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Autore: HamletRedDiablo    02/04/2012    12 recensioni
La loro strana amicizia cominciò molti anni prima, tra le bancarelle di Natale.
Continuò anni dopo, tra i banchi delle università. E non fu più solo amicizia.
"Non aveva mai capito una cosa del suo stravagante amico. Disegnava spesso, ma non trasferiva mai su tela la realtà che aveva davanti agli occhi. Tratteggiava solo soggetti che esistevano nella sua fantasia.
Come se il mondo umano lo spaventasse."
[Dedicata alla sister]
[GerIta]
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Germania/Ludwig, Nord Italia/Feliciano Vargas
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Alla sister.

Buon compleanno, soulmate<3

Viva il 26 dicembre<3<3<3<3

 

 

Quello che vedi nella tela

 


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La prima volta che lo aveva visto, avevano entrambi sei anni.

Era poco più di un cappotto troppo gonfio di vestiti, da cui spuntavano un visetto paffuto con gli occhi vispi e due iperattive gambette tozze; un piccolo ciclone di lana che rotolava da una bancarella all’altra.

Non si assomigliavano per nulla: mentre quel piccolo uragano sfrecciava in giro per il mercato, lui dava una mano ai genitori nello stand di famiglia, addobbato con il costume tradizionale.

A Natale, Bolzano si ingioiellava con luminarie di diverse forme e colori, si profumava con gli allettanti odori delle frittelle di mele e dei pretzel caldi, si animava con il mercatino rinomato in tutta Italia.

Ludwig adorava il Natale: aiutando i genitori nell’allestimento e nella gestione della bancarella, aveva la possibilità di godersi la fiera dal primo all’ultimo momento. Era una sensazione impagabile stare immerso negli odori speziati e nelle carole che rimbalzavano di stand in stand, e nell’inspiegabile gioia che permeava i volti di tutti i presenti.

Vendevano strudel, nel banco di famiglia. E fu proprio l’aroma del dolce ad attirare il pupo infagottato.

«Che cos’è lo strudel

Ludwig pensò per un attimo che le assi inchiodate della loro bancarella avessero cominciato a parlare: non vedeva nessuno, eppure aveva sentito una voce. Una voce che si esprimeva con un pessimo accento: aveva pronunciato il nome della pietanza indugiando e strascicando sulle lettere come se ognuna di loro fosse stata fatta di fango.

«E’ un dolce di mele e uvetta, piccolo» la risposta venne da sua madre, che guardava verso il basso con un’espressione deliziata. «Oh, Ludwig, guardalo! E’ una delle cose più carine che abbia mai visto!» trillò in tedesco, aiutando il figlio a sporgersi dal bancone.

«Deve avere la tua età» gli bisbigliò la madre, in italiano questa volta.

Ludwig inarcò un sopracciglio biondo, per nulla persuaso. Era impossibile che lui e quel cucciolo condividessero la data di nascita: il suo naso arrivava perlomeno a sfiorare il bancone, mentre quello del piccino era tristemente fermo alle assi di mezzo.

Le manine guantate palparono le tasche sovraffollate del giubbotto, ne estrassero alcuni euro che vennero debitamente – e lentamente – contati. Il bambino sembrò arrancare nei numeri, poi desistette e tese la manina verso i venditori, con le monete bene in vista.

«E’ sufficiente?» domandò, intristito per il fallimento matematico.

La mamma prelevò qualche euro in meno rispetto ai loro soliti prezzi e tranquillizzò il piccolo:

«Queste bastano. Ludwig, vuoi darglielo tu?»

Il bimbo dai capelli biondi asserì e scese per impacchettare il dolce e consegnarlo.

Si sporse nuovamente dal bancone, ma si presentò subito uno sgradito imprevisto: per quanto il pupo incappottato si sporgesse, le sue dita non arrivavano a sfiorare la confezione rosso brillante.

Così Ludwig si arrese all’evidenza e uscì nel vento natalizio per concludere la vendita.

Non lo accolsero solo le intemperie che tutti sopportavano con un instancabile sorriso: due fanali castani lo abbagliarono. O almeno, fu quella l’impressione che ebbe quando gli occhi spalancati per l’emozione del bambino si poggiarono su di lui e lo scrutarono con una curiosità galoppante.

«Anche tu parli la lingua buffa?» cinguettò il cucciolo, stringendosi al petto il pacchetto con il dolce.

«Parlo italiano e tedesco» replicò Ludwig, impercettibilmente infastidito da quell’intrusione.

«E’ bello parlare due lingue?» insistette l’altro, dondolandosi sulle gambe tondette.

Ludwig annuì con il capo, augurandosi di riuscire ad arginare la petulanza del nanerottolo. Vana speranza.

«Sei un ladro, vero?» lo pungolò con totale innocenza il piccolo.

«Sono un onesto venditore!» si difese Ludwig, le guance imporporate per il freddo e l’offesa. Non sapeva esattamente cosa volesse dire la frase che aveva appena pronunciato, ma l’aveva sentita così tante volte in televisione che qualcosa doveva pur significare.

«Avevo sentito una favola. Non mi ricordo il nome del protagonista» la guance del bimbo salirono in un sorriso per rimediare alla lacuna della memoria. «Però quel tizio, per rendersi più bello, aveva rubato i colori del cielo e se li era messi addosso. Non mi ricordo in che modo, però» sorrise di nuovo per supplire alla seconda mancanza. «Ma tu hai fatto lo stesso, giusto? E ti sei messo il colore del cielo negli occhi.»

«Sono nato così» lo smontò Ludwig.

Sul viso del bimbo si dipinse un “O” di stupore e meraviglia a quella scoperta.

«E’ possibile nascere come te?»

Ludwig non seppe se prendere quella domanda come un complimento o un’offesa. Sorvolò sulla decisione e rispose:

«E’ normale nascere come me.»

Il bimbo lo fissò annuendo a vuoto, sempre più sorpreso.

«Sei qui tutti gli anni?» volle sapere, indiscreto.

Ludwig annuì di nuovo, innervosito da quell’interrogatorio: doveva tornare dentro e aiutare sua madre con i clienti, non poteva stare fuori a fare salotto.

«Allora tornerò a trovarti!» decise il piccoletto in un trillo di giubilo. Fece per andarsene, poi zampettò indietro sui suoi passi, dimentico di un dettaglio fondamentale: «Come ti chiami?»

«Ludwig» comunicò l’altro.

Il bimbo inaugurò il sorriso delle grandi occasioni nel presentarsi:

«Io mi chiamo Feliciano.»

Dopodiché sparì nelle strade sovraffollate, lasciandosi dietro solo il ricordo di un cappotto troppo pieno di vestiti e curiosità.

«Hai fatto amicizia?» s’informò la madre, entusiasta.

«Gli ho solo detto il nome. E lui mi ha detto il suo» minimizzò Ludwig.

«E’ così che si comincia ad essere amici» gioì la madre.

Ludwig si strinse nelle spalle e continuò a lavorare come un solerte folletto, impacchettando porzioni più o meno grandi di strudel.

Ma un ronzio di sottofondo lo accompagnò per tutta la giornata. C’era una cosa particolarmente strana tra le cose strane di quel ragazzo.

Aveva più o meno la sua età. Era troppo piccolo per girare da solo: sua madre pretendeva ancora di stringergli la mano per attraversare la strada, e non lo perdeva mai d’occhio quando erano in giro.

Dove erano i suoi genitori?

 

***

 

Feliciano aveva mantenuto la parola: era tornato l’anno successivo.

E quello dopo. E quello dopo ancora.

Si erano visti crescere a vicenda: pian piano anche il naso del più piccolo aveva raggiunto il bancone e lo aveva superato, pur rimanendo ad un’altezza inferiore rispetto a quella dell’amico.

Ludwig era cresciuto secondo i dettami tedeschi: spalle ampie, altezza impressionante e fisico robusto; capelli biondi e occhi celesti completavano il quadro del perfetto nibelungo.

Feliciano, al contrario, era germogliato come un giunco, sottile e delicato, gli occhi sempre grandi e sgranati su un viso piccolo e dolce, l’opposto di quello squadrato dell’amico.

Con gli anni, Feliciano aveva imparato quali fossero gli orari migliori per accaparrarsi l’attenzione del tedesco. Non mancava mai di onorare la tradizionale compravendita dello strudel alla loro bancarella: la madre di Ludwig lo viziava ogni anno, facendogli pagare il dolce a prezzo ridotto e inondandolo con una pioggia di complimenti su quanto stesse diventando bello. Se Feliciano non fosse stato la personificazione dell’ingenuità, Ludwig avrebbe potuto pensare che venisse al loro stand solo per le lodi e il dolce scontato.

Ma non era così: Feliciano aspettava tutto il giorno, gironzolando per la città, che l’affluenza al mercatino diminuisse. Sapeva che, in quel momento, Ludwig poteva permettersi uno stacco dal lavoro. Era sempre puntuale nel farsi trovare fuori dalla bancarella, e passavano il resto del pomeriggio a chiacchierare e girovagare per la città in festa.

Si vedevano un solo giorno all’anno, quindi non vi erano mai momenti di silenzio imbarazzato: le parole fluivano da sole. Per essere più precisi, un torrente di discorsi fioriva dalla bocca elettrizzata di Feliciano, e Ludwig ascoltava, annuiva e rispondeva alle domande dell’amico su di giri. Solo quando l’irruenza spumeggiante del ragazzo si placava il tedesco cominciava a raccontare a sua volta gli avvenimenti dell’anno passato.

C’era poi un momento particolare della giornata in cui Feliciano sentiva l’urgenza di sedersi: allora si accomodava sulla prima cosa che trovava – un sasso, una fontana, una panchina -, accavallava una gamba sull’altra per formare un provvisorio tavolo da lavoro, faceva comparire dalla tracolla che si portava sempre dietro un album di disegno e cominciava a schizzare.

I primi anni i suoi abbozzi erano scarabocchi nel vero senso della parola: gente con le ruote al posto dei piedi, case geometriche e alberi conici. Ma, con il passare del tempo, la tecnica si era notevolmente affinata: ora la realtà poteva trovare un corrispettivo soddisfacente negli abbozzi del giovane. In quei momenti, Ludwig riusciva a sistemare la sua ingombrante stazza alle spalle dell’italiano e sbirciava con rispetto la fantasia di Feliciano che prendeva vita sulla carta. Non lo aveva mai visto disegnare due volte lo stesso soggetto: una volta comparivano persone, un'altra animali, un’altra ancora una natura morta.

Quello che gli era piaciuto di più era lo schizzo di un bosco che aveva fatto tre anni prima: i chiaroscuri approfondivano la scena, donando la sensazione di una foresta pulsante di vita nascosta, le foglie si differenziavano tra quelle delle conifere e dei sempreverdi, un ruscello scintillava sullo sfondo. Era l’opera migliore di Feliciano, a suo parere. Una volta gli aveva chiesto se l’avrebbe mai realizzata come un quadro definitivo, e, a quella domanda, l’amico aveva dondolato la testa avanti e indietro più volte, come un metronomo scoordinato. Non ci aveva ancora pensato, ma poteva non essere una brutta idea.

Tuttavia, da quel giorno Feliciano non aveva più disegnato una foresta. Sperava solo di non averlo offeso con il suo commento. Sarebbe stato il primo, probabilmente, ad avere mai ferito l’italiano: il sorriso inossidabile di Feliciano pareva scolpito direttamente sul suo viso, intoccabile e impossibile da cambiare, qualunque cosa avvenisse. Si chiedeva se i suoi genitori non gli avessero dato quel nome apposta.

Non avevano mai parlato della famiglia di Feliciano. Ludwig non sapeva cosa si celasse dietro il silenzio dell’amico, per cui aveva preferito tacere: l’ultima cosa che voleva era risvegliare ricordi che potessero offuscare il sempiterno sorriso dell’amico.

Avevano continuato così per dieci anni, vedendosi unicamente per i mercatini e recuperando in un unico giorno tutto il tempo perduto. Ludwig non aveva accettato subito la presenza di quel nanerottolo nella sua vita: la prima volta che lo aveva rivisto era rimasto guardingo e sospettoso, indeciso se fidarsi di quell’estraneo che si intrometteva senza ritegno nella sua vita. Anche il secondo anno non era stato precisamente amichevole, nonostante la costanza del bimbo che lo aspettava fiducioso fuori dalla bancarella.

Il terzo anno era riuscito a sciogliersi un po’ di più, incitato dall’esuberanza candida del bambino. Al quarto aveva deciso di accettare quello strano italiano, pur non condividendo del tutto il suo modo di fare svampito e fin troppo spensierato. Avevano continuato a vedersi ogni ventiquattro dicembre, coltivando quella strana amicizia che cresceva a ritmi così dilatati.

Per quel Natale, sua madre aveva deciso che, in onore dei suoi sedici anni, avrebbe potuto accompagnare Feliciano fino alla stazione, previa promessa di guardare bene a destra e sinistra prima di attraversare e di non fermarsi a parlare con gli sconosciuti.

Era commovente la solerzia con cui sua madre continuava a preoccuparsi per lui, nonostante gli mancassero solo due anni al raggiungimento della maggiore età.

Avevano raggiunto la stazione, Feliciano parlava e Ludwig ascoltava, e si erano recati al binario che avrebbe riportato Feliciano a Venezia, dove viveva.

L’italiano restò in contemplazione del treno per qualche istante, spostando il peso da un piede all’altro, come in preda all’indecisione.

«Ludwig?» lo chiamò all’improvviso, con quell’aria perennemente svagata.

Il tedesco lo guardò, in attesa del seguito.

Feliciano esplorò la sua tracolla debordante delle cianfrusaglie più disparate, ed il trionfo dilagò sul suo volto quando riuscì ad appropriarsi di un foglietto spiegazzato provato dal viaggio.

«Non aspettiamo di nuovo un anno per risentirci» lo salutò, consegnandogli il biglietto direttamente in mano e salendo al volo sul treno.

Perplesso, Ludwig spianò il foglietto e lesse quanto scritto sopra.

La grafia tondeggiante di Feliciano aveva vergato un numero di telefono e un indirizzo e-mail.

Ludwig fissò il biglietto per qualche istante, come per sorvegliare le scritte e impedire loro di mutare sotto i suoi occhi. Poi piegò il foglietto, lo infilò nella tasca dei pantaloni e tornò verso la sua bancarella.

Aveva già deciso cosa fare.

 

***

 

Feliciano si gettò sul letto, esausto dal viaggio.

La tratta Bolzano-Venezia era una tortura in quel periodo dell’anno, specie se uno sciopero dei treni aggravava la già scarsa efficienza delle ferrovie.

Affondò il viso nel guanciale con gratitudine, saggiando la morbidezza del letto, mai così confortevole.

Gli bastò meno di un secondo a scattare in piedi quando il telefono squillò. Afferrò la tracolla e ne rovesciò il contenuto sul letto, alla ricerca del cellulare.

Un numero mai visto prima lampeggiò sul display, mentre la musica scelta come suoneria strombazzava allegramente le sue note.

«Pronto?» ansò, provato dalla ricerca e dall’emozione.

«Sei arrivato a casa?» indagò una voce composta all’altro capo.

Feliciano quasi si ruppe la faccia tanto fu ampio il suo sorriso.

«Sì» festeggiò, lanciandosi sul letto con l’espressione sorniona di un gatto cui vengono fatte le coccole, incurante delle carabattole che si infilavano ovunque nei suoi vestiti. «Sono a casa. Tu?»

«Anche io. Come è andato il viaggio?»

Poteva immaginare benissimo l’espressione impeccabile dell’amico, tesa a non lasciare trapelare troppe emozioni. Ludwig non si era mai accorto che, anche se le labbra restavano tirate in una linea marziale, il mutare dei suoi occhi rivelava piuttosto chiaramente cosa stesse pensando.

Non poteva vedere i mutamenti delle iridi dell’amico, ma non importava.

Non avrebbe dovuto aspettare il prossimo Natale per ricevere il suo regalo preferito.

 

 

 

 

 

 

 

Prima GerIta in assoluto.

Dedicata, nella sua interezza, alla sister-soulmate<3<3<3<3

Dunque, questo è poco più di un prologo.

Volevo un’ambientazione in cui fosse plausibile che un tedesco e un italiano si incontrassero, e ho pensato a Bolzano. Il resto della storia avrà ben poco a che fare con i mercatini natalizi XD

Questo capitolo è una volata sul loro rapporto finora, giusto per dare un’idea generale.

Dai prossimi capitoli, il punto focale sarà la loro amicizia… e non solo amicizia<3

Grazie a tutti per essere arrivati fin qui<3

Red

P.S. Ancora tanti auguri, sis<3<3<3<3


Secondo P.S. I banner sono di Clau-tan<3<3<3
   
 
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