Questa
storia è totalmente dedicata a Manichan, che da diverso
tempo
non era più in grado di leggerla, né di darmi i
suoi preziosi
consigli e opinioni, o anche solo allietarmi con le sue battute, nel
corso della stesura degli ultimi capitoli.
Purtroppo,
non ha potuto vedere la conclusione di questa lunga storia.
*****
Autunno
1983
Una fastidiosa foschia stava scendendo, veloce e silenziosa, a formare
il solito velo di triste grigiore che la faceva da padrone in
quell'autunno. Sembrava un'entità superiore che si divertiva
ad
avviluppare ogni cosa con il suo sottile e impalpabile manto,
rendendosi a tratti più densa e a tratti più
lieve e
mistica. Cortine biancastre rendevano ancora più lugubre
quel
luogo tanto inconsueto per un appuntamento.
Il deposito dei treni non era nulla di più che un tratto di
stazione in disuso e isolato dal resto, con tronconi di binari
arrugginiti sui quali erano state dimenticate locomotive obsolete e
vagoni inutilizzabili. In breve tempo, quel luogo era divenuto il
territori di gang locali per lo spaccio e qualche resa dei conti.
Non erano ancora le quattro del pomeriggio e quella giornata stava
già virando verso la notte, pesate e dall'atmosfera
mortifera,
con tutto quel biancore che aleggiava immobile. Fra le sue pieghe, un
lontano eco di passi si stava facendo strada. Come colonna sonora,
cigolii metallici creati da sporadiche folate di vento, e il gracchiare
di un corvo, appollaiato su un vecchio traliccio ormai privo dei cavi
dell'alta tensione.
Quei passi, dapprima calmi, diventarono via via più
affrettati e
agitati. Un respiro affannoso, teso, poi ancora solo passi di una
figura misteriosa che si stringeva in un lungo cappotto grigio di lana.
Il suo viso era avvolto da una sciarpa di cashmere scura e in testa un
borsalino a celarne quasi del tutto le fattezze. I suoi occhi erano
febbrili e acuti, scrutavano tutt'attorno a lui. L'andatura era svelta,
ma resa incerta e irregolare dal pietrisco della massicciata che
scricchiolava e faceva affondare un poco i suoi piedi a ogni passo,
rendendo il tutto più faticoso.
L'uomo si guardò attorno con circospezione, girandosi spesso
a
osservare dietro di sé; il cuore gli batteva forte per la
tensione. Rimuginava in continuazione sul perché avesse
accetto
di essere lì quel giorno.
Il prolungato fischio di un treno in lontananza, che in quel momento
entrava in stazione, lo fece sobbalzare.
«Maledizione!» si lasciò sfuggire fra i
denti in un sibilo roco, ancora con il cuore in gola.
Istintivamente si mise una mano nella tasca, afferrando e stringendo un
oggetto dalla superficie fredda e metallica che gli diede un momentaneo
senso di sicurezza. Si concesse un minuto, poi rilassò i
muscoli
delle spalle e riprese il suo percorso attraverso la nebbia, fermandosi
infine nei pressi di un palo, sottile e basso, innestato nel cemento
del marciapiede, sul quale era fissata una scatola metallica, di quelle
per le chiamate di emergenza.
Si abbassò la sciarpa dal viso e scrutò i
paraggi,
strizzando gli occhi per cercare di vedere un poco attraverso la nebbia
che nel frattempo si era inspessita. Dalla tasca interna estrasse il
portasigarette in argento. Prese una sigaretta e se la mise subito in
bocca. Le sue labbra tremavano ed erano livide dal freddo pungente,
nonostante la sciarpa. Dalla tasca destra del cappotto
recuperò
l'accendino, anch'esso in argento. Provò due, o tre volte,
prima
di riuscire ad accenderla. Fece un tiro, poi un altro e un altro
ancora, fino a terminarla; senza riuscire a godere dell'effetto
calmante della nicotina. Anzi, lo rese ancora più nervoso.
«Che diavolo ci faccio ancora qui?» si chiese,
fumando
un'altra sigaretta, con la pressante idea nella testa di girare i
tacchi e tornarsene da dove era venuto.
Buttò a terra il mozzicone accanto all'altro già
schiacciato. Il tempo sembrava non passare mai.
Le istruzioni che aveva ricevuto nel suo ufficio di New York erano
state chiare: una volta arrivato al deposito dei treni avrebbe dovuto
raggiungere a piedi quel punto specifico e attendere. Ma per quanto
tempo?
Fumò nervosamente altre due sigarette, nell'attesa che
qualcuno
si facesse vivo. I suoi occhi non si fermavano mai, scrutando ogni
ombra, scattando a ogni rumore.
Rabbrividì, nonostante il pesante e caldo cappotto che
indossava. Quel freddo incipiente della sera iniziava a insinuarglisi
fin dentro le ossa; ma, ancor più del freddo, a infastidirlo
era
l'irritazione che gli attanagliava lo stomaco per quella lunga attesa.
Sussultò nel sentire alle sue spalle lo squillo del telefono
di
servizio. Fissò lo sguardo sulla scatola metallica.
Lasciò suonare diverse volte prima di decidersi ad aprire lo
sportellino ammaccato e arrugginito e afferrare la cornetta.
Titubò ancora qualche istante. Poi, se l'appoggiò
all'orecchio.
«Benarrivato. Hai avuto difficoltà a trovare il
posto?» chiese una voce all'altro capo della linea.
«Perché mi hai fatto venire in questo postaccio?
Perché proprio a Springfield?»
«Perché è a metà strada.
È un terreno
neutrale dove le loro mani non possono arrivare», rispose con
tono pacato la voce misteriosa.
«Non mi piace perdere il mio tempo in questo modo! Dove sei,
perché non ti sei presentato?» disse l'uomo in
grigio,
irritato. Si guardò attorno ancora una volta, ma non vide
nessuno.
«Non te la prendere in questo modo, fa male alla
salute»,
lo canzonò la voce. Fece una pausa. Attraverso il microfono
del
telefono si sentirono alcuni colpi di tosse e un rantolo. «Ti
ho
lasciato qualcosa nel gabbiotto di controllo, qualche metro
più
avanti. Spero apprezzerai il regalo.»
«Non voglio niente da te!» esclamò
l’uomo, pronto a concludere la conversazione.
«Mi fido di te.»
A quelle semplici parole, la rabbia dell'uomo in grigio
tentennò. Era stato un colpo a tradimento. Provò
a
replicare, ma sentì un click
dall'altra parte della linea: la comunicazione era stata interrotta.
«Pronto? Pronto?» gridò, senza ricevere
risposta.
Scagliò via la cornetta del telefono con uno scatto
rabbioso,
soffocando un'imprecazione; e rimase a fissarla penzolare dal filo, a
pochi centimetri da terra. Fece un respiro profondo, per recuperare la
calma. Gli era stato detto di guardare nel gabbiotto. La struttura era
a pochi metri da lui: fatta di ferro, legno e vetro. Vi
entrò a
passo svelto, ma a una prima occhiata non vi era nulla di strano. Poi,
abbassando lo sguardo, vide uno scatolone ficcato sotto la consolle di
controllo. Era grosso, quasi interamente occupato da una pesante
coperta di lana. Lo fissò a lungo prima di accovacciarsi e
tirarlo fuori.
«Il regalo...» mormorò sarcastico.
Era tutto il giorno che aveva una brutta sensazione. Non avrebbe dovuto
farsi immischiare in quella faccenda, ma rimanersene a New York, a
farsi gli affari suoi. Nessuno lo obbligava a continuare quella farsa.
Sarebbe stato semplice lavarsene le mani, fare finta di nulla,
perché se avesse alzato quella coperta era sicuro che la sua
vita sarebbe cambiata radicalmente.
Indugiò per qualche secondo: senza rendersene conto si
ritrovò ipnotizzato dal desiderio di scoprire cosa ci fosse
dentro. Quando alla fine si decise, sgranò gli occhi.
Uscì all'aria gelida e umida: il suo viso era tirato. La
nebbia si era fatta più scura e fitta.
Fece qualche passo, sperava che prima o poi l'altro trovasse il
coraggio di mostrarsi, ma in cuor suo non ci credeva.
Continuò a
camminare avanti e indietro per diversi minuti, a capo chino, fumando
una sigaretta dopo l'altra. Raramente si era trovato nella posizione di
non sapere cosa fare e quella sembrava proprio una di quelle. Si
guardò indietro, verso il gabbiotto. Vi rientrò
dopo aver
buttato a terra l'ultimo mozzicone. Afferrò la cornetta del
telefono della consolle e, dopo aver preso la linea esterna, fece una
breve telefonata, dal tono decisamente perentorio.
«Metti in auto quello che c'è dentro e poi
andiamocene da
qui», ordinò al suo autista, arrivato una manciata
di
minuti dopo la telefonata. Schiacciò l'ennesima sigaretta
con la
punta della scarpa. «Sul sedile posteriore. E usa molta
cautela», specificò, bloccandolo per un braccio.
Il vecchio annuì. Si tolse il cappello, adagiandolo sul
sedile davanti ed eseguì senza fare domande.
«Se posso permettermi, signore», esordì
il vecchio,
con voce pacata e paterna, una volta ripartiti. «Che
cosa...» provò a domandare, subito però
frenò la lingua, notando dallo specchietto retrovisore lo
sguardo accigliato del suo giovane padrone che fissava la strada dal
finestrino.
«È il ricordo di un'amante senza coraggio.
È questo
che diremo, una volta tornati a casa, se ci chiederanno
qualcosa», rispose Shion Hayes, togliendosi il cappello e
allentando la sciarpa.
«Strano modo di farglielo avere, se posso
permettermi»,
osservò l'autista. La conversazione non ebbe più
seguito.
Sempre dallo specchietto, osservò come l'altro si stesse
ormai
estraniando.
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Profondi e cupi occhi verdi, velati di immensa tristezza, erano rimasti
a osservare lo svolgersi del destino. Era stata una visione difficile
da sostenere per lui, attraverso la nebbia irregolare che si divertiva
a creare ora una barriera impenetrabile, ora un velo leggero. Il suo
cuore era pesante. Rimase lì, nel suo nascondiglio, non
troppo
vicino, ma neanche troppo lontano dal punto dell'appuntamento,
finché non fu tutto tranquillo. Diede ancora qualche
violento
colpo di tosse, sputando sangue ai suoi piedi, ansimando e
appoggiandosi con la fronte alla parete del vagone merci, stringendo
nella mano il cellulare.
Sorrise amaro quando vide l'auto allontanarsi; fece un sospiro stanco e
rassegnato, ma anche liberatorio: gli era costato molto, ma sapeva di
aver preso la decisione giusta. Si tolse gli occhiali e, molto
delicatamente, pulì le lenti tonde, racchiuse da una sottile
e
sobria montatura d'oro.
Fece un altro respiro profondo, per ritrovare la determinazione che
aveva dovuto imparare a tirare fuori in quegli ultimi mesi. Distrusse
il cellulare e scese dal vagone, stringendosi nel cappotto e alzando il
bavero. Il vento gelido lo colse di sorpresa. Si girò per
un'ultima volta nella direzione presa dall'auto, mormorando fra
sé e sé poche parole incomprensibili, forse in
una lingua
straniera. Poi, si incamminò nella direzione opposta.
Note
del capitolo:
Ebbene sì, c'è una piccolissima nota. La
perplessità che potrebbe sorgere alla fine della lettura di
questo prologo è: Come è possibile che ci possano
essere
i telefoni cellulari nel 1983? Non so voi, ma a me questa
perplessità è venuta alla fine della stesura di
questo
prologo. Ebbene, sono andata a controllare e guarda la fortuna, proprio
nel 1983 la Motorola ha prodotto il suo primo modello di telefono
cellulare, anche se non era per così dire molto discreto
nelle
sue dimensioni, se lo paragoniamo a quelli di oggi.
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