Rialto
«Feliciano,
se non rispondi al telefono lo butto dalla
finestra!»
Il
ragazzo si precipitò fuori dalla doccia ancora nudo e
gocciolante,
e solo il pronto ammonimento del fratello gli impedì di
andarsene in giro per
casa come la natura lo aveva creato:
«Copriti
prima di uscire!»
Feliciano
tolse la mano dal pomello della porta del bagno,
si avvolse nell’accappatoio di un bell’arancione
violento e uscì, disseminando
il corridoio di pozze d’acqua.
Il
fratello lanciò un’occhiata di biasimo ai piccoli
laghi
che inzaccheravano la breve distanza tra il bagno e la loro camera.
«Dovevi
metterti anche le ciabatte» gli ricordò,
più
impegnato a cercare la sua giacca a vento che a rimproverare lo sbadato
consanguineo.
«Pronto?»
trillò Feliciano, rispondendo al cellulare.
Lovino
trovò finalmente la giacca, la gettò sul letto e
procedette ad allacciarsi le scarpe, un’ombra di disappunto
sul volto: dal tono
gorgheggiante, il fratello doveva essere al telefono con il crucco.
Sobbalzò
quando Feliciano lanciò un mezzo strillo di giubilo,
innaffiando il cellulare con una serie di domande gorgheggiate.
Al
termine della telefonata, il ragazzo lanciò il telefono
contro il cuscino e saltò ad abbrancare il fratello per le
spalle.
«Lovino!»
cantò, entusiasta. «Non indovinerai
mai!»
«Che
ha combinato, il mangia patate?» chiese l’altro,
senza
interesse.
«Sei
di cattivo umore?» si impensierì Feliciano,
sporgendosi
dalla spalla del fratello per fissarlo in viso. «Il tuo
ragazzo ti ha fatto
arrabbiare?»
L’espressione
di Lovino si incrinò per quella domanda
indelicata.
«Non
sono arrabbiato. Ma sai come la penso su quel crucco»
liquidò il ragazzo, chinandosi per allacciarsi le scarpe.
Feliciano non mollò
la presa sulle sue spalle, così si ritrovò
spalmato sulla schiena curva del
fratello.
«Meno
male. Temevo che avessi litigato con Antonio.»
«Vuoi
dirmi quali sono le novità del crucco?» lo mise
alle
strette Lovino. Conosceva il modo di fare del consanguineo: se non lo
conduceva
sui binari corretti, era capace di divagare per ore intere. Ed aveva
una
predilezione ad interessarsi della sua vita privata: era disarmante il
candore
con cui Feliciano si informava dei dettagli piccanti del suo rapporto
con
Antonio. Ed era allucinante la spensieratezza con cui Antonio glieli
forniva,
quando si incontravano. Quei due erano un binomio micidiale per la sua
reputazione.
«Verrà
a studiare a Venezia, da settembre. Qui da noi!»
gioì
Feliciano.
«Che
gioia» la voce di Lovino si afflosciò, chiaro
indice
del suo scarso entusiasmo per la notizia. «E tutto questo
cosa ha a che fare
con te?»
«Mi
ha chiesto di accompagnarlo» spiegò
l’altro, lasciando
la presa per buttarsi sul letto. «Ha visto un annuncio per
una casa a Rialto, e
mi ha chiesto di mostrargli la strada.»
Se
una vipera gli avesse morso il calcagno, Lovino non
avrebbe avuto uno scatto altrettanto fulmineo.
«E
tu lo accompagnerai? In un appartamento? Da solo?»
l’ugola del ragazzo salì di un’ottava ad
ogni cenno assertivo del fratello. «Ma
sei pazzo?»
«Perché?»
domandò Feliciano.
«Potrebbe
approfittarsi di te!» esacerbò Lovino, afferrando
il consanguineo per le spalle.
«Approfittarsi?»
l’altro inclinò la testa sulla spalla come
un cagnolino.
«Potrebbe
farti delle cose… scabrose» lo avvertì
il
fratello.
Una
minuscola ruga si disegnò alla radice del naso di
Feliciano, esprimendo la sua confusione. Poi il viso si
illuminò e cinguettò:
«Come
quelle che fai con Antonio?» il giovane non si accorse
di avere praticamente freddato il consanguineo con quelle poche parole,
e
proseguì: «Ma Antonio dice che sei contento
di…»
«Chi
se ne frega di quello che dice Antonio! Stiamo parlando
di te e… e di uno strudel
biondo!»
sbottò Lovino. Avrebbe dovuto mettere delle ulteriori
restrizioni al
vocabolario che il suo ragazzo poteva utilizzare in presenza di suo
fratello:
non voleva che Feliciano venisse a sapere cos’era successo
quella volta che
avevano bevuto un bicchiere di troppo.
«Ma
ci sarà anche il proprietario di casa. E un altro
ragazzo che vuole visitare l’appartamento»
valutò il minore.
L’occhio
destro di Lovino pulsò.
«Perché
non l’hai detto subito?»
«Perché
non mi hai lasciato finire.»
Il
maggiore lo lasciò andare, si gettò la giacca
sulle
spalle e inforcò la porta.
«Se
è così, allora puoi andare. Ma tieni a portata di
mano
lo spray al peperoncino» si raccomandò Lovino.
«Ma
non ho uno spray di quel genere» replicò Feliciano.
«Lo
avrai. Entro stasera. Te lo posso garantire» promise
l’altro,
chiudendo la zip del giubbotto e uscendo di casa.
***
Fu
così che, quattro giorni dopo, una simpatica boccetta di
spray antistupro accompagnò Feliciano in stazione.
Non
faticò a trovare il suo amico: la chioma bionda svettava
di parecchi centimetri sulle teste del resto della gente.
Nemmeno
Ludwig impiegò troppo tempo a riconoscerlo: c’era
solo una persona in tutto il mondo capace di saltellare come un pupazzo
a molla
in mezzo alla ressa, incurante dei possibili disastri provocati dalle
sue mani
sventolanti.
«Ludwig!»
gioì, raggiungendolo con un balzo;
l’inconfondibile
tracolla in cui riponeva gli strumenti da disegno caracollò
contro le sue tibie
e contro le ginocchia dell’amico per il troppo entusiasmo.
Il
tedesco cercò di portarlo fuori dalla calca: quando era
troppo felice, l’amico tendeva a perdere la connessione con
la realtà, danneggiando
le persone circostanti con dita negli occhi e manate nello stomaco.
Una
volta fuori dalla stazione, Ludwig mostrò
l’indirizzo a
Feliciano, e la cartina sommaria che aveva stampato da Internet.
L’italiano
annuì, riconoscendo perfettamente le vie.
«A
che ora hai l’appuntamento?» domandò,
accompagnandolo
lungo il ponte di Calatrava.
«Tra…»
il tedesco controllò l’orologio e
rischiò quasi di
ammazzarsi per quella semplice operazione: gli scalini bassi e
l’infelice
scelta dei colori creavano una specie di illusione ottica per cui non
si
riusciva a distinguere bene la distanza dei gradini.
«Un’ora e mezzo.»
«Sei
venuto con un sacco di anticipo» si sorprese Feliciano,
sistemando meglio la tracolla che continuava a sobbalzare sulle
ginocchia.
«Ultimamente
ci sono stati troppi scioperi ferroviari.
Meglio essere prudenti» assentì serio Ludwig.
La
sua risposta era solo una parte di verità: era venuto con
tanto anticipo soprattutto per stare con il suo amico veneziano. Per
quanto le
telefonate potessero essere piacevoli, vedersi di persona era
decisamente
meglio. Ma non era necessario dirlo a Feliciano: sembrava
già abbastanza su di
giri.
«Allora
non c’è bisogno di andare subito
all’appartamento. Possiamo
fare un giro. Da questa parte» lo guidò
l’amico. Costeggiarono Piazzale Roma,
dove un lento corteo di autobus sostava e ripartiva, i pedoni in
perenne
competizione con le vetture per accaparrarsi il diritto di attraversare
per
primi le strisce pedonali.
Inforcarono
la corta stradina che attraversava l’abbozzo di
parco su un lato del piazzale, oltrepassarono i chioschi e si trovarono
di
fronte ad uno dei paesaggi più tipici di Venezia: un
marciapiede che scorreva a
fianco del canale salmastro. Una cabina pitturata del caratteristico
verde
scuro e una rientranza nel marciapiede costituivano il parcheggio delle
gondole, dove imbarcazioni e rematori attendevano qualche turista
attirato dai
divanetti rossi e dalla prospettiva di un giro panoramico.
Ludwig
venne colpito dall’aria di Venezia, impregnata
dell’odore pungente del mare e dell’inquinamento.
Era profondamente diversa
rispetto a quella di Bolzano, fresca e argentina.
Feliciano
lo guidò rapido attraverso i ponti, le calli e i
sestieri, in quello che a Ludwig apparve come un dedalo inestricabile
di vicoli
stretti e, soprattutto, uguali. Si chiedeva se fosse davvero possibile
orientarsi in una città del genere come faceva
l’amico, e quanto ci sarebbe
voluto per acquisire la sua stessa sicurezza.
Feliciano
cercò di dargli qualche coordinata – Campo Santa
Margherita, Rio Nuovo e altri – che Ludwig cercò
di memorizzare a discapito del
suo orientamento disfattista: non gli sarebbe bastato quel giro per
imparare la
strada.
«Questa
è la sede centrale
dell’università» lo avvisò
Feliciano, quando passarono vicino ad un altissimo cancello di ferro,
oltre il
quale era possibile vedere una piccola piazzola che precedeva un
imponente
edificio immacolato.
«Anche
tu verrai qui ad immatricolarti, l’anno prossimo?»
chiese Ludwig per rallentare la velocità
dell’amico: già a Bolzano aveva notato
che Feliciano tendeva a camminare con la rapidità di un
bersagliere, ma in quei
vicoli tortuosi la sua peculiarità era ancora più
evidente, paragonata al goffo
incespicare dei turisti. Cominciava a capire l’espressione
“passo da
veneziano”.
L’amico
si arrestò in mezzo alla strada, rischiando di
provocare un ingorgo.
«Oh,
no. Tra due anni, forse. Ma non penso di venire alla Cà
Foscari. Mi sa che andrò all’Accademia di Belle
Arti» espose Feliciano,
riprendendo a camminare.
«Tra
due anni?» ripeté Ludwig.
«Sono
al quarto anno di liceo» annunciò
l’amico. «Il
prossimo anno ho la maturità.»
«Ma
tu non hai diciotto anni, come me» lo mise in dubbio
Ludwig.
«Ma
io compio gli anni ad aprile. Tu a dicembre»
squillò Feliciano,
infilandosi nell’ennesimo vicolo a misura d’uomo.
Ludwig lo seguì veloce,
lasciando perdere i calcoli sull’età e sui mesi
che li separavano.
Feliciano
si fermò di nuovo nel bel mezzo della calle, e
Ludwig ed un’altra dozzina di persone dovettero improvvisare
uno scoordinato balletto
per evitarlo.
«Hai
fame?» chiese a bruciapelo. «Questo fornaio
è ottimo!»
e si lanciò dentro il negozio senza aspettare la risposta
dell’amico.
Ludwig
trattenne un sospiro, seguendo lo scompigliato
italiano. Ormai conosceva il temperamento infantile e vivace
dell’amico.
Era
anche per quello che gli aveva chiesto di accompagnarlo:
una città sconosciuta sembrava molto meno ostile se
Feliciano la sommergeva con
la sua allegria variopinta.
***
Feliciano
lo aveva convinto a comprare a sua volta un panino
coperto di zucchero. I pasticceri e i fornai del luogo non spiccavano
in
originalità: era circa la quarta
“veneziana” che vedeva nel giro di una giornata;
le prime erano state delle frittelle all’uvetta, poi aveva
notato lo stesso
nome su un particolare tipo di pasta, e di nuovo nel cartello di una
pasticceria. E ora quel panino. Inestricabili misteri
dell’arte fornaia del capoluogo
dei canali.
L’italiano
lo condusse in una piazzola per mangiare. Il
bello di quella città era che offriva spesso la
possibilità di sedersi, se non
si era troppo schizzinosi sul numero di piccioni che potevano aver
usato quello
stesso sedile come gabinetto.
Ludwig
ispezionò con diffidenza la tozza panchina prima di
sedersi, seguito da Feliciano.
«Ti
piace Venezia?» chiese l’italiano, estraendo il
panino
dall’incarto del fornaio e addentandolo.
Il
tedesco si concesse un assaggio prima di rispondergli.
«Sono
appena arrivato, è troppo presto per decidere»
considerò diplomatico Ludwig.
«Oh.
E quando deciderai?» chiese Feliciano, tirando
l’unico
ciuffo spettinato della sua chioma con la mano libera dallo spuntino.
«Quando
avrò cominciato a viverci» replicò con
ovvietà
l’amico.
L’italiano
ebbe un guizzo, e in un attimo il panino sparì di
nuovo dentro il cartoccio, che venne a sua volta inabissato nella borsa
da cui
il ragazzo cominciò ad estrarre gli oggetti più
disparati.
«E’
la prima volta che vieni a Venezia! Dobbiamo commemorare
la cosa!» esultò, riempiendo la panchina di
cianfrusaglie mentre rovistava alla
ricerca il blocco da disegno.
«Hai
uno… spray al peperoncino?» si sorprese Ludwig,
quando
la famigerata boccetta fece la sua apparizione.
«Me
l’ha dato mio fratello» confermò
Feliciano. Album, gomma
e matita a mine emersero dalla tracolla, che venne nuovamente stipata
del resto
delle carabattole. «Si preoccupa sempre per me. E’
un bravo fratellone!»
«Ha
paura che ti saltino addosso?» si sorprese il tedesco.
«Temeva
che tu potessi farmi cose scabrose nel tuo
appartamento» espose serafico l’altro, sistemandosi
nella sua solita posa da
contorsionista per disegnare.
Ludwig
rimase immobile, il panino a mezz’aria e
l’espressione congelata, indeciso se ridere, offendersi o
sentirsi calunniato.
L’indecisione lo bloccò il tempo necessario a
catturare l’attenzione di
Felciano, che esclamò:
«Fermo
così!» e cominciò a schizzare
furiosamente.
La
matita a mine grattava il foglio ad una velocità
pazzesca, seguendo l’ispirazione intensa e improvvisa del
ragazzo. La gomma si
levò poche volte per cancellare, e lo fece sempre con
estrema rapidità per
lasciare di nuovo spazio alla collega di grafite.
«Da
quando schizzi ritratti?» si sorprese Ludwig.
«E’
la prima volta. Non parlare, devo disegnare la bocca» lo
sgridò in un sorriso Feliciano, perso nel suo mondo di fogli
e carboncini.
Ludwig
rimase pietrificato per qualche minuto prima di
sentire il braccio protestare e la crosta di zucchero sciogliersi in
una patina
collosa sotto il calore delle sue dita.
«Hai
mai disegnato altri boschi?» s’informò,
ricordandosi
del disegno che preferiva nelle produzioni dell’amico.
La
matita interruppe per un istante il suo fraseggio, poi
riprese con ulteriore vigore.
«Perché
me lo chiedi?» domandò l’altro di
rimando.
«Lo
schizzo che avevi fatto qualche anno fa era molto bello»
scandì con calma il tedesco.
«Ogni
tanto» fu la risposta vaga di Feliciano. Tracciò
quello che Ludwig riconobbe come il suo ultimo tratto:
l’amico aveva il vizio
di disegnare la riga finale con particolare forza, facendo compiere uno
svolazzo alla matita oltre il foglio. L’estremità
della penna venne accostata
alle labbra mentre il ragazzo valutava la qualità della sua
opera, ciondolando
la testa da un lato e dall’altro. Sistemò alcune
linee, approfondì le ombreggiature
dopodiché girò il foglio.
«Non
sono sicuro che sia venuto bene» si scusò
preventivamente.
Ludwig
osservò il disegno senza proferire una parola né
modificare la propria espressione.
Non
era perfetto in ogni dettaglio, ma il ritratto era di
sicuro ben fatto. La fronte era forse troppo ampia, gli occhi un
po’ troppo
ravvicinati e la proporzione tra mano e viso appena sbagliata, tuttavia
riusciva a riconoscersi in quel disegno. Il portamento severo, gli
occhi
perplessi al limite con il sospetto e la curva basita delle labbra
erano le
sue: anche il panino lasciato a metà era quello che gli
stava appiccicando le
dita con lo zucchero sciolto. L’amico aveva anche abbozzato
lo scenario
circostante, con linee molto più leggere di quelle riservate
al soggetto
principale.
«E’
molto bello» apprezzò composto. Finì il
malefico pane e
si pulì le mani appiccicaticce sul fazzoletto di carta del
fornaio.
«Davvero?»
Feliciano aveva l’espressione di un cucciolo
festante, e l’angolo della bocca del tedesco si
curvò in un alone di sorriso.
«Belle
Arti fa per te» confermò Ludwig.
Feliciano
sorrise esuberante, richiudendo l’album per
riporlo nella borsa.
«E’
la stessa cosa che mi ha detto Nonno Roma» gioì.
«Tuo…
nonno?» gli fece eco Ludwig. Feliciano non aveva mai
parlato della sua famiglia, e quella era la prima volta che menzionava
un suo
parente.
«Non
è proprio mio nonno» ponderò
l’italiano, incrociando le
braccia come un vecchio detective. «Era il fratello maggiore
di papà. Però
erano orfani, e lo zio gli ha fatto da padre. Così abbiamo
cominciato a
chiamarlo Nonno. E, visto che abita a Roma, è Nonno
Roma.»
Ludwig
aspettò che Feliciano avesse finito di rimettere a
posto i suoi attrezzi, e riuscì a chiedere:
«E
i tuoi genitori?»
«Penso
che sia ora di andare» l’italiano scattò
in piedi di
botto, guardandosi intorno per decidere la strada da prendere.
«Meglio arrivare
in anticipo, giusto?»
Ludwig
concordò con un cenno della testa, alzandosi a sua
volta.
Al
mondo esistevano vari segni che preannunciavano l’Apocalisse:
la pioggia di rane, i fiumi di sangue e il re dei ritardatari che
parlava di
“arrivare in anticipo”.
Si
affiancò all’amico e ripresero a parlare di
argomenti più
leggeri.
Ma,
nonostante l’apparente distrazione, Ludwig rimase fisso
su un pensiero: quanto era profonda la ferita che Feliciano nascondeva
dietro
la facciata di spensieratezza? E cosa l’aveva provocata?
Tentò
di minimizzare la visibilità dei suoi pensieri,
irrigidendo il viso e sforzandosi di sorridere.
Non
voleva certo essere lui a far soffrire ulteriormente
l’amico.
Ma
il dubbio non lo abbandonò per tutto il giorno.
***
«Quel
ragazzo sembra simpatico!»
«Ha
aperto bocca a malapena.»
«Perché
è timido. Deve essere simpatico.»
Ludwig
non indagò sulle cause del verdetto dell’amico:
Feliciano
agiva di cuore, mai di cervello. Forse era proprio da quella sua
spontaneità
che si alimentava il suo talento artistico.
«Scommetto
che non ti aspettavi di avere un coinquilino
giapponese!» cantilenò l’italiano,
ancora più euforico del normale: era la
prima volta che vedeva un asiatico in carne ed ossa. Quella sera
avrebbe
provato a disegnarlo. E magari Ludwig gli avrebbe permesso di andarli a
trovare
per una serie di ritratti, l’anno successivo. Occidente e
Oriente a confronto,
sulla stessa tela. Sarebbe stato grandioso!
«Parla
abbastanza bene l’italiano. Non dovremmo avere grossi
problemi di comunicazione» valutò Ludwig. Il
proprietario di casa, un uomo la
cui allegria era proporzionale alla misura del ventre ben pasciuto, gli
aveva
presentato il giapponese come uno studente modello giunto in Italia
grazie ad
una borsa di studio. Sarebbe rimasto a Venezia per un anno, poi avrebbe
fatto
ritorno al suo paese.
Il
giovane orientale si era presentato come Kiku Honda e,
dopo il nome, un numero veramente esiguo di parole era uscito dalle sue
labbra.
E Feliciano aveva deciso che quel giapponese era l’apoteosi
della simpatia.
Anche
dopo tanti anni di conoscenza, il tedesco faticava a
seguire i criteri di giudizio dell’amico.
La
voce nasale degli annunci ferroviari starnazzò il binario
del treno per Verona, interrompendo i suoi pensieri.
«E’
il tuo, giusto?» domandò Feliciano.
Ludwig
assentì. Fare il cambio a Verona era una cosa che
detestava: non esistevano coincidenze con i treni per Bolzano, ed era
sempre
costretto ad aspettare perlomeno mezz’ora in stazione. Si era
premunito di
libri, ma l’idea lo seccava ugualmente.
«Tornerai
a settembre?» sperò l’italiano, poco
prima che
l’amico salisse sul treno.
«Ti
farò sapere il giorno preciso» notificò
Ludwig. La sua
faccia assunse il cipiglio meditativo tipico dei pensieri complicati, e
il
tedesco macerò qualche istante nelle sue preoccupazioni
prima di chiedere con
la sua voce baritonale: «Sei sicuro che vada tutto
bene?»
Per
quanto avesse tentato di distrarsi, non riusciva a
dimenticare il repentino cambio di discorso dell’amico non
appena aveva
nominato i genitori. E nemmeno l’emozione fulminea che aveva
strisciato sotto
la sua pelle. Anche se Feliciano aveva tentato di dissimulare con tutte
le sue
forze, Ludwig l’aveva riconosciuta: dolore e paura, la
peggiore miscela
esistente al mondo. Era impossibile non accorgersi di un simile
miscuglio,
quando intorbidava il volto solitamente splendente
dell’italiano.
Feliciano
batté le palpebre con estrema lentezza, i
lineamenti insolitamente tirati ed immobili.
«Sì»
decise infine, stampandosi in faccia un bel sorriso.
«Ora va tutto bene.»
“Ora”.
Quindi le cose non erano sempre andate bene.
Ludwig
accettò quella risposta senza ulteriori commenti. Non
si sentiva offeso dal silenzio dell’italiano, tantomeno
tradito: Feliciano aveva
diritto di scegliere tempo e modo per rivelare i suoi segreti. La
tristezza che
gli ingolfava il petto era dovuta unicamente alla consapevolezza di non
poter
aiutare l’amico a scacciare quell’emozione malefica.
Ma
c’era una cosa che poteva fare.
Poggiò
con tutta la delicatezza di cui era capace la grande
mano sul capo dell’italiano, carezzandogli i capelli.
«Il
mio numero lo conosci» citò, inflessibile.
Quello
era il massimo che poteva fare: ricordargli che c’era
sempre qualcuno disposto ad ascoltarlo. E sembrò bastare a
Feliciano, che
recuperò finalmente il suo buonumore e non si
limitò ad inscenarlo.
«Grazie»
guaì quasi, felice.
Il
tedesco sorrise per riflesso e salì sul treno.
Aprì
il finestrino, sicuro che, come ogni volta al momento
della partenza, Feliciano avrebbe gridato qualcosa.
«Ti
aspetto a settembre!» urlò infatti il ragazzo,
sopra il
frastuono del treno, sopra i fischi dei controllori, sbracciandosi
nell’aria
piena di rumori. «Ricordati che ti aspetto!»
Ludwig
lo salutò dal finestrino, asserendo con il capo
biondo.
Poi
il treno partì, e l’ultima immagine che ebbe
dell’italiano fu una figurina minuscola
all’orizzonte, che ancora agitava le
braccia e si sgolava per salutarlo.
***
Lovino
si bloccò sulla porta della camera, la sorpresa e
l’orrore dipinti sul viso.
«Feliciano,
ti ricordi che il pavimento è fatto per
camminare, vero?»
Il
fratello assentì distrattamente, completamente assorto dalla
contemplazione di uno schizzo.
Lovino
sospirò, lanciando un’occhiata circolare alla
stanza.
Aveva l’impressione di essere precipitato in una bizzarra
nevicata fuori
stagione: al posto dei fiocchi di neve, dal cielo erano piovuti fogli
ricoperti
di studi creativi, accumulati sul pavimento, sulla scrivania e sul
letto.
Il
maggiore roteò gli occhi al cielo, e si infilò di
nuovo
la giacca che aveva appena tolto. Il turno al ristorante era finito
particolarmente tardi – il sabato sera non si smentiva mai,
purtroppo – e
l’ultima cosa di cui avvertiva il desiderio era passare il
resto della nottata
a scavare tra i fogli per trovare un angolo in cui accucciarsi.
Avrebbe
dormito da Antonio. Sperava solo che quei due
deficienti di Francis e Gilbert non facessero troppi commenti.
Serrò
la mandibola, rendendosi conto dell’impossibilità
della cosa: era sabato sera, ed il lavoro era stato sfiancante anche
per loro.
Sicuramente avevano bevuto qualcosa per riprendersi. E la spossatezza
riduceva
a livelli irrisori la loro capacità di tollerare
l’alcol. Passò una mano sul
viso, esasperato: sarebbero stati più molesti di un nugolo
di calabroni.
«Lovino»
lo chiamò il fratello, mostrandogli l’ultimo
disegno. Era la prova per il dipinto di un bosco, come tutte quelle che
inondavano la stanza: non passava giorno senza che Feliciano non si
esercitasse
a disegnare una foresta. La sua fissazione era sicuramente
riconducibile al
tedesco: tutto era cominciato dopo una sua visita a Bolzano, qualche
anno
prima. Chissà cosa gli aveva detto quello stupido crucco.
«Secondo
te sono pronto a metterlo su tela?» domandò
titubante, gli occhi che quasi tremavano.
Era
davvero ingenuo, il suo fratellino. Quasi disarmato
contro le infamie di quel brutto mondo.
«Eri
pronto dal primo abbozzo» rimbrottò Lovino,
girandosi
per imboccare la porta.
Il
volto di Feliciano si aprì in un sorriso accecante come
il sole. Si strinse il disegno al petto, con la delicatezza che una
bambina
avrebbe riservato ad un fiore, e mormorò:
«Grazie.»
Lovino
si schermì con un gesto della mano e fece per
scendere le scale.
«Salutami
Antonio!» la testa di Feliciano si sporse dalla
porta della camera per strillare la sua raccomandazione.
«Torna
a disegnare» sbottò il maggiore, uscendo veloce di
casa.
Feliciano
zampettò contento sul letto.
Era
davvero carino, il suo fratellone. Quasi tenero quando
si imbarazzava a parlare del suo fidanzato.
Raccolse
alcuni schizzi dal materasso e li poggiò sulla
scrivania, liberando lo spazio indispensabile per dormire.
L’indomani
mattina si sarebbe messo al lavoro. Erano anni
che progettava quel quadro per regalarlo al suo amico: non si era mai
dimenticato dell’apprezzamento che aveva fatto sul suo studio
di bosco.
Lo
avrebbe finito entro settembre, così Ludwig avrebbe
potuto appenderlo nel suo appartamento a Rialto, se gli fosse piaciuto.
Fino
all’anno prima, fremeva in attesa della neve natalizia;
ora pregava che settembre arrivasse presto ad arrossare le foglie.
Buffo come
l’amico tedesco fosse costantemente l’asse attorno
a cui ruotava il suo
calendario.
Feliciano
sfregò la guancia contro il cuscino, impaziente di
mettersi a lavorare, e si addormentò pensando a pennelli,
colori ad olio e
schemi prospettici.
Tutti
i
riferimenti a Venezia sono tratti dall’esperienza personale
di studentessa alla
Cà Foscari.
In
pieno periodo
d’esami, per questo il capitolo si è fatto tanto
attendere u.u”
Mi
scuso per il
ritardo, sarò più rapida nei prossimi
aggiornamenti
*posaeroicasuscoglieracontantodiondaallespalle*
E…
grazie<3<3<3
Grazie
a tutti
voi che seguite questa storia<3