Quello che vedi nella tela

di HamletRedDiablo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bolzano ***
Capitolo 2: *** Rialto ***
Capitolo 3: *** Quadro ***
Capitolo 4: *** Ritratto ***
Capitolo 5: *** Carboncino ***
Capitolo 6: *** Schizzo ***
Capitolo 7: *** Squadratura ***
Capitolo 8: *** Vignetta ***
Capitolo 9: *** Pennino ***
Capitolo 10: *** Cornice ***



Capitolo 1
*** Bolzano ***


Alla sister.

Buon compleanno, soulmate<3

Viva il 26 dicembre<3<3<3<3

 

 

Quello che vedi nella tela

 


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La prima volta che lo aveva visto, avevano entrambi sei anni.

Era poco più di un cappotto troppo gonfio di vestiti, da cui spuntavano un visetto paffuto con gli occhi vispi e due iperattive gambette tozze; un piccolo ciclone di lana che rotolava da una bancarella all’altra.

Non si assomigliavano per nulla: mentre quel piccolo uragano sfrecciava in giro per il mercato, lui dava una mano ai genitori nello stand di famiglia, addobbato con il costume tradizionale.

A Natale, Bolzano si ingioiellava con luminarie di diverse forme e colori, si profumava con gli allettanti odori delle frittelle di mele e dei pretzel caldi, si animava con il mercatino rinomato in tutta Italia.

Ludwig adorava il Natale: aiutando i genitori nell’allestimento e nella gestione della bancarella, aveva la possibilità di godersi la fiera dal primo all’ultimo momento. Era una sensazione impagabile stare immerso negli odori speziati e nelle carole che rimbalzavano di stand in stand, e nell’inspiegabile gioia che permeava i volti di tutti i presenti.

Vendevano strudel, nel banco di famiglia. E fu proprio l’aroma del dolce ad attirare il pupo infagottato.

«Che cos’è lo strudel

Ludwig pensò per un attimo che le assi inchiodate della loro bancarella avessero cominciato a parlare: non vedeva nessuno, eppure aveva sentito una voce. Una voce che si esprimeva con un pessimo accento: aveva pronunciato il nome della pietanza indugiando e strascicando sulle lettere come se ognuna di loro fosse stata fatta di fango.

«E’ un dolce di mele e uvetta, piccolo» la risposta venne da sua madre, che guardava verso il basso con un’espressione deliziata. «Oh, Ludwig, guardalo! E’ una delle cose più carine che abbia mai visto!» trillò in tedesco, aiutando il figlio a sporgersi dal bancone.

«Deve avere la tua età» gli bisbigliò la madre, in italiano questa volta.

Ludwig inarcò un sopracciglio biondo, per nulla persuaso. Era impossibile che lui e quel cucciolo condividessero la data di nascita: il suo naso arrivava perlomeno a sfiorare il bancone, mentre quello del piccino era tristemente fermo alle assi di mezzo.

Le manine guantate palparono le tasche sovraffollate del giubbotto, ne estrassero alcuni euro che vennero debitamente – e lentamente – contati. Il bambino sembrò arrancare nei numeri, poi desistette e tese la manina verso i venditori, con le monete bene in vista.

«E’ sufficiente?» domandò, intristito per il fallimento matematico.

La mamma prelevò qualche euro in meno rispetto ai loro soliti prezzi e tranquillizzò il piccolo:

«Queste bastano. Ludwig, vuoi darglielo tu?»

Il bimbo dai capelli biondi asserì e scese per impacchettare il dolce e consegnarlo.

Si sporse nuovamente dal bancone, ma si presentò subito uno sgradito imprevisto: per quanto il pupo incappottato si sporgesse, le sue dita non arrivavano a sfiorare la confezione rosso brillante.

Così Ludwig si arrese all’evidenza e uscì nel vento natalizio per concludere la vendita.

Non lo accolsero solo le intemperie che tutti sopportavano con un instancabile sorriso: due fanali castani lo abbagliarono. O almeno, fu quella l’impressione che ebbe quando gli occhi spalancati per l’emozione del bambino si poggiarono su di lui e lo scrutarono con una curiosità galoppante.

«Anche tu parli la lingua buffa?» cinguettò il cucciolo, stringendosi al petto il pacchetto con il dolce.

«Parlo italiano e tedesco» replicò Ludwig, impercettibilmente infastidito da quell’intrusione.

«E’ bello parlare due lingue?» insistette l’altro, dondolandosi sulle gambe tondette.

Ludwig annuì con il capo, augurandosi di riuscire ad arginare la petulanza del nanerottolo. Vana speranza.

«Sei un ladro, vero?» lo pungolò con totale innocenza il piccolo.

«Sono un onesto venditore!» si difese Ludwig, le guance imporporate per il freddo e l’offesa. Non sapeva esattamente cosa volesse dire la frase che aveva appena pronunciato, ma l’aveva sentita così tante volte in televisione che qualcosa doveva pur significare.

«Avevo sentito una favola. Non mi ricordo il nome del protagonista» la guance del bimbo salirono in un sorriso per rimediare alla lacuna della memoria. «Però quel tizio, per rendersi più bello, aveva rubato i colori del cielo e se li era messi addosso. Non mi ricordo in che modo, però» sorrise di nuovo per supplire alla seconda mancanza. «Ma tu hai fatto lo stesso, giusto? E ti sei messo il colore del cielo negli occhi.»

«Sono nato così» lo smontò Ludwig.

Sul viso del bimbo si dipinse un “O” di stupore e meraviglia a quella scoperta.

«E’ possibile nascere come te?»

Ludwig non seppe se prendere quella domanda come un complimento o un’offesa. Sorvolò sulla decisione e rispose:

«E’ normale nascere come me.»

Il bimbo lo fissò annuendo a vuoto, sempre più sorpreso.

«Sei qui tutti gli anni?» volle sapere, indiscreto.

Ludwig annuì di nuovo, innervosito da quell’interrogatorio: doveva tornare dentro e aiutare sua madre con i clienti, non poteva stare fuori a fare salotto.

«Allora tornerò a trovarti!» decise il piccoletto in un trillo di giubilo. Fece per andarsene, poi zampettò indietro sui suoi passi, dimentico di un dettaglio fondamentale: «Come ti chiami?»

«Ludwig» comunicò l’altro.

Il bimbo inaugurò il sorriso delle grandi occasioni nel presentarsi:

«Io mi chiamo Feliciano.»

Dopodiché sparì nelle strade sovraffollate, lasciandosi dietro solo il ricordo di un cappotto troppo pieno di vestiti e curiosità.

«Hai fatto amicizia?» s’informò la madre, entusiasta.

«Gli ho solo detto il nome. E lui mi ha detto il suo» minimizzò Ludwig.

«E’ così che si comincia ad essere amici» gioì la madre.

Ludwig si strinse nelle spalle e continuò a lavorare come un solerte folletto, impacchettando porzioni più o meno grandi di strudel.

Ma un ronzio di sottofondo lo accompagnò per tutta la giornata. C’era una cosa particolarmente strana tra le cose strane di quel ragazzo.

Aveva più o meno la sua età. Era troppo piccolo per girare da solo: sua madre pretendeva ancora di stringergli la mano per attraversare la strada, e non lo perdeva mai d’occhio quando erano in giro.

Dove erano i suoi genitori?

 

***

 

Feliciano aveva mantenuto la parola: era tornato l’anno successivo.

E quello dopo. E quello dopo ancora.

Si erano visti crescere a vicenda: pian piano anche il naso del più piccolo aveva raggiunto il bancone e lo aveva superato, pur rimanendo ad un’altezza inferiore rispetto a quella dell’amico.

Ludwig era cresciuto secondo i dettami tedeschi: spalle ampie, altezza impressionante e fisico robusto; capelli biondi e occhi celesti completavano il quadro del perfetto nibelungo.

Feliciano, al contrario, era germogliato come un giunco, sottile e delicato, gli occhi sempre grandi e sgranati su un viso piccolo e dolce, l’opposto di quello squadrato dell’amico.

Con gli anni, Feliciano aveva imparato quali fossero gli orari migliori per accaparrarsi l’attenzione del tedesco. Non mancava mai di onorare la tradizionale compravendita dello strudel alla loro bancarella: la madre di Ludwig lo viziava ogni anno, facendogli pagare il dolce a prezzo ridotto e inondandolo con una pioggia di complimenti su quanto stesse diventando bello. Se Feliciano non fosse stato la personificazione dell’ingenuità, Ludwig avrebbe potuto pensare che venisse al loro stand solo per le lodi e il dolce scontato.

Ma non era così: Feliciano aspettava tutto il giorno, gironzolando per la città, che l’affluenza al mercatino diminuisse. Sapeva che, in quel momento, Ludwig poteva permettersi uno stacco dal lavoro. Era sempre puntuale nel farsi trovare fuori dalla bancarella, e passavano il resto del pomeriggio a chiacchierare e girovagare per la città in festa.

Si vedevano un solo giorno all’anno, quindi non vi erano mai momenti di silenzio imbarazzato: le parole fluivano da sole. Per essere più precisi, un torrente di discorsi fioriva dalla bocca elettrizzata di Feliciano, e Ludwig ascoltava, annuiva e rispondeva alle domande dell’amico su di giri. Solo quando l’irruenza spumeggiante del ragazzo si placava il tedesco cominciava a raccontare a sua volta gli avvenimenti dell’anno passato.

C’era poi un momento particolare della giornata in cui Feliciano sentiva l’urgenza di sedersi: allora si accomodava sulla prima cosa che trovava – un sasso, una fontana, una panchina -, accavallava una gamba sull’altra per formare un provvisorio tavolo da lavoro, faceva comparire dalla tracolla che si portava sempre dietro un album di disegno e cominciava a schizzare.

I primi anni i suoi abbozzi erano scarabocchi nel vero senso della parola: gente con le ruote al posto dei piedi, case geometriche e alberi conici. Ma, con il passare del tempo, la tecnica si era notevolmente affinata: ora la realtà poteva trovare un corrispettivo soddisfacente negli abbozzi del giovane. In quei momenti, Ludwig riusciva a sistemare la sua ingombrante stazza alle spalle dell’italiano e sbirciava con rispetto la fantasia di Feliciano che prendeva vita sulla carta. Non lo aveva mai visto disegnare due volte lo stesso soggetto: una volta comparivano persone, un'altra animali, un’altra ancora una natura morta.

Quello che gli era piaciuto di più era lo schizzo di un bosco che aveva fatto tre anni prima: i chiaroscuri approfondivano la scena, donando la sensazione di una foresta pulsante di vita nascosta, le foglie si differenziavano tra quelle delle conifere e dei sempreverdi, un ruscello scintillava sullo sfondo. Era l’opera migliore di Feliciano, a suo parere. Una volta gli aveva chiesto se l’avrebbe mai realizzata come un quadro definitivo, e, a quella domanda, l’amico aveva dondolato la testa avanti e indietro più volte, come un metronomo scoordinato. Non ci aveva ancora pensato, ma poteva non essere una brutta idea.

Tuttavia, da quel giorno Feliciano non aveva più disegnato una foresta. Sperava solo di non averlo offeso con il suo commento. Sarebbe stato il primo, probabilmente, ad avere mai ferito l’italiano: il sorriso inossidabile di Feliciano pareva scolpito direttamente sul suo viso, intoccabile e impossibile da cambiare, qualunque cosa avvenisse. Si chiedeva se i suoi genitori non gli avessero dato quel nome apposta.

Non avevano mai parlato della famiglia di Feliciano. Ludwig non sapeva cosa si celasse dietro il silenzio dell’amico, per cui aveva preferito tacere: l’ultima cosa che voleva era risvegliare ricordi che potessero offuscare il sempiterno sorriso dell’amico.

Avevano continuato così per dieci anni, vedendosi unicamente per i mercatini e recuperando in un unico giorno tutto il tempo perduto. Ludwig non aveva accettato subito la presenza di quel nanerottolo nella sua vita: la prima volta che lo aveva rivisto era rimasto guardingo e sospettoso, indeciso se fidarsi di quell’estraneo che si intrometteva senza ritegno nella sua vita. Anche il secondo anno non era stato precisamente amichevole, nonostante la costanza del bimbo che lo aspettava fiducioso fuori dalla bancarella.

Il terzo anno era riuscito a sciogliersi un po’ di più, incitato dall’esuberanza candida del bambino. Al quarto aveva deciso di accettare quello strano italiano, pur non condividendo del tutto il suo modo di fare svampito e fin troppo spensierato. Avevano continuato a vedersi ogni ventiquattro dicembre, coltivando quella strana amicizia che cresceva a ritmi così dilatati.

Per quel Natale, sua madre aveva deciso che, in onore dei suoi sedici anni, avrebbe potuto accompagnare Feliciano fino alla stazione, previa promessa di guardare bene a destra e sinistra prima di attraversare e di non fermarsi a parlare con gli sconosciuti.

Era commovente la solerzia con cui sua madre continuava a preoccuparsi per lui, nonostante gli mancassero solo due anni al raggiungimento della maggiore età.

Avevano raggiunto la stazione, Feliciano parlava e Ludwig ascoltava, e si erano recati al binario che avrebbe riportato Feliciano a Venezia, dove viveva.

L’italiano restò in contemplazione del treno per qualche istante, spostando il peso da un piede all’altro, come in preda all’indecisione.

«Ludwig?» lo chiamò all’improvviso, con quell’aria perennemente svagata.

Il tedesco lo guardò, in attesa del seguito.

Feliciano esplorò la sua tracolla debordante delle cianfrusaglie più disparate, ed il trionfo dilagò sul suo volto quando riuscì ad appropriarsi di un foglietto spiegazzato provato dal viaggio.

«Non aspettiamo di nuovo un anno per risentirci» lo salutò, consegnandogli il biglietto direttamente in mano e salendo al volo sul treno.

Perplesso, Ludwig spianò il foglietto e lesse quanto scritto sopra.

La grafia tondeggiante di Feliciano aveva vergato un numero di telefono e un indirizzo e-mail.

Ludwig fissò il biglietto per qualche istante, come per sorvegliare le scritte e impedire loro di mutare sotto i suoi occhi. Poi piegò il foglietto, lo infilò nella tasca dei pantaloni e tornò verso la sua bancarella.

Aveva già deciso cosa fare.

 

***

 

Feliciano si gettò sul letto, esausto dal viaggio.

La tratta Bolzano-Venezia era una tortura in quel periodo dell’anno, specie se uno sciopero dei treni aggravava la già scarsa efficienza delle ferrovie.

Affondò il viso nel guanciale con gratitudine, saggiando la morbidezza del letto, mai così confortevole.

Gli bastò meno di un secondo a scattare in piedi quando il telefono squillò. Afferrò la tracolla e ne rovesciò il contenuto sul letto, alla ricerca del cellulare.

Un numero mai visto prima lampeggiò sul display, mentre la musica scelta come suoneria strombazzava allegramente le sue note.

«Pronto?» ansò, provato dalla ricerca e dall’emozione.

«Sei arrivato a casa?» indagò una voce composta all’altro capo.

Feliciano quasi si ruppe la faccia tanto fu ampio il suo sorriso.

«Sì» festeggiò, lanciandosi sul letto con l’espressione sorniona di un gatto cui vengono fatte le coccole, incurante delle carabattole che si infilavano ovunque nei suoi vestiti. «Sono a casa. Tu?»

«Anche io. Come è andato il viaggio?»

Poteva immaginare benissimo l’espressione impeccabile dell’amico, tesa a non lasciare trapelare troppe emozioni. Ludwig non si era mai accorto che, anche se le labbra restavano tirate in una linea marziale, il mutare dei suoi occhi rivelava piuttosto chiaramente cosa stesse pensando.

Non poteva vedere i mutamenti delle iridi dell’amico, ma non importava.

Non avrebbe dovuto aspettare il prossimo Natale per ricevere il suo regalo preferito.

 

 

 

 

 

 

 

Prima GerIta in assoluto.

Dedicata, nella sua interezza, alla sister-soulmate<3<3<3<3

Dunque, questo è poco più di un prologo.

Volevo un’ambientazione in cui fosse plausibile che un tedesco e un italiano si incontrassero, e ho pensato a Bolzano. Il resto della storia avrà ben poco a che fare con i mercatini natalizi XD

Questo capitolo è una volata sul loro rapporto finora, giusto per dare un’idea generale.

Dai prossimi capitoli, il punto focale sarà la loro amicizia… e non solo amicizia<3

Grazie a tutti per essere arrivati fin qui<3

Red

P.S. Ancora tanti auguri, sis<3<3<3<3


Secondo P.S. I banner sono di Clau-tan<3<3<3

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Capitolo 2
*** Rialto ***


Rialto

 

«Feliciano, se non rispondi al telefono lo butto dalla finestra

Il ragazzo si precipitò fuori dalla doccia ancora nudo e gocciolante, e solo il pronto ammonimento del fratello gli impedì di andarsene in giro per casa come la natura lo aveva creato:

«Copriti prima di uscire!»

Feliciano tolse la mano dal pomello della porta del bagno, si avvolse nell’accappatoio di un bell’arancione violento e uscì, disseminando il corridoio di pozze d’acqua.

Il fratello lanciò un’occhiata di biasimo ai piccoli laghi che inzaccheravano la breve distanza tra il bagno e la loro camera.

«Dovevi metterti anche le ciabatte» gli ricordò, più impegnato a cercare la sua giacca a vento che a rimproverare lo sbadato consanguineo.

«Pronto?» trillò Feliciano, rispondendo al cellulare.

Lovino trovò finalmente la giacca, la gettò sul letto e procedette ad allacciarsi le scarpe, un’ombra di disappunto sul volto: dal tono gorgheggiante, il fratello doveva essere al telefono con il crucco.

Sobbalzò quando Feliciano lanciò un mezzo strillo di giubilo, innaffiando il cellulare con una serie di domande gorgheggiate.

Al termine della telefonata, il ragazzo lanciò il telefono contro il cuscino e saltò ad abbrancare il fratello per le spalle.

«Lovino!» cantò, entusiasta. «Non indovinerai mai!»

«Che ha combinato, il mangia patate?» chiese l’altro, senza interesse.

«Sei di cattivo umore?» si impensierì Feliciano, sporgendosi dalla spalla del fratello per fissarlo in viso. «Il tuo ragazzo ti ha fatto arrabbiare?»

L’espressione di Lovino si incrinò per quella domanda indelicata.

«Non sono arrabbiato. Ma sai come la penso su quel crucco» liquidò il ragazzo, chinandosi per allacciarsi le scarpe. Feliciano non mollò la presa sulle sue spalle, così si ritrovò spalmato sulla schiena curva del fratello.

«Meno male. Temevo che avessi litigato con Antonio.»

«Vuoi dirmi quali sono le novità del crucco?» lo mise alle strette Lovino. Conosceva il modo di fare del consanguineo: se non lo conduceva sui binari corretti, era capace di divagare per ore intere. Ed aveva una predilezione ad interessarsi della sua vita privata: era disarmante il candore con cui Feliciano si informava dei dettagli piccanti del suo rapporto con Antonio. Ed era allucinante la spensieratezza con cui Antonio glieli forniva, quando si incontravano. Quei due erano un binomio micidiale per la sua reputazione.

«Verrà a studiare a Venezia, da settembre. Qui da noi!» gioì Feliciano.

«Che gioia» la voce di Lovino si afflosciò, chiaro indice del suo scarso entusiasmo per la notizia. «E tutto questo cosa ha a che fare con te?»

«Mi ha chiesto di accompagnarlo» spiegò l’altro, lasciando la presa per buttarsi sul letto. «Ha visto un annuncio per una casa a Rialto, e mi ha chiesto di mostrargli la strada.»

Se una vipera gli avesse morso il calcagno, Lovino non avrebbe avuto uno scatto altrettanto fulmineo.

«E tu lo accompagnerai? In un appartamento? Da solo?» l’ugola del ragazzo salì di un’ottava ad ogni cenno assertivo del fratello. «Ma sei pazzo

«Perché?» domandò Feliciano.

«Potrebbe approfittarsi di te!» esacerbò Lovino, afferrando il consanguineo per le spalle.

«Approfittarsi?» l’altro inclinò la testa sulla spalla come un cagnolino.

«Potrebbe farti delle cose… scabrose» lo avvertì il fratello.

Una minuscola ruga si disegnò alla radice del naso di Feliciano, esprimendo la sua confusione. Poi il viso si illuminò e cinguettò:

«Come quelle che fai con Antonio?» il giovane non si accorse di avere praticamente freddato il consanguineo con quelle poche parole, e proseguì: «Ma Antonio dice che sei contento di…»

«Chi se ne frega di quello che dice Antonio! Stiamo parlando di te e… e di uno strudel biondo!» sbottò Lovino. Avrebbe dovuto mettere delle ulteriori restrizioni al vocabolario che il suo ragazzo poteva utilizzare in presenza di suo fratello: non voleva che Feliciano venisse a sapere cos’era successo quella volta che avevano bevuto un bicchiere di troppo.

«Ma ci sarà anche il proprietario di casa. E un altro ragazzo che vuole visitare l’appartamento» valutò il minore.

L’occhio destro di Lovino pulsò.

«Perché non l’hai detto subito?»

«Perché non mi hai lasciato finire.»

Il maggiore lo lasciò andare, si gettò la giacca sulle spalle e inforcò la porta.

«Se è così, allora puoi andare. Ma tieni a portata di mano lo spray al peperoncino» si raccomandò Lovino.

«Ma non ho uno spray di quel genere» replicò Feliciano.

«Lo avrai. Entro stasera. Te lo posso garantire» promise l’altro, chiudendo la zip del giubbotto e uscendo di casa.

 

***

 

Fu così che, quattro giorni dopo, una simpatica boccetta di spray antistupro accompagnò Feliciano in stazione.

Non faticò a trovare il suo amico: la chioma bionda svettava di parecchi centimetri sulle teste del resto della gente.

Nemmeno Ludwig impiegò troppo tempo a riconoscerlo: c’era solo una persona in tutto il mondo capace di saltellare come un pupazzo a molla in mezzo alla ressa, incurante dei possibili disastri provocati dalle sue mani sventolanti.

«Ludwig!» gioì, raggiungendolo con un balzo; l’inconfondibile tracolla in cui riponeva gli strumenti da disegno caracollò contro le sue tibie e contro le ginocchia dell’amico per il troppo entusiasmo.

Il tedesco cercò di portarlo fuori dalla calca: quando era troppo felice, l’amico tendeva a perdere la connessione con la realtà, danneggiando le persone circostanti con dita negli occhi e manate nello stomaco.

Una volta fuori dalla stazione, Ludwig mostrò l’indirizzo a Feliciano, e la cartina sommaria che aveva stampato da Internet. L’italiano annuì, riconoscendo perfettamente le vie.

«A che ora hai l’appuntamento?» domandò, accompagnandolo lungo il ponte di Calatrava.

«Tra…» il tedesco controllò l’orologio e rischiò quasi di ammazzarsi per quella semplice operazione: gli scalini bassi e l’infelice scelta dei colori creavano una specie di illusione ottica per cui non si riusciva a distinguere bene la distanza dei gradini. «Un’ora e mezzo.»

«Sei venuto con un sacco di anticipo» si sorprese Feliciano, sistemando meglio la tracolla che continuava a sobbalzare sulle ginocchia.

«Ultimamente ci sono stati troppi scioperi ferroviari. Meglio essere prudenti» assentì serio Ludwig.

La sua risposta era solo una parte di verità: era venuto con tanto anticipo soprattutto per stare con il suo amico veneziano. Per quanto le telefonate potessero essere piacevoli, vedersi di persona era decisamente meglio. Ma non era necessario dirlo a Feliciano: sembrava già abbastanza su di giri.

«Allora non c’è bisogno di andare subito all’appartamento. Possiamo fare un giro. Da questa parte» lo guidò l’amico. Costeggiarono Piazzale Roma, dove un lento corteo di autobus sostava e ripartiva, i pedoni in perenne competizione con le vetture per accaparrarsi il diritto di attraversare per primi le strisce pedonali.

Inforcarono la corta stradina che attraversava l’abbozzo di parco su un lato del piazzale, oltrepassarono i chioschi e si trovarono di fronte ad uno dei paesaggi più tipici di Venezia: un marciapiede che scorreva a fianco del canale salmastro. Una cabina pitturata del caratteristico verde scuro e una rientranza nel marciapiede costituivano il parcheggio delle gondole, dove imbarcazioni e rematori attendevano qualche turista attirato dai divanetti rossi e dalla prospettiva di un giro panoramico.

Ludwig venne colpito dall’aria di Venezia, impregnata dell’odore pungente del mare e dell’inquinamento. Era profondamente diversa rispetto a quella di Bolzano, fresca e argentina.

Feliciano lo guidò rapido attraverso i ponti, le calli e i sestieri, in quello che a Ludwig apparve come un dedalo inestricabile di vicoli stretti e, soprattutto, uguali. Si chiedeva se fosse davvero possibile orientarsi in una città del genere come faceva l’amico, e quanto ci sarebbe voluto per acquisire la sua stessa sicurezza.

Feliciano cercò di dargli qualche coordinata – Campo Santa Margherita, Rio Nuovo e altri – che Ludwig cercò di memorizzare a discapito del suo orientamento disfattista: non gli sarebbe bastato quel giro per imparare la strada.

«Questa è la sede centrale dell’università» lo avvisò Feliciano, quando passarono vicino ad un altissimo cancello di ferro, oltre il quale era possibile vedere una piccola piazzola che precedeva un imponente edificio immacolato.

«Anche tu verrai qui ad immatricolarti, l’anno prossimo?» chiese Ludwig per rallentare la velocità dell’amico: già a Bolzano aveva notato che Feliciano tendeva a camminare con la rapidità di un bersagliere, ma in quei vicoli tortuosi la sua peculiarità era ancora più evidente, paragonata al goffo incespicare dei turisti. Cominciava a capire l’espressione “passo da veneziano”.

L’amico si arrestò in mezzo alla strada, rischiando di provocare un ingorgo.

«Oh, no. Tra due anni, forse. Ma non penso di venire alla Cà Foscari. Mi sa che andrò all’Accademia di Belle Arti» espose Feliciano, riprendendo a camminare.

«Tra due anni?» ripeté Ludwig.

«Sono al quarto anno di liceo» annunciò l’amico. «Il prossimo anno ho la maturità.»

«Ma tu non hai diciotto anni, come me» lo mise in dubbio Ludwig.

«Ma io compio gli anni ad aprile. Tu a dicembre» squillò Feliciano, infilandosi nell’ennesimo vicolo a misura d’uomo. Ludwig lo seguì veloce, lasciando perdere i calcoli sull’età e sui mesi che li separavano.

Feliciano si fermò di nuovo nel bel mezzo della calle, e Ludwig ed un’altra dozzina di persone dovettero improvvisare uno scoordinato balletto per evitarlo.

«Hai fame?» chiese a bruciapelo. «Questo fornaio è ottimo!» e si lanciò dentro il negozio senza aspettare la risposta dell’amico.

Ludwig trattenne un sospiro, seguendo lo scompigliato italiano. Ormai conosceva il temperamento infantile e vivace dell’amico.

Era anche per quello che gli aveva chiesto di accompagnarlo: una città sconosciuta sembrava molto meno ostile se Feliciano la sommergeva con la sua allegria variopinta.

 

***

 

Feliciano lo aveva convinto a comprare a sua volta un panino coperto di zucchero. I pasticceri e i fornai del luogo non spiccavano in originalità: era circa la quarta “veneziana” che vedeva nel giro di una giornata; le prime erano state delle frittelle all’uvetta, poi aveva notato lo stesso nome su un particolare tipo di pasta, e di nuovo nel cartello di una pasticceria. E ora quel panino. Inestricabili misteri dell’arte fornaia del capoluogo dei canali.

L’italiano lo condusse in una piazzola per mangiare. Il bello di quella città era che offriva spesso la possibilità di sedersi, se non si era troppo schizzinosi sul numero di piccioni che potevano aver usato quello stesso sedile come gabinetto.

Ludwig ispezionò con diffidenza la tozza panchina prima di sedersi, seguito da Feliciano.

«Ti piace Venezia?» chiese l’italiano, estraendo il panino dall’incarto del fornaio e addentandolo.

Il tedesco si concesse un assaggio prima di rispondergli.

«Sono appena arrivato, è troppo presto per decidere» considerò diplomatico Ludwig.

«Oh. E quando deciderai?» chiese Feliciano, tirando l’unico ciuffo spettinato della sua chioma con la mano libera dallo spuntino.

«Quando avrò cominciato a viverci» replicò con ovvietà l’amico.

L’italiano ebbe un guizzo, e in un attimo il panino sparì di nuovo dentro il cartoccio, che venne a sua volta inabissato nella borsa da cui il ragazzo cominciò ad estrarre gli oggetti più disparati.

«E’ la prima volta che vieni a Venezia! Dobbiamo commemorare la cosa!» esultò, riempiendo la panchina di cianfrusaglie mentre rovistava alla ricerca il blocco da disegno.

«Hai uno… spray al peperoncino?» si sorprese Ludwig, quando la famigerata boccetta fece la sua apparizione.

«Me l’ha dato mio fratello» confermò Feliciano. Album, gomma e matita a mine emersero dalla tracolla, che venne nuovamente stipata del resto delle carabattole. «Si preoccupa sempre per me. E’ un bravo fratellone!»

«Ha paura che ti saltino addosso?» si sorprese il tedesco.

«Temeva che tu potessi farmi cose scabrose nel tuo appartamento» espose serafico l’altro, sistemandosi nella sua solita posa da contorsionista per disegnare.

Ludwig rimase immobile, il panino a mezz’aria e l’espressione congelata, indeciso se ridere, offendersi o sentirsi calunniato. L’indecisione lo bloccò il tempo necessario a catturare l’attenzione di Felciano, che esclamò:

«Fermo così!» e cominciò a schizzare furiosamente.

La matita a mine grattava il foglio ad una velocità pazzesca, seguendo l’ispirazione intensa e improvvisa del ragazzo. La gomma si levò poche volte per cancellare, e lo fece sempre con estrema rapidità per lasciare di nuovo spazio alla collega di grafite.

«Da quando schizzi ritratti?» si sorprese Ludwig.

«E’ la prima volta. Non parlare, devo disegnare la bocca» lo sgridò in un sorriso Feliciano, perso nel suo mondo di fogli e carboncini.

Ludwig rimase pietrificato per qualche minuto prima di sentire il braccio protestare e la crosta di zucchero sciogliersi in una patina collosa sotto il calore delle sue dita.

«Hai mai disegnato altri boschi?» s’informò, ricordandosi del disegno che preferiva nelle produzioni dell’amico.

La matita interruppe per un istante il suo fraseggio, poi riprese con ulteriore vigore.

«Perché me lo chiedi?» domandò l’altro di rimando.

«Lo schizzo che avevi fatto qualche anno fa era molto bello» scandì con calma il tedesco.

«Ogni tanto» fu la risposta vaga di Feliciano. Tracciò quello che Ludwig riconobbe come il suo ultimo tratto: l’amico aveva il vizio di disegnare la riga finale con particolare forza, facendo compiere uno svolazzo alla matita oltre il foglio. L’estremità della penna venne accostata alle labbra mentre il ragazzo valutava la qualità della sua opera, ciondolando la testa da un lato e dall’altro. Sistemò alcune linee, approfondì le ombreggiature dopodiché girò il foglio.

«Non sono sicuro che sia venuto bene» si scusò preventivamente.

Ludwig osservò il disegno senza proferire una parola né modificare la propria espressione.

Non era perfetto in ogni dettaglio, ma il ritratto era di sicuro ben fatto. La fronte era forse troppo ampia, gli occhi un po’ troppo ravvicinati e la proporzione tra mano e viso appena sbagliata, tuttavia riusciva a riconoscersi in quel disegno. Il portamento severo, gli occhi perplessi al limite con il sospetto e la curva basita delle labbra erano le sue: anche il panino lasciato a metà era quello che gli stava appiccicando le dita con lo zucchero sciolto. L’amico aveva anche abbozzato lo scenario circostante, con linee molto più leggere di quelle riservate al soggetto principale.

«E’ molto bello» apprezzò composto. Finì il malefico pane e si pulì le mani appiccicaticce sul fazzoletto di carta del fornaio.

«Davvero?» Feliciano aveva l’espressione di un cucciolo festante, e l’angolo della bocca del tedesco si curvò in un alone di sorriso.

«Belle Arti fa per te» confermò Ludwig.

Feliciano sorrise esuberante, richiudendo l’album per riporlo nella borsa.

«E’ la stessa cosa che mi ha detto Nonno Roma» gioì.

«Tuo… nonno?» gli fece eco Ludwig. Feliciano non aveva mai parlato della sua famiglia, e quella era la prima volta che menzionava un suo parente.

«Non è proprio mio nonno» ponderò l’italiano, incrociando le braccia come un vecchio detective. «Era il fratello maggiore di papà. Però erano orfani, e lo zio gli ha fatto da padre. Così abbiamo cominciato a chiamarlo Nonno. E, visto che abita a Roma, è Nonno Roma.»

Ludwig aspettò che Feliciano avesse finito di rimettere a posto i suoi attrezzi, e riuscì a chiedere:

«E i tuoi genitori?»

«Penso che sia ora di andare» l’italiano scattò in piedi di botto, guardandosi intorno per decidere la strada da prendere. «Meglio arrivare in anticipo, giusto?»

Ludwig concordò con un cenno della testa, alzandosi a sua volta.

Al mondo esistevano vari segni che preannunciavano l’Apocalisse: la pioggia di rane, i fiumi di sangue e il re dei ritardatari che parlava di “arrivare in anticipo”.

Si affiancò all’amico e ripresero a parlare di argomenti più leggeri.

Ma, nonostante l’apparente distrazione, Ludwig rimase fisso su un pensiero: quanto era profonda la ferita che Feliciano nascondeva dietro la facciata di spensieratezza? E cosa l’aveva provocata?

Tentò di minimizzare la visibilità dei suoi pensieri, irrigidendo il viso e sforzandosi di sorridere.

Non voleva certo essere lui a far soffrire ulteriormente l’amico.

Ma il dubbio non lo abbandonò per tutto il giorno.

 

***

 

«Quel ragazzo sembra simpatico!»

«Ha aperto bocca a malapena.»

«Perché è timido. Deve essere simpatico.»

Ludwig non indagò sulle cause del verdetto dell’amico: Feliciano agiva di cuore, mai di cervello. Forse era proprio da quella sua spontaneità che si alimentava il suo talento artistico.

«Scommetto che non ti aspettavi di avere un coinquilino giapponese!» cantilenò l’italiano, ancora più euforico del normale: era la prima volta che vedeva un asiatico in carne ed ossa. Quella sera avrebbe provato a disegnarlo. E magari Ludwig gli avrebbe permesso di andarli a trovare per una serie di ritratti, l’anno successivo. Occidente e Oriente a confronto, sulla stessa tela. Sarebbe stato grandioso!

«Parla abbastanza bene l’italiano. Non dovremmo avere grossi problemi di comunicazione» valutò Ludwig. Il proprietario di casa, un uomo la cui allegria era proporzionale alla misura del ventre ben pasciuto, gli aveva presentato il giapponese come uno studente modello giunto in Italia grazie ad una borsa di studio. Sarebbe rimasto a Venezia per un anno, poi avrebbe fatto ritorno al suo paese.

Il giovane orientale si era presentato come Kiku Honda e, dopo il nome, un numero veramente esiguo di parole era uscito dalle sue labbra. E Feliciano aveva deciso che quel giapponese era l’apoteosi della simpatia.

Anche dopo tanti anni di conoscenza, il tedesco faticava a seguire i criteri di giudizio dell’amico.

La voce nasale degli annunci ferroviari starnazzò il binario del treno per Verona, interrompendo i suoi pensieri.

«E’ il tuo, giusto?» domandò Feliciano.

Ludwig assentì. Fare il cambio a Verona era una cosa che detestava: non esistevano coincidenze con i treni per Bolzano, ed era sempre costretto ad aspettare perlomeno mezz’ora in stazione. Si era premunito di libri, ma l’idea lo seccava ugualmente.

«Tornerai a settembre?» sperò l’italiano, poco prima che l’amico salisse sul treno.

«Ti farò sapere il giorno preciso» notificò Ludwig. La sua faccia assunse il cipiglio meditativo tipico dei pensieri complicati, e il tedesco macerò qualche istante nelle sue preoccupazioni prima di chiedere con la sua voce baritonale: «Sei sicuro che vada tutto bene?»

Per quanto avesse tentato di distrarsi, non riusciva a dimenticare il repentino cambio di discorso dell’amico non appena aveva nominato i genitori. E nemmeno l’emozione fulminea che aveva strisciato sotto la sua pelle. Anche se Feliciano aveva tentato di dissimulare con tutte le sue forze, Ludwig l’aveva riconosciuta: dolore e paura, la peggiore miscela esistente al mondo. Era impossibile non accorgersi di un simile miscuglio, quando intorbidava il volto solitamente splendente dell’italiano.

Feliciano batté le palpebre con estrema lentezza, i lineamenti insolitamente tirati ed immobili.

«Sì» decise infine, stampandosi in faccia un bel sorriso. «Ora va tutto bene.»

“Ora”. Quindi le cose non erano sempre andate bene.

Ludwig accettò quella risposta senza ulteriori commenti. Non si sentiva offeso dal silenzio dell’italiano, tantomeno tradito: Feliciano aveva diritto di scegliere tempo e modo per rivelare i suoi segreti. La tristezza che gli ingolfava il petto era dovuta unicamente alla consapevolezza di non poter aiutare l’amico a scacciare quell’emozione malefica.

Ma c’era una cosa che poteva fare.

Poggiò con tutta la delicatezza di cui era capace la grande mano sul capo dell’italiano, carezzandogli i capelli.

«Il mio numero lo conosci» citò, inflessibile.

Quello era il massimo che poteva fare: ricordargli che c’era sempre qualcuno disposto ad ascoltarlo. E sembrò bastare a Feliciano, che recuperò finalmente il suo buonumore e non si limitò ad inscenarlo.

«Grazie» guaì quasi, felice.

Il tedesco sorrise per riflesso e salì sul treno.

Aprì il finestrino, sicuro che, come ogni volta al momento della partenza, Feliciano avrebbe gridato qualcosa.

«Ti aspetto a settembre!» urlò infatti il ragazzo, sopra il frastuono del treno, sopra i fischi dei controllori, sbracciandosi nell’aria piena di rumori. «Ricordati che ti aspetto!»

Ludwig lo salutò dal finestrino, asserendo con il capo biondo.

Poi il treno partì, e l’ultima immagine che ebbe dell’italiano fu una figurina minuscola all’orizzonte, che ancora agitava le braccia e si sgolava per salutarlo.

 

***

 

Lovino si bloccò sulla porta della camera, la sorpresa e l’orrore dipinti sul viso.

«Feliciano, ti ricordi che il pavimento è fatto per camminare, vero?»

Il fratello assentì distrattamente, completamente assorto dalla contemplazione di uno schizzo.

Lovino sospirò, lanciando un’occhiata circolare alla stanza. Aveva l’impressione di essere precipitato in una bizzarra nevicata fuori stagione: al posto dei fiocchi di neve, dal cielo erano piovuti fogli ricoperti di studi creativi, accumulati sul pavimento, sulla scrivania e sul letto.

Il maggiore roteò gli occhi al cielo, e si infilò di nuovo la giacca che aveva appena tolto. Il turno al ristorante era finito particolarmente tardi – il sabato sera non si smentiva mai, purtroppo – e l’ultima cosa di cui avvertiva il desiderio era passare il resto della nottata a scavare tra i fogli per trovare un angolo in cui accucciarsi.

Avrebbe dormito da Antonio. Sperava solo che quei due deficienti di Francis e Gilbert non facessero troppi commenti.

Serrò la mandibola, rendendosi conto dell’impossibilità della cosa: era sabato sera, ed il lavoro era stato sfiancante anche per loro. Sicuramente avevano bevuto qualcosa per riprendersi. E la spossatezza riduceva a livelli irrisori la loro capacità di tollerare l’alcol. Passò una mano sul viso, esasperato: sarebbero stati più molesti di un nugolo di calabroni.

«Lovino» lo chiamò il fratello, mostrandogli l’ultimo disegno. Era la prova per il dipinto di un bosco, come tutte quelle che inondavano la stanza: non passava giorno senza che Feliciano non si esercitasse a disegnare una foresta. La sua fissazione era sicuramente riconducibile al tedesco: tutto era cominciato dopo una sua visita a Bolzano, qualche anno prima. Chissà cosa gli aveva detto quello stupido crucco.

«Secondo te sono pronto a metterlo su tela?» domandò titubante, gli occhi che quasi tremavano.

Era davvero ingenuo, il suo fratellino. Quasi disarmato contro le infamie di quel brutto mondo.

«Eri pronto dal primo abbozzo» rimbrottò Lovino, girandosi per imboccare la porta.

Il volto di Feliciano si aprì in un sorriso accecante come il sole. Si strinse il disegno al petto, con la delicatezza che una bambina avrebbe riservato ad un fiore, e mormorò:

«Grazie.»

Lovino si schermì con un gesto della mano e fece per scendere le scale.

«Salutami Antonio!» la testa di Feliciano si sporse dalla porta della camera per strillare la sua raccomandazione.

«Torna a disegnare» sbottò il maggiore, uscendo veloce di casa.

Feliciano zampettò contento sul letto.

Era davvero carino, il suo fratellone. Quasi tenero quando si imbarazzava a parlare del suo fidanzato.

Raccolse alcuni schizzi dal materasso e li poggiò sulla scrivania, liberando lo spazio indispensabile per dormire.

L’indomani mattina si sarebbe messo al lavoro. Erano anni che progettava quel quadro per regalarlo al suo amico: non si era mai dimenticato dell’apprezzamento che aveva fatto sul suo studio di bosco.

Lo avrebbe finito entro settembre, così Ludwig avrebbe potuto appenderlo nel suo appartamento a Rialto, se gli fosse piaciuto.

Fino all’anno prima, fremeva in attesa della neve natalizia; ora pregava che settembre arrivasse presto ad arrossare le foglie. Buffo come l’amico tedesco fosse costantemente l’asse attorno a cui ruotava il suo calendario.

Feliciano sfregò la guancia contro il cuscino, impaziente di mettersi a lavorare, e si addormentò pensando a pennelli, colori ad olio e schemi prospettici.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tutti i riferimenti a Venezia sono tratti dall’esperienza personale di studentessa alla Cà Foscari.

In pieno periodo d’esami, per questo il capitolo si è fatto tanto attendere u.u”

Mi scuso per il ritardo, sarò più rapida nei prossimi aggiornamenti *posaeroicasuscoglieracontantodiondaallespalle*

E… grazie<3<3<3

Grazie a tutti voi che seguite questa storia<3

 

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Capitolo 3
*** Quadro ***


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Quadro

 

 

«Allora, cugino, come va l’università?»

Un paio di occhi azzurri fissarono a lungo Gilbert, cercando di estrapolare dal ragazzo il vero sottotitolo della domanda. Interessamento? Derisione?

Optò per la prima scelta.

«E’ difficile pronunciarsi, ancora» spiegò pratico Ludwig. «Le lezioni sono cominciate oggi.»

«Quindi vuoi mantenere il silenzio stampa?» insistette il cugino, mettendosi a sedere di fronte al consanguineo.

Ludwig lanciò una rapida occhiata intorno. Feliciano gli aveva dato appuntamento davanti a quel ristorante, e Gilbert aveva insistito perché Ludwig si accomodasse all’interno. I clienti se ne erano andati da un pezzo, e mancava ancora qualche ora all’apertura serale. Ore che sarebbero state utilizzate per pulire, spazzare e predisporre gli ingredienti per il servizio successivo.

Si domandava se fosse equo che il cugino perdesse tempo a parlare con lui mentre i suoi colleghi sfacchinavano in cucina.

Aveva appena apposto il punto di domanda al suo pensiero che le ante della cucina si aprirono e ne emerse un affaticato francofono.

«I fornelli non si puliscono da soli» notificò alla schiena di Gilbert.

Ludwig osservò con distaccato terrore il cugino mentre si voltava, curvava le labbra in un sorrisetto sardonico e asseriva, imitando la “r” strascicata e la pronuncia nasale dell’amico:

«Non preoccuparti, mon ami, ti raggiungo subito.»

«Non pensavo che Feliciano conoscesse questo posto» Ludwig deviò il discorso poiché sapeva che il francese, nonostante le sue maniere eleganti e il suo linguaggio forbito, avrebbe impiegato meno di due secondi a radere al suolo il cugino. Ormai conosceva bene Francis Bonnefoy, uno degli amici storici di Gilbert.

«Potrei offendermi» replicò l’altro, socchiudendo i suoi particolarissimi occhi ramati. «Questo ristorante è famoso, sai? Lo abbiamo portato alle stelle con il nostro duro lavoro» attese che un velo di pentimento calasse sul volto del cugino per strapparglielo con la successiva affermazione: «Comunque, Feliciano conosce questo posto perché ci lavora il fratello.»

L’immagine di uno spray al peperoncino svettò nella sua memoria con tanto di musichetta trionfale, e Ludwig poggiò la fronte sulla mano per scacciare il mal di testa.

«Il fratello di Feliciano ha mai subito… abusi?» domandò. Se era così sospettoso nei confronti del mondo, un motivo di base doveva esistere.

L’espressione di Gilbert sembrò creparsi come la pasta di sale lasciata al sole. Poi si ricompose e chiese di rimando:

«Che genere di abusi?»

La mano passò sulle labbra, sul collo e di nuovo sulla fronte, attraversando la guancia. Ludwig non riusciva mai a rispondere prontamente se si trattava di utilizzare le parole sulla sua personale lista proibita.

«Di natura sessuale» specificò, abbassando il tono ad un sussurro.

Gilbert quasi lo spettinò con una risata polmonare.

«Oh, per l’amor del cielo, no!» si contenne per moderare la voce e mormorare a sua volta: «Il suo fidanzato è un ammasso di panna rosa! Non potrebbe mai ferirlo!»

Uno spray al peperoncino e un grosso cumulo di panna rosa che se ne andavano a spasso tenendosi per mano. Ora sì che la sua fantasia era compromessa per sempre.

«E Antonio dov’è?» s’informò, guardandosi attorno: solo tavoli e sedie accatastate per permettere di spazzare per terra, il tutto confuso dalla penombra tipica dei tempi morti. «Volevo salutarlo.»

Gilbert ciondolò all’indietro con la sedia, falsamente meditabondo.

«Credo che sia impegnato» dichiarò.

«Giusto. Deve preparare il servizio serale» ricordò Ludwig.

«Sì, anche quello» si lasciò sfuggire Ghilbert.

Gli occhi celesti incontrarono quelli ramati alla ricerca di una risposta, e la trovarono nello sguardo allusivo che il cugino gli scoccò.

«Vuoi dire che lui è… la panna rosa?»

Si sentì incredibilmente stupido a pronunciare quella metafora. Se qualche sconosciuto l’avesse udito, avrebbe dovuto espiare quell’umiliazione stabilendosi sulla cima più alta della montagna più remota per vivere da eremita il resto dei suoi giorni. L’immagine del ricciolo rosa e di Antonio si scontrarono nella sua mente sprizzando scintille, e la sua razionalità spiccata decise di dividere le similitudini illogiche dalla vita reale, o non sarebbe mai più riuscito a guardare in faccia Antonio senza immaginarselo come un ciuffo di panna.

Ad un estraneo sarebbe parsa insolita la tranquillità con cui Ludwig parlava di coppie omosessuali: l’imbarazzo che gli inamidava il volto, infatti, non era dovuto al sesso dei fidanzati in questione, ma alla sua regola morale di non parlare mai con troppa libertà dell’intimità altrui.

Aveva avuto le sue esperienze con l’omofobia ai tempi del liceo, quando il cugino era stato costretto ad andarsene di casa dopo aver rivelato di essersi innamorato di una persona. L’errore fatale, che gli era costato il disprezzo dei familiari più stretti, era stato scegliere un ragazzo come lui.

Ludwig non ripescava mai volentieri da quel cassetto della sua memoria i ricordi degli insulti che i parenti avevano rivolto a Gilbert, né il sorriso tirato con cui il cugino lo aveva salutato, partendo dalla stazione di Bolzano. Aveva tentato di tranquillizzarlo, ma più lo consolava, più Ludwig si sentiva ferito: riusciva a scorgere benissimo la tristezza e il bisogno di comprensione tumulati negli occhi del consanguineo, e gli sforzi che quest’ultimo faceva per dissimulare lo commuovevano e accoltellavano al contempo.

Per la prima volta, Ludwig aveva assaporato il sapore rancido dell’impotenza: una scossa furiosa aveva fatto fremere ogni singola goccia di sangue nel suo corpo e lo spirito era stato elettrizzato dalla ferrea volontà di cambiare il mondo pur di aiutare il cugino. Si era concluso tutto nel vuoto della disillusione di fronte alla nuda realtà, come un fuoco di artificio che si preannuncia maestoso per poi spegnersi in uno sfiancato sputo di scintille.

Non poteva rivoluzionare la mente di tutta l’umanità, ma poteva sostenere il cugino, e così aveva fatto seguendo al telefono le sue peripezie veneziane.

«E’ arrivato il tuo amico» l’affermazione dell’altro lo riportò velocemente alla realtà.

Feliciano lo salutava al di là della porta a vetri, con l’immancabile borsone a tracolla.

«Sembra un cagnolino. Scodinzola» ridacchiò Gilbert. «E’ proprio contento di vederti.»

«Fa sempre così» minimizzò Ludwig, alzandosi per raggiungere l’amico.

Il cugino, per richiamare la sua attenzione, lo colpì all’orecchio con una pallina ottenuta da un pezzetto di tovagliolo.

«Ricorda che sai dove trovarmi» lo consigliò enigmatico, per poi scimmiottare nuovamente la pronuncia dell’amico francese: «E ora vado a rimediare ai miei errori prima che Francis venga a prendermi per le rotule.»

“Prendermi per le rotule” non era un’espressione tipica del cugino, ma l’aveva utilizzata giusto per ficcare nel discorso qualche “r” in più da storpiare.

Ludwig fece un cenno di assenso con il capo e uscì nella brulicante Venezia, dove lo aspettava festante il suo amico.

 

***

 

Kiku osservò perplesso il suo coinquilino.

Non conosceva approfonditamente i costumi occidentali, ma era abbastanza sicuro che nessun galateo imponesse ad una persona di rimanere un’intera mezz’ora a rimirare un quadro.

Forse sarebbe stato scacciato come ficcanaso, ma corse il rischio e si premurò, nel suo italiano affaticato:

«Va tutto bene?»

Ludwig non si mosse dalla sua posizione – seduto sul letto, il mento stretto tra pollice e indice e l’altra mano stesa in avanti a reggere il quadro – e chiese:

«Cosa pensi di questo dipinto, Kiku?»

Il giapponese assunse per un attimo un’espressione scandalizzata nel sentire pronunciare il suo nome senza onorifico, poi gli scorse nella mente la riga di un libro che aveva letto tempo prima, in cui veniva specificato che in Italia nessuno usava suffissi di cortesia.

Rilassò quindi le spalle e la postura e si chinò per esaminare l’opera in questione. Rimase qualche secondo in assorta contemplazione, poi analizzò, tentennando di tanto in tanto alla ricerca delle parole:

«L’autore ha un modo particolare di dipingere. In molti quadri è facilmente rintracciabile la scuola in cui si è formato il pittore. Per la scelta dei colori, del soggetto, delle ombreggiature. Lui non sembra… legato. E’ un artista che mette sulla tela il suo mondo interiore senza restrizioni.»

Ludwig annuì pensoso. Era esattamente quello che aveva pensato lui quando aveva notato che Feliciano non disegnava mai soggetti fisicamente presenti, ma sempre figure astratte plasmate dalla sua fantasia senza freni. L’unica eccezione, in tutti quegli anni, era stata il ritratto che aveva eseguito per lui su una panchina di Venezia.

«E poi, si vede che si è allenato a lungo per questo disegno» aggiunse Kiku. Indicò alcuni punti nel quadro e proseguì: «Le pennellate sono date senza esitazione. E’ la certezza di chi ha memorizzato i movimenti da eseguire.»

Il giapponese si rialzò con eleganza sopraffina, e si congedò con un inchino ed un suggerimento pacato:

«Chiunque abbia realizzato quest’opera, tiene molto a te.»

Il tedesco ripose il quadro sul letto, una volta che l’orientale se ne fu andato con i suoi passi silenziosi.

Sapeva che Feliciano teneva a lui. Glielo aveva sempre dimostrato, in tutti i modi bizzarri in cui quello strampalato ragazzo esprimeva affetto. Ma in che modo gli voleva bene?

Se lo domandava da quando aveva intravisto il cugino guardare lui e Feliciano con lo stesso sguardo con cui aveva parlato di Lovino e Antonio.

Non aveva mai pensato all’amico veneziano da quella prospettiva.

Ludwig scosse la testa, esasperato con quella sezione così restrittiva di sé. No, non sarebbe andato da nessuna parte accecando la sua stessa coscienza. Alcune volte il pensiero aveva accarezzato la sua mente, si era affacciato rapido e si era volatilizzato subito dopo, lasciandosi dietro la sgradevole scia del dubbio.

Non si era mai interessato alle ragazze, ma nemmeno ai ragazzi: semplicemente, non aveva mai incontrato nessuno che gli avesse fatto capire che il mondo era più colorato se lo si guardava in due. Tuttavia, Feliciano gli aveva insegnato che quello che gli stava di fronte non era l’unico mondo da ammirare: c’era sempre lo sconfinato reame della fantasia in cui immergersi.

Tamburellò le dita sulla fronte, inquieto.

Non poteva nemmeno dire di amarlo, però. L’amore non doveva essere travolgente ed inequivocabile? Oppure i film si divertivano a riempire la testa della gente con fanfare romantiche irrealizzabili? Sapeva che per il cugino era stato il classico colpo di fulmine: fin dalla prima volta che aveva visto il suo fidanzato, quel ragazzo canadese, aveva deciso che l’avrebbe conquistato.

Non poteva dire la stessa cosa per sé e Feliciano. Doveva considerare, però, che le loro situazioni erano profondamente diverse: si erano conosciuti a sei anni, quando ancora l’amore era un enigma del pianeta degli adulti; Gilbert aveva incontrato il suo innamorato quando frequentavano entrambi il liceo.

Inoltre, c’era un dettaglio che non poteva dimenticare: Feliciano non gli aveva mai parlato del suo passato. Gli aveva lanciato qualche indizio, ma nulla di più; non aveva mai fornito una spiegazione esaustiva.

Magari l’interessamento che si era accorto di nutrire per l’amico non era altro che una versione morbosa della curiosità per i suoi demoni interiori.

Si rialzò con uno scatto dal letto ed afferrò il cellulare: era tempo di uscire dal Limbo.

Digitò veloce il messaggio e lo inviò prima di poter avere qualche ripensamento.

Diretto e conciso come sempre, l’sms recitava: “Domani devo parlarti. Dimmi dove possiamo vederci”.

Prima che il sole calasse sul giorno successivo, avrebbe avuto le idee chiare.

Nel bene o nel male.








Piccolo capitolo di transizione<3
Scritto nelle ultime... uhm, due ore, perché non sarò disponibile fino al 4 e ci tenevo a lasciare un aggiornamento anche piccolino  prima di partire :)
Ringrazio di cuore, veramente di cuore: Frozen Hell, Maria Nakamura, cake, Lovesmatis, BlackRoxy, Black_Mamba, HopeGiugy e Aphrodite. Grazie per le vostre recensioni, e mi scuso per non avervi risposto singolarmente. Rimedierò dal prossimo capitolo e non accadrà più<3 Vi ringrazio ancora per la vostra costanza nel leggere la storia e per il tempo che dedicate alla recensione<3 Grazie mille<3<3<3
Il prossimo capitolo sarà incentrato TOTALMENTE su Ludwig e Feliciano. E mi fermo qui o faccio spoiler xD
A presto<3
Red

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Capitolo 4
*** Ritratto ***


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Ritratto

 

 

Per un attimo, Feliciano si spense.

Il sorriso rimase inciso sul volto, gli occhi inebetiti lievemente socchiusi. Ma la luce che li animava si affievolì: barcollò e svanì, come una candela colpita da un improvviso alito di vento.

Rimase a fissarlo per qualche istante, sorridente e svuotato. Ludwig lo trovò vagamente inquietante: sembrava che il suo amico fosse stato mummificato nella cera, con quell’espressione artificiosa.

Il tedesco non aveva intenzione di affrontare un discorso così personale in mezzo alla calca della laguna, per cui aveva preferito chiamare Feliciano a casa sua; l’amico non aveva protestato, anzi, aveva accettato festante come un cucciolo. Probabilmente non aveva intuito il vero motivo dell’invito dell’altro: l’atmosfera era cambiata di colpo, da solare a glaciale, non appena la domanda era esplosa nel salotto.

Non pensava che per l’italiano sarebbe stato uno shock così grande sentirsi interrogare sulla propria famiglia. Le sue riserve su quell’argomento erano lampanti, ma non tanto da far presagire un atteggiamento del genere: Feliciano si era paralizzato in una sorpresa asfittica, incapace di muoversi o parlare.

«Se non vuoi rispondere…» cercò di arginare Ludwig, ma l’amico scosse il capo, riscuotendosi finalmente dalla sua immobilità.

Il tedesco attese con pazienza che l’altro pescasse dai recessi della sua anima la forza necessaria per rispondere.

Aveva pensato tutta la notte a come porre la domanda nel modo più gentile possibile; aveva scartato i fronzoli fasulli, le gentilezze ingannevoli e le premure leziose: non rientravano nel suo carattere, e non le avrebbe ammesse nemmeno in una situazione di emergenza. Così aveva optato per una domanda schietta; almeno non sarebbe stato accusato di ipocrisia.

Perché non parli mai dei tuoi genitori?

La tracolla venne aperta dalle mani irrequiete di Feliciano, che estrasse il blocco per appunti e se lo strinse al petto; aveva bisogno di un appoggio per addentrarsi nella selva di quella risposta.

«Hai una famiglia stupenda, sai?» cominciò l’italiano. Quello che gli curvò le labbra fu l’ombra del suo solito sorriso, smorzato e sfiancato nonostante i tentativi del ragazzo.

Le sopracciglia dorate di Ludwig si sollevarono, soppesando le parole dell’amico e mettendole a confronto con gli episodi che aveva ricordato il giorno prima. Non avrebbe definito “splendidi” i giorni in cui Gilbert era stato trattato come un malato ed esiliato con infamia.

«Normale» minimizzò, stringendosi nelle possenti spalle.

Le dita di Feliciano si serrarono sul blocco, piegandone gli angoli; il ragazzo appoggiò il naso sulla spirale che teneva insieme i fogli da disegno, aspirando il profumo della carta. Ne fu rinfrancato a sufficienza per continuare:

«È una famiglia unita.»

Di nuovo, Ludwig non si espresse con toni troppo entusiasti. Certo, la sua famiglia era stata molto compatta nel puntare il dito contro il cugino… ma non era quello il tipo di concordia cui si riferiva Feliciano.

«Nonno Roma mi vuole bene» l’italiano si dondolò sul divano, tamburellando le dita sul dorso del blocco. «Ma il papà e la mamma…»

Le iridi castane si adombrarono tanto da sembrare color piombo; il petto del giovane si gonfiò di un sospiro ebbro di lacrime, che venne ingoiato anziché esalato; le labbra si mossero incerte, come se avessero dimenticato la loro lingua madre. La malinconia del ragazzo scavalcò le barriere del tedesco e gli infisse una spina di compassione dritta nel cuore. Ludwig non trattenne la propria mano, e lasciò che atterrasse sulla testa dell’amico, battendo alcune pacche cameratesche.

La carezza rassicurò incredibilmente l’italiano, ravvivando la fiammella del suo buonumore, sebbene fievolmente.

Passò ancora qualche istante prima che la bocca impaurita di Feliciano riuscisse ad articolare:

«Papà è morto quando io ero troppo piccolo. Solo Lovino si ricorda qualcosa di lui» il suo corpo ebbe bisogno di un altro profondo respiro per esalare: «La mamma… non era adatta ad allevarci.»

Gli occhi del tedesco attesero indulgenti che l’amico riuscisse a parlare di nuovo:

«Siamo stati allevati dalla famiglia di Antonio.»

Ludwig odiò profondamente il cugino per la prima volta nella sua vita: per colpa delle sua metafore bislacche, in un frangente drammatico come quello gli era venuto in mente un ciuffo di panna rosa semovente.

«Lavora allo stesso ristorante di tuo fratello, giusto?» s’informò il tedesco.

«Come fai a saperlo?» confermò Feliciano.

«Anche mio cugino lavora lì» rispose breve l’altro.

L’italiano ridacchiò per quella strana coincidenza, e si rannuvolò poco dopo alla domanda dell’amico:

«Come mai tua madre non fu reputata idonea?»

Feliciano si aggrappò ancora di più al blocco, accartocciandolo anche al centro.

«Mia madre…» passò la lingua sulle labbra secche, e terminò in un unico fiato: «Cercò di strangolare mio fratello.»

Il suo cuore si ingolfò: Ludwig lo sentì arrancare, tossire ed accasciarsi nel suo petto. Perfino la sua voce e il suo sguardo, di solito inossidabili, barcollarono nel muoversi su quel terreno dissestato: non aveva nemmeno ipotizzato una spiegazione del genere, e ora si trovava completamente disarmato di fronte al mostro di quella rivelazione.

«Cercò…»

«Nonno Roma aveva capito da tempo che la mamma non era adatta a crescerci: non aveva superato la morte di papà» ricapitolò precipitoso Feliciano. «Aveva avviato delle pratiche per affidarci alla famiglia di Antonio. Li conosce da una vita, e si fida ciecamente di loro. Non potendo muoversi da Roma, era la scelta migliore» graffiò il dorso cartonato del blocco, nervoso. «La mamma capì che stavano per portarci via e…» Feliciano morse le labbra nell’agonia di una risata senza gioia. «Era depressa da tempo. Non era molto stabile.»

Le scuse per aver posto delle domande così indelicate, il dispiacere per il suo passato, chiedere perdono per l’indelicata curiosità, compiangere i giorni tragici dell’amico: tutte quelle urgenze si accatastarono spasmodicamente dentro di lui, occludendogli la gola.

Feliciano utilizzò quel silenzio per aprire il blocco con uno scatto e sfogliare veloce gli schizzi che aveva disegnato: paesaggi, personaggi fantastici e nature morte sfrecciarono veloci, come i fotogrammi del vecchio cinematografo.

Le parole zampillarono sulle sue labbra senza che Feliciano se ne accorgesse, come l’acqua che sgorga da un recipiente di vetro spezzato.

«Per questo dipingo sempre cose che non esistono. L’immaginazione è stata gentile con me, non mi ha mai fatto del male.»

La fronte pallida del tedesco si aggrottò.

«Ma a me hai fatto il ritratto» ricordò.

«Perché tu sei l’unica cosa buona di questo mondo.»

Il cinguettio innocente dell’italiano lo pizzicò allo sterno, insidiandogli un granello di calore nel petto.

Ora era a conoscenza dei segreti dell’amico, quindi la curiosità non era più la giustificazione corretta al suo interessamento per Feliciano. Ma c’era sempre la possibilità che fosse la compassione ad accendergli il cuore.

Osservò meglio l’amico, che ancora lo fissava con un sorriso sincero, sebbene spossato dalle confessioni precedenti.

Anche il cugino aveva attraversato dei momenti difficili, e anche per lui aveva provato empatia. Ma la partecipazione per Gilbert non gli aveva stuzzicato le guance con l’imbarazzo, non lo aveva fatto sentire a disagio come se improvvisamente ogni parola potesse essere foriera di strani sottintesi.

Feliciano interpretò male il suo riserbo, scambiandolo per mancanza di fiducia nelle sue parole.

«Io ti voglio bene, Ludwig» reiterò.

Il tedesco si ritrovò le braccia dell’italiano allacciate al collo senza nemmeno sentirlo arrivare, preso com’era nel ruminare su quanto fosse stato sbagliato costringere Feliciano a rivivere le memorie sulla sua famiglia distrutta e su quanto fosse doppiamente sbagliato perdersi in considerazioni sui propri sentimenti anziché tranquillizzare l’amico.

Le mani del tedesco calarono a coprire la schiena dell’amico solo dopo alcuni istanti di immobilità indecisa.

«Mi dispiace di essere stato indiscreto» pronunciò, quasi marziale per via dell’imbarazzo.

Feliciano gli sfregò il viso alla base del collo come un gattino.

«Va bene così. Te ne avrei parlato comunque, un giorno.»

E mentre il divano ospitava i due amici abbracciati, il gradino di fronte al portone dell’appartamento offriva asilo ad un giapponese, troppo discreto per irrompere in casa e troncare l’intimità dei due ragazzi.

 

***

 

Era passato qualche giorno dalla confessione di Feliciano, e la sua visita a casa di Ludwig era diventata il pettegolezzo preferito dal personale di uno specifico ristorante.

«Secondo me sarebbero una bella coppia.»

«Non devono essere una coppia!»

«Non dovresti essere così attaccato a tuo fratello.»

«È ancora troppo piccolo per certe cose!»

Gilbert roteò gli occhi ramati con teatrale esasperazione e bloccò Antonio strattonandolo per il grembiule.

«Puoi spiegargli che, secondo la legge italiana, Feliciano è adulto e padrone delle sue scelte?» sbuffò. «E che esistono delle buone cliniche per curare il brother-complex troppo sviluppato?»

«Non trattarmi come un malato!» s’inviperì Lovino.

«Non sei malato» patteggiò Antonio, avvicinandosi al fidanzato. «Ma è vero che ormai Feliciano è abbastanza grande da…»

«Stai zitto» sibilò il ragazzo, fulminandolo con gli occhi.

Gilbert non si lasciò sfuggire l’occasione di molestare il collega più giovane. Era davvero felice che Antonio avesse scelto proprio lui come partner: la vita era diventata più briosa da quando c’era Lovino da infastidire.

«Non puoi opporti al corso naturale delle cose» sermoneggiò, con un ghigno sardonico. «Io avevo un anno in meno quando…»

«Non mi interessa!» strepitò l’altro, sbracciandosi come un mozzo che fa i segnali con le bandiere in alto mare. «Fidati, non mi interessa! Sono affari tuoi, e tuoi devono rimanere!»

«… quando ho conosciuto Matthew» concluse Gilbert con un soffio malizioso. «Cosa avevi pensato?»

«Il peggio, conoscendo la tua mente perversa» lo stroncò il giovane, stizzito.

L’altro non replicò allo sbottare di Lovino. Non aveva senso esaurire tutto il divertimento in una sola mano: avrebbe aspettato un po’ di tempo, poi lo avrebbe pugnalato a tradimento con quell’argomento durante la serata per il gusto di vederlo trasalire.

Guardò fuori dalla finestra, e trovò lo spunto per la sua prossima frecciatina.

Pioveva.

E la pioggia era universalmente riconosciuta come creatrice di situazioni equivoche.

 

***

 

Erano fuggiti da piazza San Marco appena avevano avvistato la prima nuvola.

I previdenti veneziani avevano cominciato a montare le passerelle di legno: ben presto l’acqua sarebbe arrivata alle ginocchia, e quelle lingue lignee erano la loro unica possibilità di attraversare la piazza. In quella stagione, un’ora era più che sufficiente perché la pioggia allagasse ogni vicolo.

Avevano scelto una pessima giornata per visitare San Marco, e lo capirono quando il cielo si aprì sulle loro teste: non corsero abbastanza in fretta da evitare il primo scroscio, e trovarono riparo sotto un pergolato macilento solo dopo essere stati inzuppati dalla tempesta molesta.

Il cellulare di Feliciano squillò, e l’sms del servizio maree lo avvisò che per quel giorno era prevista una pericolosa acqua alta. Il medesimo messaggio fece vibrare anche il telefono di Ludwig. Quel servizio era veramente tempestivo: riusciva ad avvisarli sempre quando erano troppo lontani da casa per cambiare piani o quando erano abbastanza bagnati da poter riempire un catino.

«Avrei dovuto guardare meglio le previsioni del tempo» si rammaricò spigliato Feliciano, estraendo un oggetto cilindrico nero dalla tracolla.

Ludwig lo osservò perplesso, e l’italiano lo srotolò perché anche l’amico potesse capire di cosa si trattasse.

«Sacchi per la spazzatura?» domandò incerto il tedesco.

«In questa stagione, è meglio essere previdenti. Gli stivali sono troppo ingombranti da portare» spiegò tranquillo Feliciano. Procedette a mostrare all’altro come creare un paio di anfibi con poche semplici mosse: spiegò il sacco nero, vi infilò il piede e lo fermò poco sotto il ginocchio con lo spago incorporato.

Piuttosto perplesso sull’effettiva efficacia di quel metodo, anche il tedesco indossò quegli stivali improvvisati. La plastica scura si gonfiò e arricciò in strani modi, dando l’impressione che gli fossero state impiantate due zampe di mammut dal pelo corvino.

«È l’unico modo per tenere i piedi asciutti» si giustificò Feliciano, tentando di rincuorare l’amico.

Ludwig preferì non fargli notare quanto quel rimedio fosse umiliante ed inutile: le loro scarpe erano diventate una piccola pozzanghera, arrivando ad infradiciare il calzino e a congelare la pelle sottostante. D’altronde, non vi era più un solo centimetro del loro corpo asciutto: le nuvole si erano preoccupate di setacciarli ovunque, dai capelli alle caviglie, senza trascurare nemmeno una singola piega.

Ludwig cercò di strizzare la felpa color militare e di scrollare un po’ d’acqua dai capelli fradici. Feliciano, al contrario, sembrava perfettamente a suo agio con la frangia grondante e i vestiti ridotti ad un ammasso di grinze annacquate.

«Dovresti asciugarti un po’» lo consigliò severo il tedesco.

«Mi bagnerò di nuovo non appena usciremo da qui» fece notare con un sorriso svampito l’italiano.

Le palpebre batterono sugli occhi azzurri, in parte per lo stupore e in parte per scacciare alcune gocce d’acqua.

«Vuoi avventurarti di nuovo in quel diluvio?»

«Possiamo metterci un sacco in testa per ripararci dalla pioggia» decise l’altro.

Ludwig vide le testate dei giornali scorrergli davanti agli occhi come in un incubo: “la laguna partorisce strani esseri di plastica nera”; “avvistati due grossi lombrichi umanoidi: alieni o visione?”.

«Aspettiamo che si calmi un po’» sospirò, esasperato.

Feliciano si strinse beato nelle spalle, accettando senza proteste la proposta dell’amico.

«Ora dovresti scrollarti quella pioggia di dosso» gli rese noto il tedesco.

L’italiano fissò i propri abiti come se li vedesse per la prima volta, e cominciò a strizzarli con la malagrazia di un bambino; Ludwig fu costretto ad aiutarlo quando il ragazzo cominciò ad avvitarsi su se stesso per spremere la maglietta sulla schiena.

Feliciano sistemò con cura la tracolla, in modo che rimanesse incastrata tra la sua gamba e il muro, ben riparata dalla bufera: non avrebbe permesso che i suoi schizzi si bagnassero come lui.

L’italiano stese le mani davanti a sé, i pollici e gli indici tesi a “L” a formare una cornice attorno al volto del tedesco.

«Devo farti un altro ritratto, con i capelli in questo modo» decise Feliciano.

Ludwig passò indeciso una mano nella chioma zuppa: la pioggia aveva distrutto la sua solita pettinatura con i capelli tirati all’indietro, arruffandogli sulla fronte la lunga frangia.

«Avevi detto che preferivi disegnare cose inesistenti…»

«Ma tu sei l’eccezione» sorrise l’altro.

Feliciano non aveva più toccato l’argomento della sua famiglia dal giorno in cui l’aveva sviscerato: da allora aveva cercato di distanziarsene il più possibile, e Ludwig non aveva fatto ulteriori pressioni per forzarlo a parlarne di nuovo.

L’italiano aveva dipinto solo scenari immaginari da quando la realtà si era rivelata troppo dura per lui; Ludwig era stato l’unica breccia nel suo mondo di fantasia. Era presuntuoso sperare di poter diventare la fenditura anche nel suo animo congelato nel passato?

Gli occhi castani di Feliciano si posarono sul tedesco, confusi ma non infastiditi, quando le mani più forzute del compagno si appoggiarono sullo stipite di pietra dietro di lui, bloccandogli la testa tra gli avambracci nerboruti.

Ludwig sentì l’amico chiamare il suo nome con fare interrogativo, e quella domanda sembrò stendersi nella sua mente come colla, infangandogli i pensieri. Troppi giorni di riflessioni ansiose avevano sfiancato le sue meningi: ormai era stanco di pensare. E quando l’italiano aveva ribadito che lui era l’unica cosa che amava al mondo, non gli era più parso così blasfemo avvicinarsi in quel modo.

La pioggia scrosciava rumorosa nel mondo al di fuori di quella nicchia scavata nei mattoni, e le nuvole si scontravano ruggendo; solo in quel riparo occasionale era calato un improvviso silenzio.

Era stato Ludwig ad avvicinarsi, ma fu Feliciano ad annullare la distanza tra loro: una miriade di emozioni gli fecero scintillare le iridi e tremare le labbra prima di solleticare le piante dei piedi per farle alzare e raggiungere così l’altezza dell’amico.

Nonostante gli sforzi dell’italiano, il tedesco dovette chinarsi per unire le labbra alle sue.

Un primo bacio del genere non rientrava nelle fantasie di nessun essere umano: fradici, in mezzo alla tempesta e con dei sacchi della spazzatura arpionati alle gambe.

Feliciano sentì la nuca poggiarsi al muro, le mani aggrapparsi alla maglia inzuppata dell’amico, la bocca muoversi assieme a quella del tedesco; il braccio di Ludwig gli avvolse la schiena, riscaldandogli la pelle infreddolita, la mano libera del compagno fissa sul muro a pochi centimetri dalla sua testa.

Per un attimo si chiese se fossero quelle le cose contro le quali Lovino lo aveva messo in guardia. Il pensiero lo sfiorò solo un secondo: era impossibile che il fratello volesse privarlo di quell’esperienza.

Nessuno dei due udì il rombo del temporale mentre si stringevano nel bacio; il mondo sembrò perdere consistenza al di fuori di quella cornice di mattoni.

 

 

 

Potrà sembrarvi strano, ma davvero a Venezia chi non ha gli stivali gira con i sacchi della spazzatura legati sotto il ginocchio xD Pur di non bagnarsi i piedi, questo ed altro XD

Well, con questo si conclude la parte “introduttiva”; dal prossimo capitolo inizierà il cuore della fanfic, incentrato per lo più sull’omofobia.

Come sempre, grazie per essere arrivati a leggere anche le postille<3<3<3<3

A presto!

Red

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Capitolo 5
*** Carboncino ***


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Carboncino

 

 

 

Il mondo divenne improvvisamente oscuro quando un velo nero gli drappeggiò davanti agli occhi.

«Se proprio vuoi essere in lutto, devi vestirti a tema» giudicò l’uomo, avvicinando la sedia alla sua.

«Non sono in lutto» protestò vigorosamente Lovino, strappandosi il tessuto dal viso e fissandolo incerto. «Cos’è questa… cosa

«Una federa di Francis» spiegò placido Antonio.

«E tu mi hai messo in faccia la federa di quel pervertito?» esplose il ragazzo. Appallottolò con furia la stoffa e la scagliò dall’altro lato della cucina, poi si sedette di nuovo con uno sguardo bellicoso.

Non ottenne altra reazione che un sospiro dolcemente rassegnato: Antonio amava anche le frange più turbolente della sua natura guerrafondaia. Quegli scatti d’ira quasi lo tranquillizzavano: finché Lovino avesse continuato a infiammarsi all’improvviso, avrebbe avuto la conferma che il giovane era sempre la persona di cui si era innamorato.

Lovino era piombato in casa sua quella mattina, il viso ingrugnato in una maschera di rabbia e cocente delusione. Fortunatamente, Gilbert era andato a far visita a Matthew, e Francis stava bighellonando in un punto imprecisato della laguna, così il ragazzo aveva avuto la possibilità di sfogarsi ad un volume piuttosto sostenuto senza scatenare apparizioni indesiderate in cucina: se c’era un difetto che perfino Antonio riconosceva nei suoi amici, era la loro mancanza di discrezione in alcuni momenti cruciali delle vite altrui.

«Non è carino parlare così di uno dei coinquilini del tuo fidanzato» lo riprese garbatamente Antonio.

«Sono due degenerati» rimbrottò plumbeo Lovino. «Uno è un depravato, e l’altro è parente di un depravato

Antonio poggiò una mano sulla spalla del compagno, aspettò che lui se la scrollasse di dosso imbufalito e la piazzò di nuovo nello spesso punto: ormai conosceva bene i tempi e le modalità di reazione di Lovino.

«Ti sconvolge tanto che Feliciano abbia un ragazzo?» sondò pacato Antonio.

«È ancora troppo piccolo» sentenziò acre l’altro.

«Era abbastanza chiaro il suo interesse per Ludwig» precisò con gentilezza l’uomo. Feliciano sprizzava felicità da tutti i pori quando si avvicinava l’annuale visita a Bolzano, saltava letteralmente sul posto quando riceveva una telefonata o un messaggio dall’amico, e aveva passato degli anni nella correzione dei bozzetti per il quadro che aveva intenzione di regalargli: a suo avviso, gli indizi erano stati più che plateali. Sicuramente anche Lovino li aveva notati, ma la sua ottica conservatrice di fratello maggiore gli aveva impedito di accettarli.

«Perché proprio quel crucco?» si risentì il maggiore dei Vargas.

Antonio sollevò lo sguardo al cielo per riflettere.

«Ha dimostrato di tenere molto a lui» pattuì alla fine.

«È un crucco» sibilò Lovino.

Il resto delle proteste ribollì in un brontolio sommesso contro la spalla dell’uomo, che lo cinse in un abbraccio affettuoso.

«Dovrai fartene una ragione» lo consigliò Antonio, carezzandogli le spalle.

Sorrise accondiscendente quando il ragazzo ringhiò per l’ennesima volta:

«Come è possibile? È un mangiapatate 

 

***

 

Ludwig sarebbe stata l’ultima preoccupazione di Lovino, se solo il fratello maggiore fosse stato a conoscenza di altri episodi nella vita del minore.

Feliciano era stato molto attento a non lasciarli trapelare a casa: i Fernandez Carriedo, la loro famiglia affidataria, avevano attraversato una burrasca domestica qualche anno prima per via della relazione tra Lovino e Antonio, e non aveva intenzione di ferirli con altre preoccupazioni. In particolare, non voleva che il fratello, che più di tutti aveva sofferto per la follia della madre, dovesse ricadere nel limbo oscuro da cui Antonio lo aveva faticosamente sottratto.

Non aveva mai parlato dei fischi o degli insulti che gli venivano rivolti a scuola. Per quanto si fosse sforzato di dimostrarsi socievole fin dal primo anno, il suo passato lo rendeva inevitabilmente diverso dagli altri. Il trauma subito per via della figura materna lo differenziava dai suoi coetanei: lo sguardo ferito e l’atteggiamento impaurito erano visibili a dispetto delle numerose maschere allegre che indossava ogni giorno. Inoltre, certe voci non potevano essere messe a tacere definitivamente, specie se avevano come argomento una tragedia così succulenta: il suo silenzio non era bastato a proteggere il segreto ed entro il termine del primo anno di liceo tutta la sua classe era a conoscenza del tentativo di omicidio consumatosi a casa Vargas.

A quel punto, i suoi compagni si erano divisi in due frange: quelli che lo evitavano perché troppo “strano”, e quelli che cercavano di comprenderlo, imitando il biblico buon samaritano.

Feliciano aveva apprezzato i loro sforzi, ma non era riuscito a ripagarli appieno: i suoi sorrisi erano comunque distaccati, come se la curva delle labbra fosse stata presa da un volto estraneo e schiaffata per errore sul suo viso. Ben presto anche i suoi fantomatici salvatori si erano stancati, e Feliciano si era trovato isolato all’interno della classe.

Non se ne era preoccupato troppo, per quanto la situazione non fosse delle migliori: a casa lo attendevano la sua famiglia adottiva e suo fratello, ed era spesso invitato da Antonio e dai suoi migliori amici al ristorante o nella casa che condividevano. E poi c’era Ludwig, e tutto diventava più sopportabile.

L’anno successivo, il secondo del liceo, aveva avuto la prova di quanto la natura umana potesse essere volubile e, all’occorrenza, perfida: la calura estiva sembrava aver essiccato tutti i buoni propositi dei suoi compagni di classe, perfino quelli dei più miti. Le fazioni più placide si limitavano ad evitarlo, mentre quelle più estreme sperimentavano su di lui la scienza del bullismo mascherato: aveva ripulito il banco da boccette di china cadute “per sbaglio”, aveva coperto con maglie a maniche lunghe i lividi dei pugni assestati “per gioco” e aveva ignorato i cori “amichevoli” che lo accompagnavano all’uscita di scuola. I bulli erano abbastanza astuti o pusillanimi da travestire ogni loro dispetto da scherzo innocente tra compagni di scuola; ricordava ancora l’episodio che aveva dato vita al suo nomignolo personale: quando il docente non era presente, un gruppetto di ragazzi lo aveva schernito a causa della sua passione per il disegno chiamandolo “artista”. Da quel momento, i teppisti avevano scritto quel soprannome ovunque: sul suo banco, sul suo diario, sui suoi quaderni. La vera cattiveria di quell’epiteto stava nel suo essere estremamente generico: Feliciano non avrebbe mai potuto protestare con un insegnante per quella parola, e i bulli avrebbero potuto farla passare facilmente per un vezzeggiativo anziché un improperio.

Non riusciva ancora a spiegarsi quale fosse stata la molla che aveva fatto scattare quel meccanismo: lui si era limitato ad esistere nel suo minuscolo fazzoletto di mondo, e gli altri vi avevano fatto irruzione senza alcun rispetto.

I professori non erano stati di alcun aiuto a riguardo: i loro sterili consigli erano di lasciar correre, che prima o poi si sarebbero stancati, e di non prendere troppo negativamente quelli che erano comportamenti infantili privi di malizia. Non poteva accusarli del tutto di essere degli ignavi perché effettivamente i bulli, di fronte al corpo docente, avevano sempre avuto la premura di camuffare le loro offese facendole passare per passatempi puerili; quando invece decidevano di rincarare con insulti più pesanti e meno fraintendibili, si assicuravano di essere rimasti soli: in questo modo, la loro testimonianza avrebbe avuto lo stesso valore di quella di Feliciano. Il loro bersaglio si era così trovato privo del diritto di protestare.

Feliciano aveva presto imparato ad evitare quel genere di colloqui con gli insegnanti: non portavano alcun beneficio, anzi, non facevano che aumentare il corollario di insulti da fronteggiare, arricchendolo di termini come “codardo”, “mammone”, “spia” e sinonimi più coloriti.

Forse un giorno ne avrebbe parlato con Ludwig, e avrebbe finalmente sfogato tutta l’amarezza accumulata in quegli anni. Il tedesco era riuscito a comprendere e accettare anche la parte più buia del suo passato, forse persino ad amarla: sarebbe riuscito a tollerare anche una simile confessione.

Quel pensiero gli condusse la mano alle labbra, colorandogli di rosso le guance.

Avrebbero dovuto recuperare il loro primo bacio e i seguenti che si erano scambiati in quel giorno di pioggia: i sacchi della spazzatura abbrancati alle ginocchia avevano sciupato la magia del momento.

Feliciano era solo come al solito, e completamente perso nei propri pensieri.

Per questo non sentì il solito gruppetto di bulli avvicinarsi a lui.

Una spinta poderosa lo picchiò dritto in mezzo alle scapole, mandandolo a sbattere contro il muro.

Il suo immancabile blocco per appunti si aprì nell’urto, sparpagliando ovunque i fogli con i suoi bozzetti. Quel delirio di schizzi vaganti lo colpì molto di più della parete: ignorò completamente il dolore alle mani, che aveva usato per proteggersi dall’impatto, e si chinò bocconi a riordinare le sue opere.

Una suola di scarpa si appoggiò sulla sua anca e lo spintonò di lato, facendolo cadere riverso sul pavimento. I fogli che aveva appena recuperato scrosciarono di nuovo al suolo, aprendo un frastagliato ventaglio di carta e carboncino.

«A cosa stavi pensando, artista?» lo attaccò il capo del gruppo, mentre un suo galoppino si chinava a raccogliere alcuni schizzi.

«Boschi? Ancora?» il secondo simulò un conato di vomito. «Quanti album hai già riempito con queste stupidaggini?»

«Perché glielo chiedi? Sai che non ti risponderà!» lo riprese il terzo, strappandogli il foglio di mano. «Se ne sta lì a fissarti e basta… vediamo se questo lo scuote un po’!»

Ciò detto afferrò i lembi del disegno e cominciò a stracciarlo in minuscole frazioni che scagliò con crudele precisione sul viso esterrefatto della vittima.

«Non parla nemmeno così» si esasperò quello, sfogando la frustrazione con una tempesta di pedate sugli schizzi del giovane: l’orma della scarpa impresse la sua figura sporca sui paesaggi e sulle nature morte, imbrattando i contorni puliti.

Il secondo sventagliò nell’aria un foglio, e gridò esultante:

«Ehi, ho trovato una novità! Guardate qui cosa disegna il nostro artista

Il capo diede una sbirciata all’opera in questione e accartocciò la faccia in un’espressione schifata.

«Sei pure frocio» sputò, orripilato.

«Restituiscimelo.»

Il gruppetto di bulli si congelò a quella risposta. In tanti anni di maltrattamenti, Feliciano aveva sempre subito senza mai ribellarsi: aspettava che i suoi aguzzini si stancassero, raccoglieva i cocci e tornava a casa. Quello era il suo primo atto concreto di protesta.

I tre osservarono la sua mano stesa senza battere ciglio, come se si chiedessero perché cinque dita fossero spuntate dal nulla. Nonostante fosse accasciato a terra, circondato da un cimitero di carta, la sua voce risuonò estremamente ferma quando chiese di nuovo:

«Restituiscimelo.»

Il capetto scambiò un’occhiata d’intesa con i suoi sottoposti e, con un ghigno malefico, sussurrò:

«Ma certo. Subito. Prima però dobbiamo correggere alcune cose che ti sono sfuggite…»

Feliciano comprese il sottinteso di quelle parole solo quando fu troppo tardi: il secondo frugò nella cartella alla ricerca di un grosso pennarello nero, ed il terzo si sedette sulla sua schiena, immobilizzandogli le spalle a terra.

Le proteste e le preghiere del ragazzo non servirono a nulla mentre il capo impugnava il pennarello che il secondo gli porgeva e lo faceva calare come una mannaia sul disegno.

«Qui la profondità è scarsa… questa linea è sbagliata… così è più bello…» commentava, tra le risate del secondo e le incitazioni del terzo mentre un roveto di segni scuri si apriva sull’opera.

«Ho finito» dichiarò soddisfatto alla fine, accartocciando il disegno e lanciandoglielo in viso come colpo di grazia.

«Oddio, che schifo, mi sono seduto su di lui!» il terzo si rialzò fulmineamente, il viso raccapricciato. «Non sarà che ora si è innamorato anche di me?»

«Fossi in te starei attento. Quelli come lui sono peggio degli animali» la risata grassa del secondo riecheggiò nel corridoio mentre quest’ultimo attuava lo sgarbo finale della giornata: afferrò lo scheletro dell’album e alcune pagine sparse, spiegazzandole orrendamente; sollevò la cartella del ragazzo e gettò tutto fuori dalla finestra, nel boschetto che circondava la scuola.

«Buona giornata, artista» lo schernirono, abbandonandolo tra i pochi resti della sua produzione.

Feliciano si rialzò a fatica sulle braccia tremanti di spavento e di umiliazione, e recuperò con la mano malferma il cartoccio che era diventato il ritratto di Ludwig. Lo stirò delicatamente, quasi temesse che la carta potesse soffrire, e contemplò sconfortato lo spregio della sua opera: orribili linee nere sporcavano il profilo di Ludwig, ed una serie di scritte infami percorreva tutto lo sfondo. Un esercito di imbrattature casuali tempestava tutto il disegno, rendendolo pressoché irriconoscibile.

Per un attimo, Feliciano pensò che avessero anche sfocato i bordi del ritratto, poi passò una mano sul viso e si accorse che erano le sue lacrime ad annebbiargli la vista.

Una pioggia affranta cadde sul disegno, mescolando malamente pennarello e matita in irregolari cerchi bagnati: almeno la sua tristezza avrebbe ripulito l’unico ritratto che avesse mai realizzato. Anche se avesse lasciato solo un grumo di carta molliccia, sarebbe stato comunque migliore di quello sgorbio di cattiveria.

Asciugò gli occhi sfregandoli con la manica e si rialzò barcollante. Lo aspettava una lunga ricerca nel boschetto per ritrovare il suo zaino e i suoi schizzi, dopodiché avrebbe dovuto fermarsi alla fontanella per ripulire il fango e la sporcizia dai vestiti.

Estrasse a fatica il cellulare dalla tasca, e avvisò Ludwig che quel giorno non sarebbe riuscito a raggiungerlo a Venezia.

Aspettò che il telefonino emettesse lo squillo del messaggio inviato con successo e si addossò alla parete alle sue spalle, poggiando una mano sulla fronte come se volesse misurarsi la febbre.

Quella era la sua routine, ormai era abituato.

Ma certi giorni sembravano davvero non finire mai.

 

***

 

«C’è qualche problema se mio cugino viene a trovarmi durante la pausa?»

Francis gorgheggiò, Lovino brontolò e Antonio annuì. Gilbert ignorò i primi due, ringraziò lo chef e digitò veloce una risposta al consanguineo.

«Non doveva vedersi con Feliciano, oggi?» considerò Antonio. Lovino glielo aveva ricordato fin troppe volte, con toni che andavano dal melodrammatico al collerico, ed era sicuro di non sbagliare.

«Avrà avuto di meglio da fare» telegrafò il maggiore dei Vargas, con un’alzata di spalle.

Francis si dileguò nella sala da pranzo, probabilmente per infastidire Gilbert, e lo chef poté così chiedere al fidanzato:

«Va tutto bene?»

Le spalle di Lovino si contrassero, si alzarono e riabbassarono in un sospiro trattenuto tra i denti digrignati. Il giovane non si voltò mentre rispondeva:

«Ultimamente, anche quando non si vede con il crucco, torna a casa tardi. E…» tamburellò i gomiti con le dita, a metà tra l’irato e il meditativo. «Ricordo come sono state per me le superiori.»

Antonio annuì, assorto. Aveva memorie piuttosto vivide dei teppisti che avevano cercato di spadroneggiare su Lovino, e rimembrava con chiarezza anche il momento in cui quei furfanti falliti avevano capito che non potevano scamparla con quel giovane: Lovino non era certo il tipo di persona timida e passiva, e lo aveva dimostrato demolendoli a parole. Si erano verificati altri pallidi tentativi di bullismo, tutti terminati miseramente come il primo.

«Hai paura che sia preso di mira a scuola?» concretizzò Antonio, avvicinandosi con discrezione al compagno.

Lovino chinò la testa in cenno di assenso. Lui aveva ingaggiato una vera e propria guerra con quei malavitosi infantili, e ne era uscito vincitore: solo questo gli aveva impedito di diventare la loro preda sacrificale e di condurre un’esistenza scolastica abbastanza tranquilla. Ma Feliciano non aveva il suo stesso carattere tempestoso: lui era ingenuo e debole, il capro espiatorio perfetto per i vandali.

«Ogni volta che gli ho chiesto qualcosa sulla scuola, mi ha detto che andava tutto bene» brontolò, amaro.

Il palmo di Antonio si appoggiò sulla sua testa, accarezzandogli i capelli.

«Sei un bravo fratello.»

Come da copione, Lovino si scrollò rudemente quella mano di dosso e andò a predisporre le pentole per il servizio serale facendo più rumore possibile. Antonio scosse la testa con un sorriso e corse ad aiutarlo.

Ogni difficoltà appariva maggiormente sormontabile se affrontata in due.

Perfino un normale turno di lavoro.








Grazie per la vostra pazienza, davvero<3<3<3
A presto con il prossimo capitolo!
Red<3
P.S. Conto di fare alcune side-story di questa fanfic *informazione casualeXD*

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Capitolo 6
*** Schizzo ***


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schizzo

 

«Ho assolutamente bisogno di te.»

La padella che il cuoco teneva in mano venne innalzata come uno scudo tra di loro: quando Gilbert esordiva in quel modo, non si poteva sperare in una giornata tranquilla.

«Di cosa hai bisogno?» chiese guardingo Antonio.

Gilbert fissò alternativamente l’amico e la stoviglia, indeciso se sentirsi offeso oppure no. Ma la domanda che doveva assolutamente porre ad Antonio aveva una priorità maggiore del suo orgoglio, per cui rispose semplicemente:

«Il tuo ragazzo è venuto da me dicendomi di dire a mio cugino di trattare bene suo fratello o addobberà l’albero di Natale con il suo scalpo.»

La padella quasi scivolò a terra, e Antonio la salvò a pochi centimetri dal suolo.

«Sembra il riassunto di una telenovela di terza categoria» commentò, in attesa del resto.

«Concordo» minimizzò l’altro.

Gilbert pretendeva la sua massima attenzione, e lo dimostrò piazzandosi davanti a lui e togliendogli dalle mani la padella, che venne appoggiata sul bancone.

«Io non ho la combinazione per i neuroni del tuo ragazzo, ma tu sì. Quindi spiega.»

Antonio trasse un profondo respiro: in alcune giornate, avrebbe pagato oro pur di non essere la persona più ragionevole di quel gruppetto. Per un minuto soltanto avrebbe voluto che Lovino moderasse l’acidità nel porsi con gli altri, che Gilbert non prendesse ogni parola come un insulto personale e che Francis fosse un po’ meno Francis: il francese si rendeva perfettamente conto del nervosismo dei colleghi, ma anziché aiutare attivamente a rasserenare gli animi, si piazzava in un angolo a fare da spettatore, parte molto più divertente e molto meno impegnativa.

Antonio si afferrò la radice del naso tra le dita e strinse forte. Aveva bisogno di un intervento divino e di un’aspirina. La seconda, fortunatamente, lo aspettava nella tasca della giacca.

«È successa una cosa, ieri sera…» narrò infine.

 

***

 

La sveglia sul comodino sembrò deriderlo quando lo informò dell’ora esatta: le tre di notte.

Lovino emise un grugnito di risentimento, raggomitolandosi ostinato sotto le coperte, deciso a riaddormentarsi il prima possibile. Ma gli occhi si spalancarono completamente quando si accorse di non essere l’unico insonne nella camera.

Ficcò la testa sotto il cuscino, come un bizzarro struzzo insonnolito, e maledisse il suo senso di cameratismo fraterno troppo spiccato. Feliciano non aveva il dono della sintesi, ed estrapolare il problema che lo teneva sveglio nel cuore della notte avrebbe richiesto il sacrificio di molte ore di sonno. La restante parte del suo riposo sarebbe stata impiegata a decifrare i singhiozzi del fratello e tradurli in linguaggio umano. Il lavoro lo avrebbe ucciso, il giorno dopo, se lo avesse affrontato in quelle condizioni – nervoso e assonnato.

Ma Feliciano era il suo unico fratello. Per lui, poteva immolare il suo pregiato riposo.

«Qual è il problema?» esordì schietto, uscendo dalla spelonca del guanciale.

Il minore lo osservò vacuo, seduto sul letto con le ginocchia strette al petto. Trascorsero alcuni istanti prima che la sua solita espressione bonacciona si impadronisse dei suoi lineamenti.

«Va tutto bene.»

Il sorriso raffazzonato di Feliciano si incrinò nell’udire la falsità della propria voce. Lovino non infierì oltre: si rialzò a sedere, sistemò il cuscino alla spalliera del letto e vi appoggiò la schiena. Dalla sua posizione incrociò le braccia e fissò il fratello in attesa perentoria della verità.

Feliciano morse le labbra, facendole sbiancare sotto la pressione dei denti.

«Tu come hai fatto... con Antonio…»

Lovino saltò sul letto come se lo avessero punto con uno spillone; rotolò addosso al fratello e lo afferrò per le spalle, sbraitando:

«Avete già… avete già…» il maggiore non riuscì a proseguire: la prospettiva che il suo innocente fratellino potesse essere stato deflorato gli fece salire il sangue alle guance e gonfiare le vene sul collo.

Feliciano lo fissò con occhi ingenui, e domandò candido:

«Cosa?»

La testa di Lovino crollò per il sollievo, ed il sangue defluì velocemente dal viso, restituendogli un colorito umano: il fratello non aveva ancora raggiunto il punto di non ritorno con il crucco.

«Continua» sospirò, buttandosi di schiena sulla sua parte di materasso.

Feliciano arricciò le lenzuola con le dita irrequiete, mordicchiò nuovamente le labbra ed infine ammise:

«Come avete fatto… a farvi accettare?»

Lovino lo fissò interrogativo, e domandò:

«Intendi dai genitori di Antonio?»

Feliciano scrollò la testa in un cenno negativo. Morse ancora le labbra e le guance, come per strizzare fuori le parole che non riusciva a trovare.

«Gli altri… non ti hanno mai fatto nulla… di male?»

Lovino si rialzò per l’ennesima volta sul letto e si avvicinò preoccupato al consanguineo.

«Ti è successo qualcosa?» si premurò.

Il maggiore tirò le coperte fino al collo quando Feliciano scese dal letto, facendo entrare una miriade di spifferi dalle lenzuola alzate. Il minore aprì lo zaino scolastico ed estrasse la sua carpetta per i disegni; tambureggiò le dita sulla superficie cartonata, ancora indeciso se rivelare il suo segreto oppure no.

Giocherellò con l’elastico, combattuto: aveva taciuto per così tanto tempo che ormai i brutti ricordi si erano cagliati sulle sue labbra, incollandole ermeticamente.

Gli occorse un sofferto minuto di meditazione per riuscire a sciogliere quel collante amaro, per rialzarsi e porgere la carpetta al fratello.

Lovino la aprì mentre Feliciano si arrampicava sul letto e riprendeva posto sotto le coltri.

Il più piccolo si rannicchiò su se stesso e si coprì con la trapunta fino alle orecchie quando vide lo sgomento dilatare gli occhi del fratello: detestava dare un dolore a Lovino, anche quando la sofferenza era solo un misero riflesso della propria. Lo aveva visto tormentato per tanti anni, dopo che la mamma aveva tentato di ucciderlo: perfino lui, il suo fratellino, non era riuscito a cancellare del tutto quell’eco di diffidenza dai suoi occhi. Da quando Antonio era riuscito ad operare la magica metamorfosi su di lui, aveva desiderato non vedere mai più quelle ombre cupe sul suo volto.

Odiava più di ogni altra cosa sconvolgere il fratello: aveva taciuto così a lungo anche per non affliggerlo alla vigilia della sua completa guarigione.

Lovino richiuse la cartella, inspirò a fondo un paio di volte e infine sibilò:

«Chi è stato?»

Feliciano scosse la testa, conficcandosi ulteriormente nella caverna delle coltri. Non riusciva a pronunciare i nomi dei suoi aguzzini: sarebbe stato come evocarli, renderli presenti nella loro camera, e non voleva assolutamente che i loro spettri irrompessero in quella serenità domestica.

«Da quando?» cambiò la domanda Lovino.

Una mano strisciò fuori dalle lenzuola, con cinque dita inalberate.

«Quindi dall’inizio del liceo» chiarificò il maggiore.

Dall’ammasso di coperte provenne un camuffato cenno di assenso.

«Perché non me ne hai parlato prima?»

Lovino lanciò la carpetta in fondo al letto e si accostò al fratello quando un sommesso singhiozzare si levò dalle coltri.

Cercò di tranquillizzare Feliciano con le classiche parole di circostanza, e sopperì alla mancata originalità del dialogo accarezzando goffamente il dorso del consanguineo.

Feliciano apprezzò l’affetto che il fratello gli dimostrava così grossolanamente, e parte delle lacrime che versò quella sera fu per la commozione di fronte alle attenzioni di Lovino.

Ma non riuscì ad articolare nemmeno una parola in più.

 

***

 

«E questo cosa ha a che fare con mio cugino?»

«Probabilmente Lovino crede che non abbia abbastanza cura di Feliciano.»

Gilbert scosse la testa, rassegnato: il maggiore dei Vargas aveva un modo tutto suo di interpretare il mondo.

«Comunque sia» cambiò discorso, con un sospiro. «Mi dispiace che Feliciano sia stato preso di mira dai bulli.»

«Hanno provato anche con Lovino, una volta…» cominciò Antonio, e fu superfluo concludere la frase; Gilbert provò quasi l’impulso di farsi il segno della croce in onore di quei poveri martiri che avevano provato a tiranneggiare il Vargas sbagliato.

«Anche per me e Matthew non è stato facile» ricordò, passando una mano tra i capelli. Aveva rinunciato alla famiglia per il suo fidanzato, poiché nessuno dei parenti, a parte Ludwig, era riuscito a capirlo.

Antonio annuì, e batté una pacca cameratesca sulla spalla del compare. Anche la sua storia con Lovino aveva vissuto momenti di profonda crisi, a dispetto della tranquillità attuale: avevano superato ogni cosa insieme, e le difficoltà avevano cementato il loro rapporto. Ma sentiva ancora un brivido gelido sfiorargli la schiena nel ripensare a quei giorni.

«Non è facile per quelli come noi» soppesò Antonio.

«Viviamo in un mondo di ipocriti» scattò Gilbert, rialzandosi in piedi di botto. «Non è giusto che sia così.»

Antonio incrociò le braccia dietro la testa, dondolandosi sulla sedia. Un sorriso amaro gli piegò le labbra nel ricordare le strofe di una canzone che aveva ascoltato un’infinità di volte: “lo sanno a memoria, il diritto divino, e scordano sempre il perdono”.

Abbandonò la sedia e si diresse fuori dalla cucina.

Aveva bisogno di abbracciare il suo Lovino.

Aveva bisogno di stringere al petto la ragione per cui aveva e avrebbe sopportato le calunnie della gente.

Al contempo, Gilbert inviò un messaggio a Matthew, per poterlo incontrare quella sera.

Anche lui sentiva la necessità di poter accarezzare la fonte della sua forza.

E si augurarono entrambi che anche Feliciano capisse come stringere il motivo della sua strenua resistenza.

 

***

 

La scopa si fermò a metà strada.

Francis appoggiò le mani sulla sommità del bastone, e adagiò il mento sul dorso.

Fuori dalle finestre infuriava una pioggia torrenziale.

Quella mattina il servizio maree li aveva avvisati di un pericoloso codice arancio: con quell’acquazzone i canali avrebbero invaso tutti i marciapiedi.

Fischiò malizioso in direzione delle nuvole, e si compiacque:

«Oggi Feliciano e Ludwig devono vedersi. Sapete esattamente quando scaricare il vostro fardello, mie care.»

E continuò a fischiettare allegro, fantasticando sulle possibilità che quel pomeriggio di tempesta schiudeva ai due innamorati.

 

 

 

 

 

Chiedo di nuovo scusa per l’ABNORME ritardo çAç

Dunque, che dire… questa fanfic si concluderà al decimo capitolo, e cercherò di non avere più ritardi così disastrosi ç_ç Ed il prossimo sarà più GerIta di questo capitolo di passaggio XD

Venendo a questo capitolo nello specifico, ho solo una nota da comunicare: la canzone che Antonio ricorda è “Il testamento di Tito” di Fabrizio De Andrè.

Chiedo ancora scusa per l’assenza prolungata, e vi ringrazio per essere arrivati fin qui a leggere e per la vostra pazienza<3

A presto!

Red

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Capitolo 7
*** Squadratura ***


Squadratura

 

   Feliciano si dondolò incerto sul bordo del divano.

Lui e Ludwig si erano rifugiati in casa per sfuggire all’acquazzone, e Kiku aveva inviato un messaggio al coinquilino per avvisarlo che sarebbe tornato solo verso sera.

Era rimasto in silenzio quasi tutto il tempo, guadagnandosi le occhiate preoccupate del tedesco, filtrate come sempre dalla sua espressione autoritaria.

Aveva deciso di parlarne anche con lui: dopo la chiacchierata notturna con il fratello, si sentiva pronto a condividere quel frammento oscuro della sua vita con Ludwig. Ad essere del tutto onesti, avrebbe preferito evitare la questione il più a lungo possibile, ma non poteva più scappare: aveva fatto soffrire Lovino, con il suo silenzio. Non essendo a conoscenza di quella sporca faccenda, il maggiore dei Vargas non aveva potuto fare nulla per aiutare suo fratello. E quell’impotenza lo aveva ferito enormemente.

Non voleva replicare lo stesso errore con Ludwig.

Ma non sapeva da che punto cominciare. Non era un argomento facile da trattare: era irto di spine, ed occorreva maneggiarlo con cura per non pungersi.

Provò alcune volte ad iniziare il discorso, ma riuscì solo a masticare dell’aria amara nella sua bocca. Le parole sembravano troppo ingombranti per uscire dalla gola stretta dall’ansia.

Lo sguardo gli cadde sulla tracolla che portava sempre con sé. E l’idea lo colpì di conseguenza.

Ludwig, che era andato ad appoggiare i cappotti in camera, tornò in salotto e trovò l’italiano che tracciava rapido delle linee sul suo blocco per appunti.

Tentò di chiedergli cosa stesse facendo, ma l’altro gli fece frettolosamente cenno di attendere, senza nemmeno staccare gli occhi dal foglio.

Ludwig si sedette vicino al ragazzo, e attese pazientemente che avesse finito.

 

***

 

Matthew sollevò le mani dal piano e le accartocciò tra di loro per mascherarne il tremore vergognoso. Esibirsi davanti al suo fidanzato era molto più imbarazzante che farlo per un pubblico sconosciuto.

«Se porti questa al concorso, il podio è garantito» proclamò sicuro Gilbert, sbrodolato sul letto.

«Se non mi faccio prendere dal panico» ridimensionò Matthew, spingendo gli occhiali sul naso. «Non sono abituato ad essere al centro dell’attenzione.»

Per il suo carattere timido e remissivo, Matthew era da sempre abituato ad essere l’ombra del fratello più solare ed espansivo. Era una condizione comoda, poiché tutto ciò che faceva passava inosservato agli altri, e non aveva bisogno di giustificazioni o scuse: bastava che si limitasse ad esistere in sordina, e nessuno si sarebbe lamentato con lui. Gilbert aveva cambiato tutto: lo aveva letteralmente trascinato fuori dal suo buco confortevole per gettarlo sotto le luci della ribalta. Anche se continuava a tenere gli occhi abbassati per la maggior parte del tempo, aveva smesso di vivere con la testa chinata, e aveva riscoperto quanto fosse comodo usare le parole per comunicare con la gente.

Il cambiamento più evidente, quello che era valso le lodi dell’esagerato fratello maggiore, si era verificato nel suo rapporto con il pianoforte: aveva sempre amato quello strumento, fin da bambino, ma l’aveva suonato solo quando la casa era vuota, o nella deserta aula di musica della scuola. Gilbert lo aveva gettato nel mondo della musica competitiva e dei concorsi, perché “un talento raro come il suo non doveva essere sprecato”. Si sentiva ancora fuori luogo in quell’ambiente agonistico, come una trota che cerca di gareggiare con uno stormo di rondini nel volo. Ma Gilbert lo stava aiutando a spogliarsi della sua ritrosia, o, perlomeno, a nasconderla nel momento decisivo.

Poggiò di nuovo le dita sulla tastiera, ma non poté riprendere a suonare: due mani andarono a coprire le sue, allontanandole dal piano.

Gilbert condusse le nocche del ragazzo contro le sue labbra. Aveva pensato molto, da quando aveva parlato con Antonio del bullismo. Matthew non aveva vissuto quell’esperienza perché Gilbert l’aveva protetto: nessuno aveva voglia di cominciare una battaglia con il dittatoriale ragazzo, per cui i teppisti avevano preferito dedicarsi a prede più facili.

Aveva fatto in modo che la scomunica da parte della sua famiglia non creasse sensi di colpa nel suo fidanzato: Gilbert aveva sopportato il rifiuto e la collera dei familiari con grande freddezza e in solitudine. Era certo della sua scelta, e nessuna scenata o minaccia lo avrebbe fatto desistere. Non aveva potuto impedire al suo cuore di stringersi in una fitta, però, quando aveva stipato due valigie con i cocci della sua vita e aveva preso il primo treno disponibile per Venezia.

E non avrebbe mai scordato la sera di quella giornata, quando un arruffato e affannato Matthew si era presentato alla soglia dell’ostello in cui aveva pernottato. Non sentendolo rispondere al cellulare, aveva chiamato a casa, dove fortunatamente aveva risposto Ludwig. E da lui aveva ottenuto le coordinate del fidanzato.

Il cuore, che era rimasto raggrinzito nel petto per tutto il giorno, si era improvvisamente gonfiato, facendogli quasi esplodere la cassa toracica: Matthew, il timido e posato ragazzo che non respirava nemmeno se il suo fiato poteva infastidire qualcuno, si era precipitato in una città sconosciuta, armato solo di una cartina comprata dal primo edicolante disponibile e di uno zainetto misero, adatto a contenere solo lo stretto indispensabile. Lo aveva abbracciato fino a sentire le ossa scricchiolare, e avrebbe voluto amarlo quella sera stessa, se solo non fossero stati in una camerata da sei persone. A dire il vero, Gilbert non considerava quella situazione un grosso problema: bastava essere silenziosi e tirare le coperte fin sopra la testa. Ma Matthew si era opposto, le guance di un rosso congestionato.

Erano stati quei pensieri a mettergli le ali ai piedi mentre correva verso la casa del suo fidanzato.

Gli sfiorò il mento, sollevandolo in modo che gli occhi cerulei potessero rispecchiarsi nella tinta rossastra dei propri.

«Gilbert?» lo chiamò titubante Matthew.

Il ragazzo non parlò, preferendo un altro tipo di risposta: sfilò gli occhiali al giovane e si chinò sulle sue labbra.

Per quel giovaner che arrossiva, che balbettava e si imbarazzava, avrebbe continuato a fare il mestiere dello scudo: sopportare e proteggere.

Lo sollevò di peso senza troppo sforzo e lo adagiò sul letto dove fino a qualche secondo prima era stato sdraiato ad ascoltare le composizioni del giovane.

Quella volta non erano in ostello.

 

***

 

La matita corse veloce, molto più di quanto avrebbero potuto fare le parole. Le dita inciamparono nel ritrarre i suoi aguzzini, che rimasero delle figure dai connotati indefiniti: la mano sembrava avere timore perfino di quelle rappresentazioni cartacee e si soffermò su di loro il meno possibile.

Il foglio si riempì di scale di grigio e tratti nervosi, andando a formare sulla tela quello che era il suo incubo nel mondo reale: i fogli stracciati, i ghigni derisori, tutto prese vita nel rettangolo del disegno. Al termine, Feliciano lo consegnò al tedesco senza nemmeno guardarlo: temeva che, se lo avesse fissato per un secondo di troppo, avrebbe stracciato tutto quanto senza dare modo al suo fidanzato di intravederne nemmeno uno stralcio.

Appallottolò le mani una sull’altra, attendendo impazientemente il verdetto del compagno.

Osservò le sopracciglia bionde congiungersi per cercare di comprendere il significato di quel disegno, le vide sollevarsi per lo sbigottimento inorridito ed aggrottarsi di nuovo per la rabbia; il tutto attraverso l’immancabile vetro di compostezza quasi marziale del tedesco.

«Chi è stato?»

Come aveva fatto con il fratello, Feliciano scosse la testa. Non voleva che quei nomi si introducessero nella camera che condivideva con Lovino, e a maggior ragione non voleva che si intrufolassero tra lui e il fidanzato

«Quando?» cambiò allora la domanda Ludwig.

«Dall’inizio del liceo» confessò Feliciano con un filo di voce.

Ludwig spostò il foglio con calma encomiabile, poggiandolo sul bracciolo del divano. Intrecciò le dita e puntò i gomiti alle ginocchia, dopodiché si voltò verso Feliciano e scandì, lentamente:

«Quindi sono cinque anni che sopporti… questo genere di cose.»

L’italiano annuì, la bocca e il viso incurvati verso il basso.

«Ne avevi mai parlato con qualcuno, prima?»

La frangia nascose il viso di Feliciano quando questo mormorò:

«Con Lovino. L’altra sera.»

Ludwig lo fissò, l’iride azzurra intrisa di una dolcezza seria. L’espressione nel suo sguardo non rivelò all’italiano i motivi per cui il tedesco aveva steso un braccio nella sua direzione: i ricordi di quanto il cugino avesse sofferto, dopo essere stato ostracizzato dalla famiglia, e di che sollievo fosse stato, per Gilbert, avere una persona con cui parlare. Non gli spiegò le ragioni, ma con quello sguardo cercò di fargli capire che non lo avrebbe lasciato in balia dei suoi tiranni.

Feliciano si accovacciò nel suo abbraccio forte, stringendo le dita sulla schiena del giovane e inspirando a pieni polmoni il suo profumo. La prima volta che si erano incontrati, Ludwig era avvolto dall’odore dei dolci, del succo di mirtilli caldo e del Natale; ora, invece, percepiva solo una fragranza decisa ma non pungente sui vestiti del tedesco, che lo faceva sentire al riparo.

Ludwig non lo spinse oltre, come sempre. Feliciano aveva sempre un sorriso a portata di mano, ed era pronto a schiaffarselo addosso in ogni momento, ma il tedesco aveva imparato cosa si celasse dietro quella facciata di allegria: la paura del giudizio altrui, la stessa fobia che alimentava il lato autoritario del carattere di Gilbert.

Non voleva che Feliciano cominciasse a temere anche lui.

Lo strinse forte, senza dire altro.

Forse, ciò di cui l’italiano aveva bisogno erano un po’ di quiete e un abbraccio.

La prima, per capire che non sarebbe stato criticato o insultato; il secondo, affinché comprendesse che non sarebbe stato solo, nemmeno nel silenzio.

 

 

 

 

 

 

E siamo a tre capitoli dal finale.

Ancora una volta, chiedo scusa per il ritardo ç_______ç

Purtroppo il tempo per scrivere è stato molto ridotto dall’avvicinarsi degli esami e dalla preparazione di pile e pile di moduli e documenti .-. Vi chiedo scusa, ancora una volta.

Per evitare altri ritardi, almeno negli ultimi capitoli, ho già cominciato a scrivere il prossimo<3

Grazie per essere arrivati fin qui<3

A presto!

Red<3

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Capitolo 8
*** Vignetta ***


Vignetta

 

 

 

Aveva riflettuto per buona parte della notte su una possibile risoluzione.

Il piano d’azione era nato con le prime luci della mattina.

Si era recato a lezione come al solito, ed era rimasto chiuso nel suo tipico mutismo concentrato durante le spiegazioni del professore.

Non vi era traccia visibile della decisione che stava maturando dentro di lui. Ma diventava più forte ogni volta che vi si soffermava di nuovo con il pensiero, che limava i bordi della sua strategia.

Al termine dell’ora, Ludwig si caricò la tracolla in spalla e deviò dalla solita strada.

Aveva scelto un percorso diverso, per quel giorno.

 

***

 

Le ragazze della sua classe erano simpatiche.

O almeno, alcune di loro erano più simpatiche dei ragazzi che lo bulleggiavano.

C’era Mariangela, che aveva sempre il naso tuffato nei libri e un sorriso gentile per i personaggi del mondo reale; poi Rebecca, che copriva sempre la fronte con la frangia per nascondersi dalle persone, e che riservava una cordialità impacciata a chi entrava nel suo mondo introverso. Sarebbe stato bello mettere su tela l’espressione concentrata di Mariangela mentre era immersa nel mondo di fantasia cartacea: si immaginava il suo ritratto, magari in bianco e nero, immerso in un profluvio di personaggi magici e colorati tutto intorno. O risaltare il sorriso tremolante di Rosalba, magari con un piccolo punto luce sulle labbra.

Erano un po’ meno simpatiche le ragazze della bancata in fondo all’aula, posizione strategica per aggiornare lo stato di Facebook mentre il prof spiegava le conquiste napoleoniche. Non vedeva niente di tramutabile in arte nel loro vestiario omologato, nei capelli stirati con la stessa piega o nei modi di fare affettati; sembravano una schiera di bambole addestrate ad abbigliarsi e comportarsi secondo precise direttive. Si chiedeva se i loro burattinai fossero la televisione o i giornaletti scandalistici.

Nel loro codice di comportamento, era previsto lo stritolamento psicologico degli esseri considerati inferiori o, per meglio dire, “sfigati”. Il suo vivere fuori dagli schemi lo rendeva tristemente un rappresentante della categoria, quindi un bersaglio delle loro cattiverie. La maggior parte delle volte si limitavano a ridacchiare in falsetto per le crudeltà dei bulli. Come in quel caso.

Feliciano si sentì strappare il foglio dalle mani; il disegno sventolò nell’aria, mentre uno dei suoi aguzzini commentava aspro:

«Cos’è questo schifo? Sono solo cerchi e quadrati.»

«È uno schizzo preparatorio» si difese Feliciano. Allungò la mano solo una volta per recuperare il foglio, che volò fuori dalla sua portata. Si ritrasse sul suo banco, in attesa che la tempesta si placasse: ormai conosceva il copione.

«E cosa vuoi disegnare? Un altro ragazzo

La nota acida presente nella sua voce colò sul viso di Feliciano, corrodendogli le guance. Il giovane strinse le spalle e incassò la testa, pronto a sopportare in silenzio.

I bordi del foglio andarono a pizzicargli la fronte quando il bullo cominciò a schiaffeggiarlo ritmicamente con l’embrione di disegno.

«Hai perso la lingua?»

Un membro della sua combriccola di degenerati suggerì un uso molto volgare che avrebbe potuto fare della sua lingua, e, disgraziatamente per lui, il professore scelse proprio quel momento per entrare in classe.

«Cosa sono queste oscenità?» le vene sul collo da tartaruga dell’attempato insegnante disegnarono una ragnatela rossastra per la riprovazione. «E tu perché sei in piedi?»

«Stavo solo guardando l’ultima creazione del nostro artista» spiegò innocente il suo aguzzino, calcando volutamente su quell’insulto mascherato.

«Beh, l’hai visto. Torna al tuo posto.»

La mano da teppista schiacciò il disegno sul tavolo, lasciandolo miserevolmente sgualcito.

«Complimenti, artista

Feliciano non si scomodò di rispondere, mentre rassicurava il foglio, lisciandolo con le dita prima di rimetterlo in cartella.

Aveva provato a capire i motivi per cui se la prendevano con lui in quel modo, ma non ci riusciva. Non aveva fatto nulla di male, a parte disegnare più degli altri. Ritagliarsi una porzione di mondo fantastico con una matita e un foglio era un delitto così grave?

La teoria della relatività non riuscì ad accattivarsi la sua attenzione, che venne facilmente distratta dal volo di un uccellino fuori dalla finestra. Fu mentre seguiva il battito delle ali del volatile che lo vide.

Il cuore sembrò schizzargli dritto nel cranio; l’impatto fu così forte che si sentì strattonare verso l’alto, e per poco non si sbilanciò sulla sedia.

I capelli dorati sotto il sole insipido di novembre e gli occhi azzurri fermi in un’espressione seria, Ludwig stava aspettando al cancello della scuola.

Non diede segno di averlo visto, così Feliciano inalberò il libro di fisica come scudo. Solo gli occhi castani spuntavano furtivi dalle pagine del libro.

«Vargas, smettila di fare il buffone» lo riprese spazientito il professore, dopo un quarto d’ora di occhiatine fulminee alla finestra.

Feliciano fu costretto ad abbassare il libro, e cercò di evitare il contatto visivo con la finestra fino al suono della campanella. Gettò i libri nello zaino, in modo totalmente confusionario, si alzò facendo cadere la sedia e uscì dall’aula travolgendo quasi il professore. Non diede peso alle proteste del docente e di alcuni suoi compagni: non poteva comportarsi in modo normale quando tutto era a soqquadro dentro di lui. Il cuore gli pulsava nel cranio, e il detronizzato cervello era finito calpestato dai piedi; il sangue si era rintanato nelle sue orecchie, dove mugghiava come un mare in tempesta, e la disposizione degli organi interni era completamente rovesciata. E continuò a correre in quello stato, il cuore che pulsava impazzito in un angolo indefinito della sua testa.

Arrivò di fronte a Ludwig accaldato, scomposto e in confusione.

Il tedesco inarcò le sopracciglia fissando le sue guance congestionate, le nuvolette di fiato ingrossato che sciamavano dalla bocca del giovane e i suoi occhi liquidi di perplessità.

«Come mai…» ansò l’italiano. Cercò di pettinare la chioma scarmigliata dalla corsa e dal vento freddo, ma il suo tipico ciuffo svettò comunque sul resto dei fratelli, sfidando il cielo. «Come mai sei qui?»

Ludwig dovette compiere un grosso sforzo per costringersi a fare una cosa simile in un luogo pubblico: allungò un braccio verso il ragazzo e gli circondò le spalle, avvicinandolo a sé.

«Sono venuto a prenderti» mitragliò, abbastanza veloce da non avere ripensamenti lungo la frase. Le palpebre dell’italiano batterono due volte, smarrite: il tedesco aveva parlato così rapidamente che non era riuscito a cogliere le parole.

«Andiamo» recise Ludwig.

Feliciano lo seguì, ancora troppo confuso per districare una singola emozione dal gomitolo che gli aggrovigliava lo stomaco. Ma il braccio di Ludwig che lo stringeva puntava spudoratamente la bussola delle sue emozioni verso la felicità.

Il tedesco non parlò molto, le labbra cucite dall’imbarazzo.

Non era certo di avere fatto la cosa giusta.

I bulli avrebbero potuto sfruttare quella visita a sorpresa come nuovo pretesto per tiranneggiarlo. Ma doveva correre il rischio. Avrebbero continuato a sbeffeggiarlo comunque, che lui si fosse recato o meno ai cancelli della scuola. Tuttavia, in quel modo quei piccoli delinquenti avrebbero saputo che Feliciano non era solo, nella sua lotta per la sopravvivenza scolastica.

E, cosa più importante di tutte, ne sarebbe stato cosciente anche l’italiano.

Accentuò la presa sulle sue spalle, mentre uscivano in strada.

 

***

 

«Anche oggi il locale è animato» notò allegro Antonio.

Lovino lanciò un’occhiata torva alla sala, senza smettere di asciugare i bicchieri: un sovraeccitato Feliciano stava raccontando gli avvenimenti del giorno ad un curiosissimo Francis e ad un sarcastico Gilbert, con un silente e imbarazzato Ludwig a fare da sfondo.

L’eroico salvataggio del tedesco riecheggiava tra i tavoli vuoti: come lo aveva aspettato per un’ora nel gelo di novembre, come lo aveva portato via dalla scuola, davanti alle facce attonite e disgustate dei bulli.

Lovino strinse il bicchiere con troppa forza sul dettaglio del “braccio intorno alle spalle”, ed il bordo si incrinò, lasciandogli una piccola scheggia come regalo. Lo gettò nel bidone con enorme indifferenza, e ne afferrò un altro per farlo passare sotto le cure dello strofinaccio.

Osservò il volto del fratello: le labbra sembravano alimentate da una miscela infinita, instancabili nel raccontare; la pelle del viso pareva esplodere sotto la pressione di un sole interno, tanto il suo volto era illuminato; gli occhi stessi brillavano, scattando da uno all’altro dei suoi ascoltatori, senza sosta, come cuccioli troppo vivaci.

Poggiò il bicchiere nella credenza insieme ai suoi compari e valutò, asciutto:

«Il crucco ha fatto qualcosa di meno inutile del solito.»

«Davvero?» il dubbio nella voce di Antonio era riconducibile all’aria inferocita con cui Lovino aveva proferito quella sentenza.

Il ragazzo si voltò di spalle, perché il fidanzato non vedesse il suo volto.

«Era molto tempo che non vedevo mio fratello così spensierato. Ha fatto qualcosa di buono.»

Antonio sorrise, avvicinandosi al giovane per abbracciarlo.

Lovino poteva anche voltarsi, ma ormai sapeva riconoscere la presenza delle lacrime anche dall’angolazione delle sue spalle: le ritirava così vicino alle orecchie solo quando aveva bisogno di rattrappirsi su se stesso per arginare il pianto.

«Allora adesso approvi la loro relazione?»

Non aveva previsto la gomitata, che lo colpì allo stomaco con la precisione di un cecchino.

«Ho detto che ha fatto una cosa giusta. Questo non vuol dire che approvo che quel crucco stia attaccato a mio fratello» precisò Lovino, affrettandosi a sparire in cucina.

Antonio massaggiò la bocca dello stomaco, e si sforzò di arrancare dietro l’italiano guerrafondaio.

Durante il tragitto, fissò per un attimo Feliciano. E sorrise di rimando: quello che aveva detto Lovino era vero.

Era tanto tempo che il più piccolo dei Vargas non era così felice.

 

 

 

 

 

Meno due alla fine ç_ç

Comincio subito a scrivere il prossimo per non farvi attendere troppo XD (sperando che quei tiranni degli esami mi diano un attimo di tregua per stare al computer .-.).

Come sempre, un gigantesco grazie a tutti voi che siete arrivati fino a qui<3

A presto!

Red

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Capitolo 9
*** Pennino ***


Pennino

 

Erano passati alcuni mesi da quando Ludwig era diventato il pettegolezzo della scuola e lo zimbello del ristorante per l’audace salvataggio del fidanzato.

I bulli covavano risentimento per lo stangone biondo che aveva rovinato il loro giocattolo preferito – ora Feliciano sorrideva; inoltre, la minaccia di imbattersi nella vendetta di un tedesco i cui pugni erano grandi quanto le loro teste li intimoriva abbastanza da aver ridotto i loro scherzi sadici ai danni dell’artista.

Il personale del ristorante, al contrario, sguazzava in quella novità con un gusto che rasentava la cattiveria: Gilbert non faceva che sbeffeggiare il cugino, sebbene con un indelebile affetto di sottofondo; Francis lanciava battutine a metà tra il malizioso e l’ammirato, Lovino sbuffava imprecazioni tra i denti e Antonio cercava di limare gli eccessi degli altri tre.

La magia di quel periodo aveva trovato realizzazione anche nel blocco da disegno di Feliciano.

Scorci di Venezia, vedute di Bolzano e paesaggi urbani di Mestre si erano moltiplicati su quelle pagine bianche, evidenziando il nuovo legame che l’artista aveva stretto con la realtà. Pian piano, il mondo circostante era diventato uno scenario abbastanza amichevole da poter essere immortalato sui fogli; il timore di essere ferito dal resto dell’umanità era tamponato dalla presenza di Ludwig, e così la realtà aveva trovato un’intercapedine tramite cui scivolare nell’anima del ragazzo.

Non era stato un cambiamento improvviso: il primo paesaggio era comparso quasi timidamente nel blocco per appunti, niente più di un piccolo quadrato a lato di uno schizzo più grande. Poi, un giorno alla volta, le brecce sul reale erano divenute più spaziose e frequenti. Feliciano non aveva perso la sua immaginazione cavalcante, riscontrabile nell’infinità di disegni fantasiosi, ma viveva più serenamente il suo rapporto con la realtà.

Ovviamente, il suo soggetto preferito era uno solo. E aveva gli occhi azzurri e i capelli biondi.

 

***

 

Ludwig schiuse gli occhi nella penombra della sera, ed impiegò qualche istante a rintracciare la schiena del fidanzato, incurvata sulla scrivania. Si rialzò annodandosi le lenzuola ai fianchi e si accostò al giovane.

Nell’ultimo mese, Feliciano si era fermato spesso a casa sua per la notte. Man mano che lo spavento del ragazzo nei confronti del mondo scemava, l’amore che gli dimostrava diventava sempre più fisico: all’inizio del loro rapporto, Feliciano faticava a esprimersi con baci e abbracci, ma l’evoluzione della sua amicizia con la realtà aveva alimentato l’affettuosità nei confronti del compagno. Ricordava ancora quel giorno di due mesi prima, quando Feliciano gli si era accostato e lo aveva baciato con le labbra tremanti di imbarazzo. Era stata la prima volta, dall’inizio del loro rapporto, in cui aveva preso l’iniziativa.

La loro relazione si era sviluppata, da allora, fino ad arrivare ai frequenti soggiorni notturni del ragazzo a casa del tedesco.

La loro prima volta non era stata romantica e perfetta come nei romanzetti rosa: Ludwig non sapeva esattamente come approcciarsi al ragazzo nudo sotto di sé, e Feliciano non riusciva a smettere di ridacchiare ogni volta che il tedesco lo sfiorava – “mi fai il solletico!”, squittiva. Era occorso un quarto d’ora almeno perché Feliciano frenasse il riso e Ludwig riuscisse a rilassare a sufficienza il compagno. Si era fermato quando l’italiano aveva versato la prima lacrima, e Feliciano lo aveva incoraggiato ad andare avanti con un sorriso un po’ tirato dal dolore. L’imbarazzo e una certa dose di goffaggine avevano caratterizzato quella prima serata, cancellati pian piano da tutte le notti che erano seguite.

«Cosa stai disegnando?» domandò, affacciandosi dalla spalla dell’italiano.

Feliciano sfoggiò un sorriso radioso e girò il foglio verso di lui.

«Pioggia» dichiarò entusiasta. Una schiera di goccioline affollava il disegno, sfumando i contorni di una città schizzata a carboncino.

Ludwig gioì interiormente per quell’opera: il paesaggio urbano era chiaramente frutto della fantasia del giovane – i comignoli attorcigliati come cavatappi e le porte dalle forme stravaganti ne erano un segno lampante -, ma il temporale era sicuramente il calco di quello che batteva sul vetro della sua camera in quel momento.

«Mi piace disegnare la pioggia» trillò Feliciano, appoggiando il foglio alla scrivania. «Mi ricorda noi.»

Ludwig concordò con un cenno della testa. Il loro primo bacio, la confessione di Feliciano sul suo passato, perfino la loro prima volta avevano avuto come sottofondo lo scroscio di un acquazzone. D’altronde, Venezia non era famosa per il suo clima secco e soleggiato.

«Solo…» Feliciano si voltò per abbracciare il tedesco, e articolò il resto della frase sul suo petto. «Solo la volta in cui sei venuto a prendermi a scuola non pioveva.»

«La prima volta» gli ricordò Ludwig, stringendo a sua volta il corpo sottile del giovane. «Quelle dopo ha piovuto.»

«Non sempre.»

«Quasi sempre.»

Feliciano ridacchiò, annuendo contro la sua clavicola.

«Le cose sono migliorate» mormorò, esultante. «Ora non mi prendono più in giro come una volta.»

Ludwig inarcò un sopracciglio come un sergente.

«Sul serio» avvalorò Feliciano. «Lo fanno ancora ogni tanto, ma non mi strappano più i disegni, e non mi lanciano più lo zaino fuori dalla finestra.»

L’abbraccio del tedesco si fece più stretto sui suoi fianchi, e Feliciano stampò un sorriso sul suo collo. Ludwig non gradiva per nulla il racconto delle angherie che l’italiano era stato costretto a subire, ma non ne ostacolava la narrazione: sapeva che per Feliciano era importante sfogare quell’acido, dopo averlo lasciato fermentare sullo stomaco per tutto quel tempo.

«Ora sono contento» sussurrò, facendo le fusa come un gatto. «Sono davvero contento.»

Feliciano sgusciò rapido dalla presa del tedesco e si tuffò sotto le coperte, da cui emerse poco dopo per occhieggiare il fidanzato.

«Mi raggiungi?» domandò, inclinando la testa.

Anche la parlantina del ragazzo aveva risentito del suo cambio di prospettiva: ora una frana continua di parole ruzzolava dalle labbra del giovane, elettrizzate da quella nuova attività dopo tanti anni di forzato silenzio.

Ludwig si stese a sua volta sotto le coltri, lasciando cadere il lenzuolo che lo aveva coperto fino a quel momento.

Feliciano si accoccolò contro di lui, rannicchiandosi nel suo calore.

«Non sono contento» ritrattò, avviticchiandosi al fidanzato. «Sono felice. Completamente felice.»

«Non stai esagerando?» lo smorzò Ludwig, con la sua rigidità priva di cattiveria.

I capelli del ragazzo gli solleticarono il petto quando questo scosse la testa in cenno di diniego.

«Se non è questa la felicità, non so cosa potrebbe esserlo» gorgheggiò felice. «Mi sembra che il cuore sia troppo piccolo per contenerla tutta.»

A dispetto della sua espressione inflessibile, Ludwig arrossì per le parole del giovane: l’artista estraeva quelle metafore dalla sua anima solo per lui.

Feliciano gli appoggiò l’orecchio allo sterno e sospirò piano:

«Tu sei felice quanto me?»

Ludwig, che ancora non aveva vinto la guerra contro la parte più ritrosa del suo carattere, dovette concedersi qualche secondo di esercizio respiratorio prima di riuscire ad avvicinarsi all’orecchio del giovane e bisbigliargli la sua risposta.

Feliciano reagì come una molla, atterrandogli sull’addome con espressione raggiante e lanciandogli le braccia intorno al collo.

L’italiano sublimò la gioia in una risata incontenibile, Ludwig in un imbarazzo che gli colorò le gote e gli cucì le labbra.

Poi Feliciano si allungò su di lui per raggiungere la sua bocca, e la felicità scanzonata di poco prima lasciò il posto a un sentimento più languido, che spinse i loro corpi nudi uno sull’altro.

Le iridi azzurre del tedesco si immersero in quelle castane dell’italiano, che lo fissavano dal basso, scintillanti di affetto e attesa. La luce di quegli occhi caldi si era rafforzata, sancendo un altro cambiamento negli atteggiamenti del giovane: quel bagliore era sempre stato presente, ma smorzato e soffocato dalla cattiveria del mondo, mentre ora era vivido e palpitante, abbastanza forte da rischiarare tutto il viso del giovane.

Le dita del tedesco percorsero il collo, si aprirono sul petto, scivolarono sulla pancia e si fermarono sulle gambe.

Feliciano schiuse le cosce magre e spiegò le labbra in un sorriso, stringendo il fidanzato a sé.

Ludwig rimase ancora qualche istante a contemplarlo, le labbra strette che tentavano di dissimulare la reale emozione: le pupille che lo fissavano adoranti, il corpo ancora parzialmente acerbo, e l’anima esuberante che finalmente trasudava libera dalla pelle del giovane.

Non aveva capito del tutto la ragione per cui il cugino aveva abbandonato l’intera famiglia per una sola persona, e non lo aveva compreso fino in fondo nemmeno nel primo periodo in cui aveva frequentato Feliciano. Ma in quel momento, ora che i loro sentimenti erano stati rafforzati dal vissuto trascorso insieme e che i momenti di intimità avevano creato una catena inossidabile tra di loro… in quel momento, sentiva finalmente di poter capire.

«Dobbiamo cominciare a pensare al modo in cui dirlo alle nostre famiglie.»

Feliciano non colse subito il reale significato delle parole del suo fidanzato. Gli occhi castani lo fissarono perplessi per qualche istante, prima di spalancarsi per la meraviglia.

Un risolino misto a lacrime irruppe sulla sua spalla, quando l’italiano lo abbracciò con tutte le sue forze.

«Non sarà facile» ansò, il fiato spezzettato dalle risa e dalle lacrime di contentezza. «Nemmeno per Lovino e Antonio è stato semplice.»

«Nemmeno per mio cugino» Ludwig costrinse gentilmente il ragazzo a distendersi nuovamente sul materasso e lo avvertì: «È possibile che la mia famiglia reagisca male, e che dicano delle cose terribili. L’ho già visto succedere in passato.»

La chioma di Feliciano frustò l’aria in uno spavaldo cenno di diniego.

«Non importa. Non importa affatto.»

Era sopravvissuto a una madre che aveva cercato di uccidere suo fratello, aveva resistito per tutti i lunghi anni di sevizie scolastiche completamente solo; avrebbe sopportato più che bene qualche maldicenza, se Ludwig fosse stato al suo fianco. Il solo fatto che il tedesco, che non usava mai una parola di troppo, fosse pronto a dichiarare ai suoi parenti il legame che aveva con lui lo riempiva di un insensato ottimismo.

Sentì il cuore aumentare il proprio voltaggio, battendo furiosamente contro la cassa toracica. Feliciano portò una mano al petto con espressione deliziata: ora poteva dire di conoscere davvero la felicità.

E si concesse tutta la sera per esprimere a Ludwig la sua gioia.

 

 

 

 

 

 

 

Ritardo madornale, di nuovo çAç Questa volta a tenermi lontana sono stati i preparativi e la partenza per il Giappone.

Questo aggiornamento è effettuato dalla terra del Sol Levante<3

Il prossimo capitolo sarà anche l’ultimo, purtroppo .-. ma la GerIta sarà presente nella prossima fanfic che ho intenzione di scrivere, anche se l’ambientazione sarà molto diversa xD

Ancora una volta, non posso che ringraziarvi per la costanza e la pazienza.

Grazie a tutti<3

Red

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Capitolo 10
*** Cornice ***


Cornice

 

«Abbiamo deciso che lo diremo.»

La scatola di colori a olio rimase a galleggiare nell’aria, e un’espressione confusa e sorpresa si librò negli occhi di Feliciano.

«Dire cosa a chi?» domandò il minore.

Lovino tirò distrattamente quell’unico ciuffo della sua chioma che proprio non riusciva a domare, mordicchiò le labbra, fissò il soffitto e sospirò:

«Ormai sono sei anni che stiamo insieme. È giusto che anche Lucia e Federico lo sappiano.»

Il maggiore percorse la stanza a veloci falcate e si mise a sedere sul letto, per poi lasciarsi cadere di schiena.

«Mi chiedo se i signori Carriedo avrebbero mai immaginato che il loro figlio naturale e il loro figlio adottivo si sarebbero messi insieme, quando hanno deciso di accogliere me e te in casa loro.»

«Lovino…»

«Non preoccuparti» lo rassicurò il fratello, rialzandosi dal letto con uno scatto addominale. «Aspetteremo che tu e Ludwig torniate dal vostro viaggio. Non vogliamo che vi perdiate il grande spettacolo.»

Feliciano si accucciò ai piedi del letto, e prese una mano del consanguineo tra le sue. Lovino faceva lo spavaldo, ma le sue dita tremavano appena. E Feliciano sapeva cosa significava quel brivido: il fratello voleva averlo vicino quando avrebbe rivelato tutto quanto ai suoi genitori adottivi. Per questo avrebbe aspettato il suo ritorno.

«Hai paura?»

«Lucia e Federico sono brave persone. Credo che capiranno» Lovino si strinse nelle spalle, ostentando una tranquillità che non provava. «Ma non so se… capiranno subito

Il maggiore passò una mano tra i capelli, per poi scompigliare quelli del fratello.

«Prima o poi toccherà anche a te e Ludiwg» la bocca ebbe una contrazione nervosa nel pronunciare il nome del fidanzato del fratello. «E temo che sarà molto più difficile, con quella zavorra mangia patate.»

«Ludwig mi aiuterà, quando verrà il momento» sorrise Feliciano. «L’ha sempre fatto.»

Lovino avrebbe voluto replicare con qualcosa di velenoso, ma l’espressione beata del fratello gli fece franare l’invettiva tra i denti: il suo viso aveva la luce di chi credeva fermamente di poter affrontare qualunque cosa pur di continuare a stringere la mano del suo innamorato.

Sospirò, abbassando il capo. Sperava solo che la vita non potesse mai spegnere il sorriso del fratello, e che quello stupido crucco si impegnasse a dovere per difenderlo.

«Rilassati, in montagna» gli augurò Lovino. «Quando tornerai, ci sarà il grande spettacolo.»

Il maggiore non riuscì a oltrepassare la porta: le braccia minute del fratello lo strinsero in vita, e una parola flebile scivolò sulla sua spalla:

«Grazie.»

L’indice e il pollice del maggiore schioccarono a elastico sulla sua fronte, e Lovino sbuffò un sorriso.

«Divertiti.»

Feliciano annuì, chiuse il borsone, se lo lanciò sulle spalle e scese le scale il più velocemente possibile.

Voleva raggiungere la stazione. Lì ci sarebbe stato Ludwig ad aspettarlo.

Aveva voglia di gettargli le braccia al collo e baciarlo, e stare attaccato al suo braccio per tutto il tempo del viaggio. E aspettava con impazienza che la notte scendesse per permettere loro di gustarsi un po’ di intimità.

Salì sull’autobus al volo, il cuore martellante contro le costole.

Non aveva dimenticato la bruma che aveva offuscato i giorni in cui era stato la vittima dei bulli. Anche se si era diradata, un poco di quella caligine era rimasta nascosta dentro di lui, a ricordargli quanto la gente potesse essere malvagia, anche senza ragioni apparenti. Ma la luce che lui e Ludwig cercavano di mantenere viva era colata ovunque nel suo mondo, facendogli riscoprire i colori che prima erano infangati nella penombra.

Scese dall’autobus di corsa, e accelerò ulteriormente quando lo vide aspettare di fronte alla stazione.

«Ludwig!» lo chiamò.

E gli gettò le braccia al collo e si sporse per baciarlo proprio come aveva immaginato sull’autobus.

E il Ludwig reale rispose ancora meglio di quello nella sua fantasia.

Aveva ancora tante tele e tanta voglia di dipingere, e il mondo esterno era pieno di colori splendidi. Non vedeva l’ora che Ludwig glieli mostrasse tutti.










E con questo capitolo si conclude la storia ç_ç

Vi chiedo di nuovo enormemente scusa per il ritardo con cui mi presento, ma gli ultimi mesi sono stati un inferno, tra studio, esami e lavoro ç_ç Finalmente ho avuto un po' di tregua, e sono quindi riuscita ad aggiornare<3

Spero che il finale, sebbene breve, vi sia piaciuto<3 E la storia non finisce propriamente qui: ci sarà un seguito, incentrato su Lovino e Antonio, in cui compariranno anche i due protagonisti di questa fanfiction<3 Il titolo non è ancora stato deciso, ma ho già scritto i primi capitoli<3 Posterò anticipazioni e informazioni a riguardo nella mia pagina di FB<3

Se invece avete voglia di altro GerIta made in Red a partire da ora... lo troverete in Caleidoscopio, una fanfiction nuova di zecca che pubblicherò proprio oggi<3

E ancora una volta... grazie a tutti voi che avete accompagnato fino alla fine Feliciano e Ludwig<3

Grazie di cuore<3

Alla prossima!

Red

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