Fire of Love di LaCla (/viewuser.php?uid=82873)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Ricordi ribelli ***
Capitolo 2: *** 2. Fantascienza o realtà? (Parte 1) ***
Capitolo 3: *** 2. Fantascienza o realtà? (Parte 2) ***
Capitolo 4: *** 3. Conto alla rovescia! ***
Capitolo 5: *** 4. Pronti, partenza, via! ***
Capitolo 6: *** 5. Uno spettacolo indimenticabile ***
Capitolo 7: *** 6. Prontezza di riflessi e narcolessia ***
Capitolo 8: *** 7. Un invito che non si può rifiutare! ***
Capitolo 9: *** 8. Verità ***
Capitolo 10: *** 9. Un amaro ringraziamento ***
Capitolo 11: *** 10. Moda e telefonate: qualcuno ci salvi! ***
Capitolo 12: *** 11. Cibi, bevande ed attacchi d'ira! ***
Capitolo 13: *** 12. Attimi di quiete ***
Capitolo 14: *** 13. Passato e futuro ***
Capitolo 15: *** 14. Non mi importa! ***
Capitolo 16: *** 15. Lucciole ***
Capitolo 17: *** 16. Addio! ***
Capitolo 18: *** 17. Sole spento ***
Capitolo 19: *** 18. Nessun rimpianto ***
Capitolo 20: *** 19. Nuovo Sole ***
Capitolo 21: *** 20. Il piromane e il felino ***
Capitolo 22: *** 21. L'oscurità del sangue ***
Capitolo 23: *** 22. Impossibile ***
Capitolo 24: *** 23. Presentazioni ***
Capitolo 25: *** 24. Pioggia e Fuoco ***
Capitolo 26: *** 25. Distrazioni ***
Capitolo 27: *** 26. Auto e legami ***
Capitolo 28: *** 27. In cucina, no! ***
Capitolo 29: *** 28. Tic Tac! ***
Capitolo 30: *** 29. Acqua e fuoco! ***
Capitolo 1 *** 1. Ricordi ribelli ***
c1
“Buona sera a tutti i gentili telespettatori, questa sera
nella nostra rubrica, abbiamo deciso di trattare l’argomento
del mangiare sano! Ma prima vediamo il servizio sulla rapina in villa
avvenuta l’altro ieri! I colpevoli non sono ancora stati
identificati, ma la polizia…”
La voce acuta e
fastidiosa della cronista riempie la stanza, ormai accendo la TV solo
per non sentire il silenzio, non faccio quasi caso a ciò che
dicono.
Seduta davanti al
fuoco, con il cane sdraiato ai miei piedi ed il gatto addormentato
sulle ginocchia, fisso le fiamme, tentando di rilassare la mente,
lasciando vagare nel nulla i miei pensieri.
Sono passati sette mesi
dall’ultima volta che ho sorriso sinceramente, sette mesi di
finzione, risate che non arrivavano al cuore, e non sfioravano nemmeno
gli occhi. Eppure sono diventata brava, una campionessa nello schivare
gli sguardi, nel cambiare argomento, nell’impegnare il mio
cervello in mille faccende, in modo che non abbia tempo per ricordare.
Ma questi momenti di noia sono inevitabili, e non posso fare niente per
far virare i miei pensieri in un’altra direzione,
è tardi, ormai le prime immagini di quell’incubo
stanno già riaffiorando. L’ospedale, il pallore
della pelle, le analisi, le varie ipotesi, una peggiore
dell’altra, e poi il responso definitivo, come un macigno
sullo stomaco; impossibile da digerire. Metastasi, questione di
settimane, non possiamo fare niente, morfina. La vista si appanna
immediatamente, la forza di volontà non può fare
tutto, certe emozioni sono troppo devastanti per essere frenate dalla
cocciutaggine.
Il fiume di ricordi si
abbatte nuovamente su di me, riportando alla luce vortici di parole,
immagini e gesti che non potrò mai dimenticare. Ma il
ricordo più frequente è la mia voce, la mia voce
che urla, che grida, ma che non esce dalla gola, che resta dentro al
mio petto, a guardia del dolore che ormai ho trasformato in rabbia.
Rabbia cieca ed implacabile che brucia dentro di me, sempre pronta a
scatenarsi, una furia che tengo nascosta il più possibile,
per evitare che investa tutti coloro che mi stanno attorno.
Sette mesi fa si
è spento in un letto d’ospedale l’uomo
più importante della mia vita, l’unico uomo che
credevo non mi avrebbe mai abbandonata, mi è stato strappato
via, senza preavviso, senza possibilità di salvarlo. Aveva
solo 52 anni, io 19, non è giusto che a 19 anni mi sia stato
portato via, non è giusto.
Chi mi
abbraccerà il giorno della laurea? Chi mi
accompagnerà all’altare? Come farò
senza il mio papà?
Ormai le lacrime
solcano le mie guance, e i singhiozzi scuotono il mio corpo. Dicono che
il tempo guarisce tutto, ma non è vero, il tempo aumenta la
pena ed il dolore, aumenta il senso di solitudine, aumenta la nostalgia
di quei sorrisi e quelle battute che capivamo solo noi, aumenta tutto.
So che ci sono persone
che soffrono più di me, gente che ha perso i propri genitori
in modo ancora più tragico, ma non posso fare a meno di
essere egoista, di pensare che nessuno stia soffrendo come me, di
credere che il mio dolore e la mia rabbia siano i più grandi.
Il tumore non aveva
dato tempo di agire, era comparso e si era portato via tutto, in un
mese tutto il mio mondo era crollato.
Basta, richiamo i
pensieri all’ordine, mi concentro su altro.
L’università, l’imminente esame, cane e
gatto devono ancora mangiare, che ore sono? Perché mia madre
non è ancora tornata?
Mi alzo, tenendo in
braccio Pepe, il mio micio, e salgo le scale. Appena arrivo in cucina
mi sciacquo il viso dal pianto, lavando via le tracce lasciate dalla
mia debolezza di poco fa. Sono le otto, non manca molto al rientro
della mamma, e non posso farmi vedere così, capirebbe
subito, e non ha bisogno di una frignona al suo fianco adesso. So che
piange anche lei, ma non si fa mai vedere, è il nostro modo
di aiutarci, ogni una con il suo dolore, ogni una con il suo modo per
superarlo. Lei dorme ancora sul divano, io sono arrabbiata con il
mondo, lei non vede me piangere, io non vedo lei, fine della storia.
Servo la pappa ai miei
animali, li ho presi entrambi pochi giorni dopo la morte di mio padre,
avevo bisogno di qualcuno a cui dare amore, a cui pensare e che mi
tenesse la mente impegnata, e cosa c’è di meglio
di un cagnolino salvato in canile e un micino di pochi mesi?
Mentre loro mangiano la
Tv continua a ciarlare di prodotti di bellezza, regali di pasqua,
programmi sensazionali, grandi eventi in anteprima mondiale. Non mi
interessano, li ignoro, ma non la spengo.
Ricontrollo
l’orologio, sono passati appena cinque minuti.
Aspetterò in camera, non ho voglia di restare in sala, e poi
con il computer posso fare qualcosa che mi distragga, oppure avrei
potuto leggere, sempre per distrarmi. In questi mesi oltre ad essermi
gettata a capofitto negli studi universitari avevo letto a
più non posso, ed avevo rispolverato vecchie serie TV che
non avevo mai avuto voglia o tempo di finire. In particolare avevo
deciso di riprendere ONE PIECE, era l’ideale,
un’avventura lunga ma allo stesso tempo leggera, o almeno
così avevo pensato quando avevo iniziato a guardarlo, dalla
puntata numero uno. Ormai l’avevo finito, tra lacrime e
rabbia, ed attendevo i nuovi capitoli. Perché tra lacrime e
rabbia? Perché ovviamente mi ero appassionata
all’anime, ed adoravo un personaggio in particolare, che mi
somigliava molto a mio parere, indovinate chi è?!
Ovviamente
l’unico che viene assassinato, a cui sono dedicate le puntate
più emozionanti e struggenti di tutto l’anime,
tanto perché non ne avevo abbastanza della rabbia e del
dolore che mi attanagliavano nella realtà, pure nella
finzione dovevo cercare di farmi del male.
Portuguese D. Ace,
detto pugno di fuoco, ecco il mio personaggio preferito di tutto
l’anime. Fin dalla sua prima apparizione l’ho
adorato; arrogante e sfacciato, ma dolce, premuroso e con un dolore
dentro di se, che nascondeva con il suo immancabile sorriso.
Sospirai e mi avviai
verso le scale, quando la voce alla TV attirò la mia
attenzione.
“Interrompiamo la
normale programmazione per un’edizione straordinaria del
nostro Telegiornale. Un avviso ufficiale da parte delle
autorità giapponesi, ci ha appena informato di una
pericolosa fuga di radiazioni dalla centrale nucleare di Genkai. Si
tratta di un evento scioccante per la popolazione giapponese, in quanto
pare che le radiazioni si siano diffuse per almeno duecento chilometri!
Gli abitanti delle città che rientrano nel raggio
d’azione delle radiazioni sono state completamente isolate,
le autorità assicurano che la centrale è
già stata disattivata e che le radiazioni non vengono
più emesse, ma bisognerà comunque fare dei
controlli a tappeto sulla popolazione, per verificare eventuali danni
alla salute! Non sappiamo a cosa potrebbe portare
quest’ennesima catastrofe nucleare!”
Maledizione, ogni
giorno ne salta fuori una nuova; guerre, catastrofi, errori umani,
crimini, mai una giornata in cui non avvengano fatti di cronaca.
Sbuffando spengo la TV
e scendo in camera, non ho nemmeno voglia di mettermi a studiare, mi
infilo nel letto e tento di dormire. Non sento mia madre rientrare, non
sento più niente fino alla mattina successiva.
Un’altra notte vuota è passata, ma non
potevo immaginare che sarebbe stata l’ultima, nessuno poteva
immaginare che da quella sera la mia vita sarebbe cambiata, che una
fuga di radiazioni in un paese dall’altro capo del mondo,
potesse avere risvolti così netti nella mia vita. nessuno
poteva immaginarlo, eppure successe.
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Eccomi
qui, dopo tanti mesi di silenzio con la mia prima FF su One Piece... in
questo capitolo non c'è che un accenno, però
giuro che nei prossimi capirete tutto! ^_^
Tenterò
di aggiornare costantemente, puntualmente e soprattutto spero di
mantenere questi propositi! :-)
fatemi
sapere cosa ve ne pare, e se vi fa piacere ditemi, qual'è il
vostro personaggio preferito?
Alla
prossima!
Immagini
e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di
lucro
|
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Capitolo 2 *** 2. Fantascienza o realtà? (Parte 1) ***
C2a
La
sveglia del mio cellulare inizia il suo faticoso lavoro quotidiano,
tenta di svegliarmi. La riattiverò una ventina di volte
prima di aprire gli occhi, ed altrettante volte dopo. Per svegliarmi
all’ora giusta, devo mettere la sveglia un’ora
prima, è raro che il mio corpo decida di alzarsi dal letto
senza la violenza uditiva di un continuo allarme. Stamattina
però la casa è più rumorosa del
solito, sento i miagolii del gatto, le zampotte del cane che
trotterella sul pavimento al piano di sopra, sento rumore di stoviglie.
Controllo l’ora, sono le sette e mezza, vorrei rimettermi a
dormire, ma devo andare in bagno, quindi decido di alzarmi.
Mentre mi avvio trascinando i piedi scalzi verso l’armadio
per prendere i vestiti, il mio movimento viene intercettato dal cane,
che sento correre a tutta velocità giù dalle
scale per darmi il buongiorno. Un giorno cadrà sicuramente
se continua a scambiarle per una pista di formula uno. Tempo di
chiudere l’armadio e la palla di pelo di venti chili mi salta
addosso, tentando di arrivare la mio viso per poterlo leccare. Un
desiderio disgustoso che evito di esaudire riempiendolo di coccole.
«Mamma vado a farmi la doccia!» grido dal
corridoio, tanto per informarla del mio risveglio.
«Ok, fai veloce!» mi risponde, consapevole che
comunque non sarò mai svelta come vorrebbe. La durata media
del mio soggiorno in bagno è di un’ora e mezza,
per questo mio padre aveva costruito due bagni.
Entro nella stanza, rischiando di chiudere nella porta il naso del cane
e inizio la mia routine. La doccia mattutina mi rinvigorisce e
rigenera, è raro che la salti.
Quando il getto bollente colpisce le mie spalle tutto viene avvolto dal
vapore. Il profumo dello shampoo invade il vano della doccia, e rilassa
i miei muscoli.
La schiuma mi avvolge il corpo per brevi secondi prima che
l’acqua la lavi via, e quando passo la spugna dietro le
spalle sfioro il mio tatuaggio, quel disegno nero che ho voluto fare a
tutti i costi tre mesi fa. Una rosa con una G nascosta nel gambo
elaborato, per tenere sempre con me il ricordo di mio padre. Quando ero
entrata nello studio del tatuatore ero terrorizzata dal dolore che
stavo per provare, ma appena l’ago ha iniziato a scalfire la
mia pelle la paura è svanita. Mi avevano detto che era un
dolore insopportabile, che l’avrei fatto fermare mille volte,
invece non era niente di che. Sembravano tante punturine, se non ci
pensavi era quasi rilassante. Dopo l’esperienza
traumatizzante con il Silk Epil, niente poteva farmi male!
Resetto i pensieri e finisco di lavarmi. Quando esco dal vano della
doccia il vapore è come una nebbia fitta, che mi impedisce
di vedere chiaramente i contorni. Già senza occhiali ho le
mie difficoltà, pensate un po’ come potevo vederci
bene mixando l’assenza delle lenti alla nebbia. Mi avvolsi
nell’asciugamano ed accesi la ventola per far uscire
l’umidità. Dovevo farla sparire prima che mia
madre entrasse in bagno, altrimenti avrei subito l’ennesima
predica su come il vapore rovini i muri.
Friziono con l’asciugamano più piccolo i corti
capelli corvini, finché non sono quasi asciutti, poi con il
Phon faccio sparire la condensa dallo specchio. Guardo insoddisfatta il
mio riflesso, una ragazza pallida, con un riccio bagnato in testa, sexy
no? No, decisamente no...
Asciugo ulteriormente i capelli, tentando di dar loro una piega che non
sembri un animale spettinato e che al contempo non mi faccia sembrare
il quinto membro dei Beatles. La cosa mi riesce anche discretamente, ma
la mia insoddisfazione non cambia. Inforco gli occhiali e noto anche le
occhiaie, ormai perennemente stampate sul mio viso. Distolgo lo sguardo
ed inizio ad asciugarmi.
Quando mi sono vestita esco, lasciando la porta aperta per far uscire
gli ultimi residui di vapore.
Salendo le scale incrocio lo sguardo del gatto, che sazio e assonnato
mi osserva dalla poltrona. Che bella vita che fa un gatto domestico.
Mangia, dorme e ozia. Nessun pensiero, nessun obbligo, nessun dovere.
Proprio una bella vita.
Afferro un vasetto di yogurt dal frigo e mi siedo a tavola, dove mia
madre sta intingendo nel suo tè delle fette biscottate.
«Buongiorno! Dormivi già ieri sera, eri stanca?
Non me la sono sentita di svegliarti. Spero tu abbia cenato! Hai
sentito il telegiornale o vivi fuori dal mondo come al
solito?» mi tartassa di domande, come ogni sacrosanta
mattina. Poi si lamenta del mio perenne malumore, come si fa a
risponderle bene a quell’ora?
«Mamma, è mattina, frena! Si ho mangiato, si
dormivo, e perché vuoi sapere se ho visto un
telegiornale?» tento di rispondere in modo educato e
completo, non ho voglia di sentire la predica sul rispetto di prima
mattina.
«Beh c’è una notizia assurda! Sai, una
centrale nucleare in Giappone ha avuto una fuga di radiazioni, e pare
che questo sia avvenuto parecchie settimane fa, ma solo ieri
è stato reso noto. Le potenze mondiali sono inviperite.
Sembra che queste radiazioni abbiano colpito delle pagine illustrate, e
i personaggi abbiano preso vita! I personaggi in questione si sono
ritrovati in questo mondo, ti rendi conto? Non hanno ancora detto
nient’altro, solo che l’autore è un
certo… Oma, Ora, Ada, qualcosa di giapponese insomma!
È terribile, una catastrofe! Saranno dei mostri, ci
attaccheranno e ci uccideranno! Hanno detto che sono molto forti, e che
hanno mantenuto i loro superpoteri!!!»
Ok, mia madre è impazzita. Non posso fare a meno di alzare
il sopracciglio destro ed assumere la mia faccia da schiaffi perplessa.
Come è possibile? Siamo nel mondo reale, e quella che mi
stava raccontando era più che altro la trama di un film di
fantascienza di serie Z, non ci sono lettere dopo la Z vero?
Perché veramente, chi si era inventato una cosa simile?
Probabilmente si era sognata tutto, e si era svegliata convinta che
fosse accaduto davvero, capita no? Però effettivamente
ricordavo qualcosa a proposito di una centrale, un servizio speciale
dell’altra sera… Bah, controllerò dopo.
Continuo a mangiare il mio yogurt in silenzio, intanto che mia madre
mette via la sua tazza. Sta partendo per andare al lavoro, anche oggi
sono a casa tutto il giorno da sola, una pacchia insomma.
«Smettila di guardarmi come se fossi diventata deficiente! Se
non mi credi accendi la TV e ascolta tu stessa le notizie! Sicuramente
poi tu conoscerai quei cosi, ultimamente hai guardato solo quei
cartoni! Io comunque esco! Ti accendo la TV! Guarda il telegiornale!
Così smetterai di avere quell’espressione da
“povera me mia madre è una cretina che si immagina
le cose!” Baci baci». Accende la televisione, mi da
un bacio sulla fronte e scende, uscendo in fretta dalla
porta.
La voce gracchiante del telegiornale inonda la casa, e per una volta
decido di seguirlo davvero. Se mia madre si era inventata tutto era
grave, quindi tanto valeva appurare che non fosse affetta da qualche
malattia mentale. No?
Alzai il volume mentre mi rannicchiavo sul divano.
“I fatti resi
noti durante la notte dal Governo Giapponese stanno scioccando il mondo
intero! Pare infatti che le illustrazioni che hanno preso vita siano
dei personaggi disegnati da Eiichiro Oda, famosissimo autore del manga
di ONE PIECE, diffuso in Italia da Mediaset, con il nome di
“Tutti all’arrembaggio”.
L’autore sta collaborando con le autorità in modo
da poter fornire al più presto una lista di nomi,
dove selezionare i personaggi innocui e quelli invece cattivi. I fan
della serie sono letteralmente impazziti, e chiedono a gran voce questa
lista. I governi mondiali sono a dir poco furibondi per la decisione
del Giappone di tenere tutti all’oscuro della faccenda fino
ad ora, accusando lo stato asiatico di aver messo a rischio la
sicurezza mondiale. A quanto pare infatti i personaggi di questo
cartone hanno poteri fenomenali, utilizzabili tranquillamente come armi
belliche micidiali!”
È assurdo, non è possibile, è
fantascienza, non può essere vero.
Chiudo la bocca, spalancata involontariamente per lo stupore, e
deglutisco. Non posso crederci, i personaggi di ONE PIECE qui? Nel
mondo reale? Era fantastico! O meglio, dipendeva dai personaggi!
Sarebbe stato veramente un disastro se la fantomatica lista avrebbe
reso noti i nomi dei cattivi più spaventosi! Però
se così fosse, avrebbero già provveduto ad
incarcerarli prima di dare la notizia, no? Anzi, probabilmente non
l’avrebbero mai nemmeno data!
Avrei lasciato accesa la TV tutto il giorno, per avere eventuali
aggiornamenti. Come è possibile una cosa del genere?
Feci zapping, tutti i canali dicevano la stessa cosa, la notizia era
sulla bocca di tutti. Provai a controllare sui canali stranieri con il
satellitare, ed anche la BBC, perfino le reti arabe parlavano di questo
fatto! Non poteva quindi essere una bufala no?
Tornai sul TG principale, assetata di nuove notizie.
Il mio cuore batteva fortissimo, impazzito nel mio petto,
facendomi cadere nell’eccitazione ed impazienza totali.
“Gentili
ascoltatori, ecco la lista! È appena stata rilasciata e ci
accingiamo ad elencarvi i nomi dei personaggi che hanno letteralmente
preso vita! Attenzione, la lista comprende anche i cattivi, che
però il governo giapponese assicura siano già
stati catturati ed imprigionati in gabbie di Aga…
A-gal-ma-to-lite marina. ”
Povero cronista, adesso me la godo la lettura dei nomi, spero gli
abbiano messo accanto la pronuncia esatta almeno! Ha
difficoltà con l’agalmatolite, non oso immaginare
quando arriverà ai nomi complicati!
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Eccomi qui, ho deciso di postare
prima del previsto il capitolo, perchè questa è
solo la prima parte. L'ho diviso visto che era veramente troppo lungo,
e personalmente quando i capitoli sono troppo lunghi fatico a trovare
il tempo di leggerli; quindi nelle mie storie evito di superare le
quattro pagine ^_^
Ringrazio tutti coloro che hanno deciso di seguire questa storia, e che
hanno risposto alla mia domanda! Il mio personaggio preferito comunque
è Ace, che adoro, subito seguito da Trafalgar Law, che mi
affascina da morire!!!! :-)
spero che il capitolo vi sia piaciuto, sono sempre felice se mi fate
sapere le vostre opinioni! vi lascio con un'altra domanda:
Qual'è invece il personaggio che vi sta più
antipatico?
Alla prossima! ( mercoledì credo di aggiornare)!
Immagini
e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di
lucro
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Capitolo 3 *** 2. Fantascienza o realtà? (Parte 2) ***
C2b
“Ecco
la lista, allora: Monkey D. Rufy, noto come
“Rubber”; Roronoa Zoro; Nami; Sanji; Nico Robin;
Chopper; U-Usop-p; Franky; Brook; Shanks e la sua ciurma;
A-Aokiji…”
Ecco, non male,
l’ammiraglio Aokiji non era propriamente antipatico, si
faceva gli affari suoi… invece per gli altri sono contenta,
tutti personaggi buoni, per ora! E anche il povero presentatore se la
stava cavando bene, ma il bello doveva ancora arrivare!
“Ehm…
mi scuso per le pronunce, comunque continuiamo con Smoker; Tashigi;
Kobi; Iceburg; Paulie; Kokoro; Chimney; Kureha; Igaram; Nefertari Cobra
e la figlia Bibi; Pell; Curly Dadan; Monkey D. Garp; Mr. 2 Von Clay;
Boa Hancock; Don-qui-jiote Doflamingo; Emporio I-van-kov; E-Eustass
Kidd; Trafalgar Law; Duval; ”
Beh, wow, mica male!
Per ora non c’erano grossi problemi, di cattivi non ce
n’erano, com’era possibile? Probabilmente li
avevano tenuti in fondo alla lista, per poi parlarne nel dettaglio!
Ogni nome elencato mi faceva accelerare il cuore, fortunatamente le
evidenti difficoltà del giornalista nel pronunciare quei
nomi, alleviavano leggermente la tensione. Tentai di concentrarmi sui
suoi errori, per evitare di pensare incessantemente a quel nome che mi
ronzava nella testa. Quando vedeva un nome troppo lungo o troppo
complesso lo scandiva a sillabe, era uno spasso sentirlo arrancare
così!
“Ma
passiamo ai cattivi, sono già stati catturati Crocodile;
Ener e Barbanera, gli unici presenti in quei disegni, a detta di Oda.
Le autorità però stanno indagando su altri
quattro personaggi, definiti da Oda come buoni, ma che potrebbero
essere molto pericolosi! Si stanno svolgendo indagini sul pirata
Barbabianca, Drakul Mihawk, Marco e Portuguese D. Ace. Sembra
però che verranno aggiunti alla lista dei personaggi
positivi, in quanto sono presentati come tali nel fumetto. Infatti pare
che i caratteri decisi da Oda siano rimasti inalterati durante il
“trasporto” nel nostro universo. Altro elemento di
sorpresa nella lista è l’aggiunta di un ricercato
dalle autorità. L’ammiraglio Akainu infatti era
raffigurato chiaramente nei disegni colpiti dalle radiazioni, ma non
è stata trovata traccia di lui. Le autorità lo
stanno cercando in tutto il paese, mobilitando anche i paesi
confinanti. Il personaggio in questione potrebbe avere avuto
comprensibilmente uno shock ritrovandosi in un mondo totalmente diverso
dal suo. Vi terremo aggiornati su ulteriori
novità!”
Resto pietrificata,
anche volendo, i miei muscoli ora non risponderebbero al mio comando.
Barbabianca e Ace, vivi… Ace, nel mio mondo, nella
realtà in cui vivo io, pugno di fuoco esiste, ed
è vivo!
È
vivo… il cuore smette di battere, si ferma del tutto, per
poi riprendere la sua folle corsa! Mi sembra di avere
un’orchestra di percussioni nel petto, sento il sangue
pulsare così forte che sembra voler uscire dalle mie vene.
Mi impongo di
respirare, inspira, espira… va tutto bene, Ace è
vivo…
Una lacrima traditrice
fugge dai miei occhi, rigandomi la guancia. La lascio correre sulla
gota fino al mento, sentirla sulla mia pelle è come una
conferma. Non sto sognando, è vero, è tutto vero!
Da quanto tempo sanno
queste cose? Da quanto tempo ci tengono nascosto questo fatto? Quando i
miei muscoli si sbloccano sembrano impazziti, mi alzo, vado in cucina,
mi appoggio al bancone, faccio un giro del tavolo mordicchiandomi
l’unghia del pollice. Ma cosa sto facendo? Io nemmeno me le
mangio le unghie! E poi cos’è tutta questa
agitazione? È un personaggio di un manga/anime giapponese
che adoro, un personaggio per il quale ho pianto come
un’idiota davanti al computer per due giorni, di cui ho foto
sparse in ogni singola cartella del mio PC e sul quale ho fantasticato
più volte, in maniera innocente e non. Molto più
spesso la seconda ma questo non conta! Non è nessuno di
particolare, non è che è resuscitato Elvis o cose
simili…
Ma cosa diavolo sto
pensando? Dei personaggi totalmente immaginari vengono catapultati nel
mio mondo da una dimensione parallela, e io vado a pensare alla
resurrezione di Elvis? Ok, basta. Sto decisamente delirando.
Spengo la TV e scendo
in camera, non posso ascoltare altro, devo prima metabolizzare le
notizie che ho appena appreso, altrimenti rischio di impazzire!
Mi metto alla
scrivania e accendo il monitor, Facebook non parla d’altro,
link, foto e status a raffica su questa novità. Ragazzi
esaltati, ragazze impazzite, idioti che annunciavano la fine del mondo.
Chiudo il social network e mi rannicchio sulla poltroncina. Il cuore
non aveva ancora smesso di battere freneticamente nel mio petto, mi
sentivo come una ragazzina al suo primo concerto, dove va a vedere la
sua band preferita. Quei personaggi, che aveva sparsi per tutta la
camera sottoforma di poster e fotografie, in quel momento prendono vita
e forma sotto i tuoi occhi, ti rendi conto che sono li, e sono reali!
Ecco come mi sentivo.
Iniziai a sfogliare le immagini di ONE PIECE che avevo salvato, una
dopo l’altra, il cuore iniziava a calmarsi fortunatamente,
non so per quanto ancora il mio corpo avrebbe retto quella pressione
sanguinea.
Quando mi parve di
essere più lucida decisi di fare una rapida ricerca, per
vedere eventuali sviluppi.
Mi accorsi dopo
qualche secondo che sul mio viso si era disegnato un sorriso, ero
felice? Si tantissimo! Sicuramente avrebbero fatto degli incontri con i
fan, e avrei potuto vederli! Avrei potuto conoscere Ace, Marco, Zoro!
Avrei potuto vedere Chopper, e persino Brook!! Era un sogno che si
realizzava!
Ma sfogliando le
notizie nel web mi ricordai dell’ombra che attanagliava
ancora tutti loro, Akainu. Dove poteva essersi ficcato quel pezzo di
merda? Sicuramente finirà tra i cattivi, solo che non
potevano dirlo in TV, altrimenti non l’avrebbero mai trovato!
Un uomo come lui in circolazione era pericolosissimo, per tutti.
L’ideale di giustizia che portava avanti con determinazione
era sbagliato, la giustizia non può essere inflessibile,
deve giudicare caso per caso, non fare a grandi linee di tutti dei
delinquenti da massacrare. Spero che lo trovino alla svelta
quel pazzo… E che gli facciano patire le pene
dell’inferno a quello stronzo pompato con la camicina a
fiori!
Le notizie in rete
vengono aggiornate praticamente ogni 5 minuti, a quanto pare erano mesi
che il governo nipponico era a conoscenza dei fatti, ma aveva preferito
tentare di arginare il problema prima di renderlo di dominio pubblico.
Questo non piacerà alle grandi potenze, chissà
quante polemiche nei prossimi giorni!
Poco dopo venne
pubblicata la comunicazione dell’inserimento degli ultimi
quattro pirati nella lista di personaggi non pericolosi, quindi Ace era
salvo, tutelato dalla legge! Infatti a tutti era stata assicurata
assistenza sanitaria, legale e civile. In sostanza erano cittadini del
nostro mondo a tutti gli effetti, e nei prossimi giorni si annunciavano
già viaggi in tutto il mondo, per incontrare i Fan e
soprattutto per decidere il paese dove avrebbero voluto vivere.
Già, i soldi raccolti con le mostre e le manifestazioni
pubbliche dei prossimi mesi, verranno suddivisi equamente tra i
personaggi, in modo da dar loro la possibilità di farsi una
vita, comprare casa, e vivere normalmente a contatto con noi.
Le notizie erano
fantastiche, c’era anche qualche tappa italiana! Quindi avrei
potuto incontrarli sul serio!
Era veramente un sogno
che si realizzava… Finalmente, dopo tanto dolore arrivava
anche una piccola gioia.
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Eccomi qui con la seconda
parte del capitolo! ^_^ colgo l'occasione per ringraziare di cuore
tutti i recensori, non avete idea di quanto mi abbia fatto piacere
leggere i vostri commenti, e vedere che la storia vi piaceva!
Come avrete notato,
le domande dei capitoli scorsi non erano propriamente a caso! xD Ho
voluto farvi un piccolo regalo, anche se ammetto che molti li avevo
già inseriti di mia spontanea volontà! ^_^
come ho scritto ad
alcune di voi, io ODIO Akainu e Barbanera, e mi pare evidente dal
capitolo! u.u
Niente, vi lascio,
spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi pongo un'altra domanda:
Quali sono le
vostre scenette comiche preferite di One Piece, quelle che vi hanno
fatto più ridere?? (tipo "sembro Chopper?" xD)
Baci!
Immagini
e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di
lucro
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Capitolo 4 *** 3. Conto alla rovescia! ***
c1
Passai le settimane
successive
perennemente all’erta, pronta a captare anche solo un minimo
accenno ad Ace, ma sembrava essere svanito nel nulla. Intanto
avevano ritrovato Akainu, si era nascosto in un’isoletta non
distante dal Giappone, era stato inserito immediatamente nella lista
dei soggetti pericolosi ed imprigionato nel nuovo centro di detenzione
speciale, costruito sulla base di una vecchia piattaforma per
l’estrazione del petrolio.
Una gigantesca
struttura
interamente rivestita di agalmatolite, circondata dal mare, con quattro
celle separate da un muro spesso un metro, rinforzato
anch’esso
con il potente minerale in grado di annullare i poteri dei frutti del
diavolo. Pur essendo all’apparenza inespugnabile, visto e
considerato quello che era accaduto ad Impel Down, il governo
nipponico, appoggiato dalle grandi potenze come gli Stati Uniti e la
Russia, aveva deciso di condannare a morte i quattro prigionieri, per
evitare che venissero impiegati da chiunque come arma o che tornassero
a piede libero. Sono fondamentalmente contraria alla pena di morte, ma
stavolta… l’unico condannato per cui provo
compassione
è Crocodile, dopotutto non l’ho mai considerato un
cattivo
esageratamente crudele, ad Alabasta sicuramente si, ma Croco-Boy a
Marineford mi era piaciuto moltissimo!
Verso Ener restavo
indifferente,
sicuramente è un individuo pericoloso, ma con le tecnologie
moderne dubito che sarebbe una grande minaccia; mi preoccuperei di
più di placare il suo immenso ego. Per quanto riguarda
Barbanera
e Akainu invece, non posso essere più contenta. Avranno
quello
che si meritano, anzi, forse fanno persino un affare a morire
così! Se li lasciassero in mano ai fan non oso immaginare
cosa
potrebbe succedergli. Anzi, qualcosa immagino, e sono veramente
dispiaciuta che la loro fine sia così semplice. A volte mi
sento
una sadica con manie omicide, ma dannazione, erano due grandissimi
pezzi di materia organica decomposta e puzzolente! Simpatici come
zecche, cimici e pidocchi. Utili al mondo quanto le zanzare e il
gessetto bianco nelle confezioni di matite colorate! Sul serio, mi sono
sempre chiesta a cosa cavolo servisse un pastello bianco!? E poi quella
lurida faccia da cubo di Akainu l’avrei spiaccicata con le
mie
mani! L’avrei resa ellittica! Non era stata ancora resa nota
la
vera data del disastro nucleare, ma una prigione non si costruiva
dall’oggi al domani, e tantomeno tutti gli studi svolti sul
fenomeno, chissà da quanti mesi andava avanti questa
farsa…
Sbuffando cercai di
trovare un
contegno, e tornai al computer per spulciare le ultime news. I governi
mondiali si erano calmati e pur essendo ancora molto indisposti verso
il Giappone, avevano deciso di chiudere un occhio, soprattutto grazie
alla reazione dell’opinione pubblica, entusiasta di questo
fatto.
Erano usciti parecchi
chiarimenti
riguardo l’incidente. Pareva infatti che quel mucchio di
fogli,
rimasto nella città natale dell’autore,
raccogliesse
schizzi, appunti e schede dei personaggi; non pagine complete del
manga; ecco spiegato il vasto assortimento di personaggi. Per quanto
riguarda le radiazioni invece gli studiosi brancolavano ancora nel
buio, incapaci di spiegare cosa abbiano innescato, e soprattutto
perché solo stavolta e solo in quel luogo! Con tutte le
esplosioni e disastri nucleari, possibile che mai un foglio disegnato
fosse stato colpito da radiazioni? La faccenda resta avvolta nel
mistero. Riguardo i viaggi promozionali dei personaggi invece, erano
stati definiti i luoghi e le date delle apparizioni. Avrebbero girato
tutto il mondo in un anno, tutti insieme, e poi avrebbero deciso la
città in cui stanziarsi. Sarebbero venuti in Italia tra due
settimane, partendo dal sud e salendo fino all’estremo nord,
per
poi continuare verso l’Europa. In totale sarebbero restati
sul
territorio italiano otto giorni.
Il sesto giorno
sarebbero arrivati
in Lombardia, dove era stata predisposta una dimostrazione dei poteri
dei frutti sul lago di Como, era la mia unica occasione, non potevo
mancare! Avrei visto volare la fenice, le lucciole di fuoco, il
ghiaccio di Aokiji, forse avrebbero dato anche un piccolo assaggio dei
poteri di Barbabianca! E poi tutta la ciurma di Rufy, forse Brook
avrebbe suonato la canzone di Binks! Non stavo più nella
pelle!
Ormai l’estate bussava ostinatamente alle porte, scacciando
la
primavera. Il sole era sempre più caldo, e la pioggia sempre
più rara. Mancavano due settimane, solamente due settimane,
due
lunghissime settimane. Chissà perché, quando si
aspetta
la data di un esame, i giorni volano; mentre quando si aspetta con
trepidazione un lieto evento, le lancette dell’orologio
sembrano
sempre ferme!?
Mi ero già
organizzata con
la mia migliore amica, che a suo dire, non vedeva l’ora di
farsi
operare da Trafalgar Law. Erano tre giorni che mi mandava un messaggio
alle nove in punto, con il conto alla rovescia dei giorni, seguito da
un commento poco signorile sul suo dottore preferito. Era assurda, se
qualcuno avesse letto i messaggi del mio telefono,
l’avrebbero
rinchiusa sicuramente per molestie.
Come a conferma dei
miei pensieri,
il telefono vibrò, alle nove e cinque minuti, annunciando
l’ennesimo messaggio della mia folle amica.
Aprii e lessi, non
riuscendo a trattenere una risata, che mi fa guadagnare
un’occhiataccia dal gatto.
“-14
Giorni! Oddio Sely, ti prego sto male! Portami dal dottore! Voglio una
visita ginecologica! Approfondita però, non vorrei che per
la
fretta tralasci qualcosa!!! Ti prego Traffy,
visitamiiiiiii!!!”
Santi numi, fortuna
che
conoscendola da dieci anni non mi stupivo più di nulla!
Sapevo
che scherzava, se si fosse veramente trovata davanti Law, sarebbe
arrossita come un peperone, scappando per l’imbarazzo! Ma tra
di
noi c’era una confidenza unica, ci dicevamo tutto, una volta
quell’idiota mi aveva telefonato per dirmi che finalmente
dopo
tre giorni aveva fatto la cacca! Certo, anche io non ero da meno,
mediamente rispondevo a tutte le sue provocazioni con altrettanta
disinvoltura! Sia che fossimo da sole o in compagnia, non cambiava il
nostro modo di comportarci, eravamo perennemente a rischio di fare
figuracce, di finire in situazioni imbarazzanti o di esporre una
battutaccia oscena nel classico momento di silenzio totale.
Iniziai a digitare
rapida sul mio
cellulare preistorico, un caro vecchio Nokia che mi rifiuto di
sostituire con quei cosi touch, con i quali sono una completa
incapace, la mia risposta infuocata alle richieste di cure.
“Ele,
resisti, che tra due settimane ti ci porto dal dottore! Tu piuttosto
preoccupati per me! Devi andarmi a comprare la crema anti scottature,
perché già ho i bollenti spiriti, se poi vado a
giocare
con il fuoco…. :P e ti prego, non chiamarlo Traffy,
è
osceno come soprannome! xD”
I giorni non
passavano, provavo a
fare di tutto, ma le ore erano lentissime, niente riusciva a far
passare più velocemente il tempo, solo le uscite con Elena
acceleravano leggermente le giornate!
Avevamo deciso, per
avere un
colorito che non ricordasse la mozzarella, di tentare
d’abbronzarci. Tentativo che ci ha portato solo ad un bel
color
corallo, seguito da una muta totale della pelle. Fortunatamente gli
effetti del nostro pomeriggio al sole passarono in fretta, non
lasciando segni.
Quando mancavano solo
due giorni al
grande evento, ormai seguivamo tutti i programmi in cui si parlava del
viaggio dei personaggi, ci sembrava di essere ritornate delle ragazzine
fuori di testa, con l’ennesima cotta folle per il divo di
turno!
Proprio durante la visione di un servizio, dove mostravano
l’arrivo a Firenze dei nostri adorati, Elena mi pose la
domanda
“X”, quella che terrorizza ogni ragazza prima di un
evento
speciale:
«Selene, ma
tu cosa metterai quel giorno?» mi chiese d’un
tratto.
«Oddio, non
ne ho la più pallida idea! Tu?» le chiesi a mia
volta.
«Ma secondo
te perché
l’ho chiesto? Per sport? Non so nemmeno io cosa mettermi!!!
Posso
frugare nel tuo armadio? Ovviamente la cosa è reciproca, con
due
guardaroba a disposizione, la scelta è più ampia,
no?» finì la frase con un tono che sembrava quasi
una
supplica, il tutto condito con i suoi occhioni celesti che mi
guardavano con la classica espressione da “ti prego, ti
prego, ti
prego!”.
Come dire di no ad una
proposta tanto ben architettata?
«Per me va
bene, iniziamo
subito? Così almeno abbiamo tempo per decidere e facciamo
passare questo maledetto pomeriggio!» proposi, e visto che ci
trovavamo in casa mia, l’ispezione iniziò dal mio
armadio.
La prima selezione fu
la più
facile, io presi i vestiti che preferivo, lei fece lo stesso. Mettemmo
tutto in due borsone per la spesa, e ci dirigemmo verso casa sua. Meno
male che le nostre abitazioni distavano trecento metri l’una
dall’altra, altrimenti portare tutta quella roba sarebbe
stato un
problema.
Il suo povero armadio
subì
lo stesso trattamento del mio, e sui tre letti della sua camera,
piovvero vestiti, magliette, camicie, calzoncini, Jeans, abitini,
gonne, calze, scarpe, sandali, bigiotteria di ogni tipo. Rimettere in
ordine quel caos ci avrebbe portato via tutta la serata, poco ma
sicuro!
Mentre fissavamo, in
preda alla disperazione, il mucchio di vestiti, entrò in
camera la madre di Elena.
«Oddio! E
qui cosa è
successo? Ma siete impazzite? Avete vent’anni e state ancora
in
questo stato per dei cartoni animati? Poveri noi! Comunque un consiglio
da mamma? Ci saranno tantissime reti televisive, non vestitevi da
troie! Io sono in salotto se vi serve qualcosa! Ciao
ragazze!»
Disse tutto d’un fiato, uscendo poi dalla stanza, chiudendo
la
porta alle sue spalle.
Mi scappò
un risolino quando
incrociai lo sguardo sgomento della mia amica. Le nostre madri erano
maledettamente simili, e questo l’abbiamo sempre attribuito
al
fatto che fossero nate nello stesso anno. Sembrerà una
teoria
folle, ma abbiamo sempre pensato che la nostra amicizia fosse stata
decisa dal destino! Le nostre madri erano coscritte, andavano a scuola
insieme, noi due avevamo i nomi perfetti per essere amiche, Elena
infatti significa “splendente come il sole”, mentre
Selene
vuol dire “luna”, se questa non è una
coincidenza
strana!
Spostai il mio sguardo
nuovamente sui letti.
«Allora,
usiamo il metodo ad
esclusione!» dissi convinta, sperando di riuscire a sfoltire
la
quantità di abiti tra cui scegliere. Quando vidi Elena
annuire
iniziai il mio ragionamento ad alta voce:
«Punto
primo,
comodità! Quindi niente tacchi, gonne, vestitini o top che
devi
sistemare ogni due secondi! E con questo risolviamo anche il problema
esposto chiaramente da tua mamma di evitare sconciaggini! Punto
secondo, vestiti a prova di caldo, quindi niente colori che facciano
risaltare eventuali macchie di sudore, no alle maniche lunghe,
assolutamente vietati i pantaloni o i jeans lunghi e forse sarebbe
meglio eliminare anche le scarpe chiuse, escluse quelle da ginnastica
ovviamente! Che ne dici?».
«Dico che tu
inizi da quel
letto, io da quell’altro e rimettiamo nell’armadio
e nelle
borse quello che scartiamo!» Mi rispose Elena, con un tono da
combattente, manco stesse per affrontare una battaglia epica con gli
agglomerati di tessuto sul letto.
Dopo la seconda
selezione la scelta
fu anche abbastanza facile da prendere, ed entrambe ottenemmo un look
comodo, carino, anti-caldo e a prova di mamma! Perfetto no?
Sistemata la camera ci
sdraiammo
sul letto stremate. Avevamo sollevato e spostato di tutto e di
più per l’intero pomeriggio, però
almeno erano
già le otto, il tempo era volato! Nel silenzio della camera
si
sentivano solo i nostri respiri, ma dopo così tanto tempo
che
conosci una persona, sei quasi in grado di sentire i suoi pensieri.
«Dimmi, a
cosa stai pensando?
Ti vedo preoccupata…» dissi voltandomi verso di
lei, che
girò la testa per guardarmi sorridendo.
«Sono
felice, non vedo
l’ora che arrivi posdomani, ma ho anche paura che poi
finirà tutto. Si, li vedremo, però poi? Lo so che
è stupido, però sono anche triste che si stia
avvicinando
il nostro incontro, perché mi mancherà sentire il
mio
cuore perennemente su di giri! Capisci che intendo?» la
capivo
eccome, avevo anche io lo stesso timore. Annuii, ma non risposi altro.
Era normale pensare al
dopo, ed
effettivamente con tutto il trambusto di quelle settimane, non mi
ricordavo quasi più com’era la mia vita prima di
questo
evento; come passavo i pomeriggi? Come trascorrevo il tempo? Sarebbe
tornato tutto come prima, monotono e senza troppi eventi sensazionali.
Mi sarebbe mancata questa sensazione di felicità e
libertà? Si, tantissimo…
I nostri pensieri
furono interrotti
dall’ordine della mia seconda mamma di apparecchiare la
tavola.
È già, ormai la chiamavo "mamma due",
così come
Elena chiamava “mamma adottiva” la mia. Siamo come
sorelle,
sicuramente poi nella nostra vita ci eravamo scambiate anche un
bicchiere di liquore, quindi potevamo definirci tali a tutti gli
effetti! Sorrisi a quel pensiero, mentre andavo ad aiutare in cucina.
Dopo cena tornai a
casa con le
borse di vestiti, e con la promessa di vederci l’indomani
pomeriggio per gli ultimi preparativi. Avevamo deciso di dormire
entrambe a casa mia, visto che guidavo io e dovevamo partire presto,
era meglio non perdere tempo con chiamate e campanelli vari. La
dimostrazione dei poteri dei frutti era fissata per le 14:30, ma tra
viaggio e vari imprevisti avevamo deciso di partire per le sette di
mattina. Calcolando la quantità di fan che si sarebbero
presentati, era meglio tentare di arrivare il prima possibile,
parcheggiare in un posto sicuro ed accaparrarsi una postazione decente!
Il giorno dopo
passò
altrettanto in fretta, forse anche di più, tra il preparare
il
pranzo al sacco, la macchina fotografica e controllare per
l’ennesima volta la strada su Google Maps, le ore volarono;
Ma la
notte fu infinita! Nessuna delle due parlava, i movimenti erano ridotti
al minimo, anche se avremmo voluto metterci a saltare sul letto,
perché al minimo rumore cane e gatto si sarebbero svegliati,
il
che comportava svegliare anche mia mamma, e sarebbe stata una mossa
poco intelligente, visto che fino a prova contraria, l’auto
che
avremmo usato era la sua. Provai di tutto per addormentarmi, dalle
fantasie sull’indomani, alle pecore. Arrivata alla duecento
ventiquattresima pecora però mandai al diavolo loro, la
staccionata e l’idiota che aveva inventato quel metodo per
dormire.
Ogni cinque minuti
partiva uno
sbadiglio, un osso veniva fatto scrocchiare, il cuscino sprimacciato,
il lenzuolo tolto, rimesso e tolto di nuovo. Una notte infernale,
fortunatamente la sveglia era impostata all’alba, altrimenti
non
avrei resistito in quel letto! Mi sembrava di impazzire, sforzandomi di
stare il più ferma possibile. Esasperata presi
l’Ipod dal
comodino e lo accesi, porgendo una cuffia alla mia amica, che
l’afferrò subito, confermando la mia ipotesi sulla
sua
insonnia. Fortuna che esisteva la musica, almeno anche se non
dormivamo, potevamo distrarci con qualcosa! Sole, quanto ci metti per
spuntare da quella maledetta montagna?
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Eccomi
in leggero anticipo, perchè se rileggevo ancora una volta
questo
coso lo cancellavo del tutto, è il classico "capitolo no!" xD
Comunque ringrazio tre
88 per avermi
concesso l'utilizzo della sua espressione "faccia da cubo"! xD
detto ciò, le vostre scene preferite mi hanno fatto morire
dal
ridere!!! ne avete nominate alcune che avevo scordato! xD la mia
preferita in assoluto è QUESTA
:
la trasformazione di Kaku in giraffa, quando Jabura lo prende in giro,
l'avrò rivista mille volte, ed ogni volta mi venivano le
lacrime
a forza di ridere! xD (quando muove le orecchie non riesco a
trattenermi!) giuro, quando gli dice "non sottovalutare la
forza
distruttiva della giraffa" non ce la faccio prorpio a trattenermi! xD
la seconda è quella di Ace, Smoker e Rufy ad alabasta
ovviamente, fantastica anche quella xD
mi sono dilungata anche troppo, grazie mille a tutti quelli che
leggono! la domanda di oggi è... qual'è il vostro
frutto del diavolo preferito? ^_^
ciao ciao!
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e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di
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Capitolo 5 *** 4. Pronti, partenza, via! ***
c1
Finalmente
le prime luci iniziavano a rischiarare il cielo, mancavano tre minuti
al suono della sveglia, soltanto tre minuti. Ci aspettava un viaggio di
due ore come minimo, una rissa per il parcheggio ed un’altra
per
il posto vicino al lago, e dovevamo affrontare il tutto con
un’ora, forse due, di sonno leggero. Ottimo direi!
Il cellulare iniziò allegro a suonare, come sveglia e
suoneria
avevo impostato il suono del lumacofono, seguito poi dalla musica usata
nell’anime prima di un combattimento, avete presente quella
che
fa da sottofondo alla camminata stupenda di Sanji, Zoro, Rufy e Chopper
davanti alla Franky House? Ecco, quella! Mi carica tantissimo la
mattina, di solito la lascio suonare perché mi piace, ma non
oggi!
Scattammo in piedi entrambe, anche Elena probabilmente stava aspettando
in grazia quel permesso sonoro di alzarsi. Erano le sei meno un quarto,
e casa mia entrò in un clima di puro delirio. Elena
andò
nel bagno al piano di sopra per farsi la doccia, io la feci al piano di
sotto. Trenta minuti dopo eravamo pronte, asciugate, vestite e
più sveglie che mai. Avevamo ancora quarantacinque minuti
per
sistemare gli ultimi dettagli, anzi, quaranta! Mi ero dimenticata di
fare benzina, quindi bisognava partire un attimo prima per stare nei
tempi. Ci sedemmo a tavola a fare colazione; uno yogurt, cereali, una
tazza di caffè ed eravamo a posto. L’allegria e
l’agitazione si potevano quasi toccare, ed avevano contagiato
il
cane, che non capendo cosa stesse succedendo, era agitatissimo! Il
gatto invece ci guardava schifato, come al solito, dal divano.
Dopo aver sparecchiato andammo a lavarci i denti, e poi in camera a
stendere un velo di trucco per coprire le occhiaie. Sarebbe stata una
giornata lunga e afosa, quindi niente matita nera, poco correttore,
giusto per coprire i segnacci viola che avevamo sotto gli occhi, ed un
leggero ombretto chiaro. L’unico tocco nero era il mascara
resistente all’acqua. Intanto che Elena finiva di mettersi le
scarpe, mi guardai allo specchio. Ero carina vestita così.
Avevo
un paio di sandali di cuoio, senza tacco, un paio di shorts di jeans
dall’armadio della mia compare, ed una splendida maglietta di
seta, unica nel suo genere, visto che era stata creata da un mio
disegno dalla mia cara mammina. Infatti era una sarta, e quando
riusciva mi faceva sempre qualche capo d’abbigliamento
personalizzato.
Quella maglia era splendida, con un leggero scollo sul davanti, che
però continuava sulla schiena, scoprendola quasi totalmente.
Sulle maniche e sul bordo inferiore c’era una fascia elastica
nera, che andava a creare il mio amato effetto palloncino. La seta poi
era fresca, con una stampa fantastica sui toni del marrone. Era
leggermente trasparente, ma il problema si risolveva mettendo un
reggiseno marrone decorato. Soddisfatta mi girai e guardai Elena, che
con una mia maglietta rossa con il disegno di una ranocchia, un paio di
calzoncini bianchi e le mie amate converse di One Piece, stava
benissimo, ma se mi avesse sporcato quelle scarpe, l’avrei
uccisa. Erano un paio di logore All Star rosa chiaro, che
però
erano state candeggiate e ridipinte dalla sottoscritta. Ci ero
affezionatissima, ed Elena aveva dovuto implorarmi in turco prima di
ottenere il permesso di metterle.
Avevamo rispettato i nostri obbiettivi: eravamo comode, carine, non
volgari e non avremmo sofferto il caldo.
Portammo in macchina lo zaino con il pranzo e la merenda, per poi
tornare a salutare mia madre, che probabilmente ci stava odiando per
averla svegliata così presto.
«Ciao mamma, ci vediamo stasera!» le dico dandole
un bacio sulla guancia, seguita da Elena.
«Si, Selene, stai attenta in strada mi raccomando! Ricordati
che
ti ho messo il Telepass, quindi non dovresti avere problemi di code al
casello. Rallenta molto quando ci arrivi vicino, altrimenti non si
apre! Andate piano, non date troppa confidenza a nessuno, e state
attente! Mi raccomando!» rispose mia madre, perennemente
preoccupata. Le sorridemmo, rassicurandola, ed uscimmo di casa.
Salite in macchina iniziammo l’inventario.
«Allora Sely, patente?»
«Presa!»
«Zaino con pranzo?»
«Preso!»
«Macchina fotografica?»
«Presa!»
«Navigatore?»
«È nel cruscotto! Abbiamo tutto?»
«Pare di si!» rispose Elena trafficando con il
navigatore.
Lo inserì nella macchina, e mentre io fissavo la ventosa al
vetro iniziò ad impostarlo.
«Ok fatto! Lecco giusto? Al porto!» mi chiese prima
di confermare!
Il “Guidi con prudenza!” del navigatore
sancì
l’inizio del nostro viaggio! Eravamo in perfetto orario,
anzi,
quasi in anticipo! Mi immisi sulla strada dopo aver sistemato una
ciocca ribelle, ed intanto che il navigatore tentava di localizzare il
segnale, mi fermai a fare benzina. Per sicurezza era meglio fare il
pieno, anche se vedendo l’importo avrei voluto piangere.
Mentre la radio riempiva l’abitacolo di note, la tensione
iniziava a sciogliersi. Eravamo partite, finalmente, verso il nostro
sogno!
Dopo un’ora di viaggio, quindi a metà strada
circa, Elena
tirò fuori dalla borsa un CD, e tutta sorridente lo
inserì nell’auto. Già la prima canzone
mi fece
sorridere!
«Non ci credo, hai fatto un CD su ONE PIECE?» le
dissi
ridendo, intanto che la sigla della saga di Marineford veniva
riprodotta!
Elena sorridendo annuì «Non solo le sigle, ma
anche quella
del liquore di Binks! Così possiamo cantarla! E poi ci ho
messo
altre sigle dei cartoni da cantare durante il viaggio! Hai
voglia?» sembrava una bambina, tutta orgogliosa del suo
lavoro, e
faceva bene ad esserlo! Era stata un’idea fantastica!
«Eccome se mi va!!! Su il volume!!!» dissi, girando
la
manovella. La macchina iniziò così a pulsare di
musica e
felicità!
Quando arrivammo a Lecco, destino volle che iniziasse proprio la
famigerata canzone di Binks! Io ed Elena la cantammo a squarcia gola,
ondeggiando e gesticolando come matte. Eravamo stonate oltre ogni dire,
ma ci divertivamo proprio per questo!
Finita la canzone abbassai totalmente il volume e mi fermai a chiedere
indicazioni, è sempre meglio chiedere ai locali dove
parcheggiare e le scorciatoie, Google ed il navigatore non sanno tutto!
Una gentile signora, con una figlia nel nostro stesso stato mentale a
suo dire, ci fece arrivare ad un parcheggio enorme, quasi del tutto
pieno, non troppo distante dal lago. Parcheggiai, e scendemmo
dall’auto. Prendemmo lo zaino e ci avviammo verso il porto.
Inutile dire che c’erano persone ovunque, sembrava di essere
allo
stadio, non avremmo mai trovato un buco da dove vedere lo spettacolo in
quel trambusto! E per fortuna che eravamo partite presto, se avessimo
ascoltato le idee malsane delle nostre madri di partire dopo pranzo,
non avremmo mai trovato nemmeno parcheggio.
Camminammo per una buona mezzora, c’era gente arrivata con
treni,
pullman, persino alcuni che avevano preso l’aereo per
assistere a
questo spettacolo. Immaginavo che ci fosse stato il pienone, ma non
così! Dovevamo sbrigarci a trovare un posto di osservazione,
altrimenti sarebbe arrivata sempre più gente.
Sul molo 1 erano posizionate delle seggioline, ed era tutto circondato
da corde rosse. Probabilmente erano i posti riservati a qualche
autorità, maledizione.
Quando intravidi un posto a qualche metro di distanza, afferrai la mano
di Elena ed inizia a zigzagare tra la folla chiedendo scusa in
continuazione per gli spintoni.
Quando arrivai ad un molo totalmente libero ci rimasi malissimo, era
stato chiuso perché il legno non era sicuro. In effetti non
avrebbe mai retto il peso di tutta quella gente, era un vecchio pontile
di legno marcio, ma di due persone... mi guardai intorno, nessuno
sembrava far caso a noi. Il lago era molto basso in quel periodo,
perché pioveva molto poco, se fossimo riuscite ad arrivare
alle
scalette senza farci notare, avremmo avuto una visuale discreta, e
soprattutto non affollata.
Ripresi il braccio della mia amica, che mi guardava perplessa, e la
trascinai sotto la catena di divieto, dicendole di correre.
Il molo sembrava infinito, ed i nostri passi somigliavano a quelli di
un tirannosauro per le nostre orecchie. Mi pareva di essere a casa mia,
a notte fonda, e dover andare in bagno senza svegliare nessuno. In quei
momenti persino il tuo cuore fa troppo rumore! Quando finalmente
raggiungemmo le scalette, ci nascondemmo sul gradino più
basso,
e con il fiatone ci guardammo attorno circospette. Nessuno ci aveva
notate per fortuna! Sistemammo le nostre cose ed iniziammo ad
aspettare, mancavano parecchie ore all’inizio, ma non ci
saremmo
mosse di li per niente al mondo! Inoltre c’era una barca a
vela
ormeggiata li di fianco, che ci teneva nascoste dalla folla. Era il
posto perfetto!
Iniziammo a giocare a carte per far passare il tempo, ho perso il conto
delle partite fatte. A mezzogiorno e mezzo iniziammo a mangiare,
ringraziando l’inventore delle borse-frigo. Il caldo era
soffocante, fortunatamente eravamo davvero ben organizzate, quindi non
ci diede troppi problemi. Però la folla di gente nel porto
continuava ad aumentare, e non volevo nemmeno immaginare quanto caldo
potesse fare in quel groviglio di corpi, tutti accalcati! Sicuramente
qualcuno sarebbe finito in acqua durante lo spettacolo, con gli
spintoni che si davano!
Possibile che non avessero predisposto dei parapetto? O comunque delle
transenne, c’era veramente il pericolo di cadere nel lago!
Alle due e mezza la zona era stata transennata, probabilmente dopo che
qualcuno aveva fatto notare il pericolo, la polizia era ovunque, e le
sedie del molo uno erano tutte occupate! Il caldo sembrava aumentare
sempre di più, alimentato dal sole che brillava nel cielo,
riflettendosi sul piatto specchio d’acqua. Era una giornata
fantastica per andare al lago in effetti, forse avremmo dovuto
indossare un costume. Lo spettacolo sarebbe iniziato a
momenti…
Ormai non mancava molto, me lo sentivo, persino l’aria era
carica
di eccitazione ed entusiasmo. Io ed Elena ormai avevamo una paresi alla
faccia a forza di sorridere per tutto, ogni accenno a quello che stava
per accadere provocava uno scoppio di ilarità. Oppure era
isterismo? In ogni caso, se il fenomeno fosse andato avanti, mi sarei
auto ricoverata in psichiatria.
Proprio mentre facevo questi pensieri, capii che lo spettacolo era
appena iniziato; come feci? Semplice, la folla del porto
iniziò
ad urlare a squarcia gola.
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Eccoci
qui ^_^ il tanto agognato incontro è alle porte ormai! Ho
deciso
di aggiornare ogni 3 giorni, salvo imprevisti dovrei riuscire a tenere
il ritmo fino alla fine della storia! poi volevo ringraziarvi,
veramente non ho parole, sono felicissima, e so che non faccio che
ripeterlo, ma sono veramente entusiasta che questa storia, nata
per caso, sia piaciuta così tanto! 12 recensioni?
non ne
ho mai avute così tante!! grazie infinite a tutti/e!
ora, vi lascio il link delle scarpe di One piece a cui mi riferisco,
che sono veramente le mie, le ho finite qualche giorno fa, che ne
pensate? le trovate QUI
e QUI!
bene, il mio frutto
preferito è
sicuramente quello di Marco, poter volare ed essere sempre in slaute
è fantastico! ma il frutto che vorrei veramente?
è quello
di Wapol! mangia quello che vuole, e poi dimagrisce in maniera
istantanea, il sogno di ongi donna! xD
bene, ora vi lascio, ringraziandovi ancora di seguire questa FF, fatemi
sapere cosa ne pensate del capitolo, e... preferite l'anime o il manga?
baci baci!
Immagini
e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di
lucro
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Capitolo 6 *** 5. Uno spettacolo indimenticabile ***
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Quando
l’acqua del lago iniziò ad incresparsi e il molo a
tremolare, a causa delle onde, non servivano annunci o presentazioni,
sapevamo tutti che lo spettacolo era iniziato, e sapevamo anche che
l’avevano fatto iniziare con i fiocchi e i controfiocchi!
In lontananza vedemmo arrivare a tutta velocità dei
motoscafi, che trainavano una copia perfetta della mitica Going Marry!
La polena sorridente solcava le acque, seguita da un’altra
riproduzione fenomenale della Moby Dick. Sulla polena della seconda
imbarcazione, si stagliava, fiero e possente, Barbabianca.
L’emozione fu troppo forte, senza accorgermene stavo
piangendo e ridendo allo stesso tempo. Quell’uomo
mastodontico aveva la capacità di scaldarti il cuore con la
sua sola presenza. Memore poi della saga di Marineford, vederlo dal
vivo per me era uno shock. Le navi si fermarono a tre moli di distanza
da noi, vicino a quello recintato e munito di sedie. Ero totalmente
ipnotizzata da quel pirata, mi ridestai solo quando sentii la sua voce
rauca e dolce.
«Gurarara, buongiorno a tutti! Mi hanno chiesto di fare gli
onori di casa, visto che sono il più vecchio, ma non sono
bravo in queste cose! Vi ringrazio per
l’ospitalità, e godetevi, hem, lo
spettacolo… e vi chiedo in anticipo, di perdonare
l’irruenza dei miei figli!»
Era quasi impossibile, se me l’avessero raccontato non ci
avrei mai creduto, eppure Barbabianca sembrava imbarazzato mentre
parlava alla folla. A confermare le mie ipotesi ci fu la
velocità con la quale si fece da parte, per lasciare campo
libero agli altri. Non aveva la minima voglia di essere al centro
dell’attenzione, pur essendo uno dei personaggi
più attesi. Non gli avrebbero fatto usare il suo potere
ovviamente, finché si trattava di fumo e fiamme ok, ma i
terremoti erano un altro paio di maniche!
Nel frattempo, un vento gelido iniziò a soffiare sulla
superficie dell’acqua, dove cominciarono a disegnarsi
fantastici ghirigori di ghiaccio. In pochi secondi la vasta porzione di
lago ante stante al porto, venne congelata, permettendo a tutti i
personaggi di scendere dalle barche.
Scansionai l’area con lo sguardo, ma non riuscii a trovare
l’ammiraglio Aokiji, unico possibile responsabile di quanto
era appena accaduto. Considerata la sua pigrizia, non mi stupii della
sua assenza. Era già stato troppo attivo nel congelare una
piccola parte del lago.
Rufy e la sua ciurma furono i primi a mettere piede sul ghiaccio,
provocando urli e schiamazzi dalla folla.
«Yohohoho, quante belle signorine!!!»
esclamò Brook, correndo in modo improponibile verso la
terraferma. La prima cosa che fece? Andò a chiedere ad una
fanciulla della prima fila, se poteva mostrargli le mutandine,
ovviamente.
Il pubblico scoppiò in un fragoroso applauso, accompagnato
dalle risate generali. Più che uno spettacolo ben
organizzato, sembrava avessero deciso di fare un meeting con i fan, e
la cosa mi andava benissimo! Organizzare quel gruppo di scalmanati
sarebbe stato impossibile, inutile e soprattutto incoerente. Alla fine
erano quasi tutti pirati o personalità importanti e marcate,
chi avrebbe potuto organizzare qualcosa di predefinito con loro? Solo
un pazzo ci avrebbe anche solo tentato!
Mentre Brook e Sanji correvano dietro a tutte le gonnelle presenti
nelle prime file, il resto della ciurma avanzava lentamente. Nami era
splendida, sicuramente tutti i ragazzi del posto stavano sbavando a
più non posso, di fronte a quelle curve, rese ancora
più irresistibili dall’ancheggiare della rossa.
Per non parlare poi di Nico Robin, la quale non era da meno. Rufy non
la smetteva un secondo di saltellare a destra e a sinistra, ridendo e
salutando tutti, mentre Chopper sembrava impaurito dalla
quantità di persone, e se ne restava nascosto dietro a quel
gran bel pezzo di ragazzo dai capelli verdi. Zoro era stato sicuramente
il mio primo amore di ONE PIECE, non c’è ragazza
che non abbia fantasticato almeno una volta sul muscoloso spadaccino,
che però non smentiva il suo carattere, rimanendo
impassibile di fronte agli schiamazzi della folla. Usopp si era
travestito da Sogeking e camminava fiero accanto a Franky, che
perennemente in mutande e camicia Hawaiana, si era messo nella sua posa
preferita, gridando “SUPER!”. Mi facevano male le
mani a forza di applaudire, per non parlare del mal di guance che avrei
avuto l’indomani per il continuo sorriso che mi nasceva
spontaneo sul viso.
Non sapevo più da che parte guardare, non volevo perdermi
nemmeno un dettaglio di quell’esperienza unica, ma sarei
impazzita se avessero continuato a comportarsi così.
Pochi attimi più tardi, comparvero anche Shanks ed alcuni
dei suoi uomini più fidati, tra i quali riconobbi soltanto
il padre di Usopp, il tizio panciuto con il cosciotto in mano e Ben
Beckman, degli altri ignoravo il ruolo. A fianco
dell’imperatore, camminava l’altro spadaccino super
sexy, Drakul Mihawk, con la sua inconfondibile spada
dall’elsa a forma di croce. Quando alzò lo sguardo
per scrutare la folla, i suoi occhi attirarono l’attenzione
di tutti; anche da quella distanza era impossibile non notare la loro
particolare colorazione e forma. Il soprannome “occhi di
falco” era più che meritato. Fu proprio lui il
primo a guardare nella nostra direzione; quando il suo sguardo si
posò su di me, un brivido freddo mi percorse la schiena. Era
bellissimo, ma aveva la bellezza del leone: maestoso, fiero e
letale.
Ripresi a respirare quando spostò i suoi occhi
d’ambra su qualcos’altro, faceva paura,
però era maledettamente attraente!
Sospirai e ricominciai ad osservare la scena, mentre Elena mi
stritolava una mano per l’emozione. Usopp e Franky avevano
iniziato a lanciare in cielo fuochi d’artificio di mille
colori, facevano più rumore che altro, però erano
fantastici! Chopper invece, trascinato vicino al pubblico da Zoro,
stava gongolando immerso nella dolcezza dello zucchero filato,
regalatogli dalle fan, addolcito ulteriormente dagli infiniti
complimenti che gli facevano. Era uno spettacolo vedere un procion..
hem.. una renna, arrossire e ringraziare!
Cuoco e spadaccino, intanto, stavano dando sfoggio del loro legame
fraterno, tentando di staccarsi la testa a vicenda. I movimenti erano
velocissimi, alternati da svariati insulti!
«Cosa vuoi, stupido marimo! Ti cucino con
l’insalata!»
«Ma cosa vuoi cucinare tu? Cuoco da strapazzo! Ti faccio a
fette!»
Rufy stava allungando le sue braccia, per afferrare le ciambelle di un
chiosco non lontano dal porto, sgridato da un’inviperita
Nami! Robin, per far vedere i suoi poteri, salutava tutti con sei
braccia. Abbastanza inquietante come cosa, ma era il bello del suo
personaggio, quell’aria di mistero che aleggiava attorno a
lei la rendeva unica. Da un’altra barca scesero Smoker, con i
suoi sigari in bocca e la sua fidata Tashigi alle spalle, Kobi, Garp,
Iceburg, Paulie, Kokoro e la sua nipotina Chimney, che teneva stretto
quel suo gatto/coniglio/cane blu. Il fumoso aveva stampata in volto la
sua espressione preferita, corrucciata all’inverosimile,
mentre gli altri sembravano contenti della scena che si trovavano
davanti. Iceburg chiacchierava con la vecchia sirena, mentre Paulie
inveiva contro tutte le ragazze, dicendo loro che erano sconce e
dovevano coprirsi; comportamento che lo portò ad essere
coinvolto nella lite tra Sanji e Zoro.
Intanto Garp e Kobi ridevano, mangiando biscotti e probabilmente
commentando le varie scenette comiche a cui stavano assistendo.
Effettivamente il palco di ghiaccio era diventato un circo ormai, tra
lotte all’ultimo sangue, pagliacci ed animali
parlanti… non mancava nulla!
Dalle varie imbarcazioni continuavano a scendere personaggi, fu
impossibile trattenere le risate quando il “bel”
Duval fece l’occhiolino, per non parlare
dell’entrata in scena di Ivankov! Ma come diavolo faceva ad
andare in giro con un testone del genere? Era veramente fuori misura!
Mr 2 Von Clay piroettava da una parte all’altra,
salutando tutti ed osannando lo stile Okama! Ripensando
all’avventura di Sanji, non potei non ridere ancora
più forte; chissà se avevano comunicato loro come
era andata avanti la loro vita nel manga… probabilmente no,
altrimenti non sarebbero qui così serenamente…
Arrivarono anche la dottoressa Kureha, in compagnia della madre
adottiva di Rufy ed Ace, Curly Dadan; certo che quelle due erano una
bella coppia, più brutte di così non le potevano
disegnare, assieme a Kokoro erano una triade letale per gli ormoni
maschili!
Ero assorta nella contemplazione delle varie scene che mi si
presentavano davanti, quando un’ombra improvvisa
oscurò il sole, proiettandosi sul porto. Alzammo tutti gli
occhi al cielo, ma non riuscimmo a scorgere altro che un punto nero che
volteggiava. Solo quando quella macchiolina iniziò a
scendere in picchiata capii di chi si trattasse, era Pell, con i reali
di Alabasta in groppa!
Il grande volatile atterrò sul ghiaccio, attirando lo
sguardo di tutti; era enorme, con delle magnifiche penne color
nocciola. Piegando l’ala fece scendere Re Cobra, Bibi e
Igaram, che si annunciò, come al solito, schiarendosi la
voce:
«Mimimimimiiiiiiiii scusate il ritardo»
gridò, guadagnandosi l’ennesimo applauso del
pubblico. Ormai erano arrivati quasi tutti, mancavano pochi personaggi
all’appello, e due apparvero nel momento stesso in cui stavo
tentando di fare il punto della situazione.
La bellissima imperatrice pirata stava facendo il suo ingresso,
scortata dal suo fedele serpente, splendida come non mai! Era veramente
la donna più bella del mondo, faceva sfigurare tutte le dive
del cinema, emanando fascino allo stato puro. Accanto a lei, con la sua
buffa andatura, Doflamingo avanzava, con il sorriso stampato sulla
faccia e le piume rosa del giaccone che svolazzavano ribelli. Non ero
ancora riuscita ad inquadrarlo come personaggio, sembrava uno stronzo
egoista di prima categoria, che pensava solo a se stesso ed ai suoi
affari, però c’era quel qualcosa che non mi
quadrava, mi sorgeva sempre il dubbio che non fosse così
cattivo. Sbaglierò? Può darsi, Oda è
un autore imprevedibile, quindi ero pronta a vedere qualsiasi cosa
nelle sue opere! Hancock e Doflamingo non diedero spettacolo, si misero
da parte, osservando la scena.
Distratta dal balletto comico di calci, colpi di spada e corde tra
cuoco, marimo e carpentiere, rischiai di cadere sul ghiaccio per lo
spavento che mi fece prendere Elena, urlando ed arpionandosi al mio
braccio.
Mi girai di scatto e la vidi indicare un punto non ben definito, dove
era appena arrivato un piccolo motoscafo giallo, accompagnando il gesto
con versetti indecifrabili. Aguzzai la vista, per quanto mi era
concesso dalle lenti a contatto, ma riuscii solo ad intravedere due
sagome che si avvicinavano, una alta e possente, l’altra
più piccola, dalla camminata elegante. A giudicare dalla
reazione della mia amica, dovevano essere Trafalgar Law e Kidd, senza
dubbio. Solo il chirurgo della morte poteva far agitare così
quella pazza. Anche i nuovi arrivati stavano battibeccando, ignoro
quale sia stato stavolta il motivo scatenante, fatto sta che erano
entrambi arrabbiati, e ammetto che Kidd arrabbiato è
veramente spaventoso! La pelliccia del rosso ondeggiava minacciosa ad
ogni suo passo, perfettamente coordinata con il movimento dei capelli,
che non sembravano inclini a rispettare le leggi terrestri sulla
gravità. Law invece aveva un’aurea minacciosa non
dovuta alla mole o all’espressione, erano i suoi occhi
glaciali a farti rabbrividire. Lasciai Elena a fare versetti e saltelli
sul posto, incapace di articolare parole o frasi di senso compiuto, e
mi concentrai sull’orizzonte, dove speravo di veder comparire
Ace. Ero felicissima di aver visto tutti, ma era lui quello che mi
interessava! La sua morte mi aveva letteralmente sconvolta, facendomi
abbandonare totalmente ONE PIECE per parecchio tempo, e
l’idea di vederlo vivo e vegeto, mi riempiva il cuore di
gioia.
Il violino di Brook iniziò a suonare la tanto amata canzone
dei pirati, inutile dire che al coro partecipò con
entusiasmo tutto il pubblico! Persino Garp si lasciò andare
ai festeggiamenti! Io ed Elena ci abbracciammo ed ondeggiando a tempo
di musica, cantando a squarcia gola le strofe della canzone, che ormai
conoscevamo a memoria! A metà della terza strofa
però, il sole venne oscurato nuovamente; la musica
cessò, ed ebbi solo il tempo di sentire la risata soffocata
di Barbabianca ed un’imprecazione di disappunto di Law,
qualcosa del tipo “di nuovo quei due scalmanati”.
Mi si illuminò il viso quando vidi una meravigliosa fenice
planare sulla folla, generando un alito di vento che fece volare via
cappelli e scompigliò le acconciature delle ragazze. Le
fiamme turchesi e sulfuree guizzavano sul corpo dell’animale,
danzando frenetiche nel vento! La discesa di Marco mozzò il
fiato a tutti, fiato che tornò solo quando dal cielo
iniziò a precipitare una colonna di fuoco! Era lui, Ace! Il
capitano della seconda flotta di Barbabianca atterrò con
grazia sul ghiaccio, ridendo come un matto e non perdendo di vista
Marco, che intanto era tornato semi umano, mantenendo solo le ali per
poter rimanere in volo. Sicuramente i due comandanti stavano facendo
una qualche sfida, peccato che tra fuoco e fiamme, mettessero a rischio
l’incolumità di tutti.
«Finitela voi due! Siamo su una lastra di ghiaccio sospesa
sull’acqua, se la sciogliete affogheremo tutti! Razza di
idioti!» Gli urlò contro Law.
A quanto pareva non era la prima volta che facevano saltare i nervi al
dottorino. Nel frattempo Barbabianca continuava a ridere, e Brook aveva
ricominciato a suonare, ancora più allegro di prima. Marco
scese a terra, ritornando umano, e quando parlò mi si
sciolse il cuore; aveva una carica erotica assurda! Non era bello, non
aveva uno sguardo sveglio, anzi, diciamocelo, aveva proprio la faccia
da ananas lesso, però aveva un fascino incredibile! Emanava
testosterone quell’uomo! Era il classico personaggio super
affascinante, generatore di un unico pensiero nella mente femminile:
“Sesso”.
«Hai ragione Law, scusa! Sentito Ace? Datti una calmata,
altrimenti ci farai affogare tutti!».
Di tutta risposta pugno di fuoco rise, sistemandosi il cappello
arancione sulla testa, in modo da scoprire il viso, e girandosi verso
il chirurgo lo schernì con una bellissima faccia da
schiaffi:
«Va bene infermiera, non lo farò
più!»
Le lentiggini spruzzate sul viso del moro gli conferivano
un’aria sbarazzina, se abbinate poi a quel fantastico sorriso
strafottente, erano un’arma letale per il mio povero
cuoricino!
Spesso mi ero ritrovata a fantasticare su come avrebbe potuto essere
Ace in carne ed ossa, ma la realtà aveva superato di gran
lunga tutte le mie fantasie. Il viso dai lineamenti perfetti era di una
bellezza sconcertante, per non parlare degli occhi color onice, che
sembravano scintillare. Spostai lo sguardo sul fisico asciutto e tonico
del ragazzo, lasciato in bella mostra dall’assenza di vestiti
sul busto. Il vessillo dei pirati di Barbabianca ornava la schiena
muscolosa e perfetta, valorizzando l’ampiezza delle spalle e
la curva lombare.
La risposta irriverente di Ace, provocò una contrazione dei
muscoli facciali del chirurgo, generando un’espressione
ringhiosa, che lo zolfanello ignorò.
Il clima di festa era palpabile, ad eccezione dell’assente
Aokiji e del burbero Smoker, erano tutti sereni e rilassati. Hancock
guardava schifata gli uomini che dalla terraferma tentavano di attirare
la sua attenzione, con fiori e regali di ogni genere, mentre il
fenicottero si aggirava in maniera sospetta sulla piattaforma gelata,
seguito perennemente dallo sguardo di Mihawk. A quanto apre non
ispirava molta fiducia nemmeno allo spadaccino.
Quando la melodia dello scheletro canterino terminò, il
pubblico esplose in un boato di applausi ed urla di gioia. Tutti quei
fan erano, come me ed Elena, entusiasti di vedere i loro beniamini, di
poter raccontare ai propri figli un giorno “io
c’ero, li ho visti!”!
D’un tratto un uomo annunciò la fine
dell’incontro, e fu a dir poco massacrato verbalmente dal
pubblico. Per noi fan era un sogno che si realizzava averli li, a
portata di mano. Se solo avessi trovato il coraggio di correre loro
incontro, avrei potuto toccarli con mano, ma non avevo intenzione di
uccidermi correndo sul ghiaccio, ne di farmi arrestare.
Salutando il pubblico si avviarono tutti quanti verso le loro
imbarcazioni, accompagnati da urla di disperazione e dal pianto del
pubblico. Lo sconforto cancellò il sorriso dal mio volto, il
tempo era volato, ed ora il sogno stava per finire, per sempre. Non li
avremmo mai più rivisti, nessuno di loro avrebbe scelto di
trasferirsi vicino a la nostra città, nonostante i paesaggi
spettacolari eravamo pur sempre lontani dal mare, e loro erano tutti
quanti figli dell’oceano. Quando furono tutti sulle barche,
era rimasto solo un personaggio al centro della piattaforma: Ace.
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Eccomi! sono riuscita a postare
il capitolo per miracolo! spero vi sia piaicuto, è stato il
capitolo più impegnativo fino ad ora, ed infatti
è uscito più lungo del previsto =/
spero non sia risultato noioso o pesante, fatemi sapere ^_^
ringrazio ancora tutti voi che leggete questa storia, sono veramente
felicissima che vi piaccia e che continui a piacervi soprattutto!
per quanto riguarda la domanda, io amo l'anime, perchè sono
troppo pigra per leggere il manga xD però ultimamente la
sete di ONE PIECE mi ha portato a leggere i capitoli inediti, ed ho
apprezzato moltisimo anche quelli! l'unica critica enorme che posso
fare, la faccio alla versione italiana dell'anime, censurata oltre ogni
dire, e soprattutto il doppiatore di "rubber" che viene cambiato a
metà, è osceno! vabbè, ora vi lasciao
che come al solito mi sono dilungata troppo -.-"
il prossimo aggiornamento spero di postarlo giovedì
pomeriggio! ^_^
qual'è la
vostra puntata (o capitolo) preferita/o???
Baci baci, alla
prossima!!!
Immagini
e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di
lucro
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Capitolo 7 *** 6. Prontezza di riflessi e narcolessia ***
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Ace si
posizionò al centro della lastra ghiacciata, iniziando a
creare cerchi di fuoco ai suoi piedi, lambendo tutta la superficie
congelata.
«Enkai!»
gridò il moro, ed il ghiaccio iniziò a
sciogliersi, cedendo al calore delle fiamme.
Mentre i miei occhi si lasciavano trasportare dalla danza frenetica di
quelle lingue di fuoco, assottigliando il ghiaccio a poco a poco, la
mia mente mi trascinò nei ricordi di quando ero bambina,
quando per tradizione si costruiva un enorme pupazzo, con fascine,
paglia e rami secchi, vestendolo di stracci e dandogli le sembianze di
una vecchia strega, per poi dargli fuoco appena calava la notte.
Ricordo chiaramente le fiamme che divoravano la legna, rischiarando la
notte; ed il loro fascino già allora era innegabile. Non
potevo fare a meno di avvicinarmi il più possibile a quella
pira, attratta dal calore delle fiamme. Il fuoco è un
elemento che mi ha sempre affascinata, così bello e caldo,
eppure altrettanto devastante ed incontrollabile. Forse è
stata questa mia folle predisposizione alla piromania a farmi eleggere
Ace come mio personaggio preferito, chi può dirlo…
Quando la mia mente tornò al presente, vidi le fiamme
ritirarsi nel corpo di Ace, che intanto era saltato su una minuscola
imbarcazione monoposto, e le altre imbarcazioni che si allontanavano,
rimpicciolendosi man mano. Solo Marco, a bordo di una barchetta, simile
a quella di Ace, era ancora relativamente vicino. Forse, anzi
sicuramente, stava aspettando il moro, per evitare che creasse casini.
Le imbarcazioni erano praticamente identiche a quella che Ace, nel
mondo di ONE PIECE, azionava con il suo fuoco. Chissà quale
diavoleria avevano inventato per realizzarle in modo che funzionassero
anche in questo universo.
Dopo aver fatto un cenno del capo a pugno di fuoco, il comandante della
prima flotta azionò il motore ed iniziò a
dirigersi verso di noi. Probabilmente avevano deciso di fare un giro
panoramico del lago, con una giornata come quella sarebbe stato un
delitto non godere delle meraviglie del posto. Sullo specchio
d’acqua blu si rifletteva il profilo delle montagne
smeraldine e l’azzurro pallido del cielo. Era veramente la
giornata perfetta per un giro sul lago, magari avremmo potuto
approfittarne più tardi.
Anche Ace partì, raggiungendo il biondo a tutta
velocità, proprio mentre stava passando vicino al pontile
dove ci trovavamo. Erano a pochissimi metri da noi, vederli
così da vicino era un lusso che non mi sarei aspettata di
avere, andava oltre le mie più rosee aspettative. Poter
osservare il fiero marco, e lo sconsiderato pugno di fuoco, mentre
fendevano l’acqua con quelle piccole monoposto, era veramente
più di quanto potessi sperare. Ma il destino a quanto pare
non aveva ancora esaurito le sue sorprese per me.
Ace infatti si girò verso di noi, salutandoci con un rapido
cenno della testa, prima di cadere rovinosamente in acqua, ribaltando
la barchetta.
Accade tutto in pochi secondi, ma sembrarono ore; mi parve di avere
tutto il tempo del mondo per lanciare il cellulare ad Elena, sfilarmi i
sandali e buttarmi in acqua, accompagnata dalle urla di Marco, Elena e
della folla. Quando il mio corpo entrò in contatto con la
fresca acqua lacustre, mi occorse qualche secondo per trovare
l’orientamento e riuscire ad aprire gli occhi.
L’acqua era di un azzurro opaco spettrale, e la
profondità era notevole. Nuotavo più in fretta
che potevo, verso l’ombra della barca di Ace, per poi
immergermi sempre di più, alla ricerca del corpo del moro.
Gli occhi bruciavano ed anche i polmoni iniziavano a protestare per la
mancanza di ossigeno. L’aria che avevo immagazzinato non mi
sarebbe bastata ancora per molto, ma se fossi ritornata in superficie
per respirare, sarebbe stato impossibile salvarlo. Le acque di lago
erano tra le più pericolose, ricche di correnti e mulinelli
che mettevano a rischio i nuotatori più esperti, figuriamoci
i sacchi di patate che cadevano in acqua incapaci perfino di stare a
galla. Quando ormai il dolore ai polmoni era divenuto insostenibile, e
la necessità di respirare impellente, finalmente la mia mano
toccò qualcosa. Ormai incapace di tenere gli occhi aperti,
afferrai quel corpo solido, portandolo vicino al mio. Avevo afferrato
un braccio di Ace, finalmente l’avevo trovato! Iniziai a
risalire verso la superficie, ormai cieca nell’acqua, nuotavo
con tutte le mie forze per raggiungere l’aria. I polmoni si
contrassero, facendomi espellere tutta l’aria che avevo
trattenuto fino ad allora, ma riuscii a non respirare, mancava poco, me
lo sentivo, e lo speravo.
Mi ero immersa più a fondo di quanto pensassi, ed appena
raggiunsi il pelo dell’acqua i polmoni si dilatarono,
riempiendosi finalmente della tanto agognata aria. Strattonai
immediatamente il peso morto di Ace, facendo uscire
dall’acqua almeno la testa. Lentamente la vista
ritornò normale, per miracolo non avevo perso le lenti a
contatto, e riuscii a vedere il pontile, dove Elena si sbracciava per
farsi notare. Ripresi a nuotare, sforzandomi di tenere il capo del moro
fuori dall’acqua. Braccia e gambe mi bruciavano per lo
sforzo, ed anche il fiato mi stava abbandonando, ma riuscii comunque a
raggiungere quelle maledette scalette. Elena mi tendeva la mano, per
aiutarmi ad uscire, ma il metallo scivoloso era un ostacolo troppo
grande da superare con le nostre forze e ottanta chili in spalle. Marco
con un rapido balzo alato, piombò sul molo in aiuto della
mia amica, ma issare Ace, che non collaborava minimamente, era
impossibile. Se tentavo di spingerlo verso di loro, sprofondavo in
acqua, se la fenice si fosse sporta troppo, rischiava di cadere,
peggiorando ulteriormente la situazione.
Sentivo il panico iniziare a farsi strada nel mio petto, come avremmo
fatto a tirarci fuori da quel pasticcio? Ace andava rianimato
immediatamente! Non avevamo tempo da perdere!
Ad un tratto delle mani spuntarono dalle scalette, afferrarono me ed il
mio carico, e ci sollevarono, finché Marco non
riuscì a prenderci.
Finalmente ero fuori dall’acqua, e stremata mi sdraiai a
pancia in su, sul legno scaldato dal sole, ansimante. Dopo aver ripreso
fiato, mi sedetti a gambe incrociate, aiutata da Elena, che era
l’incarnazione della preoccupazione.
«Grazie al cielo stai bene! Sei rimasta sott’acqua
per un’infinità di tempo! Non azzardarti mai
più a farmi prendere uno spavento del genere! Mi hai sentita
Sely?» mi intimò la mia amica. Annuii, guardando
le barche avvicinarsi al pontile, dove Ace, sdraiato scompostamente,
russava, dopo essere stato strapazzato dalla fenice, che sicuramente
appena quell’incosciente si fosse svegliato,
l’avrebbe strangolato con le sue mani. La folla intanto era
tenuta a distanza dalle forze dell’ordine, che a fatica
difendevano il ponticciolo dall’assalto dei fan.
Quell’idiota aveva avuto uno di quei suoi stramaledetti
attacchi di narcolessia! E non si era nemmeno accorto di aver rischiato
la vita!
Sbuffai esasperata, liberandomi di tutta le tensione. Almeno stava
bene, ero riuscita a tirarlo fuori dall’acqua in tempo. Ero
fradicia, e la maglietta ormai aderiva come una seconda pelle al mio
corpo, per non parlare della trasparenza, quindi incrociai le braccia
attorno al busto, per nascondermi almeno un po’.
«Selene, ora mi dici di grazia, perché ti sei
buttata così all’improvviso? Almeno potevi urlare,
chiedere aiuto, cosa ti è saltato in mente? Non sai che
è pericoloso il lago?» mi sgridò Elena,
guardandomi dall’alto con le braccia conserte. Era
visibilmente scossa, quanto ero rimasta in quel lago per farla
spaventare così?
«Scusami, è che ho agito
d’istinto… Ho pensato che avendo ingerito i frutti
del mare, avendone poi mantenuto i poteri in questo mondo, non fossero
comunque in grado di nuotare. Le barche erano lontane,
l’unico vicino era Marco, che anche volendo non avrebbe
potuto tuffarsi per salvarlo. Gli unici nuotatori nelle vicinanze
eravamo io e te, e sinceramente tu stai a galla per miracolo in
piscina, rimanevo solo io. Non potevo lasciarlo annegare, mi dispiace
di averti spaventata, ma non c’era altra
soluzione.» le risposi, sincera e pacata.
Era la pura verità, avevo reagito d’istinto, il
mio cervello aveva elaborato tutti quei dati in meno di mezzo secondo,
facendomi scattare verso il lago; non avevo nemmeno avuto il tempo di
riflettere sulla pericolosità di quello che stavo facendo,
l’avevo dovuto fare, punto.
La mia amica mi guardò, ancora scossa, ma più
rilassata di prima, probabilmente lo spavento iniziale stava lasciando
spazio alla consapevolezza che avevo pienamente ragione.
«Ok.. Beh, almeno hai salvato il cellulare! Guardati come sei
ridotta, sembri un pulcino bagnato!» affermò
ridacchiando. Mi stava per caso prendendo in giro? Pessima mossa.
«Hai ragione» dissi rialzandomi e mettendomi di
fronte a lei, «Sono veramente fradicia, e tu… tu
sei troppo asciutta, davvero troppo asciutta…».
Sorrisi malignamente, facendole capire le mie intenzioni, ma non le
diedi tempo di scappare, mi lancia verso di lei, imprigionandola in un
abbraccio umido e scuotendo la testa a più non posso. Era un
movimento molto simile a quello del cane Beethoven, ma ottenni quello a
cui miravo, ovvero inzuppare a dovere Elena, la quale nel frattempo si
dibatteva, cercando di liberarsi dalla mia stretta. Quando la lasciai
andare ormai era tutta bagnata e spettinata, quasi quanto me.
«Maledetta strega! Questa me la paghi!» mi
sibilò, lasciandosi poi andare in uno scoppio di
ilarità. Non me l’avrebbe mai fatta pagare, sapeva
ancora prima di prendermi in giro che se io ero bagnata, da li a poco
lo sarebbe stata anche lei.
Continuammo a ridere, rimettendoci a sedere sul molo. Il sole era
talmente caldo che i capelli iniziavano già ad asciugarsi.
Per i pantaloncini di jeans e la maglietta però sarebbe
servito molto più tempo.
Quando ormai dello scoppio di risa rimanevano solo le lacrime agli
occhi e gli ultimi singhiozzi, un enorme mano entrò nella
mia visuale. Era la mano più grande che avessi mai visto,
attaccata ad un braccio immenso, che apparteneva ad un uomo colossale
con i baffi più strani del mondo, Barbabianca. Appena vidi
quella mano protesa verso di me, con il palmo
all’insù, ebbi un dèjà vu.
Mi parve di aver già visto quella scena, dove gli occhi di
quell’uomo erano un invito ad afferrare quell’arto,
per rimettermi in piedi. Decisi di accettare l’invito, anche
se titubante. Appena afferrai quella mano, capii dove avevo
già visto quella scena, era stato durante le puntate
dell’anime, quando mostravano il passato di Ace, anche in
quel frangente Barbabianca aveva teso la sua mano, per aiutarlo a
rialzarsi.
La mano era calda ed avvolgeva completamente la mia. Quando fui in
piedi feci per staccarla, ma il pirata non mi lasciò andare,
anzi, andò a posare anche l’altra mano sulla sua,
racchiudendo la mia in una stretta leggera. Sera quasi surreale che
quelle mani gigantesche potessero essere così delicate.
«Ti ringrazio per aver salvato quello sciocco di mio figlio!
Non è contento finché non ci fa spaventare almeno
una volta al giorno, quel moccioso!» mi disse sorridendo. Era
un personaggio che metteva soggezione, ma che sapeva svelare un lato
molto dolce quando voleva. I suoi occhi, pur essendo relativamente
piccoli, erano profondi e carichi di sincerità, era
veramente grato che avessi salvato Ace, ma come avrei potuto non farlo?
«Non serve ringraziarmi, l’ho fatto
volentieri!» dissi sorridendo a mia volta, leggermente
imbarazzata da tanta gratitudine. Quando mi lasciò andare
incrociai nuovamente le braccia al petto, per nascondere
l’eccessiva trasparenza.
Barbabianca mi sorrise di nuovo, avviandosi poi verso il corpo
addormentato di Ace.
«Hey voi due, ragazze! Venite qui, abbiamo una doccia ed un
cambio abiti da offrirvi, non fatevi problemi!»
gridò una voce femminile alle nostre spalle.
Quando ci girammo, l’espressione “occhi fuori dalle
orbite” divenne realtà sui nostri volti. Tutte le
imbarcazioni dei personaggi erano arrivate nei pressi della banchina,
il che voleva dire che non solo avevamo fatto le cretine davanti a
tutti, ma anche che io ero praticamente in reggiseno di fronte a tutti
loro, pubblico compreso. Sentii le guance arrossarsi immediatamente a
quel pensiero, tutto il sangue che avevo in corpo si
concentrò sulle mie gote.
Quando i neuroni nella mia testa ripresero a funzionare, collegai la
voce di prima a quella di Nami, che infatti ci guardava sorridente a
bordo della Mini-Going Marry. Appena vidi Robin accanto alla rossa, mi
ricordai immediatamente delle mani che ci avevano salvato
dall’acqua, era stata sicuramente lei ad aiutarci. Le sorrisi
nel momento in cui i nostri sguardi si incrociarono, e lei
ricambiò. Era un grazie silenzioso, che però
avrei sicuramente espresso a voce appena ne avessi avuta
l’occasione. Nami vedendo che non accennavamo a muoverci, ci
incalzò ulteriormente.
«Allora? Cosa state aspettando? Dai non fate complimenti!
Sanji! Zoro! Sbrigatevi a mettere la passerella, altrimenti come
pensate di farle salire? Non volano sapete!?»
La passerella fu issata immediatamente dal cuoco, che avrebbe fatto
qualsiasi cosa ordinata dalla sua navigatrice. Lo spadaccino invece si
era limitato a brontolare qualcosa sulle buone maniere.
«Selene, cosa facciamo?» mi domandò
Elena titubante. Non ne avevo idea, ma rifiutare mi pareva scortese, e
poi che diamine, volevo salirci a bordo della Going Marry! Inoltre
l’idea di una doccia, per lavar via l’acqua
lacustre e sistemarmi, non mi dispiaceva affatto.
«Beh, una doccia la farei volentieri, tu no?» le
domandai di rimando, e raccogliendo i miei sandali mi avviai verso
l’imbarcazione. Elena si riscosse dallo stupore,
afferrò lo zaino e mi seguì. A quanto pare
avremmo potuto sognare ancora un po’.
-----------------------------------------------------------------------------------------
Eccomi puntuale puntuale xD
strano ma vero xD allora, la mia puntata preferita è la 461,
dove mostrano l'incontro tra Ace e Barbabianca, l'ho adorata! ^_^ poi
amo moltissimo anche quella dell'incontro alla locanda ad Alabasta
=)
stavolta non mi dilugo molto, vi lascio solo questo video, che io ho
trovato esilarante xD eccolo QUI
!!! sono troppo carini! xD
ed ora la domanda, ormai è diventata un rito! xD occhio che
potrebbe essere spoiler, se qualcuno si è fermato alle
puntate in italiano...
Secondo voi, Sabo
è vivo?
Baci baci, alla
prossima!!!
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e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di
lucro
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Capitolo 8 *** 7. Un invito che non si può rifiutare! ***
c1
La
passerella che collegava il vecchio pontile con la barca, non era molto
stabile, per cui non rifiutai la mano protesa di Sanji, che poi
aiutò anche Elena. Mi trovai subito davanti la famosa
navigatrice, che mi strinse calorosamente la mano.
«Piacere di conoscerti, io sono Nami, anche se lo saprai
già.. come ti chiami?»
«Selene, e lei è Elena, la mia migliore amica!
Grazie
mille per averci offerto il vostro bagno per risistemarci.
Ma…
dobbiamo pagare per il bagno o è gratis?» chiesi.
Educazione o no, non avevo molto contate con me, e conoscevo bene la
tendenza della rossa a far pagare qualsiasi cosa! La mia domanda fece
ridere di gusto Robin, che si preoccupò anche di
rassicurarmi
dicendomi:
«Non preoccupatevi, non vi farà pagare nulla
stavolta! Le
abbiamo vietato di imporre pagamenti assurdi agli ospiti!»
«Ok, allora grazie mille! Anche per il salvataggio
ovviamente,
senza il tuo aiuto saremmo ancora ammollo!» risposi a mia
volta.
«Non c’è di che, era il minimo che
potessi fare!»
Sorrisi di rimando, ma non feci in tempo a fare altro,
perché il
cuoco casanova si intromise, afferrando le mani di Elena e le mie, e
guardandoci con occhi adoranti disse: «Signorine, prego, vi
accompagno al bagno! Nami-Swan ha già sistemato dei vestiti
per
voi due, seguitemi, sarete affaticate…»
Avvisare il povero cuoco del pericolo che aveva alle spalle, prima che
l’enorme gancio destro piombasse sulla sua testa, fu
impossibile.
«Maleducato! Stavamo parlando!» gridò
Nami, mentre
Sanji a terra gongolava, osannando la bellezza della sua dea quando era
arrabbiata. Era veramente malato quell’uomo. Nami ci fece
strada
fino ad una porticina di legno chiaro, che tenne aperta mentre
entravamo.
«Eccoci qui, fate come se foste a casa vostra! Per i vestiti
bagnati non preoccupatevi, stendeteli pure sul separé, si
asciugheranno in fretta! Fate con comodo!» esclamò
prima
di congedarsi, chiudendosi la porta alle spalle.
La stanza in cui ci trovavamo non era enorme, ma era più
fornita
di una beauty farm. Sulla parete sinistra c’erano tre docce
allineate, ognuna con un apposito ripiano stracolmo di flaconi. Mi
avvicinai curiosa, leggendo alcune fragranze. C’erano shampoo
all’albicocca,doccia schiuma alla mora, creme idratanti per i
capelli al cocco, persino uno scrubs esfoliante all’oliva.
Sulla
destra invece erano posizionati i sanitari, mentre la parete
più
ampia era rivestita di specchi, con quattro lavandini di vetro chiaro,
anch’essi carichi di prodotti di ogni tipo.
Finito il giro di ispezione, ci spogliammo in fretta e ci infilammo
sotto i caldi getti d’acqua delle docce cromate. Io usai uno
shampoo alla vaniglia ed un doccia schiuma al cioccolato, mentre Elena
optò per zucchero a velo e pesca. Una volta lavate, ci
avvolgemmo nei morbidi asciugamani bianchi ed iniziammo ad asciugarci e
vestirci, ancora immerse nel vapore profumato. Nami ci aveva fornito un
cambio completo, dalla maglietta all’intimo. Fortunatamente
avevamo una taglia simile, fatta eccezione per il reggiseno, che
dovemmo stringere al massimo per farcelo andar bene. Una volta
sistemati i capelli sciacquammo i vestiti con acqua pulita, stendendoli
poi sui separé di legno chiaro. Non si sarebbero asciugati
tanto
facilmente, i jeans soprattutto.
Appena mettemmo piede fuori dalla stanza, Sanji ci fu addosso,
offrendoci una bevanda a base di non so cosa, preparata appositamente
per noi. Accettammo volentieri, ed andammo a ringraziare nuovamente
Nami per la sua gentilezza.
«Non serve nessun ringraziamento! Avete salvato Ace, nessuno
di
noi sarebbe riuscito a raggiungerlo in tempo, anche se guardandolo non
sembra stare così male, sta ancora russando sul
pontile!»
rispose la navigatrice, indicando la banchina dove effettivamente lo
zolfanello stava ancora russando, sorvegliato a vista da un Barbabianca
divertito ed un Marco contrariato e perplesso.
«Assurdo, sapevo che era narcolettico, ma non pensavo
arrivasse a
questi punti» esclamò Elena, guardando dubbiosa
Ace.
Marco appena si accorse della nostra presenza, diede un calcio sul
fianco al moro, facendolo scattare in piedi in uno stato confusionale.
«Chi c’è? Chi è? Dove sono?
Che è
successo?» chiese esitante pugno di fuoco, grattandosi la
testa
ormai asciutta.
«Gurarara. Figliolo, sei incredibile!»
dichiarò
Newgate scuotendo la testa. Il comandante della prima divisione intanto
lo guardava malissimo, con le braccia incrociate al petto.
«Hai idea dello spavento che hai fatto prendere a tutti
quanti,
eh? Come si fa ad essere così idioti!» gli
gridò
contro, ottenendo solo l’effetto di aumentare la
perplessità nello sguardo di Ace.
«Che ho fatto ancora? Deve essere sempre per forza colpa
mia?» chiese con aria innocente Portuguese, sbadigliando.
«Si, razza di imbecille! È perennemente colpa tua!
Come si
fa ad addormentarsi mentre si sta navigando, eh? Me lo spieghi?! Sei
caduto in acqua brutto cretino! Se quella ragazza non si fosse tuffata
e non avesse tirato fuori la tua testa vuota dal lago saresti annegato!
Sei un incosciente! Un idiota, eh!» sbraitò Marco,
visibilmente alterato, indicandomi. Pugno di fuoco si girò a
guardarmi, e dopo qualche secondo mi ringraziò, facendomi un
mezzo inchino, come quelli che gli aveva insegnato Makino per esprimere
gratitudine. Sorrisi ripensando alle fatiche che aveva affrontato
quella povera donna per educare minimamente Ace e Rufy.
«Grazie per avermi salvato!» disse, facendomi
diventare rossa in viso.
«Non c’è di che…»
risposi imbarazzata,
mentre mi attorcigliavo una ciocca di corti capelli corvini dietro
l’orecchio. Era un gesto che facevo sempre quando mi sentivo
particolarmente in imbarazzo.
Quando il moro si raddrizzò, un urlo squarciò
l’atmosfera.
«Ace! Maledetto incosciente! Vuoi spaventarmi a
morte???»
Dadan si stava facendo strada sul ponte di una barca non distante ed
evidentemente si era presa un bello spavento per la salute del ragazzo.
«Ma insomma, avete finito di insultarmi tutti? Cosa ti ho
fatto
stavolta? Eri preoccupata per me?» chiese ingenuamente Ace,
facendo arrossire Dadan, che si affrettò a negare tutte le
sue
preoccupazioni, fingendosi alterata per lo stato pietoso in cui aveva
ridotto i vestiti. Quella donna era incredibile, aveva cresciuto Ace
come un figlio, e gli voleva bene, ma non riusciva ad esprimergli
l’affetto che provava per lui, e la cosa era reciproca. Feci
appena in tempo a scacciare i ricordi della reazione di Dadan alla
guerra di Marineford, non avevo intenzione di mettermi a piangere
davanti a tutti. A casa probabilmente l’avrei fatto, ma non
li.
Chissà, forse se lei conoscesse il futuro di Ace, gli
direbbe
quanto tiene a lui. Sarebbe bello poter salutare i propri cari
un’ultima volta, poter dar loro un ultimo abbraccio, mettendo
in
chiaro tutto l’amore che proviamo per loro. Da quel punto di
vista ero stata fortunata, ero riuscita a dire addio a mio padre, ero
riuscita a dirgli che gli volevo bene da morire, ero riuscita ad
abbracciarlo prima che i farmaci lo addormentassero. Quegli attimi,
vissuti in una squallida stanza d’ospedale, erano i miei
ricordi
più preziosi, che però non era il momento di
riassaporare. A casa, mi dissi nuovamente, a casa avrei pianto, ma non
ora.
«A proposito di vestiti bagnati, i vostri non saranno
asciutti
prima di sera, che ne dite di rimanere con noi per cena? Da programma
resteremo qui, in una villa sul lago, fino a domattina, vi andrebbe di
rimanere con noi? Almeno un altro po’… Siete le
prime
persone con cui possiamo conversare; quegli scimmioni che ci scortano
sono di poche parole, mentre i giornalisti ci tartassano di domande e
basta, almeno con voi due potremo chiacchierare
tranquillamente…» chiese Nami, con uno sguardo
implorante.
Non potevo credere alle mie orecchie, ci stavano veramente chiedendo di
rimanere con loro per cena? In una villa sul lago di Como, con loro? Vi
prego, qualcuno mi dia un pizzicotto e mi svegli ora, perché
se
questo sogno continua, il risveglio sarà ancora
più
doloroso.
Elena fissava Nami a bocca aperta, non riuscendo a capacitarsi, come la
sottoscritta, della richiesta che ci avevano appena fatto.
«Hey, la rossa ha ragione!» gridò Ace,
che con un
balzo si appollaiò sul parapetto della Merry in miniatura.
«Restate con noi, almeno a cena! Mi hai salvato la vita no?
Il
minimo che posso fare è questo!»
continuò il moro,
guardandomi dritta negli occhi.
Ok, questo era veramente troppo per il mio cuore, che ormai aveva come
obbiettivo lo sfondamento della cassa toracica.
«Beh…» risposi esitante, alla fine
eravamo in giro
da stamattina presto, il viaggio di ritorno era lungo e poi non potevo
lasciare parcheggiata lì l’auto, ed andare
chissà
dove sul lago di Como. Non era propriamente una pozzanghera,
attraversabile in dieci minuti. Passare una serata con loro sarebbe
stato meraviglioso, un sogno fin troppo bello per essere reale, ma a
malincuore era irrealizzabile.
«Verremmo volentieri, ma vedete, dobbiamo affrontare un lungo
viaggio per tornare a casa, ed essendo venute in auto dovrei guidare
stanca e di notte. In più non posso lasciare qui la macchina
e
andarmene chissà dove… Ci dispiace veramente
tant-»
non riuscii a finire la frase, visto che fui interrotta dal
Viceammiraglio Garp in persona.
«Sciocchezze! Daremo le chiavi ad uno di questi signori che
ci
accompagnano ovunque, che porterà l’auto alla
villa. Dopo
cena deciderete se rimanere per la notte e ripartire
l’indomani,
o se preferite chiederemo a due nostri autisti di accompagnarvi a casa,
così non dovrete guidare! Uno guiderà la vostra
automobile, mentre l’altro vi seguirà con
un’altra
vettura. Non potete assolutamente andarvene, ci lascereste con un
debito enorme da sanare, la vita di un nipote vale come minimo
quest’ospitalità, anche se il nipote in questione
è
uno stupido pirata!» concluse sorridendo a me, ma guardando
in
cagnesco Ace. Se prima ero rimasta senza parole, ora rasentavo il
mutismo.
«Il vecchio ha già pensato a tutto! Non vi ha
lasciato
scampo ragazze! Forza, fatelo anche per noi, potremo fare
festa!»
esclamò Ace saltando giù dal parapetto e venendo
verso di
noi. Il mio cuore perse un battito alla vista di quei muscoli, che si
contraevano e si rilassavano, man mano che il moro avanzava.
«Comunque… Io sono Ace!» disse
porgendomi la mano.
«Selene…» risposi, lasciando che la mia
mano si muovesse verso la sua.
«Piacere di conoscerti, Selene…»
sorrise, ed io mi
sciolsi definitivamente, sopraffatta dalle emozioni. Gioia, stupore,
imbarazzo, eccitazione, entusiasmo. Il tono e lo sguardo con cui aveva
pronunciato il mio nome, mi destabilizzarono definitivamente
il
battito cardiaco. Sentii le guance avvampare, e distolsi lo sguardo da
quei pozzi color pece, che stavano risucchiando le mie
facoltà
mentali, già ridotte dalla situazione generale.
Mi lasciò andare la mano, e si presentò ad Elena
con un cenno del cappello.
«Allora: Elena, Selene… vi invito ufficialmente a
cenare
con noi, come segno di gratitudine! Accettate?»
affermò
Ace, che ci guardava, in attesa di risposta.
Io mi voltai verso Elena, che dal canto suo mi stava già
fissando con uno sguardo stralunato. Sicuramente ci trovavamo in
circostanze molto particolari, a tratti folli e grottesche, che
mandavano all’aria ogni genere di raziocinio.
Ma d'altronde, come si poteva rifiutare un invito del genere?
-----------------------------------------------------------------------------------------
Et
Voilà, ancora una volta puntuale! xD Vi avviso che il
prossimo
capitolo non lo pubblicherò così in fretta,
infatti i
capitoli 8 e 9, sono particolarmente ostici. li ho già
abbozzati, ma vanno trattati con le pinte e mooolta attenzione, quindi
mi prendo del tempo in più per farlo... i tempi di
aggiornamento
quindi si allungheranno, avrete un capitolo a settimana, almeno per i
prossimi 2 o 3 capitoli, poi si vedrà! vi chiedo scusa, ma
ve ne
accorgerete leggendo, che sono veramente carichi di informazioni
fondamentali per la storia, che devo elaborare, esporre e rendere
comprensibili! è già, perchè nella mia
testolina i
capitoli sono già a posto, e io so già tutto
sulla mia
storia, ma voi che per vostra fortuna non vivete nella mia mente no, e
devo ragionare parecchio su cosa dirvi e cosa non dirvi nei prossimi
capitoli! xD
come avrete capito le risposte a moltissime delle vostre domande sulla
storia le avrete nei prossimi aggiornamenti ^_^ per ora vi lascio
a questo capitolo, relativamente tranquillo! ^_^
ps. secondo me Sabo è vivo, anche se da un certo punto di
vista
lo trovo ingiusto (ma perchè non è intervenuto
per
salvare Ace? Sabo preso a cannonate, Rufy disfato di botte, Zoro lo
affettano mille volte, e solo Ace muore? con un pugno? -.-"
vabbè lasciamo perdere xD)
come al solito vi ho tediato con le mie stranezze fin troppo!!! colgo
l'occasione epr ringraziare tutti voi, non pensavo che questa storia
potesse piacere così tanto, veramente, grazie ^_^ e un
GRAZIE
gigante a Lenhara per l'aiuto, eh! XD
Seguirete le puntate
su Italia2? da domani sera trasmetteranno One piece! (marineford forse?
O_O)
Baci baci, alla
prossima!!!
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Capitolo 9 *** 8. Verità ***
c1
Finite
le presentazioni, che consistettero principalmente
nell’annunciare i nostri nomi, visto che a noi due i loro
erano
già noti, consegnai le chiavi dell’auto ad uno dei
loro
autisti, spiegandogli dove avevo parcheggiato ed il modello della
vettura.
I giornalisti stavano tentando di avvicinarsi in tutti i modi alle
barche, frenati dalla polizia locale, che aveva gentilmente deciso di
sorvolare sul fatto che io e la mia amica avevamo spudoratamente
ignorato un divieto d’accesso. La ramanzina però
non ce la
risparmiarono di certo.
Dopo che Marco ebbe caricato sulla copia della Moby Dick le due
monoposto, intimando ad Ace di stare alla larga dall’acqua,
le
imbarcazioni partirono, lasciandosi alle spalle il porto gremito di
fan, che in quell’istante stavano provando un odio senza
confini
per me ed Elena.
Odio che approvavo al cento per cento, avevamo avuto una fortuna
sfacciata, prima nel trovare quel pontile deserto, poi nel ricevere
questo invito. Per come erano andate le cose, la caduta di Ace era
stata una manna dal cielo, anche se mia aveva spaventata, e non poco.
Ero brava a nuotare, ma il lago rimane sempre un rischio; ed essere
immersa nell’acqua, senza aria nei polmoni e senza vedere
nulla,
era un’esperienza che non volevo ripetere.
Mentre le imbarcazioni fendevano l’acqua, ondeggiando
leggermente, mi ricordai che Elena soffriva terribilmente di mal di
mare. Una volta si era sentita malissimo a bordo di un
pedalò,
chissà come avrebbe affrontato quella traversata. Potevo
solo
sperare che non durasse troppo.
Come a confermare i miei pensieri, cinque minuti più tardi
Elena
aveva la testa penzoloni fuori dall’imbarcazione, con la
sottoscritta che le teneva all’indietro i capelli e le
carezzava
leggermente la schiena. Fortunatamente anche un signore che faceva
parte della security soffriva dello stesso disturbo, ed
offrì
alla mia povera compagna di avventure, una pastiglia per alleviare il
senso di nausea.
Dopo un quarto d’ora infernale, le condizioni di Elena
migliorarono leggermente. La nausea era cessata, così come i
sudori freddi, ma il viso era ancora pallido da far spavento.
«Resisti ancora un attimo, siamo quasi arrivati!»
disse
Nami, accovacciandosi accanto a noi. Si erano preoccupati tutti per
quel malore, e dal canto mio, tutto quell’ondeggiare iniziava
a
darmi fastidio; la vita del pirata non era proprio la mia strada a
quanto pareva.
Pochi minuti più tardi le barche a motore si spensero,
annunciando il nostro arrivo a destinazione, e tutte le imbarcazioni
furono attraccate su piccoli pontili, che sporgevano da una piattaforma
di cemento.
Quando vidi la villa per poco non mi slogai la mascella, tanto restai a
bocca aperta.
L’abitazione, o meglio la reggia, che mi trovavo davanti era
immensa, di una bellezza unica e suggestiva. Un grande cancello di
ferro battuto si ergeva maestoso poco dopo i pontili, delimitando
l’accesso a quella meravigliosa magione. Al nostro arrivo era
completamente spalancato, permettendomi di vedere il giardino e
l’edificio.
Il parco era un tripudio di colori, dal rosa dalle buganvillee, che si
intrecciavano ai gazebo bianchi, all’arcobaleno di viole e
ciclamini. Vi erano parecchi alberi dalle fronde verdeggianti, altri
invece ornavano angoli del prato con le loro chiome purpuree. Un
ciottolato bianco, incorniciato da enormi vasi carichi di campanule,
portava al portone principale della casa, sulle cui pareti si stendeva
un velo irregolare di edera. Tutta la proprietà era
contornata
da un alto muro di pietra grigia, anch’esso ornato da piante
rampicanti in fiore, interrotto solo da un altro cancello, che
probabilmente dava sulla strada, in modo da rendere accessibile la
villa anche dalla terraferma.
Quando tutti furono sbarcati, ci avviammo verso l’ingresso,
dove
un maggiordomo in livrea ci stava aspettando, tenendo aperti i battenti
dell’enorme portone.
L’atrio d’ingresso era magnifico, il marmo bianco e
lucido
del pavimento rifletteva il decoro floreale che ornava i soffitti,
generando un effetto specchio molto suggestivo. Lo spazio era privo di
arredamenti particolari, solo qualche quadro qua e la. Il maggiordomo
ci condusse in un salotto, il cui arredamento faceva a pugni con la
struttura originaria della casa. L’abitazione infatti, vista
la
sua apparente antichità, evocava un arredamento
più
classico, con mobili d’epoca e suntuosi drappeggi per i
tendaggi,
mentre quella stanza era modernissima, arredata con divani di pelle
color panna e tavolini di vetro dalle rifiniture cromate. In mezzo a
tutto quel bianco, il vecchio camino barocco sembrava una grande
macchia di fuliggine, totalmente stonato dal resto della stanza.
«Sedetevi! Non fate complimenti!» ci
invitò Nami,
accomodandosi sinuosamente sopra uno dei divani. Io ed Elena ci sedemmo
di fronte a lei, sprofondando nella morbidezza dei cuscini. Con lo
sguardo tentavo di raccogliere nella mia mente ogni minimo dettaglio,
in modo da poterlo conservare alla perfezione nei miei ricordi. Una
volta arrivata a casa avrei sicuramente scritto e disegnato tutto
quanto sul mio diario, così da poter rivivere con chiarezza
questi momenti, ogni volta che l’avrei desiderato.
«Allora ragazze! Raccontatemi un po’ di
voi… di dove
siete? Cosa fate per vivere? Come vi siete conosciute? Come
v-»
«Santo cielo prendi fiato rossa! Le stai bombardando di
domante,
sembri una giornalista!» intervenne Zoro, frenando la
curiosità di Nami, che di tutta risposta gli fece una
linguaccia.
«Fatti gli affari tuoi spadaccino, sono discorsi tra
donne!» ribeccò lei, riportando lo sguardo su di
noi, ed
ignorando lo sguardo furente del marimo.
«Beh, siamo entrambe originarie di un paesino nella provincia
di
Brescia…» iniziò Elena, che appena
posati i piedi
sulla terraferma aveva riacquisito colore, «Stiamo studiando
entrambe, lei legge, mentre io comunicazioni. Ci siamo conosciute circa
dieci anni fa, ci siamo azzuffate perché lei aveva una
maglietta
identica alla mia!» finì infine, ritirando fuori
quella
maledetta storia.
«Forse volevi dire, perché TU, avevi la maglietta
uguale
alla mia!» sottolineai guardandola in cagnesco. Elena
scoppiò a ridere, ed io con lei. Il nostro incontro era
stato
comico, ed a distanza di anni saremmo state ancora in grado di litigare
per quell’episodio. Pur indagando in famiglia, nessuna delle
due
era riuscita a provare che la sua maglietta fosse stata comprata per
prima. Che motivo idiota per litigare, però ci aveva unite!
Da
allora eravamo inseparabili, e dopo anni conservavamo ancora le nostre
t-shirt, che poi ci eravamo scambiate, per sancire la fine delle
ostilità.
«Yohohoho! Da un litigio è nata
un’amicizia…
Ora, cara ragazza, mi mostreresti le tue mutandine?» chiese
Brook, che si era avvicinato ad Elena, ed ora le teneva una mano. La
poverina arrossì, iniziando a balbettare una risposta
imbarazzata, che però non riuscì ad articolare.
«SCORDATELO!» gridò Nami, colpendo
violentemente lo scheletro sulla testa.
Mentre lo scheletro si accasciava a terra, accompagnato dai rimproveri
di Nami, io mi guardai attorno, accorgendomi che in quello stanzone si
erano radunati veramente tutti i personaggi; alcuni si erano accomodati
sui divani, altri invece se ne stavano in diparte, appoggiati al muro o
davanti alle finestre. Starmene seduta a conversare con loro, mi
metteva parecchio in soggezione. Barbabianca occupava minimo tre posti
a sedere, ed affiancato da Ace e Marco, sembrava interessato alla
nostra storia. Sullo stesso divano di Nami era sistemata quasi tutta la
ciurma, le uniche eccezioni erano Zoro, che se ne stava seduto a gambe
incrociate sul pavimento, e Franky, che invece era rimasto in piedi,
appoggiandosi leggermente al muro.
Accanto ad Elena invece si era sistemato Garp, mentre alla mia destra
sedeva Shanks, con alle spalle i suoi uomini. Nonostante fossero in un
altro mondo, le ciurme erano ben definite, e nessuno abbassava
totalmente la guardia. La tensione tra i due imperatori era palpabile.
Chissà quale accordo vigeva in quell’istante, la
tensione
c’era, ma nessuno sembrava intenzionato a scatenare la rissa.
Probabilmente erano i Mugiwara la chiave di tutto, in particolare Rufy,
amico di Shanks e fratello del comandante della seconda flotta di
Barbabianca. Per non parlare dell’amicizia tra la ciurma e Mr
2,
che a sua volta venerava Ivankov.
Law e Kidd sembravano sopportarsi senza apparenti legami,
così
come Hancock e Doflamingo. I primi due se ne stavano in disparte,
appoggiati alla finestra osservando il panorama, mentre i due
Shichibukai se ne stavano in un angolo, l’una seduta
elegantemente sul suo serpente, l’altro scomposto sopra un
tavolino.
Il più insofferente era sicuramente Smoker, che a contatto
con
tutti quei pirati ribolliva di rabbia, ma a frenarlo c’era il
viceammiraglio Garp, nonché nonno di Rufy ed Ace. Insomma,
una
fitta rete di legami affettivi univa nel modo più strano e
svariato i personaggi in quella sala, e tutti i legami alla fine
portavano a Rufy. Persino i personaggi secondari erano legati alla
ciurma in qualche modo.
«Posso farvi io una domanda..?» chiesi speranzosa,
continuando non appena Robin mi fece segno di procedere con un gesto
della mano.
«Cosa vi ricordate della vostra vita? Cioè, qual
è
il vostro ultimo ricordo, prima di essere trascinati qui?»
chiesi. Era una domanda che dovevo fare, per evitare uscite del tipo
“Hey Ace, come ci si sente ad essere risorti?”
oppure
“Hancock come va il tuo folle amore per Rufy?”.
Chissà chi di loro aveva i ricordi più completi.
Fu l’archeologa a rispondermi, con la sua solita calma.
«Non tutti sono stati portati qui nello stesso istante,
infatti
ci è stato chiesto di non parlare tra di noi dei nostri
ricordi,
perché rischieremmo di rivelare il futuro di altri
personaggi, e
questo non può accadere, visto che un giorno dovremo
ritornare
in quel mondo. Già mantenere i ricordi di questo viaggio
cambierà il corso della storia, sapere persino come va a
finire
sarebbe sbagliato. Sappiamo solo che i ricordi meno completi
appartengono proprio a noi Mugiwara, che siamo stati trasportati qui
insieme da Spa Island.»
E così non c’era stato un momento unico, ognuno
aveva un
ultimo ricordo diverso, o al massimo c’erano piccoli gruppi
con
un ricordo comune. Chissà chi era il personaggio ad avere i
ricordi più completi… Ma soprattutto, come
avrebbero
fatto a ritornare nel loro mondo? L’aveva affermato come se
fosse
una certezza, qualcosa di già noto e deciso.
«E come hanno fatto a capire che c’era questa
diversità? E cosa intendi dire con “un giorno
dovremo
ritornare in quel mondo”? Come farete? E come mai potete
circolare liberamente, mentre quattro di voi sono stati
imprigionati?» chiese Elena, curiosa quanto me di scoprire
come
erano andate realmente le cose. I telegiornali avevano dato notizie su
notizie, ma erano poco credibili le tempistiche.
«E io che prima vi ho difeso dall’assalto di Nami,
voi
donne siete portate per fare domande a raffica!»
affermò
Zoro, facendo arrossire Elena ed alterando l’instabile umore
di
Nami.
«Testa d’alga, porta rispetto per Nami-swan e per
le
bellissime fanciulle nostre ospiti! Zoticone.» intervenne
Sanji.
Se non fosse intervenuta Nami a placare le acque, avrebbero nuovamente
iniziato a litigare.
Quando la stanza tornò tranquilla, Robin iniziò a
rispondere alle domande di Elena:
«Gli scienziati del vostro mondo stanno studiando le
radiazioni
che ci hanno trasportato qui, cercando di generare un processo inverso,
mediante il quale riusciranno a rimandarci nel nostro contesto,
esattamente nell’attimo immortalato nel foglio da cui siamo
usciti. La storia del trasferimento e del nostro stanziamento in
località diverse è una questione momentanea, non
rimarremo qui per sempre, è già stato deciso.
Anche i
quattro prigionieri verranno rispediti nel loro foglio, hanno
annunciato pubblicamente la loro condanna solo per calmare
l’opinione pubblica e voi fan, che sembrate odiarli oltre
ogni
dire. Per quanto riguarda i ricordi… Beh, ci hanno
interrogati
singolarmente, chiedendoci per l’appunto quali fossero i
nostri,
in base ai quali hanno deciso se lasciarci liberi oppure no. Ha avuto
un ruolo fondamentale l’autore delle nostre avventure,
Eiichiro
Oda; infatti è stato molto persuasivo, convincendo le
autorità a considerare non solo il nostro passato, ma anche
il
nostro ruolo nella storia. Per questo è stato imprigionato
anche
un marine, mentre noi pirati siamo a piede libero. Non sappiamo cosa
abbia fatto per meritarsi l’incarcerazione
quell’ammiraglio...» concluse pensierosa.
Non potei evitare di lanciare uno sguardo ai pirati di Barbabianca. Ace
era rilassato, mezzo sdraiato sul bracciolo del divano, mentre Marco
era teso, con la mascella serrata ed i pugni chiusi guardava prima Ace
e poi il suo capitano, tentando però di non farsi notare.
Quella
tensione aveva appena risposto alla mia domanda su chi avesse i ricordi
più completi… La fenice sapeva di Marineford,
aveva ben
chiari nella memoria gli attimi in cui aveva perso il padre ed il
fratello, ed era bastato accennare ad Akainu per fargli ribollire il
sangue. Ma anche Rufy era più silenzioso del solito,
mediamente
sarebbe già intervenuto nel discorso, o comunque avrebbe
protestato perché era affamato, invece era rimasto zitto
dalla
fine dello spettacolo; perfino lungo la traversata non aveva parlato
più di tanto. Mossi il mio sguardo verso di lui, che stava
seduto con le gambe penzoloni sullo schienale del divano, e
quando incrociai il suo sguardo, per una frazione di secondo,
capii. Quello non era lo sguardo di Rufy a Spa Island, era lo sguardo
di Sabaody, due anni dopo. Probabilmente la canotta che indossava
nascondeva la cicatrice sul petto, ma non mi serviva vederla per
confermare le mie ipotesi, ero troppo sicura. Quello sguardo aveva una
consapevolezza ed una maturità che solo la perdita del
fratello
maggiore poteva dargli. Rufy e Marco sapevano tutto.
«Quindi non vi hanno detto nulla della vostra storia e di
come
è continuata… Ora capisco… Da quanto
tempo siete
nel nostro mondo? » continuò a chiedere Elena. Lei
era
sicuramente più adatta di me per interrogare i personaggi,
io
ero troppo presa nell’osservare le loro reazioni, i loro
comportamenti, a scavare con gli occhi nei loro ricordi. La fenice non
perdeva di vista Ace e Barbabianca nemmeno un secondo, Rufy continuava
a guardare il fratello di sottecchi, cercando di non farsi notare, e
lanciava anche qualche occhiata a Law e Von Clay. Chissà se
il
chirurgo della morte ricordava i fatti di Marineford. E Mr 2? Ricordava
di aver donato la sua vita per salvare Rufy? Per permettere a Cappello
di Paglia di arrivare al quartier generale della marina per salvare
Ace? Sapeva che il suo sacrificio era stato in parte vano? Come
potevano stare zitti? Come riuscivano a non dire loro la
verità?
Io stessa sentivo il bisogno di afferrare Ace e gridargli di lasciare
perdere la ricerca di Teach, di urlargli contro che lui doveva vivere,
che non doveva gettare via la sua vita inseguendo quell’uomo.
Strinsi i pugni sopra le ginocchia, cercando di concentrarmi sulle
ombreggiature del marmo che rivestiva il pavimento. Non riuscivo ancora
a pensare serenamente a quei momenti, le lacrime tentavano sempre di
fare capolino sui miei occhi al ricordo della morte di Ace e
Barbabianca. Non volevo nemmeno immaginare il dolore di Marco in quel
momento, il sapere di avere le informazioni per salvare la vita ad
entrambi, ma non poterlo fare. Poter salvare proprio padre, proprio
fratello, la vita di centinaia di persone, ma qualcosa, o qualcuno, ci
impedisce di agire. Ma cosa lo frenava? Cosa gli impediva di parlare?
Tante volte avevo desiderato di poter riavvolgere il tempo, anche solo
di qualche mese, per poter portare mio padre in ospedale, gridando ai
medici di sbrigarsi, di fargli gli esami e cercare quel maledetto
tumore. Urlando loro di individuarlo e portarlo via da li, prima che si
espandesse, prima che divorasse tutto il mio mondo. Ma non era
accaduto. Cosa avrei fatto se avessi vissuto quei mesi sapendo della
malattia, ma impossibilitata ad agire? Con
l’incapacità di
parlare, di fare qualsiasi cosa… Quale poteva essere il
divieto
che mi avrebbe fatta stare zitta? Cosa avrebbe potuto indurmi a tacere,
limitandomi ad osservare?
Alzai lo sguardo dal pavimento, portandolo su Marco, incatenando i suoi
occhi ai miei.
«Cosa vi fa tacere? Cosa vi spinge a non dire nulla sul
futuro, a
non fare nulla per cambiarlo?» chiesi, probabilmente
interrompendo la risposta di Robin alla domanda di Elena. Ormai avevo
smesso di ascoltarle da non so quanto tempo.
La fenice non distolse lo sguardo, sapevamo entrambi a cosa mi
riferivo, non servivano altre spiegazioni.
«Ognuno ha le sue motivazioni, eh.»
tagliò corto il
comandante della seconda flotta, che pur non essendo sgarbato o brusco,
mi fece capire che quello non era né il momento
né il
luogo adatto a quel discorso. Ed aveva ragione.
Mi scusai per l’interruzione, e ripesi ad ascoltare le
spiegazioni dell’archeologa.
A quanto pareva, erano stati trasportati nel nostro mondo quasi un anno
prima, ma la faccenda era stata tenuta segreta, per dare tempo al
governo nipponico di organizzarsi e decidere come procedere. Avevano
interrogato singolarmente tutti gli interessati, stilando una specie di
cronologia, in modo da avere ben chiaro chi avesse fatto cosa nel corso
della storia. Oda era intervenuto durante i dibattiti tra i magistrati
giapponesi, come testimone fondamentale, visto che aveva creato lui
quei personaggi.
Io ed Elena pendevamo dalle labbra di Robin, che pazientemente ci stava
spiegando tutta la faccenda, quando il maggiordomo entrò,
annunciando che la cena sarebbe stata servita tra due ore. A
quell’annuncio Nami decise che era giunto il momento di
separarci, per poterci preparare alla serata.
«Allora a più tardi! È così
bello avere
altre ragazze con noi! Vi farò portare in camera i vestiti
per
la serata!» disse la navigatrice, uscendo veloce dalla
stanza.
L’idea che fosse lei a scegliere i nostri vestiti mi
allarmava, e
non poco.
Lentamente tutti i personaggi lasciarono la sala, ed anche noi ci
alzammo, seguendoli, ma riuscii a fare pochi passi, perché
una
mano afferrò il mio braccio. Mi voltai per scoprire chi mi
avesse fermata, rimanendo sgomenta nel trovarmi di fronte Rufy, serio
in volto.
-----------------------------------------------------------------------------------------
Ok,
ce l'ho fatta! xD giuro, un altro capitolo così e impazzisco
(
se penso che ne ho davanti altri 2 o 3 ancora più ostici mi
viene la nausea! :S )
Ecco, in questo capitolo di spiegazioni si sono chiariti un po' di
passaggi chiave, ma mancano ancora parecchie informazioni, come avrete
sicuramente notato, che verranno rivelate più avanti! (non
è per essere sadica, ma se dico tutto ora
faccio prima a
dirvi come va a finire, e visto che sono mooolto incerta sul finale,
sarebbe difficile anche quello xD) ora, veniamo alla domanda, io le sto
seguendo quelle maledette puntate, e sono arrabbiatissima! la voce di
"rubber" mi fa venire i nervi, però per ora censure
esagerate
non ne ho trovate... anche se ho il terrore di vedere cosa combineranno
nei dialoghi a Marineford! :S comunque, ora vi lascio andare ^_^
Grazie di seguire la mia storia, e fatemi sapere cosa ne pensate di
questo capitolo, se trovate parti poco chiare non esitate a farmelo
notare, alla fin fine io sapendo perfettamente i fatti, magari mi
lascio sfuggire passaggi che per voi lettori sono invece fondamentali!
(poi l'ho riletto talmente tante volte che ormai lo so a memoria,
quindi potrei non aver notato eventuali salti logici xD)
ora il domandone SUPER SPOILER:
Avete visto la prima
pagina del capitolo 666??? *_* cosa ne pensate???
Se rispondete
scrivete SPOILER
anche nella recensione, che magari alcuni leggono inavvertitamente ed
è proprio brutto scoprirlo così! ^_^
Baci baci, alla
prossima!!!
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e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di
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Capitolo 10 *** 9. Un amaro ringraziamento ***
c1
«Andate
avanti voi, io devo parlare con lei da solo», disse il
capitano
dei Mugiwara, esortando coloro che si erano fermati a guardare la scena
ad uscire.
Annuii alla domanda silenziosa di Elena, rimasta ferma al mio fianco,
che mi chiedeva se doveva andarsene anche lei.
Una volta rimasti soli nel grande salone, che con appena noi due al suo
interno, sembrava ancora più immenso, mi lasciò
andare il
braccio, permettendomi di voltarmi completamente verso di lui.
«Grazie di esserti fermata… Non sono bravo con le
parole,
ma volevo ringraziarti per aver salvato Ace, se non ci fossi stata tu,
io… nessun’altro avrebbe potuto
salvarlo.»
Gli occhi di quel ragazzo erano troppo vecchi per quel viso
così
giovane, tradivano la sua vera età ed i suoi ricordi reali,
in
contrasto all’aspetto fanciullesco che caratterizzava il suo
fisico.
«Non c’è bisogno di ringraziarmi,
l’ho fatto
d’istinto, non potevo sicuramente lasciarlo
annegare… Ma
perché hai voluto ringraziarmi così?»
«Così come?» mi chiese, spostando la
testa leggermente a lato, perplesso.
«Da soli, perché qui ed ora? Perché non
l’hai
fatto, che ne so, sulla barca, o quando ancora non ero salita a
bordo?» avrei voluto chiedergli anche dei suoi ricordi, ma
non mi
sembrava il caso. La domanda che avevo posto alla fenice era stata un
errore, mi era uscita dalle labbra senza passare per il filtro della
ragione, ed avevo rischiato di creare una situazione molto spiacevole,
per tutti.
«Beh, perché non ci sarei mai riuscito, davanti a
tutti.
Riesco a fingere a tavola, abbuffandomi a più non posso, e
durante le apparizioni pubbliche, perché riesco a distrarmi
con
mille cose, ma in quel momento il mio pensiero era solo Ace. Non sono
stupido sai? Ho capito che tu sai tutto…» mi disse
serio,
spiazzandomi.
«Dove arrivano i tuoi ricordi?» chiesi esitante.
«Ho appena sconfitto il pacifista a Sabaody, mi ero appena
ricongiunto alla mia ciurma. Stavamo per salpare, quando mi sono
ritrovato in questo mondo. Credevo di impazzire! Li avevo persi di
nuovo, e di nuovo non ero stato in grado di proteggerli! Quando mi
hanno spiegato cosa era successo, non potevo crederci, proprio ora che
il mio viaggio stava per ricominciare… Però
almeno avevo
i miei Nakama…»
«E tuo fratello…» aggiunsi, pensierosa.
«Già!»
«E così ti hanno vestito come ti vestivi una
volta, per
nascondere la cicatrice e la tua vera età, e ti hanno detto
di
non dire loro nulla… giusto?»
«Esatto.» mi rispose sorridendo, con il suo solito
sorriso.
«E come hai reagito nel vedere Ace?» chiesi, ormai
ero in
fase “domande a raffica”, e anche se il mio
cervello
continuava a dirmi di smetterla, una parte di me era troppo assetata di
conoscere, per fermarsi.
«Ho pianto come un bambino, ero felicissimo di poterlo
riabbracciare! Era li, vivo e vegeto, scoppiava di salute! Con il suo
ridicolo cappello arancione e il suo sorriso! Niente manette, niente
graffi o abrasioni, niente sangue, niente… niente
ferite.»
esitò sul finire della frase, ricordando probabilmente lo
squarcio che aveva ucciso pugno di fuoco.
«Come mai non dite nulla? Tu e Marco sapete sicuramente come
va
avanti la storia, l’ho capito dai vostri sguardi che sapevate
il
destino di Ace e Barbabianca! Come fate a fingere che vada tutto bene?
Avete la possibilità di cambiare il corso della storia, e
non lo
fate? Perché?» scoppiai, non riconoscendo la voce
che
usciva dalle mie labbra. Ero arrabbiata, furibonda, accecata
dall’ira e dalla frustrazione di non capire i loro motivi. Se
io
avessi avuto la loro possibilità, se solo avessi potuto
cambiare
anche solo un giorno del passato, l’avrei fatto
immediatamente!
Avrei potuto salvare mio padre, avrei fatto felice mia madre, non avrei
sofferto così tanto, forse sarei persino in grado di
sorridere,
ancora con la sincerità che avevo prima che tutto il mio
universo mi crollasse addosso, schiacciandomi sotto il suo peso.
Non mi ero nemmeno accorta che delle calde lacrime avessero iniziato a
solcarmi presuntuose il viso, me ne resi conto soltanto quando Rufy
allungò la mano, raccogliendone una.
«Perché piangi e ti arrabbi così
tanto?» mi chiese, ingenuo, cappello di paglia.
«Perché se avessi la tua possibilità,
di cambiare
il futuro modificando il passato, non esiterei a farlo! Mentre tu, che
puoi, non lo fai. Non capisco.» mi sedetti sul divano, ormai
incapace di reggermi in piedi. Stavo stringendo i denti, tanto da farmi
male, per non piangere, per evitare che sciocchi singhiozzi mi
uscissero dalla gola. Strinsi i pugni, conficcando le unghie nella
tenera carne del palmo, per distrarre il mio cervello dal dolore al
petto, e farlo concentrare su quello fisico, che preferivo.
Rufy mi guardava, serio in viso, ritto davanti a me. Si
accovacciò davanti alle mie ginocchia, e mi sorrise.
«Non piangere, non capisco perché tu te la prenda
tanto,
ma non pensare che non vorrei dire tutto a mio fratello, solo che non
posso.»
Alzai lo sguardo, incerta. Cosa voleva dire che se avesse potuto,
l’avrebbe fatto? Cosa impediva loro di parlare? Cosa impediva
a
lui di salvare Ace?
Probabilmente lesse nel mio sguardo il dubbio, e decise di spiegarsi
meglio. Avevo sempre sottovalutato l’intelligenza di Rufy, a
quanto pareva.
«Non possono farci tornare con nuovi ricordi sul nostro
futuro.
Prima di partire, ci faranno dei test, per scoprire cosa abbiamo detto
o non detto, insomma per vedere se abbiamo rispettato gli accordi. Se
risultasse ad esempio che io o il pennuto mitologico avessimo detto
tutto o anche solo dato un consiglio ad Ace e Barbabianca, noi verremmo
rimandati nel nostro mondo, ma loro sarebbero bloccati qui. Non
potrebbero permettergli di ritornare, sconvolgendo l’ordine
della
storia. Capisci ora?»
No, non capivo. O meglio, capivo il ragionamento, ma non ne condividevo
le priorità. Chi se ne importava dell’ordine della
storia
se potevo salvare la vita a qualcuno a cui volevo bene? Ok, sarebbero
rimasti nel nostro mondo, ma vivi! Sarei stata felice lo stesso,
perché erano vivi, anche se io non avessi potuto incontrarli
di
nuovo!
«Ma come ragioni? Cosa te ne importa della storia, salveresti
Ace!» dissi, con la voce ancora sporca di rabbia, ma
più
calma.
«Credi veramente che non ci abbiamo già pensato?
Ma se Ace
rimanesse bloccato qui, a causa mia, secondo te se ne starebbe buono
buono a fare la vita da bravo cittadino? È un pirata, non
vuole
essere rinchiuso oppure obbligato a fare nulla! Impazzirebbe sapendo di
non poter tornare nel suo mondo, non poter vivere la sua avventura.
Finirebbe per odiarmi e per farsi ammazzare comunque. Cosa avrei
ottenuto? L’odio di un fratello, e la consapevolezza di
avergli
riempito la vita di rimpianti!?»
Aveva ragione, aveva maledettamente ragione, Ace non
l’avrebbe
mai perdonato, e con le ferree leggi che governavano il mio mondo, si
sarebbe sentito perennemente braccato o in trappola. Quanto avrebbe
resistito? Un mese? Un anno? Quanto?
Chiusi gli occhi, sentendomi sciocca per non aver pensato a
quell’eventualità, per non aver pensato alla
volontà di Ace, ma solamente alla mia. Volevo
così tanto
che la sua morte non divenisse reale, che avevo anteposto la mia
volontà alla sua.
Annuii al capitano dei Mugiwara, capendo finalmente il motivo per cui
taceva a suo fratello quelle informazioni.
«Sembri molto affezionata ad Ace, come è possibile
se non
l’hai mai incontrato?» mi chiese, facendo ritornare
il
sorriso sul suo viso.
«A volte incontrare una persona non serve per innamorarsene.
Cioè, volevo dire… Per… Oh al
diavolo!»
riabbassai gli occhi e nascosi la testa tra le ginocchia e le braccia.
Cosa mi era saltato in mente di dire? Era un cartone animato, una
finzione! Non ci si poteva innamorare di una finzione! È una
cosa stupida ed insensata!! Da bambini!! Come Elena che da piccola
voleva sposare Batman! E ok, io ero fidanzata con Eric di Rossana, ma
ora avevo 20 anni, quasi, non avrei dovuto ricascare un una frivolezza
simile! Mi sentivo imbarazzata, frustrata ed anche particolarmente
patetica, rannicchiata su quel divano.
La risatina di Rufy mi riscosse dai miei insulti mentali a me stessa,
riportandomi alla realtà, realtà nella quale
avevo appena
detto ad un cartone animato di essere innamorata di suo fratello
cartone animato. Cristo, detta così sembrava anche peggio!
Se possibile sprofondai ancora di più
nell’imbottitura del
divano, celando il mio viso in fiamme per l’imbarazzo con le
braccia. Cosa cavolo mi saltava in mente? In meno di un ora le mie
parole avevano palesemente scavalcato il filtro che evitava di farmi
dire stronzate. Intanto Rufy continuava a sghignazzare.
« Lo trovi tanto divertente?» chiesi stizzita.
«Si! Sei diventata tutta rossa! Però sono
contento, quando
Ace lo saprà sicuramente diventerà molto
più rosso
di te, però sarà felice!» mi rispose
tranquillo il
ragazzo di gomma. E quelle parole cancellarono l’imbarazzo e
la
vergogna, sostituendoli con l’ira e la follia omicida.
Mi alzai di scatto dal divano, facendo cadere Rufy dalla sua posizione
accovacciata sul pavimento. Mi piegai a guardarlo negli occhi, e vidi
dal suo volto che la mia faccia era terribilmente spaventosa.
«Prova anche solo a pensare di riferire qualcosa ad Ace ed io
ti
catapulto nel lago! E fidati, non vengo a ripescarti!»
sibilai, a
pochi centimetri dal suo viso.
Rufy fece una risatina leggermente tesa, assicurandomi che avrebbe
tenuto la bocca chiusa. Mi fidavo poco, ma non potevo fare nulla ormai,
se non sperare in quella promessa.
Quando si rialzò ci stavamo per salutare. Mancava poco ormai
alla cena, e dovevo ancora prepararmi.
«Si vede così tanto che non ho gli stessi ricordi
dei miei
nakama?» mi chiese all’improvviso, poco prima che
raggiungessimo la porta, portando la mano sinistra al petto, dove
sicuramente aveva l’enorme cicatrice causata da Akainu.
«Un po’…» risposi sincera,
«Lo si vede
dal tuo sguardo, non sei più così
spensierato.»
Rufy annuì pensieroso, e si calò in testa con
decisione
il cappello. Era triste, sicuramente lui e la fenice erano quelli che
più soffrivano durante questo loro viaggio. Per di
più
per colpa di quelle radiazioni lui aveva perduto per ben due volte i
suoi compagni, e sicuramente dopo i due anni di allenamento non si
aspettava un altro addio.
«Non sono mai stato bravo a dire bugie… Non sono
in grado
di proteggere chi amo, come potrei essere capace a fare
altro?»
affermò con un tono malinconico, che non gli apparteneva per
niente.
«Non è stata colpa tua. Nessuno poteva immaginare
che
sarebbe successa una cosa del genere, sappi che nemmeno noi, che
leggevamo solamente la vostra avventura, avremmo mai immaginato un
finale del genere per quello scontro a Sabaody, e tantomeno per quella
maledetta guerra. Mai.» affermai seria, guardandolo negli
occhi.
Era la verità. La morte di Ace e la sconfitta dei Mugiwara
erano
stati fulmini a ciel sereno per tutti i fan, erano due eventi a cui
nessuno era preparato, ed avevano scioccato tutti quanti.
Cappello di paglia annuì di nuovo, stampandosi un sorriso
sul
volto. Quante volte mi ero nascosta dietro ad un sorriso? Quante volte
avevo indossato la maschera della felicità e della
spensieratezza in quei mesi? Quante volte avevo ringraziato il cielo,
che l’unica in grado di capire quando un mio sorriso non
arrivava
agli occhi, fosse Elena? Ormai ero un’esperta nel settore, ed
il
sorriso di Rufy era solamente un lavoro da principiante, nessuno ci
avrebbe creduto. Probabilmente però, i suoi compagni avevano
deciso, saggiamente, che non fosse il caso di indagare oltre.
Quante volte Elena aveva fatto finta di nulla? E quante volte erano
stati i miei amici ad ignorare la mia finta gioia di vivere? Anche
volendo, non sarei riuscita a contarle. Uscendo dal salone ci dirigemmo
alle nostre camere, scortati da un maggiordomo, che ci stava attendendo
nell’atrio. Nessuno dei due si era accorto che un altro paio
di
orecchie avevano udito quelle parole. Nessuno dei due si era accordo
che due occhi ci avevano osservato durante tutta la nostra
chiacchierata. Eppure quello sguardo, quell’origliare,
avevano
appena stravolto il destino di tutti.
-----------------------------------------------------------------------------------------
Eccomi
finalmente!! scusatemi infinitamente per il ritardo, ma proprio non ce
l'ho fatta ad aggiornare prima!!! Comunque non ho molto da dire, non
è che succeda moltissimo in questo capitolo, però
si
gettano parecchie basi xD
niente, alla prossima!!! e Grazie di cuore a tutti coloro che seguono,
ricordano, preferiscono e recensiscono questa storia!!! e anche ai
lettori silenziosi, grazie di cuore!!
e come da tradizione, la domanda:
chi sarà
la persona che ha assistito a tutta la conversazione???
Stavolta faccio una
domanda
presuntuosamente incentrata sulla mia storia, violiate perdonarmi, ma
sono curiosa di sentire le teorie u.u
Baci baci, alla
prossima!!!
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Capitolo 11 *** 10. Moda e telefonate: qualcuno ci salvi! ***
c1
Entrai
nella camera davanti alla quale mi aveva lasciata il maggiordomo
silenzioso, e potei subito sentire lo scrosciare dell’acqua
in
bagno. Elena era nervosa, e le docce calde la calmavano, quindi era
sicuramente immersa nel vapore per distendere i nervi. Mi sedetti sul
letto, che produsse uno strano rumore, come di carta che viene
appallottolata. Mi rialzai, scoprendo di essermi seduta su un
biglietto, e la scrittura era quella ordinata ed elegante della mia
amica. Nemmeno paragonabile alle zampe di gallina che producevo io. Non
c’era verso che la mia scrittura migliorasse, era sempre
stata
pessima, fin dalle scuole elementari, e non era cambiato nulla,
nonostante i miei sforzi a riguardo.
Lessi il biglietto, che mi avvisava che lei era in doccia e che le
dovevo, ovviamente, parecchie spiegazioni. Fin qui niente di insolito,
ma fu il “PS” alla fine a farmi tremare.
“PS. Ha
chiamato tua mamma, richiamala appena puoi, io la mia l’ho
appena sentita. In bocca al lupo!”
Ok, ero morta, sepolta, riesumata, resuscitata, riuccisa ancora
più violentemente e sepolta di nuovo! Mi ero totalmente
scordata
di avvisare mia madre del ritardo, di come erano andate le cose e,
soprattutto, non mi era nemmeno passata per la testa
l’ipotesi di
chiederle il permesso di rimanere sul lago per cena.
Mi avvicinai al comodino, impugnando il mio cellulare come se fosse
l’unico aggeggio in grado di proteggermi, separandomi
fisicamente
dal mostro che stavo per affrontare, ma anche l’oggetto che
mi
avrebbe potuta uccidere, mettendomi in contatto con l’essere
più spaventoso della terra, la mamma arrabbiata.
Altro che mostri marini, giganti e uomini pesce tirannici, mia madre
era decisamente più spaventosa! Premetti il tasto di
chiamata
rapida ed attesi, ormai rassegnata.
Rispose al terzo squillo. Buon segno, perché significava che
non
aveva il telefono in mano al momento della chiamata, e quindi non era
poi così impaziente di sentirmi forse, ma anche pessimo
segno
per me, che avevo sperato in una non-risposta fino
all’ultimo.
Povera stupida ragazzina illusa…
«Selene?»
«Hem, sì mamma…
Ciao…»
«Sì mamma un corno! Hai idea dello spavento che mi
hai
fatto prendere? Non un messaggio, non una telefonata, niente di
niente!!! È da mezzogiorno che non ti sento, e sono le
diciotto
e quarantadue minuti!» ringhiò.
Porca miseria, ore e minuti perfetti, era davanti
all’orologio.
Pessima notizia. L’operazione “calma la
bestia” ebbe
inizio.
«Sì, mi dispiace tantissimo mamma, mi sono
totalmente
dimenticata! Ma non hai idea di cosa sia successo, vedi io ed
Elen-»
«È proprio questo il punto! Non avevo la
più
pallida idea di cosa vi fosse accaduto! Per quanto ne sapevo potevi
essere annegata nel lago assieme a quel rimbambito! Mi hai spaventata a
morte!!»
Mia madre sapeva del quasi annegamento di Ace? Ma come? Sì
beh
ok, eravamo probabilmente in diretta mondiale quando era caduto, ma
come diavolo faceva a non sapere che poi ero riemersa
dall’acqua?
«Come fai tu a saper-» tentai di chiederle, invano.
«Ne stanno parlando tutti i telegiornali!!! Solo che poi fino
alle otto i telegiornali non ci sono! E questo stupido decoder ha
deciso di rompersi proprio oggi, quindi non potevo sapere un accidenti
di niente! Sapevo solo che una stupida ragazzina dai capelli corti si
era lanciata nel lago a salvare coso di fuoco!»
Ok, quindi eravamo finite in TV. Bene. Però effettivamente
era
ovvio, c’erano telecamere e giornalisti ovunque, sperare di
essere passate inosservate era un’utopia bella e buona.
Chissà cosa avevano trasmesso… Il mio reggiseno
era forse
finito in mondo visione? Maledizione!
Evitando di correggerla suggerendole il vero soprannome di Ace, che non
era di certo “coso di fuoco”, cosa che
l’avrebbe
solamente fatta imbestialire ulteriormente, tentai di farle la domanda
che mi interessava:
«Cosa hanno detto alla TV?» dissi in fretta,
stupendomi di
essere riuscita a terminare la frase. Era un piccolo miglioramento, un
microscopico passo verso il dialogo! Meglio di niente insomma.
«Che uno era caduto, non sapeva nuotare, una ragazza del
pubblico
si è tuffata per soccorrerlo. Non hanno rivelato i vostri
nomi,
e i vostri volti sono stati censurati, perché avreste potuto
essere minorenni e non potevano mandarvi in onda senza il consenso
scritto dei genitori. Hanno interrotto la diretta nel momento in cui
Portughise, così mi pare l’abbiano chiamato,
è
caduto in acqua, perché temevano il peggio. Ma ho
riconosciuto
subito chi erano le due incoscienti, anche senza vedervi in faccia!!!
Lo sai vero quanto sono pericolose le acque del lago? Quante volte te
l’ho detto? Ma tu sei di coccio vero? Fai sempre di testa
tua!
Tale quale a tuo padre! Almeno stai bene? Quando tornate? E
come
farai a guidare di notte, stanca morta e con il traffico? Per
l’amor del cielo mi dici cosa ti passa per la testa? Ti ho
assecondata, ma hai quasi vent’anni, non è ora di
crescere
e di lasciare perdere i cartoni animati?» ecco, eravamo
appena
passati dalla fase incazzatura alla fase predica. Forse preferivo
l’incazzatura, almeno era gestibile con il silenzio e le
scuse
mortificate. La predica invece esigeva una mia risposta esauriente e
convincente, che al contempo accontentasse mia madre. Dovevo pensare
bene alle parole che stavo per dire, e sperare che il filtro, che ormai
avevo catalogato come “difettoso”, non mi facesse
altri
scherzetti. Sorvolai nuovamente sull’ignoranza di mia madre
riguardo al mondo di One Piece, che di sicuro non era aiutata dalle
televisioni italiane. Tra censure e nomi stravolti, c’era un
abisso tra chi seguiva il Manga o gli episodi in giapponese, e chi si
affidava al doppiaggio italiano.
«Mamma mi dispiace davvero di averti fatta preoccupare, non
mi
è proprio venuto in mente di avvisarti, sono successe
moltissime
cose… E sì, sono consapevole della
pericolosità
delle correnti, ma non potevo certo lasciarlo morire, ero
l’unica
nelle vicinanze che sapeva nuotare! Ora comunque siamo in una villa sul
lago, ci accompagneranno degli autisti dopo cena, non
guiderò
io… Stiamo bene comunque, ed ignorerò
l’ultima
parte del tuo discorso perché non sono in grado di
affrontare
l’argomento senza alterarmi, quindi lasciamo perdere
ok?»
Sperando di non aver scordato nulla attesi la sua risposta, confidando
in un tono meno aggressivo e meno di rimprovero.
«Ok, l’importante è che stiate bene!
Degnati di avvisarmi quando partite!»
Era andata bene… dopo tutto…
Dopo aver salutato mia madre bussai alla porta del bagno, annunciandomi
ad Elena, che uscì poco dopo avvolta
nell’accappatoio, con
i capelli quasi totalmente asciutti. Probabilmente aveva usato una di
quelle cuffiette di plastica, per evitare di doverseli asciugare
nuovamente. Per me l’asciugatura era un processo rapido,
talvolta
bastava la salvietta, ma per i suoi lunghi capelli castano chiaro, era
un operazione che richiedeva parecchio tempo ed impegno.
«Hai già sentito tua madre?» mi chiese
guardinga. Le
incazzature della mia cara mammina erano leggenda tra i miei amici. Chi
aveva assistito ad una nostra lite ne era rimasto affascinato. Eravamo
due furie, urlavamo, ci lanciavamo cose, ci inseguivamo.
Però
mai una volta che ci fossimo mancate di rispetto a vicenda. Eravamo
un’accoppiata stranissima, ma ci volevamo bene.
«Si, non è andata così male, ci siamo
salutate prima di riattaccare!» risposi, facendo spallucce.
Elena sollevò un sopracciglio, assumendo un’aria
perplessa, ma non fece altre domande sulla conversazione telefonica che
avevo appena terminato, scatenandosi invece sulla conversazione reale
che avevo avuto con Rufy.
«Allora, cosa ti ha detto Rufy? Hai scoperto qualcosa di
interessante?» domandò sedendosi sul bordo del
letto,
accanto a me.
«Si, ho scoperto perché lui non può
rivelare i suoi
ricordi… Poi mi ha ringraziato per aver salvato suo
fratello, ed
io gli ho risposto che mi sono innamorata di Ace.» Riassunsi
velocemente, con voce piatta, guardando attentamente una graziosissima
nappa del tappeto persiano, che copriva praticamente tutta la
superficie della stanza, come una moquette variopinta. Certo che quella
nappa era proprio interessante… Ma cosa diavolo stavo
facendo?
Scossi la testa e mi voltai per guardare Elena, che non aveva proferito
parola. Rispondeva al mio sguardo con occhi sgranati e sopracciglia
aggrottate. Il suo volto esprimeva chiaramente il suo immenso stupore.
Quando si riprese leggermente, mi afferrò un braccio,
stringendomi leggermente.
«Mi prendi in giro? Lo sai che la prima cosa che
farà Rufy
sarà andarglielo a dire vero? »
affermò,
riscuotendosi dallo stato di shock che le avevo procurato. Era questo
che amavo di lei, non mi aveva contestato la parola
“innamoramento”, non mi aveva guardata storta
perché
provavo sentimenti per un personaggio totalmente irreale. Si era solo
preoccupata che il suddetto personaggio irreale, ora divenuto reale,
scoprisse questo segretuccio.
«Mi ha promesso di non farlo…»
sussurrai,
convincendo poco persino me stessa. Rufy avrebbe mantenuto la promessa?
Diceva sempre che le promesse andavano sempre mantenute…
«Oh beh, vedremo se la manterrà, di solito
è un
ragazzo di parola... Ma ora dimmi tutto dei ricordi!! Perché
non
dice nulla a suo frate-»
Con uno schianto secco la porta si spalancò, interrompendo
le parole di Elena e facendoci sobbalzare.
Nami entrò alla cieca, sommersa da una montagna di tessuto
colorato e seguita da Robin e Bibi, che chiuse la porta alle sue
spalle, con delicatezza. Finezza abbastanza inutile dopo che la rossa
aveva appena demolito i cardini con un calcio. Non potevano aprirle
quelle due?
Mi ero spaventata da morire, e la principessa lo notò,
scusandosi in fretta per l’irruenza di Nami.
«Ragazze vi ho portato un po’ di abitini per
stasera! E ho
anche le scarpe! Ho pensato che i vostri abiti non fossero adatti ad
una cena, così vi ho portato tutti questi tra cui
scegliere!!!» esclamò allegra la navigatrice,
gettando
tutto sul letto e posizionando sei scatole di scarpe sul tappeto, come
se non avesse fatto assolutamente nulla di insolito.
L’idea che i vestiti fossero stati scelti da lei non mi
spaventava, mi gelava letteralmente il sangue dal terrore, gelo
amplificato anche dalla modalità di entrata che aveva appena
attuato.
L’agglomerato di tessuti e colori giaceva minaccioso sul
copriletto floreale, e sembrava voler divorare qualsiasi cosa si
avvicinasse a lui. E quel “qualsiasi cosa”, secondo
i
desideri di Nami, dovevo essere io.
«Forza, cosa aspettate? Noi abbiamo già deciso, vi
fa
nulla se rimaniamo qui con voi a prepararci?» insistette la
rossa, porgendo una mano a Bibi, che le consegnò una borsa
che
non avevo notato prima.
«Ok, allora voi cambiatevi, intanto noi due…
Sceglieremo i
vestiti, va bene?» affermai, continuando a guardare con
occhio
preoccupato i vestiti sul letto. Perché diavolo ero convinta
che
da li a poco avrebbero preso vita, tentando di fagocitarmi? Il mio
subconscio stava forse tentando di dirmi qualcosa? Ovviamente si, ma
come potevamo rifiutare ormai?
Le tre ragazze annuirono, iniziando a tirare fuori dalla borsa i loro
accessori e i loro abiti. Mary Poppins era una dilettante a confronto.
Intanto io ed Elena ci avvicinammo circospette agli abiti ammassati sul
letto, iniziando ad esaminarli. Erano tutti molto
“mini” e
poco “abiti”, fazzoletti di tessuto poco coprente e
gonne
inguinali. Male, molto male…
Riuscii a trovare un vestito nero, con uno scollo a V molto profondo
sulla schiena, ed accettabile sul petto. Persino a lunghezza era
accettabile, infatti la morbida gonna mi arrivava poco sopra il
ginocchio. Il tessuto era soffice e leggero sul busto, mentre uno
strato di chiffon andava a rivestire la gonna, rendendola
più
voluminosa e svolazzante. Elena fu meno fortunata, infatti
l’unico abito che riuscì a farsi andare bene era
un
monospalla turchese, colore che le stava d’incanto, ma che
per i
suoi gusti risultava troppo appariscente. Grazie a quella
tonalità di azzurro però, i suoi occhi
cristallini
venivano valorizzati moltissimo, sicuramente avrebbe fatto girare
parecchie teste quella sera, e data la sua timidezza non ne era affatto
lieta. Evitai di farle battutacce sul fatto che avrebbe fatto girare la
testa al dottorino, perché ero in una posizione troppo
scomoda
per potermelo permettere.
Ci cambiammo, ed il risultato non era così male dopo tutto.
Il
nero del mio abito era identico a quello dei miei capelli, ed in
più il vestito mi andava a pennello, non era troppo volgare,
e
nemmeno troppo appariscente.
Nonostante le paure di Elena, anche il suo vestito le stava
d’incanto, ed indossato non era nemmeno
così…
Turchese!
Nami aveva scelto un tubino rosso, che donava ai suoi corti capelli dei
riflessi spettacolari, stesso effetto faceva il blu notte
dell’abito di Bibi, che come noi aveva optato per una
lunghezza
ed una copertura accettabili.
La bella Robin, in viola, era a dir poco magnifica invece. Sarebbe
stato fantastico immortalare quel momento, eravamo cinque bamboline
eleganti e sexy.
Si, persino io mi sentivo sexy in quelle vesti, nonostante il mio
decolté fosse ridicolmente insignificante rispetto a quello
delle tre fanciulle, mi sentivo veramente bella e vagamente attraente.
Quella sicurezza però sarebbe sparita una volta uscite dalla
camera, soffiata via dal soffio della timidezza. Ne avevo poca, ma
bastava ed avanzava in certi frangenti, amavo dire che non ero timida,
ma semplicemente detestavo essere al centro dell’attenzione.
Elena corse, per quanto le permettessero i tacchi, a frugare nello
zaino, portato in stanza non so quando da non so chi, e tirò
fuori la digitale. Quella ragazza mi leggeva nel pensiero, ne ero
sempre più convinta!
«Che ne dite di fare una foto?» domandò,
con gli
occhi che brillavano per l’eccitazione. Anche lei, come me,
voleva immortalare quel momento unico. Quando ci sarebbe ricapitato di
prepararci per una serata con la Gatta Ladra, la principessa di
Alabasta e l’ultima discendente dei demoni di Ohara?
Le ragazze acconsentirono con entusiasmo, ma prima bisognava essere
definitivamente pronte.
Non so quanto tempo dopo, finito di sistemare trucco e capelli, eravamo
veramente perfette, pronte per farci una bella fotografia.
L’autoscatto era sempre una sfida, quindi impostammo una
modalità che assicurava almeno una foto decente su svariati
scatti. Era la nostra preferita, perché era veramente
l’unica funzione in grado di farci ottenere una foto
accettabile
senza ritentare diecimila volte.
Dopo sette secondi dalla pigiatura del bottone, il flash
iniziò
a torturarci gli occhi, intanto che noi cambiavamo posa, ridevamo e ci
ridicolizzavamo vergognosamente. Finita la tempesta di luce bianca,
Elena trotterellò a controllare i risultati ottenuti. A
parte
uno scatto, uscito totalmente sfocato, ed il primo, nel quale Elena era
ancora di spalle, impegnata nella corsa verso il suo posto, erano
uscite tutte stranamente belle. Persino io, che evitavo le fotografie
come la peste, vista la mia scarsa fotogenicità, ero uscita
discretamente. Anzi, in una ero proprio uscita bene!
Quando finimmo di commentare gli scatti, bussarono alla porta della
stanza. Era il maggiordomo che ci avvisava che la cena stava per essere
servita.
Ci guardammo un’ultima volta nel grande specchio che
ricopriva
interamente le ante del guardaroba, ed uscimmo. Elena e Bibi avevano
una perfetta coda alta, la prima aveva lasciato lisci i suoi capelli,
mentre la seconda li aveva arricciati abilmente, dando volume
all’acconciatura. Nami e Robin non si erano sbizzarrite
più di tanto, forse solo la rossa aveva aggiunto un piccolo
fermaglio a forma di rosellina al solito look. Per quanto riguardava
me, con il mio taglio corto avevo poco su cui lavorare, quindi mi ero
limitata a spettinarmi ordinatamente. Il mio unico obbiettivo quando mi
sistemavo i capelli, era evitare di assomigliare ad un cespuglio di
rovi oppure a Paul McCartney nei tempi d’oro. E non sempre
riuscivo a scongiurare la seconda somiglianza.
Scendemmo le scale, precedute dal domestico, che ci condusse fino alla
sala da pranzo. Se il salotto mi era parso enorme al mio arrivo, quella
stanza era a dir poco colossale. C’era un'unica, gigantesca
tavolata totalmente bianca. Solo il variopinto assortimento cromatico
dell’abbigliamento dei commensali, già accomodati
attorno
al tavolo, dava colore al luogo, ed era maledettamente fuori posto in
quello spazio latteo. Perfino le pareti erano bianche e spoglie, ornate
solo da qualche finestra che si affacciava sul giardino, ormai immerso
nella penombra serale. Una villa così enorme, arredata e
corredata con così poco gusto estetico era veramente uno
spreco
immane.
Nel momento stesso in cui formulai quel pensiero mi venne in mente
l’ipotesi che non si trattasse veramente di una villa, ma di
un
albergo. Se così fosse stato, si sarebbe spiegato lo stile
poco
definito, la quantità esagerata di camere e gli spazi comuni
tanto ampi. Non avevo notato però nessuna insegna, nemmeno
una
reception, ed inoltre nessuna delle camere aveva una chiave ed un
numero, o almeno, così mi pareva.
Distolsi lo sguardo e l’attenzione
dall’arredamento,
concentrandomi sui pirati, sui marines e sui civili che sedevano di
fronte a me. Si prospettava una cena molto interessante, soprattutto
considerando la disposizione dei posti a sedere. A quanto pareva
infatti, Elena sedeva tra Nami e Rufy, mentre io ero stata posizionata
tra Garp ed Ace, perfettamente di fronte alla mia amica.
Sì, si prospettava decisamente una serata alquanto
movimentata.
Speriamo solo di non finire nel bel mezzo di una lite tra nonno e
nipote, non avevo nessuna intenzione di finire strinata o colpita da un
pugno gigante. E non bramavo nemmeno di essere ricoperta di briciole e
rimasugli di cibo.
Mi sedetti al mio posto, sospirando a quel pensiero. Sarei tornata
intera ed illesa a casa? Ne dubitavo. Stesso discorso valeva per la mia
amica, che dovendo affrontare Rufy durante un pasto, era in pericolo
quanto me. Avremmo superato incolumi il convivio? Ai posteri
l’ardua sentenza… Come no, ci mancavano le
citazioni
manzoniane ora.
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Ciao!
Eccomi qui, con un altro capitolo di passaggio... Lo so che siete
stufe, ma si è scritto da solo, e toglierlo mi dispiaceva!
Spero
di risollevare l'"azione", anche se questa storia non è un
avventura nel senso letterale del termine, nel prossimo capitolo!
Ribadisco che sono sempre sorpresa dai vostri commenti, sia per la
quantità che per il contenuto, sono veramente contentissima
che
vi piaccia questa cosa che sto scrivendo xD bene, ora ovviamente non vi
rivelo chi ha origliato, però posso dirvi che il personaggio
in
questione l'avete nominato! non dico chi, non dico quante volte, ma
l'avete fatto! xD quindi brave/i!
ed ora...
cosa ne pensate della
censura
italiana sugli anime? secondo voi, perchè la attuano
così
spietatamente, talvolta rendendo incomprensibili parecchi aspetti della
storia? (non parlo solo di one piece)
Baci baci, alla
prossima!!!
Immagini
e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di
lucro
|
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Capitolo 12 *** 11. Cibi, bevande ed attacchi d'ira! ***
c1
Non
feci nemmeno in tempo a sistemarmi il tovagliolo sulle ginocchia, come
mi avevano insegnato a fare, che Sanji me lo strappò
letteralmente di mano, e con occhi adoranti provvide a risistemarmelo,
perfettamente piegato, sulle mie gambe, avvicinandomi di peso al tavolo
e lodando in maniera eccessiva la mia beltà. Mi avevano
sempre
detto che il rosso era un colore che mi donava moltissimo, ed in quel
momento, con le guance in fiamme, sperai che non tutti mi avessero
mentito spudoratamente nel corso degli anni. Mi calmai quando il cuoco
riservò lo stesso trattamento ad Elena e alle altre ragazze,
distogliendo da me l’attenzione generale. I suoi complimenti
riecheggiavano per tutta la sala, generando perplessità e
ribrezzo sui volti maschili. Descrivere, per esempio,
l’espressione di Law e Kidd era impossibile, non avevo mai
visto
tanto sdegno, schifo e disgusto su un’unica faccia. Il povero
Sanji rischiava di trovarsi sminuzzato e successivamente infilzato
dalle posate, a seguito di un perfetto attacco combinato delle due
supernove. Mi scappò un risolino a quel pensiero, che non
sfuggì ad occhi di falco. Ma perché
quell’uomo
doveva avere degli occhi così? Non avevo visto il suo
sguardo
spostarsi dal cuoco alla sottoscritta, eppure avevo percepito
chiaramente quelle gemme d’ambra posarsi su di me. Mi voltai
d’istinto verso di lui, e rimasi incatenata al suo sguardo.
Il
sorriso mi si cancellò dal volto, ed un’innata
paura
iniziò a farsi strada dentro di me. Quello che aveva detto
Hancock a Marineford era la pura verità, chiunque guardasse
quegli occhi, sarebbe rimasto bloccato dalla paura.
Ma al diavolo queste sciocchezze, era un uomo come un altro, un
semplice essere umano. Il fatto che girasse su una barca praticamente a
forma di bara, vivesse in un castello diroccato e si portasse dietro
un’enorme spada nera dall’elsa a croce, erano
semplici
dettagli. O forse no?
Fatto sta che non distolsi lo sguardo. Forse, anzi sicuramente, avrei
perso quel duello, ma almeno ci avevo tentato. Non potevo passare tutta
la serata a rabbrividire per colpa di quel capriccioso e super sexy
spadaccino dai baffetti alla D’Artagnan. Volevo godermi il
momento, non tremare di paura ogni tre secondi!
Mentre il nostro duello di sguardi imperversava, le lusinghe di Sanji
arrivarono alla dolce Nami, che lo ringraziò con un sensuale
cenno del capo, scostandosi poi i capelli dietro l’orecchio,
andando a scoprirsi il collo affusolato. Inutile dire che
ciò
provocò al povero cuoco una cospicua emorragia nasale,
prontamente arginata da Chopper con un tovagliolo.
«Nami mannaggia! Perché devi fare così
tutte le
volte? Lo sai che è sensibile a certe cose!»
rimproverò la renna, mentre la rossa ridacchiava ed il cuoco
si
crogiolava nella bellezza di quest’ultima.
Il mio duello personale con lo spadaccino andò in fumo, a
causa
di uno scoppio di risa generale. L’ilarità della
sala
strappò un sorriso persino allo scontroso Smoker, che
provvide
immediatamente a mascherarlo accendendosi i suoi amati sigari. Anche
Kidd si lasciò sfuggire una smorfia, vagamente somigliante
ad un
sorriso trattenuto.
Ma l’allegria del momento fu interrotta da Paulie, che rosso
in
viso si alzò di scatto, rovesciando a terra la sua sedia. I
pugni stretti ed i denti che digrignavano non promettevano nulla di
buono; sembrava sul punto di esplodere, e non era per niente un buon
segno.
Probabilmente non fui l’unica a pensarlo, visto che molti
commensali si irrigidirono alla vista del carpentiere furibondo.
Nemmeno il richiamo all’ordine di Iceburg sembrò
raggiungerlo, e non servì a fermare l’esplosione
imminente.
«Scostumata! Siete tutte delle svergognate! Non è
possibile che vi permettano di circolare così, siete
praticamente nude! Copritevi!» gridò il folle
falegname,
causando pochi secondi di silenzio totale. Ok che era un ragazzo
timido, però che diamine, un briciolo di contegno non
riusciva
ad averlo? Cosa avrebbe fatto se l’avessimo portato in una
discoteca, o peggio, in spiaggia? Non volevo nemmeno immaginarlo.
Ora se ne stava fermo, ritto al suo posto, sempre con i pugni tesi e i
denti stretti. Il rossore si era concentrato sulle gote, come a voler
sottolineare l’imbarazzo del momento. Fu la vecchia Kokoro a
spezzare il silenzio, ridendo di gusto, ed intimando al giovanotto di
sedersi e di non importunare le ragazze con queste sciocchezze
medievali. Quella donna era una forza della natura, assieme a Dadan ed
alla dottoressa Kureha, aveva già fatto sparire minimo
quattro
bottiglie di vino, e la cena tecnicamente non era ancora iniziata!
Potevano tranquillamente fare concorrenza al vecchio Barbabianca ed al
Rosso in fatto di liquori. E non dimentichiamoci poi del burbero
spadaccino dai capelli verdi, anch’esso estimatore di bevande
alcoliche. Decisamente, ci sarebbe stato da divertirsi quella sera, se
tutti fossero arrivati a fine pasto.
Quando Paulie si risedette composto ed imbarazzato, un nuovo attacco di
risa invase la sala, coinvolgendo tutti quanti. Persino Newgate rideva,
guardando i suoi figli con uno sguardo amorevole, che mi fece stare
male. Era lo stesso sguardo che aveva riservato ad Ace, quando si era
addormentato dopo l’abbuffata in onore della sua promozione a
comandante della seconda flotta.
Mi mancava essere guardata così, e non avrei mai
più
rivisto gli occhi bruni di mio padre assumere
quell’espressione,
potevo rivederlo solo nei miei ricordi, e la mia paura più
grande era che con il tempo, anche quelli svanissero.
Il vecchio imperatore si accorse del mio sguardo, e posò su
di
me il suo. Non avevo la forza per sopportare la sua pietà, e
tantomeno per sostenere un altro sguardo tanto profondo. Dopo tutto,
gli occhi di Mihawk e quelli di Barbabianca non erano così
diversi tra loro, solo che i primi ispiravano timore, i secondi affetto.
Tentai di distrarmi, cancellando quei tristi pensieri dalla mia mente,
non era quello il momento per rispolverare il passato, dovevo vivere il
presente!
Così mi concentrai sulla risata di Ace, che come una dolce
tortura, carezzava il mio cuore, simile ad una piccola mano rivestita
di velluto che accarezzasse l’anima. Era poi così
sciocco
essersi innamorate di un cartone? Di un personaggio inesistente?
Probabilmente si, ma ora quel personaggio era qui, accanto a me, in
carne ed ossa, come potevo rimanergli indifferente?
«Allora, Selene, come siamo dal vivo?» mi chiese
una voce
carezzevole alla mia destra. Mi voltai, perdendomi in un mare di
lentiggini. Era maledettamente vicino, e le calamite nere che aveva per
occhi, non aiutavano a migliorare la situazione. Il cuore perse il suo
battito regolare, iniziando una danza frenetica nel mio petto. Deglutii
a fatica, e cercai nella mia mente la risposta, anzi, la domanda,
perché avevo dimenticato cosa mi avesse appena chiesto.
«C-come scusa?» domandai imbarazzata, tingendo
nuovamente di rosso le mie gote.
Lui dal santo suo, sorrise, grattandosi la testa con la mano,
imbarazzato forse? No, sicuramente era stupito dalla mia reazione
idiota. Che figuraccia avevo appena fatto, mi stavo comportando come
una stupida ragazzina innamorata. E la cosa peggiore era che io mi
sentivo veramente una stupida ragazzina innamorata. Maledizione.
«Ti ho chiesto come ti sembriamo… Nella
realtà,
nella tua realtà insomma… Siamo come ci avevi
immaginato,
oppure abbiamo deluso le tue aspettative?» mi richiese
gentilmente.
«Siete esattamente come vi immaginavo, anche
caratterialmente.
È stranissimo vedervi qui in carne ed ossa, voi che fino a
ieri
eravate solamente dei… dei disegni o delle animazioni.
È
surreale, però… è molto bello vivere
questa
esperienza, è un sogno che si avvera!» risposi,
tentando
di non balbettare, di tenere la voce relativamente ferma e di non
esprimermi come se fossi una fanatica. Anche se ammetto che
l’idea di saltargli al collo gridandogli che era il
personaggio
più figo di tutta la storia, mi era passata per la testa. A
quanto pareva però, il filtro idee-azioni funzionava bene, a
differenza del suo compare pensieri-parole.
Ace mi sorrise, e per l’ennesima volta il mio folle muscolo
cardiaco smise di battere. Avevo ipotizzato di non sopravvivere alla
cena per la voracità dei miei vicini di posto, ma mai avrei
creduto di poter perire d’infarto a causa del sorriso di
quello
zolfanello.
Sorrisi di rimando, con le guance ormai perennemente scarlatte.
Ringraziai di cuore il caso, che volle far entrare in
quell’istante una schiera di camerieri, carichi di piatti e
vivande, che iniziarono a distribuire a tutta la tavola, distraendo
l’attenzione del mondo dalla sottoscritta.
I servizi furono un flusso continuo, eppure dopo una buona mezzora ero
riuscita ad addentare forse due bocconi di cibo. Il mio piatto infatti
era costantemente vittima di saccheggi; che fossero mani umane, di
fuoco o di gomma non lo sapevo mai con certezza, ma il cibo in ogni
caso spariva. Le risate erano incessanti, tra Ace che si strozzava con
il cibo, Rufy che si allungava ovunque per rubarlo e tutti gli altri
che tentavano di difendere il loro piatto come meglio potevano era
impossibile non divertirsi. Però, ahimè, io ed
Elena non
avevamo nessuna abilità speciale, non potevamo quindi
mettere a
guardia del piatto delle posate, come aveva fatto Kidd, e nemmeno
inserire il nostro piatto in una cupola inattaccabile. Con calci, pugni
e spade non ce la cavavamo per niente bene, le corde non le sapevamo
gestire e non eravamo nemmeno imperatrici pietrificanti o imperatori
con un’Haki talmente potente da scoraggiare persino il
fiammifero
Lupin dall’allungare il braccino.
L’unico che come me era vittima dei saccheggi del moro, era
la
fenice, che con l’esasperazione sul volto si ritrovava
più
volte ad inforchettare il piatto vuoto, ottenendo solo un alone di
bruciato sulla posata.
Ormai io mi ero rassegnata, ed aspettavo in grazia un attacco di
narcolessia collettivo dei tre furfanti, mentre Elena sembrava
più alterata.
La sua posizione, proprio a fianco di Rufy, le impediva di toccare
cibo, e fin qui niente di strano, ma cappello di paglia non sapeva i
rischi che si potevano correre rubando viveri dal piatto a quella
fanciulla. Elena infatti era una gran mangiona, il suo peccato era
certamente la gola, e guai a chi si frapponeva tra lei ed il cibo.
La cosa che più mi dava sui nervi però, era la
sua linea
impeccabile. Poteva mangiare tutto quello che voleva, senza mettere sui
fianchi un filo di grasso, mentre io ogni sgarro lo vedevo magicamente
comparire su pancia, cosce e glutei!
Mi faceva un’invidia nera, l’avevo anche
soprannominata
“pozzo senza fondo”, come Jewelry Bonney, proprio
per la
sua voracità sconfinata.
Iniziai ad allarmarmi quando la vidi cambiare impugnatura della
forchetta, ingoiai il prezioso boccone, scampato alla
voracità
della D, ma non riuscii comunque a fermarla in tempo.
Uno stridore che mi fece tremare i denti e drizzare la peluria
riempì la sala, procurando la stessa reazione a tutti.
Persino
Law e l’imperturbabile Mihawk strabuzzarono gli occhi a quel
suono. Per non parlare delle sceneggiate dei Mugiwara a riguardo. Non
c’era niente da fare, lo stridio della porcellana e
dell’acciaio faceva accapponare la pelle anche agli uomini
più pericolosi dell’universo di ONE PIECE.
Addirittura
l’ammiraglio Aokiji, che stava mangiucchiando pigramente,
mezzo
sdraiato sul tavolo, si rizzò a sedere rigido ed
infastidito.
Era bastato quel suono orribile per riportare calma e silenzio nella
sala, e la causa l’avevo di fronte.
Elena aveva letteralmente infilzato un dito di Rufy al suo piatto.
Cappello di paglia era immobile, con le guance piene di cibo e gli
occhi carichi di lacrime, tentando di non gridare prima di aver
deglutito, cosa che gli riuscì, ma con parecchie
difficoltà.
«Ora, te lo dico una sola volta… Rimetti le tue
manacce
nel mio piatto, e giuro che ti uso come tappeto elastico nel mio
giardino. Chiaro?» sibilò Elena, mantenendo la
presa sulla
forchetta. Somigliava maledettamente a Nami nelle sue incazzature
peggiori, e non fui l’unica a fare questo paragone; il povero
Chopper infatti attivò il Guard Point, tremando, mentre
Usopp
inscenava una morte apparente, guarnita di Ketchup. La tensione si
allentò solamente quando il povero Rufy si mise ad annuire
disperatamente, implorando Elena di lasciargli la mano, ormai gonfia.
Il silenzio era rotto solamente dai soffi e dai lamenti del capitano
dei Mugiwara, che agitava la mano forellata a destra e a sinistra.
Erano rimasti tutti stupiti dalla reazione di Elena, nessuno si
aspettava tanta violenza nel proteggere il proprio pasto. Non la
conoscevano proprio! Una volta aveva letteralmente ringhiato a mio
padre, che aveva tentato di rubarle l’ultima mozzarellina dal
piatto. Era stata una scena epica, da morire dal ridere.
Infatti anche nell’immensa tavolata, dopo il momento di
silenzio,
un nuovo scroscio di risate invase l’ambiente. La piccola
renna
mise due cerotti sul dito dolorante di Rufy, che guardava di traverso
l’imbarazzatissima ragazza.
Tra tutte le risate, quella di Ace era la più bella.
Così
graffiante e profonda, da farmi perdere l’ennesimo battito.
«Guarda che hai poco da ridere! Vale lo stesso discorso anche
per
te e il tuo caro nonnino! Giù le manacce dal mio
piatto!»
dissi, guardando il moro ed indicando il vecchio Marines, che
continuò a ridere di gusto. Ormai lo spavento se
l’erano
preso, grazie ad Elena, tanto valeva approfittarne per riuscire a
mangiare qual cosina!
Ace mi sorrise, rubandomi un altro battito cardiaco e facendomi
sprofondare nuovamente nella pece del suo sguardo. Le iridi oscure
sembravano brillare, come la vernice fresca; poteva
l’oscurità brillare, pur non emettendo luce? A
quanto
pareva si. Ma non era solo il colore e la profondità di
quegli
occhi a rapirmi, persino le ciglia erano perfette, e come pizzo nero
incorniciavano lo sguardo, carezzando gentilmente le lentiggini, ogni
volta che sbatteva le palpebre.
«Scusa, è l’abitudine… Non mi
capita spesso
di mangiare con accanto una ragazza… Sono cresciuto con
questo
vecchio ingordo e con Rufy, poi sulla nave di Barbabianca di ragazze
non ce ne sono molte. Abbiamo ananas ed uccellacci, ma poche
fanciulle!» mi disse, mantenendo lo sguardo incatenato al mio
e
continuando a sorridere sornione.
Risi anche io alla battuta su Marco, che effettivamente era coerente
con tutte le cattiverie che riuscivano a partorire le Fan del manga.
Non c’erano scuse che reggessero a difesa di
quell’acconciatura, era proprio orrenda.
Persino il vecchio imperatore rise, battendo un colpo sulla schiena
della fenice, che ringhiando stava per massacrare il compagno.
«A quanto pare è un vizio di famiglia saccheggiare
i
piatti altrui, vero viceammiraglio Garp?» dissi, voltandomi
verso
il marines, in modo da nascondere ad Ace il rossore che mi aveva
nuovamente invaso le guance.
«Bwahahahaha! Già, è proprio un vizio
di
famiglia!» affermò ridendo e sferrando un pugno in
testa
al nipote di fuoco.
«E porta rispetto a tuo nonno! Non sono un vecchio
ingordo!» aggiunse, lasciando Ace dolorante sulla sedia.
Risi ancora di gusto, avevo appena assistito di persona ad uno dei
famigerati pugni amorevoli di Garp l’eroe! Iniziai a
preoccuparmi
solo quando piccole scintille fosforescenti iniziarono a librarsi
nell’aria.
«Ace non ti azzardare!» gridai, voltandomi di
scatto verso
il moro, che con le mani unite ed il busto girato verso di me, stava
per incendiare dio solo sa cosa con le sue lucciole di fuoco.
Stranamente, oltre ogni mio pronostico, mi ascoltò,
spegnendo quelle scintille.
«Non ti avrei colpito, volevo solo strinare il
Vecchio…» mi disse, con un tono triste di scuse.
Mi
rammaricai immediatamente di aver gridato, e prontamente mi scusai,
giustificando la mia, più che fondata, paura che
nell’azione di “strinare il vecchio”
rimanessi
abbrustolita pure io, anche se non per sua diretta volontà.
Pugno di fuoco annuii, assicurandomi che non avrebbe più
tentando di incendiare qualcosa con me nei paraggi. Stavo per
ringraziarlo per il pensiero gentile, quando crollò con la
faccia sulle mie ginocchia.
Stavolta non mi spaventai, non ipotizzai nessuna morte improvvisa,
sapevo che era caduto vittima di uno dei suoi attacchi di narcolessia,
ma la cosa mi sconvolse comunque.
«Ci risiamo, eh!» disse la fenice, scuotendo la
testa con disappunto.
Intanto Elena si stava scusando in diecimila modi diversi con Rufy per
la sua reazione, ingozzandolo di cosciotti, che alternava alle sue
scuse.
Il mio corpo si era pietrificato invece, incapace di muovere un solo
muscolo e sentendo solamente il caldo respiro di Ace sulle mie gambe.
Nessun suono giungeva alle mie orecchie, se non il leggero respiro del
ragazzo, al quale posai distrattamente una mano sul capo, passando le
dita tra quei magnifici capelli corvini, forse più scuri dei
miei. Ringraziai il cielo che quella sera il moro indossasse
una
camicia; se fosse stato a petto nudo, dubito che sarei riuscita a non
svenire a quel contatto tanto intimo.
-----------------------------------------------------------------------------------------
Finalmente eccomi qui! E
finalmente la nostra Selene ed Ace sono un po' insieme! ^_^
sono più che consapevole che il capitolo è
chilometrico,
ma non riuscivo a tagliare nulla, e non volevo dividerlo!
così
ho suddiviso la cena in due, e questa è la prima parte! xD
avevo
sottovalutato i miei cari commensali nella valutazione di fare solo un
capitolo xD Comunque, parliamo della censura!! posso basarmi solo su
One Piece per ora, quindi mi limito a dire che secondo me è
una
sciocchezza. in italia devono capire che gli anime non sono cartoni
animati per bambini, e vanno trasmessi in certi orari e senza censure,
per non stravolgere la storia! io sinceramente penso che per un bambino
vedere il sangue nero/viola sia più sconvolgente che non
vederlo
rosso! a me personalmente fa molto più schifo xD
comunque non ci resta che confidare che in futuro gli anime vengano
doppiati da Mtv xD
niente, colgo l'occasione per ringraziare tutti i nuovi
lettori,
tutti quelli che hanno inserito la storia tra le seguite, tra le
preferite e tra le ricordate! in più ringrazio di cuore
tutti
quelli che mi lasciano recensioni, che mi invogliano a scrivere sempre
di più, ed ammetto che mi danno idee fantastiche a volte,
ispirando scenette comiche e non! ^_^ grazie davvero, sono veramente
contentissima che questa storia vi piaccia così tanto!
ed ora...
I vostri Anime/Manga preferiti quali sono?
Baci baci, al
prossimo capitolo!!! (che prometto non
tarderà ^_^)
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e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di
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Capitolo 13 *** 12. Attimi di quiete ***
c1
Era una
situazione surreale; io, una ragazza normalissima, a tratti persino
banale, mi trovavo a tavola con i personaggi più importanti
e famosi di ONE PIECE, ed inoltre Ace pugno di fuoco si era
letteralmente addormentato tra le mie braccia. Era decisamente un
sogno, ma che a nessuno venisse la malsana idea di svegliarmi,
l’avrei ucciso, sul serio.
«Ma non potete fargli prendere del Pharmasal? È un
farmaco che contrasta la narcolessia, sarebbe molto utile!»
disse Elena, osservando perplessa Ace. Da quando sua madre aveva
iniziato a lavorare nell’ambiente ospedaliero si era fatta
una cultura su svariate medicine e malattie. Una volta avevo un
raffreddore, un banalissimo raffreddore, e non sto nemmeno a tentare di
ripetere cosa mi aveva diagnosticato quella donna! A quanto pareva la
figlia aveva acquisito alcune conoscenze, a suon di sentirsele ripetere!
«Gurarara, è una benedizione che Ace si addormenti
durante i pasti! Altrimenti nessuno riuscirebbe a mangiare in santa
pace!» rispose Barbabianca, facendo sorridere tutti quanti.
Effettivamente due mani ladre in meno sulla tavola, davano certamente
più tranquillità ai commensali.
Dal canto mio però, il cibo non mi interessava in quel
momento. Il capo del moro giaceva sulle mie gambe, con il volto rivolto
verso il mio ventre. Potevo tracciare le linee del suo viso, contarne
le magnifiche lentiggini, ammirare il pizzo delle lunghe ciglia nere
ornargli le palpebre abbassate. La bocca semi aperta, dalla quale
usciva un respiro leggero e bollente. Quelle labbra socchiuse erano una
tentazione vivente, un invito a posarci almeno un dito, per sentire se
erano morbide quanto promettevano. Sarebbe stato più caldo
del normale un bacio con lui? Era fuoco dopo tutto, ma avrebbe
alimentato allo stesso modo il fuoco della passione? Arrossii a quel
pensiero. Non l’avrei mai scoperto, però avevo la
possibilità di ammirare quel volto perfetto da vicino.
Potevo sfiorare con le dita i setosi capelli neri, attorcigliandone
piccole ciocche, per poi lasciarle andare. Chissà se il suo
profumo mi sarebbe rimasto addosso, o se sarebbe svanito non appena il
sonno che l’aveva colto, fosse finito.
Persa nei miei pensieri, ignoravo la tavolata, che intanto aveva
ripreso a banchettare. Le conversazioni di sottofondo erano ovattate,
lontane. Per me esisteva solo il volto dell’angelo bruno che
avevo in grembo.
«Ti conviene mangiare qualcosa, eh.»
Le parole di Marco mi risvegliarono dall’ipnosi in cui ero
caduta ammirando la perfezione del moro, facendomi arrossire
nuovamente. Era tutta sera che arrossivo, avrei mai mantenuto il colore
roseo naturale delle mie gote, per più di mezzo minuto?
«Si hai ragione! Faresti meglio a mangiare in fretta anche
tu, prima che questo tritatutto si svegli!» dissi, riuscendo
a far sorridere la fenice.
Mi venne in mente una pessima battuta, su come facessero i pennuti a
sorridere con il becco, ma la tenni per me. Non avevo intenzione di
farmi odiare dal comandante della prima flotta. E poi poveretto, aveva
già Ace da sopportare, mancava solo che mi ci mettessi anche
io! Per non parlare delle cattiverie che alcune fan riuscivano a
partorire su di lui, i soprannomi del povero comandante erano i
più belli da leggere e sentire. Sarà
l’effetto dei capelli, sarà il frutto del diavolo,
ma Marco ispirava soprannomi assurdi ed improbabili.
Ripresi a mangiare sorridendo, tenendo però la mano sinistra
sul capo di Ace, accarezzandolo, come se avessi un gatto accoccolato
sulle ginocchia. Non so se furono proprio quelle carezze, o se nel
sonno facesse sempre così, fatto sta che le braccia
muscolose di Ace si allacciarono attorno alla mia vita, avvicinando il
mio corpo al suo. Con il volto sprofondato nelle pieghe del vestito ed
un sospiro di soddisfazione, il moro tornò a dormire come se
nulla fosse, mentre io dentro di me, andavo a fuoco.
Deglutii a fatica, mollando la forchetta nel piatto e scostandomi dal
tavolo, per poter vedere meglio il groviglio di membra che si era
creato.
Ace mi aveva letteralmente abbracciata, cingendomi in vita, ed aveva
premuto il suo viso sulla mia pancia. Il respiro del moro si era fatto
più profondo, mentre il mio era quasi inesistente. Solo
facendo questo confronto mi accorsi che avevo smesso di respirare.
Tentando di riacquisire un certo contegno, mi risistemai sulla sedia,
onde evitare di cadere rovinosamente a terra, trascinandomi dietro Ace.
Feci finta di nulla, e nessuno si accorse del cambiamento di posizione
appena avvenuto, oppure nessuno ebbe la malsana idea di farlo notare.
Le mie gote purpuree parlavano da sole, e la mia mano non smetteva di
giocherellare con i fili di seta che Ace aveva al posto dei capelli.
Non avevo mai pensato a come sarebbero stati, e se l’avessi
fatto, mai avrei ipotizzato una tale morbidezza. Erano sottili e
soffici, ed affondandovi la mano, sembrava di immergersi in un lago di
seta nera.
Poteva un sogno essere tanto reale? No, lo sapevo bene, quella era la
realtà, una surreale e fantastica realtà, che
dovevo assolutamente vivere al massimo, per non avere rimpianti.
Guardando il volto dormiente e rilassato di Ace però,
un’immagine mi balenò in testa, sostituendo alla
felicità il dolore. Avevo visto solo una volta gli occhi di
Ace chiusi ed il suo viso disteso, ed era stato il fotogramma
più orribile della mia vita, l’immagine che
più mi aveva sconvolto. Strinsi le palpebre, scacciando quei
pensieri il più in fretta possibile, prima che si
impadronissero di quel momento magico. Niente e nessuno avrebbe potuto
rubarmi quell’angolo di paradiso con il mio angelo di fuoco,
nemmeno i ricordi della sua verità, che lo attendeva
immutabile nel suo mondo.
Ormai la gioia e l’euforia dell’avere tra le
braccia Ace erano sfumate, lasciando posto al rimorso ed alla
malinconia. Le carezze leggere divennero nostalgici gesti, che
preannunciavano un addio.
Marco se ne accorse, notò il cambiamento del mio umore, e
sicuramente capì a cosa stavo pensando, perché
anche i suoi occhi si incupirono.
Non potevamo salvarlo, avevamo nelle nostre mani tutte le carte per
poter mutare la storia, ma non era il nostro turno, non potevamo
giocarle, e non le avremmo potute utilizzare in tempo per salvare Ace.
Ormai le voci della sala erano solamente un brusio di sottofondo ai
miei pensieri, quando la voce di Elena attirò nuovamente
l’attenzione del mio udito, ma non del mio sguardo, che
rimaneva fisso sulle macchioline perfette che ornavano le guance di
pugno di fuoco.
«Scusate un secondo, ma ho avuto
un’illuminazione!» iniziò la mia amica,
e quando lei aveva un’illuminazione, c’era
veramente da preoccuparsi, visto che le possibilità erano
che dicesse una castroneria colossale, oppure un’idea
sensata. Per mia natura ero pessimista, quindi propendevo sempre per la
prima ipotesi.
Crudele? Forse.
Realista? Di certo.
«Come fate a parlare in italiano? Cioè,
tecnicamente voi dovreste essere giapponesi giusto? E quindi non
dovreste parlare la nostra lingua… quindi mi chiedo: come
fate?» terminò Elena, sfatando i miei pessimistici
pronostici. Effettivamente era una domanda più che lecita.
Sul momento non ci avevo nemmeno pensato, ero lì con loro,
cosa mi importava della lingua in cui parlavano? Però
effettivamente avevano un lessico completo e perfetto, senza nessun
accento, come se fossero veramente italiani, anzi, parlavano anche
meglio di molti miei connazionali volendo essere pignoli.
Come era possibile una cosa del genere?
Mentre mi arrovellavo il cervello cercando di svelare il mistero,
Trafalgar Law sorprese tutti, prendendo la parola.
«Parliamo tutte le lingue in cui le nostre vicende sono state
tradotte, Elena-ya» affermò pacato e glaciale,
come solo il chirurgo della morte poteva essere. Certo che la sua fama
se l’era sicuramente meritata! Metteva i brividi, anche se
non era armato ed era abbigliato con abiti normali, una semplice
camicia blu notte e jeans scuri (a quanto pareva quella sera aveva
rinunciato al suo amato cappello maculato), emanava un’aurea
di pericolosità latente. E lo spirito di sopravvivenza nullo
di Elena ne era morbosamente attratto. La mia amica pendeva
letteralmente dalle labbra del dottore, che la guardava di sottecchi,
rimanendo stravaccato in modo improbabile sulla seggiola. Certo, la
bellezza di Law era innegabile, ma le parole
“chirurgo” e “morte” non
riuscivano a farmelo apprezzare fino in fondo in quel contesto. Nella
storia l’avevo adorato, e lo adoravo tuttora, ma
lì, faccia a faccia, mi metteva solo ansia, e vista la mia
situazione, con un fiammifero incollato alle gambe, non me ne serviva
altra.
Quindi ricapitolando, ogni lingua in cui erano stati tradotti manga ed
anime, erano tranquillamente parlate dai personaggi a tavola?
Interessante, mi avrebbe fatto comodo una capacità simile al
liceo. Io e l’inglese avevamo avuto svariate battaglie, perse
miseramente dalla sottoscritta. Io e le lingue non andavamo minimamente
d’accordo, e questa antipatia era stata sicuramente fomentata
dalla gentilezza e dalla disponibilità che caratterizzavano
quella stronza della mia vecchia professoressa di inglese. Avessi
potuto lanciarla in pasto ai Crocobanana, l’avrei fatto!
D’un tratto il mio pazzo cervellino, produsse una domanda, la
quale, come ormai accadeva troppo spesso per i miei gusti,
uscì serenamente dalla mia bocca, senza degnarsi di
chiedermi il permesso.
«Ma quindi devo chiamarti Rabber?» chiesi a Rufy,
che rischiò di strozzarsi con il boccone di non so cosa che
stava masticando. Quando riprese fiato mi guardò con occhi
furenti, degni di un temibile pirata, e mi intimò di non
chiamarlo mai più Rabber, Rubber o peggio ancora Monkey D.
Rubber!
Risi inevitabilmente a quella reazione più che giustificata.
«Scusami, non volevo farti arrabbiare, è solo che
è così buffo sentirti chiamare con quel
nome!» mi giustificai, tentando di non scuotermi troppo per
le risate, evitando così di svegliare Ace.
«Dahahahaha! Certo che qui in Italia di fantasia ne avete in
abbondanza! Ci hanno riferito che ci avete censurato
brutalmente!» ridacchiò Shanks, inconsapevole di
aver scatenato una discussione polemica che non avrebbe facilmente
trovato sfogo immediato.
Fui io la prima ad inveire contro la censura, e non ci andai per niente
leggera!
«In primo luogo, ti chiedo di non parlare al plurale, e di
non generalizzare. La Mediaset è l’unica
responsabile dello scempio svolto sulle vostre avventure animate, ed i
veri appassionati di ONE PIECE sono perennemente disgustati ed alterati
da questa storia delle censure. Fossero almeno sensate
maledizione!» inveii. Era un argomento che mi scaldava
parecchio quello della censura patetica che veniva applicata
all’anime. Il sangue nero/marrone mi faceva letteralmente
schifo, per non parlare della distruzione dei dialoghi e del senso
logico delle frasi.
L’involontaria provocazione di Shanks causò
l’inserimento di Elena nella conversazione, che si
lasciò trasportare più della sottoscritta nella
discussione con il Rosso, che pareva molto interessato alle motivazioni
che “giustificavano” quelle modifiche.
Mentre i due discutevano, ascoltavo distratta le loro parole,
concentrandomi nuovamente sui capelli di Ace. Riportai il mio sguardo
sul suo viso, e rimasi di stucco quando invece di incontrare le sue
palpebre chiuse, trovai le sue iridi nere ad osservarmi.
L’onice liquida di quelle iridi mi sconvolse, era innaturale
che degli occhi potessero essere tanto neri. La pupilla era quasi
invisibile immersa in quel nero screziato.
Ace mi guardava con aria attenta e guardinga, con
l’espressione tipica di un animale impaurito ed affamato,
scoperto a rovistare nella dispensa, e che aspetta solo di essere
cacciato in malo modo da chi l’ha scoperto.
Ma non volevo mandarlo via, non l’avrei mai fatto; se gli
stava bene restare appoggiato sulle mie ginocchia, per me non
c’erano problemi, anzi, ne sarei stata contenta! Gli sorrisi
dolcemente, tentando di esprimere con gli occhi i miei pensieri e
ciò che provavo, mentre le mie dita continuavano la danza
con le sue ciocche ribelli.
Non saprei dire cosa vide nel mio sguardo o nel mio sorriso, ma
qualunque cosa fosse gli procurò un cipiglio perplesso, e
non ottenne l’effetto di calmarlo come speravo. Ma cosa
credevo di fare? In fondo ero solo una sciocca ragazzina per lui, che
tentava di rendere la sua vita meno noiosa leggendo le sue avventure,
tentando di immaginare come sarebbe stato vivere la sua vita. ero
patetica? Decisamente sì.
I muscoli delle braccia e della schiena del moro erano tesi, e mi
accorsi solo allora della rigidità che aveva acquisito il
corpo di Ace, opposta al rilassamento che aveva nel sonno.
Da quanto tempo era sveglio? Da quanto attendeva il mio rifiuto? O
meglio, da quanto tempo ormai era abituato ad essere scansato da tutti
coloro che sapevano di chi fosse figlio? Solo Barbabianca ed i suoi
compagni d’infanzia non l’avevano scacciato e non
avevano maledetto la sua nascita. Ed ora, a quella tavola, solamente
Rufy, Newgate e Marco, oltre a me ed Elena, conoscevano la vera
identità di Ace. Ma lui ne era consapevole? Sapeva che io e
la mia amica conoscevamo il suo segreto? E soprattutto, come avremmo
fatto a toglierci da quella situazione a dir poco imbarazzante?
-----------------------------------------------------------------------------------------
Eccomi! Allora, lo scorso
capitolo mi avete sconvolta, siete stati tantissimi a commentarlo, e vi
ringrazio di cuore!!! non avete idea di quanto mi faccia piacere
leggere le vostre impressioni, le vostre ipotesi, le vostre speranze
per eventuali risvolti della storia!! GRAZIE, davvero di cuore!!!
un ringraziamento particolare va a Lenhara, che mi istruisce sempre sui
dettagli che potrei inserire! ( Ho fatto una bella ricerca su Law, ed
ho scoperto che avevi ragione! Infatti lui per parlare usa mettere un
suffisso ai nomi (-ya), che è traducible con "signor"
più o meno, l'ho lasciato in originale onde evitare
traduzioni strane (c'è chi dice volgia dire negozio quindi
evitiamo xD))
Dopo queste infinite parentesi, vi ringrazio ancora!!! soprattutto per
tutti i consigli che mi avete dato in fatto di Manga ed anime, mi sono
fatta una bella lista ^_^
Qual'è la vostra frase preferita di One Piece?
Un bacione, alla
prossima!!! (non prometto niente ma potrebbe essere Venerdì )
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Capitolo 14 *** 13. Passato e futuro ***
c1
Gli
occhi di Ace non lasciavano i miei, e mantenevano
quell’espressione perplessa e titubante, che si
accentuò
quando vide le mie guance colorarsi nuovamente di rosso. A quanto pare
ero contagiosa, perché anche le gote del moro iniziarono a
prendere colore. Avevo visto Ace arrossire da bambino, davanti alla
gentilezza di Makino, ma vedere quel leggero rossore sulle guance del
ragazzo, ormai adulto, era sconvolgente. La bellezza già
perfetta veniva esaltata ancora di più da
quell’arrossamento, che mi provocò uno stranissimo
sorriso. Da quanto tempo non sorridevo così? Avevo sorriso
per
l’agitazione, per finta, per una battuta divertente, ma quel
sorriso era diverso, lo sentivo dentro di me, era un sorriso
dell’anima, era un vero sorriso, di quelli che arrivano agli
occhi e li fanno brillare.
Mi toccai stranita le labbra curvate, incredula. Fortunatamente nessuno
sembrò notare quel gesto sciocco, la tavolata era totalmente
concentrata sulla filippica di Elena contro la censura. Era un portento
quella ragazza nell’argomentare le sue tesi, e mediamente
riusciva a convincerti di quello che diceva unendo la verità
al
crudo sarcasmo. Certo che lei e Law sarebbero andati
d’accordo,
l’ironia gelida che stagnava nelle loro frasi era
pressoché identica.
Il tempo sembrava essersi fermato, mi parve perfino di vedermi
dall’esterno; io che sorridevo, con il capo di Ace sulle
gambe e
le sue braccia attorno alla vita, meno tese di prima, ma non rilassate
come nel sonno. Ero imbarazzata dalla situazione, anche se adoravo
quell’abbraccio bizzarro, non potevo restare in quella
posizione
all’infinito, e dovevo farmene una ragione. E poi
chissà
cosa pensava Ace di me, visto che non avevo smesso nemmeno un secondo
di giocherellare con i suoi crini neri, tentando di imprigionare quella
sensazione nella mia memoria, per poterla conservare assieme al calore
che mi dava il suo corpo. Beh, ormai la figuraccia era fatta, quindi
tanto valeva concluderla in grande stile.
Sospirai, e con la mano tracciai dalla fronte al mento, una linea
immaginaria sul viso del moro. Scesi lungo la mascella perfetta, per
poi risalire lungo la stessa strada. Ridiscesi seguendo il profilo
dritto del naso e l’arco delle sopracciglia. Incorniciai con
sentieri invisibili gli occhi e le labbra, passando più
volte
sulle guance spruzzate di lentiggini scure. I miei occhi erano attenti,
le mie dita sensibili. Tatto e vista, ecco i sensi che stavo sfruttando
al massimo in quell’istante, per imprimermi nella mente
quelle
emozioni e quei dettagli, che sfuggono ad un’occhiata
superficiale. Il labbro inferiore, più pieno del superiore,
la
fronte spaziosa, le guance glabre. Tutto perfetto.
Le mie dita tremanti si fermarono sul cipiglio perenne che affliggeva
il viso di Ace, quei due solchi che si formavano in mezzo ai suoi
occhi, tanto belli quanto guastatori della sua serenità.
Tentai
di distenderli, passandoci sopra l’indice, senza risultati,
per
poi terminare la mia esplorazione con una carezza sul lato del viso,
che gli scostò qualche ciocca ribelle. Ace chiuse gli occhi
a
quel tocco, addolcendo la linea delle labbra ed attenuando la
profondità delle rughe glabellari. Non era rilassato come in
sonno, ma la tensione che lo attanagliava era sparita quasi del tutto,
come risucchiata dai miei tocchi leggeri, ed era passata a me,
trasformandosi in puro imbarazzo e felicità. Disegnare con
le
dita il profilo di Portuguese D. Ace era un sogno, che non mi ero mai
nemmeno permessa di avere, ed ora l’avevo appena realizzato.
L’imbarazzo che mi colse, quando realizzai cosa avevo appena
fatto, fu incredibile, rasentava il panico. Cosa avrebbe pensato di me?
Cosa mi era saltato in mente? Oh, ma al diavolo tutto, non
l’avrei mai più rivisto, tanto
valeva fregarsene
delle figuracce e godersi il momento.
Quando gli occhi del moro si aprirono, trovarono ancora i miei ad
attenderli, pronti a perdersi nuovamente in quei pozzi d’oro
nero. Ma stavolta non furono solo i suoi occhi a catturare la mia
attenzione, anche la bocca ebbe il suo rilievo; quelle labbra divine
infatti erano curvate in un dolce sorriso, che mi scaldò il
cuore, cancellando l’imbarazzo dalle mie emozioni. Il sorriso
di
quel ragazzo era magico, talmente caldo da sciogliermi, così
luminoso da riflettersi nei miei occhi, abbagliandomi.
Rimanemmo a guardarci, sorridendo, per non so quanto tempo. I secondi,
i minuti, le ore, tutto aveva perso senso, c’eravamo solo io
e
lui, i nostri occhi ed i nostri sorrisi erano le uniche cose degne di
attenzione, tutto il resto, era nulla.
Sentii le sue mani sulla mia schiena stringere un po’ di
più, come quando in un abbraccio, dai un’ultima
stretta,
leggermente più forte, per avvisare l’altro che
stai per
staccarti. Mi stava dicendo silenziosamente che stava per alzarsi, che
era giunto il momento di tornare al presente; ed infatti poco dopo si
alzò dalle mie gambe, senza però far leva su di
esse,
usando solo la forza dei suoi addominali. No, un momento, pessima idea
immaginarsi i suoi addominali contratti in questo momento, davvero una
pessima idea!
Sbadigliò vistosamente e rumorosamente, stiracchiandosi ed
inarcando la schiena. Non sarà stato bravo a dire bugie, ma
a
fingere di essersi appena svegliato era un mago.
«La bella addormentata si è svegliata!
Bwahahahaha!»
esclamò Garp, causando l’ennesimo scoppio di risa.
Persino
Marco si lasciò andare, mentre Ace ridacchiando si grattava
la
testa. Risi, immaginandomi Pugno di fuoco vestito da principessa,
un’immagine esilarante, ma questo non glie l’avrei
mai
detto.
«Ti sei deciso a liberarla dalla tua presa da granchio,
eh?» esordì la fenice, facendomi diventare
bordeaux in
viso. Ma da dove l’aveva tirata fuori
quell’espressione?
Volendo essere pignoli, l’abbraccio di Ace era stato
più
simile a quello di un koala, o se si preferiva rimanere
nell’ambiente marino ad una piovra. Inoltre come osava,
quello
stupido pennuto azzurrognolo, dipingermi come la
“vittima”
di quella situazione? Non mi pareva di essermi lamentata, e non mi
sembrava nemmeno il caso di dire al mondo che nel sonno Ace si era
avvinghiato a me! Non mi era per nulla dispiaciuto essere
“imprigionata” da Ace che, pur continuando a
ridacchiare,
iniziava ad arrossire.
Ormai la cena volgeva al termine, in tavola erano rimasti pochi avanzi
di frutta e dolciumi, che presto Ace divorò, ed i grandi
bevitori erano al limite della sopportazione; fatta eccezione per le
tre vecchiette e l’immenso Barbabianca infatti, tutti gli
altri
erano pronti per essere messi a letto. Zoro era ormai crollato sullo
schienale della sedia, russando rumorosamente, mentre il Rosso aveva
gli occhietti lucidi e le guance arrossate. Persino
l’imperturbabile occhi di falco iniziava a sentire gli
effetti
dell’alcol, ed aveva abbassato leggermente il suo stato
d’allerta. Falco… più che un falco a
volte sembrava
un suricata, sempre dritto e pronto a scattare. Rabbrividii al pensiero
di cosa avrebbe potuto farmi se avesse sentito quel pensiero: Sashimi
di Selene, ecco cosa sarei diventata!
La piccola Chimney dormiva sulle ginocchia della nonna, mentre la
bellissima imperatrice pirata iniziava a sbadigliare. Nonostante la sua
avversione per gli uomini, la bella Shichibukai aveva trascorso la
serata ridendo in compagnia di quel bizzarro assortimento di individui,
ed il fatto che non fosse volata addosso ad Elena dopo la forchettata a
Rufy, mi indusse a pensare che non l’avesse ancora conosciuto
nei
suoi ricordi. Doflamingo manteneva la sua posizione stravagante,
impossibile da descrivere, ridendo e partecipando attivamente alle
conversazioni polemiche e politiche, molto interessato alle dinamiche
del nostro mondo, maledettamente simile al suo malsano ideale.
L’universo di ONE PIECE era carico di sogni, aspettative,
libertà e avventura; mentre il mondo in cui vivevo, ed in
cui si
trovavano tutti loro in quel momento, era oppresso da leggi e
burocrazia interminabili, dominato dai soldi e dal potere, un mondo
dove i sogni restavano tali, irrealizzabili utopie di menti colorate e
vive, destinate però ad omologarsi al grigiore collettivo.
Forse
era proprio questa grande differenza, a far sognare ai fan di anime e
manga, di poter entrare a far parte di quel mondo fantastico, colorato
ed avventuroso, dove i sogni potevano essere realizzati, e non erano
destinati ad infrangersi contro un muro di divieti, oppure a marcire
dentro un cassetto.
Nel frattempo Pugno di fuoco si era risistemato al suo posto, ma aveva
appoggiato il suo braccio sinistro sullo schienale della mia sedia,
sfiorandomi leggermente la spalla nuda con la mano. In
quell’istante, con le dita di Ace che solleticavano leggere
la
mia pelle, un ponte collegava due mondi, due realtà, due
epoche
diverse.
Lui apparteneva al passato, doveva ancora vivere la sua avventura,
doveva ancora scoprire quanto potesse essere infame la vita, quanto
potesse ancora farlo soffrire, come se il dolore che si portava dentro
da quant’era nato non fosse bastato, come se la vita fosse
assetata della sua sofferenza.
Io invece rappresentavo il futuro, ero colei che sapeva come sarebbero
andate le cose, che sapeva la fine della sua avventura come sarebbe
andata, ero colei che voleva ma non poteva salvarlo, ero una ragazzina
innamorata a cui era stato concesso di vivere una giornata da sogno, ma
niente di più.
In quel momento, passato e futuro si univano, si fondevano, si
compenetravano nel presente. A quella tavola, io ed Ace, eravamo una
storia completa, inizio e fine che si univano, attendendo con ansia di
scoprire come sarebbe stato il corpo della storia, come si sarebbe
sviluppata quella bizzarra trama. Avrei voluto cambiare il mio ruolo,
avrei voluto diventare un finale aperto, per donare speranza, oppure un
lieto fine. A tutti piacevano i lieto fine, perché anche Ace
non
poteva averne uno? Perché era destinato a finire
così,
come l’avevo visto morire io? Nella polvere, con la
sofferenza ed
il dolore, tra le braccia di un fratellino ancora troppo giovane per
sopportare quel trauma, quello shock. A distanza di mesi scoppiavo
ancora a piangere come una bambina quando ripensavo a quelle scene, a
quei maledetti fotogrammi che mi avevano spezzato il cuore. In quelle
puntate, tra quelle pagine, avevo perso una parte di me, che si era
affezionata troppo a quel ragazzo di fuoco, che tanto aveva sofferto
nella sua vita, e che pur morendo senza rimpianti, ne lasciava
tantissimi a coloro che l’avevano amato. Si può
desiderare
di morire senza rimorsi, ma morire senza lasciarne ai proprio cari,
doveva essere ancora più bello.
Rufy non era riuscito a mostrargli il suo sogno realizzato, Marco ed i
suoi compagni non erano riusciti a salvarlo e a dirgli quanto bene gli
volessero, ed io… io dal mio mondo avevo urlato, pianto,
maledetto, graffiato, singhiozzato in preda alla rabbia ed al dolore,
con lo strazio di non avere potere su quella storia.
Ora invece avevo la possibilità di salvarlo, mi sarebbe
bastato
dirgli quello che sapevo per impedirne la morte, eppure non potevo.
Quando sarebbero ripartiti, come mi sarei sentita vedendo il ragazzo
che aveva dormito sulle mie gambe, morire a causa mia? Sì,
sarebbe stata colpa mia, perché non l’avevo
avvisato,
perché non l’avevo salvato, perché non
avevo potuto
rivelargli il suo futuro. Forse cambieremmo il nostro modo di essere,
se dovessimo scoprire cosa ci riserva il domani, ma rivelare ad una
persona la sua sorte, è innaturale, ribalterebbe
l’ordine
delle cose, modificherebbe il destino di troppa gente. Se avessi
salvato Ace, avrei ucciso Rufy, perché Teach sarebbe andato
a
cercare proprio lui, a Water Seven.
Mi avrebbe perdonato per questo? No.
Ero pronta ad uccidere suo fratello per salvarlo? No.
Avrei voluto avere una via di fuga, una possibilità di
salvezza
per tutti? Sì, ma i miei desideri non contavano nulla. Il
destino era già stato scritto, ed io non potevo cambiarlo.
Ace
sarebbe ritornato nel suo mondo, ed avrebbe vissuto la sua avventura
fino alla fine, mentre io sarei rimasta qui a piangere e disperare,
davanti all’immagine della sua tomba.
La tavolata iniziava a spegnersi pian piano, i compagni del Rosso lo
convinsero a mettere da parte il liquore ed andare a letto, e ben
presto anche le tre over sessanta decisero di congedarsi.
Ben presto rimanemmo solo io ed Elena, in compagnia dei Mugiwara, i
pirati di Barbabianca, Law, il lugubre Kidd e Garp. Perfino i reali di
Alabasta, i carpentieri di Water Seven e gli esuberanti Okama erano
andati a letto, seguiti a ruota dai pochi Marines e Shichibukai
presenti.
Ignoravo che ora fosse, e non volevo saperlo. Finché non mi
avrebbero cacciata via a forza, sarei rimasta lì, con due
dita
leggere come ali di farfalla che mi sfioravano la spalla.
«Beh, per noi della vecchia generazione è tempo di
andare
a riposare le ossa! Lasciamo i giovani a festeggiare ancora un
po’!» esordì Garp, rivolgendosi
all’imperatore, il quale ridendo si alzò dalla
poltrona
fornitagli come seduta, ed insieme si avviarono verso
l’uscita
della sala. Vederli insieme era uno spettacolo più unico che
raro, però non mi stupii più di tanto, alla fine
tra
vecchi rivali c’era molto rispetto, ed ero più che
convinta che durante la sua carriera Garp avesse lasciato fuggire
più volte Newgate e Roger, anche solo per il gusto di non
chiudere quella partita tanto presto, così come i due pirati
si
erano risparmiati a vicenda, ed avevano indubbiamente risparmiato il
marines in più di un'occasione.
Marco non sembrava molto contento di lasciar andare via il suo capitano
senza scorta, da solo, e per di più con un marines; ma la
manata
di Barbabianca sulla schiena non lasciava spazio ad inutili proteste.
Il viso della fenice si incupì, ma non accennò a
replicare l’ordine silente del suo babbo. Rufy si portava
dentro
un segreto enorme, ma quello del comandante della prima flotta, era
ancora più gravoso.
-----------------------------------------------------------------------------------------
Toc
Toc, ci siete? xD Beh, ho poco da dire!! Nonostante il cielo abbia
tentato di non farmi postare in anticipo (un temporale ha
simpaticamente fatto saltare la corrente 3 secondi prima che io
premessi quel maledettissimo pulsante "salva" dopo aver terminato tutte
le modifiche! -.-" ) io ce l'ho fatta!!! Ebbene si, in anticipo di ben
24 ore sulla tabella di marcia, il capitolo 13 era finito ^_^
Ringrazio di cuore tutti coloro che hanno aggiunto la storia tra le
preferite, le seguite e le ricordate, siete tantissimi!!
In più un grazie immenso ai recensori, mi date veramente la
carica per andare avanti (altro che kinder fetta al latte!!!! xD)
quindi, grazie grazie grazie!!! ^_^
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, ed ora la mia frase preferita in
assoluto: "Anche nelle profondità dell'inferno, sboccia il
bellissimo fiore dell'amicizia, cullandosi su e giù tra le
onde,
lascia i suoi petali ai ricordi, un giorno sboccierà di
nuovo!"
detta da Mr 2. è una frase che adoro, anche se tra le mie
preferite ne avrò un centinaio in totale xD mi piacerebbe
raccoglierle tutte in un blog, se solo fossi capace xD comunque le
vostre erano stupende, e ne ho aggiunte parecchie al mio quadernino
delle citazioni. xD Ma ora basta cianciare, vi lascio alla domanda
di rito! xD
Qual'è il vostro animale preferito in ONE PIECE?
Un bacione, alla
prossima!!! ( stavolta non so dirvi quando aggiornerò, sper
presto comunque, dipende dagli esami!! ^_^)
Immagini
e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di
lucro
|
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Capitolo 15 *** 14. Non mi importa! ***
c1
Per
allietare l’atmosfera, Brook si mise a suonare allegri
motivetti
con il suo violino, facendo canticchiare quasi tutti. Il clima era
allegro e sereno, ma la quiete non durò a lungo, proprio a
causa
del violinista.
«Yohohohoho, certo che tu con i capelli ad anemone sei
proprio un musone! Sorridi un po’!»
No, non poteva averlo fatto, non l’aveva detto davvero, non
era
possibile che quello stupido scheletro avesse appena dato ad Eustass
“Capitan” Kidd del musone con i capelli ad anemone.
Ok che
era già morto, ma volersi fare del male in questo modo mi
pareva
esagerato!
«Spero tu non stia parlando con me!»
ringhiò la
supernova, facendo tintinnare l’argenteria sulla tavola. Il
chirurgo intanto si era disegnato un sorrisetto beffardo sul viso,
mentre lo scheletro si rendeva conto del rischio che stava correndo, e
si scusava all’infinito. Tirai un sospiro di sollievo solo
quando
le posate smisero di tremare, ed il ghigno di Kidd si
attenuò.
Quel mucchio d’ossa l’aveva scampata per un pelo, e
noi con
lui, visto che la mira dell’anemone non era delle migliori, a
mio
parere. Le scuse di Brook andarono avanti parecchio, provocando
risolini sparsi, e persino a Kidd iniziava a tremare il labbro, segno
di una lotta all’ultimo sangue tra la volontà di
restare
serio e lo stimolo alla risata. Chi sarà il vincitore? E chi
lo
sa! Per ora sono pari, ma l’espressione incerta sulla faccia
del
rosso, fa scompisciare me dalle risate.
Law nel frattempo aveva abbassato lo sguardo, facendo intravedere solo
un sorriso beffardo, che però non aveva nulla di felice.
Chissà se gli mancava sentire le scuse insensate di Bepo, il
suo
orsacchiotto kung-fu. Non doveva essere semplice per lui ed Eustass
essere catapultati qui, soli, senza nessuno di cui potersi fidare,
senza i propri nakama su cui fare affidamento. Non erano in una
situazione propriamente facile, erano da soli, senza veri amici a cui
potersi appoggiare.
«Io esco a prendere una boccata d’aria,
eh!» Disse
Marco, prima di alzarsi ed avviarsi lentamente verso
l’uscita.
Dovevo parlare con la fenice prima di andarmene, e quella era
un’occasione che non potevo farmi sfuggire; non mancava molto
alla nostra partenza, ed ero quasi certa che quel pennuto malinconico
non sarebbe tornato a tavola.
«Scusate, vado un attimo al bagno, torno subito!»
Avvisai,
prima di scostare la sedia dal tavolo ed alzarmi, sistemando il vestito
ormai sgualcito. Fu una violenza fisica imporre al mio corpo di
scostarsi dalla mano di Ace, che aveva iniziato a disegnare ghirigori
invisibili sul mio braccio, ma prima il dovere e poi il piacere. Non mi
voltai per guardare se il moro mi stesse osservando, perché
se
l’avesse fatto ed io l’avessi visto, non avrei
più
risposto delle mie azioni, ed un’accusa di stupro non era
esattamente nella lista delle mie “cose da fare prima dei
vent’anni”. Già non era stato semplice
mantenere un
briciolo di autocontrollo con le sue dita che vagavano sulla mia
spalla, se poi mi mettevo anche a mettere alla prova il mio buon senso,
rischiavo di fare veramente qualche sconsideratezza. Piacevole,
allettante, particolarmente invitante, ma comunque illegale.
Appena uscii dalle porte del grande salone, mi guardai intorno in cerca
di qualche traccia dell’ananas pennuto, senza avere successo.
Fortunatamente riuscii ad intercettare un domestico, che mi disse di
aver visto un signore uscire sulla terrazza. L’anziano
maggiordomo fu tanto gentile da indicarmi anche la strada per
raggiungere la balconata, che per mia fortuna era semplicissima.
Quando arrivai nei pressi delle grandi vetrate, vidi la figura della
fenice illuminata dalla luna, e mi avvicinai al parapetto dove era
accasciato il comandante.
Mi appoggiai con i gomiti sul freddo marmo, osservando lo spettacolo
suggestivo della luna che si specchiava nel lago, creando un magnifico
quadro d’argento e oscurità.
«Mi dispiace per la domanda che ti ho fatto prima di cena,
davanti a tutti. Non ho pensato prima di parlare, mi sono lasciata
prendere dall’emozione del momento.» Dissi,
continuando
però a fissare il paesaggio. La piatta superficie del lago
sembrava uno specchio lucente, illuminato dal bagliore lunare e dalle
luci dei paesi che sorgevano sulle sue rive. Le piccole increspature
causate dalle correnti facevano sembrare l’acqua viva,
creando
magnifici giochi di luce. Da Marco non arrivava nessuna risposta,
così decisi di continuare, raccontandogli di me.
Non so perché lo feci, forse era l’istinto a
suggerirmelo,
o forse la mia ragione aveva capito che per smuoverlo avrei dovuto
fargli capire che potevo comprenderlo, che capivo, almeno in parte,
cosa stava provando.
«Ho perso mio padre qualche mese fa, una malattia che non
lasciava scampo me l’ha portato via in meno di un mese.
Sapevo
che sarebbe successo, ma non sono ancora riuscita ad accettare la sua
scomparsa, l’idea che possa varcare nuovamente la porta di
casa,
come faceva ogni giorno, alla stessa ora, non mi ha ancora abbandonata
del tutto. Continuo a ignorare il fatto che non lo rivedrò
mai
più, perché se non ci penso soffro di meno, anche
se non
vado avanti e non supero il dolore, non soffro come quando rimugino sul
passato. Avrei tanto voluto avere più tempo a disposizione
per
stare con lui, per farlo assistere alla mia laurea, per farmi
accompagnare all’altare, per vederlo sorridere quando un
bambino
l’avrebbe chiamato “nonno”. E la cosa
buffa è
che prima che succedesse tutto, l’idea di sposarmi e mettere
su
famiglia non mi aveva mai nemmeno sfiorata, non rientrava nei miei
interessi, e tutt’ora non è nelle mie
priorità.
Però solo quando ti tolgono la possibilità di
fare
qualcosa, ti accorgi di quanto avresti voluto farla o di quanto avrebbe
potuto significare per i tuoi cari.» Abbassai il capo, in
silenzio, ricacciando indietro le lacrime che minacciavano di sfuggire
al controllo delle palpebre.
La fenice taceva, guardando il paesaggio, assorta nei suoi pensieri.
Non avevo la certezza che mi avesse ascoltata davvero, però
qualcosa mi invogliava a continuare, ad andare avanti con il mio
discorso.
«Perdere un genitore è una cosa terribile, non so
cosa
voglia dire perdere un fratello, ma posso capire il tuo dolore per
quanto riguarda il tuo babbo. Vorrei poterti dare consigli, ma non ne
ho. È una sofferenza che non sono ancora riuscita ad
affrontare,
quindi non posso aiutarti con la tua, ma.. non lo so. Non so nemmeno io
perché sono venuta qui a parlarti, forse volevo solamente
farti
sapere che se ti andava, con me potevi parlarne. Mi spiace di averti
rubato del tempo… Beh, addio…»
Terminai, alzando le
spalle. Quello che avevo detto era la pura verità, non avevo
avuto un vero motivo per voler parlare con lui, però
qualcosa mi
aveva spinto a farlo, e l’istinto di una donna di rado
fallisce.
Avevo terminato il mio discorso, e mi bastava; non pretendevo una
risposta, mi bastava sapere che le mie parole non fossero semplicemente
agglomerati di lettere gettati al vento.
Facendo leva sui gomiti rizzai la schiena, pronta per andarmene, e
lasciare solo Marco con i suoi pensieri, ma la sua voce
riempì
la distanza tra di noi, bloccando le mie intenzioni.
«Cosa dovrei fare secondo te, eh? Ucciderli tacendo o
parlando,
eh?» Non erano parole, erano lamenti, sibilati tra i denti
serrati dalla rabbia e dal dolore.
«Ho parlato con Rufy prima, ed ho ascoltato i suoi motivi,
che
penso siano simili ai tuoi, e li capisco. Li capisco, anche se una
parte di me non riesce ad accettarli; so che non potete dir loro la
verità, altrimenti sconvolgereste la storia, e loro non
potrebbero più tornare, odiandovi per aver interrotto la
loro
avventura. Ed hanno ragione, perché non abbiamo nessun
diritto
di interferire con la storia originale. Hai cercato con tutte le tue
forze di fermare Ace quel giorno, quando decise di andare a cercare
Barbanera, e durante la battaglia di Marineford hai combattuto
duramente per salvare tutti. Non hai fallito, entrambi hanno deciso la
loro fine, l’uno si è sacrificato per salvare i
suoi
figli, l’altro per proteggere suo fratello. Sono convinta che
rifarebbero le stesse cose, potendo scegliere. Il dirglielo o meno
è una tua decisione, come Rufy non vuoi scatenare il loro
odio,
la loro rabbia per averli privati della loro ultima avventura, quindi
non sono in grado di dirti cosa dovresti fare. Come te ho il potere di
andare da loro e riferirgli tutto, potrei parlargli del tradimento di
Teach, della cattura di Ace, della grande guerra, della loro disfatta,
e poi andarmene, sapendo che non potranno lasciare questo mondo. Eppure
non me la sento di farlo, non sarebbe corretto, finirebbero comunque
per farsi uccidere, perché sarebbero imprigionati qui, non
potrebbero tornare a casa, ma nemmeno continuare la vita che facevano
prima. Si sentirebbero in trappola, e per dei pirati che sognano
solamente la libertà, sarebbe una condanna peggiore della
morte
stessa, non trovi? E poi non facendoli tornare sconvolgeremmo la trama
della vostra avventura, potremmo perfino peggiorare la
situazione… Non possiamo sapere cosa comporterebbe cambiare
un
evento del passato per voi che invece appartenete già al
futuro
della storia!»
Risposi, tornando ad appoggiare le mani sul parapetto. La brezza
leggera rinfrescava la serata, facendo frusciare il fogliame del
giardino sottostante. I grilli intonavano la loro cantilena, mentre
vicino ai lampioni si affollavano piccole falene. C’era una
vista
magnifica da quella terrazza, il lago si stagliava maestoso di fronte a
noi, circondato da immense montagne, che fermavano lo sguardo,
lasciando solo all’immaginazione la facoltà di
vedere
oltre. Entrambi eravamo in silenzio, ma una voce ruppe quella bolla di
quiete, cambiando le carte in tavola.
«Il punto è che la storia non cambia. Ci hanno
già
riferito che la trama ed i disegni delle nostre vicende sono immutati.
Anche se noi siamo intrappolati qui, la storia sta continuando senza
intoppi, quindi se uno di noi restasse, per l’avventura non
ci
sarebbero variazioni. È questo che mette in
difficoltà
Cappello di paglia e Marco la fenice! Noi torneremmo esattamente
all’istante in cui siamo stati catapultati qui, senza la
minima
variazione. Nell’istante di Marco, Barbabianca e Pugno di
fuoco
rimarrebbero morti, anche se intrappolati qui. In sostanza non
cambierà niente se un personaggio rimanesse in questo mondo,
se
non per il personaggio stesso, perché la sua avventura
è
già stata scritta, ed è immutabile.»
Voltandomi vidi la dottoressa Kureha, con la sua fedele bottiglia di
liquore in mano e l’ombelico al vento, che ci osservava
appoggiata allo stipite della porta.
«Avete forse visto un fantasma, bambini?» chiese
beffarda,
bevendo un lungo sorso di non so cosa da quella bottiglia scura, e poi
allontanandosi, fregandosene di darci una spiegazione, ignorando la mia
voce che chiamava il suo nome. Ma Marco non aveva bisogno di
delucidazioni, perché sapeva già quella storia,
sapeva
già tutto, glie lo lessi negli occhi. La dottoressa aveva
solo
voluto rendere partecipe me di quella nozione, di quel particolare
maledettamente rilevante.
«Come sarebbe a dire “la storia non
cambia”? Mi stai
dicendo che anche se voi siete qui, la trama si sta svolgendo
tranquillamente? Non si è modificata? Oda sta continuando
senza
problemi la stesura dell’opera, e nulla è
cambiato?»
Chiesi sconvolta. Dall’incidente radioattivo infatti, la
pubblicazione del manga era stata interrotta, giustificata da Oda come
una delle sue pause per fare delle ricerche, niente di anomalo insomma.
Non mi ero posta domande a riguardo, quando avevo sentito
l’accaduto, avevo immediatamente pensato ad uno
stravolgimento
della trama, causato per l’appunto dallo spostamento dei
personaggi nella nostra epoca, invece non era stato così.
Questo cambiava tutto, rimescolava le carte, rimetteva in gioco la
possibilità di correre da Ace e riferirgli ogni singola
cosa!
Non avrei rischiato di uccidere Rufy, non avrei rischiato di generare
uno sconvolgimento irreparabile nella storia, eppure avrei salvato Ace!
Mi avrebbe odiata? Pazienza, tanto chi ero io per lui? Una fan
qualsiasi, ne aveva mille, anzi, milioni tra cui scegliere.
L’avrei salvato, gli avrei detto tutto, impedendogli
così
di partire verso la sua morte. Quello che non potevano e non volevano
fare i suoi amici e compagni, l’avrei fatto io.
Marco lesse le mie intenzioni nei miei occhi furenti, e prontamente mi
afferrò per i polsi, facendomi voltare bruscamente verso di
lui.
Le sue mani stringevano, senza però farmi male, solo quel
che
bastava per indurmi a non dimenarmi per correre via. Ero accecata dalla
rabbia, ero stata ingannata, avevo rischiato di andarmene da quella
villa con rimpianti e rimorsi, quando invece avrei potuto andarmene
consapevole di aver salvato la vita a quel ragazzo, che sin da disegno
mi aveva rubato il cuore. Mi avrebbe odiata, perché avrei
interrotto la sua avventura, la sua vita da pirata, ma non me ne
importava nulla, la sua vita sarebbe stata salva, e questo mi bastava.
Avrebbe potuto rifarsi una vita qui, al sicuro.
«Rifletti un secondo, eh! Ti odierebbe, e non è
quello che
vuoi! Non l’avevo mai visto sorridere e comportarsi come ha
fatto
con te a cena, non buttare all’aria tutto,
eh!»
Tentò di dirmi la fenice, ma ormai il mio cervello aveva
un’unica missione: dire tutto ad Ace, salvandolo.
Il comandante della prima flotta però, non era
d’accordo,
e non mi lasciava i polsi. Erano inutili le mie torsioni ed i miei
strattoni, era superiore a me per forza e combattimento, non avevo
speranze; dalla mia parte avevo solo il fatto che non volesse farmi del
male, e quindi non usasse la sua presa al massimo, ma era una
piccolezza di poco conto, serviva solo ad assicurarmi
l’indennità, non a farmi correre da Ace.
«Lasciami andare!» Sibilai furente. Avrei salvato
Ace, al
diavolo tutto e tutti, lui sarebbe stato salvo, avrei fatto quello che
loro non volevano fare.
Marco mi fece ruotare attorno a lui, incollandomi contro il parapetto,
bloccando definitivamente ogni mio tentativo di fuga. La rabbia e la
sensazione di impotenza si riversarono sulle mie guance, sottoforma di
bollenti lacrime d’ira e disperazione. Non mi avrebbe
permesso di
parlare ad Ace del suo futuro, glie lo lessi negli occhi scuri, quegli
occhi a tratti inespressivi, color antracite scuro, ma non neri. Dopo
aver visto gli occhi del moro, definire il colore di quelli di Marco
con lo stesso nome era impensabile. Le iridi e la pupilla erano
distinguibili chiaramente, non come in quelli di Ace, dove nero e nero
si fondevano in un vortice indecifrabile.
Mi lasciò piangere, allentando solo leggermente la presa sui
polsi, lasciandola totalmente solo quando volli asciugarmi le lacrime.
«Perché non vuoi salvargli la vita?
Perché non vuoi
lasciarmi andare? Non odierà te, e sarà
salvo!»
Singhiozzai, tentando di non impiastricciarmi la faccia asciugando le
lacrime. Fortunatamente non avevo messo troppo trucco sugli occhi,
altrimenti ormai sarei diventata Panda Woman.
«Perché so qual è il suo vero sogno,
eh! Lo sai,
non è l’avventura che cerca, cerca una risposta,
eh!»
Non capivo, non riuscivo a capire quelle parole, non avevano un senso
per me. Potevo evitare la morte di Ace, eppure non me lo lasciavano
fare. Potevo donargli una vita nel mio mondo, senza il rischio che
Barbanera lo catturasse, o che quel bastardo di un marines lo colpisse.
Non avevo nulla da perdere, niente di niente, eppure quel maledetto
idiota non mi permetteva di farlo, perché?
«E cosa dovrebbero significare la tue parole? Cerca una
risposta,
è vero, e la otterrà a pochi secondi dalla sua
morte!
È questo che vuoi per lui? Se tu mi lasciassi andare,
permettendomi di avvisarlo, rimarrebbe qui, lontano dai pericoli, e
scoprirebbe la risposta alla sua domanda senza morire. In questo mondo
ci sono milioni di ragazze disposte a spiegargli e fargli capire che la
sua nascita è stata il dono più bello che sua
madre
potesse fare al mondo, che la sua vita ed il suo carattere hanno fatto
innamorare tutte, che lui doveva nascere, anche solo per donare un
sorriso a noi stupide fan, che lui non è un buono a
null-»
«Deve capirlo da solo, eh! Vuoi andare a dirglielo? Fallo, ma
prima di parlargli guarda la sua faccia, e poi decidi, eh!»
Mi
interruppe brusco, mollandomi i polsi e scostandosi totalmente da me,
lasciandomi perplessa e confusa dal nervosismo di cui erano
permeate quelle frasi.
Marco si era risistemato sul parapetto, tornando ad ignorarmi,
dedicando la sua attenzione al panorama. Mi avviai verso
l’interno, decisa a fare il mio dovere, ma prima avrei dovuto
fermarmi in bagno, non potevo tornare a tavola con il volto rigato
dalle lacrime appena versate.
«La terza porta sulla destra è il bagno. Passaci,
eh.»
Brutto pennuto menefreghista, strafottente ed irritante. Sapevo
perfettamente dov’era il bagno, e guarda caso ve ne era un
altro,
nel corridoio della sala da pranzo, lontano dalla sua vista. Mai avrei
ascoltato quell’indicazione, e mai gli avrei dato la
soddisfazione di farmi vedere seguire un suo consiglio.
Quell’ananas tonnato aveva superato il limite quella sera,
l’avevo sempre stimato, adorando il suo frutto del diavolo,
la
sua pazienza ed il suo sangue freddo, ma ora la rabbia che provavo per
lui era troppo grande.
Avanzai con passi decisi, facendo schioccare veloce i tacchetti delle
scarpe sul marmo lucido, riempiendo con quel suono ritmico il silenzio
del corridoio.
Appena svoltai l’angolo, ormai fuori dal campo visivo del
Pokemon
alato, mi fiondai nel bagno più vicino, per sciacquarmi il
viso
e ricompormi.
Fortunatamente non ero troppo sconvolta, l’unico dettaglio
che
rivelava il mio pianto era un leggero arrossamento degli occhi, niente
di più, ed era tranquillamente imputabile alla stanchezza.
Uscii e mi diressi a passo di carica verso il salone dove avevamo
cenato, decisa a vuotare il sacco con Ace, trovandolo però
vuoto, o quasi. I piatti e gli avanzi erano stati portati via, ed il
grande tavolo di mogano era stato agghindato con candelabri dallo stile
discutibile ed orrendi bouquet di fiori finti, sulle
tonalità
del rosa. Sarà che io ed il rosa non ci amavamo
particolarmente,
ma quel particolare mi irritò ulteriormente. Mi trovavo
decisamente in un albergo, nessun proprietario privato poteva avere un
gusto tanto pessimo nell’arredamento.
Ace se ne stava seduto di spalle, dove l’avevo lasciato, e si
voltò solamente quando mi decisi, dopo un grande sospiro, ad
avanzare di un altro passo all’interno dello stanzone. Quando
i
suoi occhi incrociarono i miei, ed il suo sorriso smagliante
entrò nel mio campo visivo, qualcosa dentro di me
andò in
frantumi; era la sicurezza che avevo guadagnato in terrazza ed in
bagno. Tutti i miei discorsi, tutte le mie certezze, le mie
volontà, sbriciolate da quel sorriso unico. Quel maledetto
sorriso mi aveva stregata, fin dalla sua prima apparizione,
sull’isola di Drum.
“Il mio nome è Ace, dite pure questo nome a
Rufy… e lui capirà chi sono!”
Ecco le parole, dette con un sorriso beffardo, che mi avevano
ammaliata, stregata, affascinata; le parole che avevano segnato
l’inizio della mia folle passione per quel ragazzo con le
lentiggini. In pochi istanti era riuscito a farmi innamorare del suo
sorriso ed a farmi sorridere per la sua strana fuga.
Il mio cuore perse un battito, il cervello invece cessò di
esistere. Come potevo spegnere quel sorriso? Come potevo andare da quel
ragazzo, e dirgli che sarebbe morto di lì a poco? Come avrei
fatto a sopportare la vista di quel sorriso che si trasformava in
serietà? L’ultima immagine di Ace, lo ritraeva con
un
sorriso, il sorriso di un angelo, un incurvatura perfetta e serena,
degna di un dipinto. Che diritto avevo di spegnere quella meraviglia,
prima del tempo?
Mi avrebbe odiata, e non si sorride così a colei che ti ha
rovinato la vita. Potevo sopportare quel peso? Sì, potevo!
Invece no, mentivo solo a me stessa, convincendomi di potergli dire
tutto, di poter sopportare quella situazione, di poter affrontare la
sua rabbia e la sua delusione. Non ce l’avrei fatta, e quel
bastardo uccellaccio lo sapeva, per questo mi aveva lasciata andare,
per questo non mi aveva tramortita e caricata in auto, ordinando agli
autisti di riportarmi a casa. Sapeva che in fondo, ero solo una stupida
egoista, incapace di salvare la persona amata, incapace di cancellare
il sorriso dal viso di quel dolce ragazzo di fuoco. Avrei potuto
salvargli la vita, ma sarebbe stato veramente felice nel mio mondo?
Avrebbe sopportato l’idea di dire addio per sempre a tutti i
suoi
compagni? A suo fratello? Al suo amato Babbo? Sarebbe mai riuscito a
farsi una vita, partendo da zero, con l’aiuto di nessuno,
incatenato dalle regole ferree che governavano il mio mondo? No. Ecco
la risposta a tutte le mie domande.
«Sono andati tutti a dormire, Elena ha detto che ti aspettava
in
camera… Sono rimasto perché mi dispiaceva
lasciarti sola,
e poi magari.. Che ne so, non sapevi ritrovare la tua
stanza…» Disse il moro, alzandosi ed
incamminandosi verso
la mia figura, ancora immobile, pietrificata a metà strada
tra
la porta e la tavola, incapace di muoversi.
Avrei taciuto, avrei contribuito al silenzio collettivo, uccidendolo,
perché la storia andava così, la sua vita andava
così, ed io non ero nessuno per poterla cambiare.
L’unica
cosa che mi era concessa, era godermi quegli ultimi attimi con lui,
tatuandomeli nella mente, scrivendoli con il fuoco nel mio cuore, per
poterli custodire per sempre, come ricordi di un sogno bellissimo.
Ripulii la mente dai ricordi e dai rimorsi, concentrandomi su
quell’attimo; Ace veniva verso di me, sorridendo, e le mie
labbra
si mossero da sole, curvandosi ed aprendosi in su sorriso di risposta.
Non stavo recitando, era un sorriso sincero, anche se nascondeva un
dolore insostenibile, era il mio sorriso d’addio, e non era
finto.
«Sei stato gentile, ma dubito che il tuo.. Hem…
Senso
dell’orientamento, sia utile a rintracciare la mia
camera…» Dissi titubante, memore della sua
avventura nel
deserto di Alabasta; tra lui e Zoro, la sfida era aperta, e anche se lo
spadaccino era in netto vantaggio, Ace non scherzava di certo.
Il moro rise, arruffandosi i capelli corvini, rispondendo alla mia
provocazione.
«Hai ragione, però tentare non nuoce, non
trovi?»
Disse, facendomi cenno di precederlo nell’uscita, continuando
a
sorridere.
Mi sarei fatta accompagnare alla stanza, l’avrei salutato,
avrei
pianto tra le braccia di Elena per tutto il viaggio, e per i giorni a
seguire. Quando avrei finito le lacrime avrei iniziato a stare male, a
sentire il vero dolore, ma in quell’istante, contava solo il
suo
sorriso, il suo sguardo allegro e le sue magiche lentiggini.
-----------------------------------------------------------------------------------------
Buongiorno!
Eccomi qui, finalmente, con un nuovo capitolo! Inizio con lo scusarmi
per il ritardo, ma vi avevo avvisato che con gli esami alle calcagna,
sarebbe stato ostico questo aggiornamento :( [Lasciamo stare
che
per colpa del Gura Gura che ultimamente tormenta l'Italia, la sessione
sia saltata ed abbia studiato come un mulo per niente -.-" a proposito,
come state? tutto bene da voi? spero di si... qui solo tanta paura...]
Comunque GRAZIE a tutti, siete veramente fantastici, mi fate sempre
molto piacere con i vostri commenti e le vostre osservazioni, oltre che
ad aiutarmi moltissimo nella stesura dei capitoli!!!
ora, il mio animale preferito è Loovon, mi ha troppo
intenerito
la sua storia, subito seguita da Sodoma e Gomorra, che mi hanno
commossa per la loro determinazione, e dal granchietto innamorato di
Alabasta ^_^
Bene, ora la smetto di blaterare, terminando con la domanda di rito:
Qual'è la vostra sigla preferita di ONE PIECE?
A presto!
ciao ciao!!!
Immagini
e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di
lucro
|
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Capitolo 16 *** 15. Lucciole ***
c1
Camminavamo
per i corridoi
della villa, vicini ma distanti; ormai ero solo uno stupido satellite,
che orbitava attorno alla sua stella con regolari traiettorie, prima
più vicine, poi più lontane, ma senza mai
incontrarla. Un
satellite non può toccare la sua stella, altrimenti
morirebbe,
disintegrandosi su di essa e ferendola. Un satellite doveva limitarsi a
girarle intorno, a guardarla brillare, splendente e bellissima, ad
amarla da lontano, concedendosi solo ogni tanto un’occhiata
ravvicinata.
Io ero quel satellite, ed Ace la mia splendida stella lucente.
I nostri corpi si avvicinavano, si scostavano, arrivavano quasi a
sfiorarsi a volte, per poi tornare distanti.
Il mio cuore era esausto, stravolto dai battiti accelerati e dai tuffi
che gli occhi e la bocca del moro lo costringevano a fare. Le mie
labbra erano ormai un sorriso perenne, che illuminava anche il mio
sguardo; quel fiammifero aveva donato una scintilla di luce alla mia
oscurità, aveva creato una piccola fiammella a cui
aggrapparmi
quando mi serviva calore.
Nonostante adorassi restare del tempo extra con lui, non potei evitare
di notare la lunghezza del tragitto per arrivare alla mia stanza, segno
evidente che seguendo Ace avevo imboccato non so quali corridoi, e mi
ero sicuramente persa. Il caso volle che un domestico incrociasse la
nostra strada, e pazientemente decidesse di scortarci davanti alla mia
camera, che si trovava al piano di sotto e nel corridoio opposto; a
conferma della mia mancanza di fiducia verso l’orientamento
del
moro.
«Dovrebbe essere questa…» Disse
d’un tratto,
riscuotendomi dai miei pensieri, il maggiordomo, congedandosi
rapidamente. Ci trovavamo davanti ad una porta di legno scuro, troppo
elaborata e barocca per i miei gusti, e che non volevo fosse quella
della mia stanza, perché avrebbe significato essere arrivati
e
dover dire addio per sempre al mio Sole… Ma
l’impronta del
portentoso calcio di Nami era una prova inconfutabile.
«Speriamo sia questa davvero… Non vorrei
ritrovarmi
davanti la signora Kokoro in mutande, o Ivankov… e tantomeno
il
“bel” Duval!» Affermai sarcastica,
mimando con le
mani le virgolette. Mi venivano i brividi all’idea che
quel… coso potesse farmi l’occhiolino!
La faccia che fece Ace alle mie parole fu fantastica, descrivibile
solamente facendo un confronto, visto che non esisteva una parola
adatta a definirla. Immaginatevi un bambino, un bel bambino nel
seggiolone, che attende con impazienza il cucchiaio stracolmo di pappa,
affamato e curioso. Ora pensate al sapore orrendo che hanno certi
omogeneizzati, e figuratevi la faccia del bambino quando il suo
inesperto palato viene a contatto con quella poltiglia. Le sopracciglia
corrucciate, la bocca arricciata, come il naso, e negli occhi una
domanda silenziosa: perché mi dai questo schifo?
Ecco, ora sostituite il bambino con Ace, ed otterrete la sua
espressione (ovviamente evitate di immaginarvelo nel seggiolone,
altrimenti perde credibilità la descrizione).
«Mi hai appena guastato il sonno per i prossimi mesi, ne sei
consapevole?» Mi chiese, rilassando le labbra, ma mantenendo
la
fronte corrucciata. Risi, per allungare di qualche secondo
quell’addio, ma quando le mie risa si spensero, il silenzio
parlava da sé; era giunto il momento di salutarsi.
«Beh, grazie per la serata… E tenta di non
addormentarti
più in certe situazioni, non ci sarò sempre io a
fare la
bagnina!» Affermai, mettendo una mano sulla maniglia, pronta
a
spezzare la mia stessa volontà, interrompendo
quell’incontro.
Ace sorrise, con una mano in tasca e l’altra dietro la nuca,
a
torturarsi le ciocche nere. Quanto avrei voluto infilare le dita in
quei crini di seta, almeno un’ultima volta, solo per provare
ancora quella sensazione sotto i polpastrelli. Ma non c’era
possibilità di realizzare quel desiderio, ero già
stata
fortunata ad aver vissuto una serata magica, non potevo pretendere
altro.
«Cercherò di stare attento, mi spiace che tu debba
andare
via… Sicura di non poter restare? Potremmo fare una
passeggiata
nel parco qui fuori, questa casa ha un giardino stupendo!»
Disse,
guardando il pavimento e continuando la dolce tortura ai suoi capelli.
Avrei tanto voluto accettare, ma non sapevo che ora fosse, e non potevo
far aspettare Elena in camera mentre io facevo i miei porci comodi. Con
lui sarei andata anche a visitare stalle e letamai, se me
l’avesse chiesto, ma non c’era solo la mia
volontà
da considerare.
«Dispiace anche a me dover partire, ma non posso
restare…
Verrei volentieri in giardino, l’ho visto di sfuggita
all’arrivo ed è veramente splendido, ma Elena mi
starà aspettando, e non voglio lasciarla sola in
cam-».
La porta sulla quale ero appoggiata si aprì di scatto,
facendomi
quasi perdere l’equilibrio, ed interrompendo a
metà la mia
frase. Questa faccenda di irrompere nelle conversazioni altrui
sfondando porte, finestre, simili ed eventuali, stava diventando
insostenibile.
Elena, sorridente ed allegra, vestita come quella mattina, mi guardava,
tenendo in mano una manciata di fili colorati intrecciati tra loro.
«Che stai facendo? Mi hai fatto prendere un colpo!»
Le
chiesi perplessa, vedendo che il suo sorriso non si spegneva, anzi,
restava teso e fin troppo esagerato.
«Oh scusa, stavo andando in camera di Nami, Robin e Bibi per
regalargli questi bracciali, loro hanno tanto insistito
perché
tenessimo l’abito indossato stasera, così mi sono
ricordata di avere ancora in borsa questi bracciali
dell’amicizia, ti ricordi che li avevamo comprati qualche
mese
fa, ma poi non ce li siamo più divisi? Ecco, pensavo fosse
carino regalarne uno a testa alle ragazze… Sono state tanto
gentili… E poi così posso stare a chiacchierare
con loro
ancora un attimo, ti fa niente? Voi andate pure nel parco a fere una
passegg-» Rispose Elena, fin troppo esaurientemente,
bloccandosi
a metà dell’ultima frase e sorridendo ancora di
più, sotto il mio sguardo truce. Era troppo tardi per
rimangiarsi tutto, negando di aver origliato spudoratamente la
conversazione tra me ed Ace di pochi secondi prima, e lei lo sapeva.
Ace ridacchiò, probabilmente giungendo alla mia stessa
conclusione, mentre io guardavo di sbieco la mia amica, che sicuramente
aveva sostato dietro alla porta più del dovuto.
«Beh, io vado, mi stanno aspettando, ciao!»
Squittì
quella maledetta, sgattaiolando veloce nel corridoio, e sparendo dalla
mia vista.
Ridacchiai imbarazzata, scompigliandomi leggermente i capelli sulla
fronte, tanto valeva andare a fare un giro nel parco, no?
«Mi aspetti qui cinque minuti? Il tempo di mettermi
più
comoda ed arrivo…» Dissi sorridente, ottenendo un
cenno
d’assenso di Ace. Com’era bello quel
ragazzo…
Chiusi la porta alle mie spalle, appoggiandomi per qualche secondo al
legno scuro per calmare i nervi. Una passeggiata al chiaro di luna con
Pugno di fuoco, che sarà mai? Sbuffando mi scostai dalla
porta e
mi diressi verso il letto, dove i miei vestiti mi aspettavano, puliti e
ripiegati. Tolsi rapida le scarpe e l’abito, infilandomi la
mia
comoda maglietta, i pantaloncini ed i tanto amati sandali. Tornare alla
mia altezza naturale fu un cambio di prospettiva brusco, ma necessario;
non potevo affrontare una passeggiata con i tacchi alti, me la cavavo
con l’equilibrio, ma non volevo ricordarmi quella serata per
il
mal di piedi atroce. Piegai il vestito e lo infilai nello zaino, da
dove estrassi il cellulare che mi infilai in tasca, e dopo una rapida
occhiata nello specchio, uscii in corridoio.
Ace mi aspettava, appoggiato con la schiena sul muro di fronte; le mani
in tasca, le spalle rilassate, il capo appoggiato alla parete, con gli
occhi che guardavano un punto non ben definito del soffitto.
Mi concessi di osservare quel corpo perfetto un’ultima volta,
soffermandomi sugli avambracci muscolosi, scoperti dalle maniche della
camicia bianca rimboccate fino ai gomiti, e sul collo perfetto, ornato
dalle inconfondibili perle rosse della sua collana.
Il moro abbassò lo sguardo su di me, e dalla sua altezza
doveva abbassarlo di parecchio, e si scostò dalla parete.
«Pronta?» Mi domandò sorridente,
illuminandomi di
nuovo con quella sua spontaneità favolosa. Annuii felice, ed
insieme ci dirigemmo verso il giardino, al quale si accedeva grazie ad
un’immensa parete, totalmente composta da finestroni di
foggia
moderna che si aprivano scorrendo su cardini in acciaio, al piano terra.
L’erba mi solleticava i piedi, avvolti dalle poche
striscioline
di cuoio dei sandali, tagliata ad un altezza perfetta, che non dava
fastidio. I piccoli lampioni di ferro scuro, posizionati in angoli
strategici del parco, in modo da illuminare quasi tutto il prato, erano
accerchiati da stuoli di insetti, attratti dalla luce delle lampadine.
Gli zampironi bruciavano sui tavoli sotto i gazebo, coprendo quasi
totalmente il profumo delle belle di notte e dei cespugli sempreverdi,
scacciando però le zanzare.
Iniziammo a gironzolare distrattamente sull’erba, con passi
lenti
e quasi strascicati, totalmente immersi nel silenzio della sera. Il
cielo limpido brillava, inondato da una cascata di stelle brillanti e
dai raggi della pallida luna. Il lago, invisibile oltre
l’alto
muro di cinta, produceva un leggero sciabordio contro i pontili,
facendo scricchiolare il legno delle barche. I cespugli di alloro
diffondevano il loro profumo, mente le betulle si lasciavano cullare
dal vento. Era un ambiente suggestivo, quasi magico, ed in aggiunta ero
con Ace. Sola, in un giardino, di notte, con Ace. Più lo
ripetevo a me stessa, meno mi sembrava realmente possibile; era
semplicemente un sogno…
«Ti va di… sederci qui?» mi
domandò,
indicando una panchina di legno e ferro posizionata accanto ad un
laghetto artificiale, relativamente grande per essere in un semplice
giardino, dove delle piccole ninfee galleggiavano sul pelo
dell’acqua immobile e scura.
Annuii, accomodandomi sulla panchina; ci sedemmo vicini, io con la
schiena appoggiata alla panca, lui con i gomiti puntellati sulle
ginocchia, intento a guardare l’acqua. Poco dopo lo imitai,
sporgendomi in avanti e sfiorando con il mio braccio, il suo. Il cuore
perse un battito, scollegando totalmente il cervello, che decise di
impazzire, ordinando al mio collo di inclinarsi verso il moro, facendo
poggiare la mia tempia sulla sua spalla. Quando il contatto avvenne,
non fu solo il mio corpo a pietrificarsi, anche Ace sembrò
congelarsi a quel tocco. Cosa mi era saltato in mente? Stupido
cervello, voleva forse farmi morire d’imbarazzo? Cosa gli era
preso? Cosa mi era preso? Ok che era un sogno, e che tanto durante la
cena si era addormentato sulle mie ginocchia, però questo
mio
gesto era sconsiderato!
Stavo per raddrizzare nuovamente il capo, con le guance ormai purpuree,
quando una morbida guancia spruzzata di lentiggini si posò
su di
esso. Il mio cuore bramava la libertà, pompando frenetico e
tentando di uscire dal mio petto, squarciandomi la carne, per correre a
consegnarsi al ragazzo di fuoco. I miei muscoli si rilassarono,
abbandonando lo stato di allerta che avevano assunto per colpa
dell’imbarazzo. Stava accadendo veramente? Era il volto di
Ace
quello premuto contro la mia fronte? Era la sua spalla quella su cui
ero appoggiata? Ed era suo quel profumo magnifico che mi solleticava il
naso? Che odore ha il fuoco? Me lo sono sempre chiesta…
Sappiamo
l’odore delle cose toccate dalla fiamme, ma non il profumo
delle
fiamme stesse… Terra bruciata, gomma bruciata, carne
bruciata,
ma il fuoco? Ora potevo rispondere.
Il fuoco profuma di sole, di luce, di spezie esotiche, di terre lontane
e misteriose; odora di casa, di calore… Profuma di buono.
Ormai il mio cuore aveva perso la sua regolarità, battendo
all’impazzata con ritmi forsennati nel mio petto. Lo stomaco
annodato dall’emozione, iniziava a farmi sentire le tanto
decantate “farfalle”, mentre le guance si
abituavano al
nuovo rossore che le colorava ormai da tutta la sera, anche se a fasi
alterne.
Sospirai, serena e felice in quell’istante perfetto. Ero come
una
falena, attirata dalla luce del fuoco, mi avvicinavo ad esso
ustionandomi, ferendomi, facendomi del male. La differenza sostanziale
tra me e quella sciocca farfalla notturna, era la mia assurda
consapevolezza del destino a cui stavo andando incontro a braccia
aperte.
Mi sarei fatta del male, mi sarei ferita, avrei sofferto e pianto
ancora di più se avessi lasciato il mio cuore libero di
correre
dalla mia luce. Eppure lo lasciai fare, lasciai che il mio cuore
impazzisse, correndo attraverso le vene e pulsando follemente, lasciai
che le farfalle si librassero furibonde nel mio stomaco, lasciai che la
mia mente si concedesse una speranza: quella di far durare
quell’attimo in eterno.
Avrei sofferto? Sicuramente. Valeva la pena tutto quel dolore, per una
sola serata? Assolutamente si.
«Non sono bravo in queste cose, ma devo
chiedertelo… Sai chi sono realmente?»
Sentii la sua voce tremare e diffondere quel tremolio sulla sua
guancia. Era incerto, titubante, insicuro di quelle parole e forse
spaventato dalla mia risposta.
«Conosco il tuo passato, ma non mi importa. Sei Ace, solo
Ace.» Risposi, chiudendo gli occhi e sistemandomi meglio
accanto
a lui. Mi aveva chiesto se sapevo chi era realmente, ed io ero stata
sincera. Non mi era mai importato chi fosse suo padre, lui era perfetto
così, sia che si chiamasse Portuguese D. Ace, oppure Gol D.
Ace;
rimaneva sempre e semplicemente lui, solo Ace. Lo sentii rilassarsi
ulteriormente al mio fianco, era così bello potergli stare
vicina in quel modo, senza pensieri, senza rimuginare sulle
conseguenze, solo io e lui, da soli nella sera.
Piccoli insetti iniziavano a ronzarci attorno, lontani dalle fragranze
degli zampironi potevano tentare di trovare il punto giusto in cui
mordermi indisturbati. Ero un buffet per le zanzare, fin da piccina mi
avevano detto che avevo un sangue dolce a quanto pareva, ed io avevo
sempre risposto che avrei preferito averlo acido, per evitare le
centinaia di punture che ogni anno dovevo curare.
«Maledetti insetti!» Sibilai, assassinando una
succhiasangue volatile sulla mia gamba. Ace ridacchiò,
allontanando con un gesto della mano altri insetti.
«Non ti piacciono gli insetti?» Mi chiese
divertito, beato
lui che li trovava divertenti, per quanto mi riguardava erano
rivoltanti.
«Tollero solo farfalle e coccinelle, perché sono
carine, e
le lucciole.» Risposi, tenendo però lo sguardo
attento,
pronto a cogliere avvicinamenti sospetti.
«Perché le lucciole? Sono bruttissime in
realtà, lo sai vero?»
«Si, alla luce del giorno sono bruttine, ma di sera, quando
brillano nei cespugli… Sono magiche. Le ho viste solo una
volta,
ed erano stupende; piccole lucine che svolazzavano nell’erba.
È un peccato che dove abito io vederle sia praticamente
impossibile…» Risposi con tono nostalgico. Mi
piacevano da
impazzire quei luccichii, ma tra inquinamento e cemento, per vederle
serviva un miracolo ormai.
«Magiche dici? Può darsi… Chiudi gli
occhi per favore…»
«Perché?»
«Fallo e basta…» Mi rispose
ridacchiando, beffandosi
della mia risposta sospettosa. Mi fidavo di lui? Si, senza ombra di
dubbio.
Chiusi gli occhi, perdendomi ancora nel suo profumo e nel calore del
suo corpo, per un attimo che mi parve infinito, ma che comunque
durò troppo poco. Sentivo solo il silenzio della notte, e
percepii un leggero movimento delle sue braccia, ma
nient’altro;
ero cieca e sorda in quell’istante, ma stavo bene
così,
accanto a lui.
«Aprili ora…» Mi sussurrò il
moro, troppo
vicino al mio orecchio per non far collassare il mio povero cuore, ed
io ubbidii, aprendo lentamente le palpebre, e restando senza fiato.
Sul laghetto ondeggiavano decine e decine di minuscole fiammelle
fluorescenti, piccole lucine fluttuanti sul pelo dell’acqua,
che
illuminavano lo specchio tranquillo con il loro bagliore, riflettendo
la loro lucentezza anche sul prato circostante e su di noi.
L’atmosfera era cambiata, era diventata surreale, magica.
Avevo
ragione, le lucciole, anche se artificiali, sono magiche. Quelle
fiammelle poi avevano anche distratto gli insetti, liberandomi
dall’assalto delle zanzare.
Mi staccai dalla spalla di Ace, per potermi voltare verso di lui, con
gli occhi sgranati per lo stupore e per l’emozione. Aveva
fatto
una cosa bellissima per me, per un’estranea che conosceva da
poche ore, ed il suo viso, illuminato da quella luce particolare, era
ancora più bello ed angelico. Hotarubi hidaruma, le lucciole
di
fuoco: l’attacco di Pugno di fuoco che preferivo in assoluto.
Avevo sempre amato le lucciole, ma ammetto che la mia ammirazione per
quegli esserini era aumentata notevolmente quando avevo visto quella
particolare tecnica di Ace. Me ne ero innamorata subito, quei bagliori
fluorescenti mi stregavano.
«Sono bellissime… G-grazie…
Sono…
Bellissime.» Dissi, attorcigliandomi più volte la
lingua
per l’emozione, con gli occhi che iniziavano ad appannarsi
per le
lacrime. Adoravo le lucciole da sempre, e le avevo amate ancora di
più quando avevo visto quell’abilità di
Ace, ed ora
lui era qui con me, ed aveva creato quei magnifici bagliori per me. Era
un’emozione troppo grande da sopportare senza nemmeno una
lacrima, che in quell’istante sfuggì dalla rete
delle mie
ciglia, come se l’avessi chiamata col pensiero. Svelta
l’asciugai, prima che arrivasse al sorriso commosso che avevo
dipinto in volto, guastandolo.
«Non devi ringraziarmi… Sto bene… Qui
con te, mi
fai stare bene… Non mi capita spesso, anzi, non mi capita
mai
con persone appena conosciute… Non so cosa mi hai fatto, ma
con
te mi sento stranamente… Felice…» Disse
restio,
come se stesse cercando le parole giuste, come se stesse aspettando
un’interruzione improvvisa, un rifiuto brusco da parte mia;
invece ottenne solo di farmi scoppiare il cuore e di allargare
ulteriormente il mio sorriso. Ace aveva appena affermato che in mia
compagnia stava bene e si sentiva felice, ed io stavo per morire di
gioia. Mi sentivo bene in quel momento, mi sentivo a casa,
protetta, completa e… Innamorata. Si, perché
ormai era
inutile nascondersi dietro a scuse infantili e poco credibili, ero
innamorata di Ace e la serata che stavo vivendo aveva aumentato
ulteriormente le dimensioni di quel folle sentimento. Avrei sofferto il
doppio dovendolo salutare, ma avrei conservato per sempre il ricordo di
questa magia nel mio cuore, sempre che quell’insulso muscolo
riuscisse a reggere ancora l’emozione.
Ogni volta che tornavo guardare il viso del moro, mi stupivo
di
quanto fosse bello, di quanto quei lineamenti decisi fossero
affascinanti, di quando quegli occhi color pece fossero splendenti, pur
essendo neri. Mi aveva conquistato il cuore, prima come personaggio,
poi come ragazzo; era stupido innamorarsi di un semplice disegno, di
una sciocca animazione per bambini, ma il suo carattere buono, il suo
passato di dolore e il suo sorriso mi avevano rapito il cuore, e non
era mia intenzione riprendermelo. Potevo vivere un sogno, e
l’avrei vissuto fino in fondo, godendomi quella magia, ancora
qualche istante…
«Anche io sto bene, qui con te…» Risposi
sincera e
felice, tornando ad appoggiarmi alla spalla di Ace, che stavolta mi
cinse le spalle con il suo braccio, tornando a disegnare invisibili
ricami sulla mia spalla. Le piccole scariche elettriche che mi
provocava quel contatto erano una tortura troppo piacevole, e sarebbe
inutile ripetere quanto il mio cuore stesse impazzendo nel mio petto.
Un leggero alito di vento mi fece venire la pelle d’oca; non
eravamo ancora in estate, e l’aria portava con se ancora
quella
frescura che rinfrescava la notte, fino a farti desiderare di avere
almeno una maglia a maniche lunghe a coprirti.
«Hai freddo?» Mi chiese Ace, con un tono
leggermente
preoccupato. Dovevo negare, negare e ancora negare. Se gli avessi
risposto che avevo realmente freddo, saremmo rientrati, e
quell’attimo sarebbe finito per sempre. Non volevo rientrare,
volevo rimanere ancora lì tra i bagliori fluorescenti delle
lucciole, tra le braccia del ragazzo che mi aveva fatta innamorare;
volevo restare ancora un attimo con lui. Per rimanere ancora
così, avrei sopportato tutte le intemperie, anche pioggia,
gradine e neve.
«No, sto bene!» Risposi, tentando di nascondere la
pelle infreddolita.
«Menti bene quanto Rufy.» Disse Ace, staccandosi da
me per
guardarmi in viso. Di tutto rimando, io abbassai la testa per
nascondermi. Certo, oltre che ad avere freddo in una situazione del
genere, mi mettevo anche a fare la bambina capricciosa; complimenti
Selene, applausi in abbondanza per questa tua patetica performance,
l’Oscar come miglior idiota non protagonista, era sicuramente
mio.
Sentii uno strano fruscio accanto a me, e dopo pochi attimi di silenzio
uno strano calore mi avvolse le spalle, abbracciandomi con quel profumo
inconfondibile che avevo abbinato al fuoco. Alzai la testa e mi guardai
le spalle, coperte da un leggero strato di tessuto bianco, caldo come
se fosse stato poggiato su un calorifero bollente fino a pochi istanti
prima: era la camicia di Ace.
Il mio cuore finalmente cessò di battere, interrompendo
quella
danza frenetica per qualche secondo, e riprendendo ancora
più svelto e forte di prima, quando il braccio di Ace
tornò al suo posto, sulle mie spalle. Era tutto troppo
bello,
troppo surreale e troppo perfetto per essere un attimo di vita vera;
sicuramente stavo facendo uno dei miei soliti sogni, più
reale e
dettagliato magari, ma sempre un sogno rimaneva. Era impossibile che
fosse accaduto tutto sul serio, che veramente io, la
banalità
personificata, mi trovassi abbracciata ad Ace in una nuvola di lucciole
incandescenti. Era sicuramente un sogno, una fantasia della mia mente,
e la suoneria del mio cellulare era la sveglia che mi riportava alla
realtà.
L’Overtaken di ONE PIECE riecheggiava dalla tasca dei miei
calzoncini, mentre io trafficavo per raggiungere il cellulare. La
parola “Mamma” che lampeggiava sul display non
prometteva
nulla di buono.
«Pronto?»
«Ciao, tanto per la cronaca è mezzanotte e un
quarto,
quando fate conto di tornare? Siete partite almeno?» Chiese
pacata ma tranquilla, mia madre. In questi casi la soluzione migliore
è mentire spudoratamente, onde evitare di dire
verità che
la farebbero alterare tipo “No, sono in un parco al chiaro di
luna con un ragazzo di fuoco, sai quello per cui mi sono quasi annegata
nel pomeriggio? Ecco, e non abbiamo ancora contattato gli autisti per
il ritorno!” Era una pessima idea dirle una cosa del genere,
veramente pessima.
«Tra non molto partiamo, stanno chiamando gli autisti, ti
faccio
uno squillo quando siamo in autostrada, va bene?» Risposi
fingendo allegria, guadagnandomi un’occhiata perplessa di Ace
ed
un sollevato assenso da mia madre. Riagganciai senza sorriso
però, perché stavo per salutare il mio sogno, per
sempre.
«Temo che sia ora di andare… Sicuramente
è appena
arrivata una telefonata simile ad Elena, sono stata bene con
te…
stasera. Grazie per le lucciole e per la passeggiata, e… Per
tutto insomma…» Dissi, con il capo chino e la gola
tesa,
attenta a scegliere le parole ad a mascherare il dolore come meglio
potevo. Alla fine era giunto il momento di svegliarsi da quel sogno
bellissimo, e di ritornare alla vita di tutti i giorni, conservando
quegli attimi nel cuore e nella mente, come ricordi indelebili della
notte più bella della mia vita.
-----------------------------------------------------------------------------------------
Yohohohoho,
ma ciao! Allora, parto subito scusandomi per la lunghezza di questo
capitolo, ma dividerlo a metà era impossibile, ci ho
provato, ma non ce l'ho fatta xD
Comunque, QUESTA
è l'Overtaken che ha Selene come suoneria, per chi
non la conoscesse! (è troppo bella *_*)
Poi, volevo mettere all'inizio di ogni capitolo una piccola
strisciolina illustrata, che rappresentasse il titolo o parte del testo
(come ho fatto in questo capitolo XD) vi può piacere come
idea o
è meglio che lascio perdere? xD
infine, visto che non so più come ringraziare voi tutti, che
mi
legete, commentate, inserite la storia tra le vostre seguite e
preferite, ho deciso di dedicarvi una piccola raccolta comica e
demenziale sul nostro Ananas preferito! (giusto per farci
quattro risate
alle sue spalle xD) che ho appena pubblicato!!!
Mi sto dilungando da matti, e mi scuso per questo, comunque la mia
sigla preferita è
sicuramente "Fight
Together", mi fa piangere ogni santissima volta che
la guardo, ed al secondo posto "One
Day", altra sigla che mi distrugge
ogni volta =( (si, non fatemi notare il mio masochismo
estremo,
ne sono consapevole xD)
Bene, un'ultima domanda "ufficiale" diciamo:
Siete mai stati vittima di Spoiler su ONE PIECE? cosa vi hanno rivelato?
Ed ora, saluto
tutti quelli che
pazientemente sono arrivati fin qui, e vi lascio un'immagine per
introdurre la mia raccolta (della quale sottolineo la
demenzialità) xD!
Spero che vi abbia strappato un sorriso, e questo è
il mio piccolo ( e forse anche poco gradito) omaggio a voi che
recensite sempre e costantemente, a voi che avete iniziato a seguire la
mia storia dal principio e non l'avete mollata, a voi che avete letto
tutti i miei papiri in pochi giorni, o addirittura in 24 ore!
Vi
ringrazio di cuore, senza persone come voi che mi motivano ad andare
avanti, mi invogliano a scrivere e mi danno idee sensazionali (si,
perchè sappiatelo, dai vostri commenti traggo tantissima
ispirazione! ^_^) non sono sicura ce la storia sarebbe la stessa!!!
GRAZIE!
un saluto particolare in questo capitolo va poi alle mie amiche di
penna, che tormento con consigli e che stuzzico sadicametne ^_^!!!
Ciao, e alla prossima!!!!
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lucro
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Capitolo 17 *** 16. Addio! ***
c1
Scostarmi
da Ace ed alzarmi, furono le due azioni più faticose della
mia vita; dovetti aggrapparmi con forza alla mia razionalità
per non tornare, come una molla troppo tesa, tra le sue braccia calde.
Ora però il poco raziocinio che mi rimaneva era messo a dura
prova dal fisico del moro, che perfetto e scolpito sembrava fatto di
cera alla luce soffusa delle lucciole, che ancora si libravano
nell’aria. Non avevo pensato, quando mi aveva appoggiato
dolcemente la camicia sulle spalle, al fatto che se la camicia la
indossavo io, lui sarebbe restato a petto nudo. Con la gola secca e le
guance rosse feci per togliermi la morbida flanella bianca dalle
spalle, ma la mano di Ace fermò la mia.
«Tienila, io sto meglio senza; non sono abituato a mettermi
camicie e magliette.» Mi disse il moro, forse inconsapevole
dell’effetto che quelle parole avevano su di me. Aveva detto
che stava meglio senza camicia, ebbene, non potevo che essere
d’accordo. Ace era meraviglioso, ma con il ventre scolpito e
le spalle muscolose scoperte, senza stupidi ed inutili strati di
vestiti a celarne la bellezza, stava sicuramente meglio. Che poi lui
quella frase la intendesse a livello di temperatura, erano dettagli.
«Grazie, vieni dentro o resti qui ancora un
po’?» Gli chiesi, vedendo che non accennava a
muoversi e sperando in altri preziosi secondi in sua compagnia.
«Resto ancora qualche istante, tu vai
pure…» Rispose tornando a sedersi sulla panchina,
che scricchiolò sotto la sua spinta. Ingoiai il boccone
amaro ed annuii, andandomene a testa bassa dopo aver mormorato un
saluto, che sapeva di addio.
Forse era meglio così, non sarei riuscita a dirgli veramente
addio, era più semplice andarsene come se non fosse
l’ultima volta, come se la possibilità di
rivedersi non fosse un’utopia irrealizzabile.
Il vento soffiava debole tra gli alberi, e mentre me ne andavo un fiore
era nato in quel giardino, nel luogo in cui avevamo guardato le
lucciole. Un fiore bellissimo, unico e speciale, che però
non avrei mai condiviso con Ace, proprio perché me ne stavo
andando per sempre dalla sua vita. Il fiore dei miei sentimenti era
sbocciato, ignorando gli avvertimenti del mio cervello, e sarebbe
appassito lentamente e con sofferenza, sperando di essere colto da quel
ragazzo di fuoco.
Come potevo spiegare ad Ace il mio dolore e il mio amore per lui? Come
potevo spiegargli i continui rossori che mi irroravano le guance?
Al mio ritorno a casa mi sarebbero rimasti solo i ricordi e le immagini
salvate sul computer, piccoli sogni in formato immagine, conservati
gelosamente in una piccola cartella nei circuiti elettronici del mio
portatile. Lui sarebbe sparito per sempre dalla mia vita, personaggio
di un sogno ormai vissuto, dal quale stavo per svegliarmi.
Rabbrividii varcando la soglia della villa, ma non per il freddo; era
il gelo del dolore che iniziava a congelarmi il petto, approfittando
dell’assenza del fuoco che l’aveva sciolto,
riformando lo strato di ghiaccio attorno al mio stomaco ed al mio
cuore, immobilizzando le farfalle e rallentando i battiti.
Salii le scale e mi diressi verso la mia stanza, dove la porta era
spalancata ed Elena andava avanti e indietro sistemando i nostri zaini.
Quando entrai non servirono parole, mi corse semplicemente incontro
abbracciandomi, ed io piansi.
Piansi come una bambina, piansi singhiozzando, piansi aggrappandomi a
quelle spalle esili ma forti, piansi sfogando tutto il mio dolore,
piansi come solo guardando Marineford avevo fatto, piansi buttando
fuori dalla gola quel male che stava per soffocarmi, piansi sentendo le
forze abbandonarmi, come se versassi lacrime di sangue, non di semplice
acqua salata.
Elena mi teneva stretta, sussurrandomi parole nell’orecchio,
che però non sentivo, non volevo sentire, non capivo, non
volevo capire. Quella giornata da sogno era destinata a farmi soffrire
così tanto, eppure l’avevo amata, eletta a
giornata più bella di tutta la mia vita. Dicono che se non
uccide fortifica, ma l’addio che sono costretta a dare
stanotte davvero non mi avrebbe assassinato l’anima? Faceva
male da morire dire addio ad Ace, restare senza di lui, sapere che non
l’avrei più rivisto, sapere che non sarebbe
più stato con me, nemmeno un secondo.
Avrei ripreso la mia vita, banale ed abitudinaria, ripensando a lui in
tutte le sere spente, in tutti gli attimi in cui la mia mente non
sarebbe riuscita a tenersi impegnata a sufficienza. Avevo combattuto
quegli attimi pensando a lui in passato, ma ora come avrei sopportato
quel dolore? Avrei vissuto il mio tormento, senza
possibilità di scampo, senza fuoco nel mio cielo nero, senza
la luce nell’oscurità a guidarmi.
I singhiozzi lentamente si calmavano, e quando le lacrime finiscono
arriva il dolore vero, quello che non puoi espellere dagli occhi o
dalla gola, quello che devi tenerti dentro, aspettando che il tempo lo
lenisca.
«Selene, ho appena chiamato gli autisti, partiamo tra dieci
minuti… » Mi comunicò la mia amica,
staccandosi leggermente dal mio abbraccio per guardarmi in viso. Non
volevo nemmeno immaginare come ero ridotta, uno straccio usato e
gettato a terra probabilmente aveva un aspetto migliore di me, una
ragazzina consumata dalle lacrime con addosso una camicia di tre taglie
più grande, come minimo.
Annuii lievemente, giusto per far capire ad Elena che l’avevo
sentita, e mi diressi in bagno, per sciacquarmi il volto logoro. Evitai
accuratamente lo specchio, continuando a stringermi alle spalle la
camicia. Avrei dovuto portarla con me? O voleva che la lasciassi ai
domestici? Sarebbe venuto a salutarmi, oppure no?
L’acqua fresca mi aiutò a calmare i nervi, ma non
poteva fare miracoli. Dalla stanza provenivano voci diverse,
probabilmente era arrivato un maggiordomo ad avvisarci che le auto
erano pronte per portarci a casa, via da quella villa, lontano dai
nostri sogni, lontano da lui. Una volta a casa avrei gridato il suo
nome, soffocando nei cuscini la mia voce, annegandomi di lacrime e
dolore, ma ora dovevo andarmene da quel posto con l’ultimo
briciolo di dignità che mi restava, senza piangere. Sospirai
forte ed uscii con la testa bassa, diretta allo zaino sul mio letto.
Nel mio tragitto però c’era un ostacolo che prima
non c’era. Potevo vedere solo le scarpe da ginnastica bianche
e l’orlo dei jeans, ma bastarono a mozzarmi il fiato. Alzai
lentamente il capo, sperando che i segni delle lacrime non fossero
così visibili da farmi apparire come una stupida frignona.
Si poteva morire d’amore? In quel momento pensai di poterlo
fare.
Ace stava dritto di fronte a me, in quella posizione che tanto amavo,
con la schiena spinta all’indietro e le gambe leggermente
piegate, tenuto in equilibrio dagli addominali tesi. Deglutii,
raggiungendo con lo sguardo il volto del ragazzo, che mi guardava
stranito, confermando le mie paure riguardo ai segni del pianto.
Riabbassai gli occhi, incapace di reggere quelli d’onice del
moro, troppo stanca per riuscire a mentire con gli occhi, con troppo
dolore dentro per sostenere lo sguardo caldo del fuoco.
«Volevo salutarti prima che partissi, e darti
questo.» Disse, allungando una mano verso di me, tendendomi
il suo braccialetto rosso e bianco, che presi con dita tremanti e le
lacrime pronte a ritornare. Le cacciai indietro, vietando loro di
arrivare agli occhi, e rialzando lo sguardo verso il viso di Ace, che
torturava nuovamente i suoi capelli dietro la nuca.
«G-grazie… Vorrei avere qualcosa per ricambiare,
ma purtroppo non speravo nemmeno di riuscire a passare una serata del
genere, e non ci ho pensato…» Sussurrai
timidamente, indossando subito il bracciale sul polso sinistro. Era un
po’ largo e se non ci fossi stata attenta si sarebbe sfilato,
ma non c’era pericolo, l’avrei custodito come se
fosse stato d’oro.
«Mi hai già regalato tantissimo, altri doni
sarebbero solo superflui…» Disse, sfiorandomi il
viso con quelle calde parole, che iniziarono a sciogliere il ghiaccio
nel mio petto, come accade alla neve esposta al Sole.
Si avvicinò a me di un passo, costringendomi ad alzare
ancora di più lo sguardo per poterlo guardare negli occhi.
Fu un attimo lungo una vita, un secondo che durò delle ore,
ma dopo quell’istante le sue braccia mi avvolsero le spalle,
facendo poggiare la mia guancia sul suo petto glabro e caldo. Le mie
braccia inerti ci misero più tempo del dovuto per cingere la
vita del moro, mosse dall’istinto e non dal cervello, che
ormai si era scollegato nuovamente, lasciando solo ai miei sensi la
volontà di agire. Il profumo della sua pelle mi avvolgeva,
calmandomi e scongelando nuovamente il dolore che mi attanagliava lo
stomaco, liberando le farfalle al suo interno e facendole svolazzare
nel mio petto. Il cuore batteva forte, sempre più veloce,
mentre gli occhi si chiudevano, lasciando al tatto e
all’olfatto il piacere di quel momento. Mentre socchiudevo
gli occhi sentii le sue mani accarezzarmi gentili la schiena,
regalandomi un’emozione che sarebbe rimasta impressa nella
mia mente per sempre, un momento bellissimo da custodire gelosamente.
Inspirai forte quel profumo denso e dolce, mentre un nuovo sorriso,
appena accennato, si formava sul mio viso. Sentivo le mani di Ace sulle
mie scapole, la sua guancia sui miei capelli, la pelle liscia della sua
schiena sotto le mie dita. Pareva di toccare una statua di cera, liscia
e perfetta; solo dove c’era il vessillo di Barbabianca, un
leggero dislivello annunciava alle dita che erano arrivate al
tatuaggio. Percorsi per quanto mi era possibile quei contorni,
bloccando le immagini dello scempio compiuto su quella pelle perfetta
dal magma. Strinsi gli occhi, scacciando quei pensieri e concentrandomi
nuovamente sul profumo e sul calore di Ace, stringendo il mio cuore in
una morsa ferrea, in modo che non si spezzasse in quel momento.
La sua guancia sfregava sulla mia testa, come un gatto che fa le fusa,
accelerando i miei battiti. Sentivo il respiro regolare gonfiargli il
petto, allora tentai di usare anche l’udito, per poter
cogliere i battiti del suo cuore, che scoprii sincrono con il mio.
Forse era solo una sciocca speranza, ma mi pareva di sentirlo
accelerare a seconda dei movimenti delle mie mani. Possibile che
provasse qualcosa anche lui? No, sicuramente quel cuore che sentivo
battere tanto in fretta era solo l’eco del mio.
«Non dimenticarti di me…»
Sussurrò, vicino la mio orecchio facendomi rabbrividire. Non
dovevo dimenticarlo? Come avrei potuto? Come potevo dimenticarmi di
lui, che mi era entrato nel cuore tanto violentemente, rubandomi
l’anima?
«Non potrei mai dimenticarti.» Risposi sicura,
spostando il viso ed incontrando i suoi occhi, ma senza sciogliere
l’abbraccio.
Lui annuì, stringendomi leggermente più forte,
permettendomi di sprofondare il viso nella sua pelle e nel suo profumo.
«Cosa mi hai fatto? Sei diversa, non sei come le altre, hai
qualcosa di speciale. Sembri rendere l’aria elettrica, quando
sono accanto a te è come se fossi a casa, sto bene. Solo con
i miei compagni e con i miei fratelli mi era capitato, e mai
così forte e così all’improvviso. Mai
con una ragazza. È come se tu mi fossi entrata dentro, come
se mi avessi stregato. E con le parole io, non sono bravo per niente,
ma… Marco mi ha intimato di dire solo quello che pensavo,
che sentivo… E di sbrigarmi a farlo, altrimenti ti avrei
persa. Ti ho già persa?» Sospirò in un
sussurro il moro, fermando per un secondo lo scorrere del sangue nelle
mie vene.
L’aveva detto davvero? Avevo sentito realmente quelle parole,
non erano frutto della mia immaginazione? Stavo entrando in un sogno
troppo profondo e reale, dal quale svegliarmi sarebbe stato
terribilmente doloroso, devastante. In quel momento tutto il mondo non
esisteva, c’eravamo solo io e lui, nel vuoto, non sentivo
nemmeno il pavimento sotto i piedi, vedevo solo il nero vortice dei
suoi occhi e la perfezione del suo viso, maledettamente vicino al mio.
Avevo intrapreso un viaggio nel quale fantasia e realtà si
fondevano, portandomi ad una splendida follia, che si sarebbe
sbriciolata nel mio petto, quando saremmo stati di nuovo distanti.
Avrei solo potuto raccogliere i ricordi, i frammenti di questo sogno,
nient’altro. Sicuramente non sapeva cosa ero disposta a fare
per vedere la sua felicità, non sapeva cosa stavo facendo a
me stessa per fargli vivere la sua vita, non sapeva quanto mi avrebbe
fatto male quando questo sogno di cristallo si sarebbe infranto nel mio
petto, mandando le sue schegge ovunque, ferendomi irrimediabilmente.
Porterò sempre con me il rimpianto di aver taciuto la sua
sorte, in favore della sua felicità, chiedendomi per
l’eternità cosa sarebbe accaduto se avessi trovato
il coraggio, in questo istante, di dirgli tutto.
Se solo avessi saputo cosa fare, cosa dire, come dirglielo, forse
l’avrei fatto. Se solo avessi avuto le parole adatte, se solo
fosse facile spiegare tutti gli avvenimenti, se solo il suo sorriso
fosse più facile da spegnere, in favore della sua
longevità. Non sapeva che gli stavo mentendo sul suo futuro,
eppure temeva di avermi persa?
«Non mi perderai mai, ma devi vivere la tua vita, ed io sarei
d’intralcio…» Risposi, ancorandomi alla
mia ragione, aggrappandomi con tutte le forze all’ideale di
quello che reputavo essere giusto.
Sentivo gli occhi, ancora incatenati ai suoi ed incapaci di staccarsi
da quell’abbraccio di sguardi, inumidirsi a quei pensieri. Il
tempo pareva inutile, superfluo in quell’attimo eterno.
Sentii le sue mani salire verso le mie spalle ed accogliere nei loro
palmi le mie gote. I pollici del moro disegnarono mezzelune sotto i
miei occhi, facendomi dischiudere le labbra, come se quelle dita
avessero digitato un codice di comando. Vidi i vortici di pece
avvicinarsi ai miei occhi, sentii il suo fiato rubarmi
l’aria, e poi la sua fronte appoggiata alla mia. Rimanemmo
così, immobili a respirare l’uno l’anima
dell’altro, troppo vicini; con il mio cuore che folle e
disperato, batteva forsennato contro il mio petto, tentando di
lacerarmi la carne per uscire. Il suo naso sfiorò il mio,
leggero come ali di farfalla, mentre i suoi occhi si chiudevano,
assieme ai miei, incapaci di reggere ancora la magia di quel contatto
visivo, accentuata dalla pericolosa vicinanza tra le nostre bocche.
Ma a quanto pareva non era destino che le nostre labbra si
incontrassero, visto che un domestico entrò in
quell’istante, schiarendosi la voce ed annunciando che le
auto erano pronte e mi stavano aspettando.
Lasciai cadere le braccia lungo i fianchi, scostandomi da
quell’abbraccio denso di emozioni non dette, carico di
sentimenti inespressi. Ace annuì al domestico, scostandosi
ancora un poco da me e con lo sguardo fisso a terra.
Non c’erano parole adatte ad un addio, il silenzio bastava a
dire tutto; non serviva aggiungere nulla. Solo un passo ci separava, ma
pareva già una distanza enorme. Lo superai svelta,
afferrando lo zaino dal letto e girandomi a guardarlo
un’ultima volta. Era un angelo, un bellissimo angelo
tormentato, finito non sapevo come nell’inferno della vita
mortale; caduto sulla mia strada, donandomi un ricordo incancellabile,
donandomi uno squarcio di paradiso che avrei conservato nel mio cuore
per sempre. Si girò leggermente, solo per guardarmi
un’ultima volta, mentre indietreggiavo verso la porta, per
poi correre a perdifiato lontana da quella stanza, lontana dalla
tentazione di dirgli tutto, lontana da quel bacio mancato, lontana da
quel sogno ormai incrinato, lontana dal dolore che svelto mi stava
rincorrendo, lontana da lui, il ragazzo che amavo più della
mia stessa vita.
Lo sentii correre al parapetto delle scale, ma non mi voltai a
guardarlo, non avrei retto il dolore di quell’addio.
Scappavo, come una codarda, come una stupida ragazzina incapace di
affrontare il dolore della vita. Ma di cosa diavolo mi lamentavo? Molte
avrebbero venduto l’anima per passare una serata come la mia,
ed io stavo a piangermi addosso per il dolore che avrei provato una
volta a casa? Ero una ragazzina viziata, ecco cos’ero. Quella
serata era sicuramente il migliore dei dolori che potevano capitarmi,
una serata unica ed indelebile, con Ace.
Arrivai in cortile, dove Elena mi aspettava, ed entrai nella mia
macchina sul sedile del passeggero, chiudendo la portiera e pregando
che l’auto partisse in fretta; non avrei trattenuto le
lacrime ancora per molto.
Quando il motore si accese sospirai di sollievo, accasciandomi ancora
di più sul morbido tessuto imbottito. Le ruote grattavano
violente la ghiaia del selciato, portandomi via da Ace, e spezzando
qualcosa dentro di me, che sapevo di non poter aggiustare.
L’auto viaggiava lenta sul viale, accelerando solamente una
volta varcato il cancello, mastodontico quanto quello che dava sul
lago, forse più alto, che si chiuse dietro le nostre auto,
inesorabile, sigillando i miei sogni al suo interno e chiudendomi fuori
da quello che avrei voluto far diventare il mio mondo.
Rimanemmo in silenzio fino all’entrata in autostrada, dove
l’autista accese la radio, facendo partire il CD fatto da
Elena. Potevo resistere fino a casa trattenendo le lacrime, ma non con
quella colonna sonora.
«Prema quel tasto verde, così mette la radio e non
è costretto ad ascoltare sigle di cartoni
animati!» Disse gentilmente Elena, capendo il mio stato
d’animo e risparmiandomi ulteriori pianti patetici in
presenza di sconosciuti. Appoggiai la testa al freddo vetro, osservando
distrattamente le luci gialle ed arancioni che scorrevano veloci.
Sembravano lucciole… Ed io non potevo permettermi di vedere
qualcosa che mi ricordasse la serata appena trascorsa, non in quel
momento. Chiusi gli occhi, ascoltando distrattamente Elena che mi
parlava di una carta che aveva firmato anche per me, una dichiarazione
che ci proteggeva dalla diffusione dei nostri nomi e delle immagini dei
nostri volti, in cambio del silenzio assoluto sugli avvenimenti e sulle
informazioni di cui eravamo venute a conoscenza in quella villa.
Era ovvio che non ci lasciassero andare via senza almeno un documento
che ci obbligasse ad evitare di andare a fare scene madri a
stupidi programmi televisivi, o di rilasciare interviste e
dichiarazioni, scatenando orde di fans isterici contro gli scienziati
ed i politici che orchestravano quella giostra. Se si fosse saputo in
giro che la trama non era cambiata, che i personaggi potevano rimanere
qui senza conseguenze, che Ace non ricordava nulla… Dio solo
sapeva che rivoluzione sarebbe scoppiata; già mi stupivo che
nessuno avesse ancora tentato di assassinare il cubo di magma oppure
quel grassone peloso di Barbanera, figuriamoci se certe notizie fossero
circolate. Il fatto di non diffondere i nostri nomi e volti poi, andava
tutto a loro favore, se nessuno avesse scoperto chi eravamo, non
avrebbero potuto tentare di intervistarci.
Avremmo evitato di riferire i dettagli persino ai nostri genitori,
tanto per quello che ne capivano loro delle nostre “insensate
passioni per cartoni animati” non cambiava molto.
Elena tentava di distrarmi, parlandomi di quanto le ragazze avessero
apprezzato i bracciali e di come Kidd alla fine fosse scoppiato a
ridere di fronte alle scuse dello scheletro maldestro. Sorrisi
distratta, solo per cortesia, sforzando i muscoli del mio viso
all’inverosimile. Era il primo sorriso sforzato di quella
sera, erano bastate poche ore a farmi scordare l’arte del
finto sorriso, che tanto avevo faticato ad imparare nei mesi
precedenti. Poche ore che mandano all’aria il lavoro di mesi,
come succede con le diete: mesi di fatiche e di rinunce, per poi
mettere di nuovo sui fianchi tutti i grammi persi, cedendo ad una
singola stramaledetta abbuffata.
Lasciandomi andare sul sedile, sperai che allontanandomi da Ace anche
il dolore sparisse con lui, allontanandosi da me, lasciando libero il
mio petto da quella morsa di ghiaccio.
Speranza vana, desiderio stupido, utopia irrealizzabile.
Non avvisai mia madre della nostra partenza, non parlai con Elena,
ignorai la radio che riempiva di musica l’abitacolo. Non mi
importava di niente e di nessuno in quel momento.
Quando arrivammo a casa e gli autisti se ne andarono, salutai Elena con
un cenno veloce, liquidai mia madre con un lugubre “ne
parliamo domani” ed andai a letto, sperando in un sonno senza
immagini, che durasse il più a lungo possibile.
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*offre ai lettori una cesta di
pomodori maturi in omaggio e va a nascondersi in un angolino, tentando
di ripararsi*
Salve... Eccomi qui... hem.. scusatemiii!!! T_T
sappiate solo che ho sofferto come non mia scrivendo questo capitolo,
mi scuso, mi dispiace, imploro perdono! ma doveva andare
così... per farvi sorridere dopo la rabbia di questo
capitolo ho scritto una nuova sciocchezza su Marco.. mi spiace davvero
che la trama abbia preso questa piega ma abbiate fiducia, la storia
è ancora lunga, e prometto di fornirvi pomodori dopo ogni
capitolo del genere ( si, ce ne saranno altri tristi, mi spiace).
niente, ora rispondo alla domanda sugli spoiler. sì, sono
stata vittima di spoiler, un mio amico, mentre eravamo in auto in
viaggio verso casa, mi ha spoilerato tutta Marineford, quando io avevo
appena perso la testa per Ace ad alabasta (ho iniziato tardi a guardare
OP, mea culpa). Io ho accostato e l'ho fatto scendere dall'auto. ho
guidato per un po', mi sono fermata a piangere pateticamente in un
parcheggio, mi sono ricomposta e dopo un oretta mi sono rimessa in
strada, andando a recuperare lo spoileratore, e portandolo a casa. Non
gli ho rivolto la parola per giorni, e quando l'ho superato con la
trama, visto che lui seguiva l'anime ed io il manga, gli ho spoilerato
tutta l'avventura sull'isola degli uomini pesce e l'organizzazione
post-guerra del mondo U_U e sinceramente? non sono ancora soddisfatta
quindi potrei spoilerargli anche il seguito! u.u
Comunque, torniamo a noi! xD
Qual'è il vostro preferito della flotta dei Sette? (vecchio,
nuovo, ex, tutti! )
Bene, ora vi saluto e...
fatemi sapere che ne pensate (chiedo ancora scusa T_T)!!!
Bacioni, alla
prossima!
Immagini
e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di
lucro
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Capitolo 18 *** 17. Sole spento ***
c1
Il
mattino arrivò troppo in fretta, rapido come una freccia
scoccata da un abile arciere, ed altrettanto letale. La luce del sole
mi svegliò, dopo un sonno che mi era parso di cinque minuti,
bussando dispettosa alle mie palpebre.
Mi rigirai tra le lenzuola, ancora avvolta dal torpore e dalla nebbia
dei sogni. Sogni assurdi, sogni romantici ma dolorosi, sogni di rossori
e di emozioni rubate, sogni di lucciole e camicie bianche, sogni di
respiri e cuori impazziti.
Portai una mano sul viso, per coprirmi gli occhi riparandoli dal raggio
di sole che filtrava dalle tende, ma qualcosa mi colpì il
naso, qualcosa di solido e tondeggiante, arrotolato al mio polso. Aprii
gli occhi lentamente, abituandomi alla luminosità mattutina
e tentando di mettere a fuoco l’oggetto che mi aveva colpita.
Era un bracciale rosso e bianco, tondo e abbastanza largo da scivolare
sul mio braccio liberamente. Ma quello non era un bracciale qualsiasi,
era il bracciale di Ace, il mio bracciale, quello che il moro mi aveva
regalato nel mio sogno!
I ricordi tornarono violenti, liberi dalle foschie della notte, nitidi
e letali, colpendomi come un pugno allo stomaco. Era successo davvero,
avevo realmente conosciuto Ace, avevo veramente quasi baciato Pugno di
fuoco, avevo veramente vissuto quello che, fino a pochi secondi prima,
mi pareva un sogno. Le mani iniziarono a tremare, mentre il panico e la
consapevolezza iniziavano a farsi strada dentro di me. Percepii il gelo
nel petto, il dolore nel cuore e la morte nello stomaco. Mi pareva di
vedere le schegge affilate dei ricordi conficcate nei miei organi, come
se qualcosa fosse esploso nel mio petto, sparando i suoi frammenti
ovunque come proiettili, ferendomi in posti che non potevano essere
curati. Ero innamorata di un ragazzo che non avrei mai più
rivisto, anzi, ero innamorata di un ragazzo che avrei rivisto solo in
televisione, e l’avrei visto morire.
Mi parve di sentire il “crack” netto e deciso di
qualcosa che si spezzava, ed era appena successo nella mia anima, nel
mio spirito, nella mia coscienza. Non sentii gli occhi pungere come
preavviso, le lacrime non si degnarono di chiedere il permesso prima di
inondarmi occhi e gote con i loro dolori salati. I singhiozzi mi
scuotevano il petto, mentre abbracciata al mio cuscino soffocavo il
viso tra le piume, sperando che mia madre fosse già uscita,
per non doverle dare spiegazioni che non avrebbe potuto comprendere.
Nessuno venne a bussare alla porta della mia stanza, quindi solo i miei
cuscini ed i miei animali erano testimoni del mio dolore e della mia
disperazione. Il cane tentava di capire cosa mi succedesse,
accoccolandosi accanto a me, mentre il gatto, di solito menefreghista e
strafottente, veniva a giocare con le mie mani arpionate al lenzuolo,
tentando forse di distrarmi o di riscuotermi da quello stato di
insopportabile pesantezza del petto.
Forse gridai, forse fu semplicemente la mia mente ad urlare il nome del
moro, graffiandomi e squarciandomi dall’interno. Era un
dolore lancinante, più forte di qualsiasi trauma fisico che
avessi mai subito, sembrava di avere una bestia feroce e famelica
intrappolata nel petto, pronta a dilaniarmi la carne e le ossa per
uscire, una bestia che bramava solo altro sangue ed altra sofferenza.
Quando gli spasmi dei singhiozzi si quietarono, permettendomi di
controllare il mio corpo, mi diressi con gambe tremanti ed incerte in
bagno, dove feci una doccia veloce, ma tanto bollente da riempire la
stanza di vapore. Non spannai lo specchio, non volevo vedere il mio
riflesso in quel momento, sapevo come stavo all’interno e non
volevo peggiorare la situazione scoprendo cosa rivelava il mio volto,
cosa raccontavano i miei occhi, quale nuova sfaccettatura potevo
scoprire di tutto quel dolore. Mi vestii veloce, tornai in camera,
andai a sedermi sul letto sfatto ed iniziai a far vagare lo sguardo
nell’ambiente circostante, cercando le prove che quel sogno
che avevo fatto la sera prima, fosse stato reale. C’era lo
zaino nero, ancora pieno di abiti ed oggetti vari; c’erano i
miei sandali abbandonati ai piedi del letto, tolti la sera prima solo
per non sporcare il letto e per comodità; infine
c’era il fantasma di un ricordo di cotone candido e fuoco,
poggiato sullo schienale della poltroncina girevole, uno spettro che
non spaventava, faceva solo un male indescrivibile. La camicia di Ace
pareva invitarmi nel suo abbraccio, che però stavolta
sarebbe stato freddo e vuoto, forse ancora profumato di fuoco, ma non
altrettanto caldo e magico, non più l’abbraccio
bollente ed avvolgente del moro.
Ma io, come un drogato che cerca con ossessione la sua dose, piccola e
di bassa qualità che sia, afferrai la camicia e la strinsi
al petto, immergendo il viso in quel morbido tessuto. Profumava di Ace,
aveva ancora il suo odore imprigionato nella fitta trama, potevo
godermi ancora qualche flebile fragranza di paradiso. Mi gettai sul
letto stringendo a me quel brandello di magia, rotolandomi come un
gatto in quell’aroma, tentando di assorbirlo e di farlo mio,
accontentandomi del freddo abbraccio del cotone vuoto. Restai
così, ad annusare ogni parte di quella camicia, per non so
quanto tempo, prima di rendermi conto che se non avessi scritto e
disegnato tutti i dettagli che avevo tentato di memorizzare, molti di
essi li avrei persi per sempre. Dovevo farlo subito, per poter
conservare quei ricordi integri ed immutabili nel tempo; cose, persone,
odori, rumori, tutto avrei trascritto sul mio logoro diario, con
precisione certosina, annotando ogni particolare, disegnando ogni
virgola che avevo notato, descrivendo con minuzia ed attenzione ogni
singola emozione provata in quelle poche ore di vita.
Mi ci vollero ore, giorni, settimane prima di finire tutto il lavoro,
tutti i disegni, tutte le parole, tutte le linee decise o tremolanti,
tutti vocaboli facili da trovare, o ricercati; un tempo infinito,
durante il quale morivo dentro, piano piano, appassendo come un fiore
colto e messo in un vaso; i primi giorni soffrivo, ma ero ancora viva,
poi avevo iniziato a scivolare nell’apatia,
nell’indifferenza totale verso tutto quello che mi succedeva
attorno. Mia madre non capiva cosa mi stesse succedendo, aveva provato
a parlarmi ma senza risultati, così ora si limitava a
comprarmi cioccolata e gelato, per tentare di tirarmi su il morale
almeno con il cibo, invano; la stessa Elena ed i miei amici non
sapevano più che fare, la prima che tentava di consolarmi,
invano, i secondi che facendo gli idioti cercavano disperatamente di
strapparmi un sorriso, invano. Ogni tentativo di riabilitazione era
vano con me, ero senza tempo, senza età, spenta e vuota,
morta dentro, anche se cuore e polmoni continuavano a fare il loro
metodico lavoro sapevo di essere morta nell’anima, per
sempre. La vita degli altri scorreva regolare, io invece mi svegliavo
spenta, nella mia stanza aspettavo che il mondo mi desse la notizia che
i personaggi erano tornati alla loro realtà, che Ace non
fosse più nel mio stesso universo, che fosse andato a vivere
la sua vita, ad affrontare la sua morte. Seguivo con attenzione i loro
spostamenti, le news, anche se erano ormai passati in secondo piano per
il resto del mondo, superati dai soliti eventi di cronaca e finanza.
Occhi pesti ed arrossati erano ormai parte integrante del mio viso,
abituato al pianto ed al dolore, mentre le mie labbra non ricordavano
più come si sorrideva davvero, addestrate a tendersi ad ogni
situazione che il mio cervello catalogava come “dovrebbe
essere divertente”. Avrei aspettato la notizia, prima di
morire definitivamente, no? Perché sarebbe successo, ne ero
certa; non si poteva vivere a lungo con un peso del genere sullo
stomaco, non era possibile.
Ace era il mio Sole, la mia luce, la mia fiamma, la mia salvezza, ed
ora era lontano, ma pur sempre presente. Il Sole dista tantissimi
chilometri dalla Terra, eppure la riscalda e la fa vivere,
illuminandola e dandole energia vitale, ma cosa avrei fatto quando il
mio Sole si fosse spento? Cosa avrei fatto se la mia stella guida mi
avesse abbandonata per sempre? Cosa avrei fatto quando Ace se ne
sarebbe andato definitivamente dal mio mondo? Semplice, sarei diventata
un pianeta arido, senza vita, e pian piano sarei morta, andando a
disintegrarmi da qualche parte, incapace di vedere gli altri pianeti
orbitare allegri attorno ai loro brillanti astri. Mi sarei disgregata
in milioni di pezzi, disperdendomi nell’universo immenso;
forse alcuni frammenti del mio essere sarebbero diventati meteore,
stelle cadenti, lacrime di dolore disegnate sul cielo di altri mondi.
Chissà se erano veramente lacrime, quelle scie luminose e
rapide che graffiavano il cielo; forse erano il frutto del dolore di un
altro pianeta sfortunato, che aveva perduto per sempre la sua preziosa
stella.
Passavano i giorni, le settimane, i mesi perfino, ormai
l’estate stava finendo, eppure nulla in me cambiava. Elena
era tornata alla realtà, lei era sempre stata ancorata alla
vita vera, mai aveva confuso realtà e fantasia, mai si era
lasciata andare come avevo fatto io. Aveva avuto passioni, cottarelle
ed infatuazioni, ma mai nient’altro. Era tornata alla sua
vita tranquillamente, felice di aver conosciuto i personaggi che tanto
amava, ma non ponendosi troppe questioni, non soffrendo di nostalgia,
non arrovellandosi l’anima con i sensi di colpa. Elena era la
realtà, io invece ero la fantasia; forse è per
questo che la nostra amicizia era tanto duratura e profonda, dove io
osavo lei mi frenava, mentre quando lei si fermava io la spingevo ad
andare oltre, ad osare. Quella serata però, che mi pareva
fosse avvenuta ieri, ma in verità era ormai lontana nel
tempo, lei non era stata abbastanza svelta, non aveva voluto frenarmi
in quel mio sogno. Le ero grata per non avermi ostacolata, ma lei
rimpiangeva quella scelta, sentendosi in colpa per non essere riuscita
ad evitarmi tutto il dolore che stavo provando. Non capiva che ero
contenta di quel dolore, perché rendeva quel ricordo lontano
reale, vero, vivo. Era l’ultima cosa viva che mi restava,
avevo solo quel ricordo ed il mio dolore.
Ogni notte rivivevo quei momenti nei miei sogni, vedendolo, sentendo
tra le mie braccia il suo corpo, e nonostante la distanza mi sembra di
sentirlo vivo accanto a me. Il mio cuore in quelle utopie si
risvegliava, uscendo dal regolare battito, concedendosi un sussulto,
una leggera accelerazione, una minuscola emozione. Finché mi
sarebbero restati i ricordi, il mio cuore avrebbe continuato a battere,
anche solo per arrivare alla notte seguente, solo per potersi ribellare
alla regolarità cardiaca per qualche attimo ancora.
Tutto il dolore che provavo quando i pensieri diventavano scuri, quando
il mio petto gridava il nome del moro, il nome che non riuscivo nemmeno
a pensare a volte, quando il mio stomaco si contorceva disperatamente,
tentando di liberarsi dalla ferrea morsa di ghiaccio della sofferenza,
cercando di far librare ancora le farfalle che l’avevano
abitato, era rumore, era frastuono e caos nella mia anima, che si
sfogava in lacrime silenziose ed ordinate, sul mio viso. Ormai non
piangevo più a singhiozzi, ero diventata brava a frenare le
convulsioni del mio petto e gli spasmi della gola, piangendo in
silenzio per non attirare attenzioni distratte, di persone che non
avrebbero capito nulla.
Avevo passato il mio ventesimo compleanno a sorridere e a fingere con
tutti i miei amici, che si erano tanto impegnati per farmi una festa a
sorpresa; ero riuscita a recitare per loro, per farli contenti, anche
se i sorrisi fatti non erano arrivati nemmeno nei paraggi
degli occhi. Apatia e maschere di cera, ecco le parole adatte a
descrivere la mia vita. Uscivo con gli amici per farli felici e per non
far preoccupare mia madre, non perché ne avessi voglia;
fosse stato per me avrei passato i miei giorni a rileggere il mio
diario, tentando di rivivere all’infinito quelle ore magiche.
Stavo in piedi grazie ai ricordi ed alle fantasie, riguardando a
raffica gli episodi di ONE PIECE, fermandomi sempre prima di Drum. Non
riuscivo a vederlo, non riuscivo a pensare che con il mio silenzio
l’avevo condannato a morte certa, non riuscivo a vedere il
suo corpo fasciato dal cappotto nero, non riuscivo ad ascoltare quella
voce, a guardare quel sorriso beffardo, a vedere quella spruzzata di
lentiggini, ad ammirare quelle ciocche ribelli sferzate dal vento. Non
l’avevo salvato, ed avrei vissuto con quel rimpianto per
tutta la vita. Ormai mi ero abituata al ghiaccio che dominava nel mio
petto e lo accettavo come punizione per la mia mancanza di coraggio,
per la mia debolezza. Era come avere un animale fatto di neve e gelo
accoccolato nel petto, all’inizio ci fai caso, tenti di
spostarlo e di ribellarti alla sua presenza, ma poi inizi ad abituarti,
ad accettarla e a conviverci amaramente.
Le ultime parole che mi aveva detto Ace mi rimbombavano nella testa,
giorno dopo giorno; mi aveva detto che ero diversa, speciale, che non
voleva perdermi… Ed invece era successo il contrario: io
avevo perso lui, per sempre. Non gli avevo nemmeno risposto quella
sera, troppo presa dallo stupore e dallo sconforto
dell’imminente addio. Erano passati più di quattro
mesi da quella serata magica; centoventicinque giorni esatti di ricordi
tormentati e di rimpianti; settemilaquattrocento sessanta ore di dolore
e di nostalgia. Ed ora, all’alba delle otto di un sabato sera
qualsiasi, durante il quale avrei dovuto fingere, sorridere e sforzarmi
di interagire con il mondo, dovevo prepararmi ad uscire, come se nulla
fosse, abbandonando per poche, infinite ore le mie fantasie.
Svogliata mi lavai velocemente, ormai le mie docce erano lampo,
perché non potevo permettermi di rimanere troppo a pensare
sotto il getto caldo, faceva male pensare, rimuginare, compatirsi ed
incolparsi.
Mi vestii a caso, indossando una maglietta vagamente più
elegante del solito e dei normalissimi Jeans. I vestiti che avevo
indossato in quella serata erano stati banditi, le scarpe di ONE PIECE
anche, confinati in un angolo dell’armadio; troppi ricordi
amari per poterli indossare o vedere, troppe immagini venivano
riportate alla mente da quei tessuti; l’unico ricordo che mi
portavo addosso era il suo bracciale, ultimo regalo prima
dell’addio.
Mi guardai allo specchio, stendendo una maschera di cipria e trucco sul
mio viso, nascondendo le occhiaie; mascherando il rossore degli occhi;
celando il dolore dietro a quell’ennesima maschera
artificiale. I capelli cortissimi fortunatamente non necessitavano
particolari attenzioni, così quando Elena suonò
il campanello potei uscire svelta, gridando solo distrattamente a mia
madre dove andavo, dandole il nome del solito posto; era il nostro
ritrovo ed era un locale tranquillo e non affollato. Barista simpatico,
biliardo e prezzi buoni, un tempo l’avrei definito il luogo
perfetto, ma ora quell’aggettivo era riservato ad un altro
posto, ad un angolo di giardino illuminato da lucciole, ad una stanza
mal arredata, ad un salone affollato di personaggi bizzarri, ad un
qualsiasi posto dove ci fosse lui.
Salii in auto con Elena e la serata ebbe inizio, così come
la mia performance da attrice. Mi ero sempre definita una persona
sincera, spontanea, limpida e vera; ora ero diventata
l’opposto di tutto. Ero una bugiarda, una calcolatrice che
stava attenta ad ogni minimo dettaglio di quello che affermava o
persino pensava, una persona falsa, che mentiva spudoratamente ad amici
e parenti fingendo allegria e spensieratezza, nascondendosi dietro ad
una maschera di sorrisi finti, che però celavano bene la
disperazione ed il dolore che mi attanagliavano. Avevo mentito anche
prima di incontrare Ace, fingendo di aver superato la morte di mio
padre, ma allora non avevo celato tutto il dolore, consapevole che
comunque mi avrebbero capita, compresa. Stavolta invece nemmeno Elena
poteva comprendere appieno i miei sentimenti e le mie angosce.
Amore… Era descritto da tutti come una cosa fantastica,
un’esperienza unica, una felicità tangibile, una
gioia memorabile, una dolcezza effimera, un dono magico. Bugiardi,
l’amore non era rose, fiori e cuoricini rossi, era dolore,
neve fredda nello stomaco che ti congelava, era sogni infranti, era
promesse spezzate, era un temporale in pieno petto, con fulmini letali
e devastanti rombi di tuono.
Le ruote dell’auto divoravano l’asfalto; da quando
Elena aveva preso la patente mi aveva vietato di guidare di sabato
sera, per rifarsi di tutte le uscite in cui ero stata io la taxista di
turno. Mi andava bene, non avevo la testa per guidare, ero troppo
pensierosa per prestare la dovuta attenzione alla strada, sarei stata
un pericolo per me stessa e per gli altri. Mi mancava solo di causare
un incidente, come se non mi bastasse l’amaro rimorso di aver
bruciato la vita di un giovane di vent’anni. Dopo tanti
errori, tanti sbagli, tanti passi falsi, tante cadute, tanti equivoci,
tanti crimini, (sì, perché l’omicidio
era un crimine ed io avevo ucciso quel ragazzo) si rimane soli, a
pensare che forse un giorno il Sole tornerà a risplendere
nel tuo cielo. A volte mi pareva di perdere il conto dei giorni
passati, ritrovandomi a pensare che forse era stata solo una fantasia,
cercando di convincermi che non potevo sentire la mancanza di qualcuno
che non avevo mai avuto. Guardai distratta fuori dal finestrino,
portando poi l’attenzione su quel bracciale bicolore, dal
quale non mi separavo mai, unico oggetto impregnato di ricordi, che mi
concedevo di guardare.
Arrivammo al solito locale, stranamente più affollato del
solito, accolte dalla nostra compagnia di matti. Mi riscossi dai miei
pensieri, indossando la mia maschera da sera, felice e sorridente.
Bugiarda.
Una volta entrate scoprimmo il motivo di tanta folla, c’era
una qualche partita di una qualche squadra importante e tutti i tifosi,
armati di boccali di birra e quant’altro, stavano guardando
questo avvincente match. Personalmente il calcio non mi aveva mai
attirata come sport, che gusto c’era nel guardare undici
idioti per squadra che rincorrevano un pallone per poi prenderlo a
calci? Non l’avevo mai capito, e nemmeno mi interessava
farlo. Mi disegnai il mio solito sorriso e salutai tutti, ponendo le
domande di rito “come va?” e “come
stai?”, senza che la risposta mi interessasse più
di tanto, e non era da me. Menefreghista.
Alla fine tutti avrebbero sempre risposto “bene!”
oppure “tutto ok!”, tenendo per se stessi la
verità; quante volte vi siete sentiti rispondere
“va male!”? Personalmente potrei contare sulle dita
di una mano le occasioni in cui avevo ricevuto questa risposta. Egoista.
Mentre alcuni ragazzi si sfidavano in un’accesa partita a
biliardino e altri si concentravano per mandare in buca una palla da
biliardo, io mi sedevo ad un tavolo, osservando entrambe le
competizioni, ascoltando le varie stupidaggini che venivano dette, gli
insulti senza peso che volavano, le domande idiote che venivano poste
senza un briciolo di senso, le risate genuine che facevano scuotere i
corpi di quelli che definivo “i miei amici”. Mi
mancava sentire quella risata nella mia gola, ma un sorriso finto
può passare inosservato, una risata finta la si riconosce a
distanza di chilometri. Dov’era finita la mia voglia di
vivere? Lontana anni luce da me. Certi giorni avrei voluto prendere un
volo, un treno, una nave e correre da Ace, per poterlo abbracciare, per
poter cambiare la mia vita, per potergli raccontare il mio dolore, per
poter modificare il suo futuro; ma non l’avevo mai fatto.
Codarda.
Era questo il potere dei sogni? Era questa la loro forza? In ogni
essere vivente c’era una piccola scintilla, che poteva
accendere la fiamma dell’immaginazione, una piccola scintilla
che può creare un posto in cui rifugiarsi, in cui sentirsi
al sicuro, protetti e felici, allontanandoci dal resto del mondo, tanto
grigio quanto crudele. Quella fiamma non si può spegnere,
è eterna, sempre in grado di essere risvegliata, sempre
pronta ad ardere di nuovo, e tutti la lodavano, la amavano, la
decantavano e la acclamavano, ma chi la conosceva davvero? Tutti coloro
a cui i sogni erano stati infranti, brutalizzati, uccisi, spezzati,
polverizzati, distrutti, eliminati e cancellati, come la vedevano
questa fiamma? La vedevano fredda, la vedevano dolorosa, illusoria,
finta, falsa, sleale, futile e superflua. Era questo il potere delle
utopie dunque? Far soffrire gli uomini all’inverosimile?
Farci capire che la realtà è nuda e cruda, e
rifugiarsi nella finzione non serve a superare i problemi reali? A
farci accettare il mondo così com’è,
senza ambizioni? La fantasia non era poi così buona, cara,
dolce e gentile, no? No, in quel momento l’avrei definita
solo una stronza bugiarda ingannatrice, identica a me in pratica.
Il rumore della sedia accanto a me che veniva spostata mi
riportò alla realtà, veramente poco piacevole,
visto che poco dopo mi ritrovai un braccio attorno alle spalle. La
puzza di alcol e di sudore mi avvisò che si trattava
dell’ubriaco di turno, ci mancava pure quello adesso. Mi
voltai stizzita, sfilandomi abilmente dalla presa di quel braccio
schifoso, e guardando l’orrenda faccia da schiaffi che mi
trovavo davanti. Era un uomo sulla trentina, già stempiato e
poco curato nell’aspetto, dai lineamenti anonimi e dagli
occhi vacui, di un azzurro indefinito e vuoto. Lo guardai schifata e
feci per alzarmi, ma la sua mano sudicia mi prese il polso, impedendomi
di allontanarmi dal tavolo.
«Ciao bella, perché non resti qui a farmi
compagnia? Ci divertiamo…» Biascicò
lascivo, tentando di stuzzicare un qualche mio ipotetico e malsano
interesse nei suoi confronti.
«Preferirei conficcarmi degli spilli sotto le unghie, con
permesso.» Dissi pacata, torcendo il polso e divincolandomi
così dalla sua stretta. Mi voltai e mi diressi tranquilla e
sicura verso i miei amici, che intanto stavano tenendo
d’occhio la scena per vedere se avevo bisogno di un
intervento maschile. Gli ubriachi il più delle volte sono
innocui, magari insistenti e fastidiosi, ma relativamente facili da
gestire.
Ero in piedi, appoggiata ad una colonna con la spalla, quando il
braccio del verme sbronzo tornò a cingermi la vita; era
tanto difficile capire l’antifona? Che arcana
difficoltà c’era nella comprensione delle lettere
“N” e “O” unite nella tanto
nota ed universale parola “No”? Sbuffando lo spinsi
via, dicendogli di piantarla e di starmi lontano, ma ottenni solo
l’effetto di farlo barcollare leggermente
all’indietro, senza riuscire a levarmelo completamente di
dosso.
«Ma lo sai che sei proprio una bambolina dispettosa,
puttanella? Adesso ti insegno io le buone
maniere…» Parlò l’energumeno,
con la voce impastata dall’alcol e un bruttissimo scintillio
negli occhi inespressivi, afferrandomi il braccio e strattonandomi
verso di lui. A quel gesto i miei compagni scattarono, alzandosi dalle
sedie ed abbandonando le varie sfide, ma nessuno di loro sarebbe
arrivato in tempo per salvare la mia faccia dall’urto che
stava per subire. Possibile che l’unico ubriaco violento in
circolazione l’avevo trovato io? Quando si dice che la
fortuna è cieca ok, ma la sfiga ci vedeva benissimo, senza
dubbio. Il braccio libero dell’uomo si alzò,
pronto a colpirmi il viso con un ceffone che sicuramente mi sarei
ricordata per parecchio tempo, ed io ebbi il tempo di chiudere gli
occhi e di notare appena il vibrare sommesso del mio cellulare, che in
tasca mi annunciava l’arrivo di un messaggio. Certo che i
pensieri che ti affollano la mente in certi momenti critici, sono dei
più ridicoli; stavo pensando al mio cellulare che vibrava,
quando un braccio era pronto a spiaccicarmi una manata sulla faccia.
Non pensavo al dolore che avrei sentito, non pensavo alle rogne a cui
stava andando incontro quel demente infastidendomi, non
pensavo… Non pensavo di avere tanto tempo a disposizione per
pensare. Ok che l’uomo era ubriaco, ma possibile che ci
mettesse tanto a colpirmi?
Socchiusi un occhio, spiando attraverso la rete delle ciglia cosa
accadeva di fronte a me. Il braccio dell’uomo ancora alzato,
bloccato però da una mano salda, che afferrava con decisione
l’avambraccio dell’ubriacone spaventato. I miei
amici a meno di un metro dalla scena, bloccati e con lo stupore dipinto
sul volto. Elena allucinata, con la bocca aperta ed una mano sul cuore.
Il verme schifoso che stava per colpirmi invece era sudaticcio, con uno
sguardo spaventato e sperduto. Cosa era accaduto alle mie spalle? O
meglio, chi diavolo c’era dietro di me?
«Mi è parso di sentire, che alla signorina la sua
compagnia non interessi minimamente, quindi la molli
all’istante.» Esclamò una voce dietro di
me, ferma e minacciosa, mentre un leggero fetore di carne strinata,
proveniente dal braccio teso dello sbronzo, iniziava ad aleggiare
nell’aria.
Quella voce, era forse un maligno scherzo della mia mente? Era il
ricordo di un sogno? Era forse simile, ma non quella a cui pensavo?
Quando la mano che mi aveva strattonata si staccò
completamente dal mio corpo drizzai la schiena, ed andai a sfiorare il
petto dell’uomo alle mie spalle, che profumava… di
fuoco.
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Ciao... stavolta vi offro un
vasetto di gelato e tanta cioccolata (dose Extra a Martychan
per il suo piedino! xD ) mentre a Lenhara
offro un trionfo di crostacei e frutti di mare (te l'avevo detto che mi
avresti odiata anche tu, la cosa è reciproca e quasi per gli
stessi motivi xD)
ma bando alle ciance, GRAZIE di cuore a tutti voi, che leggete,
commentate, seguite e preferite questa follia di ff, veramente, grazie
di cuore!!
Beh, rispondo alla domanda: io adoro Mihawk, troppo affascinante!! poi
lo ammetto, adoro crocodile ed il nuovo flottaro post
marineford, tanto carino xD
allora, beh.. non so che altro dire, alla prossima!!!
Cosa pensano i vostri amici e parenti della vostra passione per anime e
manga?
Bene, ora vi saluto e...
fatemi sapere che ne pensate di questo capitolo deprimente ma con
speranza XD!!!
Bacioni, alla
prossima!
Immagini
e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di
lucro
|
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Capitolo 19 *** 18. Nessun rimpianto ***
c1
Nell’istante
in cui
percepii il suo profumo, capii veramente il significato del termine
“pietrificarsi” e compresi il motivo di tanto
stupore e
tanto sgomento nei miei amici. Realizzai cos’era successo e
vidi
la paura dell’ubriaco, che tentava di liberare disperatamente
il
braccio dalla presa di fuoco. Sì, perché quella
mano lo
stava bruciando lentamente, perché quella mano era fuoco
puro,
perché quella mano era fiamma e calore, perché
quella era
la mano di Ace, Hiken no Ace, Pugno di fuoco, Portgas D. Ace. Ne ero
certa.
«Vattene a casa idiota, e attento a non rovesciarti il
caffè bollente sul braccio la prossima volta, rischi di
farti
male sul serio.» Intimò perentorio il ragazzo alle
mie
spalle, lasciando il braccio dell’ubriaco, che svelto
uscì
dal locale senza nemmeno voltarsi indietro. Chissà cosa
avrebbe
raccontato a casa, per giustificare quell’ustione;
probabilmente
avrebbe davvero usato la scusa del caffè, una piccola
tazzina
bollente più lasciare ustioni parecchio dolorose, fidatevi
di
una pirla che l’ha già provato, guadagnandosi una
scottatura alla gamba. Maledetta mania degli italiani di gesticolare e
maledetta tazzina poco stabile.
Il mio cervello era ormai andato in tilt, dopo aver tentato di
collegare il profumo inconfondibile e la voce del ragazzo, mentre il
cuore aveva già deciso, aveva già capito tutto,
si era
già acceso di nuova speranza e di nuovi sogni e fantasie.
Nel
buio della mia anima, una fiammella aveva iniziato a scintillare,
timida e timorosa di essere spenta di nuovo, bramosa di scoprire se
poteva permettersi di espandersi e tentare così di
combattere
l’oscurità, chiedendomi di voltarmi e di
confermare o
sgretolare quella speranza, guardando in faccia colui che
l’aveva
fatta risplendere di nuovo. Assecondai le preghiere di quella stupida
fiammella speranzosa, voltandomi lentamente, con l’ansia che
faceva pressione sulla mia gola secca, mi schiacciava il petto ed
attanagliava il cuore. Vidi una maglietta nera, tesa sul petto ampio e
sulle spalle forti e muscolose, una collana di perle rosso sangue ad
ornare il collo, il mento e la mascella delineati e gentili, le labbra
storte in un sorriso dalla dolcezza disarmante, le lentiggini spruzzate
sugli zigomi, proprio sotto quegli occhi di pece e diamanti, neri come
petrolio ma scintillanti come cristalli, incoronati da un pizzo di
ciglia nere e posti sul viso più bello che avessi mai visto,
incorniciato da ribelli ciocche di crine scuro. Tutti i dettagli di
quel volto impiegarono qualche secondo per unirsi e mandare al mio
cervello l’immagine completa del ragazzo che avevo davanti,
facendo scoppiare il mio cuore di gioia, alimentando quella fiamma,
fino a bruciarmi ogni angolo del corpo, scongelando il ghiacciaio
formatosi nel mio petto, liberando le farfalle imprigionate dalla morsa
del dolore, togliendo le catene di sofferenza che tenevano imprigionato
il mio cuore. Avevo smesso di respirare, così contrassi
svelta i
polmoni, inspirando dalle labbra, semiaperte per lo stupore e
l’incredulità, l’aria densa di emozione.
La
felicità fu talmente forte ed improvvisa che non riuscii a
trattenere due lacrime; le gocce rapide e determinate presero a solcare
le mie guance, rigandole di gioia, non più di dolore come
nei
mesi precedenti. Sentii gli zigomi alzarsi e la bocca tendersi, in un
sorriso sincero e carico di emozione, impregnato di felicità
e
stupore. Era veramente Ace, era lì, davanti a me, di nuovo.
Ma
cosa ci faceva in quel posto? Cosa l’aveva portato in
quell’angolo dimenticato da Dio? Perché
si trovava
in quel locale praticamente sconosciuto?
Non riuscivo a muovermi, non riuscivo a pensare, dire, fare o sentire
niente, sembrava che tutto il mondo si fosse eclissato, lasciandomi
lì, sola davanti a lui, incatenata al suo sguardo ed
incapace di
agire, rapita dalla bellezza di quel sorriso contagioso e da quegli
occhi, pozzi d’oscurità brillante, capaci di
spazzare via
la volontà e la razionalità di chi li incrociava.
«A-Ace?» Chiesi con fatica dopo essermi asciugata
velocemente le lacrime. Posi quella domanda sciocca quasi a volere
conferma di quello che i miei sensi mi comunicavano, quasi a volere
un’ulteriore certezza di quello che stava succedendo, quasi a
voler dare sicurezza al mio cervello, che stava ancora vagamente
tentando di frenare il cuore, intimandogli di stare calmo e non sperare
in nulla, perché poi si sarebbe fatto male. Povero cervello,
alla fine lui tenta sempre di avvisarci, di metterci dei freni, dei
limiti e dei dubbi ragionevoli, ma decidiamo sempre e stupidamente di
ascoltare solo il nostro cuore, facendoci trasportare dalle emozioni e
dai sentimenti, cullandoci nei petali dell’amore e piangendo
quando poi troviamo le spine; eppure non ci importa. Quando ci buttiamo
in un sogno, in una speranza, in una nuova avventura, sentiamo solo il
brivido del salto e dell’essere sospesi nel vuoto, non
pensiamo
al dolore che ci assalirà una volta che dovremo atterrare.
L’amore cos’è quindi? Un fiore spinoso?
Oppure un
salto nel vuoto senza paracadute? Forse è più
azzeccata
la seconda definizione, l’amore è un volo
fantastico, che
ti ruba il respiro, fa battere il cuore all’impazzata e
spegne
tutto il resto; se ricambiato diventa una dolce traversata
nell’aria, una coccola nel vento, una carezza di nuvole, ma
se
non è corrisposto o finisce quando non vorremmo, diventa una
caduta in un baratro buio, un vuoto nulla, una rapida discesa verso
l’autodistruzione. E noi continuiamo sempre e comunque a
seguire
il cuore, a conferma del masochismo allo stato puro del genere umano.
«In persona!» Mi rispose il moro, allargando
ulteriormente
il suo splendido sorriso e facendomi perdere altri battiti preziosi.
Rispondeva sempre così, ricordavo la stessa frase detta ad
Alabasta, era veramente lui, in persona… Deglutii a fatica,
sforzandomi di non far crollare pateticamente a terra la mia mascella,
dovevo riuscire a mantenere un briciolo di dignità
personale,
almeno un vago rimasuglio. Scossi la testa, tentando di ripulire la
mente dalla nebbia a rose e cuoricini che l’aveva avvolta,
sforzandomi di tornare ad avere pieno controllo delle mie
facoltà mentali e di non avere
l’elettroencefalogramma
piatto.
«Cosa ci fai qui?» Niente balbettii, grande passo
avanti!
Uno a zero per il cervello! La voce era ancora insicura e tentennante,
ma non avevo balbettato!
«Non voglio avere rimpianti.» Mi rispose il moro,
intensificando ancora di più il suo sguardo e tramutando il
sorriso dolce ed ampio di prima, in un sorrisetto spavaldo e letale,
almeno per me. Ma cosa c’entravo io con i suoi rimpianti? Era
forse tornato per me? No, non potevo permettermi pensieri del genere,
non avevo più spazio nel petto per altro ghiaccio ed altro
dolore. Ma allora cosa intendeva? Ero certa che il mio volto esprimesse
tutta la mia perplessità, ma Ace non si degnò di
spiegare
le parole che aveva appena pronunciato, si limitò a spostare
lo
sguardo a terra, grattandosi leggermente la nuca con il braccio destro.
Milioni di quesiti mi vorticavano nella mente, alla fine non aveva
risposto alla mia domanda, per niente, no? Come aveva fatto a trovarmi?
Perché mi aveva cercata? Oppure era stato un caso? Una
coincidenza?
Aprii la bocca per fargli altre domande, ma una valanga di parole e
frasi sconnesse mi travolse, riportandomi alla realtà e
facendomi ricordare che ero circondata da amici che divoravano manga e
respiravano anime, quindi avevano sicuramente capito chi era
intervenuto per salvarmi.
Ace fu inondato di domande e assalito da occhi luccicanti di
ammirazione, era tra i personaggi preferiti di molti ragazzi, non solo
di fanciulle rapite dalla sua bellezza. I miei amici erano
come
impazziti, avevano aspettato come me la conferma che quel ragazzo fosse
realmente Ace, ed al primo attimo di silenzio si erano scatenati.
Persino il barista e gli altri clienti si girarono a guardare la causa
di tutto quel trambusto.
Elena, come sempre, fu efficiente e tempestiva, allontanando tutti dal
malcapitato oggetto dell’attenzione, che nonostante la
spavalderia era stato colto di sorpresa da quell’attacco di
ammiratori, e riportò ordine e disciplina.
«Animali che non siete altro! Sediamoci al tavolo e parliamo
come
gente civile, non tutti insieme accalcandoci come pecore.
Seduti!» Sibilò perentoria la mia amica, senza
lasciare
spazio ad eventuali proteste. Era una ragazza tranquilla, ma era meglio
evitare di farla alterare quando si trattava di organizzazione ed
educazione, altrimenti si rischiava di essere spolpati vivi a parole, e
non era piacevole.
Ci sedemmo tutti senza protestare, unendo più tavoli e
facendo
una gran confusione; fortuna che il barista era nostro amico, e sapeva
che avremmo rimesso a posto, altrimenti ci avrebbe già
sbattuti
fuori dal locale. Elena fece di tutto per farmi sedere accanto ad Ace,
e la cosa strabiliante è che ci riuscì, deviando
tutti
gli assalitori e le assalitrici; quella ragazza era un uragano quando
voleva!
Pugno di fuoco fu bombardato di domande riguardo al suo frutto e al suo
potere, nessuno fortunatamente ebbe la malsana idea di chiedergli di
Teach o di Marineford, però il rischio c’era.
Avremmo
dovuto avvisare i ragazzi dei ricordi del moro, onde evitare disastri
irreparabili.
Ace fu molto disponibile, generando più volte fiammelle a
richiesta e ridendo alle battute dei miei pazzi compari. Era un ragazzo
gioviale, spigliato e divertente con loro, perché con me
invece
no? In compagnia era sicuro di se e festaiolo, mentre quando eravamo
rimasti soli faticava ad esprimersi e sembrava quasi insicuro. Mille
domande mi stavano logorando, la curiosità di sapere cosa lo
aveva spinto qui, di conoscere il significato di quella frase, di
capire cosa intendeva dicendomi di non volere rimpianti nella vita.
Tutti questi quesiti mi tormentavano, facendomi apparire pensierosa e
persa, mentre con il mento poggiato sulla mano lo guardavo parlare con
gli altri, ammirando i dettagli del suo viso, le sue espressioni, i
suoi gesti, i suoi movimenti. Sarei stata ore e ore a guardare quel
ragazzo, niente al mondo valeva quanto quegli attimi preziosi passati
con lui, rubati al destino ed imprigionati nei miei ricordi, per sempre.
In quello che mi parve un attimo, si era già fatto tardi ed
era
arrivato il momento di lasciare il locale per tornare a casa, ma non
volevo andarmene di nuovo, non avrei sopportato un altro addio,
un'altra fuga patetica verso l’auto; non sarei riuscita a
voltare
nuovamente le spalle al ragazzo che amavo, perché ormai
l’avevo accettato, l’avevo ammesso con me stessa,
ero
innamorata di quel pirata dal volto fanciullesco e monello, follemente.
«Ti aspetto a casa tua, così parliamo un
po’…
Va bene?» Mi domandò Ace una volta fuori dal Bar,
chinandosi verso di me e sussurrando quelle parole al mio orecchio.
Arrossii? Ovviamente sì, come potevo rimanere indifferente
al
caldo fiato del moro sulla mia pelle? Riuscii appena ad annuire, ormai
persa tra onirici paesaggi rosa e pieni di fiorellini, e ad ammirare il
suo sorriso che si allontanava. Solo quando non lo vidi più
e
feci per salire in macchina mi domandai come facesse a sapere
dov’era casa mia, e soprattutto con che mezzo ci sarebbe
arrivato; però mi aveva detto che ci saremmo rivisti
lì,
ed io gli credevo.
Quando l’auto di Elena partì, espressi alla mia
migliore
amica tutti i miei dubbi e le mie perplessità riguardo al
comportamento di Ace.
«Secondo te perché si trova qui?»
Chiesi,
giocherellando con il bracciale e guardandomi le mani, ignara della
tempesta che avevo appena scatenato.
«Ma sei cretina o che cosa? In questi mesi ti hanno fatto una
lobotomia per curarti la depressione? Ti è andato in
cancrena il
cervello? Secondo te per chi è qui? Per me no di sicuro!
Cavoli
ma ti senti? Sei piena di dubbi ed incertezze, quando Ace in persona ti
ha detto che non voleva perderti, ti ha regalato il suo bracciale, ti
si è addormentato sulle ginocchia e ti ha invitata a fare
una
passeggiata romantica al chiaro di luna? È innamorato perso,
sveglia!!!» Mi sbraitò contro Elena, lasciandomi
ad occhi
sgranati e bocca aperta, incapace di risponderle. Ace teneva a me?
Era… innamorato? Ma no, magari rivoleva il suo bracciale, o
la
sua camicia…
«Non azzardarti a trovare scuse idiote Selene, non osare! Non
so
come abbia fatto a trovarti, ma sicuramente non è venuto
qui,
attraversando il mondo intero, solo per uno stupido braccialetto o per
dirti “ciao”!» Adesso mi leggeva anche
nel pensiero?
Bene. Sbuffai rassegnata, ma non ancora convinta delle parole che mi
aveva gridato in faccia la mia migliore amica, che stava guidando
nervosamente verso casa. Credere a quanto avevo appena sentito
significava sperare, e la speranza infranta fa male, può
perfino
uccidere.
Il resto del viaggio fu silenzioso, il motore dell’auto era
l’unico suono all’interno dell’abitacolo
buio, ed io
riuscii solo a pensare mille motivi insulsi per giustificare la
presenza di Ace. Quando finalmente arrivammo davanti a casa mia il moro
mi stava già aspettando, seduto sui gradini
dell’ingresso.
Salutai veloce Elena, che mi sibilò un “in bocca
al
lupo” che suonava più come “se fai
qualche cazzata e
lo lasci andare via ti scuoio”, e scesi, andando incontro al
mio
fiammifero. Mio? Ma chi stavo prendendo in giro? Non era mio, non lo
sarebbe mai stato…
Ero agitata oltre ogni dire, avevo la percezione completa di
ogni
goccia di sangue presente nel mio corpo, di ogni battito del mio cuore,
di ogni spasmo del mio stomaco, ormai brulicante di sciami di farfalle
impazzite.
Camminavo verso Ace, lenta e attenta a non inciampare nei ciottoli, e
una volta arrivata alle scale mi sedetti accanto a lui, estraendo il
cellulare dalla tasca per comunicare a mia madre che mi trovavo fuori
casa, così da non farla preoccupare.
«Avviso mia mamma e poi possiamo parlare, ok?»
Chiesi,
guardando appena il moro accanto a me, che sorridendo annuì.
Quando aprii il mio preistorico cellulare trovai un messaggio, quello
che mi aveva fatto vibrare la gamba nel momento meno opportuno, ed era
di mia madre.
“È
stato qui un ragazzo
a cercarti, gli ho dato il nome del locale in cui eri, gran bel ragazzo
tra l’altro! Baci Baci”
Ok, mistero numero uno: come diavolo aveva fatto ad arrivare al locale?
Risolto. In sostanza mentre Ace viaggiava verso il Bar, mia madre mi
aveva scritto e mandato il messaggio. Circa mezzora quindi, per
scrivere due frasi; era un caso perso quella donna. Ignorai i commenti
estetici di mia madre e le risposi, dicendole dove mi trovavo e di non
preoccuparsi. Chiusi l’aggeggio elettronico e mi voltai verso
Ace, pronta, o forse no, a sentire cosa aveva da dirmi.
«Ok, fatto! Come hai fatto a trovare casa mia?»
Chiesi
curiosa, non capacitandomi di come avesse fatto, dopo tanto tempo, a
rintracciarmi. Il moro ridacchiò, grattandosi la nuca e
stendendo le gambe.
«Ho pagato uno degli autisti che vi aveva accompagnate a
casa,
è lui che mi ha portato qui. Sono tornato appena ci hanno
lasciati liberi di andare dove volevamo. Ti ho…
disturbata?» Rispose, terminando con un tono strano, che non
riuscii ad identificare, vagamente simile al dubbio ed
all’incertezza. Come poteva pensare di avermi disturbata?
«No, assolutamente! Mi fa molto piacere
rivederti…»
Mi affrettai a dire, arrossendo ed abbassando lo sguardo. Non ero mai
stata timida, non amavo essere al centro dell’attenzione
certo,
ma non ero timida maledizione! Cosa mi prendeva?
Ace iniziò a torturarsi i capelli, come l’avevo
visto fare
alla villa in più occasioni, che fosse imbarazzato quanto
me? Ma
per quale motivo?
Le parole gridate da Elena in auto tornarono a rombarmi nella testa,
tuonando la risposta a quella domanda, rifiutata dalla mia mente per
paura del dolore che rischiavo di provare. A quelle frasi si aggiunsero
le ultime affermazioni del moro, era venuto da me appena il tour era
terminato? Perché?
«Uhm… Senti… Sono un pirata, un
comandante persino,
ma a parole sono una frana, quindi se dico qualcosa che non va
bene… Dimmelo, ok?» Tentennò il moro,
ottenendo un
mio cenno del capo, abbastanza perplesso, come risposta. Cosa poteva
mai dire di tanto difficile o complesso? E perché le sue
parole
non avrebbero dovuto andare bene? Sinceramente avrebbe potuto
canticchiarmi la canzone dei Teletubbies e mi sarebbe apparso comunque
perfetto. Patetico vero? Decisamente sì, ma cosa potevo
farci?
Niente.
«Ho passato questi mesi a pensare… A te. Non
riuscivo a
togliermi il tuo viso dalla testa, non facevo che pensarti e mi
mancavi. Ho parlato con Marco, con il Babbo, perfino con il Vecchio.. E
tutti mi hanno detto che dovevo venire qui, e dirti cosa mi passava per
la testa, cosa provavo, cosa pensavo… Altrimenti
l’avrei
rimpianto per sempre, ed io non voglio avere rimpianti.»
Soffiò tutto d’un fiato, facendo fermare il mio
cuore,
bloccando tutto in un fermo immagine sconcertante. I suoi occhi si
incatenarono ai miei, le parole appena dette mi carezzarono il cuore,
facendolo ripartire violento e devastante, potente e martellante nel
petto. Era tornato per me, perché gli mancavo,
perché… Mi pesava.
Deglutii, tentando di non farmi sfuggire dalla gola strani singhiozzi,
imprigionando le farfalle per non farle uscire, e provai a parlare.
«E… Cosa pensi, ora che sei qui?»
Riuscii ad
articolare, impacciata ed in ansia per la risposta, pronta a svenire
dal dolore o a volare per la felicità. Non ero nemmeno
sicura
che la domanda che gli avevo posto avesse un senso logico, ma almeno
avevo detto qualcosa, e forse mi avrebbe saputo rispondere.
Ace sospirò, grattandosi la testa e gettando le dita nel
groviglio disordinato dei suoi capelli corvini.
«Non ho mai provato niente del genere, non so descrivere cosa
provo… Però vederti mi fa stare bene,
e…»
Sussurrò, facendomi accelerare ulteriormente i battiti ed
inumidendomi gli occhi di lacrime. Lo facevo stare bene…
Forse
potevo concedermi uno spicchio di speranza, forse potevo godermi quello
spiraglio di Sole che mi stava scottando l’anima, forse
potevo
davvero sognare ancora un po’. Sentii le labbra tendersi in
un
sorriso, e la mia mano, come mossa da volontà propria,
andò a posarsi su quelle del ragazzo al mio fianco, che
tolte
dai capelli si stavano torturando a vicenda, sotto lo sguardo del moro.
La pelle era calda e liscia, e quando i suoi palmi inghiottirono le mie
dita, una strana pace si impossessò di me.
Lì, ferma e con la mia mano racchiusa nelle sue, stavo bene.
Anche sul viso di Ace si disegnò un sorriso; non spavaldo,
non
felice, semplicemente dolce; era un sorriso nuovo, che esprimeva solo
tranquillità, era un sorriso rilassato e sereno, senza
preoccupazioni, senza dubbi o timori, senza ansie o rancori, senza
paure o incertezze, solo pace.
Il tempo si fermò ed il mondo scomparve, lasciandoci soli in
quella bolla di quiete e serenità; ormai era diventata
un’abitudine ignorare l’intero universo quando ero
con lui.
Una mano di Ace si alzò verso il mio viso, sfiorandomi
leggermente la guancia, per poi disegnare linee astratte sulla mia
pelle, infiammandola. Il cuore batteva più forte che mai, lo
stomaco si contorceva impazzito ed il sangue scorreva veloce e folle
nelle vene, mentre il viso del moro si avvicinava al mio. Trattenni il
fiato, sentendo il suo respiro sulle mie labbra, sentendo i suoi
capelli sfiorarmi gli zigomi, sentendo la sua fronte calda poggiare
sulla mia. Eravamo già stati in una posizione simile, con i
nasi
che si sfioravano leggeri e le fronti unite, ma l’emozione di
quel momento fu ancora più sconvolgente. Come il mare prima
dell’onda, la mia anima si ritirò sempre di
più,
pronta a tornare potente e devastante, scagliandosi contro il mio petto
sottoforma di emozione pura. I nostri respiri si mescolavano, le nostre
labbra ormai vicine bramavano quell’unione, ed il mio cuore
stava
tentando di uscire dal mio petto, con tutte le sue forze.
«I-io, non so cosa sto facendo… Sto seguendo
l’istinto, s-e non vuoi…»
Iniziò con voce
roca il moro, ma non aspettai che finisse la frase, non attesi che
completasse quell’affermazione tentennante; raccolsi tutto il
mio
coraggio, tutta la mia voglia di lui, tutto il mio amore e tutto il mio
desiderio folle per quel bacio, e colmai la distanza tra di noi, unendo
le nostre labbra con un movimento svelto e secco, chiudendo gli occhi e
strizzando le palpebre. Se avessi avvicinato lentamente la mia bocca,
non sarei riuscita a trovare il coraggio per farlo, mentre
così,
con un colpo deciso, ero riuscita ad incontrare quella bocca perfetta.
Rimasi immobile come lui, aspettando una reazione, sperando in
qualcosa, qualunque cosa, che non fosse un rifiuto. Le sue labbra erano
morbide e calde, quasi bollenti, e solo quando iniziarono a muoversi
leggere e gentili sulle mie, riuscii a espirare tutta la tensione di
quel momento in un gemito sommesso. L’ondata di emozioni
arrivò violenta, scuotendo il mio corpo con un brivido caldo
e
sconvolgente. La mano di Ace abbandonò la mia guancia,
infilandosi tra i corti capelli corvini della mia nuca e tirandomi
ancora più vicina a lui. Portai le mie mani sul suo petto,
facendole scorrere sulle spalle perfette e muscolose, cingendogli poi
il collo con un braccio, mentre posavo l’altra mano sulla sua
guancia.
Sentii il suo braccio avvolgermi la vita, portando il mio petto a
premere contro il suo, in un abbraccio quasi disperato. Le labbra si
muovevano lente, autonome e separate solo da brevi soffi, tollerati
perché vitali. In quel bacio c’era tutto, i mesi
passati a
piangere sul cuscino, a disegnare e rivivere sogni ormai passati,
c’erano le speranze, i dolori, la voglia di fargli vedere
tutto
quello che avevo scritto e disegnato di lui, tutte le parole che forse
non sarei mai riuscita a dirgli, tutte le emozioni che mai avrei saputo
esprimere. Stavo baciando il fuoco, ero avvolta dalle braccia del
ragazzo che avevo amato fin dalla sua prima apparizione, e le nostre
labbra erano unite in una fiamma che però non feriva. Era un
bacio dolce, carico di passione e desiderio, ma comunque gentile e
tenero, a tratti persino ingenuo. Sentivo il cuore battere forte e
bruciare, mentre dalle mie labbra schiuse e roventi, le farfalle
impazzite iniziavano ad uscire, lasciandomi più leggera e
librandosi in aria, invisibili ma percepibili. Quelle farfalle stavano
portando via il dolore, i frammenti di sogni spezzati, i giorni passati
tra le lacrime, le schegge affilate che avevano ferito la mia anima;
portavano via tutto, lasciando al fuoco il compito di lenire e
coccolare le ferite. Bastava un bacio a cancellare tutti quei giorni di
sofferenza? No, mi era bastato anche solo poterlo rivedere, per
convincermi che avrei potuto aspettarlo per sempre, e non pentirmene
mai.
Avevo speso ore ed ore, giorni e mesi a guardare gli ultimi attimi
vissuti accanto a lui, a piangere su quei ricordi tanto dolci quanto
dolorosi, ma non avevo rimpianti o rimorsi, avrei rivissuto da capo
quei mesi d’inferno, solo per poter arrivare a questo momento
magico un’altra volta. Quel bacio mi stava portando via,
lontano
da tutto e da tutti, dove il mondo non esisteva, dove
c’eravamo
solo io ed Ace, con le nostre labbra unite ed i nostri respiri fusi
insieme. Avevo passato gli ultimi mesi a sognare la realtà,
ostinandomi nella mia fantasia e mentendo a me stessa; ma ora, ad occhi
chiusi, stavo volando verso quel sogno in cui avevo tanto sperato,
oltre tutti i limiti del reale. Sentivo il calore del suo respiro sulle
mie labbra gonfie, mentre torturavamo i nostri cuori con quel contatto
inaspettato, lasciato incompiuto da tanto tempo.
Quando le nostre fronti tornarono ad incontrarsi e le labbra si
staccarono, lasciando uniti solo i nostri respiri, non mi sembrava vero
di aver finalmente assaggiato il sapore del fuoco. Le labbra di Ace
sapevano di libertà, di calde promesse, di dolci carezze, di
fiamme ardenti e di aria fresca.
Una volta ripreso fiato riaprii gli occhi, trovandomi davanti le iridi
nere del pirata, e mi immersi completamente in quelle pozze di onice
liquida, sorridendo beatamente, lasciando poi cadere lo sguardo sulla
bocca schiusa del moro, seguendo il contorno perfetto del labbro
superiore e la rotondità piena di quello inferiore,
arrossati e
gonfi come i miei.
Ero felice? No, ero più che felice; ed il cuore
scoppiò,
quando un sorriso dei più belli, formandosi sul suo viso,
illuminò la mia notte, rischiarandola di dolcezza.
-----------------------------------------------------------------------------------------
*spia dal suo nascondiglio se
piovono altri pomodori*
Ma ciao! lanciate coriandoli e stelle filanti, dopo ben 18 capitoli,
finalmente i due polli (sì, perchè piccioncini
non rende
quanto siano scemi a non capirsi) ce l'hanno fatta!!! ed anche
l'autrice pazza ha finalmente aggiornato xD (anche la raccolta
è
stata rimpolpata con nuove cretinate xD) probabilmente avrete anche
visto l'altra shot, e vi chiederete "ci fai aspettare tanto per il
capitolo, e poi scrivi altro?" ebbene sì, perchè
avevo
bisogno di ripulire la mente, in modo da poter rileggere e correggere
al meglio questo benedetto capitolo, che mi ha fatto sudare ( Ho
pensato più volte di tramutare Ace in uno Zampirone, ma
ringraziate Lenhara e MartyChan che mi hanno trattenuta [ed aiutata
tantissimo direi!!!]).
Beh, basta dire cretinate, passiamo alla domanda, cosa pensano i miei
parenti ed i miei amici? allora, mia madre mi ignora, però
ha capito che è una passione (lei la paragona al
collezionismo, va bene così diciamo xD) la mia cara nonnina
mi appoggia (Adora Rufy xD) ed i miei amici sono amanti del mondo di
Anime e Manga, anche se resto io la più fanatica del gruppo!
Nonostante questi appoggi non ho ancora trovato la faccia per dire loro
che scrivo, e tantomeno per fargli leggere qualcosa, mi vergono
troppo...^//^
E qui mi attacco con la domanda:
Chi sa della vostra passione per le ff? (chiedo agli autori/autrici) E
se non scrivete, avete un hobby, un passatempo "segreto" di cui la
vostra famiglia o i vostri amici non sanno niente? (io da piccola
allevavo formiche O_O)
Ok, ora ho finito, lo
giuro!
Un bacione e alla prossima, e grazie a tutti voi recensori, lettori,
preferitori (???) e seguitori (???) xD siete davvero tanti, e posso
solo dirvi GRAZIE!!!
A presto!!!
Immagini
e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di
lucro
|
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Capitolo 20 *** 19. Nuovo Sole ***
c1
Sul volto del moro apparve un sorriso, riflesso speculare del mio, e fu
come una ventata d’aria fresca, che spazzò via gli
ultimi dubbi, le ultime incertezze che si erano aggrappate al mio
cuore, incapaci di lasciarlo correre libero verso
quell’illusione reale. Era tornato per me, non stavo
sognando. Spostai la mano dal suo viso, ed abbracciai quelle spalle
sicure, affondando il capo nel suo collo e respirando la sua pelle; le
sue braccia, rapide e forti, mi sollevarono e mi posarono sulle sue
gambe, per poi stringermi nuovamente. Era una magia che non avrei
potuto nemmeno immaginare, un’emozione nuova e devastante,
potente come solo l’amore poteva essere. Sarei rimasta
lì, rannicchiata tra le braccia di quel magnifico pirata,
per sempre, in eterno, senza mai osare muovere un muscolo, immobile a
godere di quella vicinanza, di quel contatto dalla dolcezza disarmante
ed inaspettata.
Mi sentivo al sicuro e felice, finalmente felice. Potevo concedermi di
sperare, di sognare e di vivere con serenità almeno qualche
mese della mia vita, o magari un po’ di
più… No, non potevo esagerare con le fantasie;
sarebbe partito, quello era certo, ma sarebbe rimasto con me ancora per
qualche attimo, e questo mi bastava.
«È tardi Selene, forse dovresti
rientrare…» Mi sussurrò
all’orecchio il moro, sfiorandomi leggermente il lobo con le
labbra e facendomi rabbrividire. Trattenni il fiato a quel contatto,
strusciando poi il naso sulla pelle del suo collo, inspirando ancora
una volta il suo profumo. Non risposi, ma mi strinsi ancora a lui,
affondando ulteriormente il volto nell’incavo della spalla e
giocherellando con le ribelli ciocche di capelli, che gli cadevano
disordinate sulla nuca. Rientrare diceva? Poteva scordarselo, avrebbe
dovuto trascinarmi in casa con la forza!
Mugugnai una risposta, qualcosa tipo “non voglio”,
ma faticai io stessa a capire le mie parole, soffocate e brontolate
sottovoce.
Ace rise, una risata che sentii vibrante nel suo petto, e che mi fece
sorridere silenziosamente. Com’era bello sentirlo ridere,
com’era bello stare con lui in quell’istante. Lo
sentii muovere la testa, per cercare di vedermi in volto, ma la
posizione non lo permetteva e si arrese, poggiando delicato la sua
guancia rovente sulla mia tempia.
«Quel verso incomprensibile cosa doveva
significare?» Ridacchiò il moro, facendo ridere
anche me. Effettivamente avevo borbottato in modo indecifrabile, ma
cosa potevo farci? Non avevo per niente voglia di muovermi da
lì, e se farmi prendere un po’ in giro voleva dire
ritardare la nostra separazione, ero pronta a fare il giullare a vita.
Vedendo che non accennavo a rispondere, ma mi limitavo a sghignazzare
sottovoce restando arpionata al suo petto, decise di sfruttare il suo
ingegno piratesco, ed aprendo le gambe di colpo mi fece quasi cadere a
terra. Uno scherzo infantile, ma che mi fece prendere un infarto ed
ottenne il risultato di farmi staccare da lui, quel tanto che bastava
per guardarlo in faccia e dirgli che era un idiota.
«Ma sei impazzito?» Sbottai, fingendomi arrabbiata.
Come potevo arrabbiarmi con lui? Era impossibile, con quelle lentiggini
adorabili e quella risata contagiosa e magnifica, che da quando mi
aveva afferrata a pochi centimetri dal pavimento non aveva ancora
smesso di riecheggiare nella notte.
«Shhhh! Abbassa la voce o sveglierai tutto il
quartiere!» Lo rimproverai, ridacchiando a mia volta e
portando una mia mano sulle sue labbra, con un gesto spontaneo e non
calcolato, che mi imbarazzò all’istante. Arrossii,
di nuovo, mentre la risata del moro sfumava verso il silenzio e la mia
mano iniziava a scostarsi da quella bocca morbida. Cosa mi
era saltato in mente? Incollarmi così a lui? Ma dove avevo
la testa? Ok, ci eravamo dati un bacio, ma non mi aveva fatto la
proposta di matrimonio, che diamine! Oddio, che figuraccia avevo appena
fatto, non mi sentivo così in imbarazzo dai tempi della
scivolata a scuola; e fare due piani con il sedere a terra,
è imbarazzante, poco ma sicuro.
Sentii le guance infiammarsi, mentre il sangue di tutto il mio corpo,
andava a concentrarsi sul mio viso; possibile che quando ero con lui,
la mia tonalità cutanea fosse perennemente il porpora? E
dire che mi lamentavo sempre del mio colorito pallido.
Accelerai la ritirata delle mie dita dal suo viso, tentando
contemporaneamente di alzarmi dalle sue ginocchia; che diamine, mi ero
attaccata a lui come una cozza allo scoglio, un briciolo di contegno
avrei potuto mantenerlo, no? Ma il mio tentativo di rimettermi in piedi
fu annullato dal braccio di Ace, che mi trascinò nuovamente
a sedere, e dalla sua mano, che catturò la mia, riportandola
verso quelle labbra meravigliose. Il moro posò la sua bocca
sulla mia mano, lasciando un leggero bacio sulle nocche e colorando
d’amaranto le mie gote, caricandole ulteriormente
d’imbarazzo, ma rubandomi un leggero sorriso.
«Mi piaci quando arrossisci e sorridi, lo sai?» Mi
disse Ace, a bassa voce, intrecciando le sue dita con le mie mentre mi
risistemava sulle sue ginocchia. E indovinate cosa ottenne? Una
magnifica colorazione, maledettamente simile a quella degli arilli del
melograno, un rosso granato troppo simile al bordeaux per i miei gusti.
Mantenere un colorito vagamente simile al rosa pesca per dieci minuti
filati, era chiedere troppo? Probabilmente sì.
Ma cosa mi aveva appena detto? Che… Che io gli piacevo
quando arrossivo e quando sorridevo? Oddio, io gli piacevo?
L’aveva detto sul serio? Non me l’ero immaginato?
Non l’avevo sognato? Non sentivo le voci? No
perché della mia vena di follia ero consapevole, ma se
iniziavo a sentire le voci le cose si aggravavano.
Ace ridacchiò di nuovo, probabilmente per la mia espressione
da pesce lesso, sforzandosi di non fare troppo baccano; cosa alquanto
complicata per un pirata, a mio avviso. Quella risata stava colorando
la mia vita, come un nuovo Sole che non emette una luce normale, non
è il Sole che tutti conosciamo, è una
novità, una stella mai vista, una luce che nessuno ha mai
nemmeno immaginato. Giallo, rosso, blu, verde, arancione, che cosa
sono? Non esistono, non sono mai esistiti, esiste solo il colore della
felicità, il più bello di tutti, quello che
cambia a seconda dell’intensità delle nostre
emozioni, quello che ci fa sorridere e ci fa volare con pensieri
leggeri e freschi. Un nuovo Sole che mi fa ridere, sospirare, piangere,
che mi brucia e mi fa sognare, che mi fa respirare, accende il giorno e
rischiara la notte, un fuoco che mi brucia dentro, ma che non fa male,
non mi ferisce, non mi ustiona.
Sorrisi, finalmente libera dal dolore e libera di vivere il mio sogno,
libera di ridere e di perdermi nelle fantasie, libera di ignorare la
realtà, sostituendola con l’illusione, libera di
fregarmene del mondo e di cosa avrebbe pensato, libera di ignorare
tutto e tutti, tranne lui.
«Ecco, proprio così…
Perfetta…» Affermò il moro, scostandomi
un ciuffetto di capelli dalla fronte, incatenandomi ai suoi occhi con
uno sguardo liquido e nero, come una notte di luna nuova tempestata di
stelle lucenti. Un sorriso bellissimo andò a decorargli il
viso, facendomi perdere completamente la ragione, cancellando ogni vago
sentore di razionalità, rubandomi il cuore e rapendomi
l’anima. Perfetta, a me? L’aveva detto? Ero proprio
sicura di non sentire le voci?
Sentii qualcosa muoversi nel mio stomaco, c’era qualcosa di
vivo nel mio petto, che si contorceva e tentava di scuotere il mio
corpo, di farmi scoppiare di felicità e di emozioni
indescrivibili. Passione, piacere, gioia, serenità, amore;
ed ogni emozione premeva nel mio torace, soffocandomi di sentimenti e
mozzandomi il fiato. Ero ormai al limite della follia, innamorata
perdutamente di un disegno diventato reale, di un’animazione
che ora stava davanti a me, fatta di carne, ossa e sangue.
«Comunque, ti stavo dicendo che è molto tardi,
meglio andare a letto, no?» continuò Ace, vedendo
che la mia risposta tardava ad arrivare, guardandomi con occhi furbi ed
accattivanti. Oddio, intendeva a letto insieme? Cioè,
intendeva dormire da me? No, no, no, no, no, non era fattibile! Ok che
era tardi, ma mia madre era sicuramente sveglia ad aspettarmi! Anzi,
probabilmente mi stava già maledicendo perché
l’indomani avrebbe dovuto alzarsi presto, per andare a
correre con il cane, e le stavo facendo perdere ore di sonno preziose.
Sgranai gli occhi a quelle parole, stampandomi in faccia la
perplessità e la preoccupazione, e di tutta risposta sul
volto del moro passarono diverse emozioni: stupore,
perplessità, ancora stupore ed infine imbarazzo. E vedere
imbarazzo sul volto di Ace era un’esperienza magnifica.
«Cioè, così
riposi… E domani magari passo a prenderti e facciamo un giro
da qualche parte, se ne hai voglia…» Aggiunse il
moro, grattandosi leggermente la nuca e tentando di nascondere il
leggero rossore che gli aveva imporporato le guance. Avevo fatto
arrossire Portuguese D. Ace, e brava Selene! Mi sarei goduta la
vittoria e la soddisfazione, se l’imbarazzo del moro non
avesse sottolineato ulteriormente la mia stupidità. Cosa mi
era saltato in mente? Era ovvio che non sarebbe entrato in casa con me!
Non poteva mica fermarsi a dormire “dalla prima che
passa”, sicuramente Barbabianca e Marco lo stavano aspettando
da qualche parte! Che qualcuno mi dia una pala e un piccone,
così inizio a scavarmi una buca sotto i piedi, e mi ci
infilo per l’eternità. Ma si può essere
tanto cretine? A quanto pareva, sì.
«C-certo che ne ho voglia!» Riuscii a balbettare,
evitando accuratamente di incrociare il suo sguardo, mentre le mie
guance raggiungevano la tanto agognata colorazione bordeaux. Intanto
Ace continuava a ridacchiare, mentre io iniziavo lottare contro uno
sbadiglio, che voleva uscire a tutti i costi. Resistere era
impossibile, così, nascondendomi con la mano e sperando che
il pirata non mi notasse, sbadigliai. Ovviamente però, le
mie fauci spalancate furono viste; le braccia del moro mi
strinsero un po’ più forte, e un secondo dopo ero
in braccio a lui, che alzatosi mi stava posizionando
sull’ultimo gradino, attento a non farmi perdere
l’equilibrio. Mi voltai a guardarlo, incontrando il suo viso
divertito e monello; quanto poteva essere bello un viso? I modelli, gli
attori, i cantanti, c’erano tantissimi ragazzi in giro, che
avevano un bel viso, ma cosa rendeva il suo tanto magnifico? Le
lentiggini, che spruzzate disordinatamente sulle gote, gli conferivano
quell’aria fanciullesca? Gli occhi, che neri come il petrolio
scintillavano di misteri? Oppure le labbra, piene e perfette, che
promettevano emozioni uniche? Cos’era a renderlo tanto bello?
Forse era il complesso dei dettagli, forse solo uno di essi faceva la
differenza, fatto sta che con quegli occhi allegri e quel sorriso
malandrino mi facevano battere il cuore a fasi alterne.
Vidi il suo sorriso accentuarsi, mentre si sporgeva verso d me, fino ad
arrivare a pochi centimetri dalle mie labbra.
«Ok, allora a domani, e buonanotte…»
Sussurrò, sfiorandomi la bocca con quelle calde parole, poi
sostituite dalle sue stesse labbra. Sospirai, perdendo un battito e
lasciandomi sciogliere da quel bacio, sciogliendomi in quel contatto di
carne e fuoco, accasciandomi contro il suo petto e cingendogli il
collo, mentre le sue mani scorrevano sulla mia schiena. Ogni centimetro
del mio corpo che veniva sfiorato dal suo, mandava scariche elettriche
al mio cuore ed al mio cervello, facendomi perdere battiti, respiri,
pensieri, tutto. Quando poi sentii la lingua calda del moro, lambirmi
il labbro inferiore, come volendo chiedere il permesso di entrare,
persi ogni tipo di raziocinio. Schiusi le labbra, lasciando che il
sapore del ragazzo di fuoco mi inondasse la bocca, lasciando che le
nostre lingue si conoscessero meglio, che danzassero insieme e che si
assaporassero. Aveva un sapore perfetto, vellutato e dolce, ma rovente
e passionale, come lui. Quella era sicuramente la miglior
“buonanotte” che avessi mai ricevuto.
Allontanammo le nostre labbra, unendo le nostre fronti con un ansito,
rimasti ormai senza fiato; avevo il cuore impazzito, che batteva
disperatamente, correndo verso Ace, tentando di raggiungerlo a tutti i
costi.
«Buonanotte…» Sussurrai, sfregando il
naso contro quello del moro e sorridendo. In quel momento, ero
veramente la persona più felice del mondo.
Ace mi sorrise e, lasciandomi un leggero bacio sulla fronte, si
allontanò camminando all’indietro, sempre
sorridendomi, voltandosi solo una volta arrivato all’angolo
del vialetto. Ridacchiai girandomi ed infilando la chiave nella toppa.
Entrai in casa, facendo meno rumore possibile, girando lentamente la
chiave e chiudendo con delicatezza il chiavistello, senza accendere
troppe luci, accontentandomi della scarsa illuminazione fornita dalle
luci di cortesia e dai lampioni della strada, che attraverso i leggeri
tendaggi illuminavano leggermente l’atrio. La casa era in
silenzio, solo il cane si era degnato di venirmi a salutare,
picchiettando le sue unghiette sul legno del pavimento, e la cosa mi
andava benissimo! Dopotutto era veramente tardi, magari il sonno aveva
avuto la meglio su mia mam-
«Bentornata!» Sussultai, trattenendo a stento un
urlo da film horror, mentre colei che mi aveva dato la vita, ed ora
aveva appena tentato di togliermela, scendeva dalle scale buie.
«Ma vuoi farmi morire?» Ringhiai di tutta risposta,
portando una mano sul cuore, già provato dai baci del bel
pirata, mentre mia madre scendeva gli ultimi gradini ridendo divertita.
Di solito ero io che mi divertivo come una matta a farle scherzi da
infarto, non viceversa!
«Esagerata! Credevi davvero che mi sarei lasciata sfuggire
l’occasione di parlarti? Sono mesi che rispondi a monosillabi
o mentendo spudoratamente, ed ora compare quel ragazzo e ti vedo
sorridere, imbarazzarti, emozionart-»
«Ci hai spiato! Lo sapevo! Impicciona! È tanto
difficile concedermi un briciolo di privacy?» La interruppi,
puntandole contro l’indice ed avvicinandomi a lei, che di
tutta risposta non aveva ancora smesso di ridere.
«Oh non fare l’offesa, sapevi benissimo che avrei
dato una sbirciatina! E poi è così bello vederti
sorridere di nuovo!» Mi rispose, voltandomi le spalle ed
avviandosi verso la sua camera. Tutto qui? Niente domande? Non me la
contava giusta, per niente. La seguii, osservandola attentamente; non
sembrava tradire nessuna curiosità o tensione, era la
solita, forse un po’ assonnata ma… No, un momento,
cosa ci faceva con il cellulare in mano a quell’ora? Lei
proprio, che se lo dimenticava perennemente in borsa, ora girava per
casa con il cellulare?
«Chiamavi qualcuno?» Chiesi dubbiosa, ottenendo
solamente un sorriso tirato ed un rapido gesto della mano, mentre
l’oggetto imputato veniva riposto sul comodino. Io forse non
ero brava a mentire, ma mia madre lo era ancora di meno. Con uno scatto
rapido afferrai il telefono, saltando poi all’indietro mentre
schiacciavo il tasto verde di chiamata, per vedere le ultime
telefonate. Altro che ninja e pirati, schivare gli attacchi di una
madre è molto più impegnativo!
«Hey, io non ficco il naso nelle tue cose!
Ridammelo!» Esclamò allarmata, mentre si lanciava
all’attacco tentando di rubarmi di mano
quell’arnese infernale, che non si decideva a sbloccare
quella maledetta tastiera. Quando finalmente riuscii a visualizzare le
chiamate ringhiai, ridando il telefono a quella spiona. Tre sillabe
avevano chiarito tutto quanto: E-le-na!
Continuai a ringhiare, chiudendomi in camera ed afferrando il mio
telefono. Composi il numero della mia amica ed attesi. Uno squillo, due
squilli, tre squilli.
«Pronto?» Rispose poi, fingendosi assonnata.
«Risparmia la recita, razza di impicciona ficcanaso! Posso
sapere almeno che hai detto esattamente a mia madre, visto che in
cambio della telecronaca in diretta avrà sicuramente voluto
conoscere i dettagli della storia?» Sibilai, facendo
deglutire Elena.
«Le ho solo confidato che probabilmente sarebbe diventato il
tuo ragazzo, che vi piacevate da parecchio ma che entrambi eravate
troppo occupati e stupidi per rendervene conto. Le ho anche accennato
che è uno dei personaggi di ONE PIECE, ma non ha fatto molte
obbiezioni, sembrava molto contenta per te… Non
imbronciarti, siete stati così teneri!!!»
Pigolò l’infame traditrice, guadagnandosi un altro
ringhio. Non ero veramente arrabbiata, ero solamente sconvolta da
quell’alleanza maledettamente pericolosa per la sottoscritta.
«Non ti rispondo nemmeno. Ora vado a letto perché
sono stanca, ma sappi che mediterò la mia
vendetta!!!» Minacciai, lasciandomi però scappare
un risolino, che mandò a monte tutta la minaccia.
Salutai Elena e mi cambiai, indossando un paio di minishorts
comodissimi ed una canottiera, eravamo agli sgoccioli di settembre, ma
il caldo soffocante non aveva ancora deciso di dare tregua; eravamo
ancora nella fase “dormiamo con le finestre aperte ed in
mutande”, unico modo per sopportare l’afa.
Quando finalmente poggiai la testa sul morbido guanciale e chiusi gli
occhi, fui immediatamente affiancata dal mio stupidissimo canide
fifone, terrorizzato da ogni singola auto che passasse, che ogni notte
si spalmava sul mio fianco. Già, perché non
bastava il caldo, mi ci voleva proprio un ammasso di pelo con cui
condividere il letto. Stupido cane.
Mi girai su un fianco, abbracciando quel groviglio di peli e tenerezza,
ignorando la temperatura e carezzandogli le orecchie. Era stupido, era
un fifone, ma era il MIO cane stupido e fifone, e quando ne avevo
bisogno lui c’era sempre, con i suoi occhioni color nocciola.
Lo coccolai tutta notte, incapace di prendere sonno, incapace di
frenare il fiume di ricordi e pensieri, che mi riproponeva
continuamente i baci di quella sera, non lasciando tregua al mio povero
cuore, e mi faceva riflettere sui mesi passati. Io sicuramente avevo
sofferto molto, ma cosa avevo fatto passare a mia madre? E ad Elena?
Pensavo di essere stata brava a mentire, di aver finto abbastanza bene,
di aver recitato con maestria la mia parte, ed invece ero stata
incapace di celare il mio dolore. Le avevo fatte preoccupare, avevo
fatto preoccupare tutti, ed era normale che la prospettiva di un mio
cambiamento d’umore le facesse felici. Come potevo
arrabbiarmi se avevano ficcanasato nella mia vita, quando io avevo
rattristato la loro con la mia sofferenza? Semplice, non potevo. Il
campanile della chiesa scandiva le ore, con sordi rintocchi cadenzati.
Le quattro, le quattro e un quarto, le quattro e mezza, le quattro e
tre quarti, le cinque… E poi probabilmente Morfeo si decise
a fare il suo lavoro e mi addormentai, sognando solamente ricordi,
niente di nuovo, niente di futuro, solo piccoli attimi passati,
magnifici, piccoli attimi passati.
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Ma buongiorno!!!! Eccomi qui ^_^ Stavolta sarò breve, lo
prometto! allora, due "avvisi", il primo riguarda Lenhara,
ufficialmente eletta mia Tramabeta! xD
Il secondo riguarda tutte le fan della coppia ElenaxLaw!
infatti, Hamber
of the Elves, ha scritto una magnifica Drabble su questa
coppia, inserita nella sua raccolta dedicata a vari personaggi di OP (la potete leggere QUI)
e volevo ringraziarla pubblicamente di aver dato vita ai pensieri di un
mio personaggio, al quale io non avevo potuto dare abbastanza spazio ^^
(leggetela davvero, è bravissima!)
Beh, che altro dire? Ho aggiornato anche la raccolta demenziale du
Marco e d ora rispondo alla domanda, dicendo che Nessuno dei miei amici
e parenti sa della mia passione per la scrittura, mi vergogno troppo !!
ma sono contenta che moltissimi di voi invece, hanno un appoggio da
parte della famiglia!! per tutti quelli che invece lavorano nell'mbra,
beh.. troveremo il coraggio di dichiararci "scrittori" un giorno? mah
xD mistero! xD
Ora passo alla domanda:
Di dove siete? da
quali angoli dell'Italia ( o non), venite? ^_^
Ora
chiudo ringraziando i nuovi recensori, mi ha fatto veramente tanto
piacere vedere nuovi nomi nell'elenco ^///^, e ovviamente anche quelli
storici, siete veramente fantastici e non sarò mai in grado
di
ringraziarvi abbastanza per il supporto che mi date!!!!
Bacioni e al prossimo capitolo!!!
Immagini
e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di
lucro
|
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Capitolo 21 *** 20. Il piromane e il felino ***
c1
Porte che sbattono, campane che suonano, il cane che per scendere dal
letto mi passa delicatamente sopra (ed immaginatevi quanto possano
essere delicati venti chili sulla schiena), mia madre che si prepara
per uscire, chiavi che girano nella toppa, il ticchettio delle
unghiette sul legno ed il tonfo sordo della porta d’ingresso
che si chiude. Odio la domenica mattina. Con ogni fibra del mio essere,
con ogni insignificante molecola del mio corpo.
Un cancello si chiude, una macchina parte, e finalmente la pace. Ma
perché se un figlio rientra tardi, o si sveglia durante la
notte, si spacca le gambe pur di non fare rumore, mentre le care
mammine se ne infischiano se il pargolo sta dormendo, correndo per casa
con i tacchi, accendendo l’aspirapolvere o sbattendo le
porte? Che qualcuno me lo spieghi, perché proprio non riesco
a capirlo.
Sbuffai rigirandomi nel grande letto matrimoniale, gustandomi quel
silenzio appena conquistato, e ritornando felicemente tra le braccia di
Morfeo. Fortunatamente avevo un’innata attitudine a
riaddormentarmi all’istante, anche se il sonno era
più leggero, erano pur sempre attimi di notte rubati al
giorno. In quei momenti più che sognare pensavo, diciamo
pure che facevo viaggi mentali, ma comunque controllati, almeno in
parte. Potevo immaginarmi qualsiasi cosa: ad esempio le labbra di Ace
sulle mie, oppure i suoi abbracci e i suoi capelli, il profumo della
sua pelle ed il sapore dei suoi baci. Sorrisi affondando il viso nel
cuscino e raggomitolandomi un po’. Il caldo era ancora
soffocante nel pomeriggio, ma la mattina si stava bene, maledettamente
bene, quindi potevo restare ancora a letto, coperta solo dal leggero
lenzuolo, e sognare.
Un soffio rabbioso, non so quanto tempo dopo, mi fece aprire gli occhi,
che mi mostrarono il mio gatto con il pelo irto, la coda gonfissima e
le orecchie tirate indietro; cosa gli era preso a
quell’ammasso di pelo?
Lasciai cadere pigramente un braccio fuori dal letto, chiamandolo
dolcemente con piccoli schiocchi delle labbra, ma ottenni solo un atro
soffio e qualche passo a lato. Ok, probabilmente non avevo un
bell’aspetto di mattina, ma addirittura reagire
così mi pareva esagerato. Stupido gatto. Mi alzai, scostando
il lenzuolo e gettando le gambe a penzoloni fuori dal materasso,
sfiorando con i piedi le assi del pavimento e sbuffando. Mi stiracchiai
un pochino e, facendomi forza mentalmente, mi rizzai in piedi
dirigendomi poi verso il bagno. Dio, che fatica alzarsi la mattina,
ancora di più se avevi dovuto interrompere un dolce ricordo
con un certo zolfanello.
Dopo essermi sciacquata la faccia e lavata i denti, mi guardai allo
specchio; non ero nemmeno messa così male, i capelli un
po’ scompigliati ed un velo di trucco sbavato sotto gli
occhi, niente di sconvolgente insomma. Mi pulii bene il viso e ritornai
verso il letto, coprendomi gli occhi con il braccio perché
non soffrissero a contatto con la luce, e trascinando i piedi. Ero
stanca, e avrei dormito. Era domenica mattina. Dovevo dormire.
Ignorai il gatto ancora gonfio ed Ace che mi guardava perplesso,
sdraiato sul mio letto, e mi rigettai sul materasso, abbracciando il
cuscino fresco e chiudendo gli occhi, finalmente libera di sonnecchiare
ancora un po’.
No, un attimo, cosa era appena successo? Ricapitoliamo. Ho ignorato il
gatto, e fin qui tutto ok; ho ignorato Ace sdraiato sul letto, e qui
non va tutto ok!
Mi irrigidii immediatamente, sbarrando gli occhi e girandomi di scatto,
trovando il viso del moro sorridente e monello. Ok, cosa ci faceva lui
nel mio letto?
Aprii la bocca per parlare, ma riuscii solo a comporre gorgoglii e
suoni sconnessi, niente di comprensibile o vagamente interpretabile.
Intanto il mio cuore iniziava a perdere il suo ritmo, saltando battiti
ed accelerando, possibile che il solo vederlo mi facesse questo effetto?
Il pirata rise, nascondendo il viso sul cuscino per non fare rumore, e
lasciandomi lì come un pesce lesso, a guardare i suoi
muscoli perfetti contrarsi. Ripeto la domanda: cosa ci fa Ace a petto
nudo sul mio letto?
«Mi stavo pendendo di non averti fatto una fotografia mentre
dormivi, ma mi pento ancora di più per non aver immortalato
la tua faccia quando mi hai visto!» Ridacchiò
singhiozzante il moro, sollevando il volto dal cuscino e guardandomi
divertito. Sbattei le palpebre più volte, tentando di
convincere il mio cervello a metabolizzare l’immagine che gli
occhi trasmettevano.
Le ciocche di capelli neri e ribelli che cadevano leggere sul cuscino e
sul viso, gli occhi luminosi ed il sorriso beffardo, le perle rosse
della collana appoggiate come stille di porpora sulle sue spalle
muscolose, ed il suo corpo perfetto sdraiato sul bianco delle lenzuola.
Stavo ancora sognando? Sicuramente.
Chiudo la bocca, mettendomi a sedere e sistemando svelta canotta e
shorts, troppo corti perché non mi sentissi in imbarazzo;
infatti, tanto per cambiare, arrossii. Da quanto tempo era
lì ad osservarmi? E se avessi avuto l’abitudine di
dormire nuda? O in mutande? Diventai color peperone al solo pensiero di
quell’eventualità, un ragazzo non poteva entrare
così nella camera di una donna mentre dormiva, tanto
più se la donna in questione era innamorata persa di lui;
rischiava di farle avere un collasso! Ma sinceramente, avevo Ace mezzo
nudo sul mio letto, me ne fregava davvero qualcosa di un eventuale
collasso? No, decisamente no.
Ace rise, ancora più divertito dal mio imbarazzo, e si
allungò verso di me, avvicinando il suo viso al mio e
lasciandomi un tenero bacio sulla punta del naso.
«Buongiorno…» Mi sussurrò
sulle labbra, sciogliendomi il cuore e mozzandomi il fiato, appoggiando
poi delicatamente le labbra alle mie. Bacio al fuoco per colazione, ho
mai detto quanto adoro la domenica mattina?
Sorrisi, mentre le nostre labbra si salutavano teneramente e nel mio
petto esplodeva la felicità. Sentivo il cuore battere
scoordinato, perdendo battiti ed accelerando pericolosamente, sentivo i
polmoni contrarsi e distendersi in modo innaturale e lo stomaco
contorcersi quasi dolorosamente, eppure ero felice. Sì, ero
maledettamente felice, perché stavo vivendo un sogno, e
nessuno avrebbe mai potuto privarmi di quei ricordi, nessuno; nemmeno
il dolore atroce che avrei provato alla partenza del moro, sarebbero
rimasti per sempre nel mio cuore spezzato, intatti ed eterni attorno
alla desolazione di un amore infranto.
Avvertii Ace muoversi sulle lenzuola, strusciando il suo corpo perfetto
sul morbido tessuto, per poi percepire la sua vicinanza. La mano del
moro iniziò ad accarezzarmi il viso, scivolando poi
lentamente sul collo, facendomi rabbrividire e risalendo sulla nuca,
per poi intrecciare le dita ai miei capelli ed attirarmi più
vicina, stringendomi a se con più foga. Sentii il petto del
pirata sotto le mie mani, che iniziarono a vagare libere ed
incontrollabili, seguendo le linee perfette di quel fisico atletico. La
pelle era rovente e tesa, perfettamente liscia sotto le mie dita
leggere, troppo timide per osare troppo ma non abbastanza pudiche per
non bearsi di quel paradiso. Perché Ace era il paradiso
personificato, perfetto e magnifico. Non credevo nel “regno
dei cieli” o altro a dire la verità, ma quel corpo
non poteva che essere un paradiso dei sensi, una beatitudine e una
delizia carnale.
Scesi fino all’addome, lentamente e percependo la forza di
ogni singolo muscolo, per poi risalire altrettanto adagio verso le
spalle larghe, avvinghiando con la mano destra ai crini neri del
ragazzo, mentre con la sinistra assaporavo la squisitezza dei
lineamenti del suo viso. Il mio petto ormai era in fiamme, divorato dal
calore del pirata, ed il battito cardiaco risultava talmente sregolato,
da essere quasi inavvertibile.
Nel frattempo le nostre labbra continuavano a danzare voraci, ormai
sveglie ed affamate, assieme alle lingue bollenti. Fu questione di un
secondo, e mi ritrovai con la testa sprofondata comodamente nel
cuscino, ed il corpo di Ace premuto sul mio in un caldo abbraccio, che
però non pesava su di me. Le braccia forti del moro erano
tese, con i muscoli guizzanti sotto la pelle abbronzata e liscia, il
torace scolpito come marmo pregiato, ma caldo oltre ogni dire, ed era
tutto lì, a portata di mano. Quella vicinanza inaspettata mi
fece arrossire, annodandomi ancora di più lo stomaco e
facendomi esplodere il petto di emozioni e sentimenti. Amavo quel
ragazzo di fuoco, anche se lo conoscevo solo attraverso disegni e
fantasie, anche se sapevo che insieme avevamo passato solo poche ore,
anche se lui non conosceva praticamente nulla di me; in quel momento
ero felice e stavo bene, e non avrei cambiato nulla di quel momento,
mai.
Sentii la sua mano sfiorarmi il fianco nudo e scendere sulla gamba.
Rabbrividii e mordendo la morbida carne del suo labbro, feci scorrere
le dita sul petto e sulla schiena del moro, che si inarcò
leggermente, stringendo la mano sul mio ginocchio e schiacciandosi un
po’ di più sul mio corpo, lasciando sfuggire dalle
labbra arrossate un gemito, che fece eco al mio.
Ormai la ragione si era spenta, offuscata dalla passione e dalla foga
del momento, ottenebrata dalla bellezza di quei gesti e di quel corpo
scultoreo, annebbiata dalla morbidezza di quelle labbra e dalla
dolcezza che quei tocchi. Sì, perché
c’era passione e desiderio, ma era tutto avvolto da una
nuvola di densa dolcezza, come zucchero filato, che rendeva tutto
più magico, più giusto, meno frettoloso.
Semplicemente perfetto.
Le mie mani passavano lievi sui suoi tatuaggi, sondandone i contorni e
sfiorandone il leggero rilievo. Chissà se gli aveva fatto
male farli, io non avevo sofferto con il mio, ma era piccolo, non un
enorme Jolly Roger e nemmeno una scritta. Quelle cicatrici
d’inchiostro erano le uniche di quel corpo di fuoco e, come
le lentiggini, lo rendevano ancora più bello.
Ma rimaneva sempre quella domanda a cui dare risposta: cosa ci faceva
Ace, mezzo nudo, nel mio letto, di domenica mattina?
Dovevo chiederglielo, anche se ciò avrebbe comportato
separare le nostre bocche per qualche secondo; dovevo sforzarmi,
impormi di interrompere per un attimo quel bacio, attingendo a tutta la
mia forza di volontà.
Staccai leggermente le labbra dalla sua bocca, sorridendo e respirando
il suo profumo, sfiorando il suo naso con il mio, beandomi di quelle
iridi liquide che mi guardavano intensamente, come se fossero composte
da fiamme nere e lucenti.
«Buongiorno anche a te… Cosa ci fai
qui?» Sospirai, una volta ripreso fiato, mentre continuavo a
far scorrere le dita sulla schiena del ragazzo, che a sua volta
continuava a disegnare magnifici disegni astratti su un lembo di pelle
scoperta del mio ventre.
«Te l’avevo detto che oggi sarei passato a
prenderti, no?» Mi sorrise beffardo, sussurrando le parole a
pochi centimetri dal mio orecchio e provocandomi una tachicardia
preoccupante.
«Sì ok, ma come hai convinto mia madre a farti
entrare? Non ti ho sentito…» Chiesi, tentando di
ritrovare un minimo di contegno e di capire come era finito lui sul mio
letto, quesito che mi lasciava ancora abbastanza perplessa. Vidi il
viso di Ace assumere un’espressione stranita, che avrebbe
dovuto allarmarmi in effetti, ma al momento mi pareva solo
maledettamente buffa e carina.
«Tua madre? Io sono entrato dalla finestra, non
l’ho nemmeno incrociata.» Mi rispose tranquillo,
facendo spallucce e guardandomi come se entrare dalla finestra in una
casa di domenica mattina, fosse la cosa più normale del
mondo. Ma non lo era diamine! E se i vicini l’avessero visto?
E se mia madre fosse tornata? Stupido pirata!
«Come sarebbe a dire, “sei entrato dalla
finestra”? Stai scherzando vero? Ti ha visto qualcuno? E come
hai fatto ad arrivare alla finestra? No aspetta!», dissi
svelta mettendo una mano sulla bocca schiusa del moro,
«Questo credo di non volerlo sapere! Ma alle altre rispondi,
grazie!» Terminai con un velo di panico nella voce. Come
avrei giustificato questa storia con i vicini? Sperai con tutto il
cuore che nessuno l’avesse visto, mentre toglievo la mano
dalle labbra di Ace, attendendo una risposta ed una spiegazione
più che valida. Non che averlo lì sulle mie
lenzuola non mi facesse piacere, sia chiaro, però non avevo
voglia di affrontare eventuali interrogatori dalla polizia, in seguito
a varie segnalazioni dei vicini che affermavano di aver visto un
ragazzo a torso nudo entrare in casa mia dalla finestra. Ace mi
sorrise, avvicinando di nuovo le labbra al mio viso e lasciandomi un
dolce bacio sulla fronte, prima d rispondermi con l’orgoglio
nella voce:
«Sono un pirata Selene, e sono il comandante della seconda
flotta di Barbabianca, sono bravo a non dare nell’occhio
quando serve; in più la finestra non è poi
così difficile da raggiungere, basta saltare dalla ringhiera
delle scale e poi infil-»
«Ok, ok. Basta così, non voglio sapere altro, mi
fido!» Asserii rapida, interrompendo la cronaca delle
prodezze da saltimbanco del moro, che ridacchiando si spostò
con il corpo di lato, trascinandomi con se ed invertendo le posizioni.
Ero stesa, in shorts e canottiera, a cavalcioni, su Portuguese D. Ace,
che si trovava sul mio letto.
Uno strano calore iniziò a diffondersi nel mio corpo,
facendomi accaldare e desiderare ancora più contatto con la
pelle rovente di Ace. Fui accontentata dalle mani del moro, che
iniziarono a solleticarmi la schiena sotto la maglia, in un abbraccio
bollente, mentre la mia guancia era poggiata sul suo petto. Potevo
sentire il battito del suo cuore diventare irregolare quando la mia
mano sfiorava la sua pelle, e sentii quel muscolo saltare un battito
quanto strisciai verso il suo collo, per potervi nascondere il viso ed
assaporarne il profumo. Com’era bello restare
così, ad ascoltare l’uno il respiro
dell’altro, chiudendo il mondo fuori e godendosi
l’attimo, gustando quel momento perfetto, assaggiando per un
istante il paradiso. Folle cotta per un cartone animato? Ma che vadano
tutti al diavolo, ero innamorata di quel ragazzo, ed ora lui era reale,
quindi perché censurare il mio amore? Perché
precludermi la possibilità di vivere il mio sogno?
Perché ascoltare le voci invidiose della gente? Io con lui
ero felice, ero contenta, ero viva, echi non riusciva a
capirlo… Beh, che vada a farsi fottere.
«Il tuo gatto mi odia, credo.» Sospirò
il moro con tono divertito, ridacchiando e facendo vibrare il suo petto
con quella risata, risvegliandomi dai miei pensieri. Facendo leva sulle
braccia mi sporsi, in modo da poter vedere il mio micio, ancora gonfio
e allarmato, che circumnavigava il letto, senza però
avvicinarsi. La curiosità uccide il gatto, dicono, ma il mio
fifone non aveva la minima intenzione di avvicinarsi ad Ace, un
pericolosissimo estraneo. Non lo sa il povero felino, quante ragazze
darebbero la vita pur di essere coccolate, anche sottoforma di gatto,
dal bel fiammiferino. Che bello però, rinascere gatto; non
fai nulla, dormi, vieni servito e venerato, punto. Non è
come il cane, da cui si pretende ubbidienza, al gatto nulla viene
imposto, si prende quello che è disposto a dare, che siano
coccole, fusa o artigli. Eppure io adoravo il mio gatto, nonostante
fosse una peste dispettosa e mi avesse rovinato non so quante scarpe,
lo adoravo; perché quando lo vedevo dormire, spalmato sul
pavimento a pancia in su, tutti i miei problemi svanivano davanti alla
sua bellezza. In un certo senso Ace somigliava ad un gatto, diffidente
ed indipendente, mai schiavo, nessuno poteva possedere un gatto. Ed io
non possedevo Ace. Mi rabbuiai a quel pensiero, ma lo scacciai
velocemente, non avrei permesso al futuro già scritto, di
rovinarmi un presente da vivere.
«Non preoccuparti, fa così con tutti quelli che
non conosce, tra poco ti assalirà i piedi con le unghie
sguainate.» Risposi sorridente, voltando il viso verso quello
di Ace e perdendomi per qualche secondo a contarne le lentiggini; non
erano tante, ma gli donavano quell’aria malandrina che lo
rendeva irresistibile.
Il pirata si voltò verso di me, sorridendo sereno ed
allungando il collo per baciarmi di nuovo, ed io lo lasciai fare,
sprofondando di nuovo nell’oblio morbido e dolce della sua
bocca, lasciando al tatto e al gusto tutto il piacere di
quell’attimo, chiudendo gli occhi ed abbandonandomi contro il
suo petto. Nemmeno nei miei sogni più belli, avevo
immaginato di poter vivere un’esperienza simile. Mai.
Mentre il mio corpo perdeva la sua forma solida, sciogliendosi sotto le
carezze ed i baci di Ace, un ultimo barlume di razionalità
si fece largo in me, facendomi udire un motore che si spegneva ed un
freno a mano che si tirava; il tutto maledettamente vicino a casa mia.
«Porca vacca!» Esclamai aprendo gli occhi di scatto
e drizzando il busto. Non mi resi conto, o quasi, di trovarmi a
cavalcioni sull’addome di Ace, troppo spaventata da quello
che stava per succedere.
«Uhm? Che c’è?» Chiese confuso
il moro, appoggiandosi sui gomiti ed inclinando leggermente la testa a
lato; personificazione della perplessità.
«È tornata mia mamma! Cosa facciamo? Non
può trovarti qui!» Stridetti, rasentando
l’isteria, mentre mi toglievo dal corpo del pirata e rotolavo
giù dal letto. Una volta in piedi iniziai a camminare,
sempre più agitata, sentendo il cancello aprirsi ed i passi
di mia madre avvicinarsi alla porta. Cosa potevo fare? Se mi avesse
trovata a letto con un ragazzo? Ok, forse non mia avrebbe uccisa, ma
che imbarazzo! E la ramanzina l’avrei sentita sicuramente!
Per non parlare del “discorso”, che non avevo
minimamente voglia di fare con lei all’età di
vent’anni. Assolutamente no.
Il panico e la paura presero il posto della passione e della dolcezza,
e lo scalpiccio del cane fuori dalla porta, non aiutava il processo di
auto calmarsi.
«Vai sotto il letto, e preparati ad uscire silenziosamente
appena ti avviso! Svelto!» Dissi rapida e concitata al moro,
praticamente scaraventandolo giù dal letto e facendolo
cadere dalla parte opposta. Mi sentii in colpa, ma almeno era nascosto,
anche se mia madre avesse sbirciato in camera. La chiave entra nella
toppa ed inizia a girare, mentre sento Ace trascinarsi sotto il letto
grugnendo qualcosa tipo “ma tu guarda cosa mi tocca
fare”.
La serratura scatta, la porta si apre, con un leggero cigolio della
maniglia, mentre esco dalla camera, sperando che non si vedano le
labbra gonfie di baci, l’affanno sul viso e l’ansia
negli occhi.
«Ciao mamma!» Saluto allegra, stampandomi un
sorrisone in faccia ed accogliendo il cane, che scodinzolante mi corre
incontro.
«Buongiorno, cosa ci fai sveglia? Sono solo le…
Dieci e mezza, di solito fino a mezzogiorno non dai segni di
vita!» Risponde mia madre, guardando l’orologio e
poi fissandomi dubbiosa. Maledetto sguardo indagatore dei genitori,
sembra che ti rubino l’anima quando lo usano!
«Hem, mi hanno svegliato le campane e poi non avevo
più sonno.» Mentii spudoratamente, evitando di
incrociare il suo sguardo con la scusa di coccolare il cane, che
annusava disperatamente me e l’aria. Pregai che non gli
venisse la malsana idea di abbaiare al letto, mentre lo distraevo con
moine e coccole varie.
«Ok… E cosa è successo al
gatto?» Chiese ancora, con un tono maledettamente sospettoso,
indicando lo strano incrocio tra un felino ed un procione che camminava
verso di lei, uscendo dalla mia stanza in stato di allarme. Fifone di
un gatto, imparentato con tigri e leoni? Ma dove?
«Visto? È tutta mattina che gira così
per casa… L’avrà spaventato il vedermi
sveglia!» Risposi furbamente, ridacchiando mentre mi
raddrizzavo e guadagnandomi l’ennesima occhiataccia
indagatrice; Mihawk occhi di falco a confronto, era un tenero
cardellino.
Rabbrividii pensando a cosa avrebbe potuto farmi il flottaro, se avesse
sentito quel pensiero; altro che sashimi di Selene, mi avrebbe tritata
come prezzemolo: fine fine.
«Sì… Può essere.
Dov’è finito il cane ora?»
Domandò sguardo d’acciaio avanzando verso di me e
guardandosi attorno. Odiavo il sesto senso delle madri, con tutta me
stessa. E dove diavolo era andato a finire quello stupido cane da
tartufi mancato?
«L’avrai sfiancato poverino, sarà a
cuccia!» Risposi, lasciando trapelare dalla mia voce un
leggero panico, cercando con lo sguardo il cane.
«Già, fa un caldo soffocante al Sole! Vado a farmi
la doccia ora, tu fai calmare il gatto che tra un po’
esplode.» Affermò infine, accennando al gonfiore
del micio che ormai camminava persino storto, pur di mantenere intatta
la gobba sulla schiena. Ma si poteva ridursi così solo
perché un estraneo era balzato in casa dalla finestra?
Sì, beh… Forse detta così è
giustificabile la reazione del gatto, ma ora poteva anche calmarsi!
«Ok, fai con calma!» Le dissi, pentendomene
immediatamente. In pratica le avevo appena confermato tutti i sospetti,
dicendole “Brava mamma, chiuditi in bagno per una mezzora,
così posso far scappare il pirata che ho nascosto sotto al
letto”. Complimenti Selene, meriti il premio nobel per questa
uscita. Geniale.
Lei aguzzò lo sguardo, fissandomi intensamente e, ne sono
certa, scannerizzandomi l’anima, ma poi scosse la testa e si
diresse verso la cabina armadio. L’avevo scampata? Forse.
Prese i vestiti e si chiuse in bagno, mentre io mi accasciavo stremata
contro lo stipite della mia camera. Quanto stress tutto in una volta, e
non era nemmeno mezzogiorno. Appena l’acqua della doccia
iniziò a scrosciare, e sentii la porta di vetro chiudersi,
entrai in camera per catapultare Ace fuori da casa mia. Era stato il
risveglio più bello di tutta la mia vita, ma ora quel
magnifico ragazzo di fuoco, doveva sparire.
La scena che mi trovai davanti entrando in camera, sfiorava il
ridicolo. Il mio cane sbirciava ringhiando sotto al letto, mentre il
gatto continuava la sua buffa danza, tentando di girare attorno al
letto senza avvicinarvisi.
Ridacchiando spostai di peso il cane e sbirciai verso Ace, che
rannicchiato mi guardava abbastanza contrariato. Ridacchiai ancora
più forte, zittendomi da sola con una mano sulle labbra, e
gli feci cenno di uscire. Dopo svariate ginocchiate e testate, il moro
riuscì a sgusciare fuori dal letto e a rimettersi in piedi.
«Il tuo cane ha tentato di uccidermi!»
Asserì, guardando di traverso il botolo di pelo ringhiante.
«Ti conviene farci amicizia subito, altrimenti ti abbaia
contro e non ho la minima intenzione di giustificare a mia madre anche
questo comportamento bizzarro, basta il gatto con una crisi
d’identità, non mi serve il cane
sclerotico.» Risposi sarcastica, accucciandomi verso il cane
ed invitando Ace a farci amicizia. La belva feroce dal canto suo, dopo
tre carezze si era già sdraiata a zampe all’aria,
implorando con gli occhi il pirata di grattargli la pancia. Il moro
ridacchiò, coccolando ancora per qualche istante il cane,
per poi azzardarsi ad allungare una mano coraggiosa verso il gatto
formato procione. Pessima idea.
Un soffio, un miagolio rabbioso ed ecco le affilate unghiette del
felino, conficcarsi nel palmo di Ace.
«Ahia, ma che ti ho fatto?» Esclamò
offeso il pirata, facendomi ridere e guadagnando un altro sbuffo dal
gatto. Quel micio era un personaggio, avrei dovuto chiamarlo Chopper,
visto che ormai era più un procione che un felino.
«Deve ancora conoscerti, dagli tempo. Ma ora devi
andartene!» Dissi sbrigativa, spingendo il moro fuori dalla
camera, verso la porta d’ingresso.
«Ok, posso tornare oggi? Magari usciamo un
po’…» Protestò, mentre
tentava di camminare infilandosi gli stivali. Mi chiedeva il permesso
di tornare? Che idiota, non aveva ancora capito che avrei passato
ventiquattrore al giorno con lui?
«Certo! All’una va bene?» Risposi
contenta, pensando già alle corse che avrei dovuto fare per
essere pronta tanto presto, ed aprendo l’uscio.
«Perfetto, a dopo allora!» Mormorò,
girandosi verso di me, lasciandomi un bacio a fior di labbra e
disegnandomi un sorriso beato sul volto.
«A dopo…» Salutai, mettendomi in punta
di piedi per dargli un ultimo bacio, prima di spingerlo fuori con la
mano che poggiava sul suo petto.
Chiusi la porta e vi appoggiai le spalle, sospirando. Possibile che il
mio cuore riuscisse a sopportare tante emozioni? Possibile che uno
sciocco e bellissimo pirata riuscisse a sconvolgermi in quel modo? A
quanto pareva, sì.
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Ma buongiorno!!!!! Eccomi qui! Dopo Marcunzel ritorniamo ad un briciolo
di serietà... No non è vero perchè
anche questo
capitolo mantiene una certa vena di ironia xD Gatti e fuoco non vanno
bene insieme xD Beh, allora, che dire?
Ormai sto diventando monotona, ringraziandovi di cuore ogni volta?
probabilmente sì, ma che posso farci? Siete fantastici,
è
stupendo sapere che la mia storia vi piaccia, e voi partecipate
così attivamente, commentando, facendomi domande,
ipotizzando,
dandomi anche idee magnifiche!!! Vi adoro, sul serio, tutte e
tutti (sì, lo so che da qualche parte ci siete
anche voi
maschietti xD) e vi ringrazio di cuore per tutto il supporto
e
l'affetto che mi date, è sicuramente anche grazie a persone
come
voi, che un autore trova la spinta per scrivere e creare storie ^_^
Davvero!
Mi spiace solamente di non potervi citare una per una,
perchè
siete talmente tante che uscirebbero delle note d'autore chilometriche,
ma voi lo sapete!!! ^_^
Ringrazio ovviamente anche tutti i lettori silenziosi, siete tantissimi
anche voi ed ogni volta che vedo le visite o la lista di chi segue la
storia, mi viene la pelle d'oca! GRAZIE!
Ora rispondo alla domanda, dicendovi che, come Selene ( XD) sono nata e
cresciuta in un paesino di 3000 anime, forse anche di meno, dove
l'età media degli abitanti è di 70 anni, nella
provincia
di Brescia ^_^ Le vostre risposte sono state fantastiche! siamo
letteralmente sparse per tutta Italia, ( e se guardiamo le origini, non
solo! Sì, parlo con te! mi dovrai raccontare tutto!
xD) ho trovato solo un'altra ragazza di Brescia xD
e con questo sproloquio mi attacco alle vostre origini:
Nel vostro paese, o
comunque
località, avete un modo di dire strano, tutto vostro
insomma? un
intercalare, oppure che so io, una parola che ormai usate sempre, ma
che di italiano non ha nulla, ma è dialettale ^_^???
xD
Non
l'ho mai detto, ma se volete, non fatevi problemi a bombardarmi di MP,
con domande ecc, non mi disturbate per niente, anzi ^_^
Ora chiudo e al prossimo capitolo!!! Grazie ancoraa!!
ciaooooooooo
Immagini
e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di
lucro
|
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Capitolo 22 *** 21. L'oscurità del sangue ***
c1
Aspettai che mia madre finisse di farsi la doccia e mi fiondai in
bagno, informando con un urlo l’intera casa che quel
pomeriggio sarei uscita.
Nella stanza chiusa aleggiava ancora il profumo fresco del doccia
schiuma all’orchidea ed un leggero velo di vapore si era
condensato sullo specchio e sul vetro del box doccia. Afferrai svelta
l’asciugamano e pulii lo specchio, in modo da poter vedere il
mio riflesso. Ero sempre io, ma comunque mi vedevo diversa,
più luminosa, più felice, più bella in
un certo senso; i capelli corti e corvini tutti spettinati sembravano
vivi, gli occhi parevano cioccolato fondente fuso, brillanti e
scintillanti di gioia, mentre le labbra erano ancora incurvate in un
dolce sorriso sognante. Da quanto tempo non mi guardavo allo specchio?
Da quanto tempo non mi osservavo veramente riflessa su una superficie?
Mediamente schivavo con abilità ogni oggetto riflettente,
per evitare di guardare le mie occhiaie, il mio colorito cereo, ma
soprattutto per evitare i miei occhi, maledettamente vecchi per il mio
viso giovane. Mi vedevo tutti i giorni, ma non mi ero più
soffermata ad osservare il mio volto: ora invece lo stavo facendo, e mi
piacevo.
Sorrisi alla ragazza nello specchio e mi spogliai veloce, lasciando poi
che il getto d’acqua fresca mi spruzzasse il volto e mi
bagnasse i capelli, rinfrescando la mia pelle scottata dal risveglio
bollente. Sentivo ancora le dita del pirata sulla pelle del fianco, le
sue labbra sulle mie ed il calore del suo corpo sopra il mio.
L’acqua era fresca, ma i ricordi troppo caldi
perché un misero getto bastasse, così girai
ancora un po’ la manovella azzurra, irrorandomi con uno
zampillio ancora più freddo, che mi fece rabbrividire.
L’aroma di mirtilli e lamponi del mio sapone mi
rilassò i nervi, sciogliendo i muscoli e calmando
l’agitazione che mi attanagliava lo stomaco. Stavo per uscire
con Ace, il quale mi aveva svegliato con baci e carezze nel mio letto
ed era tornato in Italia, in un paesino sperduto nella provincia
bresciana, per me; per non avere rimpianti.
Le gocce fredde scorrevano sulla mia pelle, portando via la schiuma e
la tensione, ma non potevano portar via tutti i pensieri, la mia
insicurezza non mi avrebbe abbandonata tanto facilmente; io ero
innamorata di Ace, ma lui no, e dovevo farmene una ragione. Come poteva
essere innamorato di una ragazza che aveva visto tre volte in croce?
Probabilmente era incuriosito ed attratto, anche se non ne capivo la
ragione, da me, ma sicuramente non era innamorato. Ma non si poteva
avere tutto dalla vita, intanto lui era qui per me, cercava e voleva
me, che fosse per curiosità o per amore risultava una
questione secondaria.
Finii di lavarmi ed uscii, asciugandomi in fretta con una salvietta e
frizionando violentemente i capelli, ottenendo un garbuglio color
catrame. Sono poche le persone con i capelli veramente neri, molti ci
si avvicinano con un castano scurissimo, ma il vero nero è
rarissimo. Io ero una di quelle rarità, ed i miei capelli
erano l’unica cosa del mio aspetto che adoravo. Li districai
rapidamente con il pettine, lasciando al tempo ed al caldo il compito
di asciugarli, mentre mi vestivo. Non avevo idea di dove saremmo andati
a finire nel pomeriggio, quindi optai per un’elegante
comodità: un paio di bermuda di jeans attillati ed una
semplicissima t-shirt rossa, con una simpatica ranocchia dagli occhi a
palla stampata sul davanti.
Uscii dal bagno che era già mezzogiorno passato, maledendo
il mio vizio di riflettere di argomenti etico - filosofici di
importanza mondiale sotto la doccia. Avevo passato mesi lavandomi in
fretta e furia, per non dar tempo al cervello di ricordare o pensare,
ed in una nottata tutto era cambiato, tutto era tornato normale, anzi,
migliore; ero più serena e più felice, come se
Ace avesse cancellato i mesi di lontananza con la sua sola presenza.
Entrai nella cabina armadio alla ricerca di un paio di scarpe comode e
belle, che non mi facessero male ai piedi in caso di lunghe camminate e
che non fossero pesanti. Solo un paio, tra la distesa di calzature che
mi si parava davanti, aveva quelle caratteristiche, ed era stato
isolato, confinato, carcerato in un angolo buio ed ignorato, per
quattro lunghi mesi: ma ora le avrei rimesse, le MIE converse.
Con un sorriso le afferrai e le infilai mentre salivo le scale (evitate
di farlo a casa, se non volete rischiare l’osso del collo),
per raggiungere il salotto e smangiucchiare qualcosa al volo.
Fortunatamente mia madre aveva previsto il mio ritardo, ed aveva
preparato un pasto rapido e leggero: prosciutto e melone.
Mandai giù velocemente qualche fetta di frutta, ormai
insipida visto che iniziava ad essere fuori stagione, per poi correre
nuovamente in camera, per finire di sistemarmi. Pochi attimi dopo, il
campanello suonò: era arrivato.
Trattenni il fiato qualche secondo, in preda all’ansia, e poi
corsi verso la porta, scavalcando abilmente cane e gatto e salutando di
fretta mia madre. Infilai le chiavi nel marsupio che portavo a
tracolla, orrendo da vedere ma maledettamente comodo, ed uscii,
trovandomi davanti il ragazzo più bello di sempre.
Con addosso solamente i suoi amati bermuda neri ed una camicia azzurra
a mezze maniche, Ace mi guardava divertito. Era bello oltre ogni dire,
come si poteva descrivere una bellezza simile a parole? Non era
possibile, punto.
Sorrisi felice andandogli incontro e notando una gigantesca sacca nera,
di quelle che gli sportivi si portano in palestra; cosa contenesse era
un mistero. Il pirata probabilmente notò il mio sguardo
curioso rivolto al borsone e, ridacchiando, lo raccolse da terra
conducendomi fuori dal vialetto, all’imbocco del quale era
parcheggiata un’enorme moto nera. Sgranai gli occhi e se non
avessi usato tutta la mia forza di volontà, avrei anche
aperto la bocca per lo stupore.
«E questa cosa sarebbe?» Domandai perplessa.
Immaginarmi Ace alla guida di un veicolo del genere, era una visione
onirica; ma avere un pirata per strada non era proprio il massimo.
«Il mio mezzo di trasporto, non potevo certo farmi sempre
accompagnare dagli autisti, o restare chiuso in albergo tutto il tempo,
no?» Mi rispose sornione, posando una mano sul veicolo,
visibilmente orgoglioso del suo nuovo giocattolo. Effettivamente
però, il suo ragionamento non faceva una piega; costringere
un pirata alla vita d’appartamento era impensabile, stesso
discorso per la libertà di spostarsi senza dover mobilitare
altre persone. Una moto era l’emblema della
libertà di viaggiare, del potersi muovere a proprio
piacimento, senza sottostare nemmeno alle regole del traffico. Quante
volte, da automobilista, avevo sognato di poter saltare le code
interminabili, superando e zigzagando libera, a bordo di una
motocicletta. Avevo sempre sognato di poterne guidare una, ma non avevo
la forza necessaria per sostenerne il peso, perciò mi ero
sempre limitata a fare la passeggera. Amavo le moto, amavo la
velocità ed amavo la sensazione fantastica che davano quei
veicoli; senza contare che amavo anche il pilota, in questo caso,
nonostante rimanessi poco convinta delle sue capacità di
guida. L’asfalto non era acqua, non potevo nuotare
nell’asfalto, mi ci sarei semplicemente scartavetrata contro,
e non era una cosa che intendevo fare.
«Ok… Ma la sai guidare?» Chiesi, ancora
dubbiosa e preoccupata all’idea di Ace alla guida di un mezzo
del genere. Non mi rimaneva che sperare che rimanesse un
“pirata del mare”, e non diventasse anche un
“pirata della strada”.
«Spiritosa. Mettiti il casco, il giubbotto, i parastinchi, le
ginocchiere, il paraschiena e i guanti!» Mi rispose
sarcastico, accucciandosi e iniziando ad estrarre dal borsone ogni
sorta di accessorio. Io afferrai al volo casco e giubbino, ma se faceva
conto che indossassi tutta quella roba per fare un giro in moto,
sbagliava di grosso. E poi chi era stato l’idiota ad avergli
fornito tutte quelle attrezzature? Lui sicuramente non sarebbe stato
tanto iperprotettivo; ma un certo uccellaccio azzurro sì.
Era stato sicuramente Marco l’artefice di quella collezione
di abbigliamento da piloti di Moto GP. Stupido pollo azzurro.
«Scordatelo, non mi infilo tutta quella roba per salire su
una moto. Tu piuttosto, il casco ed il giubbino?» Asserii,
infilandomi l’indumento di pelle nera, appoggiando il casco a
terra, ignorando totalmente tutto il resto, e notando che Ace non
accennava ad indossare qualche protezione. Avrei dovuto impormi ameno
sulla storia del casco, visto che l’invincibile comandante
della Seconda flotta di Barbabianca, si sarebbe opposto
strenuamente all’uso di quel “superfluo”
oggetto atto alla sicurezza personale.
«Sono un rogia, non mi farei niente. È di te che
mi preoccupo piuttosto, per questo ho chiesto a Marco di procurarmi
tutto il necessario per farti viaggiare sicura.»
Dichiarò, come previsto, il moro. Addolcendo il mio
disappunto con la sua preoccupazione. Aveva ragione, anche se fosse
caduto non si sarebbe fatto nulla, ma rischiava comunque di prendere
multe o quant’altro; e poi ero più tranquilla
sapendolo protetto. Era un ragionamento stupido, ne ero consapevole, ma
non potevo farci nulla: ero più serena sapendolo in giro con
il casco.
«Ci sono delle regole anche per te pirata, mettiti un casco o
non ci muoviamo di qui.» Affermai convinta, incrociando le
braccia al petto e catturando lo sguardo del ragazzo di fuoco con il
mio. Il suo sorriso era troppo sornione, per presagire qualcosa di
buono.
«Non ce l’ho.» Mi disse innocentemente,
facendo spallucce e sorridendo ancora di più. Ma pensava
davvero che mi sarei fatta ingannare da un bel sorriso e qualche
muscolo? Ok che la carne è debole, ma avevo ancora un
cervello, immerso nel brodo di giuggiole, ma c’era ancora, e
sapevo che la fenice non avrebbe mai dimenticato
l’equipaggiamento per Ace.
«Scommettiamo? Solleva la sella.» Affermai sicura,
accennando con il mento alla grossa moto e godendomi
l’irrigidimento dell’espressione di Ace. Avevo
fatto centro.
«No.» Si oppose il moro, mettendo una mano sulla
pelle nera del sellino, come per impedirmi di volare addosso al suo
gioiellino, ed imbronciando il labbro inferiore. Un bambino, ecco
cos’era in quel momento: bellissimo, alto, muscoloso e
maledettamente sexy, ma con un comportamento infantile. E lo amavo per
questo. Intensificai il mio sguardo, alzando lievemente un sopracciglio
ed inclinando la testa; non l’avrebbe scampata, si sarebbe
messo quel maledetto casco. Ora.
«E va bene…» Sbuffò
rassegnato, dopo qualche istante di lotta tra sguardi. Povero
piratuncolo, avevo retto quello di mia madre e quello di Mihawk, potevo
resistere a qualsiasi occhiata. Contrariato alzò la sella,
tirando fuori un bellissimo casco, identico al mio, nero con delle
piccole fiamme arancioni e rosse disegnate sui lati.
«Ma guarda, un casco! Che buffa coincidenza.»
Ridacchiai sarcastica, guadagnandomi un’occhiataccia e
facendo ottenere anche al povero Marco, la sua dose giornaliera di
insulti. Mi avvicinai ad Ace, cingendogli i fianchi ed alzandomi sulle
punte per potermi avvicinare al suo viso, mentre lui ricambiava
l’abbraccio e si abbassava lentamente. I nostri nasi si
sfiorarono e le labbra, come spinte da una forza nuova e
incontrastabile, si incurvarono in sorrisi complici e divertiti, per
poi unirsi in un tenero bacio. Per il mio povero e fragile cuore, quel
contatto era l’ennesimo sconvolgimento, che lo fece impazzire
e destabilizzò il mio flusso sanguineo. I polmoni e lo
stomaco sembravano contorcersi, lambiti dalle fiamme dolci di quelle
emozioni; sentii distintamente il sentimento che provavo per Ace,
uscire dal mio cuore ed espandersi, raggiungendo ogni angolo del mio
corpo, e riempiendomi con un tenue torpore. Ero innamorata,
perdutamente innamorata di quel pirata che rappresentava ormai, il mio
unico Sole.
«Dove andiamo?» Domandai non appena le nostre
labbra si staccarono, respirando quelle parole sulla bocca del moro
che, stringendomi ancora a se, rispose con voce roca: «Non
saprei, sei tu ad abitare qui, non io…».
E come dargli torto? Ero io “l’esperta”
del posto, anche se ad essere sincera, conoscevo ben poco del
territorio circostante. Dove potevamo andare? Portare Ace in
città sarebbe stato un suicidio, stesso discorso per il
lungo lago; di domenica pomeriggio ci sarebbe stato il pienone, persino
camminare sarebbe stata un’impresa.
Tutto d’un tratto mi ricordai di un posto, non troppo
lontano, dove andavo da bambina, perfetto per un afoso pomeriggio.
«Un idea ce l’avrei, ti do indicazioni strada
facendo.» Dissi staccandomi da lui, aprendo l’auto
e scaraventando nel bagagliaio tutte le attrezzature superflue, tirando
poi fuori una grossa coperta rossa, che piegai più volte ed
infilai a forza nel sottosella della moto.
«Ok, perfetto!» Sorrise il pirata, salendo a
cavalcioni sul veicolo e porgendomi la mano, in modo da aiutarmi a
salire. Ero un metro e sessanta scarso di ragazza, avevo le mie
difficoltà nel saltare su quella cosa. In più il
pirata pensava che non avessi notato il casco, abbandonato a terra e
mal nascosto dietro al vaso di sempreverdi: illuso.
«Non dimentichi niente?» Chiesi con tono allusorio,
mentre infilavo la testa nel mio casco ed allacciavo il cinturino. Il
moro, di tutta risposta, sbuffando si allungò verso il suo e
lo infilò con violenza, probabilmente facendosi pure male.
Stupido orgoglio maschile.
«Contenta ora? Possiamo andare?» Sibilò,
fingendosi irritato, sistemandosi sulla sella e levando il cavalletto.
Ridacchiai allacciando le mie braccia attorno alla sua vita, scorrendo
per qualche secondo le dita sugli addominali perfetti e sui fianchi
asciutti ed appoggiandomi alla sua schiena.
«Sì, grazie.» Risposi, e dalla voce si
capiva che le mie labbra erano tese in un sorriso.
Ace rise, fece rombare il motore della motocicletta e partimmo.
Sfrecciavamo veloci tra le viuzze del paese, immettendoci poi sulla
statale e divertendoci come bambini, percorrendo a tutto gas le curve
impervie della vallata. Urlavo le indicazioni alzando leggermente il
mento, ed il pirata le seguiva certosino. Il verde del paesaggio
saettava fulmineo attorno a noi, dandomi l’impressione di
trovarmi in uno di quegli stravaganti tunnel psichedelici. Vivevo in un
paesello di poche anime, immerso nel verde e circondato dalle montagne,
eppure in meno di quaranta minuti, raggiungevo senza problemi la
città. Era un paese morto, dove l’età
media degli abitanti era di circa settant’anni, ma comunque
amavo vivere in quell’angolo di quiete. In meno di mezzora
arrivammo davanti ad una grande salita tortuosa, totalmente asfaltata
ma maledettamente impervia, che si snodava verso la montagna. Non feci
in tempo a proporre di scendere ed andare a piedi. Sentii i muscoli di
Ace tendersi ed il motore ruggire selvaggiamente, poi la moto
partì a tutta velocità, quasi impennando. Mi
ancorai al corpo del moro, stringendolo un po’ di
più, e iniziai a ridere. Risi tanto, perché
l’adrenalina era ormai in circolo. Risi tanto,
perché ero maledettamente felice. Risi tanto,
perché in quel momento, in quel preciso istante, ero la
persona più libera della terra.
Scalata l’impervia via, avanzammo a velocità
ridotta per un’altra stradina, ignorando spudoratamente
l’arrugginito e quasi illeggibile cartello di
“proprietà privata”. La strada che
avevamo imboccato era più simile ad un sentiero, vista la
difficoltà nel trovarne l’accesso e come
serpeggiava nella vegetazione, ma larga abbastanza per far passare una
macchina.
Il silenzio del bosco era incrinato dal rumore del motore, abbellito
solamente dallo scricchiolio dei sassolini sotto le ruote. Quando la
stradina si aprì su un vasto prato in pendenza, avvisai Ace
che eravamo arrivati, ed una volta fatto scattare il cavalletto e
spento il motore, il silenzio ci avvolse.
L’intero manto erboso era composto da centinaia di specie
diverse, tra fiori ed erbacce, tanto da non risultare verde ma
giallastro, ed arrivava a sfiorarmi fastidiosamente le caviglie.
Detestavo l’erba alta e tutti i suoi stupidi abitanti, alati
e non, ma quel posto era magico. Sul limitare della radura, un piccolo
rudere, ormai quasi totalmente crollato, dava a quel luogo un sapore di
vissuto unico. Avevo splendidi ricordi di quel prato nascosto dalla
vegetazione ed abbandonato dai proprietari ormai da una quindicina
d’anni, come minimo, visto che ci venivamo spesso a fare
scampagnate e picnic domenicali e post-pasquali. Era un posticino
isolato, impossibile da trovare se non lo si conosceva, e lo
consideravo mio, anche se non lo era. Respirai a fondo il profumo del
bosco, voltandomi poi a guardare Ace, che stava stendendo la coperta
sul prato. Ci sedemmo e finalmente mi concessi di guardare il panorama
che, trovandoci relativamente in alto, era a dir poco magnifico.
Potevamo vedere tutti i paesini dei dintorni, con i campanili che alti
ed imperiosi spiccavano tra i rossi tetti delle case, e se aguzzavamo
lo sguardo, in lontananza, quasi confuso con la linea del cielo,
potevamo intravedere uno spicchio di lago. Sì, decisamente,
adoravo quel posto.
Mi abbandonai all’indietro, lasciando all’erba
piegata il compito di attutirmi la caduta, e guardai il cielo azzurro e
terso. Il Sole terrestre illuminava e scaldava il mio corpo, mentre il
mio si sdraiava accanto a me, appoggiando il suo magnifico volto alla
mano, restando puntellato sul gomito. Visto da sveglia e con i raggi
del sole ad ombreggiargli il viso, era ancora più bello, se
possibile.
Sorrisi, sollevando leggermente la testa per incontrare le sue labbra,
paradossalmente fresche rispetto all’afa di quel giorno.
«Come hai scoperto questo posto?» Mi chiese
curioso, scostandomi dalla fronte una ciocca ribelle ed approfittandone
per lasciarmi una dolce carezza sul viso.
«Ci venivo sempre da piccolina, con i miei genitori. Ho tanti
bei ricordi qui…» Sorrisi rispondendo, avevo
davvero tanti ricordi dolci in quel posto, dalle abbuffate di riso
freddo e panini, alle corse giù per il prato, agli spaventi
che mi faceva prendere mio padre nascondendosi dietro alle pareti
diroccate del casale. Il viso di Ace invece si rabbuiò,
velandosi di un’ombra di tetro sconforto, che spense
immediatamente il mio sorriso, attorcigliandomi lo stomaco di
preoccupazione.
«Capisco.» Esclamò il moro, gelandomi il
sorriso sul viso, e facendomi immediatamente rendere conto di quello
che avevo appena detto. Ero stata una stupida, avevo parlato senza
pensare, toccando tasti che non avevo il diritto nemmeno di sfiorare.
Con un’espressione dura Ace guardava il vuoto, ed io mi
sentivo impotente e colpevole. «Mi piacerebbe averne qualcuno
di mia madre, invece di lei non ho nemmeno una fotografia. Conosco solo
il volto del… Criminale che mi ha generato.»
Digrignò a denti stretti il moro, stringendomi il cuore con
quelle parole dure e calcolate. Odiava suo padre e quel sentimento
permeava da quelle frasi.
Allungai una mano, incerta su come comportarmi, e gli posai il palmo
sulla guancia, carezzando lievemente la gota con il pollice e tentando
di sorridere. Non era un argomento facile da affrontare, ma andava
fatto, altrimenti non avremmo mai potuto avere un rapporto sereno,
finché i fantasmi del suo passato l’avrebbero
tormentato in quel modo.
«Ace… Posso… Parlarti dei tuoi
genitori?» Chiesi titubante, terrorizzata dal ricevere un
secco ed offeso “no”. Ma Ace non mi
trattò male, mi guardò sorpreso, a tratti forse
impaurito, e si sdraiò sulla coperta, guardando il cielo per
qualche istante e poi chiudendo gli occhi. Era un sì,
silenzioso e sofferto, ma era un sì.
Mi tirai su a sedere, incrociando le gambe e voltandomi verso il bosco,
dando le spalle al panorama, e lasciando che i miei occhi fissassero il
nulla, vacui ed inutili.
«Beh, sai benissimo che in questo… Mondo parallelo
diciamo, la vostra vita è per noi un fumetto, quindi posso
dire che attraverso quelle pagine ho conosciuto te, tuo padre e tua
madre.» Iniziai esitante, terrorizzata
dall’eventualità di sbagliare espressioni, parole
o tono, frantumando tutto quanto.
«Tua madre era una donna magnifica, bellissima e forte,
determinata e dolce. Ti amava oltre ogni dire Ace, non so nemmeno
descriverti quanto ti amasse, e tu le somigli moltissimo. Aveva una
cascata di capelli color pesca e delle bellissime lentiggini, era
veramente una donna magnifica. Voleva che il tuo nome fosse Gol D. Ace,
perché amava tantissimo anche tuo padre, Roger.»
Iniziai tentennante, sondando le espressioni e le reazioni del ragazzo,
che se ne restava immobile, con la mascella tesa e le labbra contratte.
Il nome di suo padre aveva provocato un lieve spasmo del labbro
inferiore. Lo odiava, con tutto se stesso, ma l’odio
è un sentimento troppo potente e, come l’amore,
può uccidere.
«So che ti senti tradito da lui, che lo reputi un mostro, un
criminale della peggior risma, ma anche lui ti voleva bene, prima
ancora che nascessi. Scelse lui il tuo nome, e chiese a Garp di
salvarti, perché un bambino che ancora doveva nascere, non
aveva nessuna colpa.» Ormai le parole erano solo un flusso di
pensieri, puri e semplici pensieri: articolare un discorso di senso
compiuto su argomenti simili, mi risultava impossibile.
«Pensaci Ace, non avrebbe potuto restare con tua madre, la
marina l’avrebbe trovato e vi avrebbero ucciso tutti.
L’ha fatto per salvarvi, non poteva immaginare che Rouge
sarebbe morta di parto, non è colpa di Roger come non
è nemmeno colpa tua. Lei ha dato la sua vita per te, e tu
devi viverla con serenità, felice, come avrebbe voluto tua
madre. Per seguire il tuo sogno di libertà sei diventato un
pirata, ma se tuo padre non fosse stato l’uomo che era,
probabilmente non avrebbe mai conosciuto Rouge, non sarebbe diventato
il Re dei Pirati e non avrebbe dato inizio alla grande era della
pirateria, di cui tu stesso fai parte.» Dissi tutto
d’un fiato, controllando di tanto in tanto, con rapidi
movimenti del capo, le espressioni di Ace. Il viso del pirata era
impenetrabile, una maschera di gesso irrorata di sole: tanto bella
quanto inespressiva. Non capivo appieno il suo disprezzo per la vita:
sua madre aveva donato la sua perché lui fosse felice, non
per vederlo logorarsi giorno dopo giorno, in preda ai sensi di colpa.
Per non parlare di tutto l’odio che provava per suo padre
che, da osservatrice esterna, non riuscivo a comprendere. Era stato un
grande uomo, ammirato da tutti e temuto da tanti; non era da
disprezzare. È molto più semplice temere qualcuno
che si ammira, piuttosto che un nemico che si disprezza. Davvero Ace
era convinto che tutti coloro che assistettero all’esecuzione
del Re dei Pirati, lo odiassero? No, non lo odiavano. Lo invidiavano,
perché era riuscito in un impresa unica: vivere senza
rimpianti ed al massimo delle proprie possibilità. Loro
invece non potevano farlo, incatenati da regole morali e di buon
costume, prigionieri della loro stessa vita. Anche se Roger fosse stato
un uomo crudele e cattivo poi, che colpa ne ha un figlio delle azioni
del genitore? Nessuna. Sono solo la stupidità e
l’ignoranza collettiva ad incolpare la prole per gli errori
di chi l’ha generata; l’ignoranza, in particolare,
resta a mio parere il male più grande del mondo. Sospirando
continuai, tentando di portare a termine il mio insensato discorso.
«Mio padre è morto circa un anno fa, per una
malattia…» Iniziai, tentando in tutti i modi di
mantenere la voce ferma.
«Mi manca da morire, ma almeno l’ho conosciuto e mi
resta mia madre, quindi non penso di poter immaginare il dolore che ti
porti dentro, ma lascia che risponda ad una tua domanda, anche se
dovresti averlo già capito dall’affetto che ti
danno i tuoi compagni e dal bene immenso che tuo fratello prova per te.
Tu meriti di vivere, Ace. Non mi importa il tuo cognome, non mi
importano le tue origini, non mi interessa se sei convinto che nel tuo
sangue ci sia anche quello di un demonio, sono tutte stronzate. Tu sei
solamente te stesso, un figlio non è il genitore, e
sinceramente mi importa solamente di te.» Dissi, ormai
rasentando la disperazione, mentre fissavo il viso imperturbabile di
Ace: non mi credeva, ed il cuore mi si spezzò.
« Meriti di essere nato, perché non hai la
più pallida idea di quante ragazze hai fatto sorridere, di
quanti ragazzi hai appassionato con le tue abilità, di
quanto la tua esistenza abbia rallegrato la mia, nei suoi momenti
più bui: sei il mio Sole, Ace.» Cedetti alla fine,
rivelando pensieri che forse non andavano svelati.
Lo vidi aprire gli occhi e guardarmi, feci in tempo solo a cancellare
dalla mia guancia una lacrima ribelle, prima che le sue mani bollenti
mi avvolgessero il viso. Mi sentivo come una piccola e pallida perla,
avvolta da mani delicate e protettive, che appartenevano ad un ragazzo
con il fuoco nero negli occhi.
Ero terrorizzata da quelle perle d’onice, tremavo al solo
pensiero di aver detto qualcosa di sbagliato, qualcosa di troppo,
qualcosa che lo facesse fuggire, scappare, oscurare, sparire. Un
leggero cipiglio incrinò la sua espressione, ed io
rabbrividii, congelata. Avevo detto troppo. L’avevo perso.
«ۛMi dici così, e poi tremi davanti a me,
terrorizzata? Non negare l’evidenza, ti prego.»
Mormorò, scioccandomi. Stupida, ero una stupida, mentre lui
era un complessato del cazzo.
Mi scostai bruscamente, togliendo le sue mani dal mio viso.
Trattenni il fiato, alzando il braccio destro.
«Sei un idiota!» Ringhiai arrabbiata, piangendo e
sentendo le mie dita impattare violente sulla morbida guancia del moro.
«Non ho paura di te», singhiozzai ancora, portando
la mano colpevole alla bocca, «Ho paura che tu possa
andartene, ho paura di aver detto parole di troppo, ho paura di aver
spezzato il nostro strano legame, andando a toccare argomenti che non
mi riguardavano, ho paura di perderti.» Piansi. Il respiro
affannato, il petto scosso dai singulti, le braccia e le mani tremanti
per la tensione, gli occhi liquidi di lacrime e dolorosa paura. Gelo,
di nuovo, nel petto.
Piangevo, incontrollabile e stupida. Debole ed infantile. Stupida.
Ace mi guardava, il cipiglio disteso in un’espressione di
stupore e sconvolgimento. Stupido.
Piangevo amare stille, che colavano sulle guance e sulle mani, ma poi
mi ritrovai imprigionata tra braccia bollenti. Faceva caldo,
l’afa ed il sole erano quasi insopportabili, ma quella
stretta era piacevole. Perché mi abbracciava?
Le mie mani erano abbandonate lungo i fianchi, morte, mentre il mio
mento poggiava sulla spalla del pirata, che mi stringeva a
sé, forte.
Tremai ed emisi un ultimo singhiozzo, prima di stringerlo a mia volta.
Eravamo due stupidi, per motivi diversi, ma entrambi stupidi.
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Ciao... Hem, scusate il ritardo, ma questo capitolo non voleva uscire,
un GRAZIE enorme a Lenhara, che mi ha dato non una, ma ben 100 mani in
questi giorni!!! ^_^ Ringraziate lei se oggi ho pubblicato, davvero! La
mia Lovetramabeta! xD
Comunque, capitolo abbastanza pesantuccio, lo so, ma non potevo evitare
di chiarire queste cose, abbiate pazienza che adesso finiscono i
capitoli pesanti xD
Ma ad un capitolo denso, vanno abbinate delle note d'autore dense,
ovviamente, quindi ne approfitto per dare la comunicazione ufficiale di
una mia scelta: Farò un'altra storia, finita questa,
intitolata Doctor of
Love,
che parlerà di Elena e... beh, immaginate voi di chi alro
xD. Questa idea è partita da un
magnifico disegno di _Hanna_, ed è stata alimentata dalle
amiche di penna, e non solo, più folli che potessi trovare
^_^
Quindi, alla fine di questa storia (e manca ancora parecchio, quindi
mettetevi l'anima in pace xD), avremo un "sequel". Spero che la cosa vi
faccia piacere, e ci tengo a precisare che la futura storia NON
sarà il continuo di questa, e quindi non lascerò
un
finale incompleto, che vi costringa a leggere l'altra; Fire of Love
avrà la sua fine, l'altra sarà una specie di
"capitolone
a capitoli" extra, assolutamente non indispensabile per capire questa
storia!
Bene, mi sono spiegata da schifo, quindi se avete domande o altro,
chiedete pure senza farvi problemi!!! ^_^ Tenterò di
chiarire i vostri dubbi ^_^
passando alla domanda, essendo di Brescia, uso tantissimo il "Pota",
parola che metto ovunque, e significa tutto e niente, è
impossibile classificarlo xD altra parola che a volte mi scappa, e che
spesso e volentieri reputo italiana, pur essendo un termine dialettale,
è "inganfito",
che significa incapace, inetto, stupido,
impacciato e cretino, tutto in un'unica parola. xD
Ho adorato i vostri modi di dire, alcuni me li segno ed
inizierò ad usarli, di sicuro!!! xD
ora:
Avete un posto
segreto dove andate a pensare, a riflettere o altro? Oppure un posto
ricco di ricordi d'infanzia?
Chiedo venia per le note
chilometriche, mi riprometto sempre di essere breve, ma non ce la
faccio mai xD
Grazie ancora a tutti quanti, aumentate ogni volta, e mi fate veramente
felicissima!
bacioni, alla prossima!!!
ciaooooooooo
Immagini
e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di
lucro
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Capitolo 23 *** 22. Impossibile ***
c1
Quando i singhiozzi si furono calmati, non mi mossi; restai immobile,
aggrappata al corpo di Ace, ignorando il caldo e la posizione scomoda:
stavo bene così.
Le spalle strette fra le braccia del moro avevano smesso di tremare ed
il silenzio del bosco avvolgeva tutti i miei pensieri e le mie paure.
Ero stata un'idiota, prima mi ero permessa di parlare ad Ace di
argomenti che non mi riguardavano poi, non contenta, l'avevo persino
preso a schiaffi, continuando la mia patetica scenetta con un pianto
isterico. "Patetica" era decisamente l'aggettivo adatto a definirmi,
insieme a stupida ed infantile.
«Scusa...» Sussurrai, lasciando al vento il compito
di
portare le mie parole alle orecchie del pirata, che nonostante fosse
così vicino, rimaneva distante anni luce da me. Il freddo
liquido del dolore, che ormai avevo imparato a conoscere,
iniziò
a scivolare nel mio petto, lento e letale, congelandomi l'anima ed il
corpo stesso. Strano, quanto freddo si possa provare abbracciando il
fuoco. Mi ero scusata, senza sapere bene per cosa, usando la parola
più difficile del mondo.
Molti dicono che sia "ti amo", ma non è vero; dire ad una
persona che la si ama è semplice, naturale persino, ma
chiederle
scusa no. Per chiedere perdono, per dire che ci dispiace, per scusarci
del nostro comportamento, serve molto più impegno, bisogna
passare sopra l'orgoglio, ignorare la nostra dignità quasi,
solo
per chiedere scusa. Sono cinque stupide lettere, come “ti
amo” d’altronde, ma quanto possono essere pesanti
da dire?
Troppo. Ma se l'amore è forte, si superano gli ostacoli
dell’ego, dando la precedenza all'amore per l'altro. Dicono
che
l'amore è quando non devi mai dire "mi dispiace", ma non
é vero. L'amore è pieno di scuse e sbagli, fa
parte del
suo fascino, sta all'intensità del sentimento il compito di
superare e risolvere i conflitti e gli sbagli. Tutti sbagliamo,
nell'amore forse ancora di più, perché abbassiamo
le
difese, ci controlliamo di meno, siamo più vulnerabili; per
questo chi ama ha tanto potere distruttivo tra le mani. Spesso
però non ce ne rendiamo conto, se non quando ormai abbiamo
già colpito, ferendo e facendo soffrire, distruggendo
talvolta
persino noi stessi.
Le parole, quanto potere hanno le parole? Tantissimo, sono le armi
più letali e devastanti. Ferite inferte con coltelli e
proiettili fanno male, ma guariscono perché feriscono solo
il
corpo; se colpiamo con le parole invece, lame sibilline e affilate,
pallottole precise e roventi, feriamo l'anima, il cuore e i sentimenti,
che raramente guariscono e, quelle poche volte che lo fanno, si
lasciano addosso orride cicatrici, che modificheranno per sempre i
nostri comportamenti ed i nostri modi di fare.
È così che si forma il carattere delle persone,
la
diffidenza, l’ingenuità, la durezza, la forza, il
coraggio, sono tutte sfaccettature che derivano da esperienze, da
parole dette da altri, da ricordi dolorosi o felici, da spicchi di
passato. La persona diffidente ha sofferto, è stata fregata
parecchie volte in passato, e per guadagnarne la fiducia bisogna
sudare. Elena, ad esempio, era così: tartassata da stupidi
bambini alle elementari, che la prendevano in giro perché
pallida e timida, insicura e timorosa di sbagliare. Poi, poverina,
aveva incontrato me, la personificazione della solarità e
totalmente inconsapevole del significato della parola
“timidezza”.
Lei mi aveva insegnato la pazienza e la razionalità (o
almeno ci
aveva provato), io la spigliatezza, ed ero diventata pallida per lei:
ero rimasta tre mesi senza prendere il sole, evitando i raggi come se
fossi un vampiro, solo per non abbronzarmi e non farla sentire diversa
da me. La sciocca intanto aveva fatto il contrario, ustionandosi al
sole per tentare di dare alla sua pelle un vago accenno di colore. Il
risultato di queste pazzie furono una serie di lampade
dall’estetista durante l’inverno, per ridarmi un
colore
diverso dal verde, e Dio solo sa quante pomate all’aloe per
le
ustioni. Alla fine avevamo capito che noi eravamo giuste e perfette
così come eravamo, bianche entrambe d’inverno, ma
d’estate eravamo la coppia perfetta: il
caffèlatte. Cosa
c’è di meglio? Dolce ma carico, ma ovviamente per
chi non
ama il caffè può immaginarsi il latte e cacao, il
colore
è quello, e forse il sapore è persino meglio, ora
che ci
penso.
Sospirai, scacciando quei pensieri inutili con un respiro tremante. Ace
non si muoveva. Sentivo il suo respiro regolare, ma il suo corpo era
fermo, stretto a me, ma pietrificato.
«Scusami, non avrei dovuto…» Continuai,
incapace di
sopportare quell’immobile silenzio di cristallo. Volevo
urlare,
volevo creparlo, romperlo, frantumarlo… O almeno scheggiarlo
con
la mia voce e le mie parole. La lingua era un’arma micidiale,
ma
poteva anche curare, lenire, sanare le ferite che infliggeva. Quello
stesso muscolo tanto letale, poteva essere il balsamo più
dolce
per un cuore ferito, ed ora io, da arma tagliente, dovevo diventare
unguento lenitivo, sciogliendomi tra quelle braccia e sperando di non
aver fatto danni irreparabili.
I muscoli della schiena del pirata si contrassero e sentii il suo capo
muoversi leggermente, mentre drizzava il busto, sussurrando
impercettibili “no”.
Quando il viso del moro fu davanti al mio, il cuore cedette di fronte a
quelle iridi nere, troppo vecchie. Mi riconoscevo, in parte, in quello
sguardo vissuto, l’avevo incontrato tante volte, di sfuggita,
evitando il mio riflesso nelle superfici lucide, uno sguardo antico,
troppo.
Sprofondai in quei pozzi d’onice liquida, sentendo il mio
corpo
afflosciarsi, privato della forza di reggersi, ed un’ultima
lacrima imperiosa solcò la mia guancia, raccolta dalla mano
di
Ace quando ormai era giunta sulla mascella. Il moro mi guardava,
continuando a negare con il capo. Diceva di no, che non mi perdonava,
che non mi scusava, che non avrebbe accettato le mie scuse, diceva che
l’avevo perso, ed io divenni di ghiaccio. Sentii il mio viso
contrarsi, vacuo ed impenetrabile come una maschera di cera, freddo e
duro come il ghiaccio. Ma non ero al sicuro, avevo davanti a me il
fuoco, che scioglieva sia la cera che il ghiaccio, che bruciava la
carne e l’anima, non potevo nascondermi dietro nulla.
«No, scusami tu.» Scandì il moro,
inchiodando il suo
sguardo nel mio, afferrandomi con decisione le spalle e guardandomi con
intensità disarmante. Potrei giurare di aver visto delle
fiamme
nere nei suoi occhi, lingue di fuoco scuro ma lucente, ma fu solo un
attimo, la frazione di un secondo di magia.
«Ho frainteso il tuo sguardo, non dovevo mettere in dubbio le
tue
parole ed i tuoi sentimenti, sono stato un idiota. Solo che, non
capisco ancora come tu possa provare qualcosa di diverso
dall’odio, verso di me.» Disse il bel pirata,
tenendo
incatenato il mio sguardo e strappandomi irregolari respiri dal petto.
Si era scusato lui, per aver frainteso. L’avevo definito un
complessato del cazzo, ed avevo ragione. Mi autodefinivo una patetica
complessata del cazzo, ed avevo di nuovo ragione. Eravamo due idioti
complessati, un’accoppiata deleteria e perfetta.
Sorrisi, perché era l’unica cosa che potevo fare.
Piansi, perché a volte un sorriso non riesce ad esprimere
tutte le nostre emozioni.
Mi sentii una stupida, perché stavo piangendo e ridendo,
mentre
Ace mi guardava perplesso, senza capire. E come poteva capire? Quello
stupido, adorabile e bellissimo fuorilegge non poteva capire il mio
sollievo e la mia felicità in quel momento. Non
l’avevo
perso, era ancora lì con me, a guardarmi stranito ed incerto
sul
come comportarsi, a sgranare gli occhi quando le mie braccia
l’avevano stretto, a trattenere il fiato quando le mie
labbra,
umide di lacrime, si erano unite violentemente e senza preavviso alle
sue.
Mi aggrappai a lui, abbandonandomi totalmente contro quel petto liscio
e perfetto, perdendomi nell'immobilità delle labbra sorprese
del
moro. Ma cogliere di sorpresa un pirata era una cosa, mantenerlo inerme
un'altra. Sentii il corpo di Ace rispondere al bacio, stringendomi le
braccia attorno alla vita e respirando pesantemente nella mia bocca.
Tesi le labbra in un tenero sorriso, mentre le mie dita stringevano il
leggero tessuto della sua camicia, azzerando la distanza tra i nostri
corpi con uno strattone poco signorile, che ci fece perdere
l'equilibrio e cadere sulla coperta. Il mio corpo, schiacciato sopra
quello di Ace, era in fiamme, ormai privo di controllo e
razionalità. Esplorare la bocca del pirata non mi bastava,
non
era sufficiente, volevo di più.
Feci scorrere lenta le dita sull'addome teso e marmoreo del pirata,
strappandogli sospiri bollenti ed un tremolio maledettamente eccitante,
quando le mie unghie avevano graffiato leggermente la V dei suoi
fianchi. Solo l’immaginare dove arrivasse quella lettera
tentatrice, pennellata dal miglior artista dell'universo sulla sua
carne, mi fece vibrare il cuore ed infiammare il desiderio. Lo amavo da
impazzire e lo desideravo altrettanto. Può sembrare stupido
e
infantile, amare un disegno, innamorarsi di un’illusione,
perdersi per ore ad osservare immagini inventate, schizzi di china,
matita, pennello o semplicemente capolavori di grafica digitale, eppure
non me ne importava nulla. Ero felice, ero con Ace e che il resto del
mondo vada a farsi fottere. Non avevo mai tentato di uniformarmi alla
massa, di seguire ciecamente le mode, di farmi amare dagli altri per
quello che non ero.
Di amici non ne ho molti, posso contarli tranquillamente su una mano,
ma affiderei loro la mia vita, perché so che mi conoscono
davvero, e mi apprezzano per come sono: una pazza fanatica di ONE PIECE
innamorata da sempre di un personaggio, per il quale ho pianto, riso,
sospirato e sofferto. Una psicopatica forse, sotto certi aspetti,
però mi vogliono bene lo stesso, ed io li adoro per questo.
Ora mi trovavo a vivere il mio sogno più bello, anzi, la mia
realtà più bella. Sì,
perché Ace era
lì, era vero, era reale ed io non stavo sognando, anche
perché mai avrei osato sognare, sperare, confidare in una
storia
simile; troppo magica, troppo unica, troppo emozionante, troppo tutto.
Con il mio petto premuto sul suo e le sue mani calde che mi torturavano
i fianchi, mi sembrava di volare. Percepivo ogni carezza, ogni lieve
graffio, ogni stretta ed ogni sospiro del moro, beandomi di quella
sensazione magnifica. I raggi del sole mi scottavano le spalle,
dispettosi e prepotenti, disturbando l’intensità
del
momento. Maledette radiazioni solari, maledette nuvole inesistenti e
maledetta me e la mia idea di stare all’aperto. Un bel locale
con
aria condizionata ed al buio no eh? Ovviamente no. Stupida Selene.
Ace si accorse che l’afa stava diventando insopportabile per
me,
stretta nel suo abraccio di fuoco e pungolata da quel maledetto astro
luminoso, e ridacchiando staccò le sue labbra dalle mie,
sollevandosi a sedere e facendo in modo che io finissi in braccio a
lui, a cavalcioni. Libido, passione e desiderio, vi prego chetatevi o
finirò per esplodere, dannato fiammifero sexy. Ma si
è
mai sentito di un fiammifero erotico? No, parliamone perché
qui
sfioriamo il paradossale, anche se discutere di paradossale quando ci
si ritrova in braccio ad un personaggio del tuo Manga preferito,
trasportato nel tuo mondo da misteriose radiazioni, è
alquanto
ridicolo.
Il sorriso raggiante del pirata mi fece perdere quei pochi battiti
regolari che mi erano restati, mentre il suo naso che sfregava leggero
contro il mio mi faceva sorridere teneramente. Amore, che parola strana
e ricca di significati, peccato siano tutti indescrivibili ed
impossibili da spiegare, ne uscirebbe un gran bel libro.
«Andiamo un po’ all’ombra, stai cuocendo
qui.»
Affermò sicuro Ace, non lasciandomi il tempo di ribattere e
tirandosi in piedi, con me avvinghiata scimmiescamente alle sue spalle.
Detestavo i movimenti bruschi, tanto più quelli che
rischiavano
di spaccarmi l’osso del collo, però lamentarmi
della
posizione era fuori discussione, sarei rimasta a fare il koala su Ace
per tutta la vita, se avessi potuto. Sentire le sue braccia sorreggermi
la schiena ed il suo petto strusciare contro di me era troppo bello per
poter includere la parola “lamento” o
“protesta” nel mio vocabolario. Il pirata si
avvicinò agli alberi che circondavano la piccola radura,
verso
la tanto agognata ombra, dove speravo di trovare un briciolo di
sollievo da quel caldo afoso; fortuna eravamo in leggera montagna,
quindi l’aria era più fresca, in città
sicuramente
stavano boccheggiando.
Una volta al riparo dal sole, Ace non mi lasciò scendere a
terra
come credevo, ma si diresse invece verso il bosco, guadagnandosi un mio
sguardo perplesso al quale rispose con l’ennesimo sorriso,
stavolta dannatamente malizioso, che mi fece scendere un brivido lungo
la spina dorsale. Pochi secondi dopo potei notare solo un rapido
movimento circolare del pirata, subito seguito dal leggero impatto
della mia schiena contro un tronco, ruvido e profumato di resina: cosa
diavolo ci facevo contro un tronco?!
Aprii la bocca per esprimere i miei dubbi, ma le labbra e la lingua del
moro mi impedirono di proferire parola. Il corpo caldo del pirata mi
schiacciava contro la corteccia ruvida, mentre la mia schiena si
inarcava sotto le carezze improvvise delle sue mani. Boccheggiai quando
il suo palmo scese sulla mia coscia, afferrandomi dietro al ginocchio e
stringendomi la gamba, intanto che l’altra continuava a
torturare
il mio fianco e la sua lingua mi faceva ribollire il sangue nelle vene.
Il cuore ormai impazzito, tamburellava frenetico nel petto, lottando
con il contorcersi dello stomaco e l’affanno dei polmoni,
bisognosi di aria ma troppo impegnati per prendersela. Non sentivo la
corteccia dietro le spalle, percepivo solo il calore del pirata davanti
a me, e le sue labbra roventi sulla mia pelle.
Sospiravo, affondando le dita nei morbidi capelli di Ace, per tirare a
me quel viso perfetto, che volevo sempre più vicino.
La bocca del moro lasciò la mia, dirigendosi lenta e
tentatrice
verso il mio orecchio, abbandonando sulla mia mascella una scia di baci
e scosse di piacere. Il petto si gonfiò, annaspando in cerca
d’aria, quando i denti del pirata iniziarono a giocare con il
lobo, mentre il cuore cedeva sotto al peso di quelle sensazioni.
Strinsi i pugni, inarcandomi ancora di più e graffiando il
petto
del bel pirata torturatore, che intanto procedeva con la sua dolce
discesa lungo il mio collo. Il mondo intero era sparito, in quel
momento, eravamo solo io e lui, le mie dita e le sue labbra, i nostri
corpi bollenti che strusciavano l’uno contro
l’altro, come
gatti intenti a fare le fusa.
Le labbra del pirata iniziarono a salire lungo la gola, accompagnate
dalla fresca lingua, che lasciava sentieri di fuoco sulla mia pelle, e
le mie gambe si strinsero ancora di più attorno al suo
bacino.
Le mani di Ace scorrevano sulla mia pelle, dal ginocchio fino al
fianco, ormai scoperto visto che la maglietta era salita fino ad
arrivare quasi sotto al seno, per poi solleticarmi l’addome e
la
schiena.
Brividi e scosse di piacere si generavano ad ogni contatto, mandando in
tilt il mio cervello e destabilizzando definitivamente il mio povero
cuore; quando la mano del pirata iniziò a salire lenta lungo
la
coscia, carezzando leggera ma decisa il mio fondoschiena, mi morsi
lievemente le labbra, per non fare rumore, e presi tra le mani il viso
del moro, baciandolo con foga, appoggiandomi totalmente al suo busto e
lasciando che a sostenermi non fosse più la nodosa corteccia
dell’albero, ma solamente i palmi delle sue mani, ormai
strette
sui miei glutei. Pulsavo, senza sosta ne controllo, sentivo il
desiderio aumentare sempre di più, assieme al bisogno fisico
di
sentire le mani del moro percorrere ogni centimetro del mio corpo e
alla frequenza dei miei respiri, ormai simili a soffi strozzati,
sospirati a fior di labbra tra un bacio e l’altro.
Se qualcuno conosce un modo migliore per riappacificarsi dopo un
litigio, o una pseudo discussione, oppure una qualsiasi divergenza, me
lo dica, perché personalmente non riesco ad immaginarmi
nulla di
più adatto in questo momento. Nonostante la scelta di
quell’albero rimanesse un mistero per me, l’idea mi
piaceva
parecchio, soprattutto per i risvolti interessanti che stava avendo
quella riappacificazione con Ace. Il pirata aveva lasciato sul prato i
suoi dubbi e le sue insicurezze, facendo spazio al suo istinto e
abbandonandosi alle sensazioni del momento, fregandosene, almeno per un
po’, dell’intero universo. Così, in
questo frangente
carnale, Ace era diverso, più sicuro forse, meno soggetto ai
pensieri e alle paranoie che lo frenavano solitamente; ed io lo amavo
ancora di più.
Mi riappoggiò alla corteccia, in modo da poter far vagare
liberamente le sue mani sul mio corpo, sostenendomi premendo i suoi
fianchi addosso ai miei, inchiodandomi al legno con una posizione
maledettamente erotica. Ma nulla avrebbe mai eguagliato il suo viso in
quell’istante, incorniciato dalle disordinate ciocche nere e
decorato con due gemme liquide, di un nero disarmante e
dall’intensità sconvolgente. Il leggero rossore
che
colorava le sue guance era la ciliegina sulla torta, che rendeva quel
volto già magnifico, ancora più bello, se
possibile. Le
mie labbra esploravano voraci quei lineamenti perfetti, godendosi ogni
singola lentiggine, ogni millimetro di pelle che riuscivano a lambire,
come facevano le mie dita sulla sua schiena, ormai quasi totalmente
scoperta, dato che avevo strattonato quell’inutile camicia
via
dalle sue spalle. Forse l’avevo anche rotta, ma non me ne
fregava
niente, avevo a mia disposizione il collo e le clavicole di Ace, che si
fotta la camicia. Dita e labbra compivano una danza vorticosa su quella
pelle dorata, disegnando cerchi e disegni immaginari e rubandone il
sapore.
Mordicchiai maliziosamente la pelle dietro l’orecchio,
guadagnandomi un basso ringhio vibrante, che mi procurò
un’ondata di piacere allarmante; non potevo restare
così
sconvolta solamente da un suono gutturale tanto sensuale, o forse
sì?
Continuai la mia esplorazione, godendo di ogni sensazione che riuscivo
a captare, dall’odore fresco del bosco, mescolato al dolce
calore
di Ace, alla pelle liscia e tenera del collo, bollente e dannatamente
allettante. Una pressione più decisa del bacino del moro mi
fece
gemere, ed a quanto pare non erano solo i versi di Ace a procurare
strani piaceri, visto che le mani del pirata iniziarono tremanti a
salire lungo i miei fianchi, trascinando con loro l’orlo
della
maglietta, già in parte arrampicata e che ormai era solo
d’intralcio. Sollevai le braccia, dando silenziosamente al
moro
il premesso di toglierla: e lui lo fece.
Sfilò gentilmente il tessuto rosso dal mio busto, senza
lanciarlo o chissà che, posandolo semplicemente a terra,
facendolo raggiungere all’istante anche dalla sua camicia,
che
lasciò cadere in un fruscio di pelle e tessuto.
Il pirata sollevò gli occhi sul mio viso, incatenandomi con
il
suo sguardo di pece bollente, sciogliendomi l’anima ed il
corpo;
mi sembrò di diventare gelatina, priva di ossa e tessuti
rigidi,
solo un ammasso di molle e semiliquida gelatina innamorata. Regolai il
respiro, tentando di evitare un collasso respiratorio, e mi persi in
quelle iridi di lucido raso nero, agitate da turbinii di fuochi oscuri.
Le sue mani intanto erano tornate sui miei fianchi, e se ne stavano
lì ferme, forse ipnotizzate anch’esse da quegli
occhi
devastanti e tenebrosi, mentre le labbra del pirata iniziavano a
muoversi, forse per parlare, ma senza emettere suono alcuno. Le onici
luccicanti si spostarono dal mio viso, scorrendo rapide sul mio copro,
facendomi arrossire. Ero in reggiseno, davanti ad Ace e con la schiena
spalmata sulla corteccia di un albero, mi era concesso arrossire?
Assolutamente sì.
Abbassai lo sguardo, improvvisamente consapevole di quello che stava
succedendo, fissando intensamente la mia maglietta abbandonata sul
letto di foglie secche del sottobosco, sentendo le guance diventare
sempre più calde e rosse. Una mano mi prese il mento
delicatamente, facendomi girare verso il viso angelico ma
diabolicamente tentatore del pirata che mi guardava, sorridendo
leggermente ed avvicinando piano i nostri volti. Le iridi nere non
abbandonarono mai le mie, finché la tenera carne delle
nostre
labbra non si fu incontrata: solo allora le palpebre si abbassarono,
sipari di pelle che davano un velo di magia in più. In
quegli
occhi avevo letto il desiderio, la vorace passione e la fame di
contatto, le mie stesse sensazioni, i miei stessi desideri, tutti
espressi in quello sguardo tentatore, che ero pronta ad assecondare in
tutte le sue forme.
Dal mento le dita di Ace presero a scendere lungo il collo, passando in
mezzo ai seni e poi risalendo, girando dietro alla nuca e facendomi
tremare di piacere: volevo le sue mani su di me, immediatamente e senza
preamboli. Incoerente con la timidezza di prima? Sì.
Giustificabile dalla situazione? Ancora una volta, sì.
Le nostre bocche erano ormai fuse insieme, incendiate da una passione e
da un desiderio incontrollabili, vittime inermi dei nostri istinti.
Sospiri e gemiti sommessi carezzavano il silenzio dell’aria,
accompagnati solo dal frusciare leggero delle nostre mani e delle
foglie mosse dal vento, aumentando sempre di più la foga e
l’eccitazione.
Le dita leggere del moro vagavano sulla mia pancia, ancora incerte su
dove andare, su cosa potessero fare: non sapevano che in quel momento
avrei permesso loro qualsiasi cosa, o quasi.
Forse i miei pensieri arrivarono al moro, forse il mio corpo disse
qualcosa che io non percepii o forse, semplicemente,
l’istinto
prevalse sulla ragione, visto che le sue mani iniziarono a salire,
arrivando alla fascia laterale del reggiseno, giocando con i disegni
del pizzo e strusciando leggermente i pollici sul lato della coppa,
strappandomi un ansito che diede sicurezza al pirata, che con lentezza
esasperante mosse i suoi palmi sul mio petto, fino a racchiudere nelle
sue mani i miei seni.
Mi sentii avvampare, scariche incontrollabili di elettricità
e
fuoco si riversarono nel mio petto, facendo scoppiare cuore, stomaco e
polmoni e mozzandomi il fiato. Sentivo il calore della sua pelle
filtrare attraverso il tessuto, scaldandomi ancora di più di
un
torpore utopico ed eccitante, e quando quelle dita infuocate iniziarono
a muoversi leggere non riuscii più a trattenere i brividi
caldi
che mi scuotevano il corpo. Tremavo mentre le dita del moro esploravano
il mio seno, e la sua bocca scendeva nuovamente lungo il collo,
baciando e leccando la mia pelle, fino ad arrivare alla carne morbida,
che mordicchiò, facendomi perdere completamente la ragione.
Gettai la testa all’indietro, stringendo tra le mani i
capelli del bel ragazzo di fuoco.
Chiamatela come volete, sfortuna, iella, fatalità,
disgrazia,
sventura, sciagura, destino avverso, spiacevole coincidenza,
casualità: io la chiamo sfiga.
Completamente immersa nell’eccitazione del momento, non mi
ero
ricordata minimamente di essere appoggiata contro un tronco, un duro,
alto, ruvido e maledettamente doloroso tronco, che avevo appena colpito
col mio cranio.
Ero un’idiota di prima categoria, non c’erano dubbi
a
riguardo. Strinsi gli occhi e mi morsi le labbra, tentando di far finta
di niente, ignorando il dolore intenso alla testa e sproloquiando
mentalmente in tutte le lingue che conoscevo, dal dialetto al
giapponese stentato. Maledetto tronco di merda, lui e la sua corteccia
del cavolo!
I miei tentativi di glissaggio però non andarono a buon
fine,
visto che le mani del moro, che sghignazzava nel modo più
silenzioso possibile, andarono svelte l’una sulla schiena e
l’altra sulla mia testa, stringendo il mio corpo al petto del
pirata come se fossi una bambina. Sentivo il respiro divertito di Ace
vicino al mio orecchio, mentre il suo torace vibrava di risa
trattenute. Stupido zolfanello. Stupido albero.
La sua ilarità demolì tutte le frontiere del buon
costume, liberando con volgarità allarmante tutte le
invettive e
le parolacce che avevo trattenuto; pirati e scaricatori di porto erano
nulla in confronto ad una ragazza con l’orgoglio sbriciolato
e
l’autostima evaporata a causa di uno stracazzo di vegetale
gigante.
I miei sproloqui fecero scoppiare definitivamente la risata del moro,
che intanto si stava dirigendo di nuovo verso la coperta, ormai
raggiunta dall’ombra del bosco e riparata quindi dai raggi
solari. Mi fece scendere vicino ad essa, ed io mi sedetti a gambe
incrociate, alzando le ginocchia e nascondendo il viso tra le braccia.
Erano quei momenti nei quali avrei voluto avere una scavatrice a
disposizione, in modo da potermi sotterrare e non farmi più
vedere in giro.
Ace si sedette accanto a me, cingendomi le spalle e stringendomi a se,
ottenendo solo di inclinare una ragazza di marmo, immobile e rigida
come un sasso. Lo sentii scuotere la testa e spostarsi alle mie spalle,
sedendosi dietro di me in modo che io fossi rannicchiata tra le sue
gambe ed avvolgendomi con le sue braccia calde, poggiando il mento
sulla mia spalla e strusciando il naso contro il mio orecchio.
«Selene, tutto bene?» Mi sussurrò
gentile, facendomi
arrossire ancora di più ed aumentando di quattro metri la
profondità della fossa che avrei tanto desiderato potermi
scavare. Borbottai qualcosa di incomprensibile, vagamente somigliante
ad un “lasciami stare”, ma interpretabile anche
come
“vado a prendere il pane” oppure “ho
mangiato il
cane”; insomma, non avevo articolato nulla di comprensibile.
Ace ridacchiò, stringendo ancora un po’ il suo
abbraccio.
«Ok, ho capito tutto, davvero… Puoi degnarti
almeno di
sollevare la faccia, vorrei guardarti mentre tento di
parlarti…» Canzonò sarcastico il
pirata, lasciando
un leggero bacio sulla mia spalla nuda. Già,
perché ero
ancora in reggiseno, tanto per aggravare il mio imbarazzo da idiota
incapace che prende a testate gli alberi in momenti inopportuni.
«No.» Risposi cupa, affondando ancora di
più il capo
tra le mie braccia. Ace sbuffò, infilando le mani tra il mio
collo e il groviglio di mani, sciogliendo con facilità la
mia
stretta ed incollando le mie braccia ai fianchi. Voltai la testa
dall’altra parte, tentando l’ultima
possibilità per
nascondergli il mio viso e fallendo miseramente, data la sua
velocità nell’afferrarmi il mento e voltarmi.
Quando
incontrai i suoi occhi volevo morire dall’imbarazzo, erano
troppo
intensi in quel momento.
«Hey, non è mica successo niente! Sono quasi
sicuro che
l’albero stia bene, non hai ucciso
nessuno…» Sorrise
il pirata, facendomi imporporare le guance di un rosso ancora
più intenso e facendomi abbassare lo sguardo sulla trama del
tessuto sul quale sedevamo. Ero reduce da una figuraccia epica, e lui
mi prendeva in giro asserendo che l’albero che avevo colpito
stava bene? Stupido pirata.
«Può anche cadere
quell’albero.» Affermai
tetra, imbronciandomi ancora di più. Ero maledettamente
infantile in quel momento, ma non riuscivo a comportarmi diversamente,
l’imbarazzo e la vergogna erano troppi.
«Devo incenerirlo? Se vuoi lo faccio, però temo di
attirare troppa attenzione dandogli fuoco…»
Ace mi fece sorridere con quell’affermazione e vedere il mio
sorriso gli fece rincarare la dose, «Ok, niente fuoco, posso
allora distrarti dalle tue paranoie?» Continuò
baciandomi
il collo, facendomi socchiudere gli occhi e sospirare; i fumi del
torpore di prima non erano ancora evaporati del tutto, e lui lo sapeva.
«È colpa tua sai? Perché su un
albero?»
Ridacchiai, mentre le dita del moro mi solleticavano le braccia e le
sue labbra torturavano la mia schiena.
«Ah certo, è colpa mia adesso! Volevo solo
sgranchirmi le
gambe, ero stufo di stare sdraiato.» Disse il pirata,
spingendomi
sulla coperta e scivolandomi addosso, bloccandomi a terra scossa dalle
risate. Al diavolo gli alberi e la natura, avevo fatto la mia
figuraccia giornaliera, ora potevo anche farmene una ragione e godermi
il resto del pomeriggio.
«Certo che è colpa tua…»
Dissi, fissandolo
negli occhi e tornando seria continuai, «Sei troppo per
essere
vero, ho il terrore che tu possa scomparire da un momento
all’altro, come se non fosse successo niente, come
se…» Un dito del pirata sulle mie labbra mi
impedì
di continuare, e le sue iridi fiammeggianti furono
un’ulteriore
motivazione per tacere.
«Non devi nemmeno pensarla una cosa del genere, da non
credere… Ti ho già detto quanto mi fai stare
bene, quanto
tu mi sia entrata dentro, non viverti sarebbe il mio rimpianto
più grande!» Mi disse serio, guardandomi negli
occhi e
corrugando leggermente la fronte in un cipiglio teso. Era difficile per
lui parlare, trovare le parole da dire, me l’aveva
già
detto di non essere bravo a parlare, ma a mio parere mentiva: diceva
sempre frasi perfette.
«Selene, per me questi non sono solo baci e sensazioni
fisiche,
tengo davvero a te, voglio stare con te tutto il tempo possibile,
voglio viverti, respirarti…» Continuò,
mentre la
mia mente volava via lontana, trasportata da quelle parole.
Sorrisi, tendendo le labbra nell’arco più dolce
che
riuscissi ad immaginare, e lo abbracciai, tuffando il viso nelle crini
nere e profumate di fuoco. Amavo Ace Pugno di Fuoco, lo stavo
abbracciando ed a modo suo mi aveva appena detto di provare qualcosa
per me. Potevo volere qualcos’altro dalla vita? Non in quel
momento.
Stretta tra le braccia del pirata ripensai alle parole che aveva detto
mio padre una volta, durante una delle tante discussioni
sull’amore, nel quale non credevo, del quale diffidavo,
perché avevo avuto le mie storie passate, ma mai avevo
provato
il vero amore, quello devastante e sconvolgente che veniva cantato e
scritto da tutti. Lui mi diceva che pensava le stesse cose, prima di
incontrare mia madre, prima di trovare la persona giusta, e ripeteva
sempre che non appena avessi trovato il ragazzo giusto, me ne sarei
accorta ed avrei ripensato alle sue parole, confermandole e tornando da
lui dicendogli “avevi ragione Dio”, sì,
perché talvolta si vantava di essere onnipotente, il mio
papà. Ed io gli avevo sempre creduto, fino alla fine, lui
poteva
tutto, ma la malattia era stata troppo anche per lui. Dopotutto aveva
avuto ragione, l’avevo trovato l’amore e me
n’ero
accorta, già da quando era solo un disegno sulla carta,
avevo
già capito che era lui il ragazzo giusto per me. Altra frase
storica di mio padre, che avevamo fatto incidere sull’urna
delle
ceneri, era: “Io non mi sbaglio mai, al massimo mi
confondo”.
Sorrisi ancora al ricordo, papà aveva avuto ragione anche
lì, si era confuso pensando che avrei trovato un ragazzo
qualunque, ma non aveva sbagliato sul fatto che l’avrei
trovato,
prima o poi.
Ed ora, tra le braccia di quel ragazzo, potevo sognare e vivere la mia
storia, la nostra storia, al massimo e nel migliore dei modi, godendo
di ogni attimo ed imprimendo nella mia mente tutti i momenti passati
insieme, indelebili, incancellabili e che avrei conservato per sempre.
I nostri ricordi, di questa nostra storia magica e strana, di questa
nostra storia impossibile, o quasi.
Strinsi ancora l’abbraccio, nascondendo una lacrima nei suoi
capelli e facendola morire sul mio sorriso, pensando al mio
papà
e a quanto avrebbe adorato Ace, prendendolo in giro e facendolo
arrossire ed imbarazzare, ma volendogli bene come se fosse stato figlio
suo. Era un momento bellissimo quello, di sogni ed emozioni, di ricordi
e sensazioni, di felicità e basta. Semplice
felicità,
senza angosce, senza preoccupazioni, senza niente a disturbarla,
felicità allo stato puro, che mi riempiva il petto e mi
faceva
sospirare, che mi stuzzicava gli occhi con lacrime gioiose, impazienti
di solcare il mio viso, andando poi a decorare con sali lucenti le mie
labbra sorridenti. Non pensavo di poterla provare ancora tanto
intensamente, eppure stava accadendo, lì, tra le braccia di
Ace,
ero finalmente felice.
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Sì, sono in ritardo e sì, merito botte da orbi
per la
storia della testata, ma se mi uccidere non potrete sapere come procede
la storia =D
Hem, vi voglio bene xD
Coomunque, scusatemi davvero per il ritardo, è stato assurdo
però ero impegnata con esami ed altro, quindi zero tempo.
Una dedichina stavolta a tre pazze, che finalmente sono riuscita a
conoscere xD Una che mi reputa un genio per la craniata, una che mi
odia e l'altra che non ha voce in capitolo perchè ha fatto
di
peggio nel suo scorso capitolo xD
Bacioni ragazze ^_^
Ora, io penso molto in doccia e su un piccolo spiazzo di prato non
distante da casa mia, magnifico per stare in pace!!!
Come vanno le
vacanze?? xD altro punto, pensate che dovrei mettete il quadratino rosso?? Vi creerebbe problemi? Fatemi sapere anche per mp su questo argomento, grazie ^_^
Grazie a tutti, insultatemi
pure, stavolta ne avete tutti i diritti xD
bacioni, alla prossima!!!
ciaooooooooo
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e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di
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Capitolo 24 *** 23. Presentazioni ***
c1
Come direbbe il grande poeta della musica italiana: "furono baci e
furono sorrisi" su quel prato, tenere carezze e coccole dolci, fatte di
labbra calde e mani gentili, velate di desiderio ma intrise di morbida
delizia. Come miele caldo che cola da un cucchiaino, così il
nostro pomeriggio passava lento e dolce. La mia pelle era segnata da
scie invisibili di baci e dita leggere, che non potevo vedere, ma
sentivo, percepivo e ricordavo tutte; le avevo tatuate nella mente e le
avrei tenute strette a me, per sempre. Le note della canzone di De
Andrè mi vorticavano nella mente, facendomi sorridere e
pensare a quanto eravamo simili, dopo tutto, io e Marinella: io, come
lei, ero “sola senza il ricordo di un dolore” e
vivevo “senza il sogno di un amore, ma un re senza corona e
senza scorta” un giorno era entrato nella mia vita. Quel re,
inutile dirlo, era Ace, ed era stato capace di lenire, in parte, il mio
dolore ed aiutarmi a combatterlo, già da semplice
personaggio, ed ora continuava a farlo come persona reale. In quello
splendido pomeriggio assolato, il pirata mi aveva baciato le labbra ed
i capelli, posandomi le sue mani sui fianchi. “Furono baci
furono sorrisi, poi furono soltanto i fiordalisi, che videro con gli
occhi delle stelle, fremere al vento e ai baci la tua pelle”
diceva la canzone, mentre sorridevo sotto i dolci baci del moro, mentre
le mie mani esploravano la perfezione di quel viso spruzzato di
lentiggini ed il mio cuore galoppava sfrenato nel mio petto. Come un
muscolo tanto piccolo, potesse fare tanto sforzo senza fermarsi
definitivamente, restava un mistero per me. Purtroppo la mia mente non
si fermò a quelle strofe, continuando a ricordare le parole
dense di quella canzone, rabbuiandomi i pensieri ed appesantendomi il
cuore. Marinella moriva, ed il re non si dava pace, bussando cento anni
alla sua porta, nella disperata attesa del suo ritorno. Io sarei
diventata il re, quando Ace sarebbe ripartito; avrei sperato, pianto e
gridato, atteso e forse persino pregato per un suo ritorno, o comunque
per una modifica della trama, per qualsiasi cosa che potesse salvarlo,
invano. La storia tra me ed Ace sarebbe finita così, era
già tutto scritto, e “come tutte le più
belle cose”, sarebbe durata maledettamente poco,
“come le rose”.
Il sorriso si spense sul mio viso, quella constatazione tanto brutale
ed immediata era stata l’ennesima coltellata al petto,
l’ennesimo dolore incontenibile e devastante. Avrei dovuto
lasciare andare Ace incontro al suo destino e guardare da lontano la
sua disfatta, come se tra di noi non ci fosse mai stato nulla.
Il pirata si accorse del mio cambiamento e staccò le sue
labbra dalle mie, per guardarmi negli occhi; io sorrisi,
perché mai avrei rivelato i miei tormenti ad Ace. Mai.
«Tutto bene?» Mi chiese titubante, ed io annuii
convinta, cingendogli le spalle con le mani e scacciando dalla mente i
cupi pensieri che l’avevano inondata. Ero sola con Ace, non
potevo rovinare quel momento, dopo la demolizione di un albero non
avevo la minima intenzione di sgretolare un altro momento di
intimità con qualche uscita catartica.
«Tutto benissimo!» Confermai convinta, strusciando
il naso contro quello del moro, e lasciandomi abbracciare. Mi sentivo
protetta tra quei muscoli, stretta in quella gabbia di carne liscia e
perfetta, stavo bene, in pace con me stessa e con il mondo. Ace era
veramente il mio sole, ed io orbitavo attorno a lui, ad occhi chiusi e
felice.
Un brontolio sommesso ed una vibrazione grottesca mi fecero riaprire
gli occhi, disegnandomi in viso un’espressione di
sconcertante perplessità. Cosa era stato?
Ace si rizzò a sedere, scendendomi di dosso e grattandosi
nervosamente la nuca, visibilmente imbarazzato, segno che il suono
proveniva da lui.
«Scusami, è che ho un po’ di
fame…» Rispose goffamente il pirata alla mia
silenziosa domanda, ed io ridacchiai. Era già stato bravo a
non lamentarsi del cibo per tutto il pomeriggio, il suo appetito
leggendario mi era completamente sfuggito di mente; la botta in testa
mi aveva rincoglionita a quanto pareva.
«Ok, si è anche fatto tardi…»
Sorrisi osservando il cielo, che iniziava ad imbrunire colorandosi di
rosa e arancione, ed il panorama, ormai dorato, «Ti va di
restare a cena da me?» Chiesi, girando la testa verso di lui
ed appoggiandola alla mia mano, tentando di ignorare il fatto che ero
ancora in reggiseno. Ok, ero spigliata e per niente timida, ma
nell’intimità e tanto più con Ace,
l’imbarazzo era sempre in agguato, pronto a saltarmi alla
gola.
Il pirata sorrise, lasciandomi un bacio sulla fronte e sfiorandomi il
braccio, annuendo.
«Va bene, ci conviene partire allora, se non vuoi che mi
metta ad assaggiare te…» Sussurrò roco
al mio orecchio, facendomi rabbrividire e peggiorando la situazione
baciandomi e mordicchiandomi il collo. L’idea di essere
assaggiata da Ace, personalmente, non mi dispiaceva per niente!
Il moro si scostò dalla mia gola, sorridendo, consapevole
dell’effetto che aveva su di me, ma troppo sicuro e spavaldo
per i miei gusti. Ero una donna, piccola ma lo ero, e sapevo come
vendicarmi di tanta boriosità. Mi allungai verso di lui,
muovendomi lesta e felina, gattonando lentamente e fissandolo negli
occhi. Lui deglutì.
Avanzai, portando le mie braccia tese vicino ai suoi fianchi, per poi
chinare la testa verso quell’addome scolpito, e poggiare
leggera la mia lingua vicino all’ombelico, scendendo fino
alla cintura e risalendo, lentamente, piano piano, verso la gola,
strusciandomi e mettendomi a cavalcioni. Sempre più lenta e
sentendo lui sempre più eccitato. Leccai e baciai dalla
clavicola al pomo d’Adamo, salendo sempre di più
verso la mascella tesa e perfetta, arrivando a pochi millimetri dalle
labbra, sfiorandole leggermente mentre parlavo.
«Vado a recuperare la maglietta, tu prepara la
moto.» Sussurrai, alzandomi in fretta e correndo verso il
bosco ridendo. L’avrei pagata cara, lo sapevo bene, ma
l’espressione del pirata era stata talmente epica da farmi
accettare qualsiasi punizione.
Mi inoltrai nel sottobosco, sfruttando gli ultimi rimasugli di luce per
individuare i tessuti abbandonati a terra e raccoglierli, ignorando
volutamente lo stupido tronco guastafeste. Ancora non mi capacitavo di
aver fatto una figura tanto pietosa con Ace, mi avrebbe segnata a vita
quell’esperienza, perché diciamocelo, prendere a
craniate gli alberi in certe situazioni, è da idioti. Tornai
indietro sbattendo la mia maglietta e la camicia di Ace, tentando di
liberarle da foglie e ramoscelli, con scarsi risultati direi. Una volta
arrivata sul prato ridacchiai di nuovo, vedendo Ace nella stessa
posizione in cui l'avevo lasciato, ed avvicinandomi gli posai la
camicia sulle spalle, per poi infilarmi la maglietta e continuare
l'operazione di pulizia dai residui di fogliame. Quando mi reputai
soddisfatta andai nuovamente da Ace, abbracciandolo da dietro e
baciandogli una guancia; era adorabile imbronciato.
«Ti sei offeso?» Chiesi divertita, ottenendo un
grugnito di risposta, che non fece altro che aumentare il mio
divertimento. In quel momento avevo il cuore leggero, sentivo il petto
pieno di dolce tepore, ed ero felice. Ridevo di gusto, non per finta,
non per accontentare amici preoccupati o parenti impietositi, ridevo
per me stessa. A quanto pareva però, le mie risate non
divertivano il pirata, che mi afferrò per le braccia e mi
ribaltò sulla coperta, guardandomi con uno sguardo che
doveva sembrare minaccioso, ma risultava soltanto maledettamente sexy.
«Lo trovi tanto divertente?» Digrignò il
moro, mentre io tentavo disperatamente di non scoppiare a ridere,
stringendo le labbra ed evitando di pensare alla sua espressione quando
l'avevo lasciato a bocca asciutta poco prima. Le guance leggermente
gonfie, le labbra tese ad una linea sottile ed un languore
inconfondibile negli occhi; era bellissimo, in tutte le salse, non
c’era verso che mi apparisse meno intrigante o meno
affascinante. Il moro si abbassò verso il mio collo,
mordicchiandolo in una dolce tortura, mentre le sue mani scorrevano
veloci sulle mie gambe piegate, che allacciai poi dietro la schiena di
Ace, stringendomi a lui il più possibile. Ma il ragazzo di
fuoco aveva una vendetta da consumare, così mi
staccò da sé, bloccandomi le braccia sopra la
testa e sovrastandomi, in modo da immobilizzare anche le gambe, per poi
riprendere a stuzzicarmi il collo. Mi sarei lasciata torturare
così per delle ore, ma rischiai di impazzire quando la
lingua del bel moro iniziò a scendere verso il petto. Con la
mano libera il pirata iniziò a tirare l'orlo della maglia,
aumentando la scollatura e scoprendo pian piano il reggiseno. Il mio
cuore batteva all'impazzata mentre la bocca di Ace giocherellava con il
bordo del mio intimo e la sua mano dispettosa iniziava a risalire,
sfiorando leggera ma sconvolgente il mio seno. Le sue dita passavano
sul mio petto tenero, leggere e delicate, come ali di farfalla, ma
roventi ed eccitanti come solo Ace sapeva essere.
Baci e morsi, lingue e dita, ringhi e gemiti sommessi, schiacciata dal
petto del pirata rischiavo di impazzire, desiderosa solo di avere di
più, di poter eliminare quegli strati di tessuto inutili e
fastidiosi che ci separavano, di prendere fuoco totalmente in balia
delle sue mani. Sospiri e brividi si alternavano nella brezza serale,
accompagnati da sorrisi e risatine sommesse. Magico, è
l’unico aggettivo in grado di avvicinarsi vagamente alla
descrizione di quel momento.
«Dovremmo tornare ora, tua madre sarà
preoccupata…» Sussurrò il pirata,
lasciandomi un dolce bacio sulla tempia mentre mi accarezzava gentile
le braccia. Io annuii, baciandolo sulle labbra ed iniziando ad alzarmi.
Le stelle ormai decoravano il cielo blu scuro, piccole gocce di luce
brillante, chiare e nitide grazie al poco inquinamento di
quell’angolo di paradiso. Guardai rapita il firmamento,
sorridendo e lasciandomi abbracciare, per poi decidermi a ripiegare la
coperta ed avviarmi verso la moto. Quella sera mi sarei pizzicata cento
volte, prima di convincermi che non stavo sognando, per accettare che
le mie fantasie fossero diventate reali, per capacitarmi di aver
vissuto veramente questi attimi meravigliosi.
Il viaggio fu a dir poco traumatico: la discesa a tutta
velocità su quel maledetto aggeggio a motore mi aveva
terrorizzata e sul petto di Ace erano sicuramente ben visibili le
mezzelune delle mie unghie. Ma quello scalmanato amava la
velocità, l’emozione del rischio e del pericolo,
ed io sentendolo ridere nel vento, non potevo che sorridere a mia
volta, ancorandomi al suo corpo, stretta e serena, come non ero da
troppo tempo.
Feci parcheggiare la moto sul mio vialetto, accanto alla mia adorata
automobile; amavo le motociclette, ma la comodità e la
sicurezza che mi dava l’auto erano impareggiabili. E poi
quella era la mia auto, avevo imparato a guidarla, a conoscerla e
l’adoravo. Le avevo perfino dato un nome: Portgas D. Anita.
Avevo racchiuso in quel nome la libertà ed il mio amore per
ONE PIECE, miscelandoli alla forza di Anita Blake, eroina della mia
saga preferita. Avevo chiamato il cane Blake proprio in suo onore, ed
il gatto si chiamava Pepe solo per ostinazione genitoriale; fosse stato
per me l’avrei chiamato Law, oppure Kidd… Magari
Rufy o Shanks, insomma, un nome del genere, non una spezia.
Scossi la testa, dandomi dell’idiota per le strane
elucubrazioni che il mio cervello partoriva, per poi tornare a guardare
Ace, che sistemava nel borsone i caschi ed il resto
dell’attrezzatura inutilizzata. La camicia aperta lasciava
intravedere la perfezione scultorea del suo ventre, ma stavamo andando
incontro alle ire di una madre, muscoletti e sexappeal non erano
abbastanza per salvarsi.
Prima di entrare gli allacciai la camicia, intimandogli di non
scrocchiarsi le ossa e di non chiamare mia madre
“signora”.
Aprii il cancello ed entrai in casa, evitando accuratamente di essere
investita dal cane, che saltò addosso ad Ace scodinzolando
ed annunciando il nostro arrivo con dei versetti di giubilo.
«Mamma, siamo a casa!» Urlai, annunciandole
così anche la presenza di Ace, evitando che si mettesse
immediatamente a ribaltarmi la pelle per essere andata in giro in moto
senza avvisarla. Probabilmente si era somministrata svariate gocce
calmanti, per non rischiare l’infarto. Detestava le moto, chi
le guidava e chi ci saliva: in sostanza, eravamo nei guai entrambi.
«Alla buon ora! Deduco che il motociclista si fermi a
cena.» Disse mia madre, uscendo dalla camera da letto con uno
sguardo di ghiaccio. Ritratto la terminologia, non eravamo nei guai,
eravamo proprio nella merda.
«Hem, sì se sei d’accordo…
Mamma, ti presento Ace! Ace, questa è Anna, mia
madre…» Dissi sorridendo, tesa come una corda di
violino, mentre Ace educatamente porgeva la mano a quel drago
sottoforma di donna. Sperai solamente che non la chiamasse
“signora” e che non gli venisse la strana idea di
scrocchiarsi qualche osso; mia madre era particolarmente suscettibile
sulla sua età e, pur essendo giovane rispetto a molte madri,
rifiutava di essere chiamata signora, diceva sempre che il nome le era
stato dato per essere usato. In più odiava sentire le ossa
scrocchiare, cosa che ovviamente io adoravo fare. L’avevo
avvertito, ma talvolta le abitudini sono troppo forti.
«Piacere di conoscerla!» Disse il moro,
stringendole la mano e guadagnando circa cento punti, proprio per aver
evitato l’appellativo “signora”.
«Dammi pure del tu. Ti avviso però, se mi fai
cadere un altro vaso di ciclamini ti trito, chiaro?»
Sillabò lei, facendomi impallidire. Cosa aveva fatto Ace ai
suoi amati fiori? Quando? E soprattutto, come?
«Ne ha fatto cadere uno dalla finestra, stamattina immagino,
quando si è infilato di nascosto in camera tua, credendo di
non essere visto e soprattutto di non essere scoperto al mio ritorno.
Tu sei una pessima bugiarda e lui è rumoroso.»
Rispose mia madre secca e pacata indicandoci, facendomi decolorare
ancora di più, prima di farmi tornare al mio caratteristico
porpora. Me lo sentivo che quella mattina era andato tutto troppo
liscio, stupido pirata!
La donna sorrise, salendo le scale e dirigendosi in cucina, lasciandoci
impalati all’ingresso, letteralmente pietrificati. Non solo
era arrabbiata, era pure in fase gladiatore: “avrò
la mia vendetta”. Si prospettava una serata
d’inferno.
Guardai Ace in cagnesco, gridandogli mentalmente tutti gli insulti che
conoscevo, ottenendo uno sguardo dispiaciuto ed imbarazzato. Lui e le
sue stupide entrate dalle finestre. Esistevano le porte, i campanelli,
e se proprio si ignorava l’esistenza di questi ultimi avrebbe
potuto degnarsi di bussare cristo!
«Salite a preparare la tavola.» Asserì
mia madre dal piano superiore ed entrambi obbedimmo senza fiatare,
sistemando insieme la tovaglia ed i piatti, in un silenzio spettrale.
Il rumore del vetro e della porcellana che si posavano sul legno
coperto dal tessuto grezzo della tovaglia riempiva
l’atmosfera, accompagnato solamente dal ticchettio delle
unghie del cane. La tensione impregnava l’aria, si poteva
quasi percepirla nei polmoni tanto era intensa.
«Allora, avete finito per oggi di rischiare la vita
sull’asfalto?» Chiese ironica mentre finiva di
ritoccare il sugo nella padella. Quando il sarcasmo iniziava a colorare
le sue espressioni, la tempesta era maledettamente vicina.
«Sì mamma, restiamo a casa stasera.»
Risposi, tentando di non far tremare la voce, che iniziava ad essere
carica di nervosismo. Ok l’essere arrabbiate, ma non doveva
per forza fare la stronza.
«Me lo auguro.» Ribatté lei con
sufficienza, senza nemmeno degnarsi di guardarmi. Ace mi prese la mano,
probabilmente percependo la mia rabbia crescere.
Digrignai i denti e strinsi forte le posate che tenevo
nell’altro palmo; il nervoso che mi assaliva in quei momenti
era difficile da contenere, pura ed ingiustificata collera. Avevo un
bel rapporto con mia madre, ma eravamo troppo diverse, troppo distanti,
troppo tutto. Avevamo alle spalle situazioni non chiarite, ricordi
indelebili di liti troppo furiose, divergenze abissali a livello di
opinioni e di paranoie; insomma, eravamo in perenne lotta. Un tempo il
compito di mediatore era di mio padre, ora lui non c’era
più.
Niente arbitro a fermare i nostri sfoghi. Niente razionalità
per calmare le ire. Niente padre con cui confidarsi e niente marito con
il quale confrontarsi.
La nostra situazione faceva schifo e noi non facciamo che peggiorarla
con i nostri litigi ed i nostri maledetti caratteri.
Respirai profondamente, lasciando andare le posate al loro posto e
tentando di calmarmi, appoggiando la fronte alla spalla del moro. Dopo
tutto non stava andando nemmeno così male, frecciatine e
acidità ma niente di esageratamente devastante, conoscendo
mia madre poteva peggiorare notevolmente la situazione.
Il palmo caldo del pirata sembrava iniettarmi calma e
serenità, con un solo tocco era capace di rilassarmi i
nervi. Anche in una situazione relativamente spiacevole, come
l’incontro con una iena umana, la sua sola presenza mi
rendeva più positiva e serena; che fosse questo il
vero potere del fuoco? Purificare, lenire, scaldare e sciogliere i
tormenti? Beh, amavo ancora di più quel fiammiferino in
questo caso.
«Quindi, tornando al discorso delle moto, come ti
è venuto in mente di andartene in giro su una di quelle
trappole a due ruote?» Tornò all’attacco
mia madre, sempre più sibillina e sempre meno gentile,
giusto per sfatare le illusioni che mi ero appena fatta. Feci per
rispondere, ma la voce del pirata precedette la mia.
«È colpa mia, sono stato io a portarcela, mi
dispiace di averla fatta preoccupare.» Disse con
tranquillità e dispiacere Ace, facendo voltare mia madre, la
quale posò gli occhi prima su di lui, poi sulla mano che
stringeva la mia ed infine sul mio viso. Un lampo di sorriso
incurvò le labbra della donna, ma sparì subito.
La vicinanza di Ace mi calmava, ma l’espressione di mia madre
ed i suoi modi di fare non facevano che farmi infuriare.
«Fatto sta che è successo. Spero che abbiate
indossato il casco almeno.» Rincarò mia madre,
facendo scoppiare il bozzolo di rabbia che il moro era appena riuscito
ad arginare.
«Sì, l’avevamo il casco. Io indossavo
anche un giubbotto ed Ace mi aveva portato tutte le protezioni
più assurde, dai parastinchi alle ginocchiere, tanto da
farmi sembrare uno dei Daft Punk. Sono stata io a non volermi bardare
in quel modo quindi prenditela con me, non con lui.» Risposi
di slancio, percependo appena la leggera pressione della mano di Ace,
che stringeva la mia tentando di calmarmi.
Mia madre ci guardava con espressione indecifrabile, un misto tra
dubbio e fastidio. Non si aspettava sicuramente che Ace si fosse
attrezzato al meglio prima di portarmi in motocicletta, le avevo appena
smontato un pilastro portante della sua indisposizione verso il pirata,
in più ci eravamo praticamente scambiati le colpe,
confondendo ancora di più la direzione della sua ira.
«Bene. Sedetevi che è quasi pronta.»
Disse con voce piatta, indicando la tavola e voltandosi per scolare la
pasta. Era tremendamente irritante quando faceva finta di niente invece
di ammettere i suoi errori, ma non era il momento di ostinarsi nella
discussione, altrimenti avrebbe preso in antipatia Ace e per noi due
sarebbe stato l’inferno. Sospirai stressata, mentre il moro
mi lasciava un tenero bacio sulla tempia e mi cingeva leggermente i
fianchi in un gesto dolce e protettivo. Un altro sospiro, stavolta di
calma e serenità, mi uscì dalle labbra,
portandosi via buona parte della tensione. Decisamente, amavo da
impazzire il fuoco.
Prima di accomodarci strinsi forte la mano del moro, sibilandogli di
non abbuffarsi come un animale; era bello e tutto il resto, ma vederlo
mangiare era raccapricciante e non sarebbe stato un punto a suo favore
ingozzarsi animalescamente di fronte alla cara mammina indisposta.
Sorrisi al pensiero della prima volta che avevo visto Ace mangiare, ad
Alabasta: nemmeno avevo riconosciuto il bello e tenebroso personaggio
di Drum. Nascosi il risolino con la mano, sperando che nessun attacco
di narcolessia cogliesse il pirata durante la cena; vederlo stramazzare
con il volto nel piatto, non era sicuramente un bel vedere, mia madre
si sarebbe spaventata a morte.
Ci sedemmo a tavola ed iniziammo a cenare, conversando con relativa
serenità e sottostando all’interrogatorio
dell’ispettor Madre.
Da dove vieni? Cosa fai nella vita? Hai studiato? Da quanto guidi?
Lavori?
Fortunatamente ebbe il buonsenso di non chiedergli nulla sui suoi
genitori o sulla sua morte; aveva assistito, senza comprenderla, alla
mia disperazione e sapeva benissimo che quel ragazzo era lo stesso per
il quale avevo pianto lacrime amare per mesi, ma non disse nulla. Avrei
dovuto parlarle della situazione, in modo da evitare uscite spiacevoli
ed equivoci ingiustificabili, ma l’avrei fatto in un secondo
momento.
La cena fu a tratti perfino divertente, con il cane che guardava con
occhi sognanti Ace, implorandolo di cedergli almeno un assaggio della
succulenta ambrosia che stava mangiando, osservando ogni suo movimento
e mettendolo in terribile soggezione.
«Il cane mi fissa in modo strano…» Mi
sussurra ad un orecchio, non perdendo di vista l’animale, il
pirata. Ridacchiai sporgendomi ad osservare la mia palla di pelo golosa
che, effettivamente, lo stava osservando con due occhi che avrebbero
impietosito una statua di marmo.
«Vuole solo assaggiare quello che hai nel piatto, ignoralo
che la sua pappa l’ha già mangiata!»
Risposi divertita tornando al mio piatto, mentre il pirata continuava a
guardare di sottecchi l’animale. Poco dopo, pensando di non
essere visto, gli allungò un pezzetto di pane intinto nel
sugo, facendo ridacchiare persino mia madre. Quella palla di lardo e
pelo era capace di impietosire chiunque pur di guadagnare un assaggio.
Non era mai sazio, se si trattava del nostro cibo per lui
c’era sempre un piccolo spazio nello stomaco; una volta per
dispetto gli avevo dato una cipollina sottaceto,
l’espressione schifata che aveva fatto era stata epica.
In casa mia persino mangiare un ghiacciolo in santa pace era
impossibile, perché gli piacevano pure quelli, a tutti i
gusti fuorché i verdi, quelli li odiava; e fidatevi,
mangiare con un cane che vi guarda implorante è qualcosa di
maledettamente fastidioso e deleterio. I sensi di colpa che possono
scatenare quegli occhi languidi sono devastanti, non cedere a quella
silenziosa richiesta è praticamente impossibile.
Ma il pirata non sapeva che nutrire il cane significava inimicarsi il
gatto, maledettamente geloso ed altrettanto goloso dei nostri cibi.
Il felino offeso si avvicinò lesto alla sedia del moro,
balzando fulmineo sul suo braccio e lasciandogli dei vistosi graffi
rossi. Ace sussultò, mollando la forchetta nel piatto e
trattenendo svariate imprecazioni, mentre io sgridavo ridacchiando il
gatto malefico e mia madre nascondeva il sorriso nel tovagliolo.
Il conflitto Pirata vs Felino era iniziato ancora quella mattina; per
ora il gatto aveva avuto la meglio e ne era più che
consapevole mentre osservava Ace dal divano, letteralmente schifato
dalla sua presenza nel suo territorio.
I gatti sono qualcosa di spettacolare con gli estranei, incarnano la
diffidenza e la superbia, sono in grado di farti rimpicciolire ego ed
autostima con un solo sguardo.
«Mi ha attaccato!» Si lamentò il moro,
guardandosi sconcertato il braccio ferito e cercando poi il predatore
di casa con lo sguardo.
Il micio non era intenzionato a smetterla di infastidirlo e decise di
ripartire alla carica, fiondandosi stavolta sul polpaccio, che
morsicò rapido per poi scappare di nuovo, miagolando.
«Ahio! Selene!» Esclamò Ace, guardandomi
malissimo mentre mi sganasciavo dalle risate. Vedere un pirata
famosissimo, con una cospicua taglia sulla testa, messo in
difficoltà da un gattino di meno di un anno, era uno
spettacolo unico.
Il leggero broncio lo rendeva ancora più bello, facendolo
sembrare un bambino arrabbiato, mentre osservava attento i movimenti
del felino, altrettanto bello, che lo stava letteralmente devastando di
graffi.
Intervenni un paio di volte per salvarlo dal gatto, testardo come un
mulo e determinato ad eliminare l’intruso, ma non ottenni
risultati, se non un miagolio che suonava tanto come un
“vaffanculo”; ed essere insultate da un gatto
è seriamente demotivante.
La cena terminò con un bilancio di sette attacchi andati a
buon fine, tre evitati dalla sottoscritta e l’ultimo
interrotto da una misteriosa strinatura sul posteriore del micio. Ace
nega ogni responsabilità ovviamente, ma la teoria
dell’autocombustione felina non mi convince per niente. Mi
pareva decisamente improbabile che “casualmente” il
pelo del gatto avesse fatto scintille, proprio mentre stava per
sferrare l’ennesimo attacco ad un ragazzo di fuoco, ma
lasciai perdere, visto che alla fine il povero pirata aveva tutte le
ragioni per dare una ripassatina al gatto.
Mia madre ha concesso ad Ace di ritornare in casa, raccomandandogli
però di fare molta attenzione in moto e di stare lontano dai
suoi vasi e dalle finestre.
Il cane ha guadagnato parecchio pane imbevuto di sugo, riuscendo ad
impietosire il pirata ed accumulando ulteriore ciccia sui fianchi,
già troppo larghi.
Il gatto sta ancora leccandosi il pelo, meditando sicuramente una
vendetta spietata verso l’invasore umano che ha osato
coccolare la sua padroncina ed entrare nel suo territorio per mangiare
il suo cibo. Dio, quanto adoravo interpretare i pensieri dei gatti, che
vedevo come machiavellici animali dall’intelligenza e
dall’astuzia ineguagliabili. Uniamo poi la presenza di un
comandante della seconda flotta dei pirati di Barbabianca,
letteralmente rannicchiato sulla sedia e con i sensi all’erta
in attesa di un altro attacco felino, allo sdegno dello sguardo del
micio in questione, ed otterremo una scena unica ed esilarante.
Quando il pirata si convinse che non sarebbe più stato
vittima degli attacchi del gatto e mia madre smise di ridacchiare sotto
i baffi davanti all’evidente antipatia che il moro aveva
verso Pepe, riordinammo la cucina ed infine accompagnai Ace
all’ingresso.
Pensavo che la giornata in cui avevo visto per la prima volta Ace fosse
la migliore della mia vita, poi invece ho pensato che lo fosse quella
in cui era ricomparso, ora mi ritrovavo a modificare nuovamente il
podio, mettendo al primo posto la magnifica domenica appena trascorsa.
Scostante? Volubile? Definitemi come vi pare, ma ogni nuovo istante che
trascorrevo in compagnia di Ace era una magia unica e perfetta, una
nuova felicità, un nuovo ricordo felice, una nuova emozione
dirompente, una nuova esplosione di calore nel petto.
Avevo visto i miei sogni diventare reali, sentendoli annunciati da un
telegiornale. Avevo avuto l’opportunità di vedere
i miei personaggi preferiti dal vivo, di conoscerli e incontrarli.
Avevo potuto passare attimi magici con Ace, il ragazzo che fin da
illustrazione mi aveva rubato il cuore, ed ora potevo vivere la mia
storia d’amore con lui, una storia reale e non immaginaria,
una vera relazione nella vita reale; non una fantasticheria, non un
viaggio mentale notturno, non un frutto della mia fervida
immaginazione, reale.
Mentre saluto Ace sulla soglia sorrido e ripenso a tutte le fantasie e
sogni che non ho mai abbandonato, a tutte le speranze che ho sempre
coltivato dentro di me, e mi rendo conto che si sono realizzati. Ho
trovato l’amore, ho conosciuto Ace ed ho la
possibilità di viverlo. Ora i miei sogni si erano
realizzati, e potevo finalmente viverli felice, e non avrei permesso a
niente e nessuno di portarmi via il sorriso.
Baciai le labbra del pirata con una curva serena disegnata sulle mie,
salutandolo con la certezza che l’avrei rivisto nei giorni a
venire, con la sicurezza di poter vivere altre magie con lui, qui, nel
mio mondo grigio e monotono, nel quale lui era l’unica
fiammata di colore.
Ora iniziava sul serio la nostra avventura, di baci, sospiri, risate e
sogni realizzati.
-----------------------------------------------------------------------------------------
Buongiorno! Eccomi qui ^_^
Allora, che dire? capitolo decisamente di passaggio, QUESTA
è la canzone che Selene pensa all'inizio, io l'adoro ^_^
Passiamo alle comunicazioni urgenti, aggiornerò ogni due
settimane circa durante questo periodo di vacanze, il tempo scarseggia
e vedo che molti di voi sono in vacanza, quindi aggiornerò
meno
frequentemente, per dare tempo a tutti di rimettersi in pari e per
potermi ritagliare più tempo per la stesura dei capitoli,
scrivere di fretta sicuramente è controproducente ^^
Per il rating, sinceramente, opto per il mantenimento dell'arancione,
ma ribadisco che se qualcuno nota una scena che secodno lui
è
catalogabile come "rossa", può dirmelo tranquillamente, e
prenderò provvedimenti (che frase seria, mi sento un
professore
xD).
Detto ciò:
Qual'è la
vostra canzone preferita?
Grazie
di cuore a tutti i lettori, ed un grazie particolare a tutti quelli che
laciano un commento ed una recensione, non avete idea di che stimolo
sia per me vedere tanto entusiasmo in voi ^_^
Un grazie anche alle pazze che sopportano i miei scleri notturni, vi
adoro ^_^
Baci Baci
Immagini
e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di
lucro
|
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Capitolo 25 *** 24. Pioggia e Fuoco ***
c1
«Così questa è la tua nuova
casa?» Domandai curiosa, osservando lo strano edificio ultra
moderno, mentre Ace litigava con le chiavi.
L’agglomerato di pietra e cemento era imponente e
stravagante, uno stile eccentrico e moderno, nuovo e fresco, ma
dall’aspetto troppo elegante e sofisticato per risultare in
linea con l’indole del pirata.
Erano passati parecchi giorni ormai dal ritorno di Ace, le cose tra noi
andavano a gonfie vele, fra coccole e figuracce, ed il moro aveva
trovato una casa non troppo distante da dove abitavo io: a
metà strada tra il lago di Garda, dove si erano trasferiti
Barbabianca e Marco, ed il mio paesello sperduto. Era appena stata
arredata ed era anche la prima volta che io vi entravo.
«Sì, è carina ma io non
c’entro niente, ha fatto tutto Marco, come sempre!»
Borbottò il moro, riuscendo finalmente ad aprire la
serratura e varcando la soglia con uno sbuffo.
Io lo seguii curiosa, trovandomi davanti un salone quasi totalmente
bianco, a tratti abbagliante; decisamente opera della fenice, Ace non
aveva un gusto così… Raffinato, diciamo. Gli
unici tocchi di colore erano il divano di pelle nera e vari accessori
del medesimo colore, alternati da qualche pennellata di rosso nei
quadri e nei cuscini. La cucina era nera e lucida, un misto tra laccato
ed acciaio meraviglioso e maschile. Bellissima, certo, ma insipida e
fredda, degna di un catalogo d’arredamento: totalmente
impersonale. Una casa può essere esteticamente perfetta, ma
risultare comunque sterile e inospitale, al punto di metterti a
disagio. Il gioco di un bambino abbandonato sul pavimento, una tazzina
di caffè dimenticata sul tavolo, un dolce appena sfornato,
un’impronta sul lucido acciaio. Non è disordine,
non è difetto, è vita.
In quell’ambiente non c’era nulla di vivo, nemmeno
un granello di polvere fluttuante nei raggi che filtravano dalle grandi
vetrate, nemmeno una mosca dispettosa, nemmeno un profumo di cibarie,
nemmeno un… Nulla. Una casa vuota, abitata solo per bisogno,
impersonale e asettica.
All'inizio mi allarmava l’idea che Ace vivesse da solo, in un
luogo ricco di potenziali pericoli come una casa moderna (gas, luce,
forno, lavatrice; per non parlare dei detersivi!), ma dopo aver appreso
della presenza di inservienti addetti ai pasti ed alla pulizia, mi ero
leggermente tranquillizzata. Ora però, vedendo quello spazio
quasi ospedaliero, la preoccupazione tornò a bussare al mio
petto. Un pirata come lui costretto in un’abitazione del
genere era troppo da sopportare. Non poteva essere sé
stesso, non era il suo stile, per niente. Per quanto
l’immagine di Ace sdraiato su un divano di pelle nera,
intento a guardare la TV con addosso solamente dei pantaloni di
flanella fosse maledettamente eccitante, non riuscivo a dare un sorriso
a quel volto. Si stava spegnendo per restare lì con me,
lontano dal mare e dalle avventure del suo mondo.
Chiedere al mio cuore di sperare che i ricercatori si sbrigassero era
esagerato; il mio egoismo era ancora troppo forte per azzerarsi in tal
modo, eppure quel pensiero mi sfiorò la mente. Ace felice,
con quel sorriso mozzafiato, mentre fendeva l’acqua con il
suo Striker. Libero.
Il moro poggiò le chiavi nello svuota tasche
dell’ingresso, togliendosi poi la camicia fradicia e
gettandola malamente sul pavimento. Quel mucchietto di tessuto umido ed
abbandonato in un angolo, paradossalmente, rese la stanza
più viva.
Eravamo appena fuggiti da una folla di fan impazzite, che avevano
riconosciuto Ace ed avevano iniziato ad urlare, inseguendoci e
costringendoci alla ritirata. Inutile dire che la sottoscritta era
stata bersagliata da insulti di tutti i tipi. Maledetto temporale
improvviso e stupida camicia bianca semitrasparente; lo scroscio di
pioggia ci aveva colti impreparati, infradiciandoci gli abiti e
rendendo visibile il Jolly Roger di Barbabianca sulla schiena del
giovane. Vestito era un ragazzo normale, bello oltre ogni dire ma
comunque una persona qualsiasi. Con quel tatuaggio invece era
Portuguese D. Ace, idolo e sogno erotico di milioni di ragazze, me
compresa. Sbuffai passandomi una mano tra i capelli corti, ancora
bagnati di pioggia, osservando la schiena muscolosa di Ace ed i miei
vestiti fradici.
Odiavo i cambiamenti climatici improvvisi, eravamo partiti con un sole
splendente e tornavamo con il diluvio universale. Inoltre
quell'inconveniente avrebbe cambiato non poco le cose, se la voce che
il secondo comandante di Barbabianca vivesse in questa provincia si
fosse sparsa, le strade avrebbero iniziato a brulicare di giornalisti,
paparazzi e fan incalliti, pronti a tutto pur di incontrare il bel
Pugno di fuoco. Alla fine erano vere e proprie celebrità,
venivano invitati in continuazione in programmi televisivi e
radiofonici, per non parlare dei servizi fotografici per le svariate
riviste. Erano in prima pagina, ovunque. Andare in edicola ormai era
come fissare il reparto ONE PIECE della fumetteria. I fisici scultorei,
le forme generose e le particolarità dei personaggi erano un
invito a nozze per l'editoria. La Hugo Boss stava pagando oro per avere
i pirati come sponsor, per non parlare dei profumi e delle case
automobilistiche. In quel momento, avere i personaggi di ONE PIECE
negli spot era sinonimo di vendite raddoppiate.
Sbuffai di nuovo, sfilandomi i sandali e posando i piedi gelati sul
soffice tappeto bianco ed irregolare che ricopriva gran parte del
pavimento; eravamo ormai ai primi di Ottobre, il freddo iniziava a
bussare alle porte dell’estate, scacciandola malamente, e
quel temporale era l’ennesima conferma che
l’autunno ormai era arrivato.
Sentivo le gocce d’acqua scendere lente e gelate lungo la
schiena, facendomi rabbrividire ad ogni centimetro di pelle che
guadagnavano. Adoravo la pioggia, ma il freddo che ti lasciava addosso,
penetrando fino alle ossa, era qualcosa di maledettamente fastidioso.
«Stai gelando, vieni che ti presto qualcosa di
asciutto!» Disse il pirata, sfiorandomi una guancia e
cingendomi la vita con il braccio bollente, mentre mi conduceva verso
una porta bianca, seminascosta da un angolo strategico. Quella casa era
impersonale, ma l’architetto aveva tutta la mia stima per le
idee geniali e per la disposizione delle pareti.
Attraversammo un breve corridoio e ci infilammo nella prima porta sulla
destra; quella sì che era la camera di Ace.
Io ero disordinata, ma il caos che regnava in quella stanza era
impareggiabile: vestiti ovunque, residui di cibo e piatti abbandonati
su ogni superficie piana, il letto sfatto da non so quanto; ma non mi
aveva detto che venivano a fargli le pulizie?
«Ace, da quanto non vengono a riordinare questa
stanza?» Chiesi, afferrando un paio di boxer abbandonati su
una sedia con le dita e lasciandoli ricadere poco dopo.
«Uhm? Sono stati qui stamattina,
perché?» Rispose tranquillo ed indifferente,
mentre frugava nell’armadio, facendomi sgranare gli occhi.
Erano passati per quel tugurio quella mattina? In pratica in poche ore
quel pirata casinista era riuscito ad impestare tutta la stanza?
Assurdo.
«Fai schifo.» Asserii semplicemente, incrociando le
braccia e continuando a far vagare lo sguardo su quella distesa di
abiti e rimasugli alimentari, ottenendo solo un sorriso divertito in
risposta.
Disordine e caos, ora che ci pensavo, erano eufemismi rispetto alla
desolata distesa putrescente di roba che mi trovavo davanti, camminare
senza pestare abiti o bricioline era pressoché impossibile,
per non parlare del sedersi.
Potevo capire tutto: era un pirata, era abituato alla vita in mare, era
disordinato di natura, mangiava come il porcosauro tritarifiuti dei
Filnstones e tutto, però che diamine, quel letamaio era
veramente troppo perfino per la sottoscritta.
Mi avvicinai al letto ed iniziai ad accatastare gli abiti sulla sedia,
per liberare almeno un angolo in cui potermi sedere, sbattendo a terra
le briciole e gli altri avanzi che mi rifiutai di identificare. Una
volta seduta rabbrividii nuovamente, i vestiti fradici iniziavano a far
sentire la loro presenza nonostante fossimo in casa.
Ace si girò e mi venne incontro, porgendomi una maglietta
nera e un qualcosa di bianco non ben definito, per poi abbracciarmi e
condurmi nel bagno, dove rimasi a bocca aperta.
La stanza era enorme, quasi totalmente rivestita di ardesia color
argilla, con magnifiche sfumature rosse e cioccolato, lineare e
dall’aspetto maledettamente ospitale. Il lavello si trovava
sulla destra, anch’esso totalmente rivestito di pietra scura,
incastonato in un piano del medesimo colore che si prolungava per mezza
sala, terminando con un piccolo muretto che nascondeva i sanitari.
Flaconi semiaperti e tubetti di dentifricio malamente schiacciati
giacevano inermi sulla pietra, dando vita all’ambiente. Sulla
sinistra c’era l’entrata alla doccia, un enorme
vano di ardesia e pietre vive, sormontato da un grande soffione
d’acciaio lucido. Restai ad osservare il bagno per qualche
secondo, prima di iniziare a spogliarmi ed asciugarmi. Stesi i miei
abiti fradici sul termo arredo cromato, infilandomi sotto il getto
della doccia.
L’acqua bollente riscaldava la mia pelle, il mio corpo, ma
non poteva far nulla contro il gelo del cuore. Il pensiero della
partenza di Ace e della sua infelicità mi tormentava, senza
sosta, pungolandomi l’anima con mille dubbi e quesiti,
torturandomi la testa con varie ed irrealizzabili soluzioni.
Non lasciai che il vapore mi facesse perdere nelle mie divagazioni,
girai svelta la manopola verso l’azzurro, congelandomi con
una secchiata di ghiaccio puro.
Uscii tremante, avvolgendomi nell’asciugamano e guardandomi
allo specchio; ero quasi buffa con quell’espressione
sconfortata. Patetica, ecco cos’ero.
Ormai tutte le mie docce finivano così, con un getto freddo,
per spegnere il cervello. Sì, ero decisamente patetica.
Mi rivestii con gli abiti prestatimi da Ace, che consistevano in una
grande maglietta nera, che mi arrivava a metà coscia e mi
scivolava sulla spalla, ed un paio di calzoncini da corsa,
anch’essi larghi ma meno immensi della t-shirt.
Osservando nuovamente il mio riflesso allo specchio sorrisi: ero
ridicola vestita in quel modo, sembravo l’ottavo nano di
Biancaneve, mi mancava solo il cappello.
Restare senza intimo mi infastidiva, mi sentivo maledettamente nuda, ma
d'altronde non avevo scelta, sarebbe stato inutile cambiare
gli abiti per bagnarli nuovamente, no?
Sbuffai divertita ed uscii, rabbrividendo un po’ per il
contatto dei miei piedi nudi con il marmo, ma trovando sollievo sul
tappeto della sala.
Ace mi aspettava lì, stravaccato scomposto sul divano con
addosso solo quelle sue adorabili bermuda. Come la mente di Oda sia
riuscita a partorire una bellezza simile, resta ancora un mistero per
me.
Mi avvicinai sorridendo, sedendomi accanto a lui ed accoccolandomi
contro il suo petto caldo; mai mi sarei abituata all’idea di
poter toccare il fuoco e di poterne percepire l’aroma.
Calore, protezione, focolare domestico e passione, lo so che non sono
odori, ma Ace rievocava tutte queste sensazioni, solo con il suo
profumo; se poi ci si lasciava catturare da quegli occhi di pece, era
la fine per il raziocinio.
Ma come sempre la mia mente pessimista non accettava gli attimi di
quiete e serenità senza analizzarne i dettagli. Quel giorno
aveva deciso che avevo sognato abbastanza e che era tempo di tornare
alla realtà, così mi ricordò il
destino di Ace, inevitabile e sempre più imminente.
Ero forte, avevo carattere e volontà da vendere, ma nemmeno
la roccia più dura può sopportare in eterno le
intemperie. Pensate agli scogli, un tempo erano colossali pietre,
considerate eterne magari, immutabili… Eppure ora,
incrostati di sale, infestati da parassiti marini e alghe, ridotti a
piccole sporgenze, capaci solo di increspare l'acqua con la bassa
marea. Inutili, passati, distrutti, erosi.
Il mare, con le sue onde costanti, inarrestabili, infinite e logoranti
li ha plasmati e corrosi; ecco il mio destino, essere consumata dal
silenzio, dalla colpa, dal dolore e dal peso del segreto che celavo nel
cuore.
Fortunatamente, se di fortuna si può parlare,
possedevo l’abilità di calarmi sul viso una
maschera di cera, specchio perfetto della felicità, esatto
opposto di ciò che provavo in quegli attimi. Mi strinsi
ancora un po’ al petto nudo del moro, tentando di scacciare i
pensieri con il suo profumo. Ace mi strinse, sfiorandomi leggero la
schiena, per poi eludere la copertura che mi dava la maglia ed
infilarsi sotto la stoffa. Le sue dita scorrevano lente sulla mia
pelle, fiamme bollenti che mi facevano rabbrividire.
Gli baciai il petto, poi allungai la testa e lambii il suo collo con le
labbra; adoravo il sospiro che riuscivo sempre a strappargli con quel
gesto.
Il mio bacio fu un via libera per il ragazzo, che percorrendo
lentamente le mie gambe con le mani mi afferrò le ginocchia,
facendomi finire supina. Non mi sarei mai abituata alle sue attenzioni
roventi, tantomeno a quei baci che mi facevano girare la testa. Non era
il mio primo ragazzo, non erano le mie prime esperienze, eppure non
ricordavo di aver mai provato simili sensazioni; Ace era unico, non
c'era altro da aggiungere.
Schiusi le mie labbra, permettendo alla sua lingua calda di entrarvi e
concedendo al mio cuore un soffio di puro piacere. I palmi aperti del
pirata scorrevano sui miei fianchi, scoprendoli piano piano
dall'ingombro della maglietta, avanzando imperterriti verso i miei
seni.
Gli morsi le labbra, soffiando su di esse il suo nome, ed ancorai le
mie braccia alle sue spalle; lui tremò mentre emetteva un
basso gemito gutturale, che non fece altro che aumentare il mio
desiderio, e rapido azzerò la distanza tra i nostri corpi,
schiacciandomi sul divano.
Le sue mani si colmarono con il mio seno ed il respiro mi si
spezzò in gola.
La sua bocca raggiunse repentina il mio collo e poi scese, leccando la
pelle scoperta, scaldando con il fiato quella ancora celata dalla
maglia, mentre le sue mani continuavano ad esplorare curiose le mie
rotondità. Quando lo vidi sorridere, un brivido di piacere
mi salì dal basso ventre, raggiungendo il cuore. Quel ghigno
malizioso era qualcosa di maledettamente eccitante ed Ace ne era
pienamente consapevole.
Le sue mani lasciarono il mio petto, scorrendo verso l'addome ed
afferrando l'orlo della maglietta. Tirò leggermente,
tendendo il tessuto sulle mie forme, guardandomi poi mentre avvicinava
il suo viso al turgore del mio seno.
Non ebbi tempo per capire o per pensare nulla: la bocca del pirata si
chiuse attorno al mio capezzolo, leccando e succhiando attraverso il
tessuto, facendomi inarcare il bacino e facendolo scontrare con quello
del moro.
Arrossii? No.
Mi imbarazzai? Nemmeno.
Quel contatto mi fece solamente afferrare le spalle di Ace con tutte le
mie forze, tirandolo a me ed implorandolo, di cosa ancora non lo so.
Di continuare?
Di fermarsi?
Forse entrambe le cose.
Stavolta non c'erano stupidi tronchi su cui sbattere la testa, madre
natura non aveva mezzi per fermarci, nessuno ne aveva.
Pochi istanti più tardi mi ritrovai ad alzare le braccia per
permettergli di sfilare l'unico indumento che ci separava, mentre lo
abbracciavo facendo aderire perfettamente il mio seno al suo petto.
Pelle contro pelle, cuori frenetici a contatto, respiri mozzati che si
completavano.
Adoravo quella sensazione di calore, abbracciare così la
persona che si ama è la cosa più bella del mondo
a mio parere. Sospirai quando le labbra del pirata abbandonarono le mie
per scendere sul collo, gemetti quando sfiorò con la punta
della lingua il lobo del mio orecchio, quasi gridai quando quella bocca
arrivò a torturare il mio seno, di nuovo.
Ace era passione e fuoco allo stato puro, mi bruciava l'anima ed il
corpo con le sue fiamme, scottandomi il cuore con attimi ed emozioni
indimenticabili.
Nel mio mondo di insicurezze e dubbi, lui rappresentava la mia
certezza, con lui riuscivo ad avere attimi di coraggio, ad abbandonare
le inibizioni, a essere me stessa al cento per cento. Eravamo uguali ed
opposti. Io vivevo in uno stato di costante paranoia, interrotto da
attimi di sicurezza, mentre Ace era perennemente sicuro di se, ed anche
un po' spaccone a dire il vero, eppure aveva dei momenti di totale
sconforto, nei quali si reputava un mostro, un fallito buono a nulla e
mille altre cose orribili.
Lui amava i miei momenti di sicurezza, cogliendoli sempre al volo e
godendoseli al massimo, io invece lo consolavo e combattevo contro la
sua malinconica depressione momentanea, talvolta con metodi poco
convenzionali, lo ammetto, però ci riuscivo e di questo
andavo fiera.
Amavo da impazzire quello stupido pirata, eppure non riuscivo appieno a
godermi i nostri attimi insieme, c'era sempre un ricordo o un presagio
in agguato, pronto a guastare il momento.
Stavolta però la passione ed il desiderio stavano
sovrastando tutto, annebbiando la mente ed inibendo la ragione,
trascinandoci in vortici infiniti di emozioni indescrivibili.
Il moro mi baciò le labbra, sorridendo, mentre le sue mani
calde sfioravano le mie gambe. Con una carezza maledettamente lunga
risalì dalle ginocchia fino alle cosce, infilando quelle
dannate mani nei pantaloncini ed afferrandomi i glutei.
Graffiai la sua schiena e mi staccai dalle sue labbra per poter
respirare, incrociai i suoi occhi neri, venati da fiammelle di
eccitazione, e venni totalmente catturata. Nulla aveva più
senso, niente all'infuori di noi due esisteva, nessuno contava tranne
lui.
I nostri respiri erano ormai fusi insieme, indistinguibili.
Ace sorrise, nuovamente malizioso e terribilmente sexy, prima di
lasciarsi cadere all'indietro, trascinandomi con se e facendomi finire
a cavalcioni sui suoi fianchi. Lì, mezza nuda, con
l'erezione del moro premuta tra le cosce ed i suoi occhi che mi
osservavano, arrossii.
Eravamo immobili, in un eterno fermo immagine di sguardi.
Un leggero sfiorarsi di labbra.
Una lenta caduta nell'oblio nero dei suoi occhi; assurdo quanto possa
essere magnetica l'oscurità. Di solito le tenebre si temono,
com'era possibile che quelle iridi mi attirassero tanto?
Il nero spaventa. Il buio terrorizza. Perché invece io ne
ero attratta?
Non è il buio a spaventarci, non è il nero della
notte, non è l’oscurità in agguato
dietro l’angolo, è l’ignoto. Il nulla,
il non sapere, il non conoscere, il non percepire cosa si nasconde tra
le ombre.
Non c’è mai nulla nell’ombra che ci
spaventa, ci dicono, ma allora come mai il cuore accelera i suoi
battiti ed il passo diventa più frettoloso?
Perché non ci giriamo a controllare se le nostre sensazioni
sono vere? Perché sentiamo quei fruscii che prima non
c’erano?
Una volta mi sono girata. Non c’era nulla. Uno stupido foglio
di giornale che vagabondava trascinato dal vento sulla strada. Mi sono
data della sciocca ed ho proseguito. Più tranquilla? No,
perché poi conoscevo il rumore della carta, ma non era
quello che sentivo.
Probabilmente niente e nessuno mi stava seguendo quel giorno, ma
nell’entrare in casa sospirai di sollievo.
Perché quindi non temevo quei turbini di petrolio bollente?
Semplicemente perché conoscevo cosa celavano e non ne ero
spaventata, ma attratta.
Incoerente? Incostante? Pericoloso? Sciocco? Probabile.
Amore? Fiducia? Affetto? Emozione? Assolutamente.
Scacciai il rossore, chiusi gli occhi e posai la mia bocca sulla sua,
sporgendomi avanti e strofinando il mio corpo su quello rovente del
pirata.
Un altro bacio, un altro assenso, un altro via libera, un altro tuffo
al cuore, un'altra emozione.
Quante cose può fare un bacio...
Nel dubbio dona certezza.
Nel dolore dona conforto.
Nella speranza dona sollievo.
Nella felicità aumenta la magia.
Nell'addio rende dolce-amaro quell'attimo che precede l'allontanamento.
Tutto con un bacio.
Il moro sospirò sulla mia bocca mentre le sue dita
proseguivano la loro salita lenta sopra le mie cosce, sotto l'unico
indumento che mi copriva.
Carezze e tocchi roventi, sospiri mozzati e mugolii soffocati, lingue
di fuoco sulla pelle, tuffi al cuore e guance di porpora.
Non era la mia prima volta e nemmeno quella di Ace, si capiva dai
gesti, dall'istinto frenetico che ci muoveva, dai nostri movimenti.
Era la nostra prima volta insieme, ecco cosa mi faceva tremare
leggermente le dita. Reputavo l'esperienza che stavo per fare con Ace
più importante della mia prima volta? Probabilmente
sì. Era stato amore, ma non così intenso; troppo
giovane, troppo acerbo per essere ricordato senza un briciolo di
insoddisfazione.
Fruscii di vestiti, zip che scorrevano lente nelle maglie, baci dolci e
baci di sesso.
Unghie e graffi, denti e morsi, bocche umide e languide scie lasciate
sul corpo.
Stavo toccando, baciando, leccando il fuoco.
Ero ad un soffio dalla realtà, in un mondo parallelo e
magnifico, unico e magico, dove c'eravamo solamente noi due.
Noi, la ragazza banale ed il bellissimo corsaro, in preda al desiderio.
Desiderio... Non amore? No, non c'era sentimento, era solo istinto
primordiale, solamente sesso.
Il mio amore per il moro era innegabile, ma come potevo dire lo stesso
di lui? Teneva a me, di quello non dubitavo, ma potevo parlare di
amore? Un manga che ha preso vita ed una ragazza reale, come tante,
possono amarsi?
Io ed Ace avremmo mai fatto l'amore? O ci saremmo limitati alla scopata
occasionale? Ok, forse ora rasento l'esagerazione, ma i dubbi fanno
parte del mio essere ormai; chi si capaciterebbe senza paranoie di
interessare seriamente ad uno come Ace? Il cinismo risulta
più che giustificato visto in questa prospettiva, no?
Il mio sentimento verso di lui era amore, non avevo dubbi a riguardo e
il mio cuore scoppiava con troppa violenza per negarlo, lo stomaco si
contorceva con troppa crudeltà per non ammetterlo.
Ace. Ero innamorata di Portgas D. Ace, troppo per me.
Occhi aperti e corpi immobili.
Il petrolio ed il cioccolato delle nostre iridi si mescolarono in uno
sguardo di fuoco ed emozioni.
Sorrisi complici e carichi di dolcezza. Durante il sesso si sorride
così?
Una leggera pressione, poi più forte.
Completezza e quiete.
Unghie graffianti sulle spalle, ciocche corvine che mi accarezzano il
viso, muscoli dalla bellezza devastante in tensione, velo di sudore a
dare una lucentezza surreale.
Un Dio greco tra le mie braccia, sul mio corpo, tra le mie cosce.
Strusciamenti e spinte si alternano a gorgoglii e sospiri, sempre
più intensi, sempre più veloci, sempre
più magici.
Chiusi gli occhi inspirando il profumo del fuoco e del sesso.
«Mia...» Sentii sussurrare accanto al mio
orecchio. Aprii gli occhi, rimanendo nuovamente intrappolata in quelle
onici luminose. "Mia" aveva detto? Mi considerava sua? La sua ragazza?
La sua donna?
Il mio sguardo pose le domande che le labbra non avrebbero saputo
articolare. Ace sorrise, avvicinando il viso al mio, sfiorandomi le
labbra.
«Mia, ho detto. Tu sei mia, solo mia!»
Soffiò sulla mia bocca, aderendo completamente al mio corpo
nudo.
Il petto mi scoppiò, troppo carico di emozioni e sensazioni,
ed il cuore impazzì, folle e fuori controllo. Quante volte
avrei voluto urlare, ma era come se fossi stata sepolta viva e nessuno
potesse sentirmi. Quante volte mi ero lasciata trasportare inerme nel
vento, trascinata dalla corrente, senza ribellarmi o semplicemente
oppormi? Eppure ora avevo preso in mano la mia vita.
Fragile come un castello di carte e con mille fuochi
d’artificio nel petto.
Ero sua? Sì, senza dubbio.
Si poteva fare l'amore con un pirata conosciuto meno di un mese prima e
che era letteralmente uscito da un fumetto? Sì, senza
dubbio.
Ringraziai l'instabilità climatica di quella stagione.
Ringraziai l'esercito di fan che ci aveva inseguito.
Ringraziai quel pomeriggio caldo e umido, il caso, la fortuna, il
destino, un'ipotetica entità sovra naturale, chiunque avesse
contribuito al nostro incontro.
Non era sesso per lui, ora lo sapevo. Ne avevo dubitato ed ero stata
stupida.
Scoppi e botti nel mio petto, colori e fuochi meravigliosi, fulmini
dalla potenza devastante che colpivano il mio cuore. Amore.
Sospiri, mugolii e teneri abbracci. Occhi pesanti e cuori leggeri.
Amore.
Lottai contro la pesantezza delle mie palpebre per non addormentarmi,
terrorizzata dall’idea di vedere quel sogno scomparire al
risveglio.
Il braccio del moro mi cinse la vita ed io mi accoccolai sul suo petto,
tremante di dubbi e felicità.
«Dormi, non vado da nessuna parte...»
Mormorò il moro, stringendomi più forte a se.
Mi addormentai sorridendo, mentre grandi mani calde carezzavano leggere
la mia schiena, cullata dal respiro regolare e dal battito incostante
del fuoco. Innamorata e felice, in pace con il mondo intero e senza
preoccupazioni.
Io ed Ace avevamo appena fatto l'amore sopra un divano di pelle nera.
Niente sesso, amore.
Tutto il resto del mondo poteva andare a farsi fottere in quel momento.
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Hem... Ciao...
Scusatemi T_T ho accumulato un ritardo imperdonabile, mi scuso
immensamente con tutti voi! Detesto quando le storie che seguo
ritardano con gli aggiornamenti, quindi capisco perfettamente come vi
sentite e mi dispiace davvero!
Non posso promettervi aggiornamenti costanti, la mia vita si
è
incasinata in questo periodo, però vi rassicuro giurando che
MAI
e poi MAI interromperò questa storia! ^_^
Ora, spiego velocemente questo ed i prossimi capitoli! Ho deciso di
scrivere per ogni capitolo squarci di vita di Selene ed Ace, in ordine
cronologico, per dare una panoramica del loro rapporto senza
appesantire la trama con una quarantina di capitoli consecutivi su
"quanto sono carini dal lunedì alla domenica" xD
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto comunque, e spero anche di
non vedere MIE frasi, MIE espressioni e MIE riflessioni in capitoli di
altre storie. Chi vuole intendere intenda, se invece preferisce fare
orecchie da mercante pazienza, ci penseremo a tempo debito con le altre
autrici. (Eh già, perchè non bastavano gli spunti
presi da me vero? Non ho aggiornato abbastanza per fornirti sufficiente
materiale, mi dispiace!)
Ma a parte le frecciatine, come va la vita a voi? Mando a tutti (tranne
1) tantissimi baci!
Cosa ne pensate dei
plagi e delle scopiazzature non autorizzate? E di coloro che "prendono
spunto" ed "ispirazione" senza chiedere niente a nessuno invece?
Sì
ok, lo ammetto, sono particolarmente arrabbiata, però non
temete,
l'ispirazione è tornata (visto che la mia è
originale e non va e viene a seconda degli aggiornamenti altrui) e non
mi farò fermare da vili
"scrittori", buoni solo a copiare e rielaborare lavori altrui.
(Se fossi in te, mi starei sotterrando per la vergogna.)
Ok ok, la pianto xD
Aspetto i vostri insulti, i vostri commenti, le vostre impressioni!
Finalmente i miei piccioni ce l'hanno fatta a concludere!!! xD (e
Senza Baobab, visto Gre? xD)
Che dire ancora? Vi ringrazio immensamente! Nonostante le attese siete
sempre tantissimi ed aumentate sempre di più!
chiedo anche scusa a tutti i lettori onesti che si sono dovuti
ascoltare la mia filippica accusatoria, ma veramente era da fare,
sperando di non vedere mai più similitudini con pezzi della
mia Fire in giro per EFP. (Ringrazia che abbiamo deciso di
aspettare per contattare l'amministrazione, per darti la
possibilità di cambiare radicalmente modo di fare).
Ora basta xD
Bacioni e Buon inizio scuola a chi studia, lavoro a chi lavora e buon
tutto agli altri xD
Immagini
e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di
lucro
|
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Capitolo 26 *** 25. Distrazioni ***
c1
La fine di Ottobre è arrivata. Troppo in fretta. Troppo rapida.
Troppo tutto.
Il tempo sembra volare, inconsistente, effimero, inafferrabile.
Le giornate con Ace passano in un soffio, tra scherzi e tenerezze.
Vita perfetta? No, quello no, ma non penso di essere mai stata tanto
felice. Tutti quanti hanno notato il mio cambiamento: mia madre, i miei
amici, Elena.
Elena… Si era staccata moltissimo da quando Ace era piombato
nella mia vita; l’avevo cercata, l’avevo invitata
più volte a casa mia, le avevo chiesto di uscire per un
caffè, ma rifiutava sempre. Scuse banali accampate al
momento.
Esami, studio, madre, pulizie. Scuse.
Non riesco a capirne i motivi, nemmeno scervellandomi. Non ho mai
voluto allontanarmi da lei, non ho mai anteposto la mia relazione con
il pirata alla nostra amicizia, eppure quelle poche volte in cui sono
riuscita a vederla, era perennemente scocciata ed arrabbiata.
Detesto non capire le motivazioni delle persone. Cosa avevo fatto? Come
potevo rimediare? Cosa potevo fare per sistemare le cose? Non lo
sapevo. Non lo so tutt’ora.
Nella mia stanza, seduta sul letto, sola, premo per
l’ennesima
volta il tasto di chiamata sul mio cellulare. Il nome di Elena
lampeggia accanto ad un insulso telefono verde. Anche quello lampeggia.
Uno squillo.
Non devo partire con il piede sbagliato, dopo tutto è solo
il
primo squillo, no? Non poteva restare perennemente appiccicata al
telefono in attesa di una mia telefonata o altro.
Due squilli.
Mi mancava parlarle, sfogarmi con lei, raccontarle la mia vita, i miei
dubbi, i miei pensieri. Ascoltare le sue paure, le sue assurde
congetture, i suoi strambi ragionamenti. Mi mancava lei.
Siamo come sorelle, forse perfino qualcosa di più dato che
ci
eravamo scelte. So che qualcosa la turba, ma non riesco a capire cosa.
Non sono una veggente. Non sono nemmeno una psicologa. Non leggo nel
pensiero. Non vedo il futuro. Non capisco cosa diavolo sta succedendo a
noi due. Non capire è una sensazione orribile. Ti senti
stupida,
incompetente, inutile. In questo momento probabilmente lo sono,
incapace di comprendere e risolvere gli attriti con la mia migliore
amica.
Tre squilli.
Non risponde, di nuovo. Forse ha lasciato il telefono a casa ed
è uscita. Forse semplicemente non vuole sentire nessuno. Ma
perché?
«Pronto?» voce alterata, già sulla
difensiva ancora
prima che proferissi parola, come se solo il mio nome sul display la
indispettisse.
«Ciao, sono Selene… Ti va di prenderci un
caffè?
Oppure di fare due passi? Volevo parlarti!» Affermai
sorridente,
ingoiando il rospo, ignorando il tono seccato. Sapevo che non poteva
vedermi, ma ero veramente felice che mi avesse risposto, nonostante
tutto, era già un passo avanti. Al telefono non vedi le
espressioni altrui, ma provate a dire “Ciao” col
sorriso e
poi ripetetelo senza curvare le labbra: sentito come cambia il suono?
Elena era una caffeinomane convinta, non c’era gastrite in
grado
di farle bere meno di quattro moke di caffè al giorno:
rigorosamente macchiato freddo e con tre cucchiaini di zucchero a tazza.
«Ciao… No guarda, non è il
caso.» Rispose gelida.
Ahimè la fisica vuole che il ghiaccio venga sconfitto dal
fuoco.
Elena era glaciale ora? Perfetto, la mia ira era puro fuoco. Ero capace
di ingoiare l’orgoglio, ma tutto ha un limite massimo che non
può essere superato.
«Fanculo. Adesso basta! Mi spieghi cosa cazzo hai?»
Soffiai
inviperita alzandomi di slancio ed iniziando la classica maratona per
tutta la stanza. Ero stanca di quell’atteggiamento, detestavo
i
rancori non chiariti tanto quanto le litigate al telefono, ma questa
è un’altra storia. Era lei a non avermi lasciato
altre
possibilità, se non una squallida telefonata per poter
sistemare
le cose, o perlomeno tentare comprenderle.
«Niente. Il caffè mi fa venire la gastrite e non
ho
tempo.» Insistette Elena, mantenendo quel tono algido e
maledettamente snervante. Distaccatamente irritante.
Il telefono scricchiolò leggermente tra le mie nocche ormai
bianche, strette al punto di fare quasi male.
«Stronzate. Trangugi litri di caffè ogni
giorno!»
Digrignai, decisa a farle confessare la vera ragione del suo rifiuto.
Non sopportavo le bugie, tantomeno quelle campate in aria a questi
livelli.
Una breve pausa precedette la velenosa risposta di colei che
consideravo la mia migliore amica: « Sinceramente dubito che
tu
possa essere al corrente delle mie attività giornaliere,
considerando la scarsa frequentazione. In ogni caso, dovresti tornare
sulla terra ed imparare ad accettare i "no”, signorina di
fuoco.»
Quasi mi cadde il cellulare dalle mani. Quasi dovetti sedermi di nuovo,
stavolta sulla poltroncina davanti alla quale mi trovavo. Quasi sentii
una lacrima picchiare le mie palpebre per poter uscire. Quasi.
Eravamo veramente arrivate a questo punto?
Il disprezzo nella voce di Elena faceva male, al punto di darmi la
nausea. Le sue parole imbevute di fiele mi scivolavano in gola,
ferendomi e puntando al mio cuore. Come poteva dire quelle cose, dopo
quasi un mese in cui mi evitava spudoratamente?
Impugnai più saldamente il telefono. Ripresi a camminare.
Non piansi.
«Detto da una che, da un mese ormai, non fa altro che darmi
buca
suona proprio bene, sai? Non l'ho voluto io questo allontanamento, sei
tu che sembri essere sparita dal pianeta ultimamente!»
Sbottai,
al confine tra rabbia ed isteria.
Ecco un’altra cosa che detesto: l’ipocrisia.
«Semplicemente non ho una vita... Come dire…
"Famosa",
come la tua.» Sibilò, enfatizzando odiosamente le
pause di
riflessione e dando libero sfogo alle sue doti recitative. Fiele e
veleno, a confronto con quelle parole, risultavano dolci e melliflui.
Non capivo quelle frasi. Era arrabbiata perché un fotografo
particolarmente stronzo e cocciuto era riuscito a fotografarmi?
Sì, l’ultimo mese era stato infernale: la voce che
Ace
risiedeva in questa provincia si era sparsa ed eravamo perennemente
braccati da fans e giornalisti. Ero stata il soggetto preferito degli
insulti delle fangirls, degli scatti dei paparazzi e dei petulanti
giornalisti. Sfuggire a quella folla era snervante, non avevo mai
voluto fama e celebrità, volevo solamente Ace.
Elena mi stava rinfacciando la notorietà? Pensava seriamente
che
mi piacesse? Uscire era un’impresa, solo con la moto
riuscivamo a
svignarcela. Per non parlare delle mille precauzioni che dovevamo
adottare per non far scoprire al mondo il mio indirizzo.
Ormai vivevo con il pirata, avvisando mia madre dei miei saltuari
ritorni all’ovile, durante i quali coccolavo i miei animali e
prelevavo nuovi vestiti.
Cosa c’è di bello quindi nell’essere
famosi? Niente, è solamente una noia in più.
Uno smacco simile da colei che reputavo una sorella, era veramente
amaro e difficile da ingoiare. La rabbia ribolliva nel mio petto,
pronta ad uscire inondando tutto ciò che mi circondava.
L’ira è un sentimento devastante, quanto
l’amore e
l’odio forse, ottimo sostituto della paura. Preferivo la
rabbia
alla paura, quella almeno sapevo gestirla e non metteva in pericolo me
stessa. In quel momento la mia ira era decisamente volta a celare il
terrore di aver perso un’amica, per sempre.
Respirai profondamente prima di parlare, ma il tono che detti alla mia
voce, non fu comunque tra i più cordiali. Il controllo della
rabbia è una cosa, l’abilità nel
mentire
spudoratamente un’altra.
«Mi stai rinfacciando cose di cui non ho colpa! Secondo te mi
fa
piacere essere pedinata da gruppi di idioti armati di macchina
fotografica e microfoni? Uscire come una ninja da casa? Stare
perennemente allerta per evitare di essere trucidata da orde di
ragazzine? Odio l’essere diventata famosa! Spero ogni giorno
che
non riescano a scoprire il mio indirizzo o altro su di me. Per uscire
io ed Ace dobbiamo escogitare mille trucchi, secondo te mi piace la
notorietà? Non me ne faccio niente della cartastraccia dei
giornali con la mia faccia sopra!»
Ormai stavo gridando verso l’inanimata cornetta. Ero
arrabbiata? Da morire.
Lei mi conosceva, doveva conoscermi, come poteva pensare una cosa
simile? Perché tutta quella rabbia verso di me?
Non riuscii a rispondere a quelle domande, ormai il mio cervello era
totalmente destabilizzato e confuso da quei comportamenti insensati.
Annebbiato dal nervosismo e dalla rabbia.
«Se non ti facesse piacere suppongo che staresti
più
attenta, ma probabilmente "la fidanzata di Ace" era uno status sociale
che proprio non potevi lasciarti scappare.»
Rincarò Elena,
esagerando.
Non potevo credere che fosse solo il mio “essere
famosa” il
problema; Elena non era mai stata interessata a questo genere di cose,
non avrebbe senso, c’era dell’altro, ma non
riuscivo a
capire cosa.
Stupida. Non capisco, e sono stupida.
La rabbia sarebbe una gran cosa, se solo fosse totalmente controllabile
da chi la possiede. Sarebbe un’arma devastante. Quella che
scaturisce da una delusione poi, devasterebbe il mondo.
La mia rabbia era qualcosa di più però; non solo
delusione, rimorso e nervosismo. La mia ira celava la fottutissima
paura di rimanere sola.
Molti, me compresa, temono cose sciocche. Io sono terrorizzata da ragni
ed insetti. Ho paura della calca di persone. Ho il terrore dei lupi e
dei clown; tutti conoscono le mie paure.
Ma il mio incubo più grande non sarebbero aracnidi giganti o
lupi ringhianti, sarebbe restare sola. Senza amici, senza parenti,
senza nessuno.
Una paura folle forse, ma mi assaliva il cuore da più di un
anno: perdere mio padre mi aveva aperto gli occhi su ciò che
era
veramente importante nella vita e ciò che invece era
catalogabile come superfluo.
Elena per me era importante come l’aria, perderla significava
soffocare e si sa, una persona in procinto di soffocare, tenta di
aggrapparsi a qualsiasi cosa.
«Tu non sai un cazzo di quello che è successo!
È
colpa mia se uno stronzo si è messo a scavalcare i muri di
cinta
e mi ha fotografata? Eh? Pensi seriamente che mi piaccia uscire di casa
dal retro, facendo attenzione che non ci siano fottuti
paparazzi
in giro e sentirmi osservata ovunque?» Ringhiai. Sempre
più arrabbiata. Sempre più confusa. Sempre
più
pericolosa. Sempre più spaventata.
Non la lasciai rispondere, risposi io per lei.
«Ma che domande faccio? Non puoi saperlo, perché
non
c'eri.» Conclusi, sfociando nel sarcasmo più crudo.
Per un secondo ricordai la mia professoressa di italiano al biennio.
Lezione sul teatro: la differenza tra sarcasmo e ironia.
L’ironia
era bonaria, identificata mediamente con la figura di Alessandro
Manzoni, volta a creare sorrisi benevoli e leggere allusioni. Il
sarcasmo invece è beffardo, pungente, cattivo.
Non vi era traccia di ironia, nella mia voce.
«Certo, non posso saperne un cazzo vero? Se ne sei convinta,
restaci. Sappi solo che qui, quella che non sa niente sei
tu!»
Rispose lei, con la stessa moneta.
Il sarcasmo è negativo, ma talvolta ha l’utile
funzione di
far crollare le persone, di farle incazzare, scaldare, cedere. Elena
aveva ceduto. Avevo sfondato quel muro di ghiaccio e parole che si era
costruita attorno, ma ciò che avevo intravisto dietro di
esso,
non riuscivo ancora a comprenderlo.
«Ma ti senti? Ti rendi conto delle parole che ti escono dalla
bocca? Non ti riconosco più...» Mormorai,
più
dolce. Meno aggressiva. Più preoccupata.
Errore.
Mai mostrare comprensione o preoccupazione durante una lite, tantomeno
quando si è appena passati in vantaggio. Ecco
perché nei
film, il buono risulta sempre penalizzato: si fa troppi riguardi. Cede
troppo ai rimorsi. Da troppo peso alla “cosa
giusta”.
Io ed Elena, in quel momento, stavamo combattendo verbalmente: lei
mossa da non so quale invidia gelosa, io dalla speranza di ritrovare la
mia migliore amica.
Sì, ci speravo ancora, così come speravo
follemente che
la telefonata dal Giappone non arrivasse per Ace, così come
prima che tutta questa storia iniziasse, avevo confidato ogni giorno
nell’arrivo di un dottore che mi dicesse che c’era
una cura
per il cancro.
La speranza a volte peggiora le ferite, ma combattere senza sperare,
non è vivere.
«Si, mi sento, ma almeno so quello che dico Selene e forse so
ancora chi sono. Puoi dire lo stesso?»
Probabilmente il mio cervello non funziona, è difettoso. Non
capisce. Non capisco. Resto confusa. Non colgo quel significato
nascosto, quell’alone di malinconia che aleggia in quelle
parole.
Lo vedo, ma non riesco a toccarlo.
Intangibile, effimero, inafferrabile. Come il tempo.
«So benissimo chi sono: me stessa. Sto vivendo il sogno
più bello della mia vita Elena, ma se al mio fianco non ho
la
mia migliore amica... Non è lo stesso.» Sussurro,
consapevole di porgere l’altra guancia. Conscia del fatto che
riceverò un altro smacco. Rassegnata ad ottenere altro
veleno
rovesciato addosso.
«Sono felice che tu abbia, quantomeno, la
sanità
mentale residua per definirlo un sogno, Selene! È bene che
tu lo
tenga a mente: Questo. È. Un. Sogno. Ricordatelo, altrimenti
quando il principe sputafuoco tornerà a casa, crollerai
assieme
al castello che ti sei costruita.»
Il cadenzato suono del telefono annunciò la fine della
telefonata. Mi aveva riattaccato in faccia, eppure continuavo a non
capire.
Come disse Nietzche: “E chiunque voglia avere la gloria, deve
congedarsi per tempo dall’onore ed esercitare la difficile
arte
di andarsene, al momento giusto.”
Elena aveva avuto la sua uscita ad effetto e la gloria. A me restava
solo la rabbia e la stupida consapevolezza di aver combattuto male
quella battaglia.
Ero furibonda, ma non capivo, non riuscivo a comprendere quelle parole,
quell’atteggiamento, quel modo di fare. Non era Elena quella,
non
era la mia Elena.
Gettai il cellulare sul letto, fregandomene della mia mira inesistente,
e mi stesi a pancia in su, fissando le venature del legno che componeva
il soffitto della mia camera. Pino. Chiarissimo. Pieno di nodi e
disegni meravigliosi, fatti dalla natura in anni e anni di crescita.
Chissà cos’era quella trave prima di diventare
parte
integrante della mia casa: era un albero boschivo? Oppure apparteneva a
quelle fila ordinate e finte, piantate dall’uomo per essere
tagliate ed usate in campo edile? Era un pino solitario, o circondato
da altri alberi? Era giovane o già anziano? Era carico di
verdi
aghi e di pigne dalle forme floreali, oppure era spoglio e desolato?
Io come sono? Pazza, sicuramente. Pensare al passato di una trave di
legno: chi se non un pazzo potrebbe farlo? Una matta, una stupida
sognatrice folle.
Mi sarei frantumata, lo sapevo anche io, ma sentirselo dire faceva
male, troppo male.
Guardavo la mia immagine riflessa nello specchio ogni giorno, vedendomi
felice, ma sempre con un’ombra scura negli occhi:
consapevolezza.
Non mi abbandonava nemmeno un secondo, nemmeno nei momenti
più
belli. Ace sarebbe ripartito. Io sarei rimasta sola, a raccogliere i
cocci del mio cuore; frammenti troppo piccoli per essere riaggiustati,
ma abbastanza grandi da sentirne la mancanza nel petto. Quando il
telefono di Ace avrebbe squillato, annunciandogli la data ed il luogo
della partenza, mi sarei semplicemente sbriciolata, come una bambola di
porcellana troppo fragile per essere donata ad un bambino.
Crepe. Frammenti. Lacrime ed infine spazzatura.
Avevo appena perso la mia migliore amica e ne ero consapevole. La mia
vita come sarebbe diventata ora?
Un nuovo vuoto si era formato nel mio cuore, ma stavolta non poteva
essere colmato dai sentimenti che provavo per il moro.
La mia vita prima del suo arrivo era buia, oscura, senza uno straccio
di luce, vuota; poi il fuoco in persona aveva portato il calore e
colorato il mio mondo, ma purtroppo ogni cosa ha i suoi pro ed i suoi
contro. La luce aveva illuminato tutto, ma ogni fonte di luce crea
inevitabilmente delle ombre; e quelle ombre sono ancora più
oscure delle tenebre che l’hanno preceduta. Non ho mai avuto
paura del buio in generale, ma l’ignoto mi terrorizza; ed ora
come ora, il mio futuro, risulta maledettamente ignoto. Senza Elena,
prossimamente anche senza Ace, come avrei fatto a sopravvivere? Forse
non ci sarei riuscita. Forse Ace non sarebbe partito. Forse Elena
sarebbe tornata. Forse… Solo forse.
L’ignoto non mi spaventa: mi terrorizza.
Sbuffai per l’ennesima volta, dirigendomi verso la cabina
armadio.
Dovevo indossare abiti brutti, sacrificabili, che non mi sarebbe
dispiaciuto gettare, per questo quella mattina ero passata da casa.
Inoltre dovevo fare qualcosa per non pensare, occupare la mente,
dimenticarmi del mio dolore. Ero brava a farlo.
Estrassi un paio di Jeans blu scuro, a zampa di elefante, risalenti
come minimo al periodo delle scuole medie; mi ero leggermente alzata,
ma la mia taglia era rimasta la stessa e quei pantaloni erano stati
conservati in vista di un futuro ritorno della moda. Anche se fosse
tornata, non li avrei rimessi; definirli inguardabili era un eufemismo.
Dal cassetto invece scelsi una delle vecchie magliette usate per
l’ora di ginnastica al liceo: enorme ed azzurra, immettibile
in
altre situazioni.
Cosa stavo per fare? Ovvio, lezioni di motocicletta, tanto per
rischiare l’osso del collo e grattugiarmi le gambe
sull’asfalto. Avevo un pessimo rapporto con le biciclette e
l’equilibrio, cosa diavolo mi era saltato in mente di
accettare
quella stupida proposta di quello stupido pirata? Ecco la risposta alla
mia stupida domanda: lo stupido pirata. Avrebbe potuto chiedermi di
fare qualsiasi cosa insieme a lui, l’avrei fatta senza
lamentarmi
troppo, come era accaduto con la storia del Bungee jumping.
L’ho
fatto, ho perso dieci anni di vita e l’utilizzo delle corde
vocali per un’intera settimana, ma per vedere Ace sorridere
questo ed altro. Almeno i novanta euro per il lancio non li avevo
sganciati io. Stupido zolfanello spericolato.
Avevo veramente il diritto di lamentarmi, dopo tutto? No, in effetti no.
Alla fine avevo deciso di stare con un pirata, non con un contabile;
era ovvio che le sue abitudini fossero maledettamente più
avventurose ed adrenaliniche della media. Inoltre, in fin dei conti,
quei secondi di puro panico, quando sopra e sotto di te
c’è solo il vuoto, erano stati fantastici.
Ripensare a quella giornata era controproducente, evidenziava la
snervante e frettolosa impazienza infantile di Ace: ma ai ricordi non
sempre si comanda.
Quella mattina mi aveva svegliata saltando sul letto, nella sua camera,
gridandomi che dovevo prepararmi in fretta perché dovevamo
partire per una gita fuori porta (e quando un pirata dice
“fuori
porta”, c’è da rabbrividire).
Mi ero svegliata all’apice dell’isteria e del
rincoglionimento, ma fortunatamente ebbi la prontezza di domandare ad
Ace la destinazione.
“Andiamo a Locarno, in Svizzera!”
Aveva risposto sornione il moro, restando carponi sul letto con quella
faccia da schiaffi, facendomi sgranare gli occhi ed andare di traverso
il tanto amato caffè mattutino. Almeno aveva avuto la
prontezza
di portarmi la colazione a letto.
Il perché della scelta di quella destinazione lo scoprii
solo
più tardi, una volta vestita e riacquistate le
facoltà
mentali minime.
“Beh, c’è il salto per il Bungee Jumping
più alto del mondo!”
Ovviamente, che domanda idiota gli avevo posto chiedendogli
“perché?”, ero stata una cretina a non
immaginare
che quell’idiota patentato avesse prenotato un lancio per due
in
Svizzera. Da una diga. A duecentoventi metri di altezza. Come avevo
fatto a non immaginarlo?
Sorrisi tra me e me ripensando alle imprecazioni che avevo rovesciato
addosso ad Ace quel giorno, mentre infilavo in una borsina i miei
abiti; ad un certo punto della mia rabbia l’avevo perfino
minacciato di fargli provare l’adrenalinica esperienza di un
estintore nel deretano, pensate un po’.
Ridacchiai, tentando inutilmente di mettere in pausa il film dei miei
ricordi sull’espressione del moro dopo la mia minaccia: occhi
sgranati, labbra corrucciate ed espressione tra lo stupito ed il
terrorizzato… A quanto pareva nessuno l’aveva mai
minacciato di sodomia con un arnese ignifugo. Beh,
c’è
sempre una prima volta no?
Alla fine mi ero calmata ed avevo avevo scritto un SMS a mia madre,
dicendole che andavo a fare una gita sul Lago Maggiore. Se le avessi
accennato a quello che stavo per fare, un tornado sarebbe piombato in
camera, stile Taz del Looney Tunes, sbranando Ace e rinchiudendomi in
una stanza imbottita per evitare che mi ferissi. Lei ansiosa? Ma quando
mai.
Due ore di viaggio, ancorata con tutte le mie forze ad Ace.
Superati i 230km/h avevo deciso di ignorare la lancetta della
velocità.
Sono scesa da quella bestia di metallo con le braccia indolenzite, le
gambe attanagliate dai crampi e le guance tese.
Avevo riso durante tutto il tragitto, godendomi quei secondi di felice
libertà assoluta.
Fanculo i limiti. Al diavolo le multe. Solo noi due, la moto ed il
vento contrario. Liberi.
Quando arrivammo al punto di lancio, quell’idiota
dell’istruttore aveva voglia di fare umorismo: ci ha chiesto
di
scrivere i nostri nomi, in modo da non sbagliare l’ortografia
sulle lapidi. Ace ha sorriso. Io ho spento quelle due dentature
brillanti con uno sguardo.
Lacci, moschettoni, cinture e tiranti. Ace dietro, io davanti.
La piattaforma, il vuoto.
Ace volta la schiena al nulla, io sono costretta ad assecondare quel
movimento.
Guardo l’istruttore che da il via.
Non riesco nemmeno a finire di pensare “no ti prego, Ace
fermati!”. Lui salta.
Aria, vento, vuoto.
Sto urlando? Può darsi, sento la gola che brucia.
Dietro di me la risata del pirata.
Il mondo si ferma, il cuore diventa leggero, tutto sparisce.
È come andare in moto, solo che stavolta non
c’è nulla a tenerti a terra:
c’è solo il vuoto.
Si prova la stessa sensazione del risveglio da un sonno profondo,
quando il letto sembra essere sparito sotto il nostro corpo ed il cuore
perde un battito o più. Solo che poi il letto
c’è.
Quella volta invece, non avevo possibilità di fuga, avevo
solo
la risata di Ace nelle orecchie ed il nulla attorno.
Di quell’esperienza però non ricorderò
solo gli
infiniti rimbalzi, la paura ed il cuore impazzito; nessuno
riuscirà mai a cancellarmi dalla mente la risata di Ace
durante
il salto. Una risata di felice libertà assoluta, unica e
meravigliosa. Semplicemente magica.
Il campanello di casa che suona mi riscuote dai ricordi. Il cuore batte
frenetico al solo pensiero.
Non troverei mai il coraggio di rifarlo, ma non mi pentirò
mai
di aver permesso ad Ace di trascinarmi su quella diga e lanciarci
giù da quell’altezza.
Raccolgo svelta i vestiti e vado ad aprire al moro, che sul viso ha la
stessa espressione di quella mattina di metà Ottobre:
entusiasta
come un bambino a Natale.
Ci salutiamo con un bacio leggero, a fior di labbra, che riesce
comunque a farmi perdere un battito. Il mio povero cuore è
forte, ma quel ragazzo dal viso monello lo mette a dura prova.
«Sei pronta?» Mi chiede, scostandomi un ciuffo
ribelle
dalla fronte. Io annuisco, mostrandogli il fagotto indefinito di
vestiti e sorridendo al pensiero delle risate che si sarebbe fatto quel
giorno.
Non avevo equilibrio. Non avevo forza. Non avevo esperienza.
Eppure avevo il malsano desiderio di imparare a guidare una moto. Stare
con Ace mi aveva decisamente danneggiato l’istinto di
sopravvivenza.
Sorrise, sfiorandomi la guancia leggero e stuzzicandomi le labbra con
il suo respiro, tanto vicino da risucchiarmi l’anima.
Sospirai, mollando malamente i vestiti sul tavolino
d’ingresso e
cingendogli il collo. In punta di piedi, nonostante la differenza
d’altezza, riuscivo a colmare la distanza tra le nostre
labbra ed
in quel momento era l’unica cosa che volevo fare.
Quando sentii la sua bocca rovente sulla mia mi sciolsi, lasciandomi
andare completamente a quel bacio, stringendo le spalle del pirata e
lasciandomi stringere. Tentando di dimenticare la telefonata
appena terminata. Il contatto tra i nostri corpi mi fece fremere ed
ancorare più forte le mie mani ai suoi capelli. In un attimo
i
palmi del moro scesero lungo i miei fianchi, afferrandomi e
sollevandomi completamente.
Strinsi gli occhi, tentando di cancellare il ricordo bruciante della
voce di Elena.
Allacciai le gambe attorno alla sua vita, lasciando che lui poggiasse
la mia schiena al muro. Erano bastati pochi gesti per portare
l’eccitazione alle stelle, ma il vuoto nel mio petto non
accennava a diminuire.
Ace probabilmente se ne accorse. Si staccò lentamente da me,
inchiodando i miei occhi nei suoi d’onice.
«Cosa è successo?» Mi chiese
preoccupato, posandomi
a terra e carezzandomi una guancia con il dorso della mano.
«Niente! Solo una piccola discussione con Elena! Non
preoccuparti.» Mentii sorridendo. Sorrisi mentendo.
Ace lo capì ma non fece domande, semplicemente mi
abbracciò prima di farmi uscire di casa. Talvolta il
silenzio
è la parola migliore che si possa dare ad una persona che
mente
per non dar spiegazioni. Il pirata aveva preferito non affrontare
l’argomento ora, ma sicuramente non avrebbe lasciato cadere
facilmente la questione; avrei dovuto spiegargli l’accaduto,
prima o poi.
Più poi che prima, spero… invano.
Il mio malsano desiderio di imparare a guidare una moto era stato
esaudito, con la stima complessiva di sette cadute, diciotto interventi
del pirata nel reggere il veicolo, o direttamente la sottoscritta, e
ben trentacinque segni sul mio corpo, tra gambe, braccia e addome.
Graffi, botte, slogature e sbucciature: ecco cosa si vedeva sui miei
arti malconci e sanguinanti alla fine di quella giornata.
Il mio problema principale? La fretta.
Ho dato sempre troppo gas, spaventandomi e di conseguenza inchiodando
bruscamente, perdendo l’equilibrio e capitombolando a terra.
Ace aveva ridacchiato le prime volte, quando non mi facevo male se non
nell’orgoglio, prendendomi in giro e tentando di insegnarmi
l’ABC dell’equilibrio.
Dopo svariati tentativi però ero riuscita a partire
decentemente, ma poi avevo dovuto cambiare la marcia ed avevo
nuovamente accelerato. Sono caduta, ovviamente, troppo lontana e troppo
in fretta, fuori dalla portata del pirata.
Ace allora aveva smesso di ridere e si era imbronciato, tentando di
trascinarmi in casa e farmi smettere; ma io, testarda e cocciuta, mi
ero rifiutata.
Ogni caduta aggiungeva un livido sul mio corpo, uno strato di
incazzatura sul moro ed uno smacco al mio orgoglio.
Ecco un altro mio problema: l’orgoglio.
Quante volte mi ero ostinata in qualcosa, peggiorando drasticamente la
mia situazione? Quante volte mi ero fatta male, per non cedere? Quante
volte non avevo pianto, per non dar soddisfazione a chi mi faceva
soffrire?
Tutto per orgoglio. Testardaggine. Stupidità, in fondo.
Verso sera, quando ormai il sole era prossimo al tramonto, ero riuscita
a fare qualche metro; adagio, restando in equilibrio, piano.
La motocicletta però era pesante ed io troppo leggera e
debole per gestirla.
Volevo frenare, ma ho dato gas.
Mi sono spaventata, quindi ho mollato il manubrio.
La moto è andata avanti di scatto, colpendomi allo sterno
con la
manopola del freno e scagliandomi indietro, a terra, maledettamente
vicina alle ruote ancora in movimento.
Ho rivisto Marineford negli occhi di Ace e non mi sono mai sentita
così male.
Non sentivo il dolore del corpo, ma il cuore tremava.
Per stupida cocciutaggine avevo fatto preoccupare a morte il ragazzo
che amavo, rischiando di farmi male davvero.
Riuscii solamente ad articolare delle scuse biascicate mentre mi sedevo
tra la polvere. Ace mi aveva abbracciata, stringendomi forte al suo
petto caldo e baciandomi i capelli.
Io, patetica, avevo pianto.
Ero sempre stata brava a non pensare ai miei dispiaceri, ad occupare il
mio tempo in modo tale da non concedere alla mia mente di elucubrare
sui problemi, ma mai ero arrivata a rischiare la mia stessa vita, pur
di sfuggire al dolore.
Ace mi aveva presa in braccio e portata in casa, disinfettato i graffi
e messo del ghiaccio sulle parti più disastrate del mio
corpo,
il tutto in totale silenzio mentre io piangevo, sempre in silenzio.
Ora stavamo passando la serata accoccolati sul divano, a mangiare
popcorn da microonde e guardando film di serie Z su Telesanterno, un
canale prima sconosciuto che aveva attirato la nostra attenzione
durante lo zapping con uno squallidissimo splatter su pseudo zombie
assetati di sangue.
Ci aveva strappato parecchi sorrisi, alleggerendo un po’ il
mio
cuore, facendomi dimenticare ancora, per qualche istante, i miei
problemi.
Il silenzio regnava sovrano nel salotto bianco, interrotto solo dalle
ridicole grida dei protagonisti alla TV.
Ace non mi chiedeva nulla, non ne aveva alcun bisogno.
Sapeva di come si era disgregato il rapporto con Elena. Sapeva che la
consapevolezza che lui sarebbe scomparso non mi lasciava mai. Sapeva
che quel folle pomeriggio era stato l’apice di un tentativo
di
distrazione mal concluso.
Sapeva tutto e lo capiva.
Capiva che non servivano parole o promesse irrealizzabili per farmi
sentire meglio.
Capiva che solamente con la sua vicinanza poteva lenire quei lividi
invisibili, nascosti dal sorriso che indossavo in ogni momento della
giornata. Con lui quasi tutti i sorrisi erano veri e sinceri, ma non
tutti. Sorridevo anche quando il mio cervello mi ricordava il nostro
futuro impossibile, quando le immagini di Marineford mi tornavano alla
mente, quando il suo cellulare squillava ed il mio cuore,
semplicemente, smetteva di battere.
Sorridevo, come lui.
Fingevo, come faceva lui.
Andavamo avanti, facendo finta di nulla, in comune e silenzioso accordo.
Eravamo, e siamo tutt’ora, totalmente consapevoli di cosa
potrebbe succedere, anche domani, anche ora; ma ci siamo imposti di non
permettere al futuro di impedirci di vivere il presente.
Che frase buffa, non trovate? Di solito è il passato a
mettere i
bastoni fra le ruote alla felicità del presente, non il
futuro.
Ma noi, come coppia e come singoli, eravamo tutto fuorché
convenzionali, no? Una ragazza innamorata di un disegno divenuto
realtà…
A volte mi trovavo a pensare al fatto che sarebbe stato meglio, forse,
poter tornare indietro ed evitare quelle radiazioni. Ace sarebbe
rimasto un disegno, non ci saremmo mai innamorati ed ora non mi starei
consumando il fegato; ma poi mi do dell’idiota pensando a
tutti i
momenti meravigliosi che abbiamo vissuto assieme, convinta che
qualsiasi dolore avrei dovuto affrontare, ne sarebbe valsa la pena.
-----------------------------------------------------------------------------------------
Hem... Salve....
Lo so, sono in ritardo, troppo in ritardo, e ne sono più che
consapevole! Mi dispiace un sacco avervi fatto aspettare tanto, ma
l'ispirazione era svanita quasi totalmente, Elena non collaborava ed ho
fatto alla mia vita troppi cambiamenti in una volta, per riuscire a
tenere le redini di tutto.
Mi scuso, non so che altro fare purtroppo... Non posso promettervi
regolarità, solo assicurarvi impegno incessante e la
concluisione di questa storia. MAI la lascerò a
metà, di
questo potete stare sicuri!
Ora non mi dilungo in altro, scusatemi ancora T_T
Qual'è la
vostra suoneria per il cellulare?
Domanda idiota, ma mi
interessa davvero, e poi almeno facciamo conversazione u.u (ps. un grazie enorme a Gre per la pazienza)
Bacioni!!!!!
Immagini
e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di
lucro
|
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Capitolo 27 *** 26. Auto e legami ***
c1
Novembre. Il quindici per l’esattezza.
I lividi sui polpacci e sulle braccia stavano svanendo, la scottatura
sull’interno coscia, causata dalla marmitta rovente, era
ormai ridotta ad una macchiolina scura.
Nel gelo dell’inverno, che bussava insistentemente alle porte
dell’autunno, guidavo verso il lago, con un pirata
imbronciato ed offeso seduto accanto a me.
Ero sulla mia macchina, alla mia velocità (che, a titolo
informativo, non risultava comunque conforme ai ridicoli limiti
legali), con il mio riscaldamento acceso ed Ace corrucciato, ancora
leso nel suo orgoglio da centauro della strada alla mia categorica
opposizione ad un viaggio in moto; a dieci gradi sotto lo zero e con le
gincane che componevano la strada per casa di Barbabianca, poteva
serenamente scordarselo.
A braccia conserte e col viso imbronciato, intento a guardare il
paesaggio come un moccioso capriccioso al quale era stato rifiutato il
giocattolo, rimane comunque bellissimo.
Scossi la testa dopo quel pensiero, dandomi dell’idiota per
l’associazione istantanea con Twilight; odiavo il mio
cervello a volte, era troppo rapido e troppo recettivo su svariati
aspetti. In pochi secondi aveva già creato un parallelismo
tra la mia vita e quel libro, ma la mia razionalità era
più forte ed aveva la consapevolezza come scudo.
Sì, perché questa non era una favola. Non era una
storia tra una ragazza ed un vampiro che brilla, non era un sogno che
nasce e muore in un nido di calde coperte. Era vita. Era freddo. Era
addio.
Già: addio.
Perché Ace se ne andrà, perché Ace non
può restare, perché Selene deve essere forte,
perché Selene non deve piangere, perché Selene
deve morire dentro.
Sospirai, tentando di buttare fuori i pensieri assieme
all’aria nei polmoni.
Indossai un sorriso e guardandolo nello specchietto sembra quasi vero:
ero brava.
«Dai fiammiferino, appena arriviamo ti compro un dolcetto,
ok?» Lo canzonai, ottenendo di rimando borbottii sulla mia
stronzaggine e minacce di vendetta alquanto strampalate.
Risi di gusto, accelerando un po’ sul rettilineo e superando
una lumaca travestita da BMW; era proprio vero che chi aveva il pane
non possedeva i denti e chi aveva i denti non possedeva il pane.
Per far sì che una Renault Modus sorpassi una macchina del
genere, bisogna essere veramente incapaci alla guida, non sto
scherzando.
Rientrai in carreggiata sghignazzando nello specchietto retrovisore,
già lontana dall’auto appena superata, ma ancora
abbastanza vicina per sentire il forte clacson del veicolo offeso.
Adoravo guidare, mi mancava impugnare il volante della mia formidabile
Portgas D. Anita. Ace era totalmente contrario a questo nome, ma
purtroppo per lui non aveva voce in capitolo.
«Quanto manca?» Chiese, per la decima volta dalla
nostra partenza, avvenuta ben trentasette minuti prima.
«Una vita! Un anno! Quarantamila edizioni della Settimana
Enigmistica! Oda deve finire One Piece prima! Moriremo di vecchiaia in
viaggio!» Sbottai, facendolo offendere ancora di
più e godendomi quei pochi (perché sapevo che
sarebbero stati pochi) attimi di silenzio.
Contai mentalmente.
Uno.
Due.
Tre.
Rumore di motore e ruote sull’asfalto umido.
Quattro.
Cinque.
Uno sbuffo di noia: la calma stava per finire.
Sei.
Sette.
Occhi neri che tentano di leggermi l’orario di arrivo in
fronte.
Otto.
Case all’orizzonte, ma non quelle di nostra meta.
Nove.
«Siamo arrivati?»
«Cristo Ace, nemmeno dieci secondi sei durato!
T’imbavaglio al ritorno! Anzi, ti faccio portare a casa da
Marco, in volo!».
Altro adorabile broncio.
Avrei contato altre quaranta volte, mai arrivando al dieci, prima che
quella maledetta villa entrasse nel nostro campo visivo.
Promemoria per me: inventare il teletrasporto.
«Ma Sely, perché non siamo andati in moto?
Così il viaggio è noioso!»
Ricominciò ad obiettare il pirata, interrompendo, per
l’ennesima volta, con i suoi piagnucolii, Welcome to The
Jungle ed erodendo la mia pazienza. Era, come minimo, la quinta volta
che facevo ripartire dall’inizio quella sacrosanta canzone e
il nomignolo che aveva usato per tentare di rendere innocente la frase
non aiutava i miei nervi a calmarsi.
«Perché fuori fa freddo e non ho intenzione di
ammalarmi per i tuoi capricci!» Rispiegai, ancora una volta,
rassegnandomi alle sue domande sovrapposte alla voce di Axl.
«Non fa così freddo!» Ribatté
convinto, offrendomi su un piatto d’argento la risposta
adatta.
«Ok, allora la prossima volta vengo in moto con te, a farmi
mordere il naso da Jack Frost!» Sogghignai, facendolo
gonfiare di gelosia verso quel nuovo personaggio DreamWorks di
ghiaccio. L’avevo trascinato al cinema a vedere “Le
5 Leggende” e mi ero lasciata sfuggire un commento su quanto
fosse sexy lo spirito dell’inverno davanti a lui: pessima
mossa.
Inutile descrivere la reazione più che offesa del fiammifero
e le conseguenti scenate dimostrative su quanto il fuoco fosse meglio
del ghiaccio; quella battuta mi era costata decine di brontolii, ma mi
aveva regalato la notte più accesa della mia vita, al
termine della quale ero stata costretta ad ammettere di preferire il
fuoco al ghiaccio.
Sorrido al ricordo di lenzuola sgualcite e cubetti di ghiaccio
evaporati rapidamente, impotenti contro il calore del fuoco e
dell’eccitazione.
«Simpatica. Davvero. Devo rinfrescarti la memoria sulla
superiorità del fuoco rispetto al ghiaccio?»
Sibilò, tentando di fingersi indifferente, a pochi
centimetri dal mio orecchio, promettendomi divertimenti e piaceri che
nemmeno riuscivo ad immaginare sul momento.
Self control Selene, stai guidando.
Da bambini ci insegnano a non giocare col fuoco, per evitare di
scottarsi, ma non dicono mai quanto può essere piacevole
l’ebbrezza di sfiorare la fiamma, il brivido del pericolo che
risiede in quelle lingue rosse e bollenti.
Mi sarei scottata, questo lo sapevo, eppure il gioco valeva la candela,
perché si trattava dell’amore più bello
e sincero che avessi mai potuto dare e ricevere in cambio.
Mi sarei scottata, eppure non me ne importava niente.
Mi sarei scottata e mi sarei tenuta stretta le cicatrici, come unico
ricordo del sogno che stavo vivendo. Un sogno che valeva una vita,
notti che sembravano passare in un soffio, ma valevano veramente tutto
il tempo dell’universo.
Sospirai scuotendo la testa, scacciando nuovamente i pensieri,
rimettendomi la maschera di un sorriso. A volte mi sembra di indossare
perennemente la faccia di Guy Fawkes: sorridente, ma con la morte negli
occhi.
Svoltai a destra, verso il lago, in una stradicciola sterrata in
salita. Eravamo praticamente arrivati, ma dirlo ad Ace equivaleva ad
avere un idiota di ottanta chili che saltellava sul sedile: snervante e
dannoso per la stabilità dell’auto in quel tratto
di scosceso, ergo da evitare.
Quando però la salita terminò e ci trovammo
davanti al maestoso ingresso, mi fu impossibile nascondere ad Ace il
raggiungimento della meta.
Il navigatore, messo in modalità silenziosa alla partenza,
s’illuminò di viola, segnalando con
un’allegra bandierina a scacchi svolazzante
l’arrivo a destinazione.
Mi ero stupita della bellezza della casa del moro, ma
quest’ultima sfigurava a confronto di quella mastodontica
opera di restauro.
La villa era sicuramente il risultato di una minuziosa ricostruzione e
di un generoso ampliamento di un vecchio rudere, di quelli con i tetti
sfondati e le pietre tenute assieme dall’abitudine.
Parcheggiai sorridente, ignorando le lamentele incessanti del moro,
super offeso perché non gli avevo detto che stavamo per
arrivare ed indignato con se stesso per non essersi accorto del piccolo
display, dove il fedele TomTom indicava l’orario di arrivo
stimato.
Maledizione a me che non glie l’avevo fatto notare e
all'idiota che aveva creato due strade percorribili per giungere a
destinazione, facendo in modo che il moro non riconoscesse il percorso.
Preoccupante la mia inclinazione ad incolpare individui sconosciuti
delle mie disgrazie, ma dannatamente comodo.
Scesi dall’auto, sbattendo la portiera e mettendo l'allarme
con gesti automatici e naturali, concedendomi intanto una panoramica
mozzafiato del luogo in cui mi trovavo: la casa offriva una vista a
strapiombo sul lago di Garda, color grigio piombo in quel tardo
pomeriggio gelido, bello da star male.
Mi strinsi un po' nel giaccone, prima di avviarmi sul vialetto dove Ace
mi stava aspettando, con la mia borsa tra le mani: glie l'avevo
lanciata prima di partire e me ne ero totalmente dimenticata.
«La vernice nera ti dona, sai?» Ridacchiai,
guadagnandomi una linguaccia ed una mano dispettosa tra i capelli.
Eppure non avevo mentito del tutto, vestito com'era anche una borsetta
da donna non avrebbe danneggiato la sua bellezza; dal cappotto grigio
fumo si intravedeva la camicia bianca, perfetta con quei jeans
antracite e le converse bianche... O almeno lo erano, una
volta… Credo...
Mi aveva chiesto consiglio per fare bella figura, soprattutto con
Marco. Durante quei mesi era venuto spesso a far visita al Babbo, ma
perennemente in tuta da motociclista e quindi senza porsi il problema
dell'abbigliamento; oggi invece eravamo lì per una cena ed
il mio intervento era stato decisamente provvidenziale.
Io stessa mi ero sforzata di vestirmi in maniera vagamente elegante,
evitando di infilarmi i jeans e gli scarponcini di pelle, tanto caldi
quanto orrendi sul piano estetico. Indossavo un abitino color vinaccia,
con pantacollant neri e scomodissime scarpe col tacco in vernice,
anch'esse nere.
Ebbene sì, so guidare con i tacchi, colpa di mia madre e
delle sue convinzioni: "Sei una donna, devi saper guidare con i tacchi,
così potrai sempre vantarti di essere meglio di un qualsiasi
altro uomo alla guida".
Poi la gente si stupisce per come guido, con insegnanti del genere che
speranza avevo di diventare una persona normale? Nessuna.
Ridacchiai al ricordo di Enrico, il mio fantastico istruttore di guida,
che quando mi vide arrivare con un tacco dodici alla quinta guida,
rischiò di sfondarsi il naso col palmo della mano.
Afferrai il braccio di Ace, appoggiandomi a lui per camminare, ed
iniziammo ad avanzare verso la porta.
L'uscio enorme si aprì ancora prima che arrivassimo nei suoi
pressi, rivelando un Barbabianca in tenuta da festa, più che
lieto di vederci.
«Gurarara, ben arrivati ragazzi! Venite, venite, tra non
molto dovrebbe arrivare anche Marco...» Iniziò
solare il pirata, interrompendosi però al suono di un motore
in agonia che tentava di scalare la salita. Un brivido di
consapevolezza mi risalì dalla schiena, facendomi indovinare
ancora prima che il cofano apparisse sia il modello di auto, sia il
guidatore. Era il BMW superato ed insultato pochi chilometri prima, lo
guidava quella fenice incapace ed aveva un disperato bisogno che fosse
inserita la seconda.
Il suono che la mia mano fece, schiacciandosi disperata sulla mia
faccia, attirò l'attenzione del vecchio imperatore dal volto
perplesso e preoccupato.
«Non siate troppo severi, lo sapete che si offende
facilmente...» Disse a bassa voce, facendo scoppiare
definitivamente la risata, trattenuta a stento fino ad allora, di Ace.
Prevedevo una serata veramente nera per la povera fenice, veramente
nera.
L’auto si fermò, grazie al cielo a metri di
distanza dalla mia, sbuffando stancamente allo spegnimento del motore.
Il primo comandante scese, tutto fiero ed impettito in un completo
classico, iniziando a camminare verso di noi.
Sentii le guance tendersi, mi faceva male la faccia da tanto sentivo il
bisogno di ridere, ma resistetti strenuamente. Purtroppo Ace non
possedeva la mia tenacia.
«Ahahahahah, oddio sei la persona più inganfita
che io abbia mai visto!» Sentenziò tra le risate
il moro, facendo scoppiare per osmosi la mia risata, aumentata
ulteriormente dal termine prettamente dialettale appena utilizzato dal
mio pirata.
«“Inga” cosa scusa?»
Domandò Marco, ormai arrivato di fronte a noi.
Toccò a me rispondere, visto che Ace si stava letteralmente
rotolando a terra, contorto in spasmi di ilarità che
aumentavano ogni qualvolta posava gli occhi sulla povera automobile o
il sadico proprietario.
«“Inganfito”, è un termine
dialettale bresciano, in sostanza è un vocabolo che
sintetizza i concetti di impedito, incapace, inetto, scarso,
incompetente, scoordinato: in pratica una persona con
capacità logico-motorie veramente
carenti…» Spiegai rapida, rischiando di uccidere
il moro per le troppe risa, Barbabianca per implosione e Marco per ira
funesta.
Guardandolo innocentemente sorrisi, battendogli la mano sulla spalla
con fare compassionevole, e conclusi : «Vai a scuola guida
Marco, per tanto tempo ancora… Poi ne
riparliamo…»
L’atmosfera ormai si poteva tranquillamente tagliare, il
povero Imperatore non sapeva più che fare, combattuto tra il
confortare un figlio umiliato e l’irrefrenabile impulso alla
risata; alla fine optò per un compromesso.
«Forza entriamo! Si gela qua fuori!
Gurarara…»
No, non era un compromesso, si era semplicemente tirato fuori dalla
faccenda. Edward Ponzio Pilato Newgate, ecco il suo vero nome.
Lasciando cadere l’argomento “Uccelli alla
guida” entrammo in casa, ritrovandoci abbracciati in un
tiepido focolare domestico, arredato in maniera impeccabile con un
gusto rustico e perfettamente in linea con l’ambiente. Qui la
fenice, non aveva avuto voce in capitolo, era evidente.
Il mio cervello aveva sicuramente dei problemi, la prima cosa che
produceva entrando in una casa era: “Cosa penserebbero a
Cortesie per gli ospiti?”.
Real Time poteva rovinare la vita cerebrale di una persona, ormai ne
ero quasi certa!
Scossi la testa, psicologicamente preparata a ripetere
quell’operazione di reset mentale per tutta la durata della
visita.
Barbabianca si sedette sul grande divano di cuoio al centro del
salotto, riuscendo ad occuparlo quasi totalmente, e Marco si
appollaiò sulla grande poltrona posta di fronte al camino
acceso. L’atmosfera era meravigliosa, tanto accogliente da
farmi quasi scordare tutta la folle tensione che mi aveva attanagliato
durante i giorni precedenti e che ero riuscita a scacciare durante il
viaggio, solo grazie al fatto che tutta la mia attenzione
l’avevo focalizzata sulla strada. Ero rimasta sconvolta da
quell’invito, che mi suonava troppo stramaledettamente
ufficiale, non volevo incontrare di nuovo quello che poteva essere
considerato il padre adottivo del mio ragazzo… Risultava
troppo imbarazzante come situazione a mio avviso, eppure mi ero fatta
convincere.
Avevo già incontrato l’imperatore bianco, ma il
contesto ora era totalmente cambiato, ed inoltre l’ultima
cosa che volevo era rivedere Marco e quella sua stupida maschera di
indifferenza inespressiva, troppo simile alla mia per essere
tollerabile.
Nascondevamo entrambi il medesimo segreto, pesante come un macigno sul
petto, eppure sui nostri visi non mancava mai il sorriso. Come ci
riuscivamo? Non ne ho idea, provate a chiederlo a lui.
Sospirando mi avviai verso il secondo divano, posto simmetricamente
all’altro, sistemandomi accanto ad Ace. Si prospettava una
lunga conversazione ed io non ero per niente pronta.
«Sono veramente contento che siate venuti! Selene,
è un piacere rivederti finalmente, ero stanco di sentire Ace
parlare di te! Gurarara» Iniziò il pirata,
facendomi ridere di gusto davanti alle imprecazioni ed i rossori del
moro.
«È un piacere per me, non avrei potuto rifiutare!
Come vi trovate qui?» Chiesi di rimando, con finta
scioltezza, stupendomi sempre di più delle mie doti
recitative; avrei dovuto darmi al teatro.
«C’è perennemente un freddo polare! Come
fate a vivere con questo clima?» Intervenne la fenice, ancora
stizzito per gli sfottò sul suo “stile”
di guida. Il clima del Nord Italia non era sicuramente dei
più miti, ma non eravamo sicuramente in Antartide!
«Siete arrivati all’inizio dell’inverno
in sostanza, il freddo non è ancora arrivato sai? Vedrai a
Gennaio!» Risi, demoralizzando totalmente il povero
comandante della prima flotta.
Parlando di località mi sorse spontanea una domanda, dove
erano finiti tutti gli altri personaggi? Sapevo che i Mugiwara si
trovavano in Africa, nessuno era riuscito a far desistere Rufy
dall’idea di fare un safari, mentre le ultime notizie su Garp
lo davano disperso in qualche stato dell’America
Settentrionale, a strafogarsi di HotDog e altre porcherie.
«A proposito di climi e luoghi, sapete per caso dove sono
finiti tutti gli altri?» Chiesi rapidamente, sia per
curiosità sia per evitare l’argomento
“tu più Ace uguale amore”.
Barbabianca si sistemò meglio sul sofà ed
iniziò a rispondermi, torturandosi un baffo:
«Vediamo, posso dirti solamente che Il Rosso sta girando
tutta la Germania, strafogandosi di birra, i reali di Alabasta hanno
incontrato pochi giorni fa la Regina d’Inghilterra mentre
Ivankov e l’altro okama stanno gozzovigliando in Brasile.
Sembra non sia troppo lontano da lì nemmeno Doflamingo ma
Smoker lo sta tenendo d’occhio da Cuba. A quanto pare i
sigari che fate in questo mondo sono particolarmente buoni,
gurarara!»
Ridacchiai pensando alle destinazioni dei personaggi, che le avevano
scelte con vero senso pratico. Continuando in questa logica, Aokiji non
si sarebbe mosso da un qualche paradiso tropicale per niente al mondo,
mentre quel vampiro mancato di Mihawk aveva sicuramente preso residenza
in Transilvania.
Rabbrividii pensando a quegli occhi ed a cosa avrebbe potuto farmi se
mai, per un bizzarro e sfortunato caso del destino, fosse venuto a
conoscenza dei miei pensieri; altro che sashimi di Selene, mi avrebbe
tramutato direttamente in macinato!
Mi preoccupava un po’ che nemmeno il grande Imperatore
sapesse dov’erano finiti quell’attaccabrighe di
Kidd e il sadico chirurgo, anche se su quest’ultimo qualche
ipotesi l’avevo.
Ve lo immaginate Trafalgar Law al museo dei Beatles, a Liverpool, che
canticchia “We all live in a yellow submarine”? Io
sì ed come immagine risultava esilarante, quasi quanto
Mihawk con i capelli acconciati in stile Dracula.
Ricomposi la faccia e riportai l’attenzione sul discorso,
stavano parlando tranquillamente del più e del meno, dalle
automobili al tempo, fino ad arrivare a vecchie memorie di pirateria.
Sì, perché erano pirati in fondo e bene che si
trovassero, questo non era il loro mondo. Non passava un giorno senza
che la mia coscienza mi facesse notare questo tassello, che mancava
coriacemente alla mia visione giornaliera della vita, che cocciutamente
ignoro.
Vivevo con Ace, Marco viveva con Barbabianca ed entrambi ogni giorno
morivamo dentro, in un lento disgregarsi di organi, che lasciavano
posto ad un’incolmabile vuoto. Sembrava di avere una voragine
nel petto, infinitamente profonda e con i bordi in perenne
deterioramento, sempre pronti a cedere.
Non pensavo a quando quei maledetti scienziati avrebbero trovato il
modo per portarmi via Ace, sapevo solamente che quando sarebbe successo
il mio cuore, semplicemente, avrebbe cessato di battere per il dolore.
Era inutile ripetersi in continuazione che andava tutto bene, che
andrà tutto bene, non bisogna cedere alle lusinghe di
quest’illusione, ogni tanto bisogna pungersi con la
realtà. La rassegnazione era un altro stadio, andava oltre
l’accettazione del dolore, non era mentire a se stessi, non
era ignorare il problema, era semplicemente essere consapevoli di non
poterlo risolvere, di essere incapaci ed inutilmente patetici nel
tentare di rallentarne l’avanzata.
Cosa c’era di male quindi nel chiudere gli occhi e godersi al
massimo gli ultimi momenti di quiete, prima che l’uragano ti
investa con la sua inarrestabile forza? Nulla, farà male in
egual modo, alla fine.
Cartapesta? Ferro? Cera? Gesso? Che maschera mi serviva per resistere a
questa serata, che si preannunciava carica di attimi in cui quella
fottuta voce interiore mi avrebbe detto: “Hey idiota! Se ne
andrà a morire, lo sai?”.
Mi verrebbe sempre da risponderle: “Sì, vocina di
merda, e tu sei troia, lo sai?”, ma resto fermamente convinta
che innescare una discussione con lei sarebbe un chiaro sintomo di
schizofrenia, quindi lascio perennemente perdere. Non che il riferirmi
alla mia voce interiore come se fosse un’entità
estranea sia meno preoccupante, ma lasciamo perdere per il momento,
avrò tempo poi per le sedute dallo psichiatra.
La conversazione avanzava con scioltezza, accompagnandoci alla tavola
apparecchiata e imbandita di ogni leccornia immaginabile.
Ace non fece complimenti, scaraventandosi sui vassoi da portata come
uno sciame di cavallette e mandando il bon ton allegramente a farsi
fottere.
Mi schiaffai una manata in fronte davanti a quella scena, avevo sperato
fino all’ultimo che mantenesse quel briciolo di
umanità che avevo tentato di insegnargli
nell’ambito del cibarsi. Speranza vana. Tempo sprecato.
Risultato inconsistente.
Avete presente le iene del Re Leone con il cosciotto di zebra? Tenetele
a mente.
Ricordate il “piatto del giorno” nelle follie
dell’imperatore? Bene!
Infine, riportate alla memoria il cane grasso del film su Tom &
Jerry.
Ora unite le tre immagini ed appiccicatevi sopra Ace.
Ribrezzo? Schifo totale? Raccapriccio?
Esattamente.
«Ace… Vuoi che faccia una telefonata ad Animal
Planet per fare del tuo “stile di caccia” un
documentario?» Commentai pacata, bevendo un sorso
d’acqua dal mio bicchiere e rischiando di far andare di
traverso il sakè a Barbabianca.
Il moro si fermò, con briciole di non so cosa ancora
attaccate alle guance, e guardandomi con occhi colpevoli diede una
parvenza di civiltà alla sua posizione.
«Uhm… Scusa, è che ho visto tutte
queste cose e non ho resistito alle vecchie maniere…
Eheh…» Tentennò, grattandosi
nervosamente la nuca. Mi faceva morire vederlo così
impacciato di fronte ad un rimprovero.
Sorrisi divertita, seguita dal grande pirata bianco e da Marco, che non
mancò l’occasione di stuzzicare il compagno.
«Ti ha messo in riga, eh?»
«Tu spera che nessuno ti metta mai nel mirino, pennuto da
piattello fosforescente.»
Stavolta toccò a me rischiare l’annegamento con il
bicchiere. L’immagine di Marco trasformato in fenice,
scambiato per un bersaglio mobile, era qualcosa di epico.
Cento punti per chi colpisce la fenice blu!
Il volto di Barbabianca, tutto teso e concentrato a non far notare
troppo il fatto che quell’immagine era passata anche per la
sua testa, fu il colpo di grazia al mio tentativo di mantenere la
serietà.
Le risate invasero la tavolata, come se tutti stessero aspettando il
cedimento di qualcun altro prima di mettersi a sghignazzare ai danni
del povero comandante della prima flotta. Ecco, come mio solito la
figura di merda era toccata a me, bene!
«Scusa Marco, ma l’immagine era troppo
divertente!» Singhiozzai, ricevendo solo un grugnito di
rimando (e detto tra noi, un pennuto che grugnisce era veramente raro!).
La cena andò avanti serenamente e ad oltranza, fino a quando
gli occhi del vecchio pirata mi catturano con la loro
profondità, tanto saggia quanto infantile.
Sì, perché se ci pensate Barbabianca era un po'
bambino, un Peter Pan che non voleva crescere, che continuava ad
inseguire i suoi sogni ed a proteggerli, tenendo al sicuro i suoi bimbi
sperduti e dando loro una famiglia. A pensarci meglio il paragone con
Peter Pan era quasi perfetto, anche se figurarsi Marco nel ruolo di
Trilly era una cattiveria totalmente gratuita e truculenta.
Sorrisi immaginandomi la fenice in tubino verde, ma soffocai la risata
nel tovagliolo: certi argomenti a tavola non si trattano, guastano la
digestione.
«Selene, volevo chiederti una cosa…»
Iniziò l’imperatore bianco, posando le grandi mani
sulla tovaglia bianca e facendo cessare immediatamente il cozzare di
argenteria e stoviglie. Quel silenzio non mi piaceva, era troppo carico
di tensione per essere un semplice silenzio pre-discorso.
«Prego, chieda pure…» Acconsentii,
seppur dubbiosa.
Non mi piaceva per niente quel clima, non mi piacevano gli occhi
saccenti di Marco, non mi piacevano la pietrificazione istantanea di
Ace e tantomeno il pathos che stava creando Barbabianca.
«Prima di tutto, ti chiedo di darmi del tu, non voglio che ci
siano queste formalità tra di noi! Ormai sei di famiglia,
Gurarara!» Iniziò il vecchio, riuscendo a farmi
tirare un sospiro di sollievo. Se mi chiedeva di lasciar perdere le
formalità era una cosa buona, no? All’apparenza
sì, quindi mi chiesi perché sentivo lo stomaco
roteare e tritare gli organi circostanti.
«Ok, non c’è problema hem…
Barbabianca!» Risposi sorridendo, finta e tesa come non ero
mai stata.
«Gurarara, bene! Andrò subito al dunque! Ace ci ha
raccontato un po’ la tua storia, sei molto giovane per essere
rimasta orfana di padre, mi dispiace molto.»
Male, iniziava male quel discorso. Non amavo toccare
quell’argomento. Parole come “orfana” e
“padre” erano un tabu invalicabile, non andavano
usate in un discorso con la sottoscritta. Strinsi i pugni ed abbassai
gli occhi, non per nascondere eventuali lacrime, solo per darmi il
tempo di ricacciare indietro la rabbia.
«Sono consapevole che l’argomento ti faccia ancora
male, ma ho dovuto affrontarlo per farti la mia proposta…
Ormai tu ed Ace siete una coppia, diventa parte della famiglia a tutti
gli effetti, diventa mia figlia!» Concluse.
Le nocche strette erano ormai diventate bianche.
Il labbro morso stava sanguinando, lasciando andare nella mia bocca
quel sapore ferroso e sgradevole.
La rabbia ribolliva dentro di me, come se avesse preso forma e stesse
tentando di uscirmi dal petto.
Alzai lo sguardo, ma non avrei dovuto farlo.
Incontrai gli occhi teneri e buoni di Barbabianca, e non avrei voluto
vederli.
L’espressione del vecchio pirata cambiò,
diventando un misto di stupore e confusione.
Le emozioni forti accecano la mente. Amore, odio, rabbia, dolore,
causano spesso dei microscopici vuoti di memoria, piccoli attimi di
vita che semplicemente svaniscono nel turbine dei sentimenti. Un
caleidoscopio di colori, dal vermiglio al nero, offuscò
istantaneamente la mia mente.
Sentii solo la sedia grattare il pavimento e la fredda aria sulla mia
pelle.
Vidi solo il buio della notte e la luna che si rifletteva timida sul
lago blu scuro. Lo scintillio bianco ricordava le vetrine dei negozi
Swarovski. Sorrisi al ricordo delle volte in cui mio padre mi spediva a
comprare il regalo di anniversario a mia madre, con la raccomandazione
di prendere qualcosa che le piacesse e che non gli prosciugasse il
conto in banca.
Le fiamme dolci delle torce illuminavano il gelo della sera, portando
piccole ancore di calore in quell'oceano blu. Non c'era vento, eppure
il freddo sembra trapassare i vestiti per poi entrarmi nelle ossa. I
miei respiri si trasformavano in leggere nuvole di vapore, prima di
perdersi nell'aria novembrina.
Faceva freddo, ma stavo meglio in questo clima che non in quello caldo
e famigliare della casa. Non ricordavo il tragitto dalla tavola alla
balconata. Potrebbe sembrare stupido, perfino adolescenziale come
comportamento, ma vedere lo sguardo paterno di Barbabianca posarsi su
di me dopo quelle parole leggere, era stato troppo da sopportare. Non
si trattava di una rabbia giustificata, tantomeno di una rabbia
motivata, eppure c'era. Solo mio padre mi aveva guardata in quel modo
durante tutta la mia vita e doveva rimanere così. Non c'era
famiglia che tenesse, non c’erano sentimenti abbastanza forti
da farmi cambiare questa condizione: resterà sempre l'unico.
Barbabianca poteva essere uno zio buono, uno pseudo suocero con i
fiocchi, ma per me non sarebbe mai stato un padre, non potrà
mai esserlo e basta. Io avevo un padre, lo amavo alla follia e lui
amava me. Non ci siamo separati per divergenze di interessi o litigi,
ma per un destino bastardamente stronzo e con un fottutissimo gusto per
la sofferenza altrui.
Non piangevo più davanti ai ricordi, avevo finito le
lacrime, mi era rimasta solo la rabbia abbinata agli sproloqui.
Sentii dei passi pesanti alle mie spalle ma non mi girai, non mi
importava conoscere il mio interlocutore, non era necessario. Non era
indispensabile.
«Ora entro.» Pronunciai, non riconoscendo quasi la
mia voce.
Quanto poteva essere snervante cedere di avere la piena padronanza
delle proprie corde vocali e comprendere che invece non è
proprio così nell'aprire bocca? Troppo.
Avevo finito le lacrime, ma il dolore che stringeva alla gola non era
diminuito, restava lì, come un cappio già
stretto: abbastanza da farti male, insufficiente ad ucciderti.
Mi schiarii la voce e, stringendo le spalle per il freddo ed indurendo
il mio viso in una parvenza di tranquillità, mi voltai verso
la vetrata, ma non la vidi.
Tra il mio corpo e la casa c'era qualcuno che mi impediva la visuale,
qualcuno abbastanza grande da oscurare il chiarore delle luci
all'interno: Barbabianca.
Deglutii una volta, poi alzai piano lo sguardo e mi concentrai sulle
sue sopracciglia. Ricordai in un attimo i libri di Anita Blake, la
spietata sterminatrice di vampiri, che per non cadere vittima
dell'ipnosi fissava sempre un dettaglio nel viso del vampiro, o in casi
disperati la spalla. Io in quel momento stavo facendo la stessa
identica cosa: cercavo di evitare gli occhi ambrati del pirata, in modo
da non rimanere invischiata in quei pozzi di resina liquida.
Stava arrivando un discorso che non volevo affrontare. Un argomento che
non volevo toccare.
Non avrei chiesto scusa, non mi sarei dispiaciuta per il mio
comportamento.
Non era vero che la mia rabbia era ingiustificata ed immotivata, avevo
le mie ragioni ed i miei motivi, valide ed evidenti.
Wendy Darling viveva il suo sogno sull’isola che non
c’è, viveva meravigliose avventure, viveva assieme
ai bimbi sperduti: ma poi tornava a casa, per crescere.
Io non volevo andarmene prima del tempo ma non sarei restata, non sarei
diventata una bimba sperduta. Mai.
Odiavo il silenzio che precedeva un discorso, più di quanto
potessi arrivare ad odiare il discorso stesso, quindi lo spezzai.
Aprii la bocca, presi fiato, tentai di articolare, ma fui preceduta.
«Perdonami, sono stato avventato ed inappropriato. Non ho
pensato che potesse darti tanto fastidio.»
Gli occhi si mossero da soli, cercando le iridi del pirata. Sentii la
sorpresa disegnarsi sul mio viso, in contemporanea alla comparsa di un
gentile sorriso su quello di Barbabianca.
Mi tese la mano ed io inconsciamente la afferrai, senza pensare.
Mi disse che era meglio rientrare, visto il freddo, ed a me stava bene.
Non era arrabbiato, aveva capito, ed io ne ero felice.
Sorrisi mentre rientravo in quella casa e, in quell’istante,
non indossavo nessuna maschera.
-----------------------------------------------------------------------------------------
Salve......
Ebbene sì, non sono morta (e continuerò a non
esserlo se
non mi ucciderete ♥) e sono tornata ad aggiornare questo
parto
infinito di storia xD.
Questo capitolo è stato infernale, tra le
idee che non arrivavano e la rivolta, con sfumature anarchiche, dei
congiuntivi (che non è ancora stata sedata, tanto per
intenderci) l'avrò riscritto in dieci versioni diverse!
[Doveroso applauso di ringraziamento alla poveretta che mi ha
sopportato ad orari improponibili, con i miei sfoghi del tipo:
"Ommioddio
mi sono immaginata Marco con un tubino! Voglio morire", Grazie Otter
♥]
Come al solito non posso che porvi le mie scuse infinite, sperando che
il capitolo abbia smorzato un po' l'amaro dell'immensa
attesa...
Sono mortificata, davvero, ma come avevo già detto ormai non
posso più assicurare costanza e regolarità (e non
avete
idea di quanto mi roda dirlo, visto che sono la prima ad incazzarmi
come una iena quando una storia che seguo viene ignorata dall'autrice
per troppo tempo), posso solamente tornare a confermare l'intenzione
ferrea di finire questa ff a tutti i costi, ed ormai non dovrebbe
mancare molto...
Cioè, non manca molto sul piano
teorico/organizzativo della storia, non chiedetemi di quntificare il
"poco" in capitoli o tempo, temo che sarei costretta a rispondervi come
Selene ad Ace xD.
Finalmente però posso prendermi 5 minuti per sproloquiare un
po'
nelle note d'autrice, che avevo brutalmente concentrato nello scorso
aggiornamento xD
La mia suoneria penso sia... Un incubo che si realizza... Da poco mi
sono appassionata a Naruto, quindi ho pensato bene di impostare come
sveglia e suoneria un mini-Sasuke che trapana i timpani (e i maroni) di
Santo Itachi da Konoha (martire, ovviamente, come dice Nonciclopedia
xD): QUI
trovate
il video, tanto per rendervi partecipi di quanto sia traumatico il mio
risveglio mattutino, quando arrivo al "weeeeeeeaaasel" sto
già
maledicendo
me stessa e tutti i miei avi =P [ed il mondo si chiede:
"perchè non la togli, idiota? " ed in effetti dovrei
farlo...
Però è troppo simaptica ^_^.... Ma la
dovrò levare, altrimenti la mia coinquilina mi ammazza
(sì, me l'ha già promesso T_T )]
Ok, ora mi sto dilungando veramente troppo, quindi saluto i pochi
superstiti, li ringrazio di cuore per avermi retto fino a qui,
ringrazio i recensori, sia i veterani (grazie, davvero ♥)
che le
new entry, che mi danno sempre nuova voglia di impegnarmi al
massimo!!!! Non pensavo che dopo tanti capitoli potessero aggiungersi
altri lettori, mi fate veramente felice!
Grazie anche a chi legge soltanto, aggiunge la storia ai
preferiti, seguiti o ricordati, siete tantissimi e non so
più
come dirvi quanto sia contenta!!!
Adesso chiudo, facendomi ancora un mucchietto di affari vostri, con la
domandina di rito:
Come immaginate
(sognate, forse è meglio xD) la vostra casa ideale?
Così restiamo a
tema col capitolo =P
Mille baci e a prestissimo!!! (si spera....)
Ah, comunicazione di servizio: Ananas Pennuto riprenderà,
promesso! E non andate nel panico se seguivo le vostre storie e sono
sparita, tornerò prima o poi... Devo solo trovare il tempo
P_P )
Immagini
e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di
lucro
|
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Capitolo 28 *** 27. In cucina, no! ***
c1
21 Dicembre: solstizio d’inverno.
Inizio ufficiale della stagione fredda.
Data di panico collettivo pre-natalizio.
Momento durante il quale in un passato remoto, ormai dimenticato,
intere popolazioni si fermavano e veneravano la rinascita del Dio Sole.
Il giorno più breve.
La notte più lunga.
Attimo in cui Sole e Terra sono più vicini.
Apice del loro rapporto di attrazione gravitazionale inarrestabile.
Ace, anche in quel momento, era il mio sole e mi scaldava come non mai.
Eravamo felici, insieme, quasi spensierati. Già, il
“quasi” purtroppo non poteva essere rimosso per
nessuno dei due: a lui mancavano i fratelli e l’avventura,
anche se non lo esprimeva mai, ed io ero perennemente consapevole di
quanto fosse effimero il momento che stavo vivendo.
Il solstizio d’inverno era da sempre etichettato come
“rinascita” e “nuovo inizio” ma
io speravo solamente che non fosse l’inizio della fine.
Nel plumbeo dicembre inoltrato, i metereologi si affannavano ad
allarmare la popolazione con l’allerta neve.
I bambini speravano in quei fiocchi bianchi per poter giocare in
giardino.
I ragazzi pregavano per leggere sul sito scolastico la scritta
“Chiusi per neve”.
Gli adulti confidavano nella buona organizzazione degli addetti alla
pulizia delle strade e nell’evitare le lastre di ghiaccio.
I nonni rievocavano con nostalgia e rimprovero la nevicata
dell’85, per nulla spaventati da altre precipitazioni.
Io invece sapevo che non avrebbe nevicato quell’anno,
perché perfino nella glaciale isola di Drum vento e gelo non
avevano potuto nulla contro il fuoco: la neve aveva smesso di cadere
con l’arrivo di Ace.
Forse avrebbe ripreso a fioccare dopo la sua partenza, se questa fosse
avvenuta entro la fine dell’inverno.
Non sapevo quando il telefono avrebbe squillato per lui: sussultavo
ogni volta che quell’orrenda suoneria della Nokia riempiva la
casa. Una volta era Marco. Un’altra Rufy. Un’altra
ancora Garp che si assicurava che il nipote non finisse nei guai anche
in questo universo.
La mia vita sarebbe tranquillamente paragonabile ad una fascia di
bonaccia: senza vento, soleggiata, senza scossoni d’onda,
senza nulla di pericoloso all’orizzonte.
Immobile inquietudine, nell’attesa che qualcosa di terribile
appaia sulla linea del tramonto.
Sciocca inconsapevolezza, che il pericolo in realtà erano i
mostri tremendi che abitavano quelle acque placide e senza increspature.
Sconcertante ostinazione nell’ignorare il pericolo evidente,
pur di godere di quegli attimi di pura pace.
I pensieri mattutini erano sempre i più strani: ancora
confusi nel sonno ma con una vena di realismo quasi fastidiosa. Unici
momenti in cui potevo pensare alla partenza del pirata senza dover
lottare con le lacrime.
Erano le otto e trenta ed era Sabato: avrei potuto dormire ad oltranza
se non fosse stato per il frastuono, non abbastanza ovattato dai muri,
che invadeva la casa.
Svegliarsi per colpa di strani rumori in casa, era una cosa snervante.
I miei occhi si aprirono svogliati, dopo l’ennesima bestemmia
del moro, preceduta dall’ennesimo rumore molesto e di dubbia
origine.
Sbuffando tentai di liberarmi dal groviglio di coperte che ero riuscita
a creare, alzandomi e riavvolgendomi in un caldo plaid per trascinarmi
verso la fonte di disturbo del mio sonno.
La luminosità che tanto amavo di quella casa, mi risultava
fastidiosa ed eccessiva in quel momento, ed unita alla terribile puzza
di bruciato che proveniva, ahimè, dalla cucina, presagiva
una mia imminente incazzatura.
Appena le mie sinapsi presero a funzionare, i collegamenti furono
istantanei.
Rumore. Ace.
Puzzo di strino. Ace.
Cucina. Ace non dovrebbe essere lì.
Beh, in sostanza il mio problema quel mattino, tanto per cambiare, era
Ace.
«Prima che io varchi la soglia, dimmi esattamente da uno a
dieci, quanto devo arrabbiarmi?» Chiesi, massaggiandomi le
tempie, prima di entrare nel salotto.
Un coraggioso angolo di muro mi nascondeva il nucleo del disturbo
onirico dalla vista, tuttavia la mia immaginazione era dannatamente
realistica ma altrettanto catastrofista.
«Oh, sei sveglia! Hem… Dipende dai punti di
vista…» Rispose il pirata, tra lo stupito e il
preoccupato.
Quando ti dicono che dipende dal punto di vista, conoscendo
perfettamente il tuo e glissando la domanda, mediamente la furia
omicida sale a livelli stellari.
Sospirai prima di fare gli ultimi passi verso quella che un tempo,
nemmeno troppo lontano, era un’innocente cucina.
Non mi presi nemmeno la briga di stare a guardare i dettagli, mi girai
ed andai a spalancare tutte le finestre possibili ed immaginabili,
ignorando il gelo e restando in religioso silenzio.
«Sely…» Biascicò il moro,
sempre più turbato dalla mia calma apparente.
Come un automa mi diressi nuovamente verso il piano cottura, sorvolando
sul grembiule, raffigurante il David di Michelangelo, che Ace stava
orgogliosamente indossando ed accendendo la cappa di aspirazione.
Mi guardai attorno, in cerca di parole per descrivere il macello di
uova, pancetta, cioccolata e altri ingredienti non ben identificabili,
senza successo.
Disastro? Devastazione? Porcile? Letamaio? Porcaio? Mattanza?
Eufemismi.
Presi il braccio del moro e lo trascinai gentilmente davanti allo
sgabello dell’isola della cucina.
Io mi sedetti sull’altro, di fronte a lui, e sorrisi.
Il sangue del pirata si congelò istantaneamente, potei quasi
vederlo mentre si cristallizzava nelle vene. Buffo, per un ragazzo
fatto di fuoco, no?
«Ora, prima che l’altra parte di me prenda il
sopravvento, aggiungendo a questo… Agglomerato informe di
roba, brandelli della tua carne, dimmi cosa stavi facendo e
perché. Sii convincente.» Asserii, incrociando le
braccia al petto e stringendomi di più nella coperta: dalle
finestre entrava un vento polare ma almeno la puzza di bruciato stava
passando.
Ace fece per grattarsi la nuca, rinunciando a quel gesto nervoso dopo
aver notato le incrostazioni (di non so cosa) che gli ornavano le mani
e parte dei polsi.
«Beh ecco… Stavo cucinando la colazione ma la
situazione mi è sfuggita di mano… Il libro di
ricette parla in modo stranissimo ed io penso di non essere capace di
cucinare… Eheh…» Ridacchiò,
fingendo malamente scioltezza e sicurezza.
Feci scorrere nuovamente lo sguardo su quello che ricopriva il marmo,
individuando cucchiai, forchette, spremiagrumi, pelapatate e lo shaker.
Cosa cazzo pensava di fare con uno shaker? Il pelapatate, a cosa era
servito? Ma soprattutto, cos’era quella sostanza giallina che
ricopriva quasi totalmente il piano?
«Ace, quella cos’è?» Domandai,
ancora incerta sul voler sapere o meno l’origine di quella
roba.
«Ah, è la farina per fare i pancake! Volevo farti
la colazione americana, visto che dici sempre che andare in America ti
piacerebbe!» Disse, sincero ed ingenuo come al solito.
Il nervosismo iniziale per la spiacevole sveglia si era praticamente
dissolto, lasciando spazio ad un senso di ribrezzo verso le condizioni
della cucina e di dolcezza per il moro. Si era impegnato nel fare
qualcosa che non era minimamente in grado di gestire, solo per me:
incazzarsi sarebbe stato da stronzi e pur definendomi una grandissima
carogna in molte situazioni, riuscivo a non esserlo nei casi
più importanti.
Ridacchiai alzandomi dallo sgabello ed andando a chiudere le finestre,
mentre dicevo ad Ace di lavarsi le mani ed iniziare a ripulire quello
schifo; gli avrei dato una mano a preparare quella santa colazione,
sperando che in dispensa fosse rimasto qualcosa.
Ignorai il fatto che avesse tentato di fare delle ciambelle con la
farina per la polenta.
Sorvolai sull’idiozia di utilizzare uno scolapasta per
separare chiare e tuorli.
Rifiutai di considerare plausibile l’ipotesi che avesse
tentato di cuocere i muffins nella pentola a pressione.
Ero dannatamente brava ad ignorare l’evidenza.
Un ora e venticinque minuti dopo stavo addentando il mio pancake alla
Nutella, seduta con il pirata in un luogo che aveva ripreso le
sembianze di una cucina.
Scrostare tutto quel pattume era stato impegnativo ma condito di tante
risate, dovute all’illustrazione più che convinta
del moro su come aveva tentato di fare le cose.
Spiegargli gli arcani significati di “chiare montate a
neve” e “rosolare”, mi aveva divertita in
modo particolare.
Sì, aveva tentato di montare le chiare con lo shaker e,
parlandomi della rosolatura, aveva detto, testualmente: “Io
ho pensato che volesse dire far diventare rosa, ma il bacon
è già rosa! Mi ha confuso quel libro, poteva dire
di farlo dorare!”.
Avevo riso come un’idiota a quell’affermazione
e ripensandoci era inevitabile sorridere; oppure era solo
colpa della Nutella.
Quella crema tentatrice era in grado di causare ilarità
istantanea a chi ne faceva uso, resto tutt’oggi convinta che
sia una droga: legale, ma droga.
Persa tra i miei pensieri non mi accorsi delle labbra di Ace che,
imbrattate di marmellata, si erano avvicinate pericolosamente alle mie.
Dopo un leggero sussulto di sorpresa lo baciai, unendo la crema di
nocciola alla confettura di albicocche: il sapore era uno schifo, ma
l’emozione che aveva catalizzato ne offuscava totalmente
l’importanza.
«Marmellata e Nutella non è un’abbinata
vincente!» Sorrise a fior di labbra il pirata, tornando poi a
sedere al suo posto.
Durante quello spostamento non potei non notare nuovamente il
grembiule: ornamento capace di spegnere istantaneamente qualsiasi tipo
di attrattiva pseudo erotica.
«Ti prego, togli quel coso… È
raccapricciante!» Ghignai, pulendomi gli ultimi residui di
cioccolato dalla bocca ed osservando il viso imbronciato del bel pirata.
«Non è vero, mi sta bene invece, sembro uno
chef!» Borbottò, alzandosi per mostrarmi meglio
l’effetto che, secondo lui, faceva.
Mi fu impossibile tenere a freno occhi, lingua ed encefalo.
Mi fu impossibile non notare l’irrisorio
“utensile” da riproduzione del povero David.
Mi fu impossibile evitare di partorire una battuta dalla malizia
incontenibile.
«Mah, io non mi vanterei di avere in dotazione da Madre
natura, un cosino così… Ridotto sul piano
volumetrico.» Esclamai, enfatizzando il finale della frase
con un eloquente gesto della mano.
Solo due cose non andavano mai criticate ad un uomo: il mezzo di
trasporto ed i gioielli di famiglia.
Mai commentare negativamente automobile, motocicletta, caravan,
bicicletta o triciclo che fosse e mai ironizzare sulle dimensioni del
pene: pare siano particolarmente suscettibili su questi argomenti.
Sul viso del pirata passarono un quantitativo invidiabile di emozioni,
dall’offesa all’orgoglio, dal dubbio alla vendetta:
e quest’ultima mi spaventava non poco.
Non feci in tempo a tentare la fuga in camera, il corpo di Ace mi stava
già schiacciando contro il marmo della cucina, mentre la sua
bocca si trovava maledettamente vicina al mio orecchio.
«Fossi in te, non scherzerei su certe
cose…» Sussurrò rovente, prima di
iniziare a baciarmi il collo con esasperante lentezza.
In pochi secondi era riuscito a portare l’eccitazione ad un
livello quasi insopportabile, facendo quasi bollire il mio sangue e
cuocendomi definitivamente il cervello.
Seppi solo cercare le sue labbra, stringere le braccia attorno al suo
collo e lasciarmi trascinare in un vortice di fuoco dalla sua lingua.
Non ricordo come e tantomeno quando, ma i piatti dietro di me erano
spariti, spinti da un lato, assieme a tutto quello che avevamo usato
per la colazione.
La coperta era già caduta da un pezzo dalle mie spalle e le
dita del moro stavano iniziando a farsi strada sulla mia schiena, sotto
la tela sottile del pigiama.
Non si fermò a litigare con il gancetto del reggiseno,
preferì farci passare sotto un dito e fondere il tessuto.
Era il quinto che faceva quella fine.
Avevo smesso di arrabbiarmi dopo il terzo.
Gli morsi le labbra, unica rimostranza che attuai verso quella violenza
verso il mio vestiario, ma invece di pentimento provocai solamente un
aumento della frenesia.
Strattonai verso il basso il tessuto della maglietta, mentre tentavo al
contempo di slacciargli quel grembiule. Ci riuscii e lanciai sul
pavimento quell’orribile pezzo di stoffa, presto raggiunto da
altri vestiti.
Le mani di Ace erano ovunque, facendomi sussultare e gemere sulle sue
labbra cariche di maliziose promesse.
Adorava torturarmi in quel modo, martoriandomi di attenzioni,
divertendosi guardando le mie espressioni ed ascoltando i miei respiri.
Non so dire quanto andò avanti, so solo di aver rischiato la
follia.
Ricordo le labbra di Ace scendere sul mio addome.
Ricordo di essere rabbrividita quando la mia schiena aveva toccato il
marmo gelido.
Ricordo che della scomodità della cucina come luogo per fare
l’amore, me ne era importato davvero poco.
Ricordo di aver graffiato e gridato.
Ricordo di aver strappato dei gemiti al pirata.
Ricordo… In verità ricordo veramente molto poco
di ciò che era successo in quel frangente.
Le emozioni forti causano spesso vuoti di memoria, caleidoscopici
fotogrammi di vita sparsi a random nel nostro cervello, uniti solamente
dal sentimento che in quel momento li ha frammentati.
Forse abbracciai Ace mentre era ancora dentro di me.
Forse mi sollevò e portò in camera da letto.
Forse mi ero addormentata poco dopo, ancora avvinghiata
all’uomo che ormai era padrone del mio cuore e del mio corpo.
Forse ricevetti delle carezze tra i capelli ed un bacio sulla fronte.
Forse sentii un “ti amo” sussurrato, talmente piano
che non avrei potuto percepirlo se non a quella minima distanza.
Beh, forse ero caduta tra le dolci braccia del sogno e di non sapevo
distinguere cosa veramente era stato reale e cosa, invece, solamente un
sogno.
Era il solstizio d’inverno. Faceva freddo fuori dai vetri
appannati.
Eppure non nevicava. Non ancora.
Magari avrebbe nevicato lo stesso, nonostante la presenza di Ace.
Dopotutto la stagione fredda era appena iniziata, c’era
ancora tempo per la neve.
Speravo. Mi convincevo. Sognavo.
Era il solstizio d’inverno. Faceva caldo tra quelle coperte.
Eppure non mi importava di nient’altro.
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Eccomi qua! Dai, stavolta l'attesa non è stata plurimestrale
almeno, no? xD
Ok ok, sto zitta che è meglio, ho colto il messaggio!
Mi spiace davvero farvi aspettare tanto... Colgo il vostro disappunto
dal boicottaggio, ma davvero non lo faccio per creare suspence, giuro
T_T
L'ispirazione sembra tornata, timida e labile ma c'è!
Quindi in teoria ora gli aggiornamenti saranno leggermente
più costanti (le ultime parole famose T_T)!
A testimonianza del ritorno della suddetta, mi faccio un po' di
autosponsorizzazione con la mia prima OS su Rufy, Freedom's
Punch, e la mia prima OS nel fandom di Naruto, Laughing
in the purple , con Suigetsu come protagonista (Sono in vena
di prime volte insomma! xD)!
Cooomunque, la mia casa ideale? due parole: Enorme e accogliente! xD
Ora, la domanda:
Con cosa fate
colazione? (rimaniamo in tema xD)
Spero che il capitolo vi
sia piaciuto, stando ai calcoli (sicuramente errati) che ho fatto,
mancano circa 3/4 capitoli all'inizio della fine....
Inizierò a riavvolgere la trama della storia ed a tirare
tutti i fili necessari per giungere alla parola "FINE" per questa
storia! (Chiamatemi Sasori d'ora in poi xD)
Mi spiacerà finire questa storia...
Ormai è passato un anno dal primo capitolo, è la
mia Long più long xD Non pensavo sarebbe diventata un
progetto tanto impegnativo, lo ammetto! (la fine era prevista per
settembre, pensate un po'!)
Eppure sono contenta! =D Cambiano tante cose in un anno vero? Non ce ne
si rende quasi conto ma è tanto tempo...
Bene, chiudiamo la vena nostalgica! xD
Un baciotto enorme!
A presto!
Immagini
e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di
lucro
|
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Capitolo 29 *** 28. Tic Tac! ***
c1
Dieci Gennaio del nuovo anno.
I buoni propositi erano già in parte sfumati.
Il mondo non era cambiato.
Milioni di persone continuavano a fare la solita vita, la solita
routine, i soliti errori.
Le guerre continuavano, la fame nel mondo non finiva, le parolacce non
erano diminuite e il cane al mattino continuava ad essere portato fuori
da genitori svogliati.
Fioretti, promesse ed impegni per il nuovo anno: ipocrisiaci e diffusi
attimi di lucidità mentale, nei quali la gente si rendeva
conto di quanto stesse sbagliando, si impegnava a non perseverare
nell’errore e consapevolmente faceva un voto destinato ad
essere infranto.
Il cielo era bellissimo, con quell’azzurro pallido ma
perfetto ed il Sole piccolo, freddo, quasi bianco.
Chissà cosa pensa il Sole di noi terrestri e delle nostre
vite; probabilmente si annoia a morte nel constatare quanto siano
monotone e ripetitive, oppure ride delle nostre disgrazie e della
nostra totale incapacità di vivere senza farci del male.
L’essere umano di base potrebbe essere definito come la
personificazione dell’autolesionismo. Conoscete animali che
si auto infliggono dolori e pene come gli uomini? Personalmente no.
Sbuffando, appoggiai la fronte al freddo vetro della finestra della
camera, appannandomi la vista con la condensa del mio stesso fiato.
D’inverno avere gli occhiali era un inferno, più
di quanto già non lo fosse durante l’estate, ma
era un fastidio sopportabile, confrontato con la sfocata
opacità che mi avrebbe circondata senza quelle lenti di
vetro.
Mi allontanai dalla vetrata ed avanzai nella stanza, soffermandomi
davanti al grande specchio appeso al muro ed iniziando a guardarmi, di
profilo, toccandomi leggermente la pancia gonfia.
Il periodo che segue le feste di natale è un tragico destino
che accomuna tutti: la dieta.
Più che ciccia era gonfiore, causato dalle bevande alcoliche
e gassate, dalla qualità poco raccomandabile del cibo
ingurgitato e dalla totale mancanza di frutta e verdura
nell’alimentazione, ma era comunque sgradevole da vedere.
Iniziai a tirare e rilasciare i muscoli addominali, creando un bizzarro
alternarsi tra malata magrezza e buffa rotondità.
Ah, dimenticavo, il ciclo ovviamente non migliorava la situazione di
gonfiore: una taglia in più di reggiseno ne era la prova
tangibile.
Ace entrò in camera con un pacchetto di patatine, tanto per
restare in tema alimentare, e rimase inchiodato sulla porta,
guardandomi con occhi sbarrati.
«Oh… Oddio!» Esclamò,
lasciando cadere a terra il sacchetto, che sparse il suo unto contenuto
sul pavimento, facendomi gonfiare istantaneamente la vena occipitale.
«Ma sei deficiente o cosa?» Ringhiai, alternando lo
sguardo tra la sua faccia ed il pavimento rivestito di croccanti grassi
idrogenati.
«Selene mi dispiace! Oddio ti prego scusami! Ti ho rovinato
la vita, perdonami! Cosa possiamo fare?» Continuò
trafelato il moro, passando sopra al porcaio che aveva prodotto,
ampliando il raggio del disastro, e prendendomi delicatamente e con
premura le spalle.
Magari le patatine erano scadute, oppure lo era tutto quello che aveva
ingurgitato prima di arrivare a quel pacchetto.
Magari durante il parto era restato troppo senza ossigeno, oppure
quella santa donna di Rouge l’aveva partorito in piedi,
facendolo cadere di testa. Cristo, qualcosa per giustificare tanta
demenza doveva essere successo!
«Ace, ti droghi o mi prendi semplicemente per il culo? Ma ti
sei reso conto di quello che hai sparso sul pavimento, razza di
troglodita antropomorfo?» Articolai, guardandolo con occhi
che somigliavano sempre di più ad uno sharingan.
Il pirata mi guardò, con occhi persi e confusi, con il viso
perplesso ed un’espressione dolcemente preoccupata. Odiavo
essere guardata così, sembrava che fossi io la demente di
turno, e non lo ero.
Feci un cenno col mento, un muto “Allora?”, che non
ottenne risposta se non un abbraccio.
Ok, basta, il mio ragazzo si drogava; e glie la tagliavano anche male a
giudicare dai comportamenti.
«Mi dispiace, non volevo che succedesse, soprattutto sapendo
che prima o poi dovrò andarmene… Ma non
preoccuparti, tenterò di fare il possibile perché
riusciate a stare bene anche senza di me, almeno sul piano
economico… Tsk, io che pensavo di essere diverso da lui, mi
trovo a fare la stessa cosa, abbandonare la mia donna nel momento del
bisogno con -»
«MA TI SEI TOTALMENTE RINCOGLIONITO?!?! CAZZO, NON SONO
INCINTA!!!! IDIOTA!» Urlai, staccandomi di dosso il moro e
scuotendolo per le spalle.
«Sei un cretino! Saltare alle conclusioni senza pensare! Ho
il ciclo da due giorni come cazzo pensi sia possibile che io sia
incinta, eh? Ma ragioni prima di parlare, sottospecie di caprone che
non sei altro???» abbaiai, scuotendolo per il colletto della
maglietta, stile Homer Simpson con Bart: mancava solo che lo chiamassi
“brutto bacarospo” e le avrei fatte tutte.
Quando fermai la mia attività di shakeramento i miei occhi
erano decisamente furenti.
Il tuo ragazzo che ti crede incinta e te lo dice, in periodo mestruale
e con i chiletti postnatalizi sui fianchi, era qualcosa che la psiche
umana non poteva comprendere ne tantomeno sopportare.
Ace era in pericolo di vita in quell’istante, lo sapeva, e
stava indietreggiando, facendo scricchiolare le merdose patatine al
formaggio che giacevano sul pavimento.
«Ah… Hem… Ho frainteso evidentemente..
V-vado a prendere una scopa… E-e qualcosa per
pulire… V-vuoi una fetta di torta?»
La torta? La grassa, unta, cioccolatosa e ipercalorica fottuta torta
che c’era in sala? Questo era troppo.
«ESCI DI QUI!»
Schiena dritta e dietrofront istantaneo. In meno di cinque minuti il
pavimento era di nuovo pulito e la porta della camera da letto chiusa.
Mi accasciai sul letto, con i testicoli appena spuntatemi in fase di
rotazione e l’isteria a livelli incalcolabili.
Maledetto Natale. Maledetti ormoni. Puttana quella Eva, quel demente di
Adamo e quella merda di serpente tentatore! Anzi, fanculo decisamente
ad Adamo, se si fosse deciso a dare sta benedetta banana a quella
ninfomane mancata di Eva non si sarebbe mai arrivati
all’estremo di chiedere la mela al serpente parlante.
Mi lanciai con la schiena sul piumino, dandomi dell’idiota
per i pensieri appena fatti riguardo al “peccato
originale”: gli sbalzi ormonali erano fastidiosamente dannosi
per l’attività cerebro-organizzativa del cervello,
senza parlare dell’effetto sgradevole che avevano sulla
volgarità latente che tampinava il mio linguaggio.
Forse, invece, tutti i grassi che avevo ingurgitato nelle
festività avevano danneggiato l’afflusso di sangue
al mio encefalo e stavo diventando semplicemente rincoglionita.
Era stato un periodo impegnativo sul piano sociale: tra cenoni, pranzi
e varie feste le nostre famiglie avevano dovuto conoscersi, con
figuracce e attimi di imbarazzo degni dei peggiori film cinepanettone.
Ricordavo chiaramente il pranzo di Natale, tenutosi nella casa della
mia nonna paterna, durante il quale avevamo rischiato il soffocamento
all’arrivo in tavola di un grasso fagiano ripieno:
l’associazione con Marco era stata istantanea perfino per
Barbabianca.
Il povero imperatore ormai aveva rinunciato a frenare gli attacchi di
innato sarcasmo ai danni della Fenice e, se è noto che
andando con lo zoppo si impara a zoppicare, essendo circondato da
machiavelliche carogne che coglievano riferimenti ovunque, aveva
iniziato ad avere occhio per tutto ciò che poteva scatenare
battutacce.
Non aveva per niente aiutato la seconda portata: “polenta e
osei”.
Io non riuscivo a mangiare quella pietanza, come non mangiavo il
coniglio, la gallina, l’agnello e il capretto. I motivi?
Avevo avuto un coniglietto nano, mia nonna mi strozzò una
gallina davanti agli occhi quando avevo sei anni ed Heidi aveva segnato
profondamente la mia infanzia. Per gli uccellini il processo mentale
era semplice: mi piaceva vederli volare, non in padella.
La nonna materna aveva dato dieci euro di mancia ad Ace
perché andasse da un parrucchiere a farsi tagliare i capelli
ed aveva lodato i baffi dell’imperatore bianco, che le
ricordavano tanto il nonno. Quando una vecchietta di oltre
ottant’anni inizia a rispolverare i ricordi di
gioventù è la fine per tutti quelli nati dopo la
seconda guerra mondiale (o forse era la prima?).
Le risate erano andate crescendo di pari passo alle bottiglie di vino
vuote, facendo in modo che quando giunse il momento del pandoro con la
crema, l’unico ancora convinto di essere sobrio era il buon
vecchio zio Piero, il quale tentò di affettare il dolce con
un mestolo di legno.
Gli stomaci gonfi, le guance rosee, i muscoli del viso dolenti per le
troppe risa ed una imminente ribellione del fegato erano stati i
risultati di quel pranzo.
Per capodanno volevo fare qualcosa con i miei vecchi amici, ma poi
avevo annullato tutto.
Avevo mandato un invito anche ad Elena. Non aveva risposto.
Non l’avevo più sentita. Non l’avevo
più vista.
Una vicina pettegola mi aveva bisbigliato dell’imminente
divorzio dei suoi genitori, erano sull’orlo della separazione
ormai da anni, e di un suo abbandono scolastico.
Si diceva avesse mollato l’università, stesse
spesso fuori di casa e tornasse e partisse ad orari improponibili della
notte.
Si vociferava di cattive compagnie, di droghe, di satanismo perfino.
Non avevo prove di ciò che mi dicevano e nemmeno chi
raccontava queste storie ne aveva ma, in un piccolo paese, quando una
persona si rifiuta di condividere la sua vita privata con la
collettività, era quest’ultima a creargliene una,
ricca delle più riprovevoli azioni e dei vizi meno nobili.
Le chiacchiere, però, vere o false, possono essere
rivelatrici. Sapevo per certo che Elena non si sarebbe mai fatta
trascinare in stronzate come sette o bande di drogati, era troppo
intelligente, eppure non potevo far altro che preoccuparmi
terribilmente per ciò che non sapevo.
Ciò che è noto ci ripugna, ciò che
è ignoto terrorizza.
Il pensiero di cosa fosse capitato alla mia migliore amica era simile
alla consapevolezza che Ace sarebbe ripartito: perennemente presente,
cronicamente angosciante ed indimenticabile.
Mi chiedevo spesso se sarebbe mai tornata da me.
Se mi avrebbe mai spiegato cosa le era preso.
Se l’avrei rivista.
Se saremmo tornate a parlare per ore ed ore sotto al piumone.
Se avremmo avuto l’occasione di ridere ancora, assieme,
davanti ai cartoni animati di Boing, trovando similitudini con i
personaggi delle serie più demenziali.
Se sarei riuscita, un giorno, a guardare ancora Zig and Sharko senza
vedere me e lei nei nostri attimi di demenza acuta.
C’erano, come sempre, troppi “se” nei
miei pensieri, nella mia vita, in tutto.
Gli attimi in cui restavo da sola, incapace di sfuggire al mio
cervello, erano i più difficili da affrontare. Quando stavo
con Ace, mia madre o comunque altre persone riuscivo facilmente a
distrarmi, ad intavolare una discussione con qualcuno, a comporre
monologhi strazianti per le orecchie altrui, a coprire la voce del
cervello con la mia.
La parola, la lingua, era sempre stata la mia arma migliore: ottima
spada, perfetto scudo.
Quando parlo mi concentro, compongo frasi articolate, ragiono sul
periodo che sto gestendo, sui verbi da coniugare, sugli aggettivi da
usare, sull’enfasi da dare e sono libera da qualsiasi altra
cosa.
Il silenzio invece è pieno di voci, di ricordi, di immagini,
di frasi spezzate, di lacrime nascoste in un cuscino, di previsioni che
molti definiscono pessimistiche ma in verità sono solo puro
realismo.
Chissà perché con i problemi degli altri siamo
perennemente in uno stato di positività snervante, mentre
quando si tratta di noi stessi l’umore va a far compagnia ai
vermi.
Forse fingiamo di essere positivi?
Forse tentiamo di trovare il lato migliore delle cose perché
non ci toccano?
Oppure lo facciamo per rassicurare il prossimo? Per lasciargli
l’illusione dell’inconsapevolezza?
Non lo so sinceramente. Credo che non lo saprò mai. Fatto
sta che ora sono sola. Ora c’è silenzio. Ora
arrivano i ricordi.
Natali, cenoni, risate, bottiglie di vino e banchetti memorabili. La
mia famiglia.
Capodanni, alcool, neve, liquori rubati dalle vetrinette dei parenti,
amici da sostenere, botti e fuochi che sembrano farti vibrare il petto
al ritmo del cuore.
Ace, che quel capodanno l’aveva passato con me.
Non avevamo fatto nulla. Non avevamo accettato inviti, non avevamo
comprato alcolici, non avevamo programmato abbuffate: solo una cena al
sacco, noi due e la moto.
Eravamo andati in quel prato deserto, meta della nostra prima uscita,
muniti di coperte e di una tenda da campeggio per poter stare in pace e
goderci lo spettacolo dei fuochi d’artificio. Da
quell’altura avremmo avuto una vista meravigliosa sia delle
gare pirotecniche tra i paeselli, che dello spettacolo offerto dalla
sottile striscia di lago, appena visibile lungo la linea
dell’orizzonte, ma che sarebbe diventata un nastro di raso
dorato allo scoccare della mezzanotte.
Mangiammo, facendo finta che non fosse nessun giorno speciale, ed allo
stesso modo ridemmo e scherzammo fino al momento in cui il mio
cellulare non iniziò a suonare, a pochi minuti dalla
mezzanotte, per la telefonata di auguri di mia madre.
Sugli occhi di Ace calò un leggero velo di tristezza
all’avvicinarsi del primo giorno del nuovo anno, che non
rappresentava solo la sua nascita ma gli ricordava costantemente la
morte di Rouge.
Tirai fuori dallo zaino un cupcake al cioccolato, ci infilai
brutalmente una candelina e l’accesi con il piccolo zippo che
mi ero portata dietro (nonostante fossi in compagnia di un fiammifero
ambulante, non mi pareva carino fargli accendere la sua candelina).
«Almeno questo, concedimelo… Buon
compleanno!» Dissi, porgendogli il dolce e sperando solamente
che non si arrabbiasse.
Rimase attonito per qualche istante ma poi sorrise, chiuse gli occhi e
soffiò sulla piccola fiammella. Ora che era rimasta
nuovamente solo la luce della torcia elettrica ad illuminarci, faticavo
a vedere bene i suoi lineamenti ma avrei giurato di scorgere un vago
sorriso.
Il moro si avvicinò al mio viso, scostandomi un ciuffo
ribelle sfuggito alla berretta di lana, e dandomi un leggero bacio
sulle labbra. Da così vicino riuscii a vederlo bene in
volto: sorrideva, nonostante la vaga patina di tristezza, stava
sorridendo e per me non c’era inizio migliore.
L’inizio di un nuovo anno, l’inizio di un nuovo
periodo, l’inizio di qualcosa di nuovo e migliore. Non
credevo si potesse percepire l’attimo esatto in cui si taglia
un traguardo e si inizia un’altra corsa, ma invece
l’avevo appena fatto!
Era come una linea leggera, a mezz’aria, appena percettibile
e invisibile, un punto di partenza per dimenticare i dolori passati, il
primo passo di un nuovo cammino, è il mattino, è
la luce che illumina i tuoi passi futuri ma non riesce a farti vedere
la fine.
L’inizio fa paura proprio perché lascia un sapore
di ignoto, perché è parte della tua storia che
inizia a prendere forma, a comporsi, a far parte di te.
Ace era il mio inizio ed io ero il suo.
Peccato che la nostra fine fosse fin troppo visibile e
l’oscurità avvolgesse solamente la durata e la
forma del nostro percorso.
«Usciamo, staranno per iniziare!»
Sussurrò piano. Io annuii semplicemente, chiudendo stretto
il giubbotto e seguendolo fuori dalla tenda.
Avemmo il tempo solo di avvicinarci al pendio ed abbracciarci, con il
suo mento che premeva delicatamente sulla mia testa, prima che il cielo
si tingesse di tutti i colori possibili. Iniziarono prima alcuni
piccoli spruzzi di colore, qua e là, seguiti da leggeri
botti, poi tutto d’un tratto la luce illuminò
tutto il paesaggio ed i rimbombi delle esplosioni riempirono
l’aria.
Rimasi senza fiato di fronte a quella sincronia quasi angosciante,
sentendo il cuore palpitare ad ogni botto.
Adoravo i fuochi d’artificio, fin da piccola mi avevano
regalato emozioni bellissime ed uniche. Probabilmente era proprio
destino che io fossi tanto affascinata dalle varie sfaccettature
dell’elemento del fuoco.
Ridacchiai sommessamente al ricordo di quella serata, alleggerita da un
fuoco d’artificio giallo e azzurro che aveva inevitabilmente
fatto sbellicare entrambi.
Il piumone morbido mi avvolgeva la schiena.
Il cielo invernale era sempre grigio pallido e glaciale.
Il telefono della casa squillò due volte prima che Ace
rispondesse.
Sentii solo le risposte del ragazzo attraverso la porta.
“Sì, sono io.”
“Ok…”
“Quando?”
“Sì, va bene.”
La mia vista si annebbiò, sentendo il pirata riagganciare e
non muoversi.
Potevo vederlo nella mia mente, in piedi davanti al tavolino di vetro
sul quale giaceva perennemente il suo cellulare.
Le braccia e la schiena tese.
La testa china.
Sentii le prime due lacrime scavarmi le tempie e rifugiarsi nei capelli.
Il respiro annaspare nel primo singhiozzo.
Il cuore foderarsi con un’armatura di freddo metallo, in modo
da non farsi vedere mentre si sgretolava come un pezzo di carta
bruciato esposto al vento.
La porta si aprì e richiuse.
Il letto si affossò al mio fianco.
«Quando?» Riuscii ad articolare.
«Il 25 Gennaio a Tokyo. Il trasferimento inizierà
il giorno stesso.» Recitò atono, ripetendo
esattamente le parole che aveva sentito al telefono.
Chiusi gli occhi.
Strinsi i denti.
Restai immobile, come Ace.
La telefonata tanto temuta era arrivata, ed aveva già
distrutto tutto quanto.
Avevo appena ricordato l’inizio e mi era già stata
annunciata la fine.
Quindici giorni.
Tic tac.
Tic tac.
Tic tac.
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Hem, beh... Penso che chiedere scusa ormai non basti più, ma
non posso fare altro....
Mi dispiace davvero moltissimo avervi lasciati tutti così,
senza avviso ne motivo, con la storia ormai a pochi passi dalla fine.
Mi scuso, non so cos'altro aggiungere, davvero, se potete perdonatemi e
non date alla storia colpe che sono solo della sua pessima autrice...
Spero che nonostante l'attesa infinita il capitolo vi sia piaciuto, e
spero di non farvi mai più attendere in queto modo
maleducato, scusate davvero.
Ho sempre detestato e maledetto gli autori che lasciavano le storie
incompiute, o in stallo per mesi e mesi, poi sono finita a fare lo
stesso.. Mi spiace, davvero!
Fatemi sapere cosa ne pensate, insultatemi, quello ceh volete, mi
merito tutti i pomodori che avete c.c
A presto!
Immagini
e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di
lucro
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Capitolo 30 *** 29. Acqua e fuoco! ***
c1
Quindici Gennaio.
Mancavano nove giorni alla partenza.
Ventiquattro Gennaio, ore 19:30: arrivo della macchina.
Ventiquattro Gennaio, ore 22:30: partenza dall’aeroporto di
Malpensa.
Venticinque Gennaio, ore 13:05: arrivo previsto all’aeroporto
internazionale di Narita, Tokyo.
Duecentosedici ore, quasi tredicimila minuti.
Dicono che se si respira piano, lentamente, il tempo rallenti assieme
al battito del cuore.
Avevo provato, fino a quasi soffocare.
Avevo frenato il respiro al punto che facesse male.
Avevo controllato le lancette ed il loro inesorabile avanzare.
Avevo rotto l’orologio, staccandolo dal muro e strappando
quelle snervanti barrette nere.
Ace non aveva detto nulla. Io non avevo detto nulla.
Mi ero alzata, avevo preso e spezzato a metà le lancette.
Ora sul muro restavano solo i numeri ed un punto centrale. Fermo.
Immobile. Non come il tempo.
Dicono che senza le tenebre, le luci non potrebbero brillare.
Era vero, infondo.
Trovavo ingiusto però che le luci, le fiammelle, quelle
lucine sperdute nel buio totale, dovessero lottare tanto per rimanere
luminose, per poter splendere, per poter vivere, anzi, sopravvivere a
quel mare di oscurità.
Ace aveva acceso una torcia meravigliosa accanto a me, avevamo dato il
massimo entrambi, ma non era bastato.
Alla fine il nero vince, il buio incombe, le ombre avanzano, il fuoco
si spegne.
Dicono che la speranza sia l’ultima a morire.
Se avessi potuto fare una visita di controllo alla mia, avrei trovato
un malato terminale oggi, come il mese scorso e quello prima ancora. La
speranza era l’ultima a morire, ma prima o poi
anch’essa, inevitabilmente, arrivava alla fine.
Il telefono non aveva più squillato.
L’annuncio ufficiale era stato dato in TV.
Mia madre aveva chiamato otto volte il mio cellulare, poi mi aveva
chiesto solo un sms ogni sera, per farle sapere almeno che
c’ero ancora.
Mi ero impegnata a farlo, per lei e per mantenere una vaga
consapevolezza dei giorni che passavano.
Avevo calcolato dieci volte, o forse più, le tempistiche per
il viaggio di non ritorno.
Google ormai mi dava come ricerca suggerita le offerte di volo per il
Giappone.
Non mi facevo mai vedere da Ace, impegnato a non contare i giorni e a
viverli al massimo, come se non fosse un countdown inesorabile verso la
fine.
Io lo assecondavo, se lui era felice così, lo sarei stata
anche io. Per lui.
Sorridevo, come avevo imparato a fare anni prima. Fingevo e stavolta
tutti se ne accorgevano, ma mi lasciavano fingere.
Cosa fare se una persona rotta dentro, tenta di ricomporsi
pubblicamente con un sorriso? Fingere di crederle, che stia bene, che
non abbia bisogno della produzione annuale di attack e silicone per
tentare di ri-assemblarsi.
Io lo facevo per Ace.
Ace lo faceva per me.
Tutti lo facevano per noi.
I giornalisti assediavano la casa e i paparazzi tentavano di infilarsi
in ogni foro della siepe. Vampiri assetati di scoop e notizie, che si
nutrivano del dolore altrui. Vampiri, sì, ma privi di quel
fascino e di quell'eleganza secolare che avvolgeva il mito, solamente
delle larve succhia notizie prive di ritegno.
Speravo che almeno, di notte, non riuscissero a prendere sonno. Almeno.
Minimo. Per giustizia divina un girone dell’inferno doveva
essere designato a loro.
Sbuffai passando accanto al pesante tendaggio damascato che avevamo
montato in salotto, per coprire tutte le vetrate. Assediati da vampiri
e costretti a vivere come vampiri. Bell'ironia.
Avevo sempre pensato che la sfortuna ci vedesse benissimo e che il
simpatico creatore dei piani dell'universo avesse un umorismo di merda,
peggio di quello inglese, ma stava superando se stesso con la mia vita,
davvero.
Sì, mea culpa: sapevo che sarebbe finita.
Nulla è per sempre.
Tranne Beautiful.
Eppure avevo il presentimento che se mi fossi messa con passione a
seguire tutte le infinite puntate, fino ad interessarmi alla trama
inconsistente, sarebbe finito pure quello. Potrei provare, tanto per
fare un servizio all'umanità.
Ma me ne fregava davvero qualcosa dell’umanità?
No. Decisamente non me ne fregava un cazzo. Il mio mondo era solo una
persona.
Ero innamorata e ricambiata da uno dei personaggi più amati
del regno Otaku. Stavo col “principe azzurro” che
tutte sognavano (solo che il mio era più figo, non indossava
calzamaglia e non aveva un cavallo bianco). Bello da mozzare il fiato,
coraggioso, in grado di farmi sentire protetta e al sicuro solo stretta
tra le sue braccia, rannicchiata sul suo petto.
Ma la vita non è un film e l'amore non è mai per
sempre.
Sfiorai il tessuto ruvido dei tendoni con le dita, pensando a tutto e a
niente. Ace era in garage ad armeggiare con la moto, nel pomeriggio
saremmo scappati da quella tana di velluto per prendere un po' d'aria.
Avevamo avvisato le guardie al cancello e organizzato un piano
diabolico per allontanare tutti dall’accesso principale:
niente funziona meglio di una soffiata sbagliata.
Entro un’ora tutti si sarebbero fiondati sul retro,
fotografando a tutto spiano quella santa ragazza della nostra
domestica, che si era offerta di farci da palo per qualche minuto,
visto che era simile a me di costituzione.
Noi? Noi saremmo usciti dal cancello principale ovviamente.
Non avevo nemmeno voglia di uscire, nella mia coperta di apatia mi
sentivo al sicuro, protetta e irraggiungibile dal dolore.
Mera illusione, ma mi era rimasta solamente quella.
Come ci si protegge da qualcosa che ferisce da dentro? Come si sopporta
di sentirsi sbriciolare il cuore? Come si sopravvive a una ferita
mortale invisibile, che nessun medico potrebbe mai suturare?
Sarei morta, straziata dagli artigli di dolore di quella bestia del
destino. Eppure ne era valsa la pena, per Ace ne sarebbe sempre valsa
la pena.
Ogni secondo speso a pensarlo. Ogni giorno passato a sperare. Ogni
settimana di conti alla rovescia.
Ogni mese di batticuore, ogni battito perso, ogni ricordo e ogni
brivido.
Ormai respiravo Ace, mi era entrato nel cuore con una
facilità sconvolgente, schivando tutte le mie difese ed
allentando il nodo che avevo fatto su me stessa.
Mi aveva ridato il sorriso che avevo perso, il motivo per alzarmi al
mattino felice, sogni stupendi, ma più di ogni altra cosa mi
aveva donato una realtà migliore di ogni possibile fantasia.
Lo amavo.
Amavo il mio angelo. Il mio principe. Il mio pirata. Il mio mondo.
«Hey... Io sono quasi pronto con la moto...»
La sua voce mi carezzò come seta sulla pelle, facendomi
sussultare sia per lo spavento che per l'effetto che aveva sul mio
cuore. Ogni parola era una coccola fatta da un guanto di raso.
L’avrei ricordata per sempre, con quella freschezza e quella
profondità uniche. Come lo scroscio delle onde sugli scogli.
La sua voce era l’oceano.
Mi ricorderò di noi mentre gli anni passeranno, per sempre.
Come d'altronde mi sarei ricordata per sempre il suo viso, perfetto,
stellato dalle lentiggini.
Era il mio cielo.
Le sue braccia, che mi facevano sentire al sicuro e protetta, piene di
muscoli e con quel tatuaggio, così bello da baciare.
Erano il mio castello.
Il suo sorriso, luminoso come il più bello degli astri.
Era il mio Sole.
I suoi occhi, onice nera e fuoco rosso.
Erano le mie lune.
Mi avvicinai, senza accorgermi di camminare, con lo sguardo perso nel
suo viso perplesso. Alzai le braccia, cingendogli il collo, e posai le
mie labbra sulle sue.
La sua bocca, morbida e carnosa come un frutto maturo, era tutto quello
che mi serviva.
Lo baciai e basta, le parole non servivano. Mi strinse a se,
ignorò le lacrime che silenziose come ombre luccicanti mi
rigavano il viso, e mi baciò più forte.
Mi sciolsi e per qualche secondo non fummo vicini alla fine, ma
all'inizio.
Non prossimi all'addio, ma al buongiorno.
Non immersi nel dolore, ma felici di poter stare assieme.
Durò pochi secondi, ma bastarono.
Sentii il cuore ricomporsi, rigenerarsi, come spalmato di un balsamo
magico e potentissimo. Tornò a battere, tornò ad
essere felice, tornò ad essere innamorato.
Il cervello però vinceva sempre questo tipo di lotte e
rimise i pezzi di cuore al loro posto, ovvero in ordine sparso e
disordinato nel mio petto, convincendolo a fermarsi e a piantarla di
peggiorare la propria situazione, già critica.
L’encefalo è l'infermiera del nostro cuore, malato
inguaribile e perennemente convinto di essere invincibile. Povero cuore.
Era dura fingere, ma rimisi la mia maschera spensierata e iniziai la
recita quotidiana.
Un sorriso in superficie nasconde i segni di ogni cicatrice.
«Perfetto! Hai deciso dove andremo, oppure sarà
una fuga allo sbaraglio?» dissi allegra.
Teatro. Ecco qual’era la mia strada. Il teatro. Avevo
sbagliato tutto nella vita.
«Uhm… Buona la seconda direi, non fa molta
differenza dove andremo, mi basta allontanarmi da quegli avvoltoi. Da
non credere!»
«Benvenuto nel XXI secolo!»
Mi scostai dal pirata ed andai a cambiarmi. Era gennaio, non si poteva
uscire in moto senza svariati strati di vestiti pesanti. O meglio, le
persone normali non potevano, Ace indossava e avrebbe indossato
solamente jeans e felpa: i vantaggi di essere una stufa antropomorfa.
Una volta infilata la tuta e tutto l’armamentario antigelo
scesi in garage, salii sulla moto già accesa e mi strinsi ad
Ace per un secondo, prima di infilare il casco integrale e dare
l’OK alla ragazza che avrebbe finto di essere me.
Era una questione di secondi riuscire a svignarcela, avremmo potuto
fallire nonostante l’impegno di tutte le guardie.
La motocicletta tremò quando Ace diede gas, rombando a tutto
spiano.
La saracinesca si alzò e noi volammo verso il cancello,
apparentemente vuoto, fatta eccezione per la guardia che teneva aperto
il lato destro.
Ringraziai con la mano e feci il dito medio ai fotografi che urlando
insulti ed annaspando tentavano di raggiungerci dopo essere caduti
nell’inganno.
Se dovevo finire sui giornali, tanto valeva farlo per qualcosa di
valido.
Slittammo veloci tra le stradine e le curve che ormai sapevamo a
memoria, senza una meta precisa, per quanto ne sapevo.
Quasi mi addormentai durante il tragitto, ma visto che morire per un
colpo di sonno in moto non era tra le mie ambizioni maggiori, mi
sforzai di restare sveglia. Non volevo di certo finire in una puntata
di 1000 modi per morire! Mi piaceva guardare DMAX, non esserne
protagonista.
Ace si fermò davanti ad una casetta tutta rivestita di
mattoni di pietra, circondata da un piccolo muretto di mattoni e
svoltò nel vialetto.
Non avevo idea di dove fossimo, i pochi minuti in cui avevo chiuso gli
occhi mi avevano fatto perdere totalmente la cognizione
spaziotemporale. In quelle campagne era un attimo perdersi, ed io mi
ero persa.
Scendendo dalla moto mi accorsi che la “casetta”
era solo la facciata di un immenso complesso, probabilmente una vecchia
casa patronale ristrutturata ed adibita a… Boh. Ancora non
lo sapevo.
«Ace… Dove siamo?» chiesi dubbiosa.
«Avevamo bisogno di staccare un po’. Ho prenotato
una camera in questo hotel termale. Diavolo, non ne potevo
più di essere braccato come un animale da quegli
sciacalli.» mi rispose tranquillo, ma con un velo di rabbia.
I paparazzi e la partenza lo infastidivano più di quanto
desse mai a vedere.
«Senti capo, posso lasciare qui la moto?»
Gridò poi ad un ometto, vagamente simile a Gollum, che stava
venendo ad accoglierci.
«Sarebbe meglio portarla nel garage Signore, se qualcuno la
vedesse potrebbero capire che siete qui! Potremmo garantirvi
più tranquillità nascondendola.»
Gracchiò. Era chiaramente un incrocio tra Gollum e il
bidello di Hogwarts. Non avevo dubbi.
Ace annuì e spinse il veicolo dove gli veniva indicato,
mentre io litigavo con il cinturino del casco ed iniziavo a sudare
nella gabbia di lana e poliestere che indossavo, fantasticando sulle
origini mitologiche del custode/portinaio/padrone/quello che era.
La camera era enorme, lussuosa e puzzava di salasso economico.
Non chiesi quanto era costata, sarebbe stata una domanda vana e
lasciata senza risposta.
Sul letto erano ripiegate accuratamente delle vestaglie bianche, quasi
abbaglianti sul porpora delle lenzuola, e a terra erano poggiate delle
pantofole in morbidissima gomma piuma. Tutto firmato con un logo
d’orato che sicuramente era il nome dell’albergo a
diciotto stelle.
Non pensavo nemmeno che esistesse un posto del genere nelle vicinanze
di casa.
«Cosa dovremmo fare esattamente in questo posto?»
Domandai, circospetta.
Detestavo farmi massaggiare da sconosciuti e odiavo le docce fredde. La
sauna mi faceva svenire, a causa della mia pressione ballerina, ed
odiavo rinchiudermi in luoghi piccoli e chiusi. Inoltre non avevo la
benché minima intenzione di farmi spalmare addosso melma
verde o di farmi imbalsamare con della pellicola alimentare di dubbia
provenienza.
Ero pretenziosa? Forse.
Rompicoglioni? Hey, sono io, certo che sì!
Ace lo sapeva e rise.
«Stai tranquilla, ho prenotato solo per
l’idromassaggio e la piscina con l’acqua calda. Vai
a dare un’occhiata al bagno.» rispose con sguardo
furbo.
Quando un pirata alludeva, c’era solamente da preoccuparsi ed
il mio sopracciglio destro, che si era repentinamente sollevato, lo
sapeva bene.
Nonostante i dubbi mi mossi verso la porta di legno scuro, che
presumevo essere l’accesso al bagno, aspettandomi quasi che
un esercito di clown uscisse festoso da un momento all’altro.
Odiavo i clown. Li trovavo spaventosi, terrificanti, inutili e
soprattutto per nulla divertenti. Erano causa del 90% dei traumi
infantili a mio modesto parere. Inoltre non ero minimamente dubbiosa
verso le sorprese di Ace. Tantomeno risultavo paranoica. Chi? Io? Per
favore.
Entrai circospetta, pronta a scattare all’indietro per
qualche stupido scherzo, solo per confermare il mio non essere
paranoica. Quando ebbi una panoramica della stanza che mi ritrovavo
davanti, impiegai troppo tempo per mettere insieme i frammenti di
immagine che i miei occhi fornivano al cervello.
A volte fatichiamo a mettere a fuoco quello che ci sconvolge, sia in
positivo che in negativo. La nostra mente si protegge dagli shock
spezzettando le immagini e richiedendoci un grande sforzo per
assemblarle. In poche parole era un Ponzio Pilato moderno:
“Io me ne lavo le mani. Ti avevo avvisata che ci saresti
rimasta secca con sta percezione. Fanculizzati.”
Simpatica la nostra vocina interiore, no? Di un sarcasmo sconvolgente.
I colori tenui e caldi si riordinarono in forme dritte e moderne, come
tessere di un puzzle.
Il lavandino di pietra scolpita, alto e fondo, poggiato su una mensola
di legno scuro e lucido, con un mosaico di colori autunnali a fare da
sfondo.
La vasca, gigantesca, a cui si accedeva attraverso una breve scala di
legno e ardesia, ribolliva silenziosa e fumante. I poggia teste in
pelle nera, che trasmettevano comodità solo guardandoli, e
la doccia di cristallo trasparente, che regalava un angolo di privacy
grazie ad un muretto, sempre di ardesia.
L’aria era calda e densa, profumava di quiete e di rose, un
aroma delicato, non di quelli che causavano emicrania e giramenti di
testa.
Era una meraviglia, il tutto illuminato da svariati punti luce soffusi
e dagli abbaini velati da drappi antracite, che richiamavano il
divanetto su cui erano arrotolati un quantitativo inimmaginabile di
asciugamani, accompagnati da boccette e flaconi di ogni forma e
dimensione.
Chiusi la bocca, combattendo contro lo stupore e la forza di
gravità che aveva abbassato in modo imbarazzante la mia
mascella.
Le braccia del mio pirata mi cinsero la vita, delicate, come le sue
labbra appoggiate sul mio orecchio.
«Ti piace?» mormorò.
Io fui capace solamente di annuire, come un’idiota.
Lasciare me senza parole era una cosa degna di riconoscimenti
ufficiale, davvero. Logorroica e sempre con la risposta pronta come
ero, riuscire a farmi stare zitta senza coercizione risultava
ammirevole.
Ace ridacchiò, girandomi verso di lui e dandomi un bacio in
fronte.
«Finalmente riesco a farti una sorpresa! Non ci speravo
più ormai!»
Il tempo scivola come un fiume, senza freni e intangibile. La cosa
orribile era il nostro non poter fare nulla. Non possiamo sapere nulla
del nostro futuro, continuiamo a perdere treni e programmare la nostra
vita, ma per cosa? Domani potrebbe finire il mondo ed i nostri progetti
sarebbero andati in fumo. Speranze spezzate. Cumuli di sogni infranti.
Sembrava impossibile che dovesse finire tutto, ma quella che parlava
era già nostalgia in me. Avevo detto addio ad Ace nel
momento in cui mi ero lasciata andare all’amore, ma ora me ne
pentivo.
Non potevo vivere altri attimi del genere, fingendo.
Non potevo lasciarlo andare.
L’essere umano viene definito per natura egoista,
perché dovevo essere l’eccezione?
«Resta con me.» dissi tutto d’un fiato.
Mesi di silenzio. Milioni di pensieri mai detti. Preoccupazioni mai
affrontate. Paure mai rivelate. Speranze sepolte. Tutto in tre misere
parole. Tutto in una minuscola frase, in un sussurro.
L’avevo detto davvero, l’avevo detto davvero.
Mi portai le mani alla bocca, come per ricacciare indietro quelle
parole fuggite. Invano, perché ormai avevano raggiunto le
orecchie di Ace, oscurandone lo sguardo.
«Selene…» Mi chiamò, quasi
implorante.
Nome intero e tono di voce strascicato, era un modo come un altro per
dire “sai benissimo che non si può
fare!”.
Era il tono con cui i genitori ti dicono che un pony in giardino non ci
può stare, che non esistono i tappeti volanti e che puoi
passare pomeriggi interi a provarci, ma mai riuscirai a fare
un’onda energetica.
«Non dire nulla. Stai zitto. Fingi che non abbia detto
niente. Mi faccio una doccia e poi sarò a posto.»
Dichiarai, col gelo nella voce e la gola dolente.
Non avrei pianto. Non davanti a lui maledizione.
Non mi sarei scusata. Non per aver usato l’ultima carta a mia
disposizione.
Mi voltai, decisa ad andare a prendere la mia vestaglia e le pantofole,
ignorando quello che era appena accaduto e facendo vivere serenamente
ad Ace quella piccola vacanza inaspettata.
Mi lasciò passare, senza trattenermi e senza dire nulla.
Fece lo stesso quando ripassai davanti a lui con il corredo da bagno,
che poggiai sul divanetto.
Uscì chiudendo la porta senza dire una parola sulle lacrime
che mi rigavano il viso.
Non stavo singhiozzando. Ero silenziosa quanto meno. Un punto per me.
Mi spogliai ed entrai in quella grotta di cristallo, accendendo il
getto al massimo e soffocando gli spasmi della gola con
l’acqua.
Lavai via le lacrime ed iniziai a ricomporre la maschera di cera che
sorrideva sul mio volto, strato dopo strato.
Ero brava, isolavo tutto ciò che mi rendeva triste tra alte
mura di metallo, in modo che non potesse uscire, e annegavo con
pensieri felici il mio cervello, in modo che non si accorgesse che il
cuore stava morendo.
Ero stata egoista a chiedergli di restare, dopo tutto lui in questo
mondo non aveva nulla. Che avrebbe fatto restando qui? Il cassiere
all’Ipercoop? L’installatore di stufe a pellet? Lo
spazzacamino?
Decisamente non era il suo ideale di vita.
Non avevo diritto di chiedergli di restare, ma non avrei potuto vivere
col rimpianto di non averlo fatto.
Non sentii la porta del bagno aprirsi, capii che Ace era dietro di me
quando il suono dell’acqua cambiò,
perché il getto colpì il suo corpo.
Sospirai ad occhi chiusi, lasciando cadere la testa
all’indietro, dove trovò il petto caldo del
pirata. I nostri corpi ormai erano complementari, si completavano ed
adattavano perfettamente l’un l’altro, senza
bisogno di mille manovre per trovare la comodità necessaria.
Mi baciò il collo, lentamente, graffiandomi con il filo di
barba che era riuscito a spuntare in una nottata, e reagii a lui in
modo automatico, con la pelle d’oca e piccoli brividi ovunque.
Sorrisi, per davvero però, senza maschera.
Mi lasciai andare alle sensazioni, lasciai spegnere i pensieri e il
sistema nervoso periferico prese il sopravvento.
Percepivo le mani bollenti di Ace scorrere sul mio corpo, lente in modo
snervante, ma allo stesso tempo forti e maledettamente eccitanti.
I rivoli d’acqua si scontravano con le sue mani, rigando il
mio corpo di lucide scie.
Mi girai e lo baciai, graffiandogli i fianchi e il petto, mordendogli
il mento ed il collo, leccando le labbra e carezzando la sua lingua.
Una nuvola di vapore si alzò dalla sua schiena, quando le
fiamme crepitarono e il getto della doccia le spense. Sorrisi,
soddisfatta della reazione che riuscivo a provocare al mio fiammifero.
Fuoco e acqua, gli opposti finalmente assieme.
Non avremmo fatto sesso, non lì almeno, per esperienza
personale avevo capito che quando leggiamo o sentiamo raccontare di
epocali rapporti sessuali in doccia, al 99% erano menzogne.
Fare sesso in doccia era scomodo, si scivolava, si rischiava di rompere
il vetro o di annegare, se l’inclinazione del getto si
spostava nel momento sbagliato.
Il box doccia funzionava benissimo per i preliminari maschili, ma
già per quelli femminili diventava scomodo.
Spinsi il pirata contro alla parete di pietra fredda, facendolo
sussultare, per poi scendere lentamente con la lingua a delineare ogni
muscolo di quel suo petto perfettamente glabro.
Detestavo i peli su me stessa, non capivo perché avrei
dovuto trovarli eccitanti in un uomo. Restano peli. Fanno schifo e
basta. Tutte dicevano che la barba e il petto villoso rendevano
l’uomo attraente. Bah. De gustibus non disputandum est.
Quando mi inginocchiai davanti a lui, aveva già la testa
reclinata all’indietro, pronto per la promessa che i miei
baci in discesa gli avevano fatto.
Risi, prima di iniziare a fargli contrarre i pugni per non gridare.
In momenti simili avevo tra le mani (o tra le labbra, come preferite)
tutta la volontà del pirata. Lui non ragionava, quasi non
respirava, in quei momenti era semplicemente mio. Totalmente in balia
di ogni mio gesto.
Tra i fumi di vapore sbirciavo le sue espressioni, i suoi sforzi per
non fare troppo rumore e non dimenarsi, e mi piaceva da morire. Avevo
il controllo totale, e se in quel momento gli avessi chiesto di
vestirsi da unicorno rosa lui l’avrebbe fatto, pur di farmi
continuare.
Era una consapevolezza piacevole.
Però, non dovevo mai dimenticare che tipo di uomo avevo di
fronte, perché il momento più erotico del mondo
può essere spezzato dall’idiozia maschile. Ed io
avevo davanti un uomo stramaledettamente idiota.
Quando mi risollevai, lo trovai con un sorriso sornione e lo sguardo
perso, che poi si riempì di vita e irruppe in una risata.
Lo guardai perplessa, con l’acqua che gli gocciolava addosso
era difficile guardarlo solo in viso, ma fui forte e ci riuscii.
«Non ti arrabbiare Sely, ho pensato una cosa
scema…» disse, ancora ridendo, con gli occhi
luccicanti.
Non avevo dubbi che sarebbe stata una cosa più che scema, ma
aveva il classico sguardo da “ti prego dimmi che te lo posso
dire”, così gli feci segno di parlare.
Me ne pentii? Diamine sì.
«Ti ricordi i cartoni dei Pokémon? Ecco, ho
pensat-»
«No, cazzo stai zitto!» tentai, invano.
«Idropompa!»
«Coglione.» urlai, dandogli uno spintone mentre
rideva senza freni.
Uscii dal box doccia e afferrai l’accappatoio, combattuta tra
l’arrabbiarmi ed il ridere a crepapelle. Concentrata ad
evitare di scivolare rovinosamente sul pavimento bagnato da me medesima.
Optai per una dignitosa poker face da finta offesa. O forse lo ero
davvero?
Gli sbalzi ormonali e, conseguentemente, emotivi che mi sconvolgevano
erano imprevedibili. Talvolta, capitava che nemmeno io riuscissi a
capire perché mi arrabbiavo o perché scoppiavo in
lacrime apparentemente senza motivo.
Noi donne a volte siamo veramente impossibili da comprendere. Facciamo
fatica a capirci noi stesse, come possiamo pretendere che ci capiscano
gli uomini? Mediamente siamo fortunate se troviamo quello che ci
sopporta, che si adegua ai nostri cambiamenti repentini e alle nostre
paranoie.
Quando troviamo un uomo che riesce ad asciugarci le lacrime e a
disegnarci un sorriso, vale la pena tenerselo stretto. Qualsiasi cosa
il nostro corpo faccia per farlo allontanare.
Capita di arrabbiarsi con lui in maniera furente, senza spiragli di
pace all’orizzonte, ma poi quando la nebbia
dell’ira si dirada, capiamo che non era accaduto nulla di
tanto grave, nulla che meritasse una reazione tanto spropositata. Ecco,
queste sono le volte in cui ci vergogniamo quasi a chiedere scusa, ad
ammettere di essere saltuariamente delle pazze isteriche psicolabili,
con tendenze sociopatiche e omicide.
Donne. Che mondo contorto.
Beh, forse è questo il complimento più bello che
può farvi un uomo, no?
“Sei contorta”.
Noi ci offendiamo magari, o stiamo ore e ore, giorni e giorni a
rimuginare su cosa intendevano dire, su cosa fare, su come rispondere,
sul perché pagare il tasso di interesse sui prestiti
bancari, sul perché un attore come Banderas si sia ridotto
ad ingrassare con una gallina in un mulino.
No ok, forse non proprio tutto questo, però
all’incirca.
Non capiamo che è un complimento, perché vogliono
solo dirci che sanno che non ci capiranno mai, che non riusciranno mai
a comprenderci, che siamo un mondo a parte e che ci vogliono
esattamente così come siamo.
Ace mi aveva detto che era contento che io fossi tanto contorta,
perché avrebbe significato che mai sarei stata prevedibile e
mai sarei stata noiosa o l’avrei stancato.
È una promessa d’amore, forse.
Nascosta e velata, ma dopo tutto anche loro si devono adeguare a noi,
poveri uomini.
«Hey…» tentennò Ace alle mie
spalle, incerto su come trattarmi. Doveva scherzare e far finta di
nulla perché non me l’ero presa, oppure doveva
scusarsi perché mi ero offesa sul serio?
Poveri uomini. Povero il mio pirata.
«Rilassati, Ace Testa di Cazzo, non sono
arrabbiata!» ridacchiai.
Mi abbracciò da dietro, ancora nudo, ancora bagnato, ancora
stramaledettamente sexy.
Sospirai rilassando le spalle e lasciandomi baciare la guancia.
Le gocce fredde che scendevano dai suoi capelli mi bagnavano il viso,
scorrendo sul collo e sostando sulle clavicole, facendomi rabbrividire.
Il suo respiro caldo bilanciava i brividi, unendo quelli di piacere a
quelli per il freddo, in una combinazione sconvolgente.
Al diavolo tutto, avremmo fatto sesso sul piano di legno del lavandino,
nella vasca idromassaggio, tanto per esaurire i cliché, e
sul divanetto, sparpagliando per il pavimento quella miriade di inutili
boccette.
Saremmo stati bene.
Saremmo stati noi.
Saremmo stati insieme, ancora per un poco. Ancora una volta. Ancora
innamorati.
Il “per sempre” non esisteva. Ormai
l’avevo accettato.
Mi sarei goduta al massimo il nostro presente allora, senza pensare
all’inesistente futuro.
Solo al presente.
Solo a oggi.
Solo a ora.
Solo ad Ace.
-----------------------------------------------------------------------------------------
Hem... Ciao....
OkOk, scusate. Non ho aggiornato di nuovo per un sacco di tempo, mi
dispiace davvero! Mi si è ribaltata la vita ma ora ho
trovato il modo e l'ispirazione giusta quindi questa storia travagliata
avrà fine, ed in tempi utili!
non chiedetemi quanti capitoli, non lo so, a volte scrivendo ne esce
uno in più, a volte quelli che pensavo sarebbero stati due
si uniscono in uno solo, ma manca poco!
Grazie, anzi: GRAZIE!
Sì, a tutti voi che mi avete recensite, a quelli che da zero
hanno iniziato la storia di recente, a quelli che mi seguono da sempre,
a chi mi ha scritto in privato, motivandomi ad andare avanti, a chi ha
recensito senza rancore, a chi mi ha minacciata di morte e a chi ogni
tanto mi mandava un messaggio con allusioni alla storia!
Grazie a tutti, e anche se non lo leggerà mai grazie anche
al mio pirata personale, anche se più che ad Ace somiglia ad
un incrocio tra Franky e Trafalgar Law (se vogliamo onepiecizzare, se
mi concedete una narutizzazione è uguale a Suigetsu :3)!
Quindi boh, che dirvi?
Grazie per essere sempre qui a leggermi! Per le recensioni (non sono
mai brutte o sceme, fanno sempre e solo piacere!) e per sostenermi
sempre!
Al prossimo capitolo!!!
Ciaooo! :3
Immagini
e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di
lucro
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