Parte 2
Non voltarti
Firenze, Novembre 1516
Era bello essere a casa.
Certo, non era il ritorno
che Giovanni si sarebbe aspettato. Niente applausi, niente festeggiamenti,
niente scuse formali per il bando di qualche anno prima.
Non era il ritorno di un
eroe.
Non ancora.
Oh, beh, si disse nella testa nel tentativo di consolarsi da sé, alla mia età, Ezio Auditore era ancora un
fuorilegge, a Firenze.
Era solito paragonarsi al
Mentore da sempre, ovvero da quando sua madre lo aveva intrattenuto con tutte
le storie sul potente Assassino che aveva salvato più volte la sua famiglia, ma
era da tre anni che aveva smesso di cercarlo.
Non appena era stato
grande abbastanza, aveva iniziato a far parte della Confraternita, ma già
allora, Ezio Auditore era andato via, sparito, chissà dove.
Giovanni intanto si era
fatto un nome, nel bene e nel male. Aveva persino assassinato un soldato
corrotto, a Roma, prima che potesse attentare al Papa. Si era fatto un nome, ma
non era né un dannato, né un eroe.
Il ritorno a casa sarebbe
stato soltanto una tappa.
Un giorno, avrebbe avuto
una sua armata. Un giorno, il suo nome sarebbe stato gridato da un angolo
all’altro del Sacro Romano Impero, magari accompagnato a qualche soprannome
altisonante.
Al momento, però, doveva
semplicemente sopportare un vecchiaccio che lo stava guardando con aria un po’
troppo curiosa.
Doveva essere un
contadino di certo. Aveva l’orlo dei vestiti sporco di terra.
Per non parlare del
moccioso che aveva a cavalluccio sulle spalle. In quanto tempo avrebbe sbavato
sui capelli del vecchio?
Il moccioso aveva
iniziato a balbettare qualcosa, indicando Giovanni con le braccia.
Oh, magnifico, ci si mette anche il piccoletto.
“Che hai visto, Marcello?
Dillo a papà, che hai visto?”
Oh, che SCHIFO. Ma dico, mia madre ha parlato mai così, con me?
Non gli ci volle molto
per concludere che doveva averlo fatto di certo, ma il contadino non sembrava
volersene andare.
Il piccoletto aveva
iniziato a protestare a colpi di “Ma, ma, ma” e pernacchie, ma l’unica cosa che
l’uomo disse fu “Adesso ci andiamo da mamma e Flavia, papà sbriga una faccenda
e poi abbiamo finito”
Giovanni alzò gli occhi
al cielo e fece per andarsene, ma proprio allora il vecchio decise che aveva
perso la pazienza. O meglio, che suo figlio l’aveva persa, a quanto pareva.
“Giovanni di Giovanni
de’Medici, giusto?” chiese, mentre il pidocchio gli scompigliava i capelli
grigi nel tentativo di giocare
“Che vi importa?” chiese
Giovanni, la mano che indugiava pigra sul pugnale
“Io fossi in te non lo
farei” disse l’uomo in tono calmo “Ho sentito dire che presto ti metteranno a
capo di un esercito”
Cosa? Chi glielo ha detto?
“So cosa starai pensando
al momento. Ti basti sapere che... me l’ha detto un uccellino” disse l’uomo
poggiandogli una mano sulla spalla.
La mano sinistra.
Sulla quale Giovanni
riuscì a distinguere una vecchia bruciatura.
Un Assassino? Con i vestiti impolverati, il moccioso in spalla e i
capelli grigi? E disarmato, per giunta?
“Chi siete?” chiese,
prendendolo per il polso
“Un amico. Sempre che tu
mi consideri tale”
“Cosa volete?”
“Ho una spada che
potrebbe interessarti, una delle migliori mai forgiate. Se ti farai trovare qui
tra sette giorni, sarà tua”
“Tutto qui?”
“Tutto qui. Machiavelli
mi ha parlato di te, e anche molto bene devo dire. Soltanto, dovrai promettermi
di non snudare mai più un’arma senza ragione”
Fece per allontanarsi.
Ma Giovanni non
gliel’avrebbe fatta passare liscia. Mah. Come si permetteva di dargli ordini
per una semplice vecchia spada?
“Chi vi credete di
essere?” sillabò a voce alta “Non siete mio padre né il mio maestro”
L’Assassino più anziano
non fece una piega.
“Quando avevi l’età che i
miei figli hanno adesso, saresti stato disposto ad accettare me sia per una
cosa che per l’altra” disse in tono piatto “Ti sarai anche dimenticato il mio
volto, ma io non ho scordato il tuo”
Giovanni rimase fermo e
zitto sul posto, quasi paralizzato dalle parole dell’uomo.
Di nuovo!
Ezio Auditore. Aveva apostrofato Ezio Auditore!
Sentiva che stava per
morire dalla vergogna. Non lo fermò quando si incamminò, verso quella che
Giovanni riconobbe come la moglie, e una bambina appena più grande di Marcello.
Aveva avuto un’ultima
occasione, e l’aveva sprecata.
Ma d’altra parte, era
sempre stato un povero illuso.
Non valeva niente.
Non era niente, non
comandava nien...
“Ciao Vanni!” squittì
Marcello dalle spalle del padre, girando la testa verso di lui e aprendo e
chiudendo il pugnetto nel tentativo di salutare
Giovanni sorrise e alzò
la mano a sua volta.
“Ci vediamo!”
Forse non tutto era
perduto.
Sette giorni dopo, stesso posto
Il secondo principio del
Credo diceva di essere tutt’uno con la folla, e Giovanni era più che capace di
applicarlo. Non era più il dodicenne che schizzava come un matto, faceva un
sacco di rumore per strada e metteva qualsiasi guardia sul chi va là: Jacopo Salviati, il suo padrino, si era a malapena accorto che era
uscito di casa, e nelle strade di Firenze era stato niente altro che l’ennesimo
ragazzo in giro, senza fretta né destinazione.
Eppure, era in Piazza
Santa Maria Novella ed Ezio Auditore non c’era.
Che gli avesse dato buca
per quella brutta risposta?
Certo, a Giovanni non
interessava tanto la spada. Ma voleva rivederlo. Voleva essere certo che il
vecchio Mentore lo avesse perdonato.
Perché, perché gli aveva risposto male quando lui
si era soltanto appellato a un po’ di senso di responsabilità?
Perché capiva le cose
soltanto quando era troppo tardi?
Non era degno di fare
parte della Confraternita. L’indomani sarebbe andato da Ludovico Ariosto e gli
avrebbe restituito la lama celata e...
“Vanni!”
Marcello Auditore era a
due passi da lui, mostrando i pochi denti che aveva in un sorriso.
“Marcello! Cosa ci fai
qui?”
“Papà di là” balbettò
Marcello indicando una stradina laterale “Papà ha ‘ppada.
Veni!”
Prese un lembo del suo
farsetto e fece per tirarlo. Giovanni si chinò e gli diede la mano.
Proprio come Marcello
aveva detto, Ezio Auditore era appoggiato contro un muro, una spada legata alla
cintura. Per certi versi, si sarebbe ancora potuto riconoscerlo, adesso, senza
bambino piccolo sulle spalle e armato.
“Bravissimo, Marcello.
Ottimo lavoro” fu il suo primo commento mentre Marcello rideva e batteva le
mani “Ora, Giovanni... il tuo tono l’altro giorno non mi piaceva, ma questa
spada deve passare di mano”
“Non mi importa la spada,
Mentore” Giovanni rispose “Volevo soltanto... il vostro perdono”
“Da che mi risulti, il
Mentore adesso è Ludovico”
“Per me siete ancora voi”
Ezio abbozzò un sorriso e
gli mise di nuovo una mano sulla spalla.
“Penso che quello che ti
è successo sette giorni fa ti sia servito di lezione. Non snudare un’arma senza
ragione... e non impugnarla senza valore, ricordalo sempre” disse slegando
spada e fodero dalla cintura e mettendoglieli in mano “Le guerre riprenderanno,
ne sono certo. La Confraternita avrà bisogno di uomini come te per portare la
pace”
“Farò il possibile. Lo
prometto.”
“Mi fido di te. Spesso la
pratica è meglio di qualsiasi lezione. Fa’ che sia così anche per come ti
rivolgi alle persone, e andrà tutto bene”
Giovanni si legò la spada
alla cintura e fece per andarsene, ma qualcosa, o meglio qualcuno, lo tirò per
i vestiti. Girò la testa e vide che Marcello sghignazzava stringendogli l’orlo
del farsetto.
“Vanni!” pigolò, ma
Giovanni capì dai suoi gesti che voleva dire qualcosa di più del suo nome:
aveva lasciato la stoffa e alzato le braccia, aprendo e chiudendo le mani nel
gesto di voler prendere qualcosa.
Giovanni si chinò per
terra e gli mise una mano sulla spalla.
“Cosa vuoi, pulcino?”
Marcello fece un altro
passo in avanti e gli mise le braccia al collo.
Giovanni ricambiò
l’abbraccio, dando una pacca sulla spalla al bambino piccolo.
Istintivamente, la sua
mente andò a quel giorno di tre anni prima in cui, come sette giorni prima,
aveva incontrato Ezio Auditore senza riconoscerlo.
Quel giorno, a nemmeno quindici
anni, aveva augurato al bambino che sarebbe dovuto nascere – e poi si era
rivelato essere una bambina – di poter conoscere suo padre e avere un fratello
minore.
Non avrebbe mai pensato
che quell’augurio si sarebbe avverato, o meglio, che si sarebbe avverato in
quel modo.
“Sì, ti voglio bene anche
io, pulcino”
Gennaio 1525, Roma, Acquedotto Marcio
Ancora una volta,
Giovanni de’Medici lasciava Roma.
Si ricordava delle prime
volte che era stato in quel posto, un quindicenne dall’aria stupida e dalle
idee ancora più stupide.
Era stato proprio sotto
quegli archi di pietra antica che aveva preso la decisione di andare per la sua
strada.
Aveva intrapreso il suo
cammino da solo, eppure stavolta non era solo.
Un ragazzo di dieci anni
camminava al suo fianco, voltandosi indietro di tanto in tanto, ma senza
smettere di camminare.
“Non voltarti, pulcino”
“Perché... maestro?”
“Prima di tutto, non
chiamarmi maestro. Per te sono sempre Giovanni, ricorda. Siamo una
Confraternita... è come se io fossi il tuo fratello maggiore”
“Perché non devo
guardarmi indietro, Giovanni?”
“Perché il mondo è
avanti. Non devi pensare a quello che è stato, non quando dovresti pensare a
quello che è, e a quello che sarà. Non si può tornare piccoli o mandare il
tempo all’indietro. Però si può crescere, ed è questo che io voglio che tu
faccia”
“Giovanni...”
“Sì?”
“Ma sul serio è come se
tu sei mio fratello?”
“Sì, pulcino. Sul serio”
Marcello Auditore
sorrise.
“Grazie”