ai suoi sogni, impiegando qualche secondo per
capire dove si trovava. Man mano che trascorrevano i secondi,
cominciarono a
riaffiorarle in mente i ricordi del giorno prima: sulla cassettiera
c’erano ancora i vasi dei girasoli e degli ibiscus, belli e freschi come quando li aveva trovati.
Poi, si girò da un lato e,
guardando Giancarlo, non poté fare a meno di sorridere,
realizzando di essersi addormentata tra le sue braccia e, quindi, di averlo convinto, con la sua timida proposta, a restare a
dormire con lei.
V-Vuoi che io dorma con... te? Intendi noi d-due insieme nel tuo... tuo...
Noi due, insieme, nel mio letto.
Ti fidi di me fino a tal punto?
Sì.
Completamente ridestata, la fanciulla si tirò su e, attenta a non svegliarlo, si
alzò per andare a prepararsi.
Quando fu di ritorno, notò che il ragazzo dormiva ancora,
così ne approfittò e si risistemò
accanto a lui, in modo da poter restare a guardarlo un
po’, mentre gli spostava dal
viso una ciocca della frangia bionda e ribelle e gli accarezzava una
guancia. Jamila aveva proprio ragione: visto da vicino era ancora
più carino, anche se la sua amica non sembrava comprendere
le difficoltà che aveva lei nell’avvicinarsi a
lui, a causa del suo grande senso del pudore.
Nel notare che la camicia bianca, discinta, le lasciava intravedere il petto glabro e
vigoroso, che si alzava e abbassava seguendo i movimenti regolari della respirazione, la ragazza si
ritrovò ad avvampare, imbarazzata, ripensando a quando, il giorno
precedente, quando lui l’aveva stretta in
più di un’occasione, stordendola con il suo calore
e con il suo profumo.
Era sempre il ragazzo a prendere
l’iniziativa, mentre lei faticava ancora a lasciarsi andare
completamente, sentendosi imbranata ed infantile. D’altra
parte, se si era fermato, sul ponte, era solo perché non
aveva
voluto metterla in difficoltà, dimostrando, ancora una volta,
molta pazienza, nell’assecondare le sue
paure e renderle tutto più facile.
Già da tempo non aveva più dubbi sull’essersene
profondamente innamorata, incapace di opporsi al sentimento che cresceva, sempre più forte dentro di lei per quel
ragazzo tanto particolare che rappresentava in carne ed ossa la sua idea
dell’amore.
A frenarla, però, era la consapevolezza del fatto che stare
insieme non sarebbe stato facile, a causa delle
difficoltà e degli sforzi che avrebbero dovuto affrontare
entrambi prima di dirsi felici. Ci sarebbe voluto del tempo
ed era ciò che Aida temeva di più. Che cosa
sarebbe successo, durante il periodo in cui sarebbero stati lontani?
Giancarlo avrebbe potuto benissimo stancarsi di lei, perchè,
in fondo, che a dirlo fossero Bahira e Ghada, Bianca e Rosetta, Massimo
o lo stesso Rami, avevano tutti ragione: era solo una ragazzina, una
bambinetta insignificante e terribilmente impacciata. Se solo il
giovane avesse voluto, infatti, sarebbe bastato uno schiocco di dita
per tornare ad essere attorniato da bellezze seducenti ed
intraprendenti.
«Quanto ti manca la tua vita di prima?»
gli domandò, allora, Aida in un sussurro, continuando ad
accarezzarlo delicatamente. «Forse ti sei pentito di aver abbandonato tutto e, magari,
preferiresti le attenzioni di qualcuna più
diretta e attraente?»
Il giovane, però, non rispose, continuando a dormire tranquillo.
«Potrai mai accontentarti di una ragazzina con ancora tante
insicurezze? Non riesco nemmeno a dirti di
persona quanto ti voglio bene e so che non sarò come tua madre o a Claudia. Io non ho la loro classe...»
proseguì, affranta. «Sai, io non sono una principessa e,
sinceramente, non voglio nemmeno diventarlo. Mi piace essere solo Aida,
ma non so se, alla lunga, lei potrebbe piacere anche a te».
Allora, la ragazza scese con un dito lungo la guancia di lui e cominciò a
segnargli le labbra rosee e morbide, le stesse che, la sera precedente, le
avevano baciato il collo con ardente passione ed estremo rispetto.
Da quando lo conosceva, quel giovane non aveva fatto altro che stupirla
e, in quel momento, Aida pensò che, per una volta,
le sarebbe piaciuto che fosse lei a sorprenderlo. Si era
sempre chiesta che sensazione potesse regalare il baciare la persona
amata e non voleva perdere quell’occasione, probabilmente,
l’unica che le sarebbe capitata per scoprirlo. E poi, il biondo
non accennava a volersi destare, quindi non si sarebbe
accorto di niente.
«Qualunque sarà la mia risposta, i miei sentimenti
per te non cambieranno, perché non possono cambiare. E, per una volta, i ruoli
si invertiranno: sarà una ragazza comune a rubarti un bacio, caro casanova Giancarlo Tornatore» gli
bisbigliò, sorridendo tra il divertito ed il malinconico. Poi, si fece coraggio e si avvicinò ancora di
più, raccogliendosi da una parte i lunghi capelli.
«Ana behebak»
gli sussurrò, infine, sulle labbra, calde e leggermente salate,
mentre una lacrima cadeva su una gota del giovane, rimanendo là rimase, in solitudine, aspettando di evaporare
nell’aria.
Aida non c’era già più.
***
Invogliata dall’aria mattutina, estremamente fresca e
frizzante, la fanciulla
inspirò a fondo, appoggiando le mani sul freddo
corrimano in travertino. Il sole appena sorto indorava le cime degli
alberi e gli scorci della Capitale, mentre una sinfonia di rintocchi
lontani accoglieva il giorno nascente. Per assaporare meglio quello
sprazzo di tranquillità, Aida chiuse anche gli occhi, cercando
di capire quante fossero le campane che producevano
quell’allegro concerto. Una, due, tre, quattro...
«Buongiorno, Aida».
A quel saluto, la ragazza sobbalzò e si voltò di scatto.
«Ah, buongiorno a lei, signor Marcello» rispose, portandosi
una mano al petto, sentendo il cuore che le batteva per la sorpresa.
«Sei mattiniera» constatò
l’uomo, avvicinandosi. Quando fu arrivato, prese a scrutare
l’orizzonte, con le braccia incrociate dietro la schiena.
«Sì» mormorò la ragazza,
«sono abituata a svegliarmi presto per sbrigare le faccende e
prendermi cura di Samir».
Marcello la guardò e annuì, mentre lei deglutiva, nervosa, pensando che si sentiva sempre in
soggezione quando si trovava sola con lui; non tanto perché
le incuteva timore, quanto più perché non riusciva a capire se gli
fosse veramente simpatica o se lo facesse solo per cortesia. Per fortuna, con Beatrice
era tutto più semplice.
«Ti sta piacendo Roma?» si informò poi l’altro, interrompendo il breve silenzio.
«Oh, sì, tanto. Sa, è tutto come
l’avevo immaginato e, allo stesso tempo, è meglio di
quanto avessi sperato. Anche in Egitto ci sono tante cose antiche da
vedere, ma qui è diverso... si entra e si esce dalle varie
epoche storiche semplicemente cambiando strada!»
Colpito da quella profonda considerazione, l’uomo inarcò un sopracciglio.
«Vedo che sei molto interessata. Sai, dovresti
approfondire
il discorso con mia moglie, le daresti molta più
soddisfazione
di me, che sono un vero ignorante in materia» commentò,
scrollando le spalle. «Magari, avrai modo di parlarle
proprio questa sera alla festa che darà mio fratello, saresti per lei
un’ottima compagnia».
Aida guardò Marcello, sorpresa e stranita.
«Vuole... vuole che venga con voi?»
«Se ti va, perché no?» replicò lui, con noncuranza.
Tuttavia, la ragazza, sempre più sbigottita, scosse nervosamente la
testa.
«Oh, no, non potrei mai, visto che sarei in difficoltà dal
primo all’ultimo minuto! Io... io non sono abituata a questo
genere di cose... E poi, come dotrei presentarmi? Giancarlo
ed io siamo... solo... niente. Non siamo niente»
constatò, triste.
Dal canto suo, l’uomo non lasciò trapelare alcuna emozione e, osservando un punto imprecisato del giardino, le
fece
notare: «Curioso come, nonostante non siete niente, dormiate
abbracciati nello stesso letto».
A quelle parole, Aida trattenne il fiato, capendo che Marcello sapeva cosa era successo, anche se, a dirla tutta, non sembrava
arrabbiato.
«La prego, non se la prenda con Giancarlo, sono io che gli ho chiesto
di rimanere con me. Lui non voleva nemmeno!» esclamò
immediatamente la giovane.
«Se lo difendi vuol dire che ci tieni a lui, quindi gli stai
dando una speranza. E ciò significa che ora non siete
niente, ma, in futuro, potreste diventare qualcosa. Aida, se deciderai di
sposare mio figlio, dovrai avere a che fare molto spesso con eventi mondani di questo genere. Ne sei consapevole, vero?»
«Sì... ma pensavo
che...» sussurrò, angosciata. «Ci
sarebbe stato tempo per imparare!»
A quella risposta, inaspettatamente, l’espressione di Marcello si addolcì in
maniera repentina.
«Non ti sto dicendo queste cose per metterti a disagio o per
allontanarti da lui, ma solo per farti capire che la situazione non sarà affatto semplice».
«Lo so» mormorò lei, inclinando la
testa in avanti. «E per questo io non credo di poter essere
alla vostra altezza».
A quel punto, l’uomo spostò il capo da un lato, soddisfatto,
come se quella fosse stata la risposta che aveva cercato di tirar fuori
da Aida sin dall’inizio, l’ultima prova che la ragazza non fosse
un’arrampicatrice sociale.
«Aida, Giancarlo ti ha raccontato la storia della nostra
famiglia? Intendo quella vera, non le favolette che si inventa
lui».
«Mi ha detto che discendete da un’antica stirpe di
gladiatori».
«E lo sai chi erano davvero i gladiatori,
nell’antica Roma?»
La fanciulla scosse il capo, questa volta più lentamente.
«Schiavi» scandì Marcello, con voce
chiara. «Il nostro sangue è quello degli schiavi e
dei prigionieri di guerra che si sono affrancati dai potenti con le
loro forze. Noi non siamo eredi di una lunga dinastia di aristocratici
terrieri, né baronetti titolati da regine e nemmeno
miliardari che possono vantare noti artisti tra i propri avi. Perciò, non devi
vergognarti di quello che sei, Aida, perché sarebbe uno
sbaglio».
La giovane, allora, guardò Marcello e, pian piano, un timido sorriso
le illuminò il volto, mentre conveniva che quell’uomo aveva un modo
tutto suo di dimostrare la propria simpatia.
«Posso farti ancora una domanda molto personale?»
le chiese poi l’altro, dopo qualche istante di silenzio.
«Certamente, mi dica».
«Cosa ti piace di mio figlio? Dimmelo tu, perché io ammetto di non essere riuscito a capirlo».
Aida rifletté un attimo e poi disse: «Anche Rami
mi ha fatto la stessa domanda e le risponderò come ho
risposto a lui: di Giancarlo mi piacciono la sua gentilezza e i suoi
modi raffinati. È vero, è un po’ teatrale ed eccentrico,
ma riesce sempre a sorprendermi e a farmi sorridere. Inoltre,
è generoso, mi ascolta quando parlo e comprende il mio amore
per l’arte. Ha un buonissimo profumo e... poi ci sarebbe
un’altra cosa, che però non ho detto a mio
fratello».
«E a me puoi dirla?» domandò l’uomo, piegando
la testa da un lato, vagamente incuriosito, mentre la fanciulla
sorrideva con un poco di dolce imbarazzo.
«Mi piace tanto il colore dei suoi occhi... Ogni volta che mi
guarda non posso fare a meno di notare quanto siano belli».
Sorpreso, Marcello increspò le labbra, poiché, facendone
un ritratto così preciso, Aida gli aveva appena dimostrato che
suo figlio le era
piaciuto davvero per quel che era.
«Be’, su questo devo darti ragione: sono gli stessi
meravigliosi occhi di Beatrice» le disse, poi, con il tono
più soave che lei gli avesse mai sentito e, nell’udire
quell’affermazione, che interpretò come
un’intima confidenza, la ragazza rimase attonita, ma felice che Marcello
l’avesse reputata degna di meritarla.
In quel momento,
sopraggiunse sulla terrazza Giancarlo, sbadigliando insonnolito con una mano
garbatamente davanti alla bocca, mentre con l’altra si
scarmigliava lentamente e in modo sensuale i
capelli.
«Ah, ecco dove eri finita!» esclamò,
gaudente, non appena scorse la ragazza, lanciandole un sorriso carico di desiderio.
«Sì, è riuscita a liberarsi dalla tua
morsa. Stai attento a dove metti quelle mani, piuttosto: tu prova a sgarrare ed io
te le cionco!» fece, allora, il padre, con un sottile ghigno, a mo’ di buongiorno.
«Ehm... questo vuol dire che tu sai che noi... voglio dire,
che io...» cominciò il biondo, deglutendo a vuoto.
«Io... io ti garantisco che sono stato al mio
posto!»
«Oh, no che non sei stato al tuo posto, ma se sei ancora
illeso è solo perché so che hai avuto buon
senso» gli rispose Marcello, lanciandogli un’occhiata eloquente.
Di fronte all’impaccio del
giovane,
Aida scoppiò a ridere, quindi gli fece una carezza sulla guancia e salutò l’uomo per andare a finire di prepararsi per la
colazione.
«Sembra felice» commentò quello,
rimasto solo con il figlio. «Cerca di renderla sempre
così serena, mi raccomando. Se lo merita».
«Molto volentieri, finché mi è
concesso» replicò aspramente il ragazzo, prima di
raccontare al genitore dell’infausto incontro con
Massimo.
«Sempre maledettamente infami i Colonna, credono di essere ancora ai tempi
di Giulio II» borbottò, disgustato.
«Hai fatto a botte?»
«Non nego di aver avuto una gran voglia di fare a pezzi quel
maledetto fijo de ’na mignotta, ma non sono più il
facinoroso di un tempo e non volevo che Aida subisse spiacevoli
ripercussioni a causa della mia condotta, quindi... mi sono
trattenuto».
Marcello aggrottò la fronte, sinceramente ammirato per quella dimostrazione di tanta maturità.
«Non far sentire a tua madre che ti esprimi in questo modo,
ché poi dice che sono io ad influenzarti, anche se, detto
fra noi, quella famiglia meriterebbe solo
l’impiccagione».
Rimase in silenzio per qualche
secondo, poi aggiunse: «Ieri c’era poco lavoro da sbrigare, così ho potuto parlare molto con Gerardo e mi ha
detto
che l’altro giorno hai fatto un ottimo lavoro».
«Meno male che lui non è come te!»
esclamò, allora, il ragazzo, ringraziando la bontà del
suo padrino.
«Ieri sera c’erano anche lui e Vittoria dai Doria e ti hanno fatto un sacco di complimenti, anche se,
come
immaginavo, lei ha cercato di carpirmi qualche dettaglio su
Aida» proseguì l’altro, scuotendo la testa.
«Be’, credo che voglia conoscerla, visto che mi
considera
alla pari di un nipote, anche se prima Aida dovrebbe diventare
la
mia ragazza» considerò, pensieroso. «Comunque, hai visto che ho
concluso
l’affare? E tu non volevi credermi! Io te
l’avevo detto...»
Tuttavia, il giovane non riuscì a terminare la frase, perché Marcello lo interruppe.
«Ben fatto, figlio mio. Sono molto fiero di te e di come ti sei
ripreso la tua vita».
Giancarlo, allora, si fermò e fissò il padre, sbattendo
le palpebre, trasecolato: gli aveva appena fatto un complimento
sincero, cosa che, forse, non
accadeva dalla recita di Natale della quinta elementare.
«Ora, però, non restare lì fermo come un
baccalà: il tempo passa ed oggi è
l’ultimo giorno che Aida sarà nostra ospite!»
aggiunse l’uomo, burbero, sentendo il bisogno di dargli
un’ultima scossa. «Ricordati che non ti ha ancora dato una
risposta. Per varie ragioni
non mi hai mai chiesto consigli sulle ragazze, ma stavolta ti
dirò lo stesso ciò che penso: solo una ragazza che ti
vuole davvero bene avrebbe potuto prendere le tue parti come ha fatto
lei prima. Tuttavia, si sente insicura e spetta a te il compito di
rassicurarla» affermò Marcello, con decisione.
«Mi impegnerò» replicò Giancarlo,
serio. «Tengo troppo a lei per lasciarla andare via senza averglielo dimostrato fino in fondo».
L’altro dispiegò appena le labbra in un sorriso. Poi,
però, come se si fosse improvvisamente ricordato qualcosa,
mutò espressione e disse: «Ah, stasera dobbiamo andare da
tuo zio Tiberio, per la sua odiosa festa di compleanno. Credo che sarà presente anche quel tuo
amico francese».
«Olivier?»
«Se è lui il fidanzato perfetto di
tua cugina... comunque, potreste venire anche voi ai Castelli. Ovviamente, non alla
festa, perché ci sarà tempo in futuro per insegnare a quella cara ragazza
come difendersi dai tuoi zii. È ancora presto per
portarla nella
fossa dei leoni».
«Sarebbe un’ottima idea» fece il
ragazzo, interessato. «Le farò vedere Albano e
Castel Gandolfo che sono i più caratteristici. Ad Aida
piaceranno sicuramente!»
«E potresti usare il regalo di quel...» Marcello
sospirò e si sforzò di continuare senza inveire
contro il cognato, «di tuo zio Guido».
In risposta, gli occhi del giovane acquisirono una nuova luce.
«Vuoi dire che posso prendere la mia A4?» domandò, pieno di speranza.
Marcello alzò le spalle e annuì, mentre il
figlio conteneva la gioia con compostezza, lasciandosi scappare solo un
gran sorriso.
«Grazie, papà!» esclamò, avviandosi verso l’interno di Villa Aurelia.
«L’eri in vena di esami, stamani?» chiese, allora, una voce, facendolo sobbalzare.
L’uomo si voltò indietro e inarcò un sopracciglio, vedendo Beatrice avanzare verso di lui, i
capelli cuprei raccolti, indossando un
vestito color carta da zucchero.
«Da quanto tempo eri lì?» la
interrogò il marito, indicando una delle rientranze del muro
con un cenno del capo.
«Abbastanza...» rispose la donna, con un sorrisetto, «abbastanza per vedere che i
ragazzi han superato la prova a pieni voti...»
«Prova? Quale prova? Non capisco di cosa tu stia
parlando» ribatté il consorte, tranquillo.
«... e per l’aver conferma che oggi, come allora, i mie’ occhi sortiscono su di te lo stesso effetto» aggiunse lei, scrutandolo divertita.
Lui ricambiò l’occhiata, ma distolse subito dopo lo sguardo.
«Che programmi hai per oggi?» le chiese, invece, facendo finta di
concentrarsi sul passerotto che si era posato sul bordo di una fioriera.
«Devo andare ai Musei Capitolini, potrei essere la curatrice di una nuova mostra» rispose lei, con visibile soddisfazione.
«Hai ripreso a lavorare» osservò, allora, Marcello, positivamente sorpreso, tornando a guardarla.
«Sì, e voglio tornare anche in carcere, dalle ragazze del corso di cucito» affermò Beatrice, decisa. «Sono stata assente troppo a lungo».
Intenerito, l’uomo le sorrise e le spostò una ciocca
ramata dietro l’orecchio, commentando rasserenato: «Sei
tornata felice come quando ci siamo conosciuti».
Di rimando, la moglie sorrise a sua volta, arrossendo leggermente.
«Però, potresti ammettere che
l’Aida e il nostro Pulcino son stati bravi nel superare la prova, anche se avresti
potuto insistere di più sul fatto che non dovrebbe usare troppo spesso certi termini» riprese la consorte, dimostrando di non aver archiviato il discorso.
A quel punto, Marcello assunse un’espressione di pura e vaga
indifferenza, evitando accuratamente di guardarla.
«Non so davvero a quale prova tu ti stia riferendo, Beatrice. Ed
ora, se vuoi scusarmi, vorrei andare a valutare di persona la
situazione delle azalee. Con permesso» si
congedò, allontanandosi in fretta da lei per sparire
giù per la scalinata, diretto al giardino posteriore.
Rimasta sola, Beatrice si puntò le mani sui fianchi e scosse la
testa divertita, pensando che, alla fin fine, tra il figlio ed il
marito, il più malandrino era proprio
quest’ultimo.
***
Una volta lasciatasi alle spalle Piazza Venezia ed il Vittoriano,
Aida e Giancarlo raggiunsero il Viale dei Fori Imperiali, passeggiando tenendosi per mano, una precauzione che
aveva preso il ragazzo dopo che, in mattinata, un
bellimbusto aveva tentato un approccio troppo ardito con la fanciulla, malgrado lei fosse palesemente in compagnia.
In quel momento, il biondo aveva
conosciuto il mostro della gelosia ed era stato attraversato
dall’idea impellente di lasciare un segno indelebile sulla faccia di
quel tale, arrivando alla conclusione che i playboy, visti dal di fuori, non
erano poi così tanto gagliardi, quanto piuttosto dei
perfetti deficienti.
Dal canto suo, però, la ragazza non si era molto curata delle avance
dello sconosciuto, anzi, aveva persino preso in giro Giancarlo
quando aveva incenerito con lo sguardo il nuovo e molto più
scadente casanova. Tuttavia, aveva dovuto ammettere con se stessa che quella
reazione le aveva fatto piacere.
Per il pranzo, Aida aveva pregato il giovane di non portarla in nessun
ristorante lussuoso, poiché quel giorno non voleva perdere troppo tempo e non riteneva di essere vestita abbastanza
adeguatamente, così lui aveva
optato per qualcosa di più informale.
Tuttavia, mentre scendevano lungo il viale, fermandosi di tanto in tanto per
commentare o semplicemente contemplare le antiche architetture, i due
ragazzi non sapevano di essere guardati a loro volta. Infatti, quasi tutti i passanti
si giravano per ammirare quella giustapposizione di colori
pressoché complementari, i capelli d’oro di lui e
quelli d’ebano di lei, la pelle candida del ragazzo e quella
nocciola della fanciulla, tanto chiari gli occhi di Giancarlo, quanto
scuri erano quelli di Aida. Una mescolanza di
toni opposti che nel loro complesso, però, risultavano bilanciati e armoniosi.
Infine, la passeggiata si concluse all’ombra del Colosseo, il simbolo nel mondo della Roma antica e moderna.
«Ed eccoci, dunque, davanti all’unico e inimitabile
Anfiteatro Flavio» scandì lui, gonfiandosi di
fiero campanilismo. «Pensa che, qualche anno fa, quando ancora
ero un campione capace con il beyblade, ricevevo i miei sfidanti in un
bey-stadium
ricalcato su questa forma».
Basita, la ragazza si voltò verso di lui con gli occhi sgranati per
l’incredulità: «Che cosa facevi?»
Compiaciuto di aver attirato la sua attenzione, Giancarlo la guardò ed un sorriso furbetto si impose
arrogantemente sul suo volto.
«Ah, questa è una mia prodezza di
gioventù che devi ascoltare. In particolare,
c’è un episodio che merita proprio di essere
raccontato...»
Entrambi, allora, si accomodarono su una panchina e, quando il giovane fu certo che lei lo stesse ascoltando, prese a narrare:
«All’epoca ero ancora un adolescente. Venne dal
Giappone un ragazzo, un tale Takao, che era capitato per caso in Europa
mentre era diretto in Russia per i campionati mondiali di beyblade. Una
serie di circostanze lo spinsero a sfidare i miei compagni di squadra, così
arrivò anche qui a Roma».
«Doveva essere un tipo molto tenace, per andarsene in giro
per il continente a sfidare altri blader! Ammetto di non sapere chi
sia, ma se è famoso, Samir lo conoscerà
sicuramente» commentò la fanciulla.
«Infatti!» confermò l’altro.
«Tuo fratello è davvero un portento, sai? Dovrei
portarlo a seguire qualche incontro dal vivo, un giorno, non mi farebbe male
rendermi conto del livello delle nuove promesse del bey... Comunque, tornando a noi, mi
sfidò, anche se la prima volta non accettai,
perché avevo, ecco, altro... in programma»
continuò, tossicchiando. Intuendo di cosa si trattasse, Aida assunse
un’aria leggermente contrariata e alzò un
sopracciglio.
«Per esempio, fare il cascamorto con le tipe di ieri?» gli
suggerì, assottigliando lo sguardo. «Mi
sono sembrate molto interessate a te».
«Vabbè, mo’, non andiamo nei
particolari» le rispose lui, spostando gli occhi
altrove, avvampando. Tuttavia, fu proprio questa reazione a far ingentilire
la ragazza, tanto che gli permise di andare avanti nel suo racconto senza aggiungere altro.
«Insomma, la seconda volta pensò bene di
insultarmi per farmi accettare la sua sfida e così ci affrontammo per ben due volte, in un’arena simile al
Colosseo, costruita nel bel mezzo di Piazza San Pietro».
Aida lo guardò, esterrefatta, riuscendo a malapena ad esalare:
«Nel bel mezzo di... Piazza San Pietro?»
«Oh, sì. Quando l’ha saputo mio padre,
settimane dopo, ha perso le staffe e mi ha messo in punizione per un
mese. Temeva che saremmo incorsi in incidenti diplomatici con il
Vaticano. E, ad oggi, devo ammettere che ho rischiato davvero grosso, ma, per
fortuna, non è successo niente di simile».
La fanciulla continuava a fissarlo, a bocca aperta, non sapendo se ridere o piangere. Poi, si portò
una mano alla fronte e scosse la testa: «Santo Cielo...»
«Sì, in effetti ero abbastanza
discolo, megalomane ed esaltato» considerò lui, meditabondo.
«Fui addirittura schiaffeggiato da un compagno di squadra di
quel Takao, un lillipuziano alto una spanna e mezza... che,
però, aveva ragione rimproverandomi di usare Anfisbena con
intenti poco nobili. Comunque, ebbi la mia batosta: credevo di aver
battuto il mio sfidante, ma in seguito fu lui a
sconfiggermi pesantemente. Il mio bit-power mi si rivoltò
contro e, in quel momento, imparai che avrei dovuto rispettarlo di
più, visto che ero eccessivamente dispotico con lui, impartendogli solo ordini senza ascoltarlo».
Aida vide Giancarlo tirare un profondo sospiro, come se avesse voluto
tornare indietro e agire diversamente; allora, gli prese una mano e la strinse e lui rinsaldò la presa.
«Sai, Anfisbena è stato un regalo del nonno. Si
era raccomandato di trattarlo bene, ma io non l’ho fatto e ho
capito tardi i miei errori» proseguì. «Quando siamo diventati troppo grandi, gli animali sacri si
sono congedati da noi ed io... sono quello che l’ha presa
peggio».
A quel punto, si mise la mano libera nella tasca del trench e ne estrasse il suo
beyblade, guardandolo.
«Credo sia normale» avanzò timidamente
la fanciulla, che aveva ascoltato tutto il racconto del giovane con
partecipazione. «In fondo, era qualcosa che ti legava a tuo
nonno. Non penso che Samir possieda una di queste creature, perché, da come ne
parli, devono essere speciali e piuttosto rare».
«Lo sono» confermò lui, rigirandosi
il bey in mano.
«È un peccato che non possa più
interagire con te» notò lei, osservandolo a sua volta.
«Non può rispondermi, ma sente tutto quello che
gli capita intorno e un giorno Anfisbena si
risveglierà. Saprà lui quando, perciò noi possiamo
solo aspettare e sperare che il suo nuovo padrone sia più
lungimirante di me».
«Posso... posso tenerlo un attimo?» gli chiese, allora, quella, incerta.
Il ragazzo si girò verso di lei, scrutandola a fondo, poi
guardò la sua trottola e, senza aggiungere altro, gliela fece
scivolare in mano. Al contatto con la pelle, il metallo le risultò freddo.
«È più pesante di quello di
Samir» notò Aida, valutandolo con attenzione.
«Anche perché il suo è fatto quasi solo di
plastica».
«Ti intendi anche di beyblade, oltre a sapere a memoria i
trattati di architettura dalla preistoria ad oggi?»
ridacchiò Giancarlo, avvicinando il viso al suo.
La fanciulla gli sorrise, scansandosi all’ultimo,
quando ormai aveva già avvertito i ciuffi biondi
solleticarle la guancia.
«No, ma sono io che rimetto a posto quello di mio fratello,
quando lo lascia per terra insieme agli altri giocattoli, altrimenti
Rami sarebbe capace di inciamparci e farsi male»
replicò, guardandolo ad occhi socchiusi.
«Che fratelli fortunati ad avere una sorella brava e diligente
come te! E, sentiamo, cos’altro fai per loro?» le
sussurrò, tentando un nuovo approccio, più lento.
«Immagino che siano sempre domande per conoscermi meglio,
vero?» chiese la ragazza, che ora, però, non pareva più
intenzionata a spostarsi.
«Oh, no, no. Quello che volevo sapere di te, l’ho
già saputo... direi, invece, che, stavolta, è davvero un elegante tentativo
di provarci con te».
Tuttavia, furono interrotti da uno schianto improvviso, seguito dalle risate di
alcuni bambini. Infatti, poco lontano da loro ce ne erano due in piedi e un terzo steso sul
lastricato.
«Ah, ah! Michele, sei una schiappa!» urlò uno dei due, tenendosi la pancia con le mani.
«Vi farò vedere io! Io diventerò un
grande campione come lo è stato Tornatore e come lo
è adesso Caesar!» replicò una vocina
decisa.
«Nano, ti paragoni a due grandi campioni?»
gridò l’altro, canzonatorio. «Ma se sei
finito per terra solo per lanciare il tuo beyblade, schiappa!»
«Torno subito» disse il biondo ad
Aida, serio, alzandosi dalla panchina e dirigendosi verso i tre bambini. La
fanciulla si alzò a sua volta e lo seguì, sempre
tenendo in mano il beyblade turchese.
«A regazzi’, vi pare questo il modo di trattare un
vostro amico?»
I due che erano in piedi si voltarono e, dopo aver scorto
l’espressione poco amichevole sul volto di Giancarlo, si guardarono e
se la diedero a gambe. Il giovane sbuffò, scuotendo
la testa, quindi si abbassò e aiutò il bambino caduto a rialzarsi.
«Tutto bene?» gli chiese, aiutandolo a sistemarsi i vestiti.
Quello si stropicciò la fronte ed annuì, a testa bassa,
mentre il ragazzo già si prodigava per recuperare beyblade e
dispositivo di lancio per riconsegnarglieli.
«Questi devono essere tuoi» gli disse, con un sorriso.
«Grazie» sussurrò il bimbo, con una scrollata di spalle, senza
alzare il capo.
«Ti chiami Michele, vero?» riprovò
Giancarlo, cercando di stabilire un punto di contatto e ottenendo un
timido assenso in risposta. «Ti va di farmi vedere come lanci
il tuo beyblade? Magari
possiamo inventarci qualcosa per migliorare la tecnica».
Rianimato, il bambino si decise finalmente a guardarlo con i suoi
occhioni color sottobosco.
«Tu... conosci il beyblade?»
«Lo praticavo. Tanto tempo fa» gli rispose con
nostalgia l’ex-blader. «Ascoltami... qualunque cosa
ti dicano gli altri, non devi mai smettere di pensare di poter
migliorare, con l’allenamento e con
l’impegno».
Aida rimase ad osservere la scena, in silenzio, mentre, nella sua mano,
il
metallo di Anfisbena sembrò liquefarsi e diventare molto
caldo, come se fosse vivo. La fanciulla, allora, intuì
intimamente, senza comprendere fino in fondo il perché della
sensazione
provata allora e, solo anni più tardi, lo avrebbe capito davvero.
Sorridendo, si avvicinò con lentezza a Giancarlo, che stava ancora conversando
con il bambino.
«Ah, grazie. Sì, mi serviva proprio»
fece il giovane, prendendo la sua trottola personale, offertagli dalla
ragazza. «Ti faccio vedere come si fa».
Michele, però, non lo ascoltava più, lo fissava e basta, a bocca
aperta. Probabilmente, aveva capito chi era e stava cercando di ritrovare i
tratti dell’adolescente campione di beyblade nei lineamenti
non più acerbi del giovane uomo che aveva di fronte.
«Quel bey... ma tu... tu devi essere... Gianni
Tornatore!»
«Eh, già. Mi hai scoperto!» fece lui, ammiccandogli. «Dunque, mi permetti di
mostrarti un paio di dritte?»
Quando, circa mezz’ora più tardi, il bimbo li
salutò felice, contento di aver appreso importanti consigli
da parte di un grande campione, Aida scoccò al biondo
un’occhiata incuriosita e interessata.
«Allora non è solo con Samir, con i bambini ci sai
proprio fare!» considerò.
«Il livello di maturità è all’incirca
quello, perciò riusciamo a comprenderci» scherzò il ragazzo.
«È molto bello quello che hai fatto, sai?»
gli disse, incurvando le labbra.
Giancarlo, però, si limitò a scrollare le spalle, in lieve
difficoltà, concentrandosi
sul proprio orologio.
«Si è fatto tardi, dobbiamo andare. Anche se non
prenderemo parte al ricevimento, dobbiamo comunque passare da casa, giacché i miei ci
aspettano».
Improvvisamente, una goccia di pioggia lo colpì in pieno sul
collo: un’inattesa caligine di nubi aveva coperto il cielo,
facendo piovere copiosamente.
I due ragazzi, allora, si
misero a correre, costeggiando gli imponenti e antichi ruderi, per
attraversare quindi il viale e lasciarsi indietro il Colosseo, i
Mercati Traianei ed i Fori. Il tempo di arrivare ai tornelli della
linea B della metropolitana ed erano già bagnati fino al
midollo.
«Che iella quando comincia a piovere così! Siamo completamente zuppi, peggio che se ci fossimo
buttati in un lago!» esclamò Giancarlo,
scompigliandosi la chioma bionda e strizzandosi un lembo della tasca
dei pantaloni.
«Oh, dai, basterà una doccia calda, vestiti
asciutti e saremo come nuovi!» replicò Aida, per
nulla turbata.
«Certo e, se la metro non tardasse, potrei quasi sperare di non
farti prendere un malanno e non sentire le ingiurie di tuo
fratello» le rispose, stizzito.
«Ma va, io resisto bene alle intemperie!» rise la
ragazza, scorgendo la sua insofferenza. «Sei davvero uno
spettacolo quando devi prendere la metro» aggiunse.
«Per fortuna, per portarti a vedere i Castelli
Romani, questa sera, mio padre mi ha concesso di usare la mia A4»
sospirò lui.
«La tua
A4?»
«Sì, è il regalo che mi ha fatto mio
zio Guido per i miei ventun anni, anche se è solo
un’automobilina per iniziare a fare pratica, niente di
più».
La fanciulla, allora, lo fissò stranita e severa. Giancarlo lo
notò subito e le chiese: «Aida, c’è
qualcosa che non va?»
«Qualcosa che non va?
Le tue stanze sono
più grandi del nostro appartamento di Alessandria e in questi
giorni mi hai pagato tutto, sborsando fior di quattrini, per non
parlare del gioiello che mi hai regalato, che costa come il mio
stipendio annuale. E chiami
un’Audi berlina, un’automobilina. No, va tutto
benissimo!» commentò lei, sarcastica.
Il giovane, a quel punto, si accorse di aver commesso una leggerezza e si
affrettò a scusarsi: «Mi dispiace, Aida, non
volevo mancarti di rispetto...»
«A volte, mi chiedo se davvero noi due non siamo troppo
diversi» lo interruppe, però, lei, scuotendo la testa, intristita.
Quelle parole lasciarono Giancarlo pietrificato e per un po’
nessuno dei due disse nulla.
Intanto, dopo aver sceso le scale, i due giunsero sulla banchina,
trovandola affollata, come in ogni giornata di pioggia, continuando a tenersi per mano: non avevano
smesso per un solo attimo di farlo, come se temessero il
momento in cui avrebbero parlato, coscienti che niente, nel bene e nel
male, sarebbe stato più come prima.
Alla fine, prendendo coraggio, il ragazzo si girò verso Aida per
chiederle finalmente cosa avesse deciso, poiché voleva
sapere se per lei sarebbe potuto essere un conoscente, un amico o un
amante e
se potesse sperare di abbracciarla ancora, di ripeterle
all’infinito quanto fosse importante per lui, di continuare a
ricevere le sue carezze spontanee e delicate.
Dal canto suo, sentendosi osservata, anche la fanciulla si voltò,
malinconica.
«Rinviare ulteriormente, renderebbe tutto solo più
difficile, quindi credo che sia arrivato il momento di rispondere alla domanda che mi hai fatto lo scorso febbraio».
Il biondo avvertì la salivazione sparire del tutto,
mentre il cuore rallentava i battiti e Aida si lasciava andare di nuovo ad un sospiro
addolorato.
«Giancarlo, io ho riflettuto molto sulla tua proposta e ho
capito che ci sarebbero alcune cose che sarebbero davvero difficili da
conciliare, in una relazione a distanza come la nostra, perché siamo troppo
lontani. Inoltre, a gennaio dovrò discutere la tesi e vorrei
lavorare un po’ per il museo de Il Cairo, che è il mio
sogno fin da bambina. Sai, io voglio darmi da fare, voglio coltivare la mia
passione per l’arte e... noi apparteniamo a due mondi molto
differenti».
«Non è vero, Aida, il mondo è uno solo...»
«No, Giancarlo, non è così e non far
finta di non saperlo» lo interruppe bruscamente lei, togliendosi una goccia
di pioggia dalla guancia. «Inoltre, naturalmente, devo ancora
occuparmi di
Samir».
«Di Samir possiamo prenderci cura insieme, lo sai che non
aspetto altro...» tentò di protestare lui, avvertendo lo stomaco contrarsi per il dispiacere.
Aida, però, scosse lentamente la testa, triste: «No...»
Giancarlo chiuse gli occhi e deglutì, vedendo andare in fumo anche
l’ultimo residuo di speranza. Allora, smise di
respirare, così stravolto cda non avere neanche la forza di
disperarsi: l’aveva rifiutato.
Chinò il capo, sconfitto, sentendo qualcosa dentro di sé che
si inceneriva e si lacerava.
«... non ancora. Non ho finito di dirti tutto»
continuò, tuttavia, la fanciulla.
«Vuoi che rimaniamo solo amici, lo so. Me l’hai
detto» mugugnò lui, con tono ostile. Per un
attimo, avrebbe tanto voluto cedere alla tentazione di fare come il
bambino capriccioso che non ha ottenuto il suo gioco, ma si impose di
comportarsi da uomo e accettare la disfatta. Non voleva che Aida lo
ritenesse un ragazzino viziato, visto che grazie a lei non lo era più.
Ma, a quel punto, lei sorrise e, gentilmente, gli alzò la testa,
affinché i loro occhi si potessero incontrare: era
graziosa e dolce, anche inzuppata d’acqua e mentre gli stava dando quel grande e terribile dolore.
«No, non è questo. Voglio aggiungere, invece, che io non
riuscirei ad immaginare una vita senza di te. Ormai ne fai
parte, anch’io ho bisogno di te e
non potrei sopportare l’idea di saperti con
un’altra donna» gli sussurrò con tenerezza.
Scombussolato, il ragazzo impiegò qualche istante per capire cosa gli aveva detto.
«M-Ma... allora...» cominciò a
balbettare, spalancando gli occhi, prima che la giovane lo fermasse.
«E l’unico modo per stare insieme
è anche il più difficile: io voglio sposarti, ma
non subito. Quindi, ora ti faccio io una domanda: Giancarlo, sei pronto ad aspettarmi?»
«Aspettarti? Mi stai chiedendo di aspettarti?»
esclamò, irritato, cedendo volentieri alla collera.
«Diamine, mi hai quasi ucciso solo per chiedermi
tempo?»
«Non è solo tempo. È fiducia, pazienza, lontananza...»
«È il prezzo da pagare per la serenità!»
concluse lui. «Da quando ti conosco, la mia vita
è migliorata. Mi hai insegnato il rispetto per gli altri e
per me stesso, al punto che ho imparato ad aspettare e sono pronto a fare dei
sacrifici pur di starti accanto. Dannazione, Aida, vuoi capire
una buona volta che sono pazzo di te?!»
La fanciulla lo guardò, dapprima inespressiva, poi un
enorme sorriso le
illuminò il viso.
«Anch’io ho appreso diverse cose da te. Per esempio, mi hai
dimostrato con quanta intensità un uomo può amare
una donna».
Il biondo spostò gli occhi da un’altra parte,
sospirando e arruffandosi i capelli sulla nuca, indeciso se provare
più imbarazzo, sollievo o chissà cosa.
«Almeno, però, mi permetterai di presentarti quanto prima come mia
fidanzata ufficiale? Al matrimonio di McGregor vorrei averti accanto a
me».
«Ecco un altro motivo per cui mi serve tempo: devo abituarmi
alle regole della società alla quale appartieni, per me è tutto
nuovo e la cosa mi spaventa non poco. A volte mi sento così
goffa... ho paura di non essere all’altezza delle tue
aspettative... e non solo per quel che riguarda
l’etichetta».
Giancarlo colse l’espressione affranta di Aida e
intuì molti più timori di quanti ella ne stesse
effettivamente esprimendo a parole.
«Basta così!» le disse, togliendole una
ciocca di capelli bagnati dal viso. «So che non
sarà facile e che ti sto chiedendo molto, ma le
difficoltà, in una coppia, si affrontano insieme. Io
l’ho imparato dai miei genitori ed ora tocca a me metterlo in
pratica».
«Dovrai avere molta pazienza con me e con le mie
insicurezze».
«Non più di quanta ne dovrai avere tu con me e con
la mia esuberanza. Stai tranquilla, affronteremo una cosa alla volta,
al momento giusto e senza fretta, d’accordo? Voglio godermi ogni sfumatura della
nostra relazione».
Dopo quello scambio di battute, la fanciulla parve finalmente un po’ più serena.
«Io temo anche il confronto con tua cugina. Non
sarò mai al suo livello e mi odia...»
«Ti odia perché crede di essere superiore e di
poter ottenere qualsiasi cosa o persona le piaccia» il
ragazzo si trattenne un attimo, ma poi decise di rivelarle il suo ultimo
segreto. «Ascolta, lei è gelosa del sentimento che provo
per te perché non mi vede solo come suo cugino. Da me
vorrebbe attenzioni molto più... consistenti. E, se io avessi
sposato Maria Chiara, Claudia avrebbe potuto sperare di continuare a
condividere tutto con la sua amica» ammise, avvampando di
amara umiliazione.
Aida lo fissò, avendo capito finalmente tutto. Poi, con grande sorpresa di lui, sorrise
e cominciò ad accarezzargli dolcemente una guancia.
«Tu non sei una persona qualsiasi, quella cui ho
donato il mio cuore e tua cugina dovrà farsene una ragione,
perché io non condivido il mio ragazzo con nessun’altra. Non vergognarti anche per
colpe che non sono tue, non sarebbe giusto».
Rincuorato, lui le prese la mano, mettendola a contatto con le proprie labbra, grato.
«E tu non devi invidiare niente a nessuna. Io desidero che tu
rimanga come sei, quindi non
dire mai più che dovrei tornare alla mia vita di prima e sciocchezze simili».
La ragazza si irrigidì, allibita.
«Hai... hai sentito ciò che ho detto?»
«Ogni singola parola» fece il giovane, malizioso,
tornando a sorridere sereno.
Imbarazzata, Aida si portò la mano libera sulla bocca: «Hai
origliato! Eri sveglio! Perché non me l’hai fatto
capire?»
«Perché volevo sentire cosa avevi da raccontarmi.
Senza contare che sarebbe stato imperdonabile perdermi un tuo
bacio».
Sempre più in difficoltà, lei si girò dalla parte
opposta, scuotendo la testa. Allora, Giancarlo rise, allegro,
trattenendola e attirandola a
sé.
«Che cosa ne dici, ora potrei essere io a ricambiare, no? Ma prima
devi chiarirmi una cosa: non ho capito bene le ultime parole che mi hai
detto, potresti ripeterle, per favore?»
Aida lo guardò di sottecchi, sorridendo sostenuta.
«La sa una cosa, signor Tornatore? Lei è un
grandissimo sfacciato! Studia l’arabo e non ha capito una
frase semplicissima?»
«Potrei capirla meglio se mi dessi un aiutino...» le bisbigliò voluttuosamente lui in un orecchio.
«Solo se lei mi ripete cosa mi ha borbottato ieri, a
Piazza di Spagna» gli rispose, però, quella, non
dandosi per vinta.
Sinceramente ammirato, il ragazzo fece una smorfietta divertita e soddisfatta.
«Bene, bene, abbiamo un osso duro. Meglio così, le
cose facili mi annoiano» affermò, poi si chinò su
di lei e le sussurrò, molto vicino alle sue labbra. «Ti ho
chiamata... Amore mio».
La fanciulla si prese una manciata di secondi per gioire di quelle
parole semplici, ma così pregne di grande significato.
«Ed io ti ho detto ana bahebek, ma dovrai capire da solo che cosa
significa» cantilenò.
«Scommetto che è qualcosa che ha a che fare con
questo» disse, allora, Giancarlo, chinandosi per baciarla, ma non
ne ebbe il tempo, distolto dal sottile refolo proveniente dal
fondo della galleria e che annunciava
l’imminente sopraggiungere del treno.
«Mmm, Giancarlo? La metro è quasi
arrivata» gli fece notare lei.
Lui si fermò bruscamente e lanciò una rapida occhiata
davanti a sé, per poi tornare a concentrarsi su Aida.
«Che venga, che parta, chissenefrega. Sto rivalutando il
sistema di trasporti sotterraneo, sai? Ne verrà
un’altra».
«Sì, ma tra...» la fanciulla
controllò l’avviso luminoso. «Otto
minuti. Tuo padre potrebbe rimproverarti per il ritardo e Rami potrebbe
avere qualcosa da ridire se dovessi prendermi un raffreddore a causa della pioggia gelata».
«Ritardo? Che sarà mai! Saremo lontani per
così tanto tempo che voglio sfruttare ogni secondo con te. Mi hai detto che resisti bene alle intemperie, no? E
poi, posso provvedere a riscaldarti io, ti prometto che non riporterai
alcun malanno» le assicurò, sensuale,
cominciando a sfregarle piano la schiena. «Ah, già
che ci siamo, impara una nuova regola, biscottino: mai interrompere
Giancarlo Tornatore quando è impegnato a coccolare la sua
meravigliosa ragazza».
Stava appunto per apprestarsi di nuovo a lei, quando una torma di persone,
intente a cercare di stiparsi all’ultimo nel vagone, si
riversò sulla banchina lastricata e impantanata di pioggia,
costringendo i due giovani ad addossarsi alla parete.
«E fate passa’!» sbottò loro
un energumeno, mentre si accalcava. «Non ve mettete in mezzo
alle scatole, se dovete fa’ i baccalà!»
«E dai, caro, guarda che bel giovane e che ragazza graziosa!
Sono così carini!» trillò, invece, quella che
doveva essere sua moglie.
«Se dovete pomicia’, annateve a cerca’
’n artro posto! ’Sti pischelli
d’oggi...» bofonchiò di nuovo quello, facendo
orecchie da mercante, prima che le porte si richiudessero dietro di lui.
Il ragazzo, nel frattempo, aveva contato fino a dieci per evitare di rispondergli per le
rime in dialetto stretto, preferendo continuare a
fare il signore.
«Non credo di aver capito tutto quello che ha
detto» fece Aida, perplessa, abbracciata a lui.
«Ignoralo» le rispose l’altro, agitando una mano.
«Ora che ci penso, era un po’ che nessuno diceva la
sua. Cominciavo a preoccuparmi».
La fanciulla rise fino alle lacrime, mentre la metro partiva e la
banchina tornava quasi deserta.
«Allora, dove eravamo rimasti? Ah, ma certo...»
«Giancarlo?»
«Sì?» le fece lui, lascivamente ispirato e
già proteso verso di lei, arrestandosi di nuovo.
«Ci sarebbero altre due cose che dovrei dirti»
avanzò Aida, incerta.
«Ancora?» esclamò lui, tra lo
sconcertato e lo stupito.
«Ecco, per prima cosa, non è necessario che tu
reprima la tua indole da casanova, visto che fa parte della tua
personalità...»
Il giovane inarcò all’inverosimile un
sopracciglio, fissandola dubbioso, ma lei continuò:
«E a me non dispiace, se espressa con moderazione.
Purché tu la esibisca esclusivamente con me,
ovviamente» concluse, ricalcando opportunatamente
le ultime parole.
Giancarlo sogghignò, riservandole un’occhiata
malandrina.
«Be’, questo mi era parso implicito. Vuoi
più coccole? Vedrò come accontentarti,
zuccherino, e... cos’altro devi dirmi?»
«Oh, ecco...» sussurrò la fanciulla,
tentennante, «che avevi ragione sui tuoi begli occhi: hanno un colore stupendo».
Troppo contento per quel complimento diretto, Giancarlo cominciò ad accarezzarle i
capelli, limitandosi ad aggiungere: «Bene, ora
penso che sia arrivato il momento di recuperare i sei tentativi di
baciarti andati in fumo».
«Sei?» replicò la ragazza, tentando di
fingersi impressionata e non riuscendo invece a trattenere una buona
risata. «Sicuro che non siano di più?»
«Se escludiamo gli ultimi, rendiamo la cosa meno assurda e
imbarazzante di quello che è» commentò
l’altro con una smorfia, cui seguirono altre risate da parte
della fanciulla.
«Dovrai essere molto bravo, per far tutto in meno di otto
minuti» gli ricordò Aida, mentre gli sistemava
con delicatezza il colletto del trench inumidito e si sollevava in
punta di piedi, sorridendogli con la dolce e fiduciosa timidezza di
sempre.
«Gioia mia, tu mi sottovaluti» scandì
il biondo, a dir il vero più serio che faceto,
stringendola maggiormente a sé.
Quasi otto minuti a disposizione, quasi quattrocento ottanta secondi... se li sarebbe fatti bastare.
Iniziò con un bacio sulla fronte: uno, quello che le avrebbe
volentieri dato quella sera lontana, ad Alessandria, quando
l’aveva ascoltato senza giudicarlo.
Poi scese e le baciò la guancia: due, ciò che
aveva tentato di fare quando le si era proposto.
A quel punto, indugiò sul collo con ardente bramosia: tre, il preludio di
quel bacio non dato sul Tevere, in quel momento di forte, intensa passione non del tutto manifestata.
Infinie, arrivò sull’angolo della bocca: quattro, il bacio
salvifico che aveva cercato sulla terrazza, durante la prima visita a
Roma della ragazza.
Quindi si spostò di poco e le regalò un contatto
leggero, dato per prendere confidenza con quelle labbra tiepide, per le
quali aveva tanto sospirato: cinque, il bacio trattenuto a stento
davanti allo specchio cinquecentesco.
Allora, Giancarlo si discostò un momento per assaporare meglio il
sapore della sue labbra: erano dolci, come aveva intuito.
La gioia che gli dava tenere stretta la sua Aida, la
ragazza che lo aveva aiutato a non aver più paura di
ammettere i propri limiti, mettendo invece a frutto le proprie
potenzialità, era smisurata e sarebbe stata molto difficile da
tradurre in parole, come la sconfinata soddisfazione di aver
conquistato il suo cuore con le proprie forze. Non vedeva l’ora
di
vivere il suo futuro con lei, un futuro forse semplice e spoglio di
clamori, ma limpido e sereno.
I due si guardarono ancora una volta, sorridenti e vicendevolmente
abbracciati, prima di chiudere nuovamente gli occhi e abbandonarsi
entrambi ad un bacio intensamente passionale, ma altrettanto profondo
ed
autentico: sei, ma che in realtà non era il sesto,
bensì il loro primo vero bacio, il quale valeva per tutti
quelli che non c’erano stati e anticipava quelli che
sarebbero venuti. E, per Giancarlo, era anche qualcosa di più:
era il suggello della sua piena riuscita, il premio per i suoi sforzi,
il riconoscimento del suo sentimento puro e sincero.
Stettero per un po’ così, l’una tra le
braccia dell’altro, bagnati com’erano e addossati
alla parete non propriamente lustra, sotto la fioca e tremula luce
delle gallerie della metropolitana di Roma, in quell’aria
opprimente e rarefatta, incuranti di essere esposti alla vista dei
passanti.
Dopotutto, che importanza poteva mai avere per Aida e Giancarlo scambiarsi il
primo vero bacio a venti metri di profondità? Proprio
nessuna.
In fondo, avevano i loro quasi otto minuti fuori programma da passare
insieme.
E poi, non venite a raccontarmi che, a volte, la lentezza dei mezzi
pubblici non può giocare a vostro favore.
***
Gli eventi e i personaggi
narrati in questa storia sono frutto di fantasia, per tanto ogni
riferimento a luoghi, cose e persone realmente esistenti è
puramente casuale.
Il marchio “Beyblade” e i componenti
dell’EuroTeam/Majestics appartengono a Takao Aoki e BB
Project. Tutto il resto appartiene a me.
Ringrazio Aly
per la supervisione sul testo in corso d’opera.
Per la revisione a posteriori, ringrazio Lady
Viviana per la sua gentile collaborazione e
disponibilità.
***
[N.d.A.]
1. baklava:
dolcetti tipici egiziani, fatti di pasta sfoglia imbevuta di sciroppo e
farciti con granella di noci e pistacchi;
2. roobois:
pianta simile al té, originaria del Sud Africa. Se ne ricava
un infuso che è detto comunemente té rosso;
3. Celeste... fior:
sono i
primi versi della romanza che Radamès intona
nell’atto I - scena
prima dell’Aida
di Verdi; il libretto, invece, è di Antonio Ghislanzoni;
4. visitatrice... torna:
è il significato del nome secondo l’etimologia
araba;
5. Agape:
è la parola
greca che indica l’amore gratuito; esso si contrappone e
completa
l’Eros
(inteso nell’accezione platonica e non freudiana),
l’amore
passionale.
***
Grazie a chiunque sia passato di qui, vecchio o nuovo lettore che sia.
Halley
S.C.
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