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Autore: HamletRedDiablo    04/06/2012    10 recensioni
La loro strana amicizia cominciò molti anni prima, tra le bancarelle di Natale.
Continuò anni dopo, tra i banchi delle università. E non fu più solo amicizia.
"Non aveva mai capito una cosa del suo stravagante amico. Disegnava spesso, ma non trasferiva mai su tela la realtà che aveva davanti agli occhi. Tratteggiava solo soggetti che esistevano nella sua fantasia.
Come se il mondo umano lo spaventasse."
[Dedicata alla sister]
[GerIta]
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Germania/Ludwig, Nord Italia/Feliciano Vargas
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Rialto

 

«Feliciano, se non rispondi al telefono lo butto dalla finestra

Il ragazzo si precipitò fuori dalla doccia ancora nudo e gocciolante, e solo il pronto ammonimento del fratello gli impedì di andarsene in giro per casa come la natura lo aveva creato:

«Copriti prima di uscire!»

Feliciano tolse la mano dal pomello della porta del bagno, si avvolse nell’accappatoio di un bell’arancione violento e uscì, disseminando il corridoio di pozze d’acqua.

Il fratello lanciò un’occhiata di biasimo ai piccoli laghi che inzaccheravano la breve distanza tra il bagno e la loro camera.

«Dovevi metterti anche le ciabatte» gli ricordò, più impegnato a cercare la sua giacca a vento che a rimproverare lo sbadato consanguineo.

«Pronto?» trillò Feliciano, rispondendo al cellulare.

Lovino trovò finalmente la giacca, la gettò sul letto e procedette ad allacciarsi le scarpe, un’ombra di disappunto sul volto: dal tono gorgheggiante, il fratello doveva essere al telefono con il crucco.

Sobbalzò quando Feliciano lanciò un mezzo strillo di giubilo, innaffiando il cellulare con una serie di domande gorgheggiate.

Al termine della telefonata, il ragazzo lanciò il telefono contro il cuscino e saltò ad abbrancare il fratello per le spalle.

«Lovino!» cantò, entusiasta. «Non indovinerai mai!»

«Che ha combinato, il mangia patate?» chiese l’altro, senza interesse.

«Sei di cattivo umore?» si impensierì Feliciano, sporgendosi dalla spalla del fratello per fissarlo in viso. «Il tuo ragazzo ti ha fatto arrabbiare?»

L’espressione di Lovino si incrinò per quella domanda indelicata.

«Non sono arrabbiato. Ma sai come la penso su quel crucco» liquidò il ragazzo, chinandosi per allacciarsi le scarpe. Feliciano non mollò la presa sulle sue spalle, così si ritrovò spalmato sulla schiena curva del fratello.

«Meno male. Temevo che avessi litigato con Antonio.»

«Vuoi dirmi quali sono le novità del crucco?» lo mise alle strette Lovino. Conosceva il modo di fare del consanguineo: se non lo conduceva sui binari corretti, era capace di divagare per ore intere. Ed aveva una predilezione ad interessarsi della sua vita privata: era disarmante il candore con cui Feliciano si informava dei dettagli piccanti del suo rapporto con Antonio. Ed era allucinante la spensieratezza con cui Antonio glieli forniva, quando si incontravano. Quei due erano un binomio micidiale per la sua reputazione.

«Verrà a studiare a Venezia, da settembre. Qui da noi!» gioì Feliciano.

«Che gioia» la voce di Lovino si afflosciò, chiaro indice del suo scarso entusiasmo per la notizia. «E tutto questo cosa ha a che fare con te?»

«Mi ha chiesto di accompagnarlo» spiegò l’altro, lasciando la presa per buttarsi sul letto. «Ha visto un annuncio per una casa a Rialto, e mi ha chiesto di mostrargli la strada.»

Se una vipera gli avesse morso il calcagno, Lovino non avrebbe avuto uno scatto altrettanto fulmineo.

«E tu lo accompagnerai? In un appartamento? Da solo?» l’ugola del ragazzo salì di un’ottava ad ogni cenno assertivo del fratello. «Ma sei pazzo

«Perché?» domandò Feliciano.

«Potrebbe approfittarsi di te!» esacerbò Lovino, afferrando il consanguineo per le spalle.

«Approfittarsi?» l’altro inclinò la testa sulla spalla come un cagnolino.

«Potrebbe farti delle cose… scabrose» lo avvertì il fratello.

Una minuscola ruga si disegnò alla radice del naso di Feliciano, esprimendo la sua confusione. Poi il viso si illuminò e cinguettò:

«Come quelle che fai con Antonio?» il giovane non si accorse di avere praticamente freddato il consanguineo con quelle poche parole, e proseguì: «Ma Antonio dice che sei contento di…»

«Chi se ne frega di quello che dice Antonio! Stiamo parlando di te e… e di uno strudel biondo!» sbottò Lovino. Avrebbe dovuto mettere delle ulteriori restrizioni al vocabolario che il suo ragazzo poteva utilizzare in presenza di suo fratello: non voleva che Feliciano venisse a sapere cos’era successo quella volta che avevano bevuto un bicchiere di troppo.

«Ma ci sarà anche il proprietario di casa. E un altro ragazzo che vuole visitare l’appartamento» valutò il minore.

L’occhio destro di Lovino pulsò.

«Perché non l’hai detto subito?»

«Perché non mi hai lasciato finire.»

Il maggiore lo lasciò andare, si gettò la giacca sulle spalle e inforcò la porta.

«Se è così, allora puoi andare. Ma tieni a portata di mano lo spray al peperoncino» si raccomandò Lovino.

«Ma non ho uno spray di quel genere» replicò Feliciano.

«Lo avrai. Entro stasera. Te lo posso garantire» promise l’altro, chiudendo la zip del giubbotto e uscendo di casa.

 

***

 

Fu così che, quattro giorni dopo, una simpatica boccetta di spray antistupro accompagnò Feliciano in stazione.

Non faticò a trovare il suo amico: la chioma bionda svettava di parecchi centimetri sulle teste del resto della gente.

Nemmeno Ludwig impiegò troppo tempo a riconoscerlo: c’era solo una persona in tutto il mondo capace di saltellare come un pupazzo a molla in mezzo alla ressa, incurante dei possibili disastri provocati dalle sue mani sventolanti.

«Ludwig!» gioì, raggiungendolo con un balzo; l’inconfondibile tracolla in cui riponeva gli strumenti da disegno caracollò contro le sue tibie e contro le ginocchia dell’amico per il troppo entusiasmo.

Il tedesco cercò di portarlo fuori dalla calca: quando era troppo felice, l’amico tendeva a perdere la connessione con la realtà, danneggiando le persone circostanti con dita negli occhi e manate nello stomaco.

Una volta fuori dalla stazione, Ludwig mostrò l’indirizzo a Feliciano, e la cartina sommaria che aveva stampato da Internet. L’italiano annuì, riconoscendo perfettamente le vie.

«A che ora hai l’appuntamento?» domandò, accompagnandolo lungo il ponte di Calatrava.

«Tra…» il tedesco controllò l’orologio e rischiò quasi di ammazzarsi per quella semplice operazione: gli scalini bassi e l’infelice scelta dei colori creavano una specie di illusione ottica per cui non si riusciva a distinguere bene la distanza dei gradini. «Un’ora e mezzo.»

«Sei venuto con un sacco di anticipo» si sorprese Feliciano, sistemando meglio la tracolla che continuava a sobbalzare sulle ginocchia.

«Ultimamente ci sono stati troppi scioperi ferroviari. Meglio essere prudenti» assentì serio Ludwig.

La sua risposta era solo una parte di verità: era venuto con tanto anticipo soprattutto per stare con il suo amico veneziano. Per quanto le telefonate potessero essere piacevoli, vedersi di persona era decisamente meglio. Ma non era necessario dirlo a Feliciano: sembrava già abbastanza su di giri.

«Allora non c’è bisogno di andare subito all’appartamento. Possiamo fare un giro. Da questa parte» lo guidò l’amico. Costeggiarono Piazzale Roma, dove un lento corteo di autobus sostava e ripartiva, i pedoni in perenne competizione con le vetture per accaparrarsi il diritto di attraversare per primi le strisce pedonali.

Inforcarono la corta stradina che attraversava l’abbozzo di parco su un lato del piazzale, oltrepassarono i chioschi e si trovarono di fronte ad uno dei paesaggi più tipici di Venezia: un marciapiede che scorreva a fianco del canale salmastro. Una cabina pitturata del caratteristico verde scuro e una rientranza nel marciapiede costituivano il parcheggio delle gondole, dove imbarcazioni e rematori attendevano qualche turista attirato dai divanetti rossi e dalla prospettiva di un giro panoramico.

Ludwig venne colpito dall’aria di Venezia, impregnata dell’odore pungente del mare e dell’inquinamento. Era profondamente diversa rispetto a quella di Bolzano, fresca e argentina.

Feliciano lo guidò rapido attraverso i ponti, le calli e i sestieri, in quello che a Ludwig apparve come un dedalo inestricabile di vicoli stretti e, soprattutto, uguali. Si chiedeva se fosse davvero possibile orientarsi in una città del genere come faceva l’amico, e quanto ci sarebbe voluto per acquisire la sua stessa sicurezza.

Feliciano cercò di dargli qualche coordinata – Campo Santa Margherita, Rio Nuovo e altri – che Ludwig cercò di memorizzare a discapito del suo orientamento disfattista: non gli sarebbe bastato quel giro per imparare la strada.

«Questa è la sede centrale dell’università» lo avvisò Feliciano, quando passarono vicino ad un altissimo cancello di ferro, oltre il quale era possibile vedere una piccola piazzola che precedeva un imponente edificio immacolato.

«Anche tu verrai qui ad immatricolarti, l’anno prossimo?» chiese Ludwig per rallentare la velocità dell’amico: già a Bolzano aveva notato che Feliciano tendeva a camminare con la rapidità di un bersagliere, ma in quei vicoli tortuosi la sua peculiarità era ancora più evidente, paragonata al goffo incespicare dei turisti. Cominciava a capire l’espressione “passo da veneziano”.

L’amico si arrestò in mezzo alla strada, rischiando di provocare un ingorgo.

«Oh, no. Tra due anni, forse. Ma non penso di venire alla Cà Foscari. Mi sa che andrò all’Accademia di Belle Arti» espose Feliciano, riprendendo a camminare.

«Tra due anni?» ripeté Ludwig.

«Sono al quarto anno di liceo» annunciò l’amico. «Il prossimo anno ho la maturità.»

«Ma tu non hai diciotto anni, come me» lo mise in dubbio Ludwig.

«Ma io compio gli anni ad aprile. Tu a dicembre» squillò Feliciano, infilandosi nell’ennesimo vicolo a misura d’uomo. Ludwig lo seguì veloce, lasciando perdere i calcoli sull’età e sui mesi che li separavano.

Feliciano si fermò di nuovo nel bel mezzo della calle, e Ludwig ed un’altra dozzina di persone dovettero improvvisare uno scoordinato balletto per evitarlo.

«Hai fame?» chiese a bruciapelo. «Questo fornaio è ottimo!» e si lanciò dentro il negozio senza aspettare la risposta dell’amico.

Ludwig trattenne un sospiro, seguendo lo scompigliato italiano. Ormai conosceva il temperamento infantile e vivace dell’amico.

Era anche per quello che gli aveva chiesto di accompagnarlo: una città sconosciuta sembrava molto meno ostile se Feliciano la sommergeva con la sua allegria variopinta.

 

***

 

Feliciano lo aveva convinto a comprare a sua volta un panino coperto di zucchero. I pasticceri e i fornai del luogo non spiccavano in originalità: era circa la quarta “veneziana” che vedeva nel giro di una giornata; le prime erano state delle frittelle all’uvetta, poi aveva notato lo stesso nome su un particolare tipo di pasta, e di nuovo nel cartello di una pasticceria. E ora quel panino. Inestricabili misteri dell’arte fornaia del capoluogo dei canali.

L’italiano lo condusse in una piazzola per mangiare. Il bello di quella città era che offriva spesso la possibilità di sedersi, se non si era troppo schizzinosi sul numero di piccioni che potevano aver usato quello stesso sedile come gabinetto.

Ludwig ispezionò con diffidenza la tozza panchina prima di sedersi, seguito da Feliciano.

«Ti piace Venezia?» chiese l’italiano, estraendo il panino dall’incarto del fornaio e addentandolo.

Il tedesco si concesse un assaggio prima di rispondergli.

«Sono appena arrivato, è troppo presto per decidere» considerò diplomatico Ludwig.

«Oh. E quando deciderai?» chiese Feliciano, tirando l’unico ciuffo spettinato della sua chioma con la mano libera dallo spuntino.

«Quando avrò cominciato a viverci» replicò con ovvietà l’amico.

L’italiano ebbe un guizzo, e in un attimo il panino sparì di nuovo dentro il cartoccio, che venne a sua volta inabissato nella borsa da cui il ragazzo cominciò ad estrarre gli oggetti più disparati.

«E’ la prima volta che vieni a Venezia! Dobbiamo commemorare la cosa!» esultò, riempiendo la panchina di cianfrusaglie mentre rovistava alla ricerca il blocco da disegno.

«Hai uno… spray al peperoncino?» si sorprese Ludwig, quando la famigerata boccetta fece la sua apparizione.

«Me l’ha dato mio fratello» confermò Feliciano. Album, gomma e matita a mine emersero dalla tracolla, che venne nuovamente stipata del resto delle carabattole. «Si preoccupa sempre per me. E’ un bravo fratellone!»

«Ha paura che ti saltino addosso?» si sorprese il tedesco.

«Temeva che tu potessi farmi cose scabrose nel tuo appartamento» espose serafico l’altro, sistemandosi nella sua solita posa da contorsionista per disegnare.

Ludwig rimase immobile, il panino a mezz’aria e l’espressione congelata, indeciso se ridere, offendersi o sentirsi calunniato. L’indecisione lo bloccò il tempo necessario a catturare l’attenzione di Felciano, che esclamò:

«Fermo così!» e cominciò a schizzare furiosamente.

La matita a mine grattava il foglio ad una velocità pazzesca, seguendo l’ispirazione intensa e improvvisa del ragazzo. La gomma si levò poche volte per cancellare, e lo fece sempre con estrema rapidità per lasciare di nuovo spazio alla collega di grafite.

«Da quando schizzi ritratti?» si sorprese Ludwig.

«E’ la prima volta. Non parlare, devo disegnare la bocca» lo sgridò in un sorriso Feliciano, perso nel suo mondo di fogli e carboncini.

Ludwig rimase pietrificato per qualche minuto prima di sentire il braccio protestare e la crosta di zucchero sciogliersi in una patina collosa sotto il calore delle sue dita.

«Hai mai disegnato altri boschi?» s’informò, ricordandosi del disegno che preferiva nelle produzioni dell’amico.

La matita interruppe per un istante il suo fraseggio, poi riprese con ulteriore vigore.

«Perché me lo chiedi?» domandò l’altro di rimando.

«Lo schizzo che avevi fatto qualche anno fa era molto bello» scandì con calma il tedesco.

«Ogni tanto» fu la risposta vaga di Feliciano. Tracciò quello che Ludwig riconobbe come il suo ultimo tratto: l’amico aveva il vizio di disegnare la riga finale con particolare forza, facendo compiere uno svolazzo alla matita oltre il foglio. L’estremità della penna venne accostata alle labbra mentre il ragazzo valutava la qualità della sua opera, ciondolando la testa da un lato e dall’altro. Sistemò alcune linee, approfondì le ombreggiature dopodiché girò il foglio.

«Non sono sicuro che sia venuto bene» si scusò preventivamente.

Ludwig osservò il disegno senza proferire una parola né modificare la propria espressione.

Non era perfetto in ogni dettaglio, ma il ritratto era di sicuro ben fatto. La fronte era forse troppo ampia, gli occhi un po’ troppo ravvicinati e la proporzione tra mano e viso appena sbagliata, tuttavia riusciva a riconoscersi in quel disegno. Il portamento severo, gli occhi perplessi al limite con il sospetto e la curva basita delle labbra erano le sue: anche il panino lasciato a metà era quello che gli stava appiccicando le dita con lo zucchero sciolto. L’amico aveva anche abbozzato lo scenario circostante, con linee molto più leggere di quelle riservate al soggetto principale.

«E’ molto bello» apprezzò composto. Finì il malefico pane e si pulì le mani appiccicaticce sul fazzoletto di carta del fornaio.

«Davvero?» Feliciano aveva l’espressione di un cucciolo festante, e l’angolo della bocca del tedesco si curvò in un alone di sorriso.

«Belle Arti fa per te» confermò Ludwig.

Feliciano sorrise esuberante, richiudendo l’album per riporlo nella borsa.

«E’ la stessa cosa che mi ha detto Nonno Roma» gioì.

«Tuo… nonno?» gli fece eco Ludwig. Feliciano non aveva mai parlato della sua famiglia, e quella era la prima volta che menzionava un suo parente.

«Non è proprio mio nonno» ponderò l’italiano, incrociando le braccia come un vecchio detective. «Era il fratello maggiore di papà. Però erano orfani, e lo zio gli ha fatto da padre. Così abbiamo cominciato a chiamarlo Nonno. E, visto che abita a Roma, è Nonno Roma.»

Ludwig aspettò che Feliciano avesse finito di rimettere a posto i suoi attrezzi, e riuscì a chiedere:

«E i tuoi genitori?»

«Penso che sia ora di andare» l’italiano scattò in piedi di botto, guardandosi intorno per decidere la strada da prendere. «Meglio arrivare in anticipo, giusto?»

Ludwig concordò con un cenno della testa, alzandosi a sua volta.

Al mondo esistevano vari segni che preannunciavano l’Apocalisse: la pioggia di rane, i fiumi di sangue e il re dei ritardatari che parlava di “arrivare in anticipo”.

Si affiancò all’amico e ripresero a parlare di argomenti più leggeri.

Ma, nonostante l’apparente distrazione, Ludwig rimase fisso su un pensiero: quanto era profonda la ferita che Feliciano nascondeva dietro la facciata di spensieratezza? E cosa l’aveva provocata?

Tentò di minimizzare la visibilità dei suoi pensieri, irrigidendo il viso e sforzandosi di sorridere.

Non voleva certo essere lui a far soffrire ulteriormente l’amico.

Ma il dubbio non lo abbandonò per tutto il giorno.

 

***

 

«Quel ragazzo sembra simpatico!»

«Ha aperto bocca a malapena.»

«Perché è timido. Deve essere simpatico.»

Ludwig non indagò sulle cause del verdetto dell’amico: Feliciano agiva di cuore, mai di cervello. Forse era proprio da quella sua spontaneità che si alimentava il suo talento artistico.

«Scommetto che non ti aspettavi di avere un coinquilino giapponese!» cantilenò l’italiano, ancora più euforico del normale: era la prima volta che vedeva un asiatico in carne ed ossa. Quella sera avrebbe provato a disegnarlo. E magari Ludwig gli avrebbe permesso di andarli a trovare per una serie di ritratti, l’anno successivo. Occidente e Oriente a confronto, sulla stessa tela. Sarebbe stato grandioso!

«Parla abbastanza bene l’italiano. Non dovremmo avere grossi problemi di comunicazione» valutò Ludwig. Il proprietario di casa, un uomo la cui allegria era proporzionale alla misura del ventre ben pasciuto, gli aveva presentato il giapponese come uno studente modello giunto in Italia grazie ad una borsa di studio. Sarebbe rimasto a Venezia per un anno, poi avrebbe fatto ritorno al suo paese.

Il giovane orientale si era presentato come Kiku Honda e, dopo il nome, un numero veramente esiguo di parole era uscito dalle sue labbra. E Feliciano aveva deciso che quel giapponese era l’apoteosi della simpatia.

Anche dopo tanti anni di conoscenza, il tedesco faticava a seguire i criteri di giudizio dell’amico.

La voce nasale degli annunci ferroviari starnazzò il binario del treno per Verona, interrompendo i suoi pensieri.

«E’ il tuo, giusto?» domandò Feliciano.

Ludwig assentì. Fare il cambio a Verona era una cosa che detestava: non esistevano coincidenze con i treni per Bolzano, ed era sempre costretto ad aspettare perlomeno mezz’ora in stazione. Si era premunito di libri, ma l’idea lo seccava ugualmente.

«Tornerai a settembre?» sperò l’italiano, poco prima che l’amico salisse sul treno.

«Ti farò sapere il giorno preciso» notificò Ludwig. La sua faccia assunse il cipiglio meditativo tipico dei pensieri complicati, e il tedesco macerò qualche istante nelle sue preoccupazioni prima di chiedere con la sua voce baritonale: «Sei sicuro che vada tutto bene?»

Per quanto avesse tentato di distrarsi, non riusciva a dimenticare il repentino cambio di discorso dell’amico non appena aveva nominato i genitori. E nemmeno l’emozione fulminea che aveva strisciato sotto la sua pelle. Anche se Feliciano aveva tentato di dissimulare con tutte le sue forze, Ludwig l’aveva riconosciuta: dolore e paura, la peggiore miscela esistente al mondo. Era impossibile non accorgersi di un simile miscuglio, quando intorbidava il volto solitamente splendente dell’italiano.

Feliciano batté le palpebre con estrema lentezza, i lineamenti insolitamente tirati ed immobili.

«Sì» decise infine, stampandosi in faccia un bel sorriso. «Ora va tutto bene.»

“Ora”. Quindi le cose non erano sempre andate bene.

Ludwig accettò quella risposta senza ulteriori commenti. Non si sentiva offeso dal silenzio dell’italiano, tantomeno tradito: Feliciano aveva diritto di scegliere tempo e modo per rivelare i suoi segreti. La tristezza che gli ingolfava il petto era dovuta unicamente alla consapevolezza di non poter aiutare l’amico a scacciare quell’emozione malefica.

Ma c’era una cosa che poteva fare.

Poggiò con tutta la delicatezza di cui era capace la grande mano sul capo dell’italiano, carezzandogli i capelli.

«Il mio numero lo conosci» citò, inflessibile.

Quello era il massimo che poteva fare: ricordargli che c’era sempre qualcuno disposto ad ascoltarlo. E sembrò bastare a Feliciano, che recuperò finalmente il suo buonumore e non si limitò ad inscenarlo.

«Grazie» guaì quasi, felice.

Il tedesco sorrise per riflesso e salì sul treno.

Aprì il finestrino, sicuro che, come ogni volta al momento della partenza, Feliciano avrebbe gridato qualcosa.

«Ti aspetto a settembre!» urlò infatti il ragazzo, sopra il frastuono del treno, sopra i fischi dei controllori, sbracciandosi nell’aria piena di rumori. «Ricordati che ti aspetto!»

Ludwig lo salutò dal finestrino, asserendo con il capo biondo.

Poi il treno partì, e l’ultima immagine che ebbe dell’italiano fu una figurina minuscola all’orizzonte, che ancora agitava le braccia e si sgolava per salutarlo.

 

***

 

Lovino si bloccò sulla porta della camera, la sorpresa e l’orrore dipinti sul viso.

«Feliciano, ti ricordi che il pavimento è fatto per camminare, vero?»

Il fratello assentì distrattamente, completamente assorto dalla contemplazione di uno schizzo.

Lovino sospirò, lanciando un’occhiata circolare alla stanza. Aveva l’impressione di essere precipitato in una bizzarra nevicata fuori stagione: al posto dei fiocchi di neve, dal cielo erano piovuti fogli ricoperti di studi creativi, accumulati sul pavimento, sulla scrivania e sul letto.

Il maggiore roteò gli occhi al cielo, e si infilò di nuovo la giacca che aveva appena tolto. Il turno al ristorante era finito particolarmente tardi – il sabato sera non si smentiva mai, purtroppo – e l’ultima cosa di cui avvertiva il desiderio era passare il resto della nottata a scavare tra i fogli per trovare un angolo in cui accucciarsi.

Avrebbe dormito da Antonio. Sperava solo che quei due deficienti di Francis e Gilbert non facessero troppi commenti.

Serrò la mandibola, rendendosi conto dell’impossibilità della cosa: era sabato sera, ed il lavoro era stato sfiancante anche per loro. Sicuramente avevano bevuto qualcosa per riprendersi. E la spossatezza riduceva a livelli irrisori la loro capacità di tollerare l’alcol. Passò una mano sul viso, esasperato: sarebbero stati più molesti di un nugolo di calabroni.

«Lovino» lo chiamò il fratello, mostrandogli l’ultimo disegno. Era la prova per il dipinto di un bosco, come tutte quelle che inondavano la stanza: non passava giorno senza che Feliciano non si esercitasse a disegnare una foresta. La sua fissazione era sicuramente riconducibile al tedesco: tutto era cominciato dopo una sua visita a Bolzano, qualche anno prima. Chissà cosa gli aveva detto quello stupido crucco.

«Secondo te sono pronto a metterlo su tela?» domandò titubante, gli occhi che quasi tremavano.

Era davvero ingenuo, il suo fratellino. Quasi disarmato contro le infamie di quel brutto mondo.

«Eri pronto dal primo abbozzo» rimbrottò Lovino, girandosi per imboccare la porta.

Il volto di Feliciano si aprì in un sorriso accecante come il sole. Si strinse il disegno al petto, con la delicatezza che una bambina avrebbe riservato ad un fiore, e mormorò:

«Grazie.»

Lovino si schermì con un gesto della mano e fece per scendere le scale.

«Salutami Antonio!» la testa di Feliciano si sporse dalla porta della camera per strillare la sua raccomandazione.

«Torna a disegnare» sbottò il maggiore, uscendo veloce di casa.

Feliciano zampettò contento sul letto.

Era davvero carino, il suo fratellone. Quasi tenero quando si imbarazzava a parlare del suo fidanzato.

Raccolse alcuni schizzi dal materasso e li poggiò sulla scrivania, liberando lo spazio indispensabile per dormire.

L’indomani mattina si sarebbe messo al lavoro. Erano anni che progettava quel quadro per regalarlo al suo amico: non si era mai dimenticato dell’apprezzamento che aveva fatto sul suo studio di bosco.

Lo avrebbe finito entro settembre, così Ludwig avrebbe potuto appenderlo nel suo appartamento a Rialto, se gli fosse piaciuto.

Fino all’anno prima, fremeva in attesa della neve natalizia; ora pregava che settembre arrivasse presto ad arrossare le foglie. Buffo come l’amico tedesco fosse costantemente l’asse attorno a cui ruotava il suo calendario.

Feliciano sfregò la guancia contro il cuscino, impaziente di mettersi a lavorare, e si addormentò pensando a pennelli, colori ad olio e schemi prospettici.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tutti i riferimenti a Venezia sono tratti dall’esperienza personale di studentessa alla Cà Foscari.

In pieno periodo d’esami, per questo il capitolo si è fatto tanto attendere u.u”

Mi scuso per il ritardo, sarò più rapida nei prossimi aggiornamenti *posaeroicasuscoglieracontantodiondaallespalle*

E… grazie<3<3<3

Grazie a tutti voi che seguite questa storia<3

 

   
 
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