Alla
sister.
Buon
compleanno,
soulmate<3
Viva
il 26
dicembre<3<3<3<3
Quello che
vedi nella tela
La
prima volta che lo aveva visto, avevano entrambi sei
anni.
Era
poco più di un cappotto troppo gonfio di vestiti, da cui
spuntavano un visetto paffuto con gli occhi vispi e due iperattive
gambette
tozze; un piccolo ciclone di lana che rotolava da una bancarella
all’altra.
Non
si assomigliavano per nulla: mentre quel piccolo uragano
sfrecciava in giro per il mercato, lui dava una mano ai genitori nello
stand di
famiglia, addobbato con il costume tradizionale.
A
Natale, Bolzano si ingioiellava con luminarie di diverse
forme e colori, si profumava con gli allettanti odori delle frittelle
di mele e
dei pretzel caldi, si animava con
il
mercatino rinomato in tutta Italia.
Ludwig
adorava il Natale: aiutando i genitori
nell’allestimento e nella gestione della bancarella, aveva la
possibilità di
godersi la fiera dal primo all’ultimo momento. Era una
sensazione impagabile
stare immerso negli odori speziati e nelle carole che rimbalzavano di
stand in
stand, e nell’inspiegabile gioia che permeava i volti di
tutti i presenti.
Vendevano
strudel,
nel banco di famiglia. E fu proprio l’aroma del dolce ad
attirare il pupo infagottato.
«Che
cos’è lo strudel?»
Ludwig
pensò per un attimo che le assi inchiodate della loro
bancarella avessero cominciato a parlare: non vedeva nessuno, eppure
aveva
sentito una voce. Una voce che si esprimeva con un pessimo accento:
aveva
pronunciato il nome della pietanza indugiando e strascicando sulle
lettere come
se ognuna di loro fosse stata fatta di fango.
«E’
un dolce di mele e uvetta, piccolo» la risposta venne da
sua madre, che guardava verso il basso con un’espressione
deliziata. «Oh,
Ludwig, guardalo! E’ una delle cose più carine che
abbia mai visto!» trillò in
tedesco, aiutando il figlio a sporgersi dal bancone.
«Deve
avere la tua età» gli bisbigliò la
madre, in italiano
questa volta.
Ludwig
inarcò un sopracciglio biondo, per nulla persuaso.
Era impossibile che lui e quel cucciolo condividessero la data di
nascita: il
suo naso arrivava perlomeno a sfiorare il bancone, mentre quello del
piccino
era tristemente fermo alle assi di mezzo.
Le
manine guantate palparono le tasche sovraffollate del
giubbotto, ne estrassero alcuni euro che vennero debitamente
– e lentamente –
contati. Il bambino sembrò arrancare nei numeri, poi
desistette e tese la
manina verso i venditori, con le monete bene in vista.
«E’
sufficiente?» domandò, intristito per il
fallimento
matematico.
La
mamma prelevò qualche euro in meno rispetto ai loro
soliti prezzi e tranquillizzò il piccolo:
«Queste
bastano. Ludwig, vuoi darglielo tu?»
Il
bimbo dai capelli biondi asserì e scese per impacchettare
il dolce e consegnarlo.
Si
sporse nuovamente dal bancone, ma si presentò subito uno
sgradito imprevisto: per quanto il pupo incappottato si sporgesse, le
sue dita
non arrivavano a sfiorare la confezione rosso brillante.
Così
Ludwig si arrese all’evidenza e uscì nel vento
natalizio per concludere la vendita.
Non
lo accolsero solo le intemperie che tutti sopportavano
con un instancabile sorriso: due fanali castani lo abbagliarono. O
almeno, fu
quella l’impressione che ebbe quando gli occhi spalancati per
l’emozione del
bambino si poggiarono su di lui e lo scrutarono con una
curiosità galoppante.
«Anche
tu parli la lingua buffa?» cinguettò il cucciolo,
stringendosi al petto il pacchetto con il dolce.
«Parlo
italiano e tedesco» replicò Ludwig,
impercettibilmente infastidito da quell’intrusione.
«E’
bello parlare due lingue?» insistette l’altro,
dondolandosi sulle gambe tondette.
Ludwig
annuì con il capo, augurandosi di riuscire ad
arginare la petulanza del nanerottolo. Vana speranza.
«Sei
un ladro, vero?» lo pungolò con totale innocenza
il
piccolo.
«Sono
un onesto venditore!» si difese Ludwig, le guance imporporate
per il freddo e l’offesa. Non sapeva esattamente cosa volesse
dire la frase che
aveva appena pronunciato, ma l’aveva sentita così
tante volte in televisione
che qualcosa doveva pur significare.
«Avevo
sentito una favola. Non mi ricordo il nome del
protagonista» la guance del bimbo salirono in un sorriso per
rimediare alla
lacuna della memoria. «Però quel tizio, per
rendersi più bello, aveva rubato i
colori del cielo e se li era messi addosso. Non mi ricordo in che modo,
però»
sorrise di nuovo per supplire alla seconda mancanza. «Ma tu
hai fatto lo
stesso, giusto? E ti sei messo il colore del cielo negli
occhi.»
«Sono
nato così» lo smontò Ludwig.
Sul
viso del bimbo si dipinse un “O” di stupore e
meraviglia
a quella scoperta.
«E’
possibile nascere come te?»
Ludwig
non seppe se prendere quella domanda come un
complimento o un’offesa. Sorvolò sulla decisione e
rispose:
«E’
normale nascere come me.»
Il
bimbo lo fissò annuendo a vuoto, sempre più
sorpreso.
«Sei
qui tutti gli anni?» volle sapere, indiscreto.
Ludwig
annuì di nuovo, innervosito da
quell’interrogatorio:
doveva tornare dentro e aiutare sua madre con i clienti, non poteva
stare fuori
a fare salotto.
«Allora
tornerò a trovarti!» decise il piccoletto in un
trillo di giubilo. Fece per andarsene, poi zampettò indietro
sui suoi passi,
dimentico di un dettaglio fondamentale: «Come ti
chiami?»
«Ludwig»
comunicò l’altro.
Il
bimbo inaugurò il sorriso delle grandi occasioni nel
presentarsi:
«Io
mi chiamo Feliciano.»
Dopodiché
sparì nelle strade sovraffollate, lasciandosi
dietro solo il ricordo di un cappotto troppo pieno di vestiti e
curiosità.
«Hai
fatto amicizia?» s’informò la madre,
entusiasta.
«Gli
ho solo detto il nome. E lui mi ha detto il suo»
minimizzò Ludwig.
«E’
così che si comincia ad essere amici»
gioì la madre.
Ludwig
si strinse nelle spalle e continuò a lavorare come un
solerte folletto, impacchettando porzioni più o meno grandi
di strudel.
Ma
un ronzio di sottofondo lo accompagnò per tutta la
giornata. C’era una cosa particolarmente strana tra le cose
strane di quel
ragazzo.
Aveva
più o meno la sua età. Era troppo piccolo per
girare
da solo: sua madre pretendeva ancora di stringergli la mano per
attraversare la
strada, e non lo perdeva mai d’occhio quando erano in giro.
Dove
erano i suoi genitori?
***
Feliciano
aveva mantenuto la parola: era tornato l’anno
successivo.
E
quello dopo. E quello dopo ancora.
Si
erano visti crescere a vicenda: pian piano anche il naso
del più piccolo aveva raggiunto il bancone e lo aveva
superato, pur rimanendo
ad un’altezza inferiore rispetto a quella
dell’amico.
Ludwig
era cresciuto secondo i dettami tedeschi: spalle
ampie, altezza impressionante e fisico robusto; capelli biondi e occhi
celesti
completavano il quadro del perfetto nibelungo.
Feliciano,
al contrario, era germogliato come un giunco,
sottile e delicato, gli occhi sempre grandi e sgranati su un viso
piccolo e
dolce, l’opposto di quello squadrato dell’amico.
Con
gli anni, Feliciano aveva imparato quali fossero gli
orari migliori per accaparrarsi l’attenzione del tedesco. Non
mancava mai di
onorare la tradizionale compravendita dello strudel
alla loro bancarella: la madre di Ludwig lo viziava ogni anno,
facendogli
pagare il dolce a prezzo ridotto e inondandolo con una pioggia di
complimenti
su quanto stesse diventando bello. Se Feliciano non fosse stato la
personificazione dell’ingenuità, Ludwig avrebbe
potuto pensare che venisse al
loro stand solo per le lodi e il dolce scontato.
Ma
non era così: Feliciano aspettava tutto il giorno,
gironzolando per la città, che l’affluenza al
mercatino diminuisse. Sapeva che,
in quel momento, Ludwig poteva permettersi uno stacco dal lavoro. Era
sempre
puntuale nel farsi trovare fuori dalla bancarella, e passavano il resto
del
pomeriggio a chiacchierare e girovagare per la città in
festa.
Si
vedevano un solo giorno all’anno, quindi non vi erano mai
momenti di silenzio imbarazzato: le parole fluivano da sole. Per essere
più
precisi, un torrente di discorsi fioriva dalla bocca elettrizzata di
Feliciano,
e Ludwig ascoltava, annuiva e rispondeva alle domande
dell’amico su di giri.
Solo quando l’irruenza spumeggiante del ragazzo si placava il
tedesco
cominciava a raccontare a sua volta gli avvenimenti dell’anno
passato.
C’era
poi un momento particolare della giornata in cui
Feliciano sentiva l’urgenza di sedersi: allora si accomodava
sulla prima cosa
che trovava – un sasso, una fontana, una panchina -,
accavallava una gamba
sull’altra per formare un provvisorio tavolo da lavoro,
faceva comparire dalla
tracolla che si portava sempre dietro un album di disegno e cominciava
a
schizzare.
I
primi anni i suoi abbozzi erano scarabocchi nel vero senso
della parola: gente con le ruote al posto dei piedi, case geometriche e
alberi
conici. Ma, con il passare del tempo, la tecnica si era notevolmente
affinata:
ora la realtà poteva trovare un corrispettivo soddisfacente
negli abbozzi del
giovane. In quei momenti, Ludwig riusciva a sistemare la sua
ingombrante stazza
alle spalle dell’italiano e sbirciava con rispetto la
fantasia di Feliciano che
prendeva vita sulla carta. Non lo aveva mai visto disegnare due volte
lo stesso
soggetto: una volta comparivano persone, un'altra animali,
un’altra ancora una
natura morta.
Quello
che gli era piaciuto di più era lo schizzo di un
bosco che aveva fatto tre anni prima: i chiaroscuri approfondivano la
scena,
donando la sensazione di una foresta pulsante di vita nascosta, le
foglie si
differenziavano tra quelle delle conifere e dei sempreverdi, un
ruscello
scintillava sullo sfondo. Era l’opera migliore di Feliciano,
a suo parere. Una
volta gli aveva chiesto se l’avrebbe mai realizzata come un
quadro definitivo,
e, a quella domanda, l’amico aveva dondolato la testa avanti
e indietro più
volte, come un metronomo scoordinato. Non ci aveva ancora pensato, ma
poteva
non essere una brutta idea.
Tuttavia,
da quel giorno Feliciano non aveva più disegnato
una foresta. Sperava solo di non averlo offeso con il suo commento.
Sarebbe
stato il primo, probabilmente, ad avere mai ferito
l’italiano: il sorriso
inossidabile di Feliciano pareva scolpito direttamente sul suo viso,
intoccabile e impossibile da cambiare, qualunque cosa avvenisse. Si
chiedeva se
i suoi genitori non gli avessero dato quel nome apposta.
Non
avevano mai parlato della famiglia di Feliciano. Ludwig
non sapeva cosa si celasse dietro il silenzio dell’amico, per
cui aveva preferito
tacere: l’ultima cosa che voleva era risvegliare ricordi che
potessero
offuscare il sempiterno sorriso dell’amico.
Avevano
continuato così per dieci anni, vedendosi unicamente
per i mercatini e recuperando in un unico giorno tutto il tempo
perduto. Ludwig
non aveva accettato subito la presenza di quel nanerottolo nella sua
vita: la
prima volta che lo aveva rivisto era rimasto guardingo e sospettoso,
indeciso
se fidarsi di quell’estraneo che si intrometteva senza
ritegno nella sua vita.
Anche il secondo anno non era stato precisamente amichevole, nonostante
la
costanza del bimbo che lo aspettava fiducioso fuori dalla bancarella.
Il
terzo anno era riuscito a sciogliersi un po’ di
più,
incitato dall’esuberanza candida del bambino. Al quarto aveva
deciso di
accettare quello strano italiano, pur non condividendo del tutto il suo
modo di
fare svampito e fin troppo spensierato. Avevano continuato a vedersi
ogni
ventiquattro dicembre, coltivando quella strana amicizia che cresceva a
ritmi
così dilatati.
Per
quel Natale, sua madre aveva deciso che, in onore dei
suoi sedici anni, avrebbe potuto accompagnare Feliciano fino alla
stazione,
previa promessa di guardare bene a destra e sinistra prima di
attraversare e di
non fermarsi a parlare con gli sconosciuti.
Era
commovente la solerzia con cui sua madre continuava a
preoccuparsi per lui, nonostante gli mancassero solo due anni al
raggiungimento
della maggiore età.
Avevano
raggiunto la stazione, Feliciano parlava e Ludwig
ascoltava, e si erano recati al binario che avrebbe riportato Feliciano
a
Venezia, dove viveva.
L’italiano
restò in contemplazione del treno per qualche
istante, spostando il peso da un piede all’altro, come in
preda
all’indecisione.
«Ludwig?»
lo chiamò all’improvviso, con quell’aria
perennemente svagata.
Il
tedesco lo guardò, in attesa del seguito.
Feliciano
esplorò la sua tracolla debordante delle
cianfrusaglie più disparate, ed il trionfo dilagò
sul suo volto quando riuscì
ad appropriarsi di un foglietto spiegazzato provato dal viaggio.
«Non
aspettiamo di nuovo un anno per risentirci» lo
salutò,
consegnandogli il biglietto direttamente in mano e salendo al volo sul
treno.
Perplesso,
Ludwig spianò il foglietto e lesse quanto scritto
sopra.
La
grafia tondeggiante di Feliciano aveva vergato un numero
di telefono e un indirizzo e-mail.
Ludwig
fissò il biglietto per qualche istante, come per
sorvegliare le scritte e impedire loro di mutare sotto i suoi occhi.
Poi piegò
il foglietto, lo infilò nella tasca dei pantaloni e
tornò verso la sua
bancarella.
Aveva
già deciso cosa fare.
***
Feliciano
si gettò sul letto, esausto dal viaggio.
La
tratta Bolzano-Venezia era una tortura in quel periodo
dell’anno, specie se uno sciopero dei treni aggravava la
già scarsa efficienza
delle ferrovie.
Affondò
il viso nel guanciale con gratitudine, saggiando la
morbidezza del letto, mai così confortevole.
Gli
bastò meno di un secondo a scattare in piedi quando il
telefono squillò. Afferrò la tracolla e ne
rovesciò il contenuto sul letto,
alla ricerca del cellulare.
Un
numero mai visto prima lampeggiò sul display, mentre la
musica scelta come suoneria strombazzava allegramente le sue note.
«Pronto?»
ansò, provato dalla ricerca e dall’emozione.
«Sei
arrivato a casa?» indagò una voce composta
all’altro
capo.
Feliciano
quasi si ruppe la faccia tanto fu ampio il suo
sorriso.
«Sì»
festeggiò, lanciandosi sul letto con l’espressione
sorniona di un gatto cui vengono fatte le coccole, incurante delle
carabattole
che si infilavano ovunque nei suoi vestiti. «Sono a casa.
Tu?»
«Anche
io. Come è andato il viaggio?»
Poteva
immaginare benissimo l’espressione impeccabile
dell’amico, tesa a non lasciare trapelare troppe emozioni.
Ludwig non si era
mai accorto che, anche se le labbra restavano tirate in una linea
marziale, il
mutare dei suoi occhi rivelava piuttosto chiaramente cosa stesse
pensando.
Non
poteva vedere i mutamenti delle iridi dell’amico, ma non
importava.
Non
avrebbe dovuto aspettare il prossimo Natale per ricevere
il suo regalo preferito.
Prima GerIta
in assoluto.
Dedicata,
nella sua interezza,
alla sister-soulmate<3<3<3<3
Dunque,
questo è poco più di un
prologo.
Volevo
un’ambientazione in cui
fosse plausibile che un tedesco e un italiano si incontrassero, e ho
pensato a
Bolzano. Il resto della storia avrà ben poco a che fare con
i mercatini
natalizi XD
Questo
capitolo è una volata sul
loro rapporto finora, giusto per dare un’idea generale.
Dai prossimi
capitoli, il punto
focale sarà la loro amicizia… e non solo amicizia<3
Grazie a
tutti per essere
arrivati fin qui<3
Red
P.S.
Ancora tanti auguri, sis<3<3<3<3
Secondo P.S. I banner sono di Clau-tan<3<3<3