Quello che vedi nella tela di HamletRedDiablo (/viewuser.php?uid=56405)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bolzano ***
Capitolo 2: *** Rialto ***
Capitolo 3: *** Quadro ***
Capitolo 4: *** Ritratto ***
Capitolo 5: *** Carboncino ***
Capitolo 6: *** Schizzo ***
Capitolo 7: *** Squadratura ***
Capitolo 8: *** Vignetta ***
Capitolo 9: *** Pennino ***
Capitolo 10: *** Cornice ***
Capitolo 1 *** Bolzano ***
Alla
sister.
Buon
compleanno,
soulmate<3
Viva
il 26
dicembre<3<3<3<3
Quello che
vedi nella tela
La
prima volta che lo aveva visto, avevano entrambi sei
anni.
Era
poco più di un cappotto troppo gonfio di vestiti, da cui
spuntavano un visetto paffuto con gli occhi vispi e due iperattive
gambette
tozze; un piccolo ciclone di lana che rotolava da una bancarella
all’altra.
Non
si assomigliavano per nulla: mentre quel piccolo uragano
sfrecciava in giro per il mercato, lui dava una mano ai genitori nello
stand di
famiglia, addobbato con il costume tradizionale.
A
Natale, Bolzano si ingioiellava con luminarie di diverse
forme e colori, si profumava con gli allettanti odori delle frittelle
di mele e
dei pretzel caldi, si animava con
il
mercatino rinomato in tutta Italia.
Ludwig
adorava il Natale: aiutando i genitori
nell’allestimento e nella gestione della bancarella, aveva la
possibilità di
godersi la fiera dal primo all’ultimo momento. Era una
sensazione impagabile
stare immerso negli odori speziati e nelle carole che rimbalzavano di
stand in
stand, e nell’inspiegabile gioia che permeava i volti di
tutti i presenti.
Vendevano
strudel,
nel banco di famiglia. E fu proprio l’aroma del dolce ad
attirare il pupo infagottato.
«Che
cos’è lo strudel?»
Ludwig
pensò per un attimo che le assi inchiodate della loro
bancarella avessero cominciato a parlare: non vedeva nessuno, eppure
aveva
sentito una voce. Una voce che si esprimeva con un pessimo accento:
aveva
pronunciato il nome della pietanza indugiando e strascicando sulle
lettere come
se ognuna di loro fosse stata fatta di fango.
«E’
un dolce di mele e uvetta, piccolo» la risposta venne da
sua madre, che guardava verso il basso con un’espressione
deliziata. «Oh,
Ludwig, guardalo! E’ una delle cose più carine che
abbia mai visto!» trillò in
tedesco, aiutando il figlio a sporgersi dal bancone.
«Deve
avere la tua età» gli bisbigliò la
madre, in italiano
questa volta.
Ludwig
inarcò un sopracciglio biondo, per nulla persuaso.
Era impossibile che lui e quel cucciolo condividessero la data di
nascita: il
suo naso arrivava perlomeno a sfiorare il bancone, mentre quello del
piccino
era tristemente fermo alle assi di mezzo.
Le
manine guantate palparono le tasche sovraffollate del
giubbotto, ne estrassero alcuni euro che vennero debitamente
– e lentamente –
contati. Il bambino sembrò arrancare nei numeri, poi
desistette e tese la
manina verso i venditori, con le monete bene in vista.
«E’
sufficiente?» domandò, intristito per il
fallimento
matematico.
La
mamma prelevò qualche euro in meno rispetto ai loro
soliti prezzi e tranquillizzò il piccolo:
«Queste
bastano. Ludwig, vuoi darglielo tu?»
Il
bimbo dai capelli biondi asserì e scese per impacchettare
il dolce e consegnarlo.
Si
sporse nuovamente dal bancone, ma si presentò subito uno
sgradito imprevisto: per quanto il pupo incappottato si sporgesse, le
sue dita
non arrivavano a sfiorare la confezione rosso brillante.
Così
Ludwig si arrese all’evidenza e uscì nel vento
natalizio per concludere la vendita.
Non
lo accolsero solo le intemperie che tutti sopportavano
con un instancabile sorriso: due fanali castani lo abbagliarono. O
almeno, fu
quella l’impressione che ebbe quando gli occhi spalancati per
l’emozione del
bambino si poggiarono su di lui e lo scrutarono con una
curiosità galoppante.
«Anche
tu parli la lingua buffa?» cinguettò il cucciolo,
stringendosi al petto il pacchetto con il dolce.
«Parlo
italiano e tedesco» replicò Ludwig,
impercettibilmente infastidito da quell’intrusione.
«E’
bello parlare due lingue?» insistette l’altro,
dondolandosi sulle gambe tondette.
Ludwig
annuì con il capo, augurandosi di riuscire ad
arginare la petulanza del nanerottolo. Vana speranza.
«Sei
un ladro, vero?» lo pungolò con totale innocenza
il
piccolo.
«Sono
un onesto venditore!» si difese Ludwig, le guance imporporate
per il freddo e l’offesa. Non sapeva esattamente cosa volesse
dire la frase che
aveva appena pronunciato, ma l’aveva sentita così
tante volte in televisione
che qualcosa doveva pur significare.
«Avevo
sentito una favola. Non mi ricordo il nome del
protagonista» la guance del bimbo salirono in un sorriso per
rimediare alla
lacuna della memoria. «Però quel tizio, per
rendersi più bello, aveva rubato i
colori del cielo e se li era messi addosso. Non mi ricordo in che modo,
però»
sorrise di nuovo per supplire alla seconda mancanza. «Ma tu
hai fatto lo
stesso, giusto? E ti sei messo il colore del cielo negli
occhi.»
«Sono
nato così» lo smontò Ludwig.
Sul
viso del bimbo si dipinse un “O” di stupore e
meraviglia
a quella scoperta.
«E’
possibile nascere come te?»
Ludwig
non seppe se prendere quella domanda come un
complimento o un’offesa. Sorvolò sulla decisione e
rispose:
«E’
normale nascere come me.»
Il
bimbo lo fissò annuendo a vuoto, sempre più
sorpreso.
«Sei
qui tutti gli anni?» volle sapere, indiscreto.
Ludwig
annuì di nuovo, innervosito da
quell’interrogatorio:
doveva tornare dentro e aiutare sua madre con i clienti, non poteva
stare fuori
a fare salotto.
«Allora
tornerò a trovarti!» decise il piccoletto in un
trillo di giubilo. Fece per andarsene, poi zampettò indietro
sui suoi passi,
dimentico di un dettaglio fondamentale: «Come ti
chiami?»
«Ludwig»
comunicò l’altro.
Il
bimbo inaugurò il sorriso delle grandi occasioni nel
presentarsi:
«Io
mi chiamo Feliciano.»
Dopodiché
sparì nelle strade sovraffollate, lasciandosi
dietro solo il ricordo di un cappotto troppo pieno di vestiti e
curiosità.
«Hai
fatto amicizia?» s’informò la madre,
entusiasta.
«Gli
ho solo detto il nome. E lui mi ha detto il suo»
minimizzò Ludwig.
«E’
così che si comincia ad essere amici»
gioì la madre.
Ludwig
si strinse nelle spalle e continuò a lavorare come un
solerte folletto, impacchettando porzioni più o meno grandi
di strudel.
Ma
un ronzio di sottofondo lo accompagnò per tutta la
giornata. C’era una cosa particolarmente strana tra le cose
strane di quel
ragazzo.
Aveva
più o meno la sua età. Era troppo piccolo per
girare
da solo: sua madre pretendeva ancora di stringergli la mano per
attraversare la
strada, e non lo perdeva mai d’occhio quando erano in giro.
Dove
erano i suoi genitori?
***
Feliciano
aveva mantenuto la parola: era tornato l’anno
successivo.
E
quello dopo. E quello dopo ancora.
Si
erano visti crescere a vicenda: pian piano anche il naso
del più piccolo aveva raggiunto il bancone e lo aveva
superato, pur rimanendo
ad un’altezza inferiore rispetto a quella
dell’amico.
Ludwig
era cresciuto secondo i dettami tedeschi: spalle
ampie, altezza impressionante e fisico robusto; capelli biondi e occhi
celesti
completavano il quadro del perfetto nibelungo.
Feliciano,
al contrario, era germogliato come un giunco,
sottile e delicato, gli occhi sempre grandi e sgranati su un viso
piccolo e
dolce, l’opposto di quello squadrato dell’amico.
Con
gli anni, Feliciano aveva imparato quali fossero gli
orari migliori per accaparrarsi l’attenzione del tedesco. Non
mancava mai di
onorare la tradizionale compravendita dello strudel
alla loro bancarella: la madre di Ludwig lo viziava ogni anno,
facendogli
pagare il dolce a prezzo ridotto e inondandolo con una pioggia di
complimenti
su quanto stesse diventando bello. Se Feliciano non fosse stato la
personificazione dell’ingenuità, Ludwig avrebbe
potuto pensare che venisse al
loro stand solo per le lodi e il dolce scontato.
Ma
non era così: Feliciano aspettava tutto il giorno,
gironzolando per la città, che l’affluenza al
mercatino diminuisse. Sapeva che,
in quel momento, Ludwig poteva permettersi uno stacco dal lavoro. Era
sempre
puntuale nel farsi trovare fuori dalla bancarella, e passavano il resto
del
pomeriggio a chiacchierare e girovagare per la città in
festa.
Si
vedevano un solo giorno all’anno, quindi non vi erano mai
momenti di silenzio imbarazzato: le parole fluivano da sole. Per essere
più
precisi, un torrente di discorsi fioriva dalla bocca elettrizzata di
Feliciano,
e Ludwig ascoltava, annuiva e rispondeva alle domande
dell’amico su di giri.
Solo quando l’irruenza spumeggiante del ragazzo si placava il
tedesco
cominciava a raccontare a sua volta gli avvenimenti dell’anno
passato.
C’era
poi un momento particolare della giornata in cui
Feliciano sentiva l’urgenza di sedersi: allora si accomodava
sulla prima cosa
che trovava – un sasso, una fontana, una panchina -,
accavallava una gamba
sull’altra per formare un provvisorio tavolo da lavoro,
faceva comparire dalla
tracolla che si portava sempre dietro un album di disegno e cominciava
a
schizzare.
I
primi anni i suoi abbozzi erano scarabocchi nel vero senso
della parola: gente con le ruote al posto dei piedi, case geometriche e
alberi
conici. Ma, con il passare del tempo, la tecnica si era notevolmente
affinata:
ora la realtà poteva trovare un corrispettivo soddisfacente
negli abbozzi del
giovane. In quei momenti, Ludwig riusciva a sistemare la sua
ingombrante stazza
alle spalle dell’italiano e sbirciava con rispetto la
fantasia di Feliciano che
prendeva vita sulla carta. Non lo aveva mai visto disegnare due volte
lo stesso
soggetto: una volta comparivano persone, un'altra animali,
un’altra ancora una
natura morta.
Quello
che gli era piaciuto di più era lo schizzo di un
bosco che aveva fatto tre anni prima: i chiaroscuri approfondivano la
scena,
donando la sensazione di una foresta pulsante di vita nascosta, le
foglie si
differenziavano tra quelle delle conifere e dei sempreverdi, un
ruscello
scintillava sullo sfondo. Era l’opera migliore di Feliciano,
a suo parere. Una
volta gli aveva chiesto se l’avrebbe mai realizzata come un
quadro definitivo,
e, a quella domanda, l’amico aveva dondolato la testa avanti
e indietro più
volte, come un metronomo scoordinato. Non ci aveva ancora pensato, ma
poteva
non essere una brutta idea.
Tuttavia,
da quel giorno Feliciano non aveva più disegnato
una foresta. Sperava solo di non averlo offeso con il suo commento.
Sarebbe
stato il primo, probabilmente, ad avere mai ferito
l’italiano: il sorriso
inossidabile di Feliciano pareva scolpito direttamente sul suo viso,
intoccabile e impossibile da cambiare, qualunque cosa avvenisse. Si
chiedeva se
i suoi genitori non gli avessero dato quel nome apposta.
Non
avevano mai parlato della famiglia di Feliciano. Ludwig
non sapeva cosa si celasse dietro il silenzio dell’amico, per
cui aveva preferito
tacere: l’ultima cosa che voleva era risvegliare ricordi che
potessero
offuscare il sempiterno sorriso dell’amico.
Avevano
continuato così per dieci anni, vedendosi unicamente
per i mercatini e recuperando in un unico giorno tutto il tempo
perduto. Ludwig
non aveva accettato subito la presenza di quel nanerottolo nella sua
vita: la
prima volta che lo aveva rivisto era rimasto guardingo e sospettoso,
indeciso
se fidarsi di quell’estraneo che si intrometteva senza
ritegno nella sua vita.
Anche il secondo anno non era stato precisamente amichevole, nonostante
la
costanza del bimbo che lo aspettava fiducioso fuori dalla bancarella.
Il
terzo anno era riuscito a sciogliersi un po’ di
più,
incitato dall’esuberanza candida del bambino. Al quarto aveva
deciso di
accettare quello strano italiano, pur non condividendo del tutto il suo
modo di
fare svampito e fin troppo spensierato. Avevano continuato a vedersi
ogni
ventiquattro dicembre, coltivando quella strana amicizia che cresceva a
ritmi
così dilatati.
Per
quel Natale, sua madre aveva deciso che, in onore dei
suoi sedici anni, avrebbe potuto accompagnare Feliciano fino alla
stazione,
previa promessa di guardare bene a destra e sinistra prima di
attraversare e di
non fermarsi a parlare con gli sconosciuti.
Era
commovente la solerzia con cui sua madre continuava a
preoccuparsi per lui, nonostante gli mancassero solo due anni al
raggiungimento
della maggiore età.
Avevano
raggiunto la stazione, Feliciano parlava e Ludwig
ascoltava, e si erano recati al binario che avrebbe riportato Feliciano
a
Venezia, dove viveva.
L’italiano
restò in contemplazione del treno per qualche
istante, spostando il peso da un piede all’altro, come in
preda
all’indecisione.
«Ludwig?»
lo chiamò all’improvviso, con quell’aria
perennemente svagata.
Il
tedesco lo guardò, in attesa del seguito.
Feliciano
esplorò la sua tracolla debordante delle
cianfrusaglie più disparate, ed il trionfo dilagò
sul suo volto quando riuscì
ad appropriarsi di un foglietto spiegazzato provato dal viaggio.
«Non
aspettiamo di nuovo un anno per risentirci» lo
salutò,
consegnandogli il biglietto direttamente in mano e salendo al volo sul
treno.
Perplesso,
Ludwig spianò il foglietto e lesse quanto scritto
sopra.
La
grafia tondeggiante di Feliciano aveva vergato un numero
di telefono e un indirizzo e-mail.
Ludwig
fissò il biglietto per qualche istante, come per
sorvegliare le scritte e impedire loro di mutare sotto i suoi occhi.
Poi piegò
il foglietto, lo infilò nella tasca dei pantaloni e
tornò verso la sua
bancarella.
Aveva
già deciso cosa fare.
***
Feliciano
si gettò sul letto, esausto dal viaggio.
La
tratta Bolzano-Venezia era una tortura in quel periodo
dell’anno, specie se uno sciopero dei treni aggravava la
già scarsa efficienza
delle ferrovie.
Affondò
il viso nel guanciale con gratitudine, saggiando la
morbidezza del letto, mai così confortevole.
Gli
bastò meno di un secondo a scattare in piedi quando il
telefono squillò. Afferrò la tracolla e ne
rovesciò il contenuto sul letto,
alla ricerca del cellulare.
Un
numero mai visto prima lampeggiò sul display, mentre la
musica scelta come suoneria strombazzava allegramente le sue note.
«Pronto?»
ansò, provato dalla ricerca e dall’emozione.
«Sei
arrivato a casa?» indagò una voce composta
all’altro
capo.
Feliciano
quasi si ruppe la faccia tanto fu ampio il suo
sorriso.
«Sì»
festeggiò, lanciandosi sul letto con l’espressione
sorniona di un gatto cui vengono fatte le coccole, incurante delle
carabattole
che si infilavano ovunque nei suoi vestiti. «Sono a casa.
Tu?»
«Anche
io. Come è andato il viaggio?»
Poteva
immaginare benissimo l’espressione impeccabile
dell’amico, tesa a non lasciare trapelare troppe emozioni.
Ludwig non si era
mai accorto che, anche se le labbra restavano tirate in una linea
marziale, il
mutare dei suoi occhi rivelava piuttosto chiaramente cosa stesse
pensando.
Non
poteva vedere i mutamenti delle iridi dell’amico, ma non
importava.
Non
avrebbe dovuto aspettare il prossimo Natale per ricevere
il suo regalo preferito.
Prima GerIta
in assoluto.
Dedicata,
nella sua interezza,
alla sister-soulmate<3<3<3<3
Dunque,
questo è poco più di un
prologo.
Volevo
un’ambientazione in cui
fosse plausibile che un tedesco e un italiano si incontrassero, e ho
pensato a
Bolzano. Il resto della storia avrà ben poco a che fare con
i mercatini
natalizi XD
Questo
capitolo è una volata sul
loro rapporto finora, giusto per dare un’idea generale.
Dai prossimi
capitoli, il punto
focale sarà la loro amicizia… e non solo amicizia<3
Grazie a
tutti per essere
arrivati fin qui<3
Red
P.S.
Ancora tanti auguri, sis<3<3<3<3
Secondo P.S. I banner sono di Clau-tan<3<3<3 |
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Rialto ***
Rialto
«Feliciano,
se non rispondi al telefono lo butto dalla
finestra!»
Il
ragazzo si precipitò fuori dalla doccia ancora nudo e
gocciolante,
e solo il pronto ammonimento del fratello gli impedì di
andarsene in giro per
casa come la natura lo aveva creato:
«Copriti
prima di uscire!»
Feliciano
tolse la mano dal pomello della porta del bagno,
si avvolse nell’accappatoio di un bell’arancione
violento e uscì, disseminando
il corridoio di pozze d’acqua.
Il
fratello lanciò un’occhiata di biasimo ai piccoli
laghi
che inzaccheravano la breve distanza tra il bagno e la loro camera.
«Dovevi
metterti anche le ciabatte» gli ricordò,
più
impegnato a cercare la sua giacca a vento che a rimproverare lo sbadato
consanguineo.
«Pronto?»
trillò Feliciano, rispondendo al cellulare.
Lovino
trovò finalmente la giacca, la gettò sul letto e
procedette ad allacciarsi le scarpe, un’ombra di disappunto
sul volto: dal tono
gorgheggiante, il fratello doveva essere al telefono con il crucco.
Sobbalzò
quando Feliciano lanciò un mezzo strillo di giubilo,
innaffiando il cellulare con una serie di domande gorgheggiate.
Al
termine della telefonata, il ragazzo lanciò il telefono
contro il cuscino e saltò ad abbrancare il fratello per le
spalle.
«Lovino!»
cantò, entusiasta. «Non indovinerai
mai!»
«Che
ha combinato, il mangia patate?» chiese l’altro,
senza
interesse.
«Sei
di cattivo umore?» si impensierì Feliciano,
sporgendosi
dalla spalla del fratello per fissarlo in viso. «Il tuo
ragazzo ti ha fatto
arrabbiare?»
L’espressione
di Lovino si incrinò per quella domanda
indelicata.
«Non
sono arrabbiato. Ma sai come la penso su quel crucco»
liquidò il ragazzo, chinandosi per allacciarsi le scarpe.
Feliciano non mollò
la presa sulle sue spalle, così si ritrovò
spalmato sulla schiena curva del
fratello.
«Meno
male. Temevo che avessi litigato con Antonio.»
«Vuoi
dirmi quali sono le novità del crucco?» lo mise
alle
strette Lovino. Conosceva il modo di fare del consanguineo: se non lo
conduceva
sui binari corretti, era capace di divagare per ore intere. Ed aveva
una
predilezione ad interessarsi della sua vita privata: era disarmante il
candore
con cui Feliciano si informava dei dettagli piccanti del suo rapporto
con
Antonio. Ed era allucinante la spensieratezza con cui Antonio glieli
forniva,
quando si incontravano. Quei due erano un binomio micidiale per la sua
reputazione.
«Verrà
a studiare a Venezia, da settembre. Qui da noi!»
gioì
Feliciano.
«Che
gioia» la voce di Lovino si afflosciò, chiaro
indice
del suo scarso entusiasmo per la notizia. «E tutto questo
cosa ha a che fare
con te?»
«Mi
ha chiesto di accompagnarlo» spiegò
l’altro, lasciando
la presa per buttarsi sul letto. «Ha visto un annuncio per
una casa a Rialto, e
mi ha chiesto di mostrargli la strada.»
Se
una vipera gli avesse morso il calcagno, Lovino non
avrebbe avuto uno scatto altrettanto fulmineo.
«E
tu lo accompagnerai? In un appartamento? Da solo?»
l’ugola del ragazzo salì di un’ottava ad
ogni cenno assertivo del fratello. «Ma
sei pazzo?»
«Perché?»
domandò Feliciano.
«Potrebbe
approfittarsi di te!» esacerbò Lovino, afferrando
il consanguineo per le spalle.
«Approfittarsi?»
l’altro inclinò la testa sulla spalla come
un cagnolino.
«Potrebbe
farti delle cose… scabrose» lo avvertì
il
fratello.
Una
minuscola ruga si disegnò alla radice del naso di
Feliciano, esprimendo la sua confusione. Poi il viso si
illuminò e cinguettò:
«Come
quelle che fai con Antonio?» il giovane non si accorse
di avere praticamente freddato il consanguineo con quelle poche parole,
e
proseguì: «Ma Antonio dice che sei contento
di…»
«Chi
se ne frega di quello che dice Antonio! Stiamo parlando
di te e… e di uno strudel
biondo!»
sbottò Lovino. Avrebbe dovuto mettere delle ulteriori
restrizioni al
vocabolario che il suo ragazzo poteva utilizzare in presenza di suo
fratello:
non voleva che Feliciano venisse a sapere cos’era successo
quella volta che
avevano bevuto un bicchiere di troppo.
«Ma
ci sarà anche il proprietario di casa. E un altro
ragazzo che vuole visitare l’appartamento»
valutò il minore.
L’occhio
destro di Lovino pulsò.
«Perché
non l’hai detto subito?»
«Perché
non mi hai lasciato finire.»
Il
maggiore lo lasciò andare, si gettò la giacca
sulle
spalle e inforcò la porta.
«Se
è così, allora puoi andare. Ma tieni a portata di
mano
lo spray al peperoncino» si raccomandò Lovino.
«Ma
non ho uno spray di quel genere» replicò Feliciano.
«Lo
avrai. Entro stasera. Te lo posso garantire» promise
l’altro,
chiudendo la zip del giubbotto e uscendo di casa.
***
Fu
così che, quattro giorni dopo, una simpatica boccetta di
spray antistupro accompagnò Feliciano in stazione.
Non
faticò a trovare il suo amico: la chioma bionda svettava
di parecchi centimetri sulle teste del resto della gente.
Nemmeno
Ludwig impiegò troppo tempo a riconoscerlo: c’era
solo una persona in tutto il mondo capace di saltellare come un pupazzo
a molla
in mezzo alla ressa, incurante dei possibili disastri provocati dalle
sue mani
sventolanti.
«Ludwig!»
gioì, raggiungendolo con un balzo;
l’inconfondibile
tracolla in cui riponeva gli strumenti da disegno caracollò
contro le sue tibie
e contro le ginocchia dell’amico per il troppo entusiasmo.
Il
tedesco cercò di portarlo fuori dalla calca: quando era
troppo felice, l’amico tendeva a perdere la connessione con
la realtà, danneggiando
le persone circostanti con dita negli occhi e manate nello stomaco.
Una
volta fuori dalla stazione, Ludwig mostrò
l’indirizzo a
Feliciano, e la cartina sommaria che aveva stampato da Internet.
L’italiano
annuì, riconoscendo perfettamente le vie.
«A
che ora hai l’appuntamento?» domandò,
accompagnandolo
lungo il ponte di Calatrava.
«Tra…»
il tedesco controllò l’orologio e
rischiò quasi di
ammazzarsi per quella semplice operazione: gli scalini bassi e
l’infelice
scelta dei colori creavano una specie di illusione ottica per cui non
si
riusciva a distinguere bene la distanza dei gradini.
«Un’ora e mezzo.»
«Sei
venuto con un sacco di anticipo» si sorprese Feliciano,
sistemando meglio la tracolla che continuava a sobbalzare sulle
ginocchia.
«Ultimamente
ci sono stati troppi scioperi ferroviari.
Meglio essere prudenti» assentì serio Ludwig.
La
sua risposta era solo una parte di verità: era venuto con
tanto anticipo soprattutto per stare con il suo amico veneziano. Per
quanto le
telefonate potessero essere piacevoli, vedersi di persona era
decisamente
meglio. Ma non era necessario dirlo a Feliciano: sembrava
già abbastanza su di
giri.
«Allora
non c’è bisogno di andare subito
all’appartamento. Possiamo
fare un giro. Da questa parte» lo guidò
l’amico. Costeggiarono Piazzale Roma,
dove un lento corteo di autobus sostava e ripartiva, i pedoni in
perenne
competizione con le vetture per accaparrarsi il diritto di attraversare
per
primi le strisce pedonali.
Inforcarono
la corta stradina che attraversava l’abbozzo di
parco su un lato del piazzale, oltrepassarono i chioschi e si trovarono
di
fronte ad uno dei paesaggi più tipici di Venezia: un
marciapiede che scorreva a
fianco del canale salmastro. Una cabina pitturata del caratteristico
verde
scuro e una rientranza nel marciapiede costituivano il parcheggio delle
gondole, dove imbarcazioni e rematori attendevano qualche turista
attirato dai
divanetti rossi e dalla prospettiva di un giro panoramico.
Ludwig
venne colpito dall’aria di Venezia, impregnata
dell’odore pungente del mare e dell’inquinamento.
Era profondamente diversa
rispetto a quella di Bolzano, fresca e argentina.
Feliciano
lo guidò rapido attraverso i ponti, le calli e i
sestieri, in quello che a Ludwig apparve come un dedalo inestricabile
di vicoli
stretti e, soprattutto, uguali. Si chiedeva se fosse davvero possibile
orientarsi in una città del genere come faceva
l’amico, e quanto ci sarebbe
voluto per acquisire la sua stessa sicurezza.
Feliciano
cercò di dargli qualche coordinata – Campo Santa
Margherita, Rio Nuovo e altri – che Ludwig cercò
di memorizzare a discapito del
suo orientamento disfattista: non gli sarebbe bastato quel giro per
imparare la
strada.
«Questa
è la sede centrale
dell’università» lo avvisò
Feliciano, quando passarono vicino ad un altissimo cancello di ferro,
oltre il
quale era possibile vedere una piccola piazzola che precedeva un
imponente
edificio immacolato.
«Anche
tu verrai qui ad immatricolarti, l’anno prossimo?»
chiese Ludwig per rallentare la velocità
dell’amico: già a Bolzano aveva notato
che Feliciano tendeva a camminare con la rapidità di un
bersagliere, ma in quei
vicoli tortuosi la sua peculiarità era ancora più
evidente, paragonata al goffo
incespicare dei turisti. Cominciava a capire l’espressione
“passo da
veneziano”.
L’amico
si arrestò in mezzo alla strada, rischiando di
provocare un ingorgo.
«Oh,
no. Tra due anni, forse. Ma non penso di venire alla Cà
Foscari. Mi sa che andrò all’Accademia di Belle
Arti» espose Feliciano,
riprendendo a camminare.
«Tra
due anni?» ripeté Ludwig.
«Sono
al quarto anno di liceo» annunciò
l’amico. «Il
prossimo anno ho la maturità.»
«Ma
tu non hai diciotto anni, come me» lo mise in dubbio
Ludwig.
«Ma
io compio gli anni ad aprile. Tu a dicembre»
squillò Feliciano,
infilandosi nell’ennesimo vicolo a misura d’uomo.
Ludwig lo seguì veloce,
lasciando perdere i calcoli sull’età e sui mesi
che li separavano.
Feliciano
si fermò di nuovo nel bel mezzo della calle, e
Ludwig ed un’altra dozzina di persone dovettero improvvisare
uno scoordinato balletto
per evitarlo.
«Hai
fame?» chiese a bruciapelo. «Questo fornaio
è ottimo!»
e si lanciò dentro il negozio senza aspettare la risposta
dell’amico.
Ludwig
trattenne un sospiro, seguendo lo scompigliato
italiano. Ormai conosceva il temperamento infantile e vivace
dell’amico.
Era
anche per quello che gli aveva chiesto di accompagnarlo:
una città sconosciuta sembrava molto meno ostile se
Feliciano la sommergeva con
la sua allegria variopinta.
***
Feliciano
lo aveva convinto a comprare a sua volta un panino
coperto di zucchero. I pasticceri e i fornai del luogo non spiccavano
in
originalità: era circa la quarta
“veneziana” che vedeva nel giro di una giornata;
le prime erano state delle frittelle all’uvetta, poi aveva
notato lo stesso
nome su un particolare tipo di pasta, e di nuovo nel cartello di una
pasticceria. E ora quel panino. Inestricabili misteri
dell’arte fornaia del capoluogo
dei canali.
L’italiano
lo condusse in una piazzola per mangiare. Il
bello di quella città era che offriva spesso la
possibilità di sedersi, se non
si era troppo schizzinosi sul numero di piccioni che potevano aver
usato quello
stesso sedile come gabinetto.
Ludwig
ispezionò con diffidenza la tozza panchina prima di
sedersi, seguito da Feliciano.
«Ti
piace Venezia?» chiese l’italiano, estraendo il
panino
dall’incarto del fornaio e addentandolo.
Il
tedesco si concesse un assaggio prima di rispondergli.
«Sono
appena arrivato, è troppo presto per decidere»
considerò diplomatico Ludwig.
«Oh.
E quando deciderai?» chiese Feliciano, tirando
l’unico
ciuffo spettinato della sua chioma con la mano libera dallo spuntino.
«Quando
avrò cominciato a viverci» replicò con
ovvietà
l’amico.
L’italiano
ebbe un guizzo, e in un attimo il panino sparì di
nuovo dentro il cartoccio, che venne a sua volta inabissato nella borsa
da cui
il ragazzo cominciò ad estrarre gli oggetti più
disparati.
«E’
la prima volta che vieni a Venezia! Dobbiamo commemorare
la cosa!» esultò, riempiendo la panchina di
cianfrusaglie mentre rovistava alla
ricerca il blocco da disegno.
«Hai
uno… spray al peperoncino?» si sorprese Ludwig,
quando
la famigerata boccetta fece la sua apparizione.
«Me
l’ha dato mio fratello» confermò
Feliciano. Album, gomma
e matita a mine emersero dalla tracolla, che venne nuovamente stipata
del resto
delle carabattole. «Si preoccupa sempre per me. E’
un bravo fratellone!»
«Ha
paura che ti saltino addosso?» si sorprese il tedesco.
«Temeva
che tu potessi farmi cose scabrose nel tuo
appartamento» espose serafico l’altro, sistemandosi
nella sua solita posa da
contorsionista per disegnare.
Ludwig
rimase immobile, il panino a mezz’aria e
l’espressione congelata, indeciso se ridere, offendersi o
sentirsi calunniato.
L’indecisione lo bloccò il tempo necessario a
catturare l’attenzione di
Felciano, che esclamò:
«Fermo
così!» e cominciò a schizzare
furiosamente.
La
matita a mine grattava il foglio ad una velocità
pazzesca, seguendo l’ispirazione intensa e improvvisa del
ragazzo. La gomma si
levò poche volte per cancellare, e lo fece sempre con
estrema rapidità per
lasciare di nuovo spazio alla collega di grafite.
«Da
quando schizzi ritratti?» si sorprese Ludwig.
«E’
la prima volta. Non parlare, devo disegnare la bocca» lo
sgridò in un sorriso Feliciano, perso nel suo mondo di fogli
e carboncini.
Ludwig
rimase pietrificato per qualche minuto prima di
sentire il braccio protestare e la crosta di zucchero sciogliersi in
una patina
collosa sotto il calore delle sue dita.
«Hai
mai disegnato altri boschi?» s’informò,
ricordandosi
del disegno che preferiva nelle produzioni dell’amico.
La
matita interruppe per un istante il suo fraseggio, poi
riprese con ulteriore vigore.
«Perché
me lo chiedi?» domandò l’altro di
rimando.
«Lo
schizzo che avevi fatto qualche anno fa era molto bello»
scandì con calma il tedesco.
«Ogni
tanto» fu la risposta vaga di Feliciano. Tracciò
quello che Ludwig riconobbe come il suo ultimo tratto:
l’amico aveva il vizio
di disegnare la riga finale con particolare forza, facendo compiere uno
svolazzo alla matita oltre il foglio. L’estremità
della penna venne accostata
alle labbra mentre il ragazzo valutava la qualità della sua
opera, ciondolando
la testa da un lato e dall’altro. Sistemò alcune
linee, approfondì le ombreggiature
dopodiché girò il foglio.
«Non
sono sicuro che sia venuto bene» si scusò
preventivamente.
Ludwig
osservò il disegno senza proferire una parola né
modificare la propria espressione.
Non
era perfetto in ogni dettaglio, ma il ritratto era di
sicuro ben fatto. La fronte era forse troppo ampia, gli occhi un
po’ troppo
ravvicinati e la proporzione tra mano e viso appena sbagliata, tuttavia
riusciva a riconoscersi in quel disegno. Il portamento severo, gli
occhi
perplessi al limite con il sospetto e la curva basita delle labbra
erano le
sue: anche il panino lasciato a metà era quello che gli
stava appiccicando le
dita con lo zucchero sciolto. L’amico aveva anche abbozzato
lo scenario
circostante, con linee molto più leggere di quelle riservate
al soggetto
principale.
«E’
molto bello» apprezzò composto. Finì il
malefico pane e
si pulì le mani appiccicaticce sul fazzoletto di carta del
fornaio.
«Davvero?»
Feliciano aveva l’espressione di un cucciolo
festante, e l’angolo della bocca del tedesco si
curvò in un alone di sorriso.
«Belle
Arti fa per te» confermò Ludwig.
Feliciano
sorrise esuberante, richiudendo l’album per
riporlo nella borsa.
«E’
la stessa cosa che mi ha detto Nonno Roma» gioì.
«Tuo…
nonno?» gli fece eco Ludwig. Feliciano non aveva mai
parlato della sua famiglia, e quella era la prima volta che menzionava
un suo
parente.
«Non
è proprio mio nonno» ponderò
l’italiano, incrociando le
braccia come un vecchio detective. «Era il fratello maggiore
di papà. Però
erano orfani, e lo zio gli ha fatto da padre. Così abbiamo
cominciato a
chiamarlo Nonno. E, visto che abita a Roma, è Nonno
Roma.»
Ludwig
aspettò che Feliciano avesse finito di rimettere a
posto i suoi attrezzi, e riuscì a chiedere:
«E
i tuoi genitori?»
«Penso
che sia ora di andare» l’italiano scattò
in piedi di
botto, guardandosi intorno per decidere la strada da prendere.
«Meglio arrivare
in anticipo, giusto?»
Ludwig
concordò con un cenno della testa, alzandosi a sua
volta.
Al
mondo esistevano vari segni che preannunciavano l’Apocalisse:
la pioggia di rane, i fiumi di sangue e il re dei ritardatari che
parlava di
“arrivare in anticipo”.
Si
affiancò all’amico e ripresero a parlare di
argomenti più
leggeri.
Ma,
nonostante l’apparente distrazione, Ludwig rimase fisso
su un pensiero: quanto era profonda la ferita che Feliciano nascondeva
dietro
la facciata di spensieratezza? E cosa l’aveva provocata?
Tentò
di minimizzare la visibilità dei suoi pensieri,
irrigidendo il viso e sforzandosi di sorridere.
Non
voleva certo essere lui a far soffrire ulteriormente
l’amico.
Ma
il dubbio non lo abbandonò per tutto il giorno.
***
«Quel
ragazzo sembra simpatico!»
«Ha
aperto bocca a malapena.»
«Perché
è timido. Deve essere simpatico.»
Ludwig
non indagò sulle cause del verdetto dell’amico:
Feliciano
agiva di cuore, mai di cervello. Forse era proprio da quella sua
spontaneità
che si alimentava il suo talento artistico.
«Scommetto
che non ti aspettavi di avere un coinquilino
giapponese!» cantilenò l’italiano,
ancora più euforico del normale: era la
prima volta che vedeva un asiatico in carne ed ossa. Quella sera
avrebbe
provato a disegnarlo. E magari Ludwig gli avrebbe permesso di andarli a
trovare
per una serie di ritratti, l’anno successivo. Occidente e
Oriente a confronto,
sulla stessa tela. Sarebbe stato grandioso!
«Parla
abbastanza bene l’italiano. Non dovremmo avere grossi
problemi di comunicazione» valutò Ludwig. Il
proprietario di casa, un uomo la
cui allegria era proporzionale alla misura del ventre ben pasciuto, gli
aveva
presentato il giapponese come uno studente modello giunto in Italia
grazie ad
una borsa di studio. Sarebbe rimasto a Venezia per un anno, poi avrebbe
fatto
ritorno al suo paese.
Il
giovane orientale si era presentato come Kiku Honda e,
dopo il nome, un numero veramente esiguo di parole era uscito dalle sue
labbra.
E Feliciano aveva deciso che quel giapponese era l’apoteosi
della simpatia.
Anche
dopo tanti anni di conoscenza, il tedesco faticava a
seguire i criteri di giudizio dell’amico.
La
voce nasale degli annunci ferroviari starnazzò il binario
del treno per Verona, interrompendo i suoi pensieri.
«E’
il tuo, giusto?» domandò Feliciano.
Ludwig
assentì. Fare il cambio a Verona era una cosa che
detestava: non esistevano coincidenze con i treni per Bolzano, ed era
sempre
costretto ad aspettare perlomeno mezz’ora in stazione. Si era
premunito di
libri, ma l’idea lo seccava ugualmente.
«Tornerai
a settembre?» sperò l’italiano, poco
prima che
l’amico salisse sul treno.
«Ti
farò sapere il giorno preciso» notificò
Ludwig. La sua
faccia assunse il cipiglio meditativo tipico dei pensieri complicati, e
il
tedesco macerò qualche istante nelle sue preoccupazioni
prima di chiedere con
la sua voce baritonale: «Sei sicuro che vada tutto
bene?»
Per
quanto avesse tentato di distrarsi, non riusciva a
dimenticare il repentino cambio di discorso dell’amico non
appena aveva
nominato i genitori. E nemmeno l’emozione fulminea che aveva
strisciato sotto
la sua pelle. Anche se Feliciano aveva tentato di dissimulare con tutte
le sue
forze, Ludwig l’aveva riconosciuta: dolore e paura, la
peggiore miscela
esistente al mondo. Era impossibile non accorgersi di un simile
miscuglio,
quando intorbidava il volto solitamente splendente
dell’italiano.
Feliciano
batté le palpebre con estrema lentezza, i
lineamenti insolitamente tirati ed immobili.
«Sì»
decise infine, stampandosi in faccia un bel sorriso.
«Ora va tutto bene.»
“Ora”.
Quindi le cose non erano sempre andate bene.
Ludwig
accettò quella risposta senza ulteriori commenti. Non
si sentiva offeso dal silenzio dell’italiano, tantomeno
tradito: Feliciano aveva
diritto di scegliere tempo e modo per rivelare i suoi segreti. La
tristezza che
gli ingolfava il petto era dovuta unicamente alla consapevolezza di non
poter
aiutare l’amico a scacciare quell’emozione malefica.
Ma
c’era una cosa che poteva fare.
Poggiò
con tutta la delicatezza di cui era capace la grande
mano sul capo dell’italiano, carezzandogli i capelli.
«Il
mio numero lo conosci» citò, inflessibile.
Quello
era il massimo che poteva fare: ricordargli che c’era
sempre qualcuno disposto ad ascoltarlo. E sembrò bastare a
Feliciano, che
recuperò finalmente il suo buonumore e non si
limitò ad inscenarlo.
«Grazie»
guaì quasi, felice.
Il
tedesco sorrise per riflesso e salì sul treno.
Aprì
il finestrino, sicuro che, come ogni volta al momento
della partenza, Feliciano avrebbe gridato qualcosa.
«Ti
aspetto a settembre!» urlò infatti il ragazzo,
sopra il
frastuono del treno, sopra i fischi dei controllori, sbracciandosi
nell’aria
piena di rumori. «Ricordati che ti aspetto!»
Ludwig
lo salutò dal finestrino, asserendo con il capo
biondo.
Poi
il treno partì, e l’ultima immagine che ebbe
dell’italiano fu una figurina minuscola
all’orizzonte, che ancora agitava le
braccia e si sgolava per salutarlo.
***
Lovino
si bloccò sulla porta della camera, la sorpresa e
l’orrore dipinti sul viso.
«Feliciano,
ti ricordi che il pavimento è fatto per
camminare, vero?»
Il
fratello assentì distrattamente, completamente assorto dalla
contemplazione di uno schizzo.
Lovino
sospirò, lanciando un’occhiata circolare alla
stanza.
Aveva l’impressione di essere precipitato in una bizzarra
nevicata fuori
stagione: al posto dei fiocchi di neve, dal cielo erano piovuti fogli
ricoperti
di studi creativi, accumulati sul pavimento, sulla scrivania e sul
letto.
Il
maggiore roteò gli occhi al cielo, e si infilò di
nuovo
la giacca che aveva appena tolto. Il turno al ristorante era finito
particolarmente tardi – il sabato sera non si smentiva mai,
purtroppo – e
l’ultima cosa di cui avvertiva il desiderio era passare il
resto della nottata
a scavare tra i fogli per trovare un angolo in cui accucciarsi.
Avrebbe
dormito da Antonio. Sperava solo che quei due
deficienti di Francis e Gilbert non facessero troppi commenti.
Serrò
la mandibola, rendendosi conto dell’impossibilità
della cosa: era sabato sera, ed il lavoro era stato sfiancante anche
per loro.
Sicuramente avevano bevuto qualcosa per riprendersi. E la spossatezza
riduceva
a livelli irrisori la loro capacità di tollerare
l’alcol. Passò una mano sul
viso, esasperato: sarebbero stati più molesti di un nugolo
di calabroni.
«Lovino»
lo chiamò il fratello, mostrandogli l’ultimo
disegno. Era la prova per il dipinto di un bosco, come tutte quelle che
inondavano la stanza: non passava giorno senza che Feliciano non si
esercitasse
a disegnare una foresta. La sua fissazione era sicuramente
riconducibile al
tedesco: tutto era cominciato dopo una sua visita a Bolzano, qualche
anno
prima. Chissà cosa gli aveva detto quello stupido crucco.
«Secondo
te sono pronto a metterlo su tela?» domandò
titubante, gli occhi che quasi tremavano.
Era
davvero ingenuo, il suo fratellino. Quasi disarmato
contro le infamie di quel brutto mondo.
«Eri
pronto dal primo abbozzo» rimbrottò Lovino,
girandosi
per imboccare la porta.
Il
volto di Feliciano si aprì in un sorriso accecante come
il sole. Si strinse il disegno al petto, con la delicatezza che una
bambina
avrebbe riservato ad un fiore, e mormorò:
«Grazie.»
Lovino
si schermì con un gesto della mano e fece per
scendere le scale.
«Salutami
Antonio!» la testa di Feliciano si sporse dalla
porta della camera per strillare la sua raccomandazione.
«Torna
a disegnare» sbottò il maggiore, uscendo veloce di
casa.
Feliciano
zampettò contento sul letto.
Era
davvero carino, il suo fratellone. Quasi tenero quando
si imbarazzava a parlare del suo fidanzato.
Raccolse
alcuni schizzi dal materasso e li poggiò sulla
scrivania, liberando lo spazio indispensabile per dormire.
L’indomani
mattina si sarebbe messo al lavoro. Erano anni
che progettava quel quadro per regalarlo al suo amico: non si era mai
dimenticato dell’apprezzamento che aveva fatto sul suo studio
di bosco.
Lo
avrebbe finito entro settembre, così Ludwig avrebbe
potuto appenderlo nel suo appartamento a Rialto, se gli fosse piaciuto.
Fino
all’anno prima, fremeva in attesa della neve natalizia;
ora pregava che settembre arrivasse presto ad arrossare le foglie.
Buffo come
l’amico tedesco fosse costantemente l’asse attorno
a cui ruotava il suo
calendario.
Feliciano
sfregò la guancia contro il cuscino, impaziente di
mettersi a lavorare, e si addormentò pensando a pennelli,
colori ad olio e
schemi prospettici.
Tutti
i
riferimenti a Venezia sono tratti dall’esperienza personale
di studentessa alla
Cà Foscari.
In
pieno periodo
d’esami, per questo il capitolo si è fatto tanto
attendere u.u”
Mi
scuso per il
ritardo, sarò più rapida nei prossimi
aggiornamenti
*posaeroicasuscoglieracontantodiondaallespalle*
E…
grazie<3<3<3
Grazie
a tutti
voi che seguite questa storia<3
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Quadro ***
"
Quadro
«Allora,
cugino, come va l’università?»
Un
paio di occhi azzurri fissarono a lungo Gilbert, cercando
di estrapolare dal ragazzo il vero sottotitolo della domanda.
Interessamento?
Derisione?
Optò
per la prima scelta.
«E’
difficile pronunciarsi, ancora» spiegò pratico
Ludwig. «Le
lezioni sono cominciate oggi.»
«Quindi
vuoi mantenere il silenzio stampa?» insistette il
cugino, mettendosi a sedere di fronte al consanguineo.
Ludwig
lanciò una rapida occhiata intorno. Feliciano gli
aveva dato appuntamento davanti a quel ristorante, e Gilbert aveva
insistito perché
Ludwig si accomodasse all’interno. I clienti se ne erano
andati da un pezzo, e
mancava ancora qualche ora all’apertura serale. Ore che
sarebbero state
utilizzate per pulire, spazzare e predisporre gli ingredienti per il
servizio
successivo.
Si
domandava se fosse equo che il cugino perdesse tempo a
parlare con lui mentre i suoi colleghi sfacchinavano in cucina.
Aveva
appena apposto il punto di domanda al suo pensiero che
le ante della cucina si aprirono e ne emerse un affaticato francofono.
«I
fornelli non si puliscono da soli» notificò alla
schiena
di Gilbert.
Ludwig
osservò con distaccato terrore il cugino mentre si
voltava, curvava le labbra in un sorrisetto sardonico e asseriva,
imitando la “r”
strascicata e la pronuncia nasale dell’amico:
«Non
preoccuparti, mon
ami, ti raggiungo subito.»
«Non
pensavo che Feliciano conoscesse questo posto» Ludwig
deviò il discorso poiché sapeva che il francese,
nonostante le sue maniere eleganti
e il suo linguaggio forbito, avrebbe impiegato meno di due secondi a
radere al
suolo il cugino. Ormai conosceva bene Francis Bonnefoy, uno degli amici
storici
di Gilbert.
«Potrei
offendermi» replicò l’altro,
socchiudendo i suoi
particolarissimi occhi ramati. «Questo ristorante
è famoso, sai? Lo abbiamo
portato alle stelle con il nostro duro lavoro» attese che un
velo di pentimento
calasse sul volto del cugino per strapparglielo con la successiva
affermazione:
«Comunque, Feliciano conosce questo posto perché
ci lavora il fratello.»
L’immagine
di uno spray al peperoncino svettò nella sua
memoria con tanto di musichetta trionfale, e Ludwig poggiò
la fronte sulla mano
per scacciare il mal di testa.
«Il
fratello di Feliciano ha mai subito… abusi?»
domandò. Se
era così sospettoso nei confronti del mondo, un motivo di
base doveva esistere.
L’espressione
di Gilbert sembrò creparsi come la pasta di
sale lasciata al sole. Poi si ricompose e chiese di rimando:
«Che
genere di abusi?»
La
mano passò sulle labbra, sul collo e di nuovo sulla
fronte, attraversando la guancia. Ludwig non riusciva mai a rispondere
prontamente se si trattava di utilizzare le parole sulla sua personale
lista
proibita.
«Di
natura sessuale» specificò, abbassando il tono ad
un
sussurro.
Gilbert
quasi lo spettinò con una risata polmonare.
«Oh,
per l’amor del cielo, no!» si contenne per moderare
la
voce e mormorare a sua volta: «Il suo fidanzato è
un ammasso di panna rosa! Non
potrebbe mai ferirlo!»
Uno
spray al peperoncino e un grosso cumulo di panna rosa
che se ne andavano a spasso tenendosi per mano. Ora sì che
la sua fantasia era
compromessa per sempre.
«E
Antonio dov’è?»
s’informò, guardandosi attorno: solo
tavoli e sedie accatastate per permettere di spazzare per terra, il
tutto
confuso dalla penombra tipica dei tempi morti. «Volevo
salutarlo.»
Gilbert
ciondolò all’indietro con la sedia, falsamente
meditabondo.
«Credo
che sia impegnato» dichiarò.
«Giusto.
Deve preparare il servizio serale» ricordò Ludwig.
«Sì,
anche quello» si lasciò sfuggire Ghilbert.
Gli
occhi celesti incontrarono quelli ramati alla ricerca di
una risposta, e la trovarono nello sguardo allusivo che il cugino gli
scoccò.
«Vuoi
dire che lui è… la panna rosa?»
Si
sentì incredibilmente stupido a pronunciare quella
metafora. Se qualche sconosciuto l’avesse udito, avrebbe
dovuto espiare quell’umiliazione
stabilendosi sulla cima più alta della montagna
più remota per vivere da eremita
il resto dei suoi giorni. L’immagine del ricciolo rosa e di
Antonio si
scontrarono nella sua mente sprizzando scintille, e la sua
razionalità spiccata
decise di dividere le similitudini illogiche dalla vita reale, o non
sarebbe
mai più riuscito a guardare in faccia Antonio senza
immaginarselo come un
ciuffo di panna.
Ad
un estraneo sarebbe parsa insolita la tranquillità con
cui Ludwig parlava di coppie omosessuali: l’imbarazzo che gli
inamidava il
volto, infatti, non era dovuto al sesso dei fidanzati in questione, ma
alla sua
regola morale di non parlare mai con troppa libertà
dell’intimità altrui.
Aveva
avuto le sue esperienze con l’omofobia ai tempi del
liceo, quando il cugino era stato costretto ad andarsene di casa dopo
aver
rivelato di essersi innamorato di una persona. L’errore
fatale, che gli era
costato il disprezzo dei familiari più stretti, era stato
scegliere un ragazzo
come lui.
Ludwig
non ripescava mai volentieri da quel cassetto della
sua memoria i ricordi degli insulti che i parenti avevano rivolto a
Gilbert, né
il sorriso tirato con cui il cugino lo aveva salutato, partendo dalla
stazione
di Bolzano. Aveva tentato di tranquillizzarlo, ma più lo
consolava, più Ludwig
si sentiva ferito: riusciva a scorgere benissimo la tristezza e il
bisogno di
comprensione tumulati negli occhi del consanguineo, e gli sforzi che
quest’ultimo
faceva per dissimulare lo commuovevano e accoltellavano al contempo.
Per
la prima volta, Ludwig aveva assaporato il sapore
rancido dell’impotenza: una scossa furiosa aveva fatto
fremere ogni singola
goccia di sangue nel suo corpo e lo spirito era stato elettrizzato
dalla ferrea
volontà di cambiare il mondo pur di aiutare il cugino. Si
era concluso tutto
nel vuoto della disillusione di fronte alla nuda realtà,
come un fuoco di
artificio che si preannuncia maestoso per poi spegnersi in uno
sfiancato sputo
di scintille.
Non
poteva rivoluzionare la mente di tutta l’umanità,
ma
poteva sostenere il cugino, e così aveva fatto seguendo al
telefono le sue
peripezie veneziane.
«E’
arrivato il tuo amico» l’affermazione
dell’altro lo
riportò velocemente alla realtà.
Feliciano
lo salutava al di là della porta a vetri, con
l’immancabile
borsone a tracolla.
«Sembra
un cagnolino. Scodinzola» ridacchiò Gilbert.
«E’
proprio contento di vederti.»
«Fa
sempre così» minimizzò Ludwig,
alzandosi per raggiungere
l’amico.
Il
cugino, per richiamare la sua attenzione, lo colpì
all’orecchio
con una pallina ottenuta da un pezzetto di tovagliolo.
«Ricorda
che sai dove trovarmi» lo consigliò enigmatico,
per
poi scimmiottare nuovamente la pronuncia dell’amico francese:
«E ora vado a
rimediare ai miei errori prima che Francis venga a prendermi per le
rotule.»
“Prendermi
per le rotule” non era un’espressione tipica del
cugino, ma l’aveva utilizzata giusto per ficcare nel discorso
qualche “r” in
più da storpiare.
Ludwig
fece un cenno di assenso con il capo e uscì nella
brulicante Venezia, dove lo aspettava festante il suo amico.
***
Kiku
osservò perplesso il suo coinquilino.
Non
conosceva approfonditamente i costumi occidentali, ma
era abbastanza sicuro che nessun galateo imponesse ad una persona di
rimanere
un’intera mezz’ora a rimirare un quadro.
Forse
sarebbe stato scacciato come ficcanaso, ma corse il
rischio e si premurò, nel suo italiano affaticato:
«Va
tutto bene?»
Ludwig
non si mosse dalla sua posizione – seduto sul letto,
il mento stretto tra pollice e indice e l’altra mano stesa in
avanti a reggere
il quadro – e chiese:
«Cosa
pensi di questo dipinto, Kiku?»
Il
giapponese assunse per un attimo un’espressione
scandalizzata nel sentire pronunciare il suo nome senza onorifico, poi
gli
scorse nella mente la riga di un libro che aveva letto tempo prima, in
cui
veniva specificato che in Italia nessuno usava suffissi di cortesia.
Rilassò
quindi le spalle e la postura e si chinò per esaminare
l’opera in questione. Rimase qualche secondo in assorta
contemplazione, poi
analizzò, tentennando di tanto in tanto alla ricerca delle
parole:
«L’autore
ha un modo particolare di dipingere. In molti
quadri è facilmente rintracciabile la scuola in cui si
è formato il pittore. Per
la scelta dei colori, del soggetto, delle ombreggiature. Lui non
sembra…
legato. E’ un artista che mette sulla tela il suo mondo
interiore senza
restrizioni.»
Ludwig
annuì pensoso. Era esattamente quello che aveva
pensato lui quando aveva notato che Feliciano non disegnava mai
soggetti
fisicamente presenti, ma sempre figure astratte plasmate dalla sua
fantasia
senza freni. L’unica eccezione, in tutti quegli anni, era
stata il ritratto che
aveva eseguito per lui su una panchina di Venezia.
«E
poi, si vede che si è allenato a lungo per questo
disegno»
aggiunse Kiku. Indicò alcuni punti nel quadro e
proseguì: «Le pennellate sono
date senza esitazione. E’ la certezza di chi ha memorizzato i
movimenti da
eseguire.»
Il
giapponese si rialzò con eleganza sopraffina, e si
congedò con un inchino ed un suggerimento pacato:
«Chiunque
abbia realizzato quest’opera, tiene molto a te.»
Il
tedesco ripose il quadro sul letto, una volta che l’orientale
se ne fu andato con i suoi passi silenziosi.
Sapeva
che Feliciano teneva a lui. Glielo aveva sempre
dimostrato, in tutti i modi bizzarri in cui quello strampalato ragazzo
esprimeva affetto. Ma in che modo gli voleva bene?
Se
lo domandava da quando aveva intravisto il cugino
guardare lui e Feliciano con lo stesso sguardo con cui aveva parlato di
Lovino
e Antonio.
Non
aveva mai pensato all’amico veneziano da quella
prospettiva.
Ludwig
scosse la testa, esasperato con quella sezione così
restrittiva di sé. No, non sarebbe andato da nessuna parte
accecando la sua
stessa coscienza. Alcune volte il pensiero aveva accarezzato la sua
mente, si
era affacciato rapido e si era volatilizzato subito dopo, lasciandosi
dietro la
sgradevole scia del dubbio.
Non
si era mai interessato alle ragazze, ma nemmeno ai
ragazzi: semplicemente, non aveva mai incontrato nessuno che gli avesse
fatto
capire che il mondo era più colorato se lo si guardava in
due. Tuttavia,
Feliciano gli aveva insegnato che quello che gli stava di fronte non
era l’unico
mondo da ammirare: c’era sempre lo sconfinato reame della
fantasia in cui
immergersi.
Tamburellò
le dita sulla fronte, inquieto.
Non
poteva nemmeno dire di amarlo, però. L’amore non
doveva
essere travolgente ed inequivocabile? Oppure i film si divertivano a
riempire
la testa della gente con fanfare romantiche irrealizzabili? Sapeva che
per il cugino
era stato il classico colpo di fulmine: fin dalla prima volta che aveva
visto
il suo fidanzato, quel ragazzo canadese, aveva deciso che
l’avrebbe
conquistato.
Non
poteva dire la stessa cosa per sé e Feliciano. Doveva
considerare, però, che le loro situazioni erano
profondamente diverse: si erano
conosciuti a sei anni, quando ancora l’amore era un enigma
del pianeta degli
adulti; Gilbert aveva incontrato il suo innamorato quando frequentavano
entrambi
il liceo.
Inoltre,
c’era un dettaglio che non poteva dimenticare:
Feliciano non gli aveva mai parlato del suo passato. Gli aveva lanciato
qualche
indizio, ma nulla di più; non aveva mai fornito una
spiegazione esaustiva.
Magari
l’interessamento che si era accorto di nutrire per
l’amico
non era altro che una versione morbosa della curiosità per i
suoi demoni
interiori.
Si
rialzò con uno scatto dal letto ed afferrò il
cellulare:
era tempo di uscire dal Limbo.
Digitò
veloce il messaggio e lo inviò prima di poter avere
qualche ripensamento.
Diretto
e conciso come sempre, l’sms recitava: “Domani devo
parlarti. Dimmi dove possiamo vederci”.
Prima
che il sole calasse sul giorno successivo, avrebbe
avuto le idee chiare.
Nel
bene o nel male.
Piccolo capitolo di transizione<3
Scritto nelle ultime... uhm, due ore, perché non
sarò disponibile fino al 4 e ci tenevo a lasciare un
aggiornamento anche piccolino prima di partire :)
Ringrazio di cuore, veramente di cuore: Frozen Hell, Maria Nakamura,
cake, Lovesmatis, BlackRoxy, Black_Mamba, HopeGiugy e Aphrodite. Grazie
per le vostre recensioni, e mi scuso per non avervi risposto
singolarmente. Rimedierò dal prossimo capitolo e non
accadrà più<3 Vi ringrazio ancora per la
vostra costanza nel leggere la storia e per il tempo che dedicate alla
recensione<3 Grazie mille<3<3<3
Il prossimo capitolo sarà incentrato TOTALMENTE su Ludwig e
Feliciano. E mi fermo qui o faccio spoiler xD
A presto<3
Red
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Ritratto ***
"
Ritratto
Per
un attimo, Feliciano si spense.
Il
sorriso rimase inciso sul volto, gli occhi inebetiti
lievemente socchiusi. Ma la luce che li animava si
affievolì: barcollò e svanì,
come una candela colpita da un improvviso alito di vento.
Rimase
a fissarlo per qualche istante, sorridente e svuotato.
Ludwig lo trovò vagamente inquietante: sembrava che il suo
amico fosse stato mummificato
nella cera, con quell’espressione artificiosa.
Il
tedesco non aveva intenzione di affrontare un discorso
così personale in mezzo alla calca della laguna, per cui
aveva preferito chiamare
Feliciano a casa sua; l’amico non aveva protestato, anzi,
aveva accettato
festante come un cucciolo. Probabilmente non aveva intuito il vero
motivo dell’invito
dell’altro: l’atmosfera era cambiata di colpo, da
solare a glaciale, non appena
la domanda era esplosa nel salotto.
Non
pensava che per l’italiano sarebbe stato uno shock
così
grande sentirsi interrogare sulla propria famiglia. Le sue riserve su
quell’argomento erano lampanti, ma non tanto da far presagire
un atteggiamento
del genere: Feliciano si era paralizzato in una sorpresa asfittica,
incapace di
muoversi o parlare.
«Se
non vuoi rispondere…» cercò di arginare
Ludwig, ma
l’amico scosse il capo, riscuotendosi finalmente dalla sua
immobilità.
Il
tedesco attese con pazienza che l’altro pescasse dai
recessi della sua anima la forza necessaria per rispondere.
Aveva
pensato tutta la notte a come porre la domanda nel
modo più gentile possibile; aveva scartato i fronzoli
fasulli, le gentilezze
ingannevoli e le premure leziose: non rientravano nel suo carattere, e
non le
avrebbe ammesse nemmeno in una situazione di emergenza. Così
aveva optato per
una domanda schietta; almeno non sarebbe stato accusato di ipocrisia.
Perché
non parli
mai dei tuoi genitori?
La
tracolla venne aperta dalle mani irrequiete di Feliciano,
che estrasse il blocco per appunti e se lo strinse al petto; aveva
bisogno di
un appoggio per addentrarsi nella selva di quella risposta.
«Hai
una famiglia stupenda, sai?» cominciò
l’italiano.
Quello che gli curvò le labbra fu l’ombra del suo
solito sorriso, smorzato e
sfiancato nonostante i tentativi del ragazzo.
Le
sopracciglia dorate di Ludwig si sollevarono, soppesando
le parole dell’amico e mettendole a confronto con gli episodi
che aveva
ricordato il giorno prima. Non avrebbe definito
“splendidi” i giorni in cui Gilbert
era stato trattato come un malato ed esiliato con infamia.
«Normale»
minimizzò, stringendosi nelle possenti spalle.
Le
dita di Feliciano si serrarono sul blocco, piegandone gli
angoli; il ragazzo appoggiò il naso sulla spirale che teneva
insieme i fogli da
disegno, aspirando il profumo della carta. Ne fu rinfrancato a
sufficienza per
continuare:
«È
una famiglia unita.»
Di
nuovo, Ludwig non si espresse con toni troppo entusiasti.
Certo, la sua famiglia era stata molto compatta nel puntare il dito
contro il
cugino… ma non era quello il tipo di concordia cui si
riferiva Feliciano.
«Nonno
Roma mi vuole bene» l’italiano si
dondolò sul divano,
tamburellando le dita sul dorso del blocco. «Ma il
papà e la mamma…»
Le
iridi castane si adombrarono tanto da sembrare color
piombo; il petto del giovane si gonfiò di un sospiro ebbro
di lacrime, che
venne ingoiato anziché esalato; le labbra si mossero
incerte, come se avessero
dimenticato la loro lingua madre. La malinconia del ragazzo
scavalcò le
barriere del tedesco e gli infisse una spina di compassione dritta nel
cuore.
Ludwig non trattenne la propria mano, e lasciò che
atterrasse sulla testa
dell’amico, battendo alcune pacche cameratesche.
La
carezza rassicurò incredibilmente l’italiano,
ravvivando
la fiammella del suo buonumore, sebbene fievolmente.
Passò
ancora qualche istante prima che la bocca impaurita di
Feliciano riuscisse ad articolare:
«Papà
è morto quando io ero troppo piccolo. Solo Lovino si
ricorda qualcosa di lui» il suo corpo ebbe bisogno di un
altro profondo respiro
per esalare: «La mamma… non era adatta ad
allevarci.»
Gli
occhi del tedesco attesero indulgenti che l’amico
riuscisse a parlare di nuovo:
«Siamo
stati allevati dalla famiglia di Antonio.»
Ludwig
odiò profondamente il cugino per la prima volta nella
sua vita: per colpa delle sua metafore bislacche, in un frangente
drammatico
come quello gli era venuto in mente un ciuffo di panna rosa semovente.
«Lavora
allo stesso ristorante di tuo fratello, giusto?»
s’informò il tedesco.
«Come
fai a saperlo?» confermò Feliciano.
«Anche
mio cugino lavora lì» rispose breve
l’altro.
L’italiano
ridacchiò per quella strana coincidenza, e si
rannuvolò poco dopo alla domanda dell’amico:
«Come
mai tua madre non fu reputata idonea?»
Feliciano
si aggrappò ancora di più al blocco,
accartocciandolo anche al centro.
«Mia
madre…» passò la lingua sulle labbra
secche, e terminò
in un unico fiato: «Cercò di strangolare mio
fratello.»
Il
suo cuore si ingolfò: Ludwig lo sentì arrancare,
tossire
ed accasciarsi nel suo petto. Perfino la sua voce e il suo sguardo, di
solito
inossidabili, barcollarono nel muoversi su quel terreno dissestato: non
aveva
nemmeno ipotizzato una spiegazione del genere, e ora si trovava
completamente disarmato
di fronte al mostro di quella rivelazione.
«Cercò…»
«Nonno
Roma aveva capito da tempo che la mamma non era
adatta a crescerci: non aveva superato la morte di
papà» ricapitolò precipitoso
Feliciano. «Aveva avviato delle pratiche per affidarci alla
famiglia di
Antonio. Li conosce da una vita, e si fida ciecamente di loro. Non
potendo
muoversi da Roma, era la scelta migliore» graffiò
il dorso cartonato del
blocco, nervoso. «La mamma capì che stavano per
portarci via e…» Feliciano
morse le labbra nell’agonia di una risata senza gioia.
«Era depressa da tempo.
Non era molto stabile.»
Le
scuse per aver posto delle domande così indelicate, il
dispiacere per il suo passato, chiedere perdono per
l’indelicata curiosità,
compiangere i giorni tragici dell’amico: tutte quelle urgenze
si accatastarono
spasmodicamente dentro di lui, occludendogli la gola.
Feliciano
utilizzò quel silenzio per aprire il blocco con
uno scatto e sfogliare veloce gli schizzi che aveva disegnato:
paesaggi,
personaggi fantastici e nature morte sfrecciarono veloci, come i
fotogrammi del
vecchio cinematografo.
Le
parole zampillarono sulle sue labbra senza che Feliciano
se ne accorgesse, come l’acqua che sgorga da un recipiente di
vetro spezzato.
«Per
questo dipingo sempre cose che non esistono.
L’immaginazione è stata gentile con me, non mi ha
mai fatto del male.»
La
fronte pallida del tedesco si aggrottò.
«Ma
a me hai fatto il ritratto» ricordò.
«Perché
tu sei l’unica cosa buona di questo mondo.»
Il
cinguettio innocente dell’italiano lo pizzicò allo
sterno, insidiandogli un granello di calore nel petto.
Ora
era a conoscenza dei segreti dell’amico, quindi la
curiosità non era più la giustificazione corretta
al suo interessamento per
Feliciano. Ma c’era sempre la possibilità che
fosse la compassione ad
accendergli il cuore.
Osservò
meglio l’amico, che ancora lo fissava con un sorriso
sincero, sebbene spossato dalle confessioni precedenti.
Anche
il cugino aveva attraversato dei momenti difficili, e
anche per lui aveva provato empatia. Ma la partecipazione per Gilbert
non gli
aveva stuzzicato le guance con l’imbarazzo, non lo aveva
fatto sentire a
disagio come se improvvisamente ogni parola potesse essere foriera di
strani
sottintesi.
Feliciano
interpretò male il suo riserbo, scambiandolo per
mancanza di fiducia nelle sue parole.
«Io
ti voglio bene, Ludwig» reiterò.
Il
tedesco si ritrovò le braccia dell’italiano
allacciate al
collo senza nemmeno sentirlo arrivare, preso com’era nel
ruminare su quanto
fosse stato sbagliato costringere Feliciano a rivivere le memorie sulla
sua
famiglia distrutta e su quanto fosse doppiamente sbagliato perdersi in
considerazioni sui propri sentimenti anziché tranquillizzare
l’amico.
Le
mani del tedesco calarono a coprire la schiena dell’amico
solo dopo alcuni istanti di immobilità indecisa.
«Mi
dispiace di essere stato indiscreto» pronunciò,
quasi
marziale per via dell’imbarazzo.
Feliciano
gli sfregò il viso alla base del collo come un
gattino.
«Va
bene così. Te ne avrei parlato comunque, un
giorno.»
E
mentre il divano ospitava i due amici abbracciati, il
gradino di fronte al portone dell’appartamento offriva asilo
ad un giapponese,
troppo discreto per irrompere in casa e troncare
l’intimità dei due ragazzi.
***
Era
passato qualche giorno dalla confessione di Feliciano, e
la sua visita a casa di Ludwig era diventata il pettegolezzo preferito
dal personale
di uno specifico ristorante.
«Secondo
me sarebbero una bella coppia.»
«Non
devono essere
una coppia!»
«Non
dovresti essere così attaccato a tuo fratello.»
«È
ancora troppo piccolo per certe cose!»
Gilbert
roteò gli occhi ramati con teatrale esasperazione e
bloccò Antonio strattonandolo per il grembiule.
«Puoi
spiegargli che, secondo la legge italiana, Feliciano è
adulto e padrone delle sue scelte?» sbuffò.
«E che esistono delle buone
cliniche per curare il brother-complex
troppo sviluppato?»
«Non
trattarmi come un malato!» s’inviperì
Lovino.
«Non
sei malato» patteggiò Antonio, avvicinandosi al
fidanzato. «Ma è vero che ormai Feliciano
è abbastanza grande da…»
«Stai zitto»
sibilò il ragazzo, fulminandolo con gli occhi.
Gilbert
non si lasciò sfuggire l’occasione di molestare il
collega più giovane. Era davvero felice che Antonio avesse
scelto proprio lui
come partner: la vita era diventata più briosa da quando
c’era Lovino da
infastidire.
«Non
puoi opporti al corso naturale delle cose»
sermoneggiò,
con un ghigno sardonico. «Io avevo un anno in meno
quando…»
«Non
mi interessa!» strepitò l’altro,
sbracciandosi come un
mozzo che fa i segnali con le bandiere in alto mare. «Fidati,
non mi interessa!
Sono affari tuoi, e tuoi devono
rimanere!»
«…
quando ho conosciuto Matthew» concluse Gilbert con un
soffio malizioso. «Cosa avevi pensato?»
«Il
peggio, conoscendo la tua mente perversa» lo
stroncò il
giovane, stizzito.
L’altro
non replicò allo sbottare di Lovino. Non aveva senso
esaurire tutto il divertimento in una sola mano: avrebbe aspettato un
po’ di
tempo, poi lo avrebbe pugnalato a tradimento con
quell’argomento durante la
serata per il gusto di vederlo trasalire.
Guardò
fuori dalla finestra, e trovò lo spunto per la sua
prossima frecciatina.
Pioveva.
E
la pioggia era universalmente riconosciuta come creatrice
di situazioni equivoche.
***
Erano
fuggiti da piazza San Marco
appena avevano avvistato la prima nuvola.
I
previdenti veneziani avevano
cominciato a montare le passerelle di legno: ben presto
l’acqua sarebbe
arrivata alle ginocchia, e quelle lingue lignee erano la loro unica
possibilità
di attraversare la piazza. In quella stagione, un’ora era
più che sufficiente
perché la pioggia allagasse ogni vicolo.
Avevano
scelto una pessima giornata per
visitare San Marco, e lo capirono quando il cielo si aprì
sulle loro teste: non
corsero abbastanza in fretta da evitare il primo scroscio, e trovarono
riparo
sotto un pergolato macilento solo dopo essere stati inzuppati dalla
tempesta
molesta.
Il
cellulare di Feliciano squillò, e
l’sms del servizio maree lo avvisò che per quel
giorno era prevista una
pericolosa acqua alta. Il medesimo messaggio fece vibrare anche il
telefono di
Ludwig. Quel servizio era veramente tempestivo: riusciva ad avvisarli
sempre
quando erano troppo lontani da casa per cambiare piani o quando erano
abbastanza bagnati da poter riempire un catino.
«Avrei
dovuto guardare meglio le
previsioni del tempo» si rammaricò spigliato
Feliciano, estraendo un oggetto
cilindrico nero dalla tracolla.
Ludwig
lo osservò perplesso, e
l’italiano lo srotolò perché anche
l’amico potesse capire di cosa si trattasse.
«Sacchi
per la spazzatura?» domandò
incerto il tedesco.
«In
questa stagione, è meglio essere
previdenti. Gli stivali sono troppo ingombranti da portare»
spiegò tranquillo
Feliciano. Procedette a mostrare all’altro come creare un
paio di anfibi con
poche semplici mosse: spiegò il sacco nero, vi
infilò il piede e lo fermò poco
sotto il ginocchio con lo spago incorporato.
Piuttosto
perplesso sull’effettiva
efficacia di quel metodo, anche il tedesco indossò quegli
stivali improvvisati.
La plastica scura si gonfiò e arricciò in strani
modi, dando l’impressione che
gli fossero state impiantate due zampe di mammut dal pelo corvino.
«È
l’unico modo per tenere i piedi
asciutti» si giustificò Feliciano, tentando di
rincuorare l’amico.
Ludwig
preferì non fargli notare quanto
quel rimedio fosse umiliante ed inutile: le loro scarpe erano diventate
una piccola
pozzanghera, arrivando ad infradiciare il calzino e a congelare la
pelle
sottostante. D’altronde, non vi era più un solo
centimetro del loro corpo
asciutto: le nuvole si erano preoccupate di setacciarli ovunque, dai
capelli
alle caviglie, senza trascurare nemmeno una singola piega.
Ludwig
cercò di strizzare la felpa
color militare e di scrollare un po’ d’acqua dai
capelli fradici. Feliciano, al
contrario, sembrava perfettamente a suo agio con la frangia grondante e
i
vestiti ridotti ad un ammasso di grinze annacquate.
«Dovresti
asciugarti un po’» lo
consigliò severo il tedesco.
«Mi
bagnerò di nuovo non appena
usciremo da qui» fece notare con un sorriso svampito
l’italiano.
Le
palpebre batterono sugli occhi
azzurri, in parte per lo stupore e in parte per scacciare alcune gocce
d’acqua.
«Vuoi
avventurarti di nuovo in quel
diluvio?»
«Possiamo
metterci un sacco in testa
per ripararci dalla pioggia» decise l’altro.
Ludwig
vide le testate dei giornali
scorrergli davanti agli occhi come in un incubo: “la laguna
partorisce strani
esseri di plastica nera”; “avvistati due grossi
lombrichi umanoidi: alieni o
visione?”.
«Aspettiamo
che si calmi un po’» sospirò,
esasperato.
Feliciano
si strinse beato nelle
spalle, accettando senza proteste la proposta dell’amico.
«Ora
dovresti scrollarti quella pioggia
di dosso» gli rese noto il
tedesco.
L’italiano
fissò i propri abiti come se
li vedesse per la prima volta, e cominciò a strizzarli con
la malagrazia di un
bambino; Ludwig fu costretto ad aiutarlo quando il ragazzo
cominciò ad
avvitarsi su se stesso per spremere la maglietta sulla schiena.
Feliciano
sistemò con cura la tracolla,
in modo che rimanesse incastrata tra la sua gamba e il muro, ben
riparata dalla
bufera: non avrebbe permesso che i suoi schizzi si bagnassero come lui.
L’italiano
stese le mani davanti a sé,
i pollici e gli indici tesi a “L” a formare una
cornice attorno al volto del
tedesco.
«Devo
farti un altro ritratto, con i
capelli in questo modo» decise Feliciano.
Ludwig
passò indeciso una mano nella
chioma zuppa: la pioggia aveva distrutto la sua solita pettinatura con
i
capelli tirati all’indietro, arruffandogli sulla fronte la
lunga frangia.
«Avevi
detto che preferivi disegnare
cose inesistenti…»
«Ma
tu sei l’eccezione» sorrise l’altro.
Feliciano
non aveva più toccato
l’argomento della sua famiglia dal giorno in cui
l’aveva sviscerato: da allora aveva
cercato di distanziarsene il più possibile, e Ludwig non
aveva fatto ulteriori
pressioni per forzarlo a parlarne di nuovo.
L’italiano
aveva dipinto solo scenari
immaginari da quando la realtà si era rivelata troppo dura
per lui; Ludwig era stato
l’unica breccia nel suo mondo di fantasia. Era presuntuoso
sperare di poter
diventare la fenditura anche nel suo animo congelato nel passato?
Gli
occhi castani di Feliciano si
posarono sul tedesco, confusi ma non infastiditi, quando le mani
più forzute
del compagno si appoggiarono sullo stipite di pietra dietro di lui,
bloccandogli la testa tra gli avambracci nerboruti.
Ludwig
sentì l’amico chiamare il suo
nome con fare interrogativo, e quella domanda sembrò
stendersi nella sua mente
come colla, infangandogli i pensieri. Troppi giorni di riflessioni
ansiose
avevano sfiancato le sue meningi: ormai era stanco di pensare. E quando
l’italiano aveva ribadito che lui era l’unica cosa
che amava al mondo, non gli
era più parso così blasfemo avvicinarsi in quel
modo.
La
pioggia scrosciava rumorosa nel
mondo al di fuori di quella nicchia scavata nei mattoni, e le nuvole si
scontravano ruggendo; solo in quel riparo occasionale era calato un
improvviso
silenzio.
Era
stato Ludwig ad avvicinarsi, ma fu
Feliciano ad annullare la distanza tra loro: una miriade di emozioni
gli fecero
scintillare le iridi e tremare le labbra prima di solleticare le piante
dei
piedi per farle alzare e raggiungere così
l’altezza dell’amico.
Nonostante
gli sforzi dell’italiano, il
tedesco dovette chinarsi per unire le labbra alle sue.
Un
primo bacio del genere non rientrava
nelle fantasie di nessun essere umano: fradici, in mezzo alla tempesta
e con
dei sacchi della spazzatura arpionati alle gambe.
Feliciano
sentì la nuca poggiarsi al
muro, le mani aggrapparsi alla maglia inzuppata dell’amico,
la bocca muoversi
assieme a quella del tedesco; il braccio di Ludwig gli avvolse la
schiena,
riscaldandogli la pelle infreddolita, la mano libera del compagno fissa
sul
muro a pochi centimetri dalla sua testa.
Per
un attimo si chiese se fossero
quelle le cose contro le quali Lovino lo aveva messo in guardia. Il
pensiero lo
sfiorò solo un secondo: era impossibile che il fratello
volesse privarlo di
quell’esperienza.
Nessuno
dei due udì il rombo del
temporale mentre si stringevano nel bacio; il mondo sembrò
perdere consistenza
al di fuori di quella cornice di mattoni.
Potrà
sembrarvi strano, ma davvero a Venezia chi non ha gli stivali gira con
i sacchi
della spazzatura legati sotto il ginocchio xD Pur di non bagnarsi i
piedi,
questo ed altro XD
Well,
con questo si conclude la parte “introduttiva”; dal
prossimo capitolo inizierà
il cuore della fanfic, incentrato per lo più
sull’omofobia.
Come
sempre, grazie per essere arrivati a leggere anche le
postille<3<3<3<3
A
presto!
Red
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Carboncino ***
"
Carboncino
Il
mondo divenne improvvisamente oscuro quando un velo nero
gli drappeggiò davanti agli occhi.
«Se
proprio vuoi essere in lutto, devi vestirti a tema»
giudicò l’uomo, avvicinando la sedia alla sua.
«Non
sono in lutto» protestò vigorosamente Lovino,
strappandosi il tessuto dal viso e fissandolo incerto.
«Cos’è questa… cosa?»
«Una
federa di Francis» spiegò placido Antonio.
«E
tu mi hai messo in faccia la federa di quel
pervertito?»
esplose il ragazzo. Appallottolò con furia la stoffa e la
scagliò dall’altro
lato della cucina, poi si sedette di nuovo con uno sguardo bellicoso.
Non
ottenne altra reazione che un sospiro dolcemente
rassegnato: Antonio amava anche le frange più turbolente
della sua natura
guerrafondaia. Quegli scatti d’ira quasi lo
tranquillizzavano: finché Lovino
avesse continuato a infiammarsi all’improvviso, avrebbe avuto
la conferma che
il giovane era sempre la persona di cui si era innamorato.
Lovino
era piombato in casa sua quella mattina, il viso
ingrugnato in una maschera di rabbia e cocente delusione.
Fortunatamente,
Gilbert era andato a far visita a Matthew, e Francis stava
bighellonando in un
punto imprecisato della laguna, così il ragazzo aveva avuto
la possibilità di
sfogarsi ad un volume piuttosto sostenuto senza scatenare apparizioni
indesiderate in cucina: se c’era un difetto che perfino
Antonio riconosceva nei
suoi amici, era la loro mancanza di discrezione in alcuni momenti
cruciali
delle vite altrui.
«Non
è carino parlare così di uno dei coinquilini del
tuo
fidanzato» lo riprese garbatamente Antonio.
«Sono
due degenerati» rimbrottò plumbeo Lovino.
«Uno è un
depravato, e l’altro è parente
di un depravato!»
Antonio
poggiò una mano sulla spalla del compagno,
aspettò
che lui se la scrollasse di dosso imbufalito e la piazzò di
nuovo nello spesso
punto: ormai conosceva bene i tempi e le modalità di
reazione di Lovino.
«Ti
sconvolge tanto che Feliciano abbia un ragazzo?»
sondò
pacato Antonio.
«È
ancora troppo piccolo» sentenziò acre
l’altro.
«Era
abbastanza chiaro il suo interesse per Ludwig»
precisò
con gentilezza l’uomo. Feliciano sprizzava
felicità da tutti i pori quando si
avvicinava l’annuale visita a Bolzano, saltava letteralmente
sul posto quando
riceveva una telefonata o un messaggio dall’amico, e aveva
passato degli anni
nella correzione dei bozzetti per il quadro che aveva intenzione di
regalargli:
a suo avviso, gli indizi erano stati più che plateali.
Sicuramente anche Lovino
li aveva notati, ma la sua ottica conservatrice di fratello maggiore
gli aveva
impedito di accettarli.
«Perché
proprio quel crucco?» si risentì il maggiore dei
Vargas.
Antonio
sollevò lo sguardo al cielo per riflettere.
«Ha
dimostrato di tenere molto a lui» pattuì alla fine.
«È
un crucco»
sibilò Lovino.
Il
resto delle proteste ribollì in un brontolio sommesso
contro la spalla dell’uomo, che lo cinse in un abbraccio
affettuoso.
«Dovrai
fartene una ragione» lo consigliò Antonio,
carezzandogli le spalle.
Sorrise
accondiscendente quando il ragazzo ringhiò per
l’ennesima volta:
«Come
è possibile? È un mangiapatate!»
***
Ludwig
sarebbe stata l’ultima preoccupazione di Lovino, se
solo il fratello maggiore fosse stato a conoscenza di altri episodi
nella vita
del minore.
Feliciano
era stato molto attento a non lasciarli trapelare
a casa: i Fernandez Carriedo, la loro famiglia affidataria, avevano
attraversato
una burrasca domestica qualche anno prima per via della relazione tra
Lovino e
Antonio, e non aveva intenzione di ferirli con altre preoccupazioni. In
particolare, non voleva che il fratello, che più di tutti
aveva sofferto per la
follia della madre, dovesse ricadere nel limbo oscuro da cui Antonio lo
aveva
faticosamente sottratto.
Non
aveva mai parlato dei fischi o degli insulti che gli
venivano rivolti a scuola. Per quanto si fosse sforzato di dimostrarsi
socievole fin dal primo anno, il suo passato lo rendeva inevitabilmente
diverso
dagli altri. Il trauma subito per via della figura materna lo
differenziava dai
suoi coetanei: lo sguardo ferito e l’atteggiamento impaurito
erano visibili a
dispetto delle numerose maschere allegre che indossava ogni giorno.
Inoltre,
certe voci non potevano essere messe a tacere definitivamente, specie
se
avevano come argomento una tragedia così succulenta: il suo
silenzio non era
bastato a proteggere il segreto ed entro il termine del primo anno di
liceo
tutta la sua classe era a conoscenza del tentativo di omicidio
consumatosi a
casa Vargas.
A
quel punto, i suoi compagni si erano divisi in due frange:
quelli che lo evitavano perché troppo
“strano”, e quelli che cercavano di
comprenderlo, imitando il biblico buon samaritano.
Feliciano
aveva apprezzato i loro sforzi, ma non era
riuscito a ripagarli appieno: i suoi sorrisi erano comunque distaccati,
come se
la curva delle labbra fosse stata presa da un volto estraneo e
schiaffata per
errore sul suo viso. Ben presto anche i suoi fantomatici salvatori si
erano
stancati, e Feliciano si era trovato isolato all’interno
della classe.
Non
se ne era preoccupato troppo, per quanto la situazione
non fosse delle migliori: a casa lo attendevano la sua famiglia
adottiva e suo
fratello, ed era spesso invitato da Antonio e dai suoi migliori amici
al
ristorante o nella casa che condividevano. E poi c’era
Ludwig, e tutto
diventava più sopportabile.
L’anno
successivo, il secondo del liceo, aveva avuto la
prova di quanto la natura umana potesse essere volubile e,
all’occorrenza,
perfida: la calura estiva sembrava aver essiccato tutti i buoni
propositi dei
suoi compagni di classe, perfino quelli dei più miti. Le
fazioni più placide si
limitavano ad evitarlo, mentre quelle più estreme
sperimentavano su di lui la
scienza del bullismo mascherato: aveva ripulito il banco da boccette di
china
cadute “per sbaglio”, aveva coperto con maglie a
maniche lunghe i lividi dei
pugni assestati “per gioco” e aveva ignorato i cori
“amichevoli” che lo
accompagnavano all’uscita di scuola. I bulli erano abbastanza
astuti o
pusillanimi da travestire ogni loro dispetto da scherzo innocente tra
compagni
di scuola; ricordava ancora l’episodio che aveva dato vita al
suo nomignolo
personale: quando il docente non era presente, un gruppetto di ragazzi
lo aveva
schernito a causa della sua passione per il disegno chiamandolo
“artista”. Da
quel momento, i teppisti avevano scritto quel soprannome ovunque: sul
suo
banco, sul suo diario, sui suoi quaderni. La vera cattiveria di
quell’epiteto
stava nel suo essere estremamente generico: Feliciano non avrebbe mai
potuto
protestare con un insegnante per quella parola, e i bulli avrebbero
potuto
farla passare facilmente per un vezzeggiativo anziché un
improperio.
Non
riusciva ancora a spiegarsi quale fosse stata la molla
che aveva fatto scattare quel meccanismo: lui si era limitato ad
esistere nel
suo minuscolo fazzoletto di mondo, e gli altri vi avevano fatto
irruzione senza
alcun rispetto.
I
professori non erano stati di alcun aiuto a riguardo: i
loro sterili consigli erano di lasciar correre, che prima o poi si
sarebbero
stancati, e di non prendere troppo negativamente quelli che erano
comportamenti
infantili privi di malizia. Non poteva accusarli del tutto di essere
degli
ignavi perché effettivamente i bulli, di fronte al corpo
docente, avevano
sempre avuto la premura di camuffare le loro offese facendole passare
per
passatempi puerili; quando invece decidevano di rincarare con insulti
più pesanti
e meno fraintendibili, si assicuravano di essere rimasti soli: in
questo modo,
la loro testimonianza avrebbe avuto lo stesso valore di quella di
Feliciano. Il
loro bersaglio si era così trovato privo del diritto di
protestare.
Feliciano
aveva presto imparato ad evitare quel genere di
colloqui con gli insegnanti: non portavano alcun beneficio, anzi, non
facevano
che aumentare il corollario di insulti da fronteggiare, arricchendolo
di
termini come “codardo”,
“mammone”, “spia” e sinonimi
più coloriti.
Forse
un giorno ne avrebbe parlato con Ludwig, e avrebbe
finalmente sfogato tutta l’amarezza accumulata in quegli
anni. Il tedesco era
riuscito a comprendere e accettare anche la parte più buia
del suo passato,
forse persino ad amarla: sarebbe riuscito a tollerare anche una simile
confessione.
Quel
pensiero gli condusse la mano alle labbra, colorandogli
di rosso le guance.
Avrebbero
dovuto recuperare il loro primo bacio e i seguenti
che si erano scambiati in quel giorno di pioggia: i sacchi della
spazzatura
abbrancati alle ginocchia avevano sciupato la magia del momento.
Feliciano
era solo come al solito, e completamente perso nei
propri pensieri.
Per
questo non sentì il solito gruppetto di bulli
avvicinarsi a lui.
Una
spinta poderosa lo picchiò dritto in mezzo alle scapole,
mandandolo a sbattere contro il muro.
Il
suo immancabile blocco per appunti si aprì
nell’urto,
sparpagliando ovunque i fogli con i suoi bozzetti. Quel delirio di
schizzi
vaganti lo colpì molto di più della parete:
ignorò completamente il dolore alle
mani, che aveva usato per proteggersi dall’impatto, e si
chinò bocconi a
riordinare le sue opere.
Una
suola di scarpa si appoggiò sulla sua anca e lo
spintonò
di lato, facendolo cadere riverso sul pavimento. I fogli che aveva
appena
recuperato scrosciarono di nuovo al suolo, aprendo un frastagliato
ventaglio di
carta e carboncino.
«A
cosa stavi pensando, artista?»
lo attaccò il capo del gruppo, mentre un suo galoppino si
chinava a raccogliere
alcuni schizzi.
«Boschi?
Ancora?» il secondo simulò un conato di vomito.
«Quanti
album hai già riempito con queste stupidaggini?»
«Perché
glielo chiedi? Sai che non ti risponderà!» lo
riprese il terzo, strappandogli il foglio di mano. «Se ne sta
lì a fissarti e
basta… vediamo se questo lo scuote un
po’!»
Ciò
detto afferrò i lembi del disegno e cominciò a
stracciarlo in minuscole frazioni che scagliò con crudele
precisione sul viso
esterrefatto della vittima.
«Non
parla nemmeno così» si esasperò quello,
sfogando la
frustrazione con una tempesta di pedate sugli schizzi del giovane:
l’orma della
scarpa impresse la sua figura sporca sui paesaggi e sulle nature morte,
imbrattando
i contorni puliti.
Il
secondo sventagliò nell’aria un foglio, e
gridò
esultante:
«Ehi,
ho trovato una novità! Guardate qui cosa disegna il
nostro artista!»
Il
capo diede una sbirciata all’opera in questione e
accartocciò la faccia in un’espressione schifata.
«Sei
pure frocio» sputò, orripilato.
«Restituiscimelo.»
Il
gruppetto di bulli si congelò a quella risposta. In tanti
anni di maltrattamenti, Feliciano aveva sempre subito senza mai
ribellarsi:
aspettava che i suoi aguzzini si stancassero, raccoglieva i cocci e
tornava a
casa. Quello era il suo primo atto concreto di protesta.
I
tre osservarono la sua mano stesa senza battere ciglio,
come se si chiedessero perché cinque dita fossero spuntate
dal nulla.
Nonostante fosse accasciato a terra, circondato da un cimitero di
carta, la sua
voce risuonò estremamente ferma quando chiese di nuovo:
«Restituiscimelo.»
Il
capetto scambiò un’occhiata d’intesa con
i suoi
sottoposti e, con un ghigno malefico, sussurrò:
«Ma
certo. Subito. Prima però dobbiamo correggere alcune
cose che ti sono sfuggite…»
Feliciano
comprese il sottinteso di quelle parole solo
quando fu troppo tardi: il secondo frugò nella cartella alla
ricerca di un
grosso pennarello nero, ed il terzo si sedette sulla sua schiena,
immobilizzandogli le spalle a terra.
Le
proteste e le preghiere del ragazzo non servirono a nulla
mentre il capo impugnava il pennarello che il secondo gli porgeva e lo
faceva
calare come una mannaia sul disegno.
«Qui
la profondità è scarsa… questa linea
è sbagliata… così
è più bello…» commentava,
tra le risate del secondo e le incitazioni del terzo
mentre un roveto di segni scuri si apriva sull’opera.
«Ho
finito» dichiarò soddisfatto alla fine,
accartocciando
il disegno e lanciandoglielo in viso come colpo di grazia.
«Oddio,
che schifo, mi sono seduto su di lui!» il terzo si
rialzò fulmineamente, il viso raccapricciato. «Non
sarà che ora si è innamorato
anche di me?»
«Fossi
in te starei attento. Quelli come lui sono peggio
degli animali» la risata grassa del secondo
riecheggiò nel corridoio mentre quest’ultimo
attuava lo sgarbo finale della giornata: afferrò lo
scheletro dell’album e alcune
pagine sparse, spiegazzandole orrendamente; sollevò la
cartella del ragazzo e
gettò tutto fuori dalla finestra, nel boschetto che
circondava la scuola.
«Buona
giornata, artista»
lo schernirono, abbandonandolo tra i pochi resti della sua produzione.
Feliciano
si rialzò a fatica sulle braccia tremanti di
spavento e di umiliazione, e recuperò con la mano malferma
il cartoccio che era
diventato il ritratto di Ludwig. Lo stirò delicatamente,
quasi temesse che la
carta potesse soffrire, e contemplò sconfortato lo spregio
della sua opera:
orribili linee nere sporcavano il profilo di Ludwig, ed una serie di
scritte
infami percorreva tutto lo sfondo. Un esercito di imbrattature casuali
tempestava tutto il disegno, rendendolo pressoché
irriconoscibile.
Per
un attimo, Feliciano pensò che avessero anche sfocato i
bordi del ritratto, poi passò una mano sul viso e si accorse
che erano le sue
lacrime ad annebbiargli la vista.
Una
pioggia affranta cadde sul disegno, mescolando malamente
pennarello e matita in irregolari cerchi bagnati: almeno la sua
tristezza
avrebbe ripulito l’unico ritratto che avesse mai realizzato.
Anche se avesse
lasciato solo un grumo di carta molliccia, sarebbe stato comunque
migliore di
quello sgorbio di cattiveria.
Asciugò
gli occhi sfregandoli con la manica e si rialzò
barcollante. Lo aspettava una lunga ricerca nel boschetto per ritrovare
il suo
zaino e i suoi schizzi, dopodiché avrebbe dovuto fermarsi
alla fontanella per
ripulire il fango e la sporcizia dai vestiti.
Estrasse
a fatica il cellulare dalla tasca, e avvisò Ludwig
che quel giorno non sarebbe riuscito a raggiungerlo a Venezia.
Aspettò
che il telefonino emettesse lo squillo del messaggio
inviato con successo e si addossò alla parete alle sue
spalle, poggiando una
mano sulla fronte come se volesse misurarsi la febbre.
Quella
era la sua routine, ormai era abituato.
Ma
certi giorni sembravano davvero non finire mai.
***
«C’è
qualche problema se mio cugino viene a trovarmi durante
la pausa?»
Francis
gorgheggiò, Lovino brontolò e Antonio
annuì. Gilbert
ignorò i primi due, ringraziò lo chef e
digitò veloce una risposta al
consanguineo.
«Non
doveva vedersi con Feliciano, oggi?» considerò
Antonio.
Lovino glielo aveva ricordato fin troppe volte, con toni che andavano
dal
melodrammatico al collerico, ed era sicuro di non sbagliare.
«Avrà
avuto di meglio da fare» telegrafò il maggiore dei
Vargas, con un’alzata di spalle.
Francis
si dileguò nella sala da pranzo, probabilmente per
infastidire Gilbert, e lo chef poté così chiedere
al fidanzato:
«Va
tutto bene?»
Le
spalle di Lovino si contrassero, si alzarono e
riabbassarono in un sospiro trattenuto tra i denti digrignati. Il
giovane non
si voltò mentre rispondeva:
«Ultimamente,
anche quando non si vede con il crucco, torna
a casa tardi. E…» tamburellò i gomiti
con le dita, a metà tra l’irato e il
meditativo. «Ricordo come sono state per me le
superiori.»
Antonio
annuì, assorto. Aveva memorie piuttosto vivide dei
teppisti che avevano cercato di spadroneggiare su Lovino, e rimembrava
con
chiarezza anche il momento in cui quei furfanti falliti avevano capito
che non
potevano scamparla con quel giovane: Lovino non era certo il tipo di
persona
timida e passiva, e lo aveva dimostrato demolendoli a parole. Si erano
verificati altri pallidi tentativi di bullismo, tutti terminati
miseramente
come il primo.
«Hai
paura che sia preso di mira a scuola?» concretizzò
Antonio, avvicinandosi con discrezione al compagno.
Lovino
chinò la testa in cenno di assenso. Lui aveva
ingaggiato una vera e propria guerra con quei malavitosi infantili, e
ne era
uscito vincitore: solo questo gli aveva impedito di diventare la loro
preda
sacrificale e di condurre un’esistenza scolastica abbastanza
tranquilla. Ma
Feliciano non aveva il suo stesso carattere tempestoso: lui era ingenuo
e
debole, il capro espiatorio perfetto per i vandali.
«Ogni
volta che gli ho chiesto qualcosa sulla scuola, mi ha
detto che andava tutto bene» brontolò, amaro.
Il
palmo di Antonio si appoggiò sulla sua testa,
accarezzandogli i capelli.
«Sei
un bravo fratello.»
Come
da copione, Lovino si scrollò rudemente quella mano di
dosso e andò a predisporre le pentole per il servizio serale
facendo più rumore
possibile. Antonio scosse la testa con un sorriso e corse ad aiutarlo.
Ogni
difficoltà appariva maggiormente sormontabile se
affrontata in due.
Perfino
un normale turno di lavoro.
Grazie per la vostra pazienza, davvero<3<3<3
A presto con il prossimo capitolo!
Red<3
P.S. Conto di fare alcune side-story di questa fanfic *informazione
casualeXD*
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Schizzo ***
schizzo
«Ho
assolutamente bisogno di te.»
La
padella che il cuoco teneva in mano venne innalzata come
uno scudo tra di loro: quando Gilbert esordiva in quel modo, non si
poteva
sperare in una giornata tranquilla.
«Di
cosa hai bisogno?» chiese guardingo Antonio.
Gilbert
fissò alternativamente l’amico e la stoviglia,
indeciso
se sentirsi offeso oppure no. Ma la domanda che doveva assolutamente
porre ad
Antonio aveva una priorità maggiore del suo orgoglio, per
cui rispose
semplicemente:
«Il
tuo ragazzo è venuto da me dicendomi di dire a mio
cugino di trattare bene suo fratello o addobberà
l’albero di Natale con il suo
scalpo.»
La
padella quasi scivolò a terra, e Antonio la salvò
a pochi
centimetri dal suolo.
«Sembra
il riassunto di una telenovela di terza categoria»
commentò, in attesa del resto.
«Concordo»
minimizzò l’altro.
Gilbert
pretendeva la sua massima attenzione, e lo dimostrò
piazzandosi davanti a lui e togliendogli dalle mani la padella, che
venne
appoggiata sul bancone.
«Io
non ho la combinazione per i neuroni del tuo ragazzo, ma
tu sì. Quindi spiega.»
Antonio
trasse un profondo respiro: in alcune giornate,
avrebbe pagato oro pur di non essere la persona più
ragionevole di quel
gruppetto. Per un minuto soltanto avrebbe voluto che Lovino moderasse
l’acidità
nel porsi con gli altri, che Gilbert non prendesse ogni parola come un
insulto
personale e che Francis fosse un po’ meno Francis:
il francese si rendeva perfettamente conto del nervosismo dei colleghi,
ma
anziché aiutare attivamente a rasserenare gli animi, si
piazzava in un angolo a
fare da spettatore, parte molto più divertente e molto meno
impegnativa.
Antonio
si afferrò la radice del naso tra le dita e strinse
forte. Aveva bisogno di un intervento divino e di
un’aspirina. La seconda,
fortunatamente, lo aspettava nella tasca della giacca.
«È
successa una cosa, ieri sera…» narrò
infine.
***
La
sveglia sul comodino sembrò
deriderlo quando lo informò dell’ora esatta: le
tre di notte.
Lovino
emise un grugnito di
risentimento, raggomitolandosi ostinato sotto le coperte, deciso a
riaddormentarsi
il prima possibile. Ma gli occhi si spalancarono completamente quando
si
accorse di non essere l’unico insonne nella camera.
Ficcò
la testa sotto il cuscino, come
un bizzarro struzzo insonnolito, e maledisse il suo senso di
cameratismo
fraterno troppo spiccato. Feliciano non aveva il dono della sintesi, ed
estrapolare il problema che lo teneva sveglio nel cuore della notte
avrebbe
richiesto il sacrificio di molte ore di sonno. La restante parte del
suo riposo
sarebbe stata impiegata a decifrare i singhiozzi del fratello e
tradurli in
linguaggio umano. Il lavoro lo avrebbe ucciso, il giorno dopo, se lo
avesse
affrontato in quelle condizioni – nervoso e assonnato.
Ma
Feliciano era il suo unico fratello.
Per lui, poteva immolare il suo pregiato riposo.
«Qual
è il problema?» esordì schietto,
uscendo dalla spelonca
del guanciale.
Il
minore lo osservò vacuo, seduto sul letto con le
ginocchia strette al petto. Trascorsero alcuni istanti prima che la sua
solita
espressione bonacciona si impadronisse dei suoi lineamenti.
«Va
tutto bene.»
Il
sorriso raffazzonato di Feliciano si incrinò
nell’udire
la falsità della propria voce. Lovino non infierì
oltre: si rialzò a sedere,
sistemò il cuscino alla spalliera del letto e vi
appoggiò la schiena. Dalla sua
posizione incrociò le braccia e fissò il fratello
in attesa perentoria della
verità.
Feliciano
morse le labbra, facendole sbiancare sotto la
pressione dei denti.
«Tu
come hai fatto... con Antonio…»
Lovino
saltò sul letto come se lo avessero punto con uno
spillone; rotolò addosso al fratello e lo afferrò
per le spalle, sbraitando:
«Avete
già… avete già…»
il maggiore non riuscì a proseguire:
la prospettiva che il suo innocente fratellino potesse essere stato
deflorato
gli fece salire il sangue alle guance e gonfiare le vene sul collo.
Feliciano
lo fissò con occhi ingenui, e domandò candido:
«Cosa?»
La
testa di Lovino crollò per il sollievo, ed il sangue
defluì velocemente dal viso, restituendogli un colorito
umano: il fratello non
aveva ancora raggiunto il punto di non ritorno con il crucco.
«Continua»
sospirò, buttandosi di schiena sulla sua parte di
materasso.
Feliciano
arricciò le lenzuola con le dita irrequiete,
mordicchiò
nuovamente le labbra ed infine ammise:
«Come
avete fatto… a farvi accettare?»
Lovino
lo fissò interrogativo, e domandò:
«Intendi
dai genitori di Antonio?»
Feliciano
scrollò la testa in un cenno negativo. Morse
ancora le labbra e le guance, come per strizzare fuori le parole che
non
riusciva a trovare.
«Gli
altri… non ti hanno mai fatto nulla… di
male?»
Lovino
si rialzò per l’ennesima volta sul letto e si
avvicinò preoccupato al consanguineo.
«Ti
è successo qualcosa?» si premurò.
Il
maggiore tirò le coperte fino al collo quando Feliciano
scese dal letto, facendo entrare una miriade di spifferi dalle lenzuola
alzate.
Il minore aprì lo zaino scolastico ed estrasse la sua
carpetta per i disegni;
tambureggiò le dita sulla superficie cartonata, ancora
indeciso se rivelare il
suo segreto oppure no.
Giocherellò
con l’elastico, combattuto: aveva taciuto per
così tanto tempo che ormai i brutti ricordi si erano
cagliati sulle sue labbra,
incollandole ermeticamente.
Gli
occorse un sofferto minuto di meditazione per riuscire a
sciogliere quel collante amaro, per rialzarsi e porgere la carpetta al
fratello.
Lovino
la aprì mentre Feliciano si arrampicava sul letto e
riprendeva posto sotto le coltri.
Il
più piccolo si rannicchiò su se stesso e si
coprì con la
trapunta fino alle orecchie quando vide lo sgomento dilatare gli occhi
del
fratello: detestava dare un dolore a Lovino, anche quando la sofferenza
era
solo un misero riflesso della propria. Lo aveva visto tormentato per
tanti
anni, dopo che la mamma aveva tentato di ucciderlo: perfino lui, il suo
fratellino, non era riuscito a cancellare del tutto quell’eco
di diffidenza dai
suoi occhi. Da quando Antonio era riuscito ad operare la magica
metamorfosi su
di lui, aveva desiderato non vedere mai più quelle ombre
cupe sul suo volto.
Odiava
più di ogni altra cosa sconvolgere il fratello: aveva
taciuto così a lungo anche per non affliggerlo alla vigilia
della sua completa
guarigione.
Lovino
richiuse la cartella, inspirò a fondo un paio di
volte e infine sibilò:
«Chi
è stato?»
Feliciano
scosse la testa, conficcandosi ulteriormente nella
caverna delle coltri. Non riusciva a pronunciare i nomi dei suoi
aguzzini:
sarebbe stato come evocarli, renderli presenti nella loro camera, e non
voleva
assolutamente che i loro spettri irrompessero in quella
serenità domestica.
«Da
quando?» cambiò la domanda Lovino.
Una
mano strisciò fuori dalle lenzuola, con cinque dita
inalberate.
«Quindi
dall’inizio del liceo» chiarificò il
maggiore.
Dall’ammasso
di coperte provenne un camuffato cenno di
assenso.
«Perché
non me ne hai parlato prima?»
Lovino
lanciò la carpetta in fondo al letto e si accostò
al
fratello quando un sommesso singhiozzare si levò dalle
coltri.
Cercò
di tranquillizzare Feliciano con le classiche parole
di circostanza, e sopperì alla mancata
originalità del dialogo accarezzando
goffamente il dorso del consanguineo.
Feliciano
apprezzò l’affetto che il fratello gli dimostrava
così grossolanamente, e parte delle lacrime che
versò quella sera fu per la
commozione di fronte alle attenzioni di Lovino.
Ma
non riuscì ad articolare nemmeno una parola in
più.
***
«E
questo cosa ha a che fare con mio cugino?»
«Probabilmente
Lovino crede che non abbia abbastanza cura di
Feliciano.»
Gilbert
scosse la testa, rassegnato: il maggiore dei Vargas
aveva un modo tutto suo di interpretare il mondo.
«Comunque
sia» cambiò discorso, con un sospiro.
«Mi dispiace
che Feliciano sia stato preso di mira dai bulli.»
«Hanno
provato anche con Lovino, una volta…»
cominciò
Antonio, e fu superfluo concludere la frase; Gilbert provò
quasi l’impulso di
farsi il segno della croce in onore di quei poveri martiri che avevano
provato
a tiranneggiare il Vargas sbagliato.
«Anche
per me e Matthew non è stato facile»
ricordò,
passando una mano tra i capelli. Aveva rinunciato alla famiglia per il
suo
fidanzato, poiché nessuno dei parenti, a parte Ludwig, era
riuscito a capirlo.
Antonio
annuì, e batté una pacca cameratesca sulla spalla
del compare. Anche la sua storia con Lovino aveva vissuto momenti di
profonda
crisi, a dispetto della tranquillità attuale: avevano
superato ogni cosa
insieme, e le difficoltà avevano cementato il loro rapporto.
Ma sentiva ancora
un brivido gelido sfiorargli la schiena nel ripensare a quei giorni.
«Non
è facile per quelli come noi» soppesò
Antonio.
«Viviamo
in un mondo di ipocriti» scattò Gilbert,
rialzandosi in piedi di botto. «Non è giusto che
sia così.»
Antonio
incrociò le braccia dietro la testa, dondolandosi
sulla sedia. Un sorriso amaro gli piegò le labbra nel
ricordare le strofe di
una canzone che aveva ascoltato un’infinità di
volte: “lo sanno a memoria, il
diritto divino, e scordano sempre il perdono”.
Abbandonò
la sedia e si diresse fuori dalla cucina.
Aveva
bisogno di abbracciare il suo Lovino.
Aveva
bisogno di stringere al petto la ragione per cui aveva
e avrebbe sopportato le calunnie della gente.
Al
contempo, Gilbert inviò un messaggio a Matthew, per
poterlo incontrare quella sera.
Anche
lui sentiva la necessità di poter accarezzare la fonte
della sua forza.
E
si augurarono entrambi che anche Feliciano capisse come stringere
il motivo della sua strenua resistenza.
***
La
scopa si fermò a metà strada.
Francis
appoggiò le mani sulla sommità del bastone, e
adagiò
il mento sul dorso.
Fuori
dalle finestre infuriava una pioggia torrenziale.
Quella
mattina il servizio maree li aveva avvisati di un
pericoloso codice arancio: con quell’acquazzone i canali
avrebbero invaso tutti
i marciapiedi.
Fischiò
malizioso in direzione delle nuvole, e si
compiacque:
«Oggi
Feliciano e Ludwig devono vedersi. Sapete esattamente
quando scaricare il vostro fardello, mie care.»
E
continuò a fischiettare allegro, fantasticando sulle
possibilità che quel pomeriggio di tempesta schiudeva ai due
innamorati.
Chiedo
di nuovo
scusa per l’ABNORME ritardo çAç
Dunque,
che dire…
questa fanfic si concluderà al decimo capitolo, e
cercherò di non avere più
ritardi così disastrosi ç_ç Ed il
prossimo sarà più GerIta di questo capitolo
di passaggio XD
Venendo
a questo
capitolo nello specifico, ho solo una nota da comunicare: la canzone
che
Antonio ricorda è “Il testamento di
Tito” di Fabrizio De Andrè.
Chiedo
ancora
scusa per l’assenza prolungata, e vi ringrazio per essere
arrivati fin qui a
leggere e per la vostra pazienza<3
A
presto!
Red
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Squadratura ***
Squadratura
Feliciano si
dondolò incerto sul bordo del divano.
Lui
e Ludwig si erano rifugiati in casa per sfuggire
all’acquazzone, e Kiku aveva inviato un messaggio al
coinquilino per avvisarlo
che sarebbe tornato solo verso sera.
Era
rimasto in silenzio quasi tutto il tempo, guadagnandosi
le occhiate preoccupate del tedesco, filtrate come sempre dalla sua
espressione
autoritaria.
Aveva
deciso di parlarne anche con lui: dopo la
chiacchierata notturna con il fratello, si sentiva pronto a condividere
quel frammento
oscuro della sua vita con Ludwig. Ad essere del tutto onesti, avrebbe
preferito
evitare la questione il più a lungo possibile, ma non poteva
più scappare: aveva
fatto soffrire Lovino, con il suo silenzio. Non essendo a conoscenza di
quella
sporca faccenda, il maggiore dei Vargas non aveva potuto fare nulla per
aiutare
suo fratello. E quell’impotenza lo aveva ferito enormemente.
Non
voleva replicare lo stesso errore con Ludwig.
Ma
non sapeva da che punto cominciare. Non era un argomento
facile da trattare: era irto di spine, ed occorreva maneggiarlo con
cura per
non pungersi.
Provò
alcune volte ad iniziare il discorso, ma riuscì solo a
masticare dell’aria amara nella sua bocca. Le parole
sembravano troppo
ingombranti per uscire dalla gola stretta dall’ansia.
Lo
sguardo gli cadde sulla tracolla che portava sempre con
sé. E l’idea lo colpì di conseguenza.
Ludwig,
che era andato ad appoggiare i cappotti in camera,
tornò in salotto e trovò l’italiano che
tracciava rapido delle linee sul suo
blocco per appunti.
Tentò
di chiedergli cosa stesse facendo, ma l’altro gli fece
frettolosamente cenno di attendere, senza nemmeno staccare gli occhi
dal
foglio.
Ludwig
si sedette vicino al ragazzo, e attese pazientemente
che avesse finito.
***
Matthew
sollevò le mani dal piano e le accartocciò tra di
loro per mascherarne il tremore vergognoso. Esibirsi davanti al suo
fidanzato
era molto più imbarazzante che farlo per un pubblico
sconosciuto.
«Se
porti questa al concorso, il podio è garantito»
proclamò
sicuro Gilbert, sbrodolato sul letto.
«Se
non mi faccio prendere dal panico» ridimensionò
Matthew,
spingendo gli occhiali sul naso. «Non sono abituato ad essere
al centro
dell’attenzione.»
Per
il suo carattere timido e remissivo, Matthew era da
sempre abituato ad essere l’ombra del fratello più
solare ed espansivo. Era una
condizione comoda, poiché tutto ciò che faceva
passava inosservato agli altri,
e non aveva bisogno di giustificazioni o scuse: bastava che si
limitasse ad
esistere in sordina, e nessuno si sarebbe lamentato con lui. Gilbert
aveva
cambiato tutto: lo aveva letteralmente trascinato fuori dal suo buco
confortevole per gettarlo sotto le luci della ribalta. Anche se
continuava a
tenere gli occhi abbassati per la maggior parte del tempo, aveva smesso
di
vivere con la testa chinata, e aveva riscoperto quanto fosse comodo
usare le
parole per comunicare con la gente.
Il
cambiamento più evidente, quello che era valso le lodi
dell’esagerato fratello maggiore, si era verificato nel suo
rapporto con il
pianoforte: aveva sempre amato quello strumento, fin da bambino, ma
l’aveva
suonato solo quando la casa era vuota, o nella deserta aula di musica
della
scuola. Gilbert lo aveva gettato nel mondo della musica competitiva e
dei
concorsi, perché “un talento raro come il suo non
doveva essere sprecato”. Si
sentiva ancora fuori luogo in quell’ambiente agonistico, come
una trota che
cerca di gareggiare con uno stormo di rondini nel volo. Ma Gilbert lo
stava
aiutando a spogliarsi della sua ritrosia, o, perlomeno, a nasconderla
nel
momento decisivo.
Poggiò
di nuovo le dita sulla tastiera, ma non poté
riprendere a suonare: due mani andarono a coprire le sue,
allontanandole dal
piano.
Gilbert
condusse le nocche del ragazzo contro le sue labbra.
Aveva pensato molto, da quando aveva parlato con Antonio del bullismo.
Matthew
non aveva vissuto quell’esperienza perché Gilbert
l’aveva protetto: nessuno
aveva voglia di cominciare una battaglia con il dittatoriale ragazzo,
per cui i
teppisti avevano preferito dedicarsi a prede più facili.
Aveva
fatto in modo che la scomunica da parte della sua
famiglia non creasse sensi di colpa nel suo fidanzato: Gilbert aveva
sopportato
il rifiuto e la collera dei familiari con grande freddezza e in
solitudine. Era
certo della sua scelta, e nessuna scenata o minaccia lo avrebbe fatto
desistere. Non aveva potuto impedire al suo cuore di stringersi in una
fitta,
però, quando aveva stipato due valigie con i cocci della sua
vita e aveva preso
il primo treno disponibile per Venezia.
E
non avrebbe mai scordato la sera di quella giornata,
quando un arruffato e affannato Matthew si era presentato alla soglia
dell’ostello in cui aveva pernottato. Non sentendolo
rispondere al cellulare,
aveva chiamato a casa, dove fortunatamente aveva risposto Ludwig. E da
lui
aveva ottenuto le coordinate del fidanzato.
Il
cuore, che era rimasto raggrinzito nel petto per tutto il
giorno, si era improvvisamente gonfiato, facendogli quasi esplodere la
cassa
toracica: Matthew, il timido e posato ragazzo che non respirava nemmeno
se il
suo fiato poteva infastidire qualcuno, si era precipitato in una
città
sconosciuta, armato solo di una cartina comprata dal primo edicolante
disponibile e di uno zainetto misero, adatto a contenere solo lo
stretto
indispensabile. Lo aveva abbracciato fino a sentire le ossa
scricchiolare, e
avrebbe voluto amarlo quella sera stessa, se solo non fossero stati in
una
camerata da sei persone. A dire il vero, Gilbert non considerava quella
situazione un grosso problema: bastava essere silenziosi e tirare le
coperte
fin sopra la testa. Ma Matthew si era opposto, le guance di un rosso
congestionato.
Erano
stati quei pensieri a mettergli le ali ai piedi mentre
correva verso la casa del suo fidanzato.
Gli
sfiorò il mento, sollevandolo in modo che gli occhi
cerulei potessero rispecchiarsi nella tinta rossastra dei propri.
«Gilbert?»
lo chiamò titubante Matthew.
Il
ragazzo non parlò, preferendo un altro tipo di risposta:
sfilò gli occhiali al giovane e si chinò sulle
sue labbra.
Per
quel giovaner che arrossiva, che balbettava e si
imbarazzava, avrebbe continuato a fare il mestiere dello scudo:
sopportare e
proteggere.
Lo
sollevò di peso senza troppo sforzo e lo adagiò
sul letto
dove fino a qualche secondo prima era stato sdraiato ad ascoltare le
composizioni del giovane.
Quella
volta non erano in ostello.
***
La
matita corse veloce, molto più di quanto avrebbero potuto
fare le parole. Le dita inciamparono nel ritrarre i suoi aguzzini, che
rimasero
delle figure dai connotati indefiniti: la mano sembrava avere timore
perfino di
quelle rappresentazioni cartacee e si soffermò su di loro il
meno possibile.
Il
foglio si riempì di scale di grigio e tratti nervosi,
andando a formare sulla tela quello che era il suo incubo nel mondo
reale: i
fogli stracciati, i ghigni derisori, tutto prese vita nel rettangolo
del
disegno. Al termine, Feliciano lo consegnò al tedesco senza
nemmeno guardarlo:
temeva che, se lo avesse fissato per un secondo di troppo, avrebbe
stracciato
tutto quanto senza dare modo al suo fidanzato di intravederne nemmeno
uno
stralcio.
Appallottolò
le mani una sull’altra, attendendo
impazientemente il verdetto del compagno.
Osservò
le sopracciglia bionde congiungersi per cercare di
comprendere il significato di quel disegno, le vide sollevarsi per lo
sbigottimento inorridito ed aggrottarsi di nuovo per la rabbia; il
tutto
attraverso l’immancabile vetro di compostezza quasi marziale
del tedesco.
«Chi
è stato?»
Come
aveva fatto con il fratello, Feliciano scosse la testa.
Non voleva che quei nomi si introducessero nella camera che condivideva
con
Lovino, e a maggior ragione non voleva che si intrufolassero tra lui e
il
fidanzato
«Quando?»
cambiò allora la domanda Ludwig.
«Dall’inizio
del liceo» confessò Feliciano con un filo di
voce.
Ludwig
spostò il foglio con calma encomiabile, poggiandolo
sul bracciolo del divano. Intrecciò le dita e
puntò i gomiti alle ginocchia,
dopodiché si voltò verso Feliciano e
scandì, lentamente:
«Quindi
sono cinque anni che sopporti… questo genere di
cose.»
L’italiano
annuì, la bocca e il viso incurvati verso il
basso.
«Ne
avevi mai parlato con qualcuno, prima?»
La
frangia nascose il viso di Feliciano quando questo
mormorò:
«Con
Lovino. L’altra sera.»
Ludwig
lo fissò, l’iride azzurra intrisa di una dolcezza
seria. L’espressione nel suo sguardo non rivelò
all’italiano i motivi per cui
il tedesco aveva steso un braccio nella sua direzione: i ricordi di
quanto il
cugino avesse sofferto, dopo essere stato ostracizzato dalla famiglia,
e di che
sollievo fosse stato, per Gilbert, avere una persona con cui parlare.
Non gli
spiegò le ragioni, ma con quello sguardo cercò di
fargli capire che non lo
avrebbe lasciato in balia dei suoi tiranni.
Feliciano
si accovacciò nel suo abbraccio forte, stringendo
le dita sulla schiena del giovane e inspirando a pieni polmoni il suo
profumo.
La prima volta che si erano incontrati, Ludwig era avvolto
dall’odore dei
dolci, del succo di mirtilli caldo e del Natale; ora, invece, percepiva
solo
una fragranza decisa ma non pungente sui vestiti del tedesco, che lo
faceva
sentire al riparo.
Ludwig
non lo spinse oltre, come sempre. Feliciano aveva
sempre un sorriso a portata di mano, ed era pronto a schiaffarselo
addosso in
ogni momento, ma il tedesco aveva imparato cosa si celasse dietro
quella
facciata di allegria: la paura del giudizio altrui, la stessa fobia che
alimentava il lato autoritario del carattere di Gilbert.
Non
voleva che Feliciano cominciasse a temere anche lui.
Lo
strinse forte, senza dire altro.
Forse,
ciò di cui l’italiano aveva bisogno erano un
po’ di
quiete e un abbraccio.
La
prima, per capire che non sarebbe stato criticato o
insultato; il secondo, affinché comprendesse che non sarebbe
stato solo,
nemmeno nel silenzio.
E
siamo a tre
capitoli dal finale.
Ancora
una
volta, chiedo scusa per il ritardo ç_______ç
Purtroppo
il
tempo per scrivere è stato molto ridotto
dall’avvicinarsi degli esami e dalla
preparazione di pile e pile di moduli e documenti .-. Vi chiedo scusa,
ancora
una volta.
Per
evitare
altri ritardi, almeno negli ultimi capitoli, ho già
cominciato a scrivere il
prossimo<3
Grazie
per
essere arrivati fin qui<3
A
presto!
Red<3
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Vignetta ***
Vignetta
Aveva
riflettuto per buona parte della notte su una
possibile risoluzione.
Il
piano d’azione era nato con le prime luci della mattina.
Si
era recato a lezione come al solito, ed era rimasto
chiuso nel suo tipico mutismo concentrato durante le spiegazioni del
professore.
Non
vi era traccia visibile della decisione che stava
maturando dentro di lui. Ma diventava più forte ogni volta
che vi si soffermava
di nuovo con il pensiero, che limava i bordi della sua strategia.
Al
termine dell’ora, Ludwig si caricò la tracolla in
spalla
e deviò dalla solita strada.
Aveva
scelto un percorso diverso, per quel giorno.
***
Le
ragazze della sua classe erano simpatiche.
O
almeno, alcune di loro erano più
simpatiche dei ragazzi che lo bulleggiavano.
C’era
Mariangela, che aveva sempre il naso tuffato nei libri
e un sorriso gentile per i personaggi del mondo reale; poi Rebecca, che
copriva
sempre la fronte con la frangia per nascondersi dalle persone, e che
riservava una
cordialità impacciata a chi entrava nel suo mondo
introverso. Sarebbe stato
bello mettere su tela l’espressione concentrata di Mariangela
mentre era
immersa nel mondo di fantasia cartacea: si immaginava il suo ritratto,
magari
in bianco e nero, immerso in un profluvio di personaggi magici e
colorati tutto
intorno. O risaltare il sorriso tremolante di Rosalba, magari con un
piccolo
punto luce sulle labbra.
Erano
un po’ meno simpatiche le ragazze della bancata in
fondo all’aula, posizione strategica per aggiornare lo stato
di Facebook mentre il prof spiegava
le
conquiste napoleoniche. Non vedeva niente di tramutabile in arte nel
loro
vestiario omologato, nei capelli stirati con la stessa piega o nei modi
di fare
affettati; sembravano una schiera di bambole addestrate ad abbigliarsi
e
comportarsi secondo precise direttive. Si chiedeva se i loro burattinai
fossero
la televisione o i giornaletti scandalistici.
Nel
loro codice di comportamento, era previsto lo
stritolamento psicologico degli esseri considerati inferiori o, per
meglio
dire, “sfigati”.
Il suo vivere fuori
dagli schemi lo rendeva tristemente un rappresentante della categoria,
quindi
un bersaglio delle loro cattiverie. La maggior parte delle volte si
limitavano
a ridacchiare in falsetto per le crudeltà dei bulli. Come in
quel caso.
Feliciano
si sentì strappare il foglio dalle mani; il
disegno sventolò nell’aria, mentre uno dei suoi
aguzzini commentava aspro:
«Cos’è
questo schifo? Sono solo cerchi e quadrati.»
«È
uno schizzo preparatorio» si difese Feliciano.
Allungò la
mano solo una volta per recuperare il foglio, che volò fuori
dalla sua portata.
Si ritrasse sul suo banco, in attesa che la tempesta si placasse: ormai
conosceva il copione.
«E
cosa vuoi disegnare? Un altro ragazzo?»
La
nota acida presente nella sua voce colò sul viso di
Feliciano, corrodendogli le guance. Il giovane strinse le spalle e
incassò la
testa, pronto a sopportare in silenzio.
I
bordi del foglio andarono a pizzicargli la fronte quando
il bullo cominciò a schiaffeggiarlo ritmicamente con
l’embrione di disegno.
«Hai
perso la lingua?»
Un
membro della sua combriccola di degenerati suggerì un uso
molto volgare che avrebbe potuto fare della sua lingua, e,
disgraziatamente per
lui, il professore scelse proprio quel momento per entrare in classe.
«Cosa
sono queste oscenità?» le vene sul collo da
tartaruga
dell’attempato insegnante disegnarono una ragnatela rossastra
per la
riprovazione. «E tu perché sei in piedi?»
«Stavo
solo guardando l’ultima creazione del nostro artista»
spiegò innocente il suo
aguzzino, calcando volutamente su quell’insulto mascherato.
«Beh,
l’hai visto. Torna al tuo posto.»
La
mano da teppista schiacciò il disegno sul tavolo,
lasciandolo miserevolmente sgualcito.
«Complimenti,
artista.»
Feliciano
non si scomodò di rispondere, mentre rassicurava
il foglio, lisciandolo con le dita prima di rimetterlo in cartella.
Aveva
provato a capire i motivi per cui se la prendevano con
lui in quel modo, ma non ci riusciva. Non aveva fatto nulla di male, a
parte disegnare
più degli altri. Ritagliarsi una porzione di mondo
fantastico con una matita e
un foglio era un delitto così grave?
La
teoria della relatività non riuscì ad
accattivarsi la sua
attenzione, che venne facilmente distratta dal volo di un uccellino
fuori dalla
finestra. Fu mentre seguiva il battito delle ali del volatile che lo
vide.
Il
cuore sembrò schizzargli dritto nel cranio;
l’impatto fu
così forte che si sentì strattonare verso
l’alto, e per poco non si sbilanciò
sulla sedia.
I
capelli dorati sotto il sole insipido di novembre e gli
occhi azzurri fermi in un’espressione seria, Ludwig stava
aspettando al
cancello della scuola.
Non
diede segno di averlo visto, così Feliciano
inalberò il
libro di fisica come scudo. Solo gli occhi castani spuntavano furtivi
dalle
pagine del libro.
«Vargas,
smettila di fare il buffone» lo riprese spazientito
il professore, dopo un quarto d’ora di occhiatine fulminee
alla finestra.
Feliciano
fu costretto ad abbassare il libro, e cercò di
evitare il contatto visivo con la finestra fino al suono della
campanella.
Gettò i libri nello zaino, in modo totalmente confusionario,
si alzò facendo
cadere la sedia e uscì dall’aula travolgendo quasi
il professore. Non diede
peso alle proteste del docente e di alcuni suoi compagni: non poteva
comportarsi in modo normale quando tutto era a soqquadro dentro di lui.
Il
cuore gli pulsava nel cranio, e il detronizzato cervello era finito
calpestato
dai piedi; il sangue si era rintanato nelle sue orecchie, dove
mugghiava come
un mare in tempesta, e la disposizione degli organi interni era
completamente
rovesciata. E continuò a correre in quello stato, il cuore
che pulsava
impazzito in un angolo indefinito della sua testa.
Arrivò
di fronte a Ludwig accaldato, scomposto e in
confusione.
Il
tedesco inarcò le sopracciglia fissando le sue guance
congestionate, le nuvolette di fiato ingrossato che sciamavano dalla
bocca del
giovane e i suoi occhi liquidi di perplessità.
«Come
mai…» ansò l’italiano.
Cercò di pettinare la chioma
scarmigliata dalla corsa e dal vento freddo, ma il suo tipico ciuffo
svettò
comunque sul resto dei fratelli, sfidando il cielo. «Come mai
sei qui?»
Ludwig
dovette compiere un grosso sforzo per costringersi a
fare una cosa simile in un luogo pubblico: allungò un
braccio verso il ragazzo
e gli circondò le spalle, avvicinandolo a sé.
«Sono
venuto a prenderti» mitragliò, abbastanza veloce
da
non avere ripensamenti lungo la frase. Le palpebre
dell’italiano batterono due
volte, smarrite: il tedesco aveva parlato così rapidamente
che non era riuscito
a cogliere le parole.
«Andiamo»
recise Ludwig.
Feliciano
lo seguì, ancora troppo confuso per districare una
singola emozione dal gomitolo che gli aggrovigliava lo stomaco. Ma il
braccio
di Ludwig che lo stringeva puntava spudoratamente la bussola delle sue
emozioni
verso la felicità.
Il
tedesco non parlò molto, le labbra cucite
dall’imbarazzo.
Non
era certo di avere fatto la cosa giusta.
I
bulli avrebbero potuto sfruttare quella visita a sorpresa
come nuovo pretesto per tiranneggiarlo. Ma doveva correre il rischio.
Avrebbero
continuato a sbeffeggiarlo comunque, che lui si fosse recato o meno ai
cancelli
della scuola. Tuttavia, in quel modo quei piccoli delinquenti avrebbero
saputo
che Feliciano non era solo, nella sua lotta per la sopravvivenza
scolastica.
E,
cosa più importante di tutte, ne sarebbe stato cosciente
anche l’italiano.
Accentuò
la presa sulle sue spalle, mentre uscivano in
strada.
***
«Anche
oggi il locale è animato» notò allegro
Antonio.
Lovino
lanciò un’occhiata torva alla sala, senza smettere
di
asciugare i bicchieri: un sovraeccitato Feliciano stava raccontando gli
avvenimenti del giorno ad un curiosissimo Francis e ad un sarcastico
Gilbert,
con un silente e imbarazzato Ludwig a fare da sfondo.
L’eroico
salvataggio del tedesco riecheggiava tra i tavoli
vuoti: come lo aveva aspettato per un’ora nel gelo di
novembre, come lo aveva
portato via dalla scuola, davanti alle facce attonite e disgustate dei
bulli.
Lovino
strinse il bicchiere con troppa forza sul dettaglio
del “braccio intorno alle spalle”, ed il bordo si
incrinò, lasciandogli una
piccola scheggia come regalo. Lo gettò nel bidone con enorme
indifferenza, e ne
afferrò un altro per farlo passare sotto le cure dello
strofinaccio.
Osservò
il volto del fratello: le labbra sembravano
alimentate da una miscela infinita, instancabili nel raccontare; la
pelle del
viso pareva esplodere sotto la pressione di un sole interno, tanto il
suo volto
era illuminato; gli occhi stessi brillavano, scattando da uno
all’altro dei
suoi ascoltatori, senza sosta, come cuccioli troppo vivaci.
Poggiò
il bicchiere nella credenza insieme ai suoi compari e
valutò, asciutto:
«Il
crucco ha fatto qualcosa di meno inutile del solito.»
«Davvero?»
il dubbio nella voce di Antonio era riconducibile
all’aria inferocita con cui Lovino aveva proferito quella
sentenza.
Il
ragazzo si voltò di spalle, perché il fidanzato
non
vedesse il suo volto.
«Era
molto tempo che non vedevo mio fratello così spensierato.
Ha fatto qualcosa di buono.»
Antonio
sorrise, avvicinandosi al giovane per abbracciarlo.
Lovino
poteva anche voltarsi, ma ormai sapeva riconoscere la
presenza delle lacrime anche dall’angolazione delle sue
spalle: le ritirava
così vicino alle orecchie solo quando aveva bisogno di
rattrappirsi su se
stesso per arginare il pianto.
«Allora
adesso approvi la loro relazione?»
Non
aveva previsto la gomitata, che lo colpì allo stomaco
con la precisione di un cecchino.
«Ho
detto che ha fatto una cosa giusta. Questo non vuol dire
che approvo che quel crucco stia attaccato a mio fratello»
precisò Lovino,
affrettandosi a sparire in cucina.
Antonio
massaggiò la bocca dello stomaco, e si sforzò di
arrancare dietro l’italiano guerrafondaio.
Durante
il tragitto, fissò per un attimo Feliciano. E
sorrise di rimando: quello che aveva detto Lovino era vero.
Era
tanto tempo che il più piccolo dei Vargas non era
così
felice.
Meno
due alla
fine ç_ç
Comincio
subito
a scrivere il prossimo per non farvi attendere troppo XD (sperando che
quei
tiranni degli esami mi diano un attimo di tregua per stare al computer
.-.).
Come
sempre, un
gigantesco grazie a tutti voi che siete arrivati fino a qui<3
A
presto!
Red
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Pennino ***
Pennino
Erano
passati alcuni mesi da quando Ludwig era diventato il
pettegolezzo della scuola e lo zimbello del ristorante per
l’audace salvataggio
del fidanzato.
I
bulli covavano risentimento per lo stangone biondo che
aveva rovinato il loro giocattolo preferito – ora Feliciano sorrideva; inoltre, la minaccia di
imbattersi nella vendetta di un tedesco i cui pugni erano grandi quanto
le loro
teste li intimoriva abbastanza da aver ridotto i loro scherzi sadici ai
danni
dell’artista.
Il
personale del ristorante, al contrario, sguazzava in quella
novità con un gusto che rasentava la cattiveria: Gilbert non
faceva che
sbeffeggiare il cugino, sebbene con un indelebile affetto di
sottofondo;
Francis lanciava battutine a metà tra il malizioso e
l’ammirato, Lovino
sbuffava imprecazioni tra i denti e Antonio cercava di limare gli
eccessi degli
altri tre.
La
magia di quel periodo aveva trovato realizzazione anche nel
blocco da disegno di Feliciano.
Scorci
di Venezia, vedute di Bolzano e paesaggi urbani di
Mestre si erano moltiplicati su quelle pagine bianche, evidenziando il
nuovo
legame che l’artista aveva stretto con la realtà.
Pian piano, il mondo
circostante era diventato uno scenario abbastanza amichevole da poter
essere
immortalato sui fogli; il timore di essere ferito dal resto
dell’umanità era tamponato
dalla presenza di Ludwig, e così la realtà aveva
trovato un’intercapedine
tramite cui scivolare nell’anima del ragazzo.
Non
era stato un cambiamento improvviso: il primo paesaggio
era comparso quasi timidamente nel blocco per appunti, niente
più di un piccolo
quadrato a lato di uno schizzo più grande. Poi, un giorno
alla volta, le brecce
sul reale erano divenute più spaziose e frequenti. Feliciano
non aveva perso la
sua immaginazione cavalcante, riscontrabile
nell’infinità di disegni
fantasiosi, ma viveva più serenamente il suo rapporto con la
realtà.
Ovviamente,
il suo soggetto preferito era uno solo. E aveva
gli occhi azzurri e i capelli biondi.
***
Ludwig
schiuse gli occhi nella penombra della sera, ed
impiegò qualche istante a rintracciare la schiena del
fidanzato, incurvata
sulla scrivania. Si rialzò annodandosi le lenzuola ai
fianchi e si accostò al
giovane.
Nell’ultimo
mese, Feliciano si era fermato spesso a casa sua
per la notte. Man mano che lo spavento del ragazzo nei confronti del
mondo
scemava, l’amore che gli dimostrava diventava sempre
più fisico: all’inizio del
loro rapporto, Feliciano faticava a esprimersi con baci e abbracci, ma
l’evoluzione della sua amicizia con la realtà
aveva alimentato l’affettuosità
nei confronti del compagno. Ricordava ancora quel giorno di due mesi
prima,
quando Feliciano gli si era accostato e lo aveva baciato con le labbra
tremanti
di imbarazzo. Era stata la prima volta, dall’inizio del loro
rapporto, in cui
aveva preso l’iniziativa.
La
loro relazione si era sviluppata, da allora, fino ad
arrivare ai frequenti soggiorni notturni del ragazzo a casa del tedesco.
La
loro prima volta non era stata romantica e perfetta come
nei romanzetti rosa: Ludwig non sapeva esattamente come approcciarsi al
ragazzo
nudo sotto di sé, e Feliciano non riusciva a smettere di
ridacchiare ogni volta
che il tedesco lo sfiorava – “mi fai il
solletico!”, squittiva. Era occorso un
quarto d’ora almeno perché Feliciano frenasse il
riso e Ludwig riuscisse a
rilassare a sufficienza il compagno. Si era fermato quando
l’italiano aveva
versato la prima lacrima, e Feliciano lo aveva incoraggiato ad andare
avanti
con un sorriso un po’ tirato dal dolore.
L’imbarazzo e una certa dose di
goffaggine avevano caratterizzato quella prima serata, cancellati pian
piano da
tutte le notti che erano seguite.
«Cosa
stai disegnando?» domandò, affacciandosi dalla
spalla
dell’italiano.
Feliciano
sfoggiò un sorriso radioso e girò il foglio verso
di lui.
«Pioggia»
dichiarò entusiasta. Una schiera di goccioline affollava
il disegno, sfumando i contorni di una città schizzata a
carboncino.
Ludwig
gioì interiormente per quell’opera: il paesaggio
urbano era chiaramente frutto della fantasia del giovane – i
comignoli
attorcigliati come cavatappi e le porte dalle forme stravaganti ne
erano un
segno lampante -, ma il temporale era sicuramente il calco di quello
che
batteva sul vetro della sua camera in quel momento.
«Mi
piace disegnare la pioggia» trillò Feliciano,
appoggiando il foglio alla scrivania. «Mi ricorda
noi.»
Ludwig
concordò con un cenno della testa. Il loro primo
bacio, la confessione di Feliciano sul suo passato, perfino la loro
prima volta
avevano avuto come sottofondo lo scroscio di un acquazzone.
D’altronde, Venezia
non era famosa per il suo clima secco e soleggiato.
«Solo…»
Feliciano si voltò per abbracciare il tedesco, e
articolò il resto della frase sul suo petto. «Solo
la volta in cui sei venuto a
prendermi a scuola non pioveva.»
«La
prima volta» gli ricordò Ludwig, stringendo a sua
volta
il corpo sottile del giovane. «Quelle dopo ha
piovuto.»
«Non
sempre.»
«Quasi
sempre.»
Feliciano
ridacchiò, annuendo contro la sua clavicola.
«Le
cose sono migliorate» mormorò, esultante.
«Ora non mi
prendono più in giro come una volta.»
Ludwig
inarcò un sopracciglio come un sergente.
«Sul
serio» avvalorò Feliciano. «Lo fanno
ancora ogni tanto,
ma non mi strappano più i disegni, e non mi lanciano
più lo zaino fuori dalla
finestra.»
L’abbraccio
del tedesco si fece più stretto sui suoi
fianchi, e Feliciano stampò un sorriso sul suo collo. Ludwig
non gradiva per
nulla il racconto delle angherie che l’italiano era stato
costretto a subire,
ma non ne ostacolava la narrazione: sapeva che per Feliciano era
importante
sfogare quell’acido, dopo averlo lasciato fermentare sullo
stomaco per tutto
quel tempo.
«Ora
sono contento» sussurrò, facendo le fusa come un
gatto.
«Sono davvero contento.»
Feliciano
sgusciò rapido dalla presa del tedesco e si tuffò
sotto le coperte, da cui emerse poco dopo per occhieggiare il fidanzato.
«Mi
raggiungi?» domandò, inclinando la testa.
Anche
la parlantina del ragazzo aveva risentito del suo
cambio di prospettiva: ora una frana continua di parole ruzzolava dalle
labbra
del giovane, elettrizzate da quella nuova attività dopo
tanti anni di forzato
silenzio.
Ludwig
si stese a sua volta sotto le coltri, lasciando
cadere il lenzuolo che lo aveva coperto fino a quel momento.
Feliciano
si accoccolò contro di lui, rannicchiandosi nel
suo calore.
«Non
sono contento» ritrattò, avviticchiandosi al
fidanzato.
«Sono felice. Completamente felice.»
«Non
stai esagerando?» lo smorzò Ludwig, con la sua
rigidità
priva di cattiveria.
I
capelli del ragazzo gli solleticarono il petto quando
questo scosse la testa in cenno di diniego.
«Se
non è questa la felicità, non so cosa potrebbe
esserlo»
gorgheggiò felice. «Mi sembra che il cuore sia
troppo piccolo per contenerla
tutta.»
A
dispetto della sua espressione inflessibile, Ludwig
arrossì per le parole del giovane: l’artista
estraeva quelle metafore dalla sua
anima solo per lui.
Feliciano
gli appoggiò l’orecchio allo sterno e
sospirò
piano:
«Tu
sei felice quanto me?»
Ludwig,
che ancora non aveva vinto la guerra contro la parte
più ritrosa del suo carattere, dovette concedersi qualche
secondo di esercizio
respiratorio prima di riuscire ad avvicinarsi all’orecchio
del giovane e
bisbigliargli la sua risposta.
Feliciano
reagì come una molla, atterrandogli sull’addome
con espressione raggiante e lanciandogli le braccia intorno al collo.
L’italiano
sublimò la gioia in una risata incontenibile,
Ludwig in un imbarazzo che gli colorò le gote e gli
cucì le labbra.
Poi
Feliciano si allungò su di lui per raggiungere la sua
bocca, e la felicità scanzonata di poco prima
lasciò il posto a un sentimento
più languido, che spinse i loro corpi nudi uno
sull’altro.
Le
iridi azzurre del tedesco si immersero in quelle castane
dell’italiano, che lo fissavano dal basso, scintillanti di
affetto e attesa. La
luce di quegli occhi caldi si era rafforzata, sancendo un altro
cambiamento
negli atteggiamenti del giovane: quel bagliore era sempre stato
presente, ma
smorzato e soffocato dalla cattiveria del mondo, mentre ora era vivido
e
palpitante, abbastanza forte da rischiarare tutto il viso del giovane.
Le
dita del tedesco percorsero il collo, si aprirono sul petto,
scivolarono sulla pancia e si fermarono sulle gambe.
Feliciano
schiuse le cosce magre e spiegò le labbra in un
sorriso, stringendo il fidanzato a sé.
Ludwig
rimase ancora qualche istante a contemplarlo, le
labbra strette che tentavano di dissimulare la reale emozione: le
pupille che
lo fissavano adoranti, il corpo ancora parzialmente acerbo, e
l’anima
esuberante che finalmente trasudava libera dalla pelle del giovane.
Non
aveva capito del tutto la ragione per cui il cugino
aveva abbandonato l’intera famiglia per una sola persona, e
non lo aveva
compreso fino in fondo nemmeno nel primo periodo in cui aveva
frequentato
Feliciano. Ma in quel momento, ora che i loro sentimenti erano stati
rafforzati
dal vissuto trascorso insieme e che i momenti di intimità
avevano creato una
catena inossidabile tra di loro… in quel momento, sentiva
finalmente di poter
capire.
«Dobbiamo
cominciare a pensare al modo in cui dirlo alle
nostre famiglie.»
Feliciano
non colse subito il reale significato delle parole
del suo fidanzato. Gli occhi castani lo fissarono perplessi per qualche
istante, prima di spalancarsi per la meraviglia.
Un
risolino misto a lacrime irruppe sulla sua spalla, quando
l’italiano lo abbracciò con tutte le sue forze.
«Non
sarà facile» ansò, il fiato spezzettato
dalle risa e
dalle lacrime di contentezza. «Nemmeno per Lovino e Antonio
è stato semplice.»
«Nemmeno
per mio cugino» Ludwig costrinse gentilmente il
ragazzo a distendersi nuovamente sul materasso e lo avvertì:
«È possibile che
la mia famiglia reagisca male, e che dicano delle cose terribili.
L’ho già
visto succedere in passato.»
La
chioma di Feliciano frustò l’aria in uno spavaldo
cenno
di diniego.
«Non
importa. Non importa affatto.»
Era
sopravvissuto a una madre che aveva cercato di uccidere
suo fratello, aveva resistito per tutti i lunghi anni di sevizie
scolastiche
completamente solo; avrebbe sopportato più che bene qualche
maldicenza, se
Ludwig fosse stato al suo fianco. Il solo fatto che il tedesco, che non
usava
mai una parola di troppo, fosse pronto a dichiarare ai suoi parenti il
legame
che aveva con lui lo riempiva di un insensato ottimismo.
Sentì
il cuore aumentare il proprio voltaggio, battendo furiosamente
contro la cassa toracica. Feliciano portò una mano al petto
con espressione
deliziata: ora poteva dire di conoscere davvero la felicità.
E
si concesse tutta la sera per esprimere a Ludwig la sua
gioia.
Ritardo
madornale, di nuovo çAç Questa volta a tenermi
lontana sono stati i preparativi
e la partenza per il Giappone.
Questo
aggiornamento è effettuato dalla terra del Sol
Levante<3
Il
prossimo
capitolo sarà anche l’ultimo, purtroppo .-. ma la
GerIta sarà presente nella
prossima fanfic che ho intenzione di scrivere, anche se
l’ambientazione sarà
molto diversa xD
Ancora
una
volta, non posso che ringraziarvi per la costanza e la pazienza.
Grazie
a
tutti<3
Red
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Cornice ***
Cornice
«Abbiamo
deciso che lo diremo.»
La
scatola di colori a olio rimase a galleggiare nell’aria,
e un’espressione confusa e sorpresa si librò negli
occhi di Feliciano.
«Dire
cosa a chi?» domandò il minore.
Lovino
tirò distrattamente quell’unico ciuffo della sua
chioma che proprio non riusciva a domare, mordicchiò le
labbra, fissò il
soffitto e sospirò:
«Ormai
sono sei anni che stiamo insieme. È giusto che anche
Lucia e Federico lo sappiano.»
Il
maggiore percorse la stanza a veloci falcate e si mise a
sedere sul letto, per poi lasciarsi cadere di schiena.
«Mi
chiedo se i signori Carriedo avrebbero mai immaginato
che il loro figlio naturale e il loro figlio adottivo si sarebbero
messi
insieme, quando hanno deciso di accogliere me e te in casa
loro.»
«Lovino…»
«Non
preoccuparti» lo rassicurò il fratello,
rialzandosi dal
letto con uno scatto addominale. «Aspetteremo che tu e Ludwig
torniate dal
vostro viaggio. Non vogliamo che vi perdiate il grande
spettacolo.»
Feliciano
si accucciò ai piedi del letto, e prese una mano
del consanguineo tra le sue. Lovino faceva lo spavaldo, ma le sue dita
tremavano appena. E Feliciano sapeva cosa significava quel brivido: il
fratello
voleva averlo vicino quando avrebbe rivelato tutto quanto ai suoi
genitori
adottivi. Per questo avrebbe aspettato il suo ritorno.
«Hai
paura?»
«Lucia
e Federico sono brave persone. Credo che capiranno»
Lovino si strinse nelle spalle, ostentando una tranquillità
che non provava. «Ma
non so se… capiranno subito.»
Il
maggiore passò una mano tra i capelli, per poi
scompigliare quelli del fratello.
«Prima
o poi toccherà anche a te e Ludiwg» la bocca ebbe
una
contrazione nervosa nel pronunciare il nome del fidanzato del fratello.
«E temo
che sarà molto più difficile, con quella zavorra
mangia patate.»
«Ludwig
mi aiuterà, quando verrà il momento»
sorrise
Feliciano. «L’ha sempre fatto.»
Lovino
avrebbe voluto replicare con qualcosa di velenoso, ma
l’espressione beata del fratello gli fece franare
l’invettiva tra i denti: il
suo viso aveva la luce di chi credeva fermamente di poter affrontare
qualunque
cosa pur di continuare a stringere la mano del suo innamorato.
Sospirò,
abbassando il capo. Sperava solo che la vita non
potesse mai spegnere il sorriso del fratello, e che quello stupido
crucco si
impegnasse a dovere per difenderlo.
«Rilassati,
in montagna» gli augurò Lovino. «Quando
tornerai, ci sarà il grande spettacolo.»
Il
maggiore non riuscì a oltrepassare la porta: le braccia
minute del fratello lo strinsero in vita, e una parola flebile
scivolò sulla
sua spalla:
«Grazie.»
L’indice
e il pollice del maggiore schioccarono a elastico
sulla sua fronte, e Lovino sbuffò un sorriso.
«Divertiti.»
Feliciano
annuì, chiuse il borsone, se lo lanciò sulle
spalle e scese le scale il più velocemente possibile.
Voleva
raggiungere la stazione. Lì ci sarebbe stato Ludwig
ad aspettarlo.
Aveva
voglia di gettargli le braccia al collo e baciarlo, e
stare attaccato al suo braccio per tutto il tempo del viaggio. E
aspettava con
impazienza che la notte scendesse per permettere loro di gustarsi un
po’ di
intimità.
Salì
sull’autobus al volo, il cuore martellante contro le
costole.
Non
aveva dimenticato la bruma che aveva offuscato i giorni
in cui era stato la vittima dei bulli. Anche se si era diradata, un
poco di
quella caligine era rimasta nascosta dentro di lui, a ricordargli
quanto la
gente potesse essere malvagia, anche senza ragioni apparenti. Ma la
luce che
lui e Ludwig cercavano di mantenere viva era colata ovunque nel suo
mondo,
facendogli riscoprire i colori che prima erano infangati nella penombra.
Scese
dall’autobus di corsa, e accelerò ulteriormente
quando
lo vide aspettare di fronte alla stazione.
«Ludwig!»
lo chiamò.
E
gli gettò le braccia al collo e si sporse per baciarlo
proprio come aveva immaginato sull’autobus.
E
il Ludwig reale rispose ancora meglio di quello nella sua
fantasia.
Aveva
ancora tante tele e tanta voglia di dipingere, e il
mondo esterno era pieno di colori splendidi. Non vedeva l’ora
che Ludwig glieli
mostrasse tutti.
E
con questo capitolo si conclude la storia ç_ç
Vi
chiedo di nuovo enormemente scusa per il ritardo con cui mi presento,
ma gli ultimi mesi sono stati un inferno, tra studio, esami e lavoro
ç_ç Finalmente ho avuto un po' di tregua, e sono
quindi riuscita ad aggiornare<3
Spero
che il finale, sebbene breve, vi sia piaciuto<3 E la storia non
finisce propriamente qui: ci sarà un seguito, incentrato su
Lovino e Antonio, in cui compariranno anche i due protagonisti di
questa fanfiction<3 Il titolo non è ancora stato
deciso, ma ho già scritto i primi capitoli<3
Posterò anticipazioni e informazioni a riguardo nella mia
pagina di FB<3
Se
invece avete voglia di altro GerIta made in Red a partire da ora... lo
troverete in Caleidoscopio,
una fanfiction nuova di zecca che pubblicherò proprio
oggi<3
E
ancora una volta... grazie a tutti voi che avete accompagnato fino alla
fine Feliciano e Ludwig<3
Grazie
di cuore<3
Alla
prossima!
Red
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=1011090
|