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Eccoci al secondo (e penultimo) capitolo di questa storia. I
ringraziamenti e le note a fine fic, per il momento mi limito a ringraziare come
al solito tutte le persone che commentano tutte le mie fic e a sperare che
troviate anche questo capitolo gradevole o perlomeno interessante.
Grazie di cuore a tutti e continuate a seguirmi. ^^
(Inchino)
Twinstar
LO SMISTAMENTO
2 gennaio
1972
L’anno
nuovo era cominciato in maniera piuttosto incoraggiante.
In
punizione.
A scrostare
merda d’uccello in guferia.
E lo stavo
facendo maledettamente bene anche se avrei potuto persino riposarmi dopo ore di
incessante fatica dal momento che la professoressa McGranitt aveva deciso di
lasciarmi lì per un po’.
Ero solo da
un’ora buona.
Quella
donna, a dispetto della severità di facciata, era una tenerona, e in quanto tale
non sarebbe mai riuscita ad imparare dai propri errori. L’ultima volta che si
era fidata di me a quel modo si era ritrovata con un’ala del corridoio distrutta
da un bolide impazzito che avevo trovato in una scatola ben nascosta sul fondo
di un armadio pieno di vecchie coccarde e coppe luride. Per quello avevo passato
un pomeriggio con le mani ficcate nell’acqua ghiacciata del lago per fare da
cavia agli studi sulle sanguisughe di quel sadico coglione del professor
Kettleburn.
Per una
settimana mi fu impossibile usare le mani: dovetti mangiare ficcando la testa
nel piatto e imparai a scrivere coi piedi.
Ma non mi
pentivo mai di quello che facevo.
Erano tutte
occasioni talmente ghiotte che sottrarmi ad esse sembrava impensabile…
Suppongo
che quella volta la professoressa McGranitt credesse che non avrei potuto
combinare guai lì dentro, perché in fondo non c’erano oggetti strani di cui
usufruire per i miei scopi malvagi (demoniaci, li avevano definiti una volta,
lusingandomi). Ero riuscito a ficcarmi nei casini a dispetto del fatto che
all’inizio delle vacanze mi era stata sequestrata la bacchetta fino all’inizio
delle lezioni, per quello ero lì, come potevano pensare che bastasse l’assenza
di oggetti a rendermi inerme?
Quanta
ingenuità da parte loro.
Ghignai a
me stesso.
Se me ne
stavo buono buono a fare il mio dovere era, molto semplicemente, perché mi
andava di farlo, benché io per primo mi meravigliassi di un tale miracolo. Ci
stavo mettendo dell’impegno, vero impegno, a dispetto della proverbiale
indolenza di cui facevo solitamente sfoggio, in special modo quando si trattava
di libri da studiare o compiti da fare.
Se fossi
stato un tipo anche solo vagamente riflessivo avrei quantomeno apprezzato
l’ironia di fondo. Invece, come al solito, i pensieri me li raschiavo via con
forza dalla testa assieme al guano che incrostava pavimento e pareti di pietra
muffita. Del resto se fossi stato portato per un lavorio intellettuale di
qualsiasi tipo sarei stato ficcato in mezzo a quei luridi lecchini di Corvonero.
Invece ero
a Grifondoro.
La casa dei
pulitori di cacche di gufo.
Risi di me
stesso, di quella stupida battuta, mettendo più foga nel lavoro a dispetto della
fatica e dell’odore acre di sudore e selvatico che mi penetrava insistente le
narici. Ero felice. Persino l’incessante stridio di quelle orride bestiacce mi
sembrava adorabile. Quella volta l’avevo combinata grossa al punto che la
McGranitt, di solito pacata e controllata anche negli scatti di collera, mi
aveva gridato contro tutta la sua frustrazione repressa, insinuando di non aver
mai incontrato in tutta la sua (lunghissima) carriera di insegnante un
piantagrane peggiore di me.
Ero
convinto che volesse umiliarmi, o darmi una qualche profonda lezione di vita: in
entrambi i casi sapevo che la cosa migliore da fare sarebbe stata assumere un
atteggiamento di profonda contrizione e così avevo fatto, sebbene dentro mi
fossi sentito invadere d’un folle, inspiegabile orgoglio.
Era
stata una buona idea prendere in prestito una scopa dal dormitorio.
Non
l’avevo rubata.
Quelle
erano solo insinuazioni di invidiosi.
Ero
stato semplicemente costretto dalle circostanze.
Non era
certo colpa mia se quei malfidati dei professori tenevano quelle della scuola
ben chiuse negli sgabuzzini, le porte bloccate magicamente con chissà quale
incantesimo (era dall’inizio delle vacanze che avevo tentato, senza successo, di
forzarle) e il caso voleva che quell’idiota del mio vicino di letto ne avesse
una splendida: una Aeras 97T nuova di pacca (a quanto avevo capito il suo papino
era riuscito ad ottenerla prima che venisse messa in commercio). Ne era talmente
orgoglioso che avrebbe preferito dar via l’arnese piuttosto che prestarla a
qualcuno anche se per un secondo.
Non che
avessi interesse per le scope.
Ero un
volatore poco più che mediocre.
Ma
Merlino, quella era una provocazione.
Se lo
meritava, quello stecchino rachitico con gli occhialetti da sfigato e
quell’assurda massa di capelli ingrovigliati a prendergli possesso della testa:
rappresentava la quintessenza di tutto ciò che detestavo nei miei compagni di
Casa, che evitavo il più possibile (benché avessi tentato di instaurare un
qualche rapporto con un secchione di poche parole del mio anno, per una
questione d’utilità).
Tronfio
e borioso, insopportabile, apparteneva a quell’orrida categoria umana di persone
che nel tentativo di risultare simpatiche a tutti i costi si rendono
assolutamente odiose a quelle come me alle quali è più che sufficiente la
propria, di boria.
Ma non
era quello il problema. C’era qualcosa di particolare in quella persona, di più
profondo: qualcosa che me la faceva risultare veramente odiosa, al punto da
prendere in seria considerazione l’idea di un omicidio.
Solo che
non sapevo cosa.
Né mi
interessava pensarci su.
Non in
quel momento, con quel manico di scopa a vibrarmi vivo tra le dita.
Merlino,
era bastato sfiorarlo, quell’oggetto, per avvertirne la potenza e farmi
accantonare l’idea iniziale di limitarmi a nasconderglielo da qualche parte per
il semplice gusto di vederlo dare di matto. Improvvisamente mi era sembrato un
dispetto da bambocci: sentir piagnucolare come una bambina il re dei figli di
papà non mi avrebbe portato nessuna soddisfazione.
Potevo
godermela un po’, invece.
Fuori
c’era un bel sole, a dispetto del freddo.
La notte
prima aveva nevicato ed era tutto immacolato fuori.
Sarebbe
stata una genialata portare quell’affare alla massima velocità consentita prima
che passasse di moda, dal momento che ero convinto che il fighettino la
utilizzasse solo per sollevarsi da terra e girare in tondo inseguendosi la coda
di saggina; azzardare qualche acrobazia nel cortile principale, quello di fronte
al cancello d’ingresso, al solo scopo di dimostrare all’insegnante che il mio
controllo della scopa non era “letale” come malignamente insinuava per poi
andarmene a poltrire fuori da qualche parte, una volta esausto. Un posto in cui
gli impiccioni non potessero venire a rompermi incessantemente le palle, come al
loro solito.
Gliel’avrei restituita prima di cena.
Probabilmente non se ne sarebbe nemmeno accorto… A meno che, certo, quel
ragazzino piccolo e pauroso, unica presenza a parte il sottoscritto nel
dormitorio deserto (benché l’impressione fosse comunque quella di essere solo),
non si fosse deciso a fare la spia con il proprietario della scopa. Oltre che
essere un vigliacco, era così insulso che non era andato bene nemmeno
per la Casa dei Tassorosso.
Ne ero
certo, non si sarebbe mai azzardato.
Però mi
lanciava occhiatine sospettose.
Per
esserne ancora più sicuro, tuttavia, mi avvicinai al suo letto chiamandolo
mellifluo per nome, la scopa ben stretta nella mano; gli feci una carezza ruvida
sulla testa bionda e caritatevolmente mi premurai di ricordargli quanto tempo
era rimasto in infermeria l’ultimo idiota che aveva provato a mettermi i bastoni
tra le ruote.
Prima
ancora che avesse il tempo di farsela nelle brache ero montato in groppa al
manico di scopa ed ero schizzato via dai dormitori attraverso una delle strette
finestre, benché sapessi alla perfezione quanto fosse sconsigliato ai neofiti
azzardare un decollo in uno spazio così ristretto.
Avevo
sorriso a me stesso.
Conoscevo a menadito ogni norma di sicurezza.
Ma ho
sempre trovato molto più divertente trasgredire con cognizione di causa.
Non è mica
facile fare lo stronzo.
Farne un
modo di vivere, poi, è veramente difficoltoso.
Non è una
cosa che si mette in pratica la prima volta che qualcosa o qualcuno ci fa
soffrire. Non viene automatico trasformare quei naturalissimi, cattivi pensieri
in pessime azioni.
Occorrono
mezzo, occasione e movente, per non parlare di una discreta dose di motivazioni.
E’ un’arte,
e come tale va affinata.
La
meschinità, lo spregio, non nascono dal nulla: essi esigono buona organizzazione
e un sangue freddo invidiabile, cose generalmente incompatibili con un
carattere, come il mio, devotamente teso all’istinto.
Il problema
è facilmente aggirabile. Basta coltivare il distacco.
Ottenere la
giusta distanza dal prossimo. Assuefarsi all’odio. Convincersi che le persone a
cui fai del male se lo stiano davvero meritando, perché in fondo tutti sono
intimamente colpevoli di qualcosa. Tu stai solo facendo giustizia.
Quando vedi
una ragazza guardarti dall’alto in basso stringendo la bacchetta, devi
immaginarti il torace sfranto dalla Maledizione Senza Perdono che sta per
lanciarti. Quando osservi un gruppo di ragazzi ridere insieme, devi immaginare
che stiano pensando a come annegarti ficcandoti la testa nel water. Quando stai
per rompere quel brutto naso al saccente imbecille che ti ha fatto fare brutta
figura a lezione devi immaginarlo nell’atto di compiere qualcosa di
assolutamente spregevole. Farsi scorrere immonde nefandezze nella testa mentre
la mano stretta a pugno collide con la cartilagine, e mentre le ossa degli
zigomi ti scricchiolano sotto le dita. Quando infrangi la pace intorno a te,
devi immaginare di star solo risvegliando l’intrinseco male assopito.
Alla lunga
finisci col trovarlo divertente.
Ne diventi
schiavo, al punto che nemmeno chi ti sta intorno riesce più a farne a meno: si
attende con sempre maggiore bramosia la prossima bravata, l’ennesimo atto di
coraggio, l’ultima crudeltà, in un continuo, ossessivo crescendo. E alla fine ci
si ritrova come me, con un piede sull’orlo del baratro e l’altro malamente
poggiato sulle tegole bagnate e scivolose del ripido tetto della torre di
Divinazione; ad allargare le braccia in un maldestro tentativo di mantenere
l’equilibrio; a fissare la piccola (ed è piccola davvero), inutile folla sotto
di te, distante, senza vederla davvero. Nelle orecchie non più grida o
incitamenti ma il sibilo incessante del vento. Nel petto non più una inondante
sensazione di nausea, ma il battito calmo del tuo cuore.
Nella testa
nient’altro che il proprio placido respiro.
E tutto
quello a cui si riesce a pensare è che non basta ancora.
Che si può
fare più di così.
Che si può
superare anche questo limite.
Finché non
si andrà davvero troppo oltre.
Fino al
momento in cui non ci si sentirà davvero sbagliati.
Finché non
si chiuderà quello spazio che separa dal baratro e non ci si getterà nel vuoto,
un sorriso sulle labbra, un grido di trionfo a vibrare acuto nella gola.
E la
certezza che essere stronzi è un lungo, lento suicidio premeditato.
“Invece di
pensare a stronzate la notte potrei anche dormire!” ringhiai inviperito a voce
decisamente più alta del dovuto e battei con rabbia il pugno sul bracciolo della
poltrona come ad intimare il Sonno in persona di cogliermi all’istante,
scacciando poi con un gesto svogliato e sbrigativo della mano l’immancabile
nuvoletta di polvere e sporco che era scaturita dal tessuto scarlatto.
Lo sguardo
fuggì ansioso, e astioso, in direzione dei dormitori.
Era molto
tardi. Forse avevo svegliato qualcuno.
Tesi le
orecchie per captare qualche suono.
Niente.
Beh,
naturale.
In fondo
non ero stato poi così rumoroso. E poi, ricordai a me stesso, se anche lo fossi
stato al punto da svegliare qualcuno di sicuro non sarebbe sceso a controllare.
Tutti sapevano che c’ero io in Sala Comune, quindi la notte evitavano la zona
come la peste, a meno di irrimandabili esigenze. Siccome non dormivo da tre
mesi, avevo smesso di provare ad andare a letto: tanto era inutile, per non dire
frustrante, starsene dritto e immobile come una bacchetta sotto le coperte con
gli occhi spalancati a fissare un baldacchino cencioso, e nemmeno le pozioni
soporifere più potenti o gli Incantesimi Rilassanti erano riuscite a donarmi la
gioia di un sonno ristoratore. Avevo una poltrona, quella più vicina al camino,
che avevo adibito a mio giaciglio notturno.
Me ne stavo
lì, rapito, a fissare il fuoco fino a ustionarmi le guance.
Di notte,
quando tutto taceva, ero tranquillo, perché mi sentivo sempre infiacchito, nel
corpo il peso di un abbattimento che andava ben oltre quello fisico; di notte,
quando le punizioni venivano scontate, ero calmo perchè facevo i conti con me
stesso. Una gran rottura di palle, ma non riuscivo proprio a impedirmelo.
Imprecai
mentalmente, e continuai a rimuginare.
Contro le
fiamme vive, contro i miei occhi roventi.
Contro il
mondo, contro la mia debolezza.
Reclinai la
testa all’indietro, serrando le palpebre. Solo per un poco. Ero stanco in modo
totalizzante, benché mi fosse stato concesso già da un pezzo di lasciare la
guferia e di tornare alla torre del Grifondoro.
Mi sentivo
vecchio e avevo solo undici anni.
Una voce
alla mia destra mi strappò misericordiosamente a quei pensieri deprimenti. Era
nasale, naturalmente canzonatoria e irridente, e come se tutto ciò ancora non
bastasse, decisamente troppo acuta per appartenere ad un ragazzo con tutti gli
attributi al posto giusto, anche se l’età pre-puberale poteva giustificare
(forse, in parte) una cotale assenza di virilità.
L’avrei
riconosciuta tra mille.
“Non sai
che borbottare da soli è il primo segno di squilibrio mentale, Black?”
Avevo
parlato di nuovo tra me e me?
Non me
n’ero nemmeno accorto.
E quando
era arrivato?
Mi voltai a
fissarlo istintivamente, con uno scatto che di umano aveva ben poco, tra il
sorpreso e l’astioso, mandando tranquillamente a quel paese quell’aborto di
razionalità che ancora albergava in me, la quale mi suggeriva che ignorarlo e
continuare a tenere gli occhi cocciutamente serrati, come se il non vederlo
l’avesse reso effettivamente un mero scherzo della mia inquieta immaginazione,
sarebbe stata la soluzione migliore.
Era
veramente l’ultima persona che avrei voluto incontrare quella sera.
Ma
Merlino, non riuscivo mai ad ignorarlo.
Quanto mi
irritavano quelle sue insinuazioni idiote.
Solo poche
ore prima mi ero buttato di testa dalla torre di Divinazione, e se non fosse
stato per il pronto intervento della professoressa McGranitt me la sarei cavata
decisamente con qualcosa in più che una gamba rotta e tre costole incrinate (per
non parlare di quel mal di testa da primato per via di tutte le ramanzine
chilometriche che mi ero sorbito): parlare da solo era decisamente l’ultimo dei
miei problemi, se stava davvero cercando in me segni di squilibrio.
Patetico
coglione.
“Adesso ci
sei tu qui con me, Potter, quindi non sono solo.”, replicai affabile dopo aver
preso nuovamente in mano le redini della mia coscienza, sibilandogli addosso
mellifluo una velenosa cortesia di facciata difficilmente accessibile ad una
mente ingenua. Il principino aveva vissuto una vita troppo protetta dai mali del
mondo, non aveva affinato l’orecchio a certe sfumature a cui invece io ero
avvezzo.
Lo facevo
apposta a mascherare il mio disprezzo.
Erano
quelle piccole meschinità che mi facevano domandare se il mio posto non fosse
stato in mezzo a quei patetici bacia-tuniche dei Serpeverde, con o senza le
pressioni della mia famiglia.
La
risposta, ovviamente, era no.
Troppo
incosciente per i loro gusti raffinati.
Potter, al
contrario, sembrava fin troppo prudente nella sua tenacia.
Lo sapevamo
entrambi che se era lì, a quell’ora, in una stanza gelata (eravamo in inverno
inoltrato, dopotutto, ed era notte fonda) con indosso solo un pigiama
decisamente troppo largo e l’aria di un gatto che ha appena intrappolato un
topo, non era certo per godersi la mia compagnia o intavolare con me una vivace
conversazione. Era tutto il giorno che mi braccava peggio dell’elfo domestico di
famiglia, e tutto il giorno che, per motivi più o meno fortuiti, riuscivo ad
evitarlo.
Poteva
ritenersi soddisfatto. Mi aveva beccato.
Decisi di
non portarla per le lunghe, così presi un profondo respiro.
Lo sapevamo
entrambi cos’era venuto a fare lì, perché perdere tempo?
“Senti,
riguardo la tua scopa…”, replicai rauco, la voce decisamente troppo simile a un
gemito supplichevolmente esausto piuttosto che ad un affranto
pentimento fasullo. Mascherai l’imbarazzo schiarendomi rapidamente la gola.
“E’ stato un incidente e mi dispiace, ma risparmiami le lagne: sono stato
perseguitato tutta la giornata da mezzo corpo insegnante e ho raschiato merda
fino a farmi sanguinare le mani (sollevai istintivamente i palmi, come a riprova
delle mie parole, anche se non presentavano escoriazioni di alcun tipo) senza
nemmeno poter cenare. Per cui, in tutta sincerità, sono convinto di aver dato
abbastanza per oggi.” Scivolai più a fondo nel tessuto morbido della poltrona,
la schiena curva, il collo incuneato tra le spalle. “Mandami il conto,
provvederò a restituirti fino all’ultimo zellino appena potrò.”
Il mio
primo pensiero, mentre parlavo, fu che non ricordavo di aver mai detto tante
cazzate in un'unica frase in vita mia, nemmeno la volta in cui avevo tentato di
convincere il professor Slughorn del mio amore per la sua materia. C’erano una
vasta gamma di sentimenti che mi si affollavano dentro, a rotazione, ma il
dispiacere non faceva proprio parte di questi.
L’avevo
fatto apposta, e con gusto.
Il secondo
pensiero fu che nemmeno lui poteva essere così coglione da bersela, questa
manica di vaccate. Mi avevano visto tutti (c’era anche lui) su quel tetto,
intento a spezzarmi sul ginocchio la sua adorata scopa con un ghigno malefico
sul viso, per poi lanciarne sul prato le esanimi spoglie, poco prima di
lanciarmi nel vuoto. “Non riparabile” era stata poi la diagnosi. Per
quanto strano potesse sembrare, però, non l’avevo fatto per dispetto contro la
sua persona.
Era stato
un sacrificio necessario.
Così, anche
volendo, non sarei potuto tornare giù.
Il terzo
pensiero fu la realizzazione che Potter fosse decisamente una persona
imprevedibile. Ignorò completamente le mie parole e, sollevando una mano a
disordinare in maniera ancora più irreparabile quell’osceno intrico di capelli,
disse soltanto: “E’ solo un pezzo di legno, non importa. Anche a bordo di un
vaso da notte incantato riuscirei a diventare la punta di diamante della squadra
di Quidditch, se solo me ne dessero l’occasione. E poi in fondo siamo amici,
no?” Mi fece un occhiolino complice, con l’aria di chi stava discutendo di
minuzie.
Dire che
rimasi basito sarebbe un pallido eufemismo.
Non era la
reazione che mi ero aspettato.
Cazzo, gli
avevo fracassato una scopa che con ogni probabilità valeva più della mobilia del
salone di casa mia e tutto quello che sapeva fare era dire l’ennesima stronzata.
Chiunque altro mi avrebbe mandato bellamente a quel paese, lui mi consolava. Ma
era proprio un deficiente.
Come se ciò
non fosse bastato aveva scoperto i denti in una smorfia infantile, aperta e
schietta, le fiamme del camino a riverberargli, liquide e potenti, nelle iridi
castano vivo. Era un’espressione di assoluta, aperta felicità che mai nella vita
avrei potuto emulare. A quel punto recuperai immediatamente la mia proverbiale,
sfrontata diffidenza e lo occhieggiai dal basso.
“Sì…”,
mugugnai torvo trovandomi improvvisamente interessante la punta delle scarpe
(sporche di merda di gufo… Terribilmente adatto al mio stato d’animo del
momento… Di nuovo ironico). Molto in fondo, aggiunsi mentalmente, e mi
sentii un po’ meno sporco, al punto da azzardare un sorriso.
A lui parve
bastare quella flebile conferma.
Non so
quando avesse deciso che eravamo diventati amici.
Erano
settimane che mi dava il tormento con le sue stupide chiacchiere e la sua
presenza incessante: era non solo uno di quei tipi allegri e ciarlieri che
trovano nelle persone tendenzialmente di poche parole come me la propria
salvezza, dal momento che non amano ascoltare, ma era anche tremendamente
insistente, al punto che nemmeno la minaccia di una battuta da parte mia se non
mi avesse lasciato in pace l’aveva fermato.
La razza
peggiore di rompicoglioni.
Benché i
suoi metodi fossero tutt’altro che delicati, la sua tattica di avvicinamento era
stata talmente graduale e sottile a dispetto dell’insistenza che mi ci ero
abituato, e quando era venuto da me a sentenziare (badare bene, non a chiedere)
“Adesso siamo amici.” non ci avevo trovato nulla di veramente strano e non avevo
trovato nulla da obiettare, benché continuassi ad averlo in odio.
“Perché?”
avevo chiesto solo, incredulo.
Lui mi
aveva risposto con una scrollata indifferente di spalle, ma la verità era che mi
voleva stare accanto perché mi trovava divertente.
Per lui io
non ero che un passatempo. Un giocattolo buffo e imprevedibile.
Anche in
quel momento il fatto di avergli fracassato la scopa non era un dispetto
crudele, ma solo l’ennesima via di fuga da quella noiosa, perfetta routine che
era la sua vita. Con me non ci si annoiava mai, per questo mi stava
incessantemente intorno. Lui non frenava mai la mia folle incoscienza auto
distruttiva. A volte avevo l’impressione che addirittura la ravvivasse, che mi
spingesse in qualche modo, e senza bisogno di parole, verso l’ennesimo gesto
inconsulto, verso l’ultimo limite. Mi pareva di dover dimostrare in
continuazione di essere all’altezza delle aspettative, sentivo in sua presenza
un’ansia crescente, elettrica, a invadermi prepotente i nervi, un’eccitazione
senza pari scuotermi dentro, e mi sentivo in grado di fare qualsiasi cosa.
Potter si
era seduto di fronte a me: le lunghe gambe malamente attorcigliate sul tappeto
che celava alla vista il pavimento davanti al camino, le mani ad artigliare la
trama scarlatto cupo e oro (che originale accostamento di colori) e il volto
fisso in direzione delle fiamme, la testa leggermente piegata di lato, le labbra
innaturalmente piegate all’ingiù.
Si voltò
nella mia direzione, fissandomi serio.
“Sei pazzo,
Black. Potevi ammazzarti.”
Sorrisi,
mio malgrado.
Ero
perfettamente consapevole di dare quest’idea ad un occhio inesperto. In realtà
sapevo benissimo di non essere pazzo. Il mio atteggiamento era solo dovuto ad un
carattere fortemente dedito allo scontro ad oltranza. L’intera mia esistenza era
fondata su questo principio: oppormi era la mia ambizione. La realtà, densa o
vuota che fosse, in me provocava solo negazioni. Quando avrei dovuto dormire,
stavo sveglio. Quando avrei dovuto stare fermo, correvo. Quando avrei dovuto
tacere, parlavo.
Quando mi
si offriva aiuto, naturalmente, lo evitavo.
“Chi sei,
mia madre?”, ribattei sarcastico.
Ricevetti
in cambio un’occhiata sprezzante e in qualche modo che mi sembrava
contraddittorio, matura.
“Ne dubito,
anche se queste cose dovrebbe dirtele lei.”
Sentii le
gambe scattare come molle prima che il cervello potesse codificare
nell’interezza quella frase detta, ne sono certo, con l’ingenuità di un bambino
ignaro. Lo afferrai per il bavero del pigiama, nelle dita una forza rabbiosa e
disperata, e lo sbattei contro la parete di pietra umida, sollevandolo di
parecchio da terra (niente di così strano come potrebbe sembrare: lui era una
piuma e io no). Mia madre non aveva tempo di star dietro ad un pericolo pubblico
come me. Come osava lui ridurre a quel modo la questione? Come poteva giudicare?
Mi sentivo
gonfio di spirito combattivo fino a scoppiare, e avrei anche potuto uccidere se
me ne fosse stata data l’occasione. Lui però mi fissava con indifferenza, per
nulla intimorito dal mio atteggiamento bellicoso.
Tutte le
mie armi: fame, sete, solitudine, paura e noia erano puntate sul nemico. Il
mondo. Naturalmente al mondo, come a mia madre che aveva decisamente cose più
importanti da fare che occuparsi di un disastro di figlio, o come ai professori
che me le facevano sempre passare tutte relativamente lisce invece di
espellermi, non poteva fregare di meno di me, e il sentimento era reciproco. Ma
dal dolore traevo un macabro senso di auto-realizzazione. Sembrava che mi
sentissi affermato solo nel momento in cui dicevo: no.
Contro
persone splendenti (non avrei saputo descriverle in altro modo) come lui, però,
erano totalmente inefficaci, e mi facevano sentire un vero coglione.
Lui
brillava e io che portavo il nome della stella più fulgida del cielo no.
“Io me la
cavo da solo.”, ringhiai con orgoglio.
Quegli
occhi castani mi catturarono, col muto, rispettoso scetticismo che emanavano. La
luce era smorzata, calda luce invernale, ma il suo volto era acceso. La bocca
appena aperta, a incamerare l’aria fresca e polverosa di quella notte strana. E
quegli occhi a leggermi il disagio nella testa.
Non disse
niente, ma era tutto quello che avevo bisogno di sentire. Mi ritrassi
lasciandolo andare, nel tentativo di tenermi fuori dal raggio della sua premura,
la quale tuttavia impregnava la stanza soffocandomi.
“Mi hai
rotto le palle.”, dissi voltandogli le spalle. “Io me ne vado a dormire.” E mi
avviai in direzione dei dormitori, con la sensazione che qualcosa di importante
si fosse irrimediabilmente perduto.
Perché non
è affatto facile fare lo stronzo.
E’ una
continua sfida a superare i limiti.
Un lungo,
lento suicidio premeditato.
…
A meno che
non si incontri qualcuno di talmente pazzo da afferrarti per le spalle prima dell'inevitabile salto nel vuoto.
Fine
Capitolo 2
Commenti di fine capitolo.
Cortissimi perché non c’è veramente molto da
aggiungere, avete detto tutto voi. Quanti bei commenti, siete tutte bravissime,
ma io non vi merito! *_* Detto ciò solo una piccola nota su una cosa che ci ho
pensato 2 ore per inventarmela quindi voglio che si sappia, e che cavolo! XDDD
Il nome della scopa di James non è dato a caso: AERAS in greco (moderno)
significa vento (a sottolineare per l’appunto la velocità di questa scopa, che
tanto farà una fine orrida per cui che lo dico a fare? Mah! XD). 97T non è una
sigla inventata, ma richiama alla Lotus 97T con cui Ayrton Senna ottenne
la sua prima Pole Position alla seconda gara stagionale, il Gran Premio del
Portogallo 1985, disputato sul circuito dell’Estoril.
Passiamo ai ringraziamenti individuali! ^^
Redistherose:
Quindi i nomi di Ny e Boll attirano e incoraggiano il lettore, la prossima volta
li metto nel riassunto esterno alla fan fic, così si ingolosiscono più persone!
XD Sto scherzando, ma forse no. Innanzitutto, son contenta che ti sia piaciuta
“Lei non è una di noi”, davvero (mi sa che io sono la sua detrattrice più folle,
trovo sempre 50mila cosa che potrebbero essere migliorabili/modificabili, ma poi
una fic così lunga diventa difficile da controllare…). Su questa storia, che
dire? Innanzitutto che ti ringrazio molto per i complimenti (arrossisco! ^^), e
complimenti per l’ottima analisi su Sirius. In effetti sì, mi piace vederlo così
incapace di destreggiarsi coi suoi sentimenti. Lui ha anche tanto da donare
(amicizia, fedeltà), ma niente da fare, non si fida, è incapace di amare come
dici tu, ma non per partito preso, solo per diffidenza. In questo si somigliano
molto lui e Remus (chissà come mai li amo insieme! XD Mah! XD). La madre, ovvio
che non è solo odio, almeno all’inizio. Non puoi odiare così, subito, tua madre,
quando ancora non ti ha fatto niente (mi piace pensare che questo suo odio al
credo di famiglia sia avvenuto dopo, per ripicca, e con esso l’odio feroce per
tutta la famiglia. Non potendo ricevere amore da loro, li odia, molto
semplicemente ^^). Su Lily Evans a Grifondoro a me pare di essere sicura perché
mi sembra che la Rowling l’abbia assicurato da qualche parte, ma potrei
benissimo essermelo inventato per comodità (non mi ricordo, ma cambia poco! ^_-)
Io ahimè per Gary nutro un amore inverecondo che va ben oltre l’immaginabile
quindi vederlo a fare Sirius mi procura ripetuti orgasmi a dispetto del
pastrocchio dei film. XD Tra l’altro ci sono voci che dicono che Lewis farà
Fenrir, ma non saprei dirti, dicevano anche che Rowan Atkinson avrebbe fatto
Voldemort e poi hanno preso Fiennes (che era un Remus perfetto, grrrr)
SweetSirius:
Hehehehe grazie per i complimenti! ^^ Ho aggiornato preso, dai, una settimana,
non hai dovuto penare tanto, Spero che ti sia piaciuto anche questo capitolo.
Sirius è anche il mio personaggio preferito (ma no, non si nota! XD), e mi piace
dargli uno spessore votato e puntato al tragico (amo i personaggi tragici, amo
Sirius, quindi Sirius deve essere tragico,. Non fa una grinza! XD). La tua
analisi del MIO Sirius è corretta, lui si convince di fregarsene, in realtà è un
meccanismo di difesa alla “Se mi convinco di essere indifferente soffro di meno
o non soffro affatto, è meglio così”. Un bacio anche a te
Skiblue:
Temo che di altri personaggi non vedrai molto se non visti attraverso gli occhi
di Sirius! ^^ E’ lui il fulcro portante della storia, ed è talmente egocentrico
da non lasciare molto spazio agli altri. Questo solo per avvisarti perché poi
non rimanga delusa! XD Ma sono contenta che ti sia piaciuta la mia storia, ti
ringrazio infinitamente dei complimenti e spero che continuerai a seguirla. ^^
Hazel: Ma il signor Burns non diceva ECCELLENTE? XDDDD Che dire, il tuo
commento è stato più che gradito, è valsa la pena aspettare BEN UN GIORNO
(orrore, troppo! XDD), e son contenta che una volta tanto io sia riuscita a
risultare originale (che frustrazione, ogni volta mi dicono “Lo sapevo che
andava a finire così! Lo sapevoooooo!” ogni volta vorrei accucciarmi in un
angolo a uggiolare per la disperazione! XDDD). *_* Meglio ancora se t’è
piaciuta, per me è fonde di insostenibile gioia. In un certo senso però il
contesto è scolastico! XD Solo che è un pipparolo peggio di Severus, il nostro
povero Sirius! XD Per quanto riguarda la graforrea, a parte che non rinnegherò
mai la mia fede e infatti come lunghezza i capitoli vanno in uno spaventoso
crescendo (c’è da tremare! XD), ma 3 pagine per dire in pratica “A Sirius arrivò
una lettera e la aprì” non è che sia pochissimo! XDDDD A parte quello io sono
imbarazzata per i complimenti e contentissima che queste tre pagnotte ti abbiano
indotto a sì profonde riflessioni! *.* Di più non ti posso dire su quello che mi
hai detto se no ti rovino il seguito e non credo sia il caso! XD Dico solo che
se sono riuscita a dare l’idea di un Sirius “schizofrenico”, che si barcamena
follemente tra superiorità e inferiorità, ne sono tanto contenta, è un risultato
in più per me! *_*
Kar: Guarda che l’ho veramente praticamente finita, malfidata, mi manca un
pezzettino ino dell’inizio e devo organizzare la fine, ma il racconto c’è
praticamente tutto! XD Mica metto in mezzo Gary per niente, tzè, qui si
sottovaluta il mio amore per il Divino!!! XD Se i capitolo è bello naturalmente
è merito del protagonista E della scrittrice. Marito e moglie, lavoro di
squadra! XD Sperando che il resto della fic non ti faccia passare la voglia di
leggere i libri, ti ringrazio per i complimenti e ti bacio di rimando!
Chii: Toh, chi si vede, una nuova recensitrice su questi lidi ameni! XDDDDDD
Non volevo dire che avevo scritto una nuova storia perché temevo il fioccare di
“Ma la finisci questa, vero?” Sì, questa la finisco! XDDD Per Sirius, nella mia
testa malata c’era anche un motivo per cui all’inizio lo facevo andare nei
dormitori femminili come prima cosa (mica solo perché è un maniaco, noooooh, gli
basto io che se ne fa delle altre?), visto che non lo scrivo più te lo dico:
praticamente per “spaventarlo” quand’era al primo anno un tipo più grande gli
aveva raccontato che chi tentava di entrare veniva colpito da una terribile
maledizione. E lui che è il solito incosciente come prima cosa parte in quarta
nei dormitori femminili! XD Ovviamente con Lily è amore a prima vista! XD Non a
caso la adoro come coppia! XD Gli altri marauders avranno il loro ruolo nei
prossimi due capitoli, ma sempre molto molto, marginali. Insomma, per leggerci
qualcosa degli altri, si dovrà molto lavorare tra le righe! XD Il protagonista è
Sirius, egli ANELA all’essere protagonista assoluto. XD Ma Walburga è umana, in
fondo. Molto in fondo. Tremendamente in fondo. Grazie mille per i complimenti,
arrossisco! ^^
Goblin: Grazie mille per i complimenti! ^^ Non ti preoccupare, la finisco la
storia, questa la finisco (stano cominciando a proliferare le persone malfidate,
chissà come mai! XDDDD)
Anachan:
Te c’hai dei poteri paranormali o psionici o quel che è, come cavolo hai fatto a
sentire di vdover venire nel mio account proprio il giorno di postaggio? XDDD O
controlli tutti i giorni o io chiamo un esorcista (o mi hai piazzato delle
microcamere in camera? XDDD). Wè, come sarebbe a dire che non sei sorpresa di
vedere Sirius come protagonista? XD Come se fosse un personaggio che amo, tsè!
XD Figuriamoci! XD Son contenta che lo trovi figo, anche a me piace parecchio
(anche se, microscopica anticipazione, il mio amore con la A maiuscola in questa
fic è Regulus! Io amo Regulus, è così carino!!!! *ç*). Il tuo sesto senso dice
bene, i tre ragazzini deve ancora conoscerli, e si vede! ^_- Il disegno è
carinissimo! *.* Sei la seconda che mi dice che Walburga sembra umana, andrà a
finire che mi ci convincerò davvero e comincerò a trovarla simpatica! XDDD No,
impossibile. Grazie assai per i complimenti, mi rendono felice! *_*
Rik: Giuro che quando ho letto la frase “ci si
accosta ai personaggi e all'ambientazione della Rowling, che ha tutt'altro
stile.” Per un attimo ho pensato: “Ma mi devo offendere?” XDDDD Mioddio, è la
mancanza di sonno non mi badare! XD Che dire di questa breve ma intensa
recensione al mio lavoro? Che mi imbarazza piacevolmente, che se davvero ti
ispiro tutto questo non posso che arrossire come una verginella pudica di fronte
a una dichiarazione d’amore (per il mio lavoro) così sentita. E pensare che
credevo di risultare noiosa visto che ho descritto solo un tizio che apre una
lettera. Sei l’unico che si è ricordato di Tantalo, il mio gufetto! XDDD
Apprezzo molto e ti ringrazio per i complimenti commoventi.
MoMo:
No, cancellarla non l’avrei mai fatto (forse…. Non credo… Boh? XD), al massimo
la tenevo bene al sicuro tra i miei documenti-inverecondi nel pc, nascosti da
qualsiasi occhio umano. Che Sirius ti piaccia mi fa molto piacere. A volte dà
fastidio, quando ne parlo in generale, questa mia visione di Sirius così
ombroso, così cupo. Perché le persone si affezionano a quel personaggio allegro,
vitale e crudele nella sua voglia di vivere che siamo abituati a vedere. Non
dico che sia un male vederlo così, anzi, ma non è il mio modo di vedere. Se c’è
gente che lo condivide, non può che farmi piacere. Ti ringrazio molto per i
complimenti e spero che il seguito non ti deluderà! ^^
Herm88:
Sul serio non leggi mai storie sui marauders? *_* Uuuh, allora ho di che essere
stra felice del fatto che hai deciso non solo di leggere, ma addirittura di
commentare questa fic (so che significa quando le dita si muovono da sole a fare
una recensione entusiastica di una Ron/Hermione… Orrore! XDDD), che non è
allegra come le tragicomiche ma ha visto comunque il tuo consenso, cosa che un
po’ mi commuove e quasi mi fa pensare di essere brava veramente! XDDD Che sia
scorrevole è una cosa che mi riempie di gioia, visto che è una fic che parla
solo di un tizio che si fa un sacco di pippe mentali che apre una lettera! XD
Che poi ti piaccia anche il mio stile è una cosa in più. Grazie sentitamente!!!!
*_*
Lucifera:
Certo che continua, non c’è scritto SI’ vicino a “Completa” nel riassunto
dell’opera. Ti ringrazio molto per l’apprezzamento, spero che continuerai a
leggere apprezzando questa piccola umile storia. ^_-
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