Nel segno del sangue

di Nocturnia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cruore manat ***
Capitolo 2: *** Signa Infero ***
Capitolo 3: *** Tempus Tero ***
Capitolo 4: *** Requiesco ***
Capitolo 5: *** Prima lux ***
Capitolo 6: *** Apricor ***
Capitolo 7: *** Crimen maximo ***
Capitolo 8: *** Abruptus ***
Capitolo 9: *** Recordatio ***
Capitolo 10: *** Finis ludi ***
Capitolo 11: *** Sanguinem fundo ***



Capitolo 1
*** Cruore manat ***


looooooooooo
Disclaimer: Questa storia è stata scritta per puro diletto personale, pertanto non ha alcun fine lucrativo. L’intreccio qui descritto e i personaggi rappresentati sono copyright dell’autrice (Nocturnia) e non ne è ammessa la citazione altrove, a meno che non sia autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.

A Callie_Stephanides , perché senza di lei tutto questo non sarebbe stato possibile.





"Nessun uomo sceglie il male perchè è il male.

Lo confonde solo con la felicità, con il bene che cerca."
- Mary Wollstonecraft Shelley -


Cruore manat


Ci sono storie che affondano le loro radici nelle viscere dell'umanità.
Ci sono alcune storie - quelle brutte, quelle dal sapore tragico della profezia - che dipingono il proprio svolgimento con i colori della guerra e del sangue.
Sono quelle storie in cui è una puttana a darti i natali e uno spietato assassino a versare lacrime, le etichette la più bieca forma di controllo.
Lo so io, che di quella storia ho fatto la mia seconda pelle.
La conosco e ne ho esplorato gli amari confini, giacendo poi scomposta e rotta, al mio fianco i fantasmi di un evo ormai estinto.
L'ho vissuta e infine compresa, abbracciandola.
E nel suo abbraccio ho trovato una risposta.
Una fine e un inizio.


"Erano così belli insieme, così blasfemi nella loro perfezione, piccola Dyen."
"E perché si sono lasciati?"
Un sorriso indulgente curvava sempre le labbra di mia madre a quella domanda puerile, intrisa di un'innocenza a cui solo i bambini sapevano fare appello.
"Perché a volte, tesoro, l'amore è il più amaro dei veleni."
E io aggrottavo le sopracciglia nella spietata incoscienza dell'infanzia, l'amore una pallida nebbiolina rosa e bianca in cui pene e sofferenze venivano lenite dal bacio di un principe.
"L'amore non è cattivo." ribadivo testarda "l'amore non fa male." borbottavo nascondendomi dietro le spesse coperte in lana, le fusa di quel gatto spelacchiato che chiamavamo Pung il sottofondo ideale per quel momento intimo, privato.
Tasasi di Albir rideva morbidamente di fronte a quelle giovani e inesperte convinzioni, regalandomi una tazza di latte fumante e il continuo di una storia che, per anni, aveva fatto da epifania al mio sonno.
"In principio furono Varok e Matharet, piccola mia..."


"Il nostro mondo non è sempre stato come lo vedi ora, Dyen. In origine vi era solo Hoenir, luce e speranza, il nulla colmo del tutto. Ossessionato dall'idea della perfezione, Hoenir, l'aquila, si strappò il cuore, ritenendolo impuro e macchiato dalla scintilla del dubbio.
Non vacillò più l'aquila, ma dal quel piccolo pezzettino di carne nacque Rajas, chimera e fratello abortito mille e mille volte."
"Fa male strapparsi il cuore?"
"Ci sono diversi modi per farlo Dyen, ma non sempre il dolore è lo stesso." replicava Tasasi laconica, tra le sillabe di una madre i silenzi di una donna che non poteva - non voleva - raccontare tutta la verità.
"E poi?"
"Si massacrarono a vicenda per eoni l'aquila e la chimera, distruggendosi.
E quando la morte fu loro così vicino da specchiarsi nei loro occhi, videro la cieca debolezza che li avevi portati a combattersi.
Invidiava un Cielo tanto agognato Rajas, mentre si dibatteva tra le maglie della paura Hoenir per le domande che quel fratello maledetto portava con sé."
"È stato dai loro pezzi che sono nati i demoni e gli angeli?"
"Sì Dyen. Da ciò che erano nacquero quelli che noi chiamiamo angeli e demoni. Destinati a incrociare le lame per l'eternità, era nel loro conflitto che l'universo trovava il suo equilibrio. Nessuna forza poteva prevalere davvero, poiché nulla è perfetto. Tutto ha già in sé i germi dell'imperfezione."
Fissava la parete alle mie spalle Tasasi a quel punto della storia, nell'orbita del suo sguardo una malinconia che avrei compreso solo anni dopo.
"E...?" la incitavo sempre, lasciandomi affascinare da un'aquila di cristallo e una chimera di fumo, figli della stessa pelle.
"E poi successe quello che portò alla creazione di Matarisvan. Successe che dubbio e certezza si ricongiunsero nella figura di Varok e Matharet.
Combattevano su fronti opposti, il demonio e l'angelo, Dyen. Per millenni versarono il sangue dell'uno e dell'altro, l'indifferenza e la rabbia l'unica cosa che i loro cuori erano in grado di provare."
"E poi?'"
"E poi i loro cuori si stancarono di tutta quella furia di tutto quel dolore, della guerra. Varok, il pentito del paradiso, trasgredì alle leggi del suo ordine e gettò le proprie piume su questo mondo, creando il cielo e la terra, il mare e il fuoco. Schiere e schiere di fedeli li seguirono nel loro sogno di pace ed equilibrio, la bestia diventare infine un docile cagnolino."
"Papà dice che i lupi mordono comunque, anche se sono stati addomesticati." ribattevo piccata e anche un po' saccente.
Scopriva l'eburneo dei denti nell'ennesimo sorriso mia madre, lisciandosi metodicamente i capelli biondi, quasi quel gesto l'aiutasse a trovare le parole adatte per una bambina di soli dieci inverni.
"E infatti il lupo non divenne mai veramente cane e furono le sue zanne a dare dimensione e forma a tutto ciò che Varok aveva creato. Furono le sue unghie a scavare la dura terra, permettendo che le sue piume fecondassero il suolo.
Furono i suoi occhi di predatore ad annientare i nemici, a proteggerci.
Varok era l'ordine, Matharet la spada."
A quel punto del racconto, schiudevo sempre la bocca ansiosa, nelle pupille rifrangersi le scintille che solo la gioia dell'avvicinarsi alla conclusione poteva darmi.
Mi sollevavo dal materasso, spiando di sottecchi le imposte chiuse della finestra, quasi mi aspettassi di vederli davvero quegli occhi vermigli.
Tiravo leggermente la coda a Pung, generando un basso brontolio e meritandomi un morso sulla mano, sebbene il contatto con quel pelo ispido generasse in me l'effimera sicurezza degli illusi.
" E poi si innamorarono, vero?"
" Esatto, piccola mia. Varok, un giorno della creazione, guardò quelle polle rubino in cui tutti i peccati sembravano poter essere condonati e se ne innamorò. Si amarono per secoli, il fuoco circondare in un abbraccio il ghiaccio di cui era fatto l'angelo, disgregandolo.
Fu proprio dal quel ghiaccio, ormai disciolto, che nacquero quelli che noi chiamiamo Phazani, la prima generazione. Erano i figli prediletti, così potenti da eguagliare il padre e la madre, così puri da accecare l'empireo stesso.
Il ghiaccio gli aveva dato i natali, ma era stato il fuoco ad animarli, creando l'ossimoro che è racchiuso adesso in noi. Noi siamo il tutto e il niente. Siamo la forma primigenie di Hoenir e Rajas."
"Allora perché?"
"Perché cosa, bambina mia?"
"Perchè si lasciarono?"
"Perchè l'amore non è eterno, Dyen. Perchè alcune cose non sono fatte per stare insieme."
Taceva sempre su quel perché.
Lasciava che il sonno mi prendesse, spegnendo quel che rimaneva della debole fiamma della candela e dispensandomi un'ultima carezza.
Mi addormentavo con Pung al mio fianco e il sapore dolce delle certezze sulla lingua.
All'epoca, non potevo sapere che Varok ci aveva maledetto tutti, geloso di un potere che lui non aveva mai avuto.
All'epoca, non potevo sapere che Matharet ci aveva amato in un modo contorto, parossistico.
Che tra le sue gambe era fluito, feroce, il seme di un amplesso che mai avrebbe dovuto essere consumato.
Che, alcune volte, l'unico modo per amare è odiare.
Mia madre era una buona donna, il cui unico, vero, intento, era proteggere quella figlia a cui aveva dato tutto.
Raccontava della creazione, ma non voleva che sapessi della distruzione.
Sciorinava la vita tra le labbra, quasi la morte fosse un concetto astratto, lontano.
Non voleva farmi sapere quello che, mio malgrado, avrei appreso solo sei estati dopo.
Che l'amore è la peggiore delle ferite.

E mentre chiudevo le palpebre, emettendo un sonoro e soddisfatto sospiro, al sicuro ed al caldo nella mia casa in pietra bianca, una donna le riapriva a fatica, il sangue incollarle tra loro.
Una donna che urlava al firmamento tutto il suo lutto, gemendo nella neve che, gelida, l'avvolgeva come un tetro sudario di morte.
Una donna cui il punto fio risiedeva nel petto, all'altezza del cuore.
Era stato il silenzio ad accogliere le sue esangui parole, il vento tagliente del nord a portarle fino ai confini di Albir:
"Zanor..."

Ed è la sua storia che voglio raccontare.

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Capitolo 2
*** Signa Infero ***


loooooooooooool
Disclaimer: Questa storia è stata scritta per puro diletto personale, pertanto non ha alcun fine lucrativo. L’intreccio qui descritto e i personaggi rappresentati sono copyright dell’autrice (Nocturnia) e non ne è ammessa la citazione altrove, a meno che non sia autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.



Signa Infero


A guardarla, quella giornata, pareva uguale a mille altre.
Pareva una giornata in cui morire era impossibile, quasi sacrilego.
Si ha l'ottusa convinzione che, nelle belle giornate, le tenebre corrano a nascondersi in qualche buco dimenticato, rabbrividendo alla sola vista dell'astro rosseggiante.
Nessuno pensa al loro odio, alla loro invidia per quella luce che, di alba in alba, omaggiava le terre di Matarisvan.
Nessuno immagina quanto esse siano determinate, lucide e implacabili nella ricerca della creazione di un mondo in cui l'unico colore sia il nero della notte.
Nessuno sa quanta bile abbiano masticato per anni e tengano nelle fauci, pronte a vomitartela addosso, corrodendoti.
Fu proprio in una di queste giornate che conobbi la mia prima morte.

Avevo appena sedici anni e due gambe lunghe da cervo quando le truppe demoniache entrarono a forza nel mio villaggio, un piccolo insediamento rurale a ovest di Bramwell.
Non avevo mai visto un demone in vita mia e quelli che si stagliarono all'orizzonte furono abbastanza spaventosi da farmi orinare addosso.
Seduta sul bordo del pozzo, fui felice quando una donna mi rovesciò sulla gonna il contenuto del suo cestello, mascherando lo stigma di una paura che non trovava confini.
Non è possibile. ero solo in grado di pensare Non posso morire. Non è possibile. Domani devo andare al fiume e poi c'è la raccolta del dragoncello, non posso. Io non posso finire qua.
Il mio cervello si era spento, per far posto al nulla più assoluto, quasi fossi diventata una di quelle bambole di pezza a cui puoi strappare gambe e braccia: tanto non sentono.
Feci qualche passo all'indietro, il primo dardo che veniva scagliato e colpiva un uomo poco lontano.
Mia madre fece appena in tempo a spingermi via quando la seconda freccia infuocata si abbatté sui pagliericci dei tetti, le vecchie anziane sgranare preghiere a un cielo purpureo.
In pochi istanti, Silverkin divenne un rogo annichilente, nell'etere fiotti di sangue densissimo e nerastro, mentre il sole continuava quella sua patetica recita.
Sorrideva, quella stella, persino mentre tutto ciò che conoscevo veniva schiacciato, abbattuto.

"Vai." aveva sibilato Tasasi, premendomi una mano sul costato "Vai e non ti voltare mai indietro."
Era durissima e feroce la voce di mia madre, nell'inflessione di quelle parole tutto il coraggio residuo di una città morta.
Avevo tentennato, indecisa, ma quando i denti di un tagaririm si erano fatti strada nelle sue spalle, squarciandola, la paura mi aveva schiacciato.
Uno spruzzo di plasma e pelle mi invase la bocca, sul bel viso di mia madre farsi spazio una crepa grottesca.
Non guardarmi, non guardarmi. supplicavo, mentre il demone rialzava il capo per incontrare il mio sguardo.
Per alcuni, allucinati, secondi il tagaririm aveva piantato i suoi occhi, vuoti e privi di pupilla, verso di me.
Alto poco più di otto piedi, dondolava e spazzava il suolo con le braccia sproporzionate.
Le dita, munite di rostri, scricchiolavano contro la roccia, quasi il gemito di un animale morente.
Con uno scatto repentino si era poi spostato verso sinistra, attirato dal pianto stridulo di un bambino.
Tra ossa biancastre e briciole di stoffa, il petto del bambino si era aperto con un crac' sordo, quasi una rosa oscena e sanguinolenta.
Un morso. Due morsi. Masticare. Deglutire.
Al terzo morso stavo già correndo.

Dicono che tutto rallenti, quando la scarica di adrenalina ti invade e quando la Morte ti si palesa, teschio ghignante e denti marci di puttana.
Dicono che la tua vita ti scorra davanti, frammenti spezzati di quello che eri e che avresti potuto essere.
Stronzate.
Tutto accelera, diventando una macchia indistinta di colori e odori, in cui l'unico rumore che ti è permesso sentire è il tuo stesso battito del cuore nelle orecchie.
Per ricordarti che sei vivo.
Che DEVI vivere.
Tutto il resto cessa di esistere: l'amore, l'affetto, la ragione, il dolore, la paura.
Smetti semplicemente d'essere.
Diventi una palla di carne e ossa che scappa, i muscoli rispondere all'antico precetto triviale della sopravvivenza.
Correre per vivere, ancora.
Correre, fino a sfondarti i polmoni e a ridurti i piedi a un'unica piaga sanguinolenta.
Correre, perché la fuga è il primo comandamento dei vigliacchi, che però volgono sempre il loro profilo migliore alla storia.
E correre fu proprio quello che feci.

Era un tramonto rosso sangue quello che videro le terre di Silverkin, quel giorno.
Era la morte di un sole complice e colpevole quella che coprì il tanfo di un massacro annunciato.
Una donna avanzava tra quei cadaveri con l'arroganza di chi, la morte, la porta nell'animo, non incisa sulla pelle.
Dietro il cappuccio scuro un paio d'occhi indagatori e guardinghi lanciavano occhiate in tralice agli angoli delle case bruciate, alle stalle pericolanti, al simbolo di sangue che, come una cicatrice, svettava sul terreno brullo.
La figura inclinò il capo, annusando l'aria: nessun demone nei dintorni.
Sorrise sardonica al ricordo del primo insegnamento che la vita le aveva inoculato a suon di pugni:
I predatori cacciano per fame, quando sono sazi se ne vanno. I demoni cacciano per divertimento. E quello non si esaurisce mai.
Ma quando una vittima smette di urlare e contorcersi, di supplicare, tutto il gaudio se ne va.
Quando, oltre al sangue e alla dignità, non fluisce più niente da quei fantocci di carne che essi chiamano 'umani', allora, per i demoni, non c'è più niente di cui poter ridere.
Niente per cui valga la pena di sprecare anche solo un'oncia del loro tempo immortale.
Lentamente, si avvicinò ai resti di ciò che una volta era stato un bambino, estraendo dalle viscere, ormai contorte e penzolanti, un rostro bianchissimo e grande come il suo palmo.
Lo squadrò per alcuni istanti, uno snudar feroce di denti l'unica mimica si leggesse su quel volto adombrato.
Si rialzò fluida, spolverandosi i pantaloni e sistemandosi meglio il mantello sulla schiena.
La prima luna stava già sorgendo quando un particolare, finora non notato, attirò la sua attenzione.
Impronte.
A prima vista potevano essere di un adolescente maschio, ma più probabilmente erano di una giovane ragazza.
Perlustrò anche il terreno circostante, ma non ne notò altre, né di demone né di umano.
Come un triste segnale, le dita mozzate di una donna indicavano il sottobosco, quasi a incitarla.
Volse le pupille a quel fitto complesso di rami e alberi, alcuni bruciati e ormai anneriti, altri ancora rigogliosi, svettanti verso un dio che osavano sfidare.
Sospirò, scrollandosi nelle spalle e cominciando a correre, alla sua destra le orme dell'ennesima orfana di Matarisvan.
Addakra Oronar volse un ultimo sguardo alla cittadina, tra le lunghe ciglia né stilla né sale.
Perché piangere è il lusso di chi possiede ancora un cuore, un'anima.
E la sua se n'era andata tanto tempo prima, tra le nevi di Indantium.

Quella sera, la dama bianca accolse Silverkin tra le sue braccia pietose, coprendo con un velo argenteo una speranza che aveva cessato di esistere solo poche ore prima.
Tra i corpi mutilati, quello di Tasasi di Albir sembrava una bambola grottesca, occhi opachi e arti divelti.
Addakra a quel tempo non poteva saperlo, ma era sua la mano tesa nell'ultimo spasimo di vita.
Erano sue le dita mozzate che accennavano alla boscaglia.
Era l'ultimo regalo di una madre alla figlia prediletta.
Era l'ultima azione di Tasasi di Albir.

E avrebbe cambiato un destino.

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Capitolo 3
*** Tempus Tero ***


loooooooooooo
Disclaimer: Questa storia è stata scritta per puro diletto personale, pertanto non ha alcun fine lucrativo. L’intreccio qui descritto e i personaggi rappresentati sono copyright dell’autrice (Nocturnia) e non ne è ammessa la citazione altrove, a meno che non sia autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.


Tempus Tero


All'epoca ero solo una sciocca e acerba ragazzina di sedici anni, il singulto della perdita bloccato in fondo alla trachea e una pozza di urina a ricordarmi quanto paurosa fossi stata.
All'epoca non possedevo niente della rovente figura che era Addakra, neppure una libbra del suo coraggio.
Tutto in lei mi incuteva timore: dalle iridi uncinate alla violenza che metteva in ogni atto di giustizia.
Non sono come noi. Sono bestie. era solita ripetermi Anzi, meno delle bestie. Sono qualcosa che non dovrebbe neppure esserci su questo mondo, Dyen. Ficcatelo in quella zucca vuota.
Sorrido sempre a quel ricordo, perché era solo una bugia, seppur raccontata molto bene.
Però, credo che lei ne fosse veramente convinta.
Credo che, a gran voce, il suo cervello le impedisse di ammettere quello che si agitava in lei, quello che la corrodeva dall'interno, ogni giorno.
Quello per cui persi l'ennesima madre.

Mi ero nascosta dietro una roccia massiccia, il piccolo fuoco che avevo appiccato a malapena in grado di riscaldarmi.
Tremavo così forte che i denti battevano tra loro, il peso, l'enormità di quello che era accaduto che non mi dava neppure la forza di strisciare verso il legnetto e ravvivare le ceneri.
Avevo pianto talmente tanto da essere una maschera oscena di sporcizia e fuliggine, il lezzo della carne bruciata croste d'inferno.
Non osavo neppure riportare alla mente i visi di tutti i miei amici, di mia madre, di mio padre.
Non osavo rievocarli, immaginarli ancora.
Sapevo, con certezza assoluta, che sarei morta sotto quei ricordi, mi sarei accasciata al suolo, inerme.
E, vigliaccamente, non volevo morire.
Qualcuno, tempo dopo, mi insegnò che non vi era nulla di ridicolo nella fuga.
Qualcuno ebbe la forza di insegnarmi a vivere, di nuovo.
Quel qualcuno, però, mi aveva solo mentito.

Addakra la trovò ai margini della foresta, poco lontano dai confini, ormai prossimi, di Mordekan.
Per alcuni minuti la valutò in silenzio, nascosta nell'ombra e tra il fitto fogliame.
Sola, piagnucolante e ferita, le ricordava tremendamente un evo appena passato, l'eco di un colpo mai attutito veramente.

"Sei sola, ragazzina?"
"Non sono una ragazzina. E sì, sono sola."
Occhi rapaci la fissarono, facendola sentire indifesa, nuda.
"Sei una ragazzina. Ma sei viva ed è questo che conta, adesso."
"Gli altri... sono morti. Li ho visti."
Stropicciò il pesante mantello in velluto che recava il blasone della lamia, il marchio della famiglia Oronar.
L'uomo parve accorgersene solo in quel momento, alzando un sopracciglio.
"Sei nobile, ragazzina?"
"Per quello che può valere, sì. Appartengo agli Oronar di Umenarn."
"Commercianti." liquidò lapidario l'uomo "Ho presente."
"Lo trovi strano?"
"Cosa?"
"Che sia viva?"
"Sì. Voi nobili, di solito, siete i primi a crepare."
"So difendermi. Sono stata istruita a questo."
Lui sorrise, legandosi la livrea corvina con un laccio di cuoio.
"Persone intelligenti, i tuoi."
"Insegnami."
L'uomo la squadrò qualche istante, scoppiando poi a ridere.
Addakra lo ignorò.
"Insegnami a essere come te. Insegnami a combatterli. Insegnami a uccidere."
"Non sono un educatore dalla barba lunga e gli anelli d'oro, ragazzina. E a te non basta aver cucita una bestia mitologica sullo stemma per diventare divoratrice di demoni."
"Addakra."
"Uhm?"
"Addakra. Mi chiamo Addakra. E voglio che mi insegni." concluse caparbia, mostrandogli i palmi delle mani, coperti di sangue essicato.
L'uomo aggrottò le sopracciglia, il suo sorriso che si spegneva poco a poco.
"Tu come ti chiami...?" domandò titubante
Per tutta risposta, l'uomo si chinò verso di lei, rubandole metà del suo abbondante mantello e portandoselo intorno alle spalle.
Addakra sussultò, percependo, pelle contro pelle, quanto fosse più grande di lei, più imponente.
"Se impari bene, vivrai. Se impari male, creperai. Lo vuoi ancora fare?"
"Sì." esalò lei, continuando a fissarlo perplessa "Sì."
"Zanor. Mi chiamo Zanor. E se da adesso sono il tuo maestro, allora anche metà di questo mantello è mio. Sarà una notte fredda."
Addakra sorrise, stringendosi ulteriormente nella cappa vellutata.
"Grazie..."

E il primo pezzo aveva preso posto sulla scacchiera.

Quando decise di avvicinarsi, lo fece lentamente, per non spaventarla.
La ragazza balzò all'indietro, gridandole contro e schiacciandosi contro la spessa parete in roccia.
"Non avvicinarti! NON AVVICINARTI" singhiozzava portandosi una mano al volto, spiandone i movimenti con fare sospettoso e da animale braccato.
Addakra si fermò, inginocchiandosi di fronte a lei.
"Probabilmente hai corso molto... fino a non poter muovere un altro passo..." le mormorò gentile "ricordo quella sensazione... la ricordo benissimo..."
Si voltò di scatto, un grido inarticolato che faceva da epifania a uno stormo di gargoyle le percosse i timpani.
Scrutò attraverso i rami spogli e la nebbia, cogliendo la fugace vista di un movimento.
"Non ho scelta... non ho alcuna scelta..." la sentì uggiolare
Irritata, strinse nel pugno chiuso il rostro che si trascinava dietro da Silverkin, alzandosi.
"C'è sempre una scelta, ragazzina." berciò al suo indirizzo, prima di flettere le gambe e prepararsi allo scontro.
Dalla foschia emersero almeno una decina di demoni, alcuni armati, altri muniti solo delle gigantesche zanne.
Negli occhi della ragazza, Addakra scorse un terrore assoluto, coadiuvato da una rassegnazione patetica.
"Moriremo qui, vero?" chiese alzando le pupille dilatate dall'adrenalina su di lei.
Le rispose a denti stretti, dando le spalle all'armata e sovrastandola in tutta la sua figura.
"No. Finché sarò ci sarò io, di loro non rimarranno che carcasse per gli uccelli..."concluse estraendo le doppie balestre e girandosi "Non sono una preda, ragazzina. Sono il cacciatore."
Sparò in rapida successione, abbattendone almeno quattro, a cui seguirono i più piccoli quadrupedi e i due gargoyle.
Spiccò un balzo che la portò alle spalle del primo tagaririm, troppo lento e incastrato con la sua mazza nel terreno, quindi facile vittima delle sue frecce.
Ruotò la testa velocemente, cercando il secondo, e furono le urla stridule della ragazzina e farle capire che l'aveva evitata, per poi buttarsi addosso al suo nuovo giocattolo.
Ma si sbagliava.
Estrasse la granata dalla sacca appesa alla cinta e la lanciò verso il suo collo, in un movimento circolare che gli impedì di togliersela.
Dopo pochi attimi, dell'ultimo tagaririm non rimase che un corpo decapitato e un ammasso molliccio di cervello e sangue, la cui maggioranza aveva spruzzato il viso della ragazza.
Calò il silenzio nella piccola radura, il lontano gracchiare di un corvo che vomitava l'ultimo grano della clessidra di un tempo che Dyen non avrebbe più rivisto.
"Scegli ragazzina." sentenziò Addakra allungandole una pistola intarsiata nell'avorio e nell'argento "Essere preda o cacciatore."
Dyen l'aveva fissata dubbiosa, ma aveva comunque afferrato il calcio dell'arma, sancendo una tacita risposta.
Voleva vivere.

Se cercate una qualche forma di eroismo o di sindrome del salvatore in Addakra, sappiate che non ne troverete.
Era una donna ambigua e imperfetta, seducente nella sua avidità di femmina predatoria e crudele. Era la tricotomia del rosso sangue con cui dipingeva le pareti di un mondo logoro e consunto.
Era il nero della sua anima, della sua livrea, delle sue speranze.
Il bianco di un'innocenza perduta, mai più ritrovata, persa nella virilità di una belva dal volto umano.
Ma era quello che cercavo, quello di cui avevo bisogno: una guida.
Non fu né materna né rassicurante, ma salda e determinata.
La attribuii il ruolo di madre putativa, seppure avesse appena trentuno inverni.
Dopo quella notte, in cui mi aveva mostrato che c'era un altro modo di reagire, un modo per cui essere carnefice e non più vittima, mi assoggettai completamente alle sue regole, ai suoi insegnamenti.
Anni dopo, realizzai che non voleva creare un clone mostruoso e deforme di quello che già era lei: una lama feroce e divorante.
Voleva creare un erede, che portasse in sé i crismi di quello che LEI avrebbe potuto essere, ma che la storia aveva voluto diversa.
E in fondo, posso dire che ci sia riuscita.




Note dell'autrice:

Il tagaririm sono demoni, secondo la Cabala, che appartengono all'ordine dei litigiosi. Per il loro aspetto mi sono ispirata a questa immagine, ovvero i berserker.

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Capitolo 4
*** Requiesco ***


lolol
Disclaimer: Questa storia è stata scritta per puro diletto personale, pertanto non ha alcun fine lucrativo. L’intreccio qui descritto e i personaggi rappresentati sono copyright dell’autrice (Nocturnia) e non ne è ammessa la citazione altrove, a meno che non sia autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.

Requiesco


Di quei mesi che passai con Addakra ricordo ogni singolo momento.
Non perchè sia stato piacevole o leggero, ma perchè ogni giorno era un nuovo ago conficcato nella carne.
Mi ero ulcerata le mani e l'animo nei suoi addestramenti infernali, impugnando armi per cui non avevo la muscolatura adatta.
La prima volta che avevo impugnato una spada, mi ero piegata sotto il suo peso, rovinando al suolo.
Addakra mi aveva fissato con un misto di compatimento e rabbia, strattonandomi per l'avambraccio e rialzandomi bruscamente.
"Primo insegnamento: resistere al dolore e alla sua naturale conseguenza, Dyen: la paura."
Avevo annuito mite, tremando al solo pensiero di essere rispedita in quel nulla che era diventato il mio passato.
Ma Addakra non lo fece mai.

Addakra era roteata su se stessa, flettendosi sul ginocchio sinistro e tendendo l'altra gamba, privandomi del piede d'appoggio e facendomi rovinare al suolo.
Con un colpo di reni, mi ero rialzata, puntellando la suola degli stivali nella rena e gettandole una manciata di terra negli occhi.
Rapida, la ferae si era scostata, inclinando la lama verso il mio polpaccio.
Il taglio fu brusco e rovente, un scia di sangue che si disegnava nell'aere.
Strinsi i denti, ma abbassai la guardia, permettendole di colpirmi ancora.
"Troppo lenta." mi aveva ammonito quando il colpo era andato a segno.
"Troppo debole." mi aveva berciato all'ennesima stoccata sbagliata.
"Troppo molle!" aveva poi gridato quando la punta azzimata della sua lama si era fermata a pochi centimetri dalla mia gola. "Sei morta." era stata la macabra conclusione, un sorriso che pareva l'incisione di un coltello su quel viso impassibile e pallido.
Avevo assunto un cipiglio oltraggiato e, scostandomi dalla traiettoria del gladio, avevo poi battuto il palmo della mano sul suo gomito, facendola barcollare.
Determinata a non farmi umiliare, per l'ennesima volta, mi ero poi buttata sull'arma poco lontana, tentando di recuperarla e fronteggiando quella furia che era diventata Addakra.
Intercettai un colpo, poi un altro ancora, sempre più rapidamente, fino a quando non mi si strapparono i muscoli delle braccia.
Addakra non mostrava alcuna fatica, ruotando il gladio ora in aria, ora all'altezza del suo corpo, fendendo il mio orgoglio e la mia speranza.
Con un ultimo affondo, la ferae mi mandò a terra, un piede sul mio petto e la daga immobile, cristallizzata come un puntolino baluginante in mezzo agli occhi: i miei.
"Hai perso perché non hai ancora capito la vera essenza di un combattimento, Dyen." mormorò scostandosi da me e rinfoderando la spada.
Ansimante, la guardai perplessa, rialzandomi indolenzita e accaldata.
"E sarebbe?" avevo domandato tendendo una mano verso la borraccia d'acqua "Scansare, colpire, uccidere. Scansare, colpire, parare, uccidere. Non credo di sbagliarmi di molto."
Un sorriso spento le aveva adornato le labbra, la pupilla ungulata ghermire l'orizzonte e i suoi nembi violacei e purpurei.
"La guerra, quella vera, viene da noi stessi, Dyen." aveva riportato lo sguardo in tralice su di me " Viene da quell'ammasso di cavità che chiamiamo cuore. Devi accettare la sua inutilità. Devi capire come esso sia il nemico peggiore."
"Non credo di... capirti." bisbigliai fissandola
I denti le si erano scoperti nell'eburneo di un ghigno che possedeva lo stessa vacuità dei lupi.
"Distruggilo, Dyen. Distruggilo. Così che esso non possa ferirti più. " l'iride cremisi si era illuminata di un bagliore allucinato e cupo " Perché ogni battaglia è già persa se è l'acciaio più affilato a consumarti le carni. E non c'è acciaio più letale di quello dei sentimenti."

Non avevamo nulla in comune io e Addakra, tranne, forse, una rara forma di solitudine.
La mia bellezza pareva incisa nell'imperfezione, nell'asimmetria di un paio d'occhi troppo grandi e un corpo che mi faceva assomigliare a un uccellino tanto era piccolo, acerbo.
Avevo i colori tenui del popolo del Sud, pelle rosata e il grano nelle chiome.
In silenzio, avresti detto che ero gradevole, che incarnavo la quintessenza della madre e della sposa, sorriso timido e animo quieto.
Lei no.
Si muoveva con la grazia e la ferocia di un predatore, la sua femminilità evidente, marcata, fasciata nel cuoio dell'armatura.
Addakra possedeva i capelli di un corvo e gli occhi maledetti delle ferae.
Quando le avevo chiesto di quelle pupille ungulate, mi aveva sorriso, motteggiando gli scritti dei libri della capitale caduta, Albir.
"I ferae sono creature maledette. Maledetto è il seme e maledetto è l'utero indegno che gli ha dato i natali. Camminano su questa terra solo per dispensare morte e sciagura. Guardatevi, o cittadini, dai ferae. Solo un altro ferae può ucciderli, sia esso di carne o di spirito. "
"Sono solo sciocchezze." avevo replicato alzando una mano al cielo "nessun accademico vi crederebbe mai."
Il suo sorriso si era ampliato, diventando una smorfia.
"Eppure, Dyen, a salvarmi dal rogo certo fu solo il denaro e il potere dei miei genitori. Il popolo incolpava me per ogni cosa: dalla cattiva annata alla mancanza di pioggia. Nei miei occhi, vedevano l'ombra di un male che li ha annientati solo quattro lustri dopo. E io non ho pianto."
"Neppure per tua madre e tuo padre?"
"Per loro sì. Solo per loro. Gli altri potevano bellamente crepare."

Non era mai stata brava come le sue coetanee nelle questioni amorose Addakra e forse fu proprio per questo che le sue voglie vennero catturate da un lupo.
Le altre cercavano un insieme di muscoli e ossa che, alla fine, erano solo ragazzini troppo cresciuti, a cui l'adolescenza aveva giocato il brutto tiro di fargli crescere la barba sul bel visetto glabro, regalandogli l'onere di essere definiti uomini.
Mentre desideravano il principe dai biondi crini e l'occhio azzurro un po' vacuo, simile a un cielo annacquato, Addakra cercava una belva che le facesse la guerra e la mordesse fino a ricordarle che sì, il suo sangue era uguale a quello degli altri.
A dirla tutta, la verità, nemmeno le serviva un cavaliere, spada in pugno e sorriso da ebete.
Le bastava imbracciare l'arco di suo padre e guerreggiare a un cielo plumbeo, grigio e sporco come i suoi sogni, per assomigliare più a una fiera incisa nella notte che a quella cretina della sua balia.

"Le brave nobildonne non vengono istruite alle armi e neppure indossano le brache come un contadino qualunque!" l'ammoniva Taidare puntandole il dito grassoccio contro "E soprattutto, tengono a freno la lingua! Non si permettono di rispondere con tanta maleducazione al figlio del Signore di Herstain! Bambina mia, poteva essere la tua occasione."

"La mia occasione, certo. Per essere sgozzata come un maiale e poi bruciare sul più grande rogo a cui tutta Umenarn avesse mai avuto il privilegio di assistere ." mi confessò di aver pensato Addakra, sul fondo della sua orbita un livore mai attenuato veramente.
Non la volevano, lo sapeva bene.
In quella pupilla ungulata con cui ghermiva il mondo vi era il riflesso di un mostro da denigrare e uccidere, cancellando l'onta d'esser figli dello stessa città.
Vi era il bagliore del sangue sporco che l'aveva generata, lo stigma della punizione degli angeli.
Poco importava che sua madre fosse la donna più colta dell'intera regione e che suo padre avesse difeso le loro mura più volte di quante avesse mai abbracciato sua figlia.
Nulla interessava che gli angeli fossero solo dei bastardi egoisti, le cui piume bianche parevano quasi nere dal sangue di cui erano intrise.
Era una bestia, un demonio.  
Era una donna, una ferae.
Sterile per antonomasia, nel corpo come nell'anima, pareva quasi un cancro.
E andava estirpata.

Era una femmina che gridava il suo rancore al mondo, intossicandosi poco a poco, infettandosi e mostrando, orgogliosa, il risultato di tutto quell'odio.
Non temeva nulla, Addakra, perché le avevano già tolto tutto.
Faceva bandiera del suo veleno, si vantava della sua ferocia.
La verità è che non poteva lasciar andare nessuno di quei sentimenti: senza di essi, non avrebbe più saputo chi essere.
Non poteva tornare indietro e non voleva andare avanti, Addakra, e quindi si aggrappava al presente, senza mai mutare.
Come i morti.

Uno degli ultimi mesi del mio addestramento lo passammo a Shunal, una cittadina rurale a sud di Rathos.
Per i primi sette, c'eravamo avventurate nei posti più disparati di Matarisvan, sfiorandone quasi la catena montuosa, Kandris.
Le mie braccia si erano rafforzate e così pure le mie gambe.
Che fosse sotto la pioggia oppure nella foschia più compatta, ad Addakra non interessava: mi faceva allenare comunque.
Avevo imparato a caricare e a colpire con una balestra, a lanciare i pugnali e a costruire una granata.
Avevo imparato a cacciare, a combattere, a piegare il lucido metallo che era la mia mente alla volontà assassina della guerra.
Nel buio, avevamo massacrato più di qualche decina di demoni, il suo secondo insegnamento forse il più importante.
"Siamo soli, Dyen. Non contare su di me o su nessun altro in battaglia. Io sono solo un fenomeno passeggero. I cacciatori sono animali solitari e così devono rimanere. Non possono avere il fardello di una compagnia, oppure preoccuparsi per la schiena di un altro. Se crepano, vuol dire che non erano poi così bravi."
All'epoca, non potevo sapere quanto rimorso ci fosse in quelle parole.
Non potevo immaginare quanto incisa nella pelle fosse quell'esperienza.
Non potevo sapere la colpa che portava nel cuore, che la stava smembrando un pezzetto alla volta, giorno per giorno.

A ripensarci adesso, sembrava quasi inevitabile.
Addakra era la Morte, senza corona e senza scettro, e io non potevo essere altro che il suo opposto.
Me lo ricordava in ogni momento, in ogni mia debolezza, in ogni mio errore: che, però, significavano che vivevo ancora.
Chi appartiene ormai al mondo dei morti non ha più questo lusso.
Vaga sulla terra senza veramente sentirla, asciuga le proprie lacrime senza veramente piangerle.
E' già polvere e alla polvere brama di tornare.

"Sembra un buon posto dove rimanere per un po'." avevo mormorato speranzosa.
Addakra aveva annuito, individuando l'unica locanda di Shunal ed entrandoci con passo felpato.
Guardò gli astanti con la solita espressione di elegante noncuranza, rivolgendosi a un ragazzo che correva da un tavolo all'altro, i capelli rossi spettinati e il viso accaldato.
"Ehi!" berciò al suo indirizzo "Tu." disse alzando un dito e indicandoci "Ci serve una camera, per almeno un mese."
Il ragazzo si era fermato sorpreso, grattandosi la nuca.
Stava per replicare quando una voce femminile, un po' grossa, lo sovrastò:
"Lui è Joric, il cuoco e anche mio figlio." Addakra si voltò verso una donna corpulenta che si puliva le mani con uno strofinaccio "Io gestisco la locanda. Ditemi, brennin."
"Ci serve una camera, doppia, letti separati. Vitto e alloggio pagati in anticipo..." sciorinò lanciando dieci monete d'oro sul bancone "E nessun disturbo."
La donna scrutò il suo abbigliamento, le armi che portava appese alla schiena, il cappuccio ancora alzato e la posa militare.
"Non abbiamo mai avuto demoni, qui."
"Fortuna." scandì tetra Addakra "Mi serve solo una camera."
" È tua figlia?" domandò la donna indicando con il mento verso di me.
Un suono raggelante ghermì la stanza, schietto e durissimo: una risata.
"No." replicò gelida "Sono un cacciatore di demoni. Far nascere un figlio è un puro atto di crudeltà in un mondo come questo."
Sembrava stesse emettendo una condanna.
La donna si mosse inquieta, porgendole poi una chiave e presentandosi:
"Mi chiamo Asuli e sono al vostro servizio. Per qualsiasi problema, non esitate a chiamare me oppure Joric."
"Sarò fatto." esalò a denti stretti Addakra prima di svoltare l'angolo e iniziare a salire le scale.
Mi guardò in tralice.
"Hai deciso di rimanere ferma lì, Dyen?"
"Uh... no, no!" risposi scuotendo le mani "arrivo!"
Gettai un'ultima occhiata a Joric, scoprendo, imbarazzata, che mi stava fissando a sua volta.
Battei in una veloce ritirata, lasciandomi dietro il sorriso di un ragazzo dai colori dell'autunno, arrossendo.
Patetica, entrai in camera e mi lascia scivolare sulla sedia, allungando le braccia sul tavolo e guardando Addakra sistemare le sacche.
"Addakra?"
Ricevetti solo un grugnito scocciato come risposta.
"Credo di essermi innamorata."



Nota dell'autrice.
Ferae: in latino significa "bestia, animale." E' stato usato al nominativo plurale, per indicare una genia intere di creature caratterizzate dalla pupilla ungulata da rettile. Nella credenza popolare di Matarisvan sono ritenute creature malefiche e portatrici di sventura, dato che possiedono una caratteristica demoniaca.
Bronnen (brennin al plurale): significa "sopravvissuto"

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Capitolo 5
*** Prima lux ***


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Disclaimer: Questa storia è stata scritta per puro diletto personale, pertanto non ha alcun fine lucrativo. L’intreccio qui descritto e i personaggi rappresentati sono copyright dell’autrice (Nocturnia) e non ne è ammessa la citazione altrove, a meno che non sia autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.

Prima lux


In quel pugno di albe che omaggiarono la mia permanenza a Shunal, si venne a creare, tra me e Joric, un rito tutto privato e personale.
Le notti in cui non ero sfiancata dagli allenamenti di Addakra, quelle in cui gli incubi si faceva più insistenti, mi alzavo in silenzio - o così credevo - e scendevo le scale della locanda solo per ritrovarmi in cucina, tra le sue braccia.
Non ero mai stata innamorata prima e le labbra di Joric mi sembravano il posto migliore a cui tornare.
In cui rimanere.

"Non hai mai incontrato un demone?" glielo chiesi nuda, sotto un cielo che aveva lo stesso sapore della mia infanzia.
Joric mi spiò di sottecchi, abbozzando un sorriso.
"No, mai. Forse Shunal non è una città interessante per loro."
Risi nervosa a quell'affermazione, ben sapendo come fosse solo una mera casualità quella a cui si riferiva Joric.
"Fidati..." sussurrai sulla sua pelle "niente fa abbastanza schifo a un demone da evitarlo."
Avrebbe dovuto essere un discorso serio e cupo, tragicamente vero, ma il sesso - o l'amore - erano un sudario che tutto coprivano, un velo oltre al quale era impossibile andare.
Mi baciò con tenerezza assassina, carezzandomi la cicatrice che avevo lungo la clavicola.
"Come te la sei fatta?"
"Joric, io non credo..."
Rialzò i suoi occhi, scuri e improvvisamente pensierosi, piantandoli nei miei e fissandomi con un'intensità lacerante.
"Voglio sapere. Devo sapere, Dyen. Perché tu sei anche questo."
Un cane aveva ululato alla luna, scalfendo il silenzio che si era venuto a creare.
Avevo sospirato, poggiandomi contro il suo petto e iniziando a raccontare.
A ricordare.

Erano appena due mesi che condividevo la vita e la speranza con Addakra: due mesi di affanni, punizioni e fatica.
Albir, la città natale di mia madre, si estedeva sotto di noi.
Si alzavano ancora nell'etere le lunghe colonne bianche dell'ingresso principale, mentre il suo simbolo, una fenice, spiccava come una ferita lungo tutta la fiancata delle mura.
Il cielo sopra di noi era grigio e pastoso, pronto a vomitare una tempesta perfetta.
Addakra rimase rigida, eretta nella sua posizione un po' legnosa e troppo dura, ascoltando il rumore della foresta alle nostre spalle.
"Questa era..."
"Lo so."
"Dicevano fosse cesellata nell'opale e nell'argento, la città grande di Matarisvan."
Addakra mi concesse un mezzo sorriso, raccogliendosi i capelli in un nodo strettissimo.
"L'esercito rimasto si è portato via quello che c'era di valore ad Albir, Dyen. Quando Moloch decise di conquistare questo mondo e Angrovis gli si oppose, Albir fu la prima a cadere. La prima a resistere."
C'era una nota amara nella voce di Addakra, un flessione piena di rimpianto e ricordi.
"I miei nonni erano di Albir. Gli ultimi profughi." replicai al suo fianco
Addakra annuì, prima di proseguire.
"Albir era macerie e polvere ancora prima che io nascessi, Dyen. Liam, il suo Re, si oppose con tutte le sue - le nostre - forze a Moloch, ma l'aiuto di Angrovis si rivelò ancora peggiore. Angeli e demoni sono fatti della stessa pasta, bronnen: basta imparare a distinguerne il sapore."
Il vento mi spirò tra i capelli, rendendoli fili strattonati dalle mani capricciose di un bambino.
"Mia madre diceva sempre che quella fu l'epifania della fine. L'apocalisse."
"Aveva ragione. Dopo che Liam impazzì a causa di Angrovis e del suo potere, l'esercito - o quei pochi sopravvissuti - si sparpagliarono per Matarisvan, rubando e diventando mercenari, ladri, disperati. Senza più l'ala di Fenice, ovvero la punta di diamante di Albir, ben presto si venne a creare il caos. "
Addakra puntò l'iride verso l'orizzonte, saccheggiando il paesaggio e carpendone ogni dettaglio.
"Non siamo più un paese. Siamo un campo di guerra, Dyen. In tutta la sua gloria, in tutto il suo orrore."
Tacqui alcuni istanti prima di replicare, ma fui bruscamente interrotta dalla ferae.
"Zitta." mi intimò perentoria "Non lo senti?"
"Io... no... cosa?"
"Il rumore. Il rumore del silenzio, Dyen."
Mi scostai il cappuccio del mantello e accostai l'orecchio all'aria immobile.
Con un brivido di terrore, capii a cosa si riferiva Addakra.
Al di là dagli arbusti non proveniva alcun suono, né l'allegro cantare degli uccellini né lo scalpiccio irritato dei buhriman.
"Addakra..."
Non feci in tempo a completare la frase.
Una massa di pelle e ossa, dall'odore putrefatto dei cadaveri lasciati marcire al sole, si lanciò contro di noi, fendendo l'aere.
Addakra e io ci scansammo giusto in tempo, rotolando ai due lati della collina.
"Cosa diavolo era?" urlai, riprendendo l'equilibrio
Ma Addakra non ebbe fiato per rispondermi.
Con un grugnito di disapprovazione si avvicinò al bordo dell'altura, appollaiandosi sul masso che troneggiava in cima.  
Si era toccata la schiena, liberando dalle cinghie la balestra e incoccando, una dopo l'altra, diverse frecce che erano poi andate a puntare verso un grumo nero e rossastro a valle.
"E' un aeshma." sibilò tra le labbra serrate "Un abominio composto da pezzi di cadaveri e altri orrori che non vuoi davvero conoscere. Di solito non si nascondono nelle città vuote, ma i saprofagi devono essergli sembrati una buona alternativa ai phazani."
"E perchè..."
Ci fu un rumore, come la pietra che si spezza, così duro e secco che il mondo stesso parve aprirsi: poi, una folgore di carne partì verso di noi.
L'istinto della bestia fu rapido e Addakra scoccò tutte le frecce che aveva nella balestra.
Incurante, l'aeshma ricaricò, dirigendosi verso di me.
Estrassi la lama dal fodero per alzarla e parare il colpo, ma l'unghia di quell'essere, lunga almeno come un pugnale da venti, mi penetrò nella scapola, lasciandone stillare plasma rubino.
Gemetti dal dolore, mentre il tanfo di decomposizione mi aggrediva le narici.
Alto circa sette piedi, pareva inciso nell'incubo di un disegnatore folle.
Dal ventre, verdastro fuoriuscivano fasci interi di interiora, mentre il busto era ricoperto da piaghe e vesciche, pus nerastro e infetto che andava a intorbidire il terreno.
E la bocca.
La bocca era un taglio netto sul volto disfatto, denti aguzzi e un creack, creack taaaak continuo che pareva quasi un metallo cigolante.
"Dyen"! latrò Addakra dalla schiena della creatura "Abbassati!"
Non pensai: lo feci e basta.

Fu in impatto roboante, stridente.
Fu come se centinaia di pungoli arroventati mi si conficcassero nelle carni, afferrandomi il cuore e stracciandolo in libbre grandi come una moneta.
Riuscii ad estrarre la spada all'ultimo minuto, mentre una miriade di piccole scintille mi esplosero dietro le palpebre.
Addakra aveva aperto il fuoco, lanciando tutte le granate che portava alla cinta.
La vidi imporsi di non arretrare di un passo, piantando saldamente gli stivali nel terriccio e gettando tra le fiamme, ormai incombenti, il corpetto e il mantello.
Il cuoio disegnato avvampò d'improvviso, l'epidermide, già deturpata, aggredita da quella luce come fosse la punta di una frusta.
Digrignò i denti Addakra, ricordando quella lezione che il figlio del nord le aveva impartito a suon di morsi e rovinosi scontri.
"Farai grandi cose con il tuo odio, Addakra. Ti nutrirà. Ti darà la forza e la lucidità. Odia e lascia che esso diventi parte di te. La tua ira, il tuo odio, la tua frustrazione! Plasmali, lascia che entrino in ogni tua cellula, ogni tua goccia di sangue! E quando ne sarai piena, fa che diventi la tua arma. Che il tuo nemico possa morire di ciò che egli stesso ha creato!"
E obbedì.
Lanciò un urlo che era vibrante di furia repressa, acuto e lacerante.
Regredì fino al nucleo pulsante della sua natura di ferae e cacciatrice, incanalando ogni fibra nell'arco d'ossidiana che attraversò poi il cielo, andando a schiantarsi contro il petto dell'aeshma.
Fu con un ultimo sforzo che Addakra riuscì a contrastare l'attacco, lasciando che fosse l'ultima trappola esplosiva a spappolare il cranio del demone.
Rialzandomi, vidi Addakra scivolare oltre il monte erboso e lì rimanere.
Le fui subito addosso, tastando, incerta, le sue ferite, fissandola con un cipiglio angosciato.
Il sangue - il suo sangue - luccicava sull'erba come rugiada, disegnando strade vermiglie intorno al suo corpo.
"Sto bene.." aveva mormorato, tentando di issarsi sulle gambe "Sto bene..." aveva pigolato, ricadendo poi sulle ginocchia e fissandosi, infuriata, i palmi delle mani, ora ridotti a un ammasso di ustioni e tagli "È la tua faccia che fa schifo Dyen, non la mia..."

Era poi svenuta Addakra ed era riemersa da quell'incoscienza solo alcune ore dopo.
Al suo capezzale aveva trovato una ragazzina biondissima e tenace che scaldava un coniglio sul fuoco e un cielo terso, incredibilmente pulito.
"Sei sveglia."
"Non crepo facilmente."
Un sorriso disarmante aveva adornato le labbra di Dyen.
"Questo l'avevo capito."
Aveva sorriso anche lei, seppur nascosta dalle pieghe dell'oscurità.
In lontananza era risuonato il cupo echeggiare di una campana, forse quella caduta di Albir, forse il vento contro lo scheletro di una città - di un mondo - morente.
Non chiedere per chi suona la campana: viene per te.


Addakra si era svegliata con una tremenda sensazione di predestinazione e pericolo.
I suoi riflessi avevano reagito ancor prima della mente e, issandosi sui polpacci, aveva toccato le doppie balestre.
Nella stanza regnava un silenzio innaturale, dubbio.
Si era girata verso sinistra solo per per vedere un pugno di lenzuola sgualcite e un letto vuoto.
Dyen era uscita: di nuovo.
Aveva annusato l'aria, percependo un sibilo feroce e prolungato.
Tesa, era rimasta in ascolto, udendo, per la seconda volta, quel graffiare di unghie giù per la gola.
Aveva deglutito, imbracciando l'arma.
Era la chiamata.
Era il suo futuro che bussava alle porte della storia.
Un secondo bramito si era levato al cielo, fischiandole nelle orecchie.
Rigida, aveva aperto la finestra e, gettata la testa all'indietro, aveva emesso un grido lungo e gutturale, quasi quello di un demonio.
La notte si era fatta rumorosa all'improvviso, ghermendo i confini di Shunal e facendoli sanguinare.
Addakra si era accasciata sul pavimento, la testa fra le mani e le gambe tremanti.
Quello era il richiamo della bestia, dell'uomo che aveva amato e a cui aveva dato tutto.
E lei aveva appena risposto.




Note dell'autrice:
Aeshma: è il nome di quello che nello Zoroastrismo è il dio della collera
Buhriman: è il cavallo del maggiore demone zoroastriano, Ahriman (o Ahrina). Dotato di poteri malefici o benefici secondo i casi, si rende invisibile di giorno e appare la notte. È di colore rosso fuoco ed emette fumo acre e sulfureo dalle narici.
"Non chiedere per chi suona la campana" è il titolo di un libro di Ernest Hemingway del 1940.

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Capitolo 6
*** Apricor ***


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Disclaimer: Questa storia è stata scritta per puro diletto personale, pertanto non ha alcun fine lucrativo. L’intreccio qui descritto e i personaggi rappresentati sono copyright dell’autrice (Nocturnia) e non ne è ammessa la citazione altrove, a meno che non sia autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.


Apricor


Addakra constatò, leggermente basita, che era già passato un mese da quando erano giunte nella locanda dei Tre Picchi.
Con i piedi immersi nel fiume che attraversava la campagna vicina, alzò il viso a un sole tiepido e mitigato dal vento fresco.
Gettò un'occhiata alla cittadina: nient'altro che un pugno di case, una locanda e qualche fattoria.
La pupilla uncinata di cui gli dei le avevano fatto dono scorse Dyen appoggiata a Joric, che le baciava la tempia.
La sua allieva e il cuoco dovevano avere più o meno la stessa età e non era stato difficile capire cosa provasse Dyen per lui.
Si cercavano di continuo e, persino dopo gli allenamenti, Joric l'accoglieva come se fosse stata la più bella delle ragazze.
Più di una volta li aveva trovati in cucina, mani imbiancate dalla farina e qualche nuovo dolce di Joric sul tavolo, creato appositamente per Dyen.
Le regalava fiori, poesie, persino qualche vestito o qualche gioiello di bassa oreficeria.
In soli poco più di trenta giorni le aveva fatto una corte spietata e al contempo morbida, le labbra di Dyen sorridere sempre più spesso.
La sorprendeva fissare il soffitto della stanza e sospirare, svenevole come una ragazzina di dodici anni.

"Non è bellissimo?"
Addakra le aveva dispensato uno sguardo a metà tra l'annoiato e il beffardo.
"Chi? Quel ragazzino?" aveva dichiarato sorridendo
Dyen aveva colto lo sfavillio del sarcasmo nell'iride cremisi di Addakra e si era imbronciata
"Joric. Si chiama Joric. E poi..."aveva sostenuto petulante "Tu non sei mai stata innamorata, Addakra?"
La ferae si era contratta, continuando a mangiare il petto d'anatra come se niente fosse.
"Addakra?" l'aveva incalzata Dyen alzando un sopracciglio
"Una volta." aveva confessato la cacciatrice "E non era certamente un poppante, ma un uomo."
"E com'era?"
Addakra spostò di lato il piatto vuoto, afferrando quello ancora pieno a metà di Dyen e cominciando a razziarlo delle patate.
"Non sono affari tuoi." aveva berciato masticando.
Dyen si era ripresa indietro la sua portata, piccata.
Dopo qualche minuto di silenzio, la ferae aveva sospirato rumorosamente, versandosi una generosa coppa di vino:
"Aveva due lustri più di me. Ed era un uomo: nella forma, nei modi, nei pensieri." aveva alzato i suoi occhi scarlatti su Dyen, quasi gemme sanguinolente "La vita con lui non era sempre facile, ma era appagante. Almeno per me."
"E adesso dov'è?"
La ferae non aveva mosso un muscolo, ma se avessi potuto guardare all'interno, avrei visto il suo cuore contrarsi in maniera furiosa e infine franare tra le ossa del costato.
"A Indantium.." era stata l'unica risposta che Dyen aveva ottenuto, quel pallido momento di armonia stemperarsi e interrompersi nella risata improvvisa di Joric e nel nuovo tortino che, zelante, aveva deposto sul loro tavolo.
Sulla cima, svettava una piccola rosa bianca, dolcissima al palato.
Quando però Addakra dette il primo morso, le sembrò di sentire il sapore del fiele.

Si era persino concessa di perdere qualche giorno a studiarlo, quel ragazzo: all'inizio aveva pensato fosse uno stupido, che scivolava inerte sulla china della vita, troppo superficiale per comprendere appieno la visceralità di quel mondo.
Ma poi, si era dovuta ricredere.
Quella che aveva scambiato per banalità era invece una forma salda e sicura di accettazione: della vita, dei suoi oneri, della natura di Dyen.
Ricambiava i suoi baci e le rendeva tutto facile, dolce.
Vellutato.
La stucchevole benevolenza del primo amore, aveva decretato amara.

C'era stato un punto zero anche per lei.
Quando l'aveva visto combattere, una macchina bellica perfettamente funzionante, aveva sentito un languore intorpidirla, l'istinto primordiale di sentire che sapore avesse la sua pelle.
Osservava quelle mani, piene di cicatrici e ruvide al tatto, e si scopriva insensibile al sangue che le aveva macchiate.
Perversamente, ne era rimasta affascinata.
Ferina, aveva voluto che prendesse il suo, di sangue.
Nei cinque anni che avevano condiviso, furono gli ultimi due a unirli veramente, nella tela indecifrabile dell'amore.

Zanor era un predatore, ma Addakra non si poteva dire fosse una preda: semmai, un suo pari.
Di lignaggio nobile, dalla lingua velenosa e gli occhi ungulati dei ferae, gli si poneva al fianco come una donna dal profumo del sangue.
Per lui, una piccola palla di carne nato dal ventre di una puttana di Albir, Addakra aveva i colori di una maledizione.
La guerra l'aveva cresciuto e l'indifferenza della gente l'aveva temprato.
La stessa indifferenza a cui era stata sottoposta Addakra, la cui vita era stata risparmiata solo per i fiumi di piastre d'oro che, inesorabili, erano scivolate tra le dita dei suoi genitori per rabbonire una città che l'avrebbe volentieri condannata al rogo.
Fu in una notte gelida che l'accolse nel suo letto, il desiderio un languore famelico che divenne poi un amplesso rovinoso e brutale.
Era sangue e carne, un morso ferino tra le cosce e un calore improvviso al ventre.
Era il modo d'amare di un uomo come Zanor, il marchio con cui definiva ciò che era suo, per diritto e per dovere.
Quando il tutto era giunto a una conclusione, Addakra l'aveva fissato a lungo, trovando sulla propria pelle lo stigma di un amore che aveva cercato e voluto.
Un amore crudo e puro, nella sua forma selvaggia.
Silenzioso, la squadrava in tralice, un urlo muto incatenato nella gola, le iridi di ghiaccio bloccate sul nastro lucente di sangue che le scivolava oltre la clavicola, fino al seno.
Una bestia: nient'altro che una bestia, il figlio deforme di una puttana.
D'altronde, cos'altro poteva essere, se non un abominio?
Gliel'avevano urlato tante volte per le strade, nelle taverne, lanciandogli sassi e uova marce.
Si era mosso per alzarsi, allungando una mano verso i pantaloni, ma Addakra gli si era avvicinata di nuovo, circondandolo con le sue lunghe gambe, accogliendolo, ancora.
Zanor aveva letto nei suoi gesti, nei suoi occhi, la comprensione.
E il lupo si era infine ammansito.

"È una bella giornata, vero?"
Addakra non aveva alzato nemmeno lo sguardo, limitandosi a storcere le labbra in una smorfia sarcastica.
"Vuoi fare conversazione, Asuli?" aveva ribattuto, insistendo sull'ultima parola.
Dalla pronuncia, ruvida e aspra, pareva quasi un insulto.
La donna aveva scrollato le spalle, sedendosi al suo fianco e spostandosi la gonna sotto le ginocchia.
"Chiamala come vuoi, bronnen."
Per alcuni minuti erano rimaste in silenzio, avvolte nelle rispettive idee, sensazioni.
"State per partire, vero?"
"Cosa te lo pensare? Ho pagato per un altro mese, se non sbaglio." aveva risposto la ferae
Un sorriso mite era comparso sul viso di Asuli.
"Non rimani mai a lungo in un posto, bronnen. Me lo dicono i tuoi gesti, i tuoi sguardi spazientiti e avidi di guerra e sangue. Me lo dicono il fango che trovo sotto i tuoi stivali ogni mattina e le bende intrise di plasma che cerchi di nascondere a Dyen."
Addakra l'aveva, finalmente, guardata, sotto le lunghe ciglia un baluginio spaventoso e furibondo.
Asuli non si era scomposta, ampliando invece il sorriso.
"Con me non funziona, bronnen. Puoi farmi quello sguardo per tutto il tempo che vuoi, ma non mi rimangerò quello che ho detto. Forse mi ritieni debole e ignorante, ma crescere un figlio in un mondo come questo ti tempra."
"È da idioti."
"È da chi ha ancora una speranza."
La ferae le aveva piantato gli occhi addosso, sulla bocca un sorriso sgradevole, privo di ogni allegria.
"La speranza è una stronzata. Fare figli a Matarisvan è una stronzata. Muoiono, come tutto in questo posto del cazzo."
Asuli aveva taciuto per alcuni istanti, prima di espirare bruscamente.
"Senza futuro non ha alcun senso continuare, bronnen. "
"So badare a me stessa anche senza i tuoi consigli."
Le sopracciglia di Asuli si erano aggrottate in una piega irritata e, per la prima volta da quando conosceva quella donna, durissima.
"Tu sai combattere. Sai uccidere. Io non temo che tu non sia in grado di sopravvivere, ma che non voglia farlo. Bruci bronnen e nel tuo fuoco non puoi trascinare tutti noi. Non Dyen."
Eccoci al punto. Dyen. aveva pensato Addakra, stornando l'iride e catturando il riflesso di un pesce che guizzava nell'acqua.
"È per il cuoco, vero?"
"Joric." la redarguì Asuli "Ha un nome, sebbene tu ti ostini a non darlo a niente che non sia sofferenza o dolore."
Addakra alzò la mano e gesticolò, come a scacciare un insetto fastidioso.
"Dare un nome alle cose non ne cambia la sostanza. Sei preoccupata che Dyen lasci solo il tuo Joric."
Asuli si era alzata in tutta la sua imponente mole, scrollandosi il vestito e pettinandosi i capelli ramati con le dita.
"Invece cambia, Addakra. Cambia tutto. Il nome delle cose è solo il confine in cui chiudiamo i nostri pensieri. Nel nome riposa la realtà. Riposa chi siamo veramente. Cosa siamo davvero, oltre la pelle e il riflesso distorto datoci da altri."
La ferae l'aveva squadrata mentre scendeva il piccolo pendio, per poi sparire tra la gente di Shunal, colori e profumi che la stordivano quasi.
Nel nome riposa chi siamo.
Addakra. L'aveva chiamata Addakra. Non bronnen o ferae, ma Addakra.
Si era voltata, stringendosi le ginocchia al petto e inspirando profondamente.
Forse era tempo di dare un nome anche alla sua ossessione.
Al suo destino.

Quella sera, quando avevo salutato Joric con un bacio a fior di labbra e un sorriso, affrettandomi verso le scale, non potevo sapere della conversazione tra Asuli e Addakra.
Non potevo sapere di una coscienza anestetizzata da troppo tempo e di un cuore che aveva ripreso a battere.
Non potevo sapere e non ero in grado di comprendere, poiché l'amore che nutriva le mie giornate era stato generoso di sensazioni e di illusioni.
L'amore, d'altronde, è solo una rara forma di generoso egoismo.

Addakra mi venne incontro a metà strada, nella sua pupilla verticale tutta la determinazione dei guerrieri.
Inghiottii un rigurgito acido quando notai lo zaino e l'armatura perfettamente indossata.
Con una mano guantata mi tese le chiavi della camera, imperiosa:
"Vestiti e preparati. Partiamo stanotte."
"Perché?" riuscii a esalare, attonita.
"Ho identificato un nucleo della legione di Moloch, il Signore dei demoni, poco lontano da Eshpond. Li dobbiamo prendere."
"No." mormorai deglutendo "Non... non adesso."
Non mi aveva neppure guardato in faccia, si era limitata e scansarmi e a scendere verso la sala inferiore.
"E quando, Dyen? Quando avrai dei pargoletti a cui badare? Quando non avrai più pavimenti da lavare? Quando Joric te lo permetterà?" si era inclinata verso di me, nella pupilla una scintilla crudele, atroce.
Inumana.
"Scegli cosa essere, ragazzina: preda o cacciatrice?"

L'ho odiata.
Adesso, con assoluta certezza, posso dire di averla odiata durante tutta quella lunga marcia verso nord.
Avevo detto addio a Joric con il cuore a pezzi, i suoi occhi castani coperti da un velo di lacrime.
L'avevo abbracciato, promettendogli che sarei tornata.

"Tornerò Joric, te lo giuro." avevo articolato a fatica
"Ne sono sicuro..." mi aveva replicato sospirando sulla mia bocca "Sei una cacciatrice, sarebbe sciocco pensare diversamente."
Come aveva già capito prima di me Addakra, Joric possedeva il buonsenso e la praticità dell'uomo adulto, sebbene contasse solo qualche anno più di me.
Per lui, amare significava accettare in toto la persona che si sceglieva di tenere al proprio fianco, con i suoi spigoli e le sue crepe.
E aveva scelto me.

Quando giacevo sulla terra nuda, al freddo, con la sola compagnia dei ricordi e il grattare delle unghie demoniache in lontananza, erano le labbra di Joric a tenermi caldo.
Era la scoperta di un universo in cui mi era permesso solo tendere le dita, incerte, cercando di non inciampare su di un ammasso di rovi.
Era il fuoco di un primo amore che non voleva saperne di estinguersi e che, a differenza di Addakra, mi dava una ragione per vivere.
Non potevo sapere che, quel fuoco, Addakra l'aveva già sperimentato sulla propria epidermide e che ne portava le cicatrici.
Non potevo comprendere che, dietro quei modi bruschi, quei sorrisi che erano solo zanne e quella crudeltà misurata, vi era il tentativo estremo di salvarmi.
Perché Addakra sapeva già verso chi e cosa stavamo andando.
Sapeva che era meglio avvampare e poi estinguersi, spegnersi tra quelle memorie e quei rimpianti.
Ed era quello che stavo per imparare.

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Capitolo 7
*** Crimen maximo ***


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Disclaimer: Questa storia è stata scritta per puro diletto personale, pertanto non ha alcun fine lucrativo. L’intreccio qui descritto e i personaggi rappresentati sono copyright dell’autrice (Nocturnia) e non ne è ammessa la citazione altrove, a meno che non sia autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.


Crimen Maximo


Avevamo raggiunto il piccolo avamposto in quasi trenta giorni di cammino, il vento freddo di Indantium che cominciava a spirare, violentemente, oltre la catena montuosa delle Krasis.
Addakra aveva spiegato una piccola pergamena ingiallita, puntando il dito sulla cattedrale e sulla piazza.
"Slaught era una brutta città di allevatori prima di essere adibita a uso demoniaco, adesso è ancora peggio. Conta poche abitazioni, un mucchio di muschio e puzza di merda e vacca.
Ha solo una chiesa, ora centro dei cultisti di Moloch. Dovremo arrivargli alle spalle e andare prima in ricognizione...giusto per sapere quante unità contano."
Annuii intensamente, una parte del mio cervello spegnersi per far posto all'istinto della predatrice.
"Andiamo entrambe?"
"Sì." replicò asciutta Addakra "È meglio."
"Perfetto. Quando?"
Addakra scrutò il cielo, prossimo al crepuscolo, dove cirri porpora e viola si rincorrevano a vicenda.
"Stasera. La notte è il momento in cui si sentono più sicuri, in cui abbassano la guardia. Ed è quello in cui noi possiamo nasconderci meglio."
Avevo asserito con il capo senza alcun entusiasmo, troppo sciocca e troppo egocentrica per percepire la latente disperazione nella sua voce. Partimmo avvolte da un silenzio teso, dove, per me, tutto diventava un oltraggio personale.
Nondimeno, quando raggiungemmo Slaught, appostate su di un albero, contammo almeno una decina di cultisti, seguiti a ruota da parecchi saprofagi e qualcosa che non riuscii bene a identificare.
All'apparenza sembrava una figura umana, ma domava l'aria con una lunga coda a scaglie, dotata di rostri aguzzi.
Il viso, nascosto da una livrea di liquido inchiostro, era inclinato nell'atteggiamento pigro e indolente di chi si ritiene superiore e perciò non ha certo bisogno di curarsi degli altri.
Strinsi gli occhi, cercando di capire e ripassando mentalmente il bestiario che mi aveva insegnato Addakra, ma quella non rientrava nell'elenco.
Mi sporsi in avanti, bilanciando il peso e capendo che era una maschio: e anche abbastanza alto.
"Addakra..." mormorai "lo vedi?"
La ferae mosse il capo in lieve assenso, fissandolo a sua volta.
Con uno scatto repentino, quella figura si girò verso di noi, occhi che non erano occhi, ma che sembravano vederci.
O meglio: sembravano vedere Addakra.
Rigida, la ferae si scostò e scomparve dietro le fronde, rannicchiandosi e trattenendo il fiato.
"Cosa...?" esalai incerta "Cosa..."
"Shhhh." mi impose Addakra portandosi l'indice davanti alla bocca "Taci Dyen. A quello ci penso io. Non tu."

E vendeva sicurezza come un'illusione, Addakra.
Ti faceva sentire immortale anche se sanguinavi, sputavi bile e interiora.
Era una donna piena d'incubi e di ossessioni, ma dalla mente lucida e il freddo nel cuore.
Era una femmina, nella vera accezione della parola: resisteva al dolore con una protervia uterina, difendeva la propria prole con violenza e seduceva con un viso raffinato.
Da folle.

Addakra sentì l'aria defluirle dai polmoni, la mente irrigidirsi e tutto il resto sparire, per far posto ad una bolla di catrame nero e bituminoso, una voragine.
"Un Ritornato..." articolò apatica " È un umano Ritornato, Dyen."
Vide a malapena la bronnen dilatare gli occhi, le lunghe ciglia fremere.
Tutto si era oscurato, per concentrarsi in lui.
Pareva quasi più un drago che un demonio, ma lei sapeva bene essere il suo cuore malato a darle questa impressione.
Emise un sospiro frantumato, le punta delle dita farsi umide e sudate.
L'aveva trovato. Finalmente, l'aveva trovato.

"Perché?" aveva sibilato conficcandogli il pugnale nella gamba, ruotandolo e spappolandogli la rotula.
Il cultista aveva gracchiato, inarcandosi, ma lei l'aveva tenuto a terra con il ginocchio e gli aveva menato l'ennesimo fendente.
"Perché?"
Era la rabbiosa determinazione dei folli, la feroce sicurezza dei martiri.
I cultisti sono già degli ammassi amorfi e grezzi di carne, quindi era giusto e sacrosanto prenderli a calci.
Staccargli cranio e occhi, orecchie e falangi: una per una.
Quello che Addakra premeva sotto la suola dei suoi stivali non era neppure riconoscibile come un uomo, neanche lontanamente.
Ma rideva.
Era un suono orribile, simile al sibilo agonico di un morto, alle unghie che si spezzano contro la roccia.
Addakra lo alzò da terra, scrollandolo con poco grazia e tirandogli fuori la lingua.
"Parla." gli intimò "Oppure te la stacco. Pezzo per pezzo."
Il cultista aveva deformato la bocca senza labbra in un sorriso repellente, un filo di liquame nero che gli colava lungo il mento.
"Perché era Zanor. Perché era lo sfregio con il quale volevamo omaggiare il nostro Signore. Perché è forte, sangue vigoroso. Perché ci serviva il tuo cuore, stupida puttana. E l'abbiamo avuto."
Addakra emise un urlo inarticolato, lasciandolo crollare al suolo e infierendo su di lui, continuando a tempestarlo di pugni fino a quando le nocche non toccarono l'aspro terriccio.
Del cultista, una pozza di sangue e ossa.

Scesi in battaglia contando.
Uno, per il colpo che mandai a segno sul primo saprofago.
Due, per le frecce che abbatterono quattro cultisti.
Tre, per il salto con cui evitai gli altri saprofagi.
Quattro, per le loro gole sgozzate, come cinghiali in una battuta di caccia.
Roteai su me stessa e usai il legno marcio di un vecchio banco da mercato per saltare su di un tetto oberato dal muschio, riuscendo a ricaricare e a colpire le bestie rimaste.
Nel mio orizzonte visivo rimanevano solo sei cultisti e una manciata di carnivori, bestioni dal pelo raso e la bocca che puzzava di morto.
E il Ritornato.

Addakra era giunta da un angolo cieco della cattedrale, lanciandogli contro due granate esplosive.
Doveva essere stato l'istinto della belva, poiché la lunga coda squamosa si era alzata nell'aere e con un unico colpo, simile ad una frustata, le aveva disintegrate, spandendo il loro contenuto intorno a lei.
Da vicino, era ancora più imponente, più terrificante.
Alto circa sei piedi, sovrastava Addakra e stringeva tra le mani un angone rudimentale, con cui parò il colpo successivo.
Pareva impresso nella neve e nel lucido dell'ossidiana, due piccole protuberanze scure che gli sputavano tra i capelli, ricurve all'indietro.
Il nulla si rifletteva in quegli occhi artici, malati come il colore di quel cielo.
Addakra aveva sollevato il viso, piantando i suoi occhi, uno strano miscuglio di furia e tristezza, in quelli del Ritornato.
Lui aveva sorriso, ruotando l'angone e avvicinandosi.
"Addakra..." aveva sussurrato sorridendo, prima di menarle una testata così ben assestata che alla ferae era sembrato si sentire esplodere il cranio.
Senza la minima possibilità di scarto, Addakra era rimbalzata all'indietro, tutta la sua disciplina ferrea liquefarsi e perdersi.
Abbaiava come un cane rabbioso e scalciava quasi un buhriman affamato.
L'aveva fissato attonita, incapace di ammettere che sì, quello era Zanor e che ricordava benissimo il suo nome.
E che voleva ucciderla.
Si era dissolta, una nube di polvere a farle da scudo, ma, purtroppo, doveva avere buon fiuto quel demonio, perché l'aveva raggiunta con una scudisciata alla nuca, prima di alzare, implacabile, il braccio e trapassarla con l'angone.
Senza degnarla di uno sguardo.

"Tu da dove vieni?"
"Uhm?" aveva replicato distratto Zanor
"Da dove vieni? Chi sei?"
"Zanor Ves'eny, il cacciatore." le aveva risposto sedendosi al suo fianco e porgendole un piatto su cui troneggiava carne di lepre.
Addakra aveva riso, un suono argentino rotolare, liquido, nella piana.
"No Zanor. Intendo, chi sei stato?" ribatté addentando il primo pezzo e passando a lui il successivo.
Si era schiarito la voce, dando qualche breve colpetto di tosse e fissando il fuoco.
"Ti interessa veramente saperlo?"
"Sì."
Un sorriso ambiguo si era steso sulle labbra di Zanor.
"Non ti basta quello che già sai?"
"La tua pelle mi parla di battaglie mai perse, di spade troppo pesanti e di un passato che vuoi nascondere. Vi è uno strano miscuglio di orgoglio e vergogna quando la mostri, quasi in essa si potesse leggere la tua anima.
So chi sei e che strada stiamo percorrendo. Ma non so come ci sei arrivato."
Aveva alzato lo sguardo su di lei, duro, implacabile.
Ferito.
E aveva cominciato a raccontare.

Zanor era nato nei pressi di Albir, anni ed anni dopo la sua triste caduta per mano del suo stesso Re, Liam.
Della capitale di Matarisvan, intarsiata nell'argento e nell'opale, ormai rimaneva un pugno di cenere e una manciata di affamati saprofagi.
Sua madre, una prostituta, si definiva membro di quella città, in quanto i suoi parenti più prossimi provenivano da lì: probabilmente, quando Zanor nacque, erano già carne da tomba.
In realtà Leris, così si chiamava la sua genitrice, l'aveva allevato e cresciuto tra le fredde e ispide terre di Indantium, contribuendo a privarlo di ogni calore.
Zanor non aveva mai saputo chi fosse suo padre, ma si vociferava di un guerriero barbaro che, una notte, avesse cercato il calore di una donna tra le braccia di Leris.
Era solo un cucciolo quando Angrovis, l'angelo sceso dal cielo, aveva distrutto quello che lui chiamava 'casa', ovvero il bastione di Sarymnaia, l'ultima roccaforte dei Phazani nel nord di Matarisvan.  
Nei suoi occhi, simile a una mefitica ustione, erano rimasti impressi i nomi e i visi degli avventurieri che annunciarono il piano del 'bastardo piumato', come soleva chiamarlo Zanor, e sua madre, rapida d'azione, era scappata.
Ancora.
Da quel momento in poi, avevano vissuto ai margini di una società che li considerava marci, sangue sporco da cui era meglio spurgarsi.
Dieci anni e l'unico sapore mai assaggiato quello della sabbia.
Dieci anni e il desiderio di un riscatto rovente.
I maschi gli lanciavano i sassi, la terra, ogni cosa:
"Figlio bastardo" urlavano "Non vogliamo il tuo putridume in questa città. Vattene, prima di diffondere il tuo immondo seme."
Dieci anni e non capire il significato di quello che ti viene gridato, perché l'adolescenza, con i suoi istinti e le sue pulsioni, è ancora un puntolino nelle pieghe dell'infanzia.
Zanor era germogliato così, tra insulti e denigrazioni, mentre di Addakra non vi era ancora neppure l'idea.
Poi, un giorno, era cresciuto.
Le donne avevano cominciato a desiderare, furtive, la sua muscolatura possente.
Gli uomini, a considerarlo un valido nemico, qualcuno che era meglio non disturbare.
Era stato un barbaro, quasi una nemesi spietata, ad istruirlo alle armi e a limare, smussando e acuendo, la sua brutalità guerriera, il fuoco di quel popolo che gli bruciava nelle vene.
L'aveva notato mentre, rapido, rubava da un carretto senza farsi notare e poi, con una destrezza tutta particolare, si gettava in un vicolo.
Per convincere quel barbaro a insegnargli l'arte bellica, tuttavia, c'era anche voluta la presa d'acciaio con cui gli aveva fermato la mano, negli occhi azzurri di Zanor la paura di essere stato scoperto.

"Quanti anni hai, ragazzino?"
"Sedici." aveva berciato
"Solo?" era stata la domanda stupita, sul braccio del bellator che andavano a disegnarsi cinque falangi ben visibili.
"Sì." aveva risposto masticando un pezzo di mela, sospettoso.
Un sorriso sbilenco si era aperto sul volto del guerriero.
"Cerchi un istruttore?"
Cerco un padre, avrebbe voluto rispondere Zanor, ma l'orgoglio e la diffidenza parevano avergli annodato la lingua.
Quel che non sapeva è che di Sewar, così si chiamava il soldato del Nord, sarebbe rimasto ben più della debole eredità di un padre assenteista e sconosciuto.
Sarebbe rimasto un figlio di ghiaccio e ferro.

Leris era morta qualche anno dopo, in un giorno di nebbia e aghi di pioggia, la polmonite portarsela via.
Zanor compiva neppure ventuno anni e aveva inaugurato la sua furiosa guerra contro il mondo.

Serrai la gola in un grido quando vidi l'angone calare sul costato di Addakra.
Rapida, la ferae si era rivoltata, evitando che le trapassasse un polmone, ma la punta dell'arma riuscì comunque a colpirle il fianco.
Le si era buttato sopra, ma Addakra l'aveva disarcionato, rotolandosi con lui nel fango.
Solida e vibrante come l'incubo che si era mangiato le nostre vite, una sfera di energia demoniaca mi aveva sfiorato lo zigomo.
Scostai lo sguardo dalla lorica adamantina di Addakra per notare che eravamo immerse nella merda fino al collo.
I cultisti avevano evocato gli eresh, piccoli divoratori deformi.
Dotati di una doppia fila di denti e privi dei bulbi oculari, mangiavano le loro prede fino a scoppiare, vive o morte che fossero.
Potevano crepare nel tentativo, ma questo non li avrebbe fermati.
E noi eravamo in netta minoranza.

Mi buttai giù dal tetto, il dolore per la caduta che mi rendeva più lenta, ma non meno efficiente.
Giocando il tutto per tutto, attraversai correndo quell'inferno e cercai di ritrovare la cacciatrice, scansando gli attacchi ed evitando di farmi ammazzare.
Era una fuga: una patetica resa, ma almeno c'avrebbe assicurato un altro giorno.
Per vivere.
Per vivere e combattere.

La corazza di Addakra aveva cominciato ad ardere, staccandosi in pezzi maleodoranti e legnosi, quasi un arbusto consumato da fiamme esigenti e spietate.
Le aveva stretto il mento tra le dita, costringendo a guardarlo: ed era stato come riflettersi in uno specchio vuoto.
"I tuoi occhi..."mormorò serio "dicono una sola cosa..."si chinò verso di lei, raddrizzando la coda e contraendola come un pugnale, indirizzato al centro del suo petto "dicono... uccidimi. Uccidimi. Strappami il cuore. Vuoi che lo faccia, Addakra?"
E su quelle labbra, vermiglie, era risuonato un singhiozzo disperato.
Di chi viene schiacciato dalla verità.

Il dubbio mi si era insinuato quando l'avevo vista deporre le armi, rimanere inerte davanti a quel rostro che, come una lama, stava per trafiggerle il petto.
Ma avevo voluto ignorarlo.
Non potevo, anzi, non volevo accettare che chi, così tenacemente, mi aveva insegnato a vivere di nuovo, mi avesse solo mentito.
Eppure, l'aveva fatto.
Scaraventai l'ultima granata esplosiva contro il Ritornato e lo colsi di sorpresa, troppo impegnato a cercare di uccidere Addakra.
Si scostò quel tanto da permettermi di afferrare la ferae e di ripiegare verso il bosco.
Addakra era molle, quasi passiva, ma la vidi sforzarsi di correre insieme a me, sebbene dalla gamba e dal fianco perdesse quantità sempre più sostanziose di sangue.
Lo stridio insistente degli eresh si fece più vicino e fu allora che mi voltai per vedere Addakra sganciare l'ultima arma dalla cinta, mistificando la nostra ritirata.
Fu allora che vidi il Ritornato fissarci, immobile.
Nei suoi gesti, nel suo sguardo, nel suo sorriso a mezza bocca, c'era tutta la sicurezza del vecchio lupo sfamato.
Che sapeva che le sue prede sarebbero tornate.
Ancora.


Note dell'autrice:
Angone: era un tipo di giavellotto usato nell'Alto Medioevo dai Franchi e da altre popolazioni germaniche, tra cui gli Anglosassoni.
Eresh: ispirati alle "divoratrici di Abissali" del manga Claymore, solo che più simili a piccoli imp
Saprofagi: creature simili al Cerbero infernale, solo che possiedono una sola testa.
Cultisti oscuri: uomini che hanno scelto di vivere con la magia negromantica. Sono ispirati a questa immagine
Ritornato: è un umano a cui viene inoculata la scintilla dei demoni.
E' un processo che si può attuare una sola volta e riporta indietro il morto, dandogli però caratteristiche demoniache.
Nello specifico sono: pupilla sempre ristretta a capocchia di spillo, pelle bianca/grigia, corna in accessorio e una coda, ispirata invece ai darkling, ovvero questi.

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Capitolo 8
*** Abruptus ***


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Disclaimer: Questa storia è stata scritta per puro diletto personale, pertanto non ha alcun fine lucrativo. L’intreccio qui descritto e i personaggi rappresentati sono copyright dell’autrice (Nocturnia) e non ne è ammessa la citazione altrove, a meno che non sia autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.


Abruptus


Come uscimmo da quell'inferno, ancora non lo so bene.
Dal fumo e dal rumore assordante che ne seguì, sono abbastanza certa che Addakra abbia lanciato una granata, stordendo i soldati e dissimulando la nostra ritirata.
Mi ero affiancata subito a lei dopo averle tolto di dosso il Ritornato, sparando quattro colpi in rapida sequenza ai demoni e gettandole il mantello sulle spalle.
Non mi aveva neppure ringraziato.
Per una donna come lei, un 'grazie' era l'ammissione del fallimento.
Per una donna come lei, il sentimento era un cancro putrescente al centro del petto.
Se non ti ammazzava prima lui, lo facevano i demoni.
Avresti detto fosse una pietra, una furia travestita da soldatino di cemento.
Ma quell'unica lacrima che vidi su quel viso mi colpì quanto un pugno, lasciandomi senza fiato. Quando aveva perso conoscenza, accasciandosi al suolo e battendo le ginocchia sulla roccia nuda, mi aveva rivolto uno sguardo che era stato una stilettata rovente nelle membra.
Era stato agonia, patimento.
Era solitudine, smarrimento, pentimento.
Era il nome che portava ancora sulle labbra, che ogni notte gridava ad un cielo privo di stelle.
Zanor.

Addakra mi fissava astiosa, tenendosi una mano premuta sul fianco, da cui trasudava un misto di sangue e pus.
Continuava a spalmarsi l'achillea millefolium sui bordi della ferita, osservandone, critica, i contorni slabbrati e l'aspetto violaceo, simile a una contusione.
Emise un debole gemito, impallidendo all'improvviso.
"Hai perso troppo sangue, Addakra..."mormorai ravvivando il fuoco "e probabilmente ti verrà la febbre. Non possiamo andare da nessuna parte con te in queste condizioni."
Un sputo al suolo fu l'unica risposta che ricevetti, coronata da un poco elegante dito medio.
"Lo so anche io, bamboccia. Combatto da più anni di te da saper riconoscere i danni e le conseguenze di un angone."
Scrollai le spalle, ignorando i suoi commenti sarcastici.
"Comunque sia, non possiamo proseguire." un lampo d'ira attraversò quegli occhi vermigli, un lieve contrarre della mascella l'unico indizio circa lo stato d'animo della cacciatrice. " A meno che tu non decida di dedicarmi un'ora del tuo preziosissimo tempo e raccontarmi tutto."
Inclinò il viso nella mia direzione, scostandosi una ciocca di capelli.
"Tutto cosa, Dyen?"
"Tutto." ribattei testarda "Come hai fatto a prenderti un angone nelle costole. Come sapevi che le truppe di Moloch erano accampate qui, a pochi chilometri da Eshpond. Chi era quel demonio con due falx grandi come la sua schiena, il Ritornato."
Vidi Addakra stendere le labbra piene in una riga sottile, amara, le mani accomodarsi in grembo, stringendo convulsamente la piccola ampolla in argilla.
"No."
"No?!" replicai buttando via il legnetto ed alzandomi in piedi "No cosa, Addakra? Sono mesi, MESI, che combatto, mangio, dormo al tuo fianco! Mi hai istruita, mi hai allenato per diventare quella che sono e ora? Mi neghi persino il motivo per cui abbiamo rischiato di crepare in quel buco merdoso di avamposto? NO NIENTE, ADDAKRA!" urlai avvicinandomi "non è contemplata tra le risposte!"
Avrei giurato di vederlo, quel rapido muoversi di braccia e muscoli.
Avrei giurato di essere stata veloce, ma la sua wakizashi era già piantata alla mia gola.
Tutto si era fermato, paralizzato nella forma di una lama azzimata nella notte e di un collo flesso all'indietro, le sue unghie incrostate di sangue che mi graffiavano la nuca.
"Non tollero simili atteggiamenti, Dyen. Potrei tagliarti la gola qui, adesso, ma avrei perso solo otto mesi di addestramento per niente. Eri e sei rimasta una piccola ragazzina spaventata, cui il solo istinto le ha permesso di sopravvivere. Ma ci sono molti modi di morire, Dyen. E offendermi è uno di questi. "
Lasciò i miei capelli all'improvviso, facendomi perdere il piede d'appoggio e mandandomi a sbattere contro un tronco vicino.
Rinfoderò la lama d'ebano, finendo di bendarsi il taglio in silenzio, solo il lontano frinire dei grilli a fare da cornice a un dialogo surreale.
"Chi era?"
"Allora non capisci proprio niente, eh?" aveva berciato al mio indirizzo, sedendosi al capo opposto del campo e avvolgendosi nella folta pelliccia di pardo "Sei sorda, per caso? Ho tirato una granata senza accorgermene nelle tue orecchie, Dyen?"
Raddrizzai la schiena, il bruciore dell'escoriazione provocata dal legno un brivido lungo le ossa.
"Chi era, Addakra? Chi era quel demonio? Chi era Zanor?"
"Non insistere." scandì tetra "Non spingerti dove non devi, bronnen."
Scossi il capo più volte, chiudendo a pugno la mano e portandomela sotto il mento, cercandole gli occhi con gli occhi.
"No Addakra. Fino ad adesso abbiamo fatto a modo tuo, in tutto. Hai ragione. Sono una bronnen, una sopravvissuta. E non possiedo la metà della tua abilità. Ma laggiù..." sibilai indicando un puntino lontano avvolto dal fumo " ho rischiato la mia vita, per la seconda volta, perché hai esitato. L'ho visto benissimo. Ora..." conclusi avvicinandomi al suo fianco "se non sapessi che sei un'arma, una lama temprata nell'odio e nella disciplina, penserei che hai una qualche forma di interesse e quindi, che hai un cuore, Addakra." incrociai le braccia al petto, arrogante "Mi sbaglio?"
Silenzio.
"Sbaglio, Addakra?"
Un sorriso pigro le aveva curvato le labbra mentre si toglieva il cappuccio e buttava altra sterpaglia nelle fiamme.
"Se sei così sicura, non vedo perché tu abbia bisogno di una mia risposta. Girati dall'altra parte e dormi, tenendoti stretta la tua idea."
"Chi era Zanor? Perché lo nomini sempre, la notte? Chi era, per te?"
Ancora nessuna reazione.
"Chi era?"
"No." era stato il suono che le era uscito tra i denti stretti, snudati come le zanne di una fiera
"Chi era?" una domanda che perdeva significato e si usurava nel ripeterla come un mantra.
Una domanda da cui dipendeva tutto il mio futuro, una domanda che non volevo abbandonare.
"Nessuno."
"Non ti credo."
"Credi a quello che vuoi, bronnen."
La scrutai ancora qualche istante, le fiamme dipingere strane volute su quegli zigomi pallidi e regali, fin troppo per una godeva nel vedere il sangue e non aveva certo paura di sporcarsi con il putridume della guerra.
"Benissimo." esclamai infine infastidita "Questo significa solo che domani, oppure la prossima notte o quella dopo ancora, sarò io personalmente a ficcargli nelle budella le sue due falci a quel demone dalla lunga coda. Magari, evitando di beccarmi un angone nel polmone."

Quello che successe dopo, non era previsto.
Avevo pensato che mi avrebbe regalato una delle sue risate basse e roche, intrise di quella malinconia che la rendevano una cacciatrice eccellente.
Mi ero immaginata una pacca sulla spalla e una risposta derisoria, anche un po' offensiva.
Ma non era preparata alle sue parole.
Non ero preparata al fardello che esse avrebbero portato con loro.
Mi aveva afferrato per la cinghia che mi attraversava il petto, alzandomi di qualche centimetro buono da terra, sebbene non fosse molto più alta di me.
In quelle iridi purpuree vi era una luce livorosa, un baluginio di cui ebbi paura.
Trattenni il fiato, la sua energia che mi colpiva come tanti pugni, frustate velenose e spire di serpente che stritolavano e stritolavano.
"No, tu non farai proprio niente, bronnen." latrò a pochi millimetri da me "Perché Zanor era il mio uomo. E tu, piccola ragazzina, non lo ucciderai di certo sbudellandolo."

E la terra si frantumò al peso di quelle parole, fondendosi con un cielo da cui pioveva fuoco.
Fuoco e speranze.

"Sei un audace insieme di errori e sprovveduto coraggio, Addakra."
Troppo piacere in quegli occhi glaciali, troppo oscena la vibrante risata che gli fuoriusciva dalle labbra.
"Suona quasi come un complimento." un sibilo: divertito, sarcastico.
Feroce.
"Guardami e dimmi cosa vedi." mani prepotenti e forti, violente.
Assassine.
"Una bestia." nessuna dolcezza su quel volto di donna e ferae, nessuna illusione "Un demone. Un uomo."
Una risata di vetro, che si frantuma nella nebbia e ne diventa parte.
"Un uomo..." nessuna pietà, nessuna compassione.
Addakra lo fissa immobile, il braccio intrappolato tra quelle dita vestite di nero.
"È come appari." replica senza stornare l'iride.
Zanor stira le labbra in un sorriso scettico e ferino, rifiutando un amore che sapeva essere solo l'ultimo patibolo.
La lunga coda scagliosa si arrotola nell'aere, scivolando, spudorata, sul viso di lei.
Addakra non si scosta, Addakra non ha paura.
La ferae è notte e sangue, sudore e un futuro disfatto.
"Non dovevi cercarmi. Non dovevi affrontarmi."
È la bocca di Addakra, questa volta, ad aprirsi in una risata sfrontata, i rostri di lui che le percorrono le membra, saggiandone la consistenza.
La debolezza.
"Sei solo un uomo, Zanor. Sei ciò che rimane del mio futuro. Sei la mia preda."
E' la pupilla di un morto quella che la fissa, cercandole gli occhi con gli occhi.
"Convincimi, Addakra."
Perplessità, smarrimento.
"Non mi piego ai tuoi colpi, demonio."
L'arroganza che oblia l'incertezza, toni da guerriera per dissimulare la vittima.
"L'hai già fatto..." labbra prevaricatrici quelle che si posano, ruvide, sulle sue.
Sanno di cenere e morte.
Sanno di notti insonni, ad aprire le cosce - il cuore - a uno spettro.
Di promesse sancite nel sangue e nel vischioso di una sfida a colpi di lama.
"Ti ucciderò, Addakra..." un mormorio che le spezza il respiro, il ringhio di un lupo.
Una luna sbiadita illumina due corpi abbandonati nel buio, lacerati.
"Non puoi." una pupilla uncinata gli scorre addosso, prima di scomparire tra il grigio della memoria e il bianco del nulla " L'hai già fatto."

Per quelli che paiono minuti, Zanor rimane immobile, rigido e dolente nei suoi pensieri.
Sulla sua bocca, il sapore della vita a cui è stato strappato, l'araldo della sconfitta.
Per lui, quella donna è un fantasma di tenebra e bruma, schegge di passato e gemiti intorno al fuoco.
Ha l'odore del cuoio e di una brama che può tacitare solo con l'insano orgasmo della lotta.
Frusta irato l'aria, liberando un verso gutturale, quasi il latrato di un lupo.
Quando comincia a nevicare, non saprebbe più dire se è ghiaccio o sale quello che gli scorre sulle guance.
E, in fondo, non vuole davvero saperlo.




Nota dell'autrice:

Achillea millefolium: è una pianta di cui si usano i fiori essiccati per le proprietà antispasmodiche (bagni rilassanti), astringenti, cicatrizzanti ed antinfiammatorie.
Wakizashi: è un'arma bianca giapponese, una piccola spada corta indossata dai samurai. Sempre a contatto con il corpo, veniva utilizzata durante la cerimonia del Seppuku.
Falx: dal latino, significa "falce", qui al plurale, ovvero "falci".

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Capitolo 9
*** Recordatio ***


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Disclaimer: Questa storia è stata scritta per puro diletto personale, pertanto non ha alcun fine lucrativo. L’intreccio qui descritto e i personaggi rappresentati sono copyright dell’autrice (Nocturnia) e non ne è ammessa la citazione altrove, a meno che non sia autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.



Recordatio



Mi scaraventò al suolo infuriata, contraendo, affamate, quelle mani che erano brave solo ad ammazzare e a colpire.
"Io... io non potevo saperlo, Addakra... io..."
Vergogna. Colpa. Rimorso.
Ecco le uniche cose che provavo, le uniche che riuscivo a comunicare tramite il mio viso arrossato e le lacrime incipienti.
"TACI!" aveva sibilato spietata "Taci, Dyen."
E nei suoi occhi, condannati da una pupilla verticale di rettile, vi era uno strano miscuglio di emozioni.
Rabbia, odio, dolore.
Una malinconia struggente e provocatoria, che sfidava gli altri a denigrarla, ad additarla, a compatirla.
Raccolsi la mia coperta e mi ci avvolsi, frastornata dall'immensità che rappresentava quella notizia.
Il Ritornato che avevamo combattuto e contro cui avevamo perso era Zanor, un vecchio cacciatore di demoni.
E Addakra non mi era mai sembrata vuota come in quel momento, persa.
Distrutta.
La sentii armeggiare con la sacca e lasciarsi andare con un tonfo sordo sul pagliericcio, il respiro una serie di scatti brevi e irritati.
"È morto senza che io facessi niente. È morto per colpa mia."
Un sasso scagliato su una superficie immota, una sola frase sussurrata, che però aveva la stessa potenza di un tuono.
Mi girai verso di lei, vedendola piegata su se stessa, i capelli bruni che le coprivano il viso, su cui le fiamme dipingevano figure irreali.
Tacqui alcuni minuti, lasciando che fosse lei a continuare, nascondendosi il volto tra le mani guantate.
"È questo che volevi sapere, Dyen? Che ho anche io delle debolezze? Che quello che ti dissi mesi fa era la verità?" rialzò lo sguardo su di me, trafiggendomi, tra le ciglia tracimare, impietosa, una lacrima. " Avevo vent'anni, VENT'ANNI, quando i cultisti assaltarono la mia città, vicina ad Albir. Zanor mi prese come si prende un cucciolo di lupo: per allevarlo, crescerlo, farne il tuo degno erede a capo del branco.
Non era un signore, ma un mercenario al soldo del condottiero più pericoloso: la vendetta.
Ho imparato da lui tutto quello che mi serviva per sopravvivere e anche di più.
È morto per difendere me, ME." sillabò gemendo "E io non ho potuto fare altro che seppellirlo sotto quelle nevi che sono state la sua tomba."
Una smorfia asimmetrica le adornò le labbra, un sibilo di serpente tra i denti serrati:
"Eppure, eccolo lì. Un Ritornato. La prima volta che me lo trovai davanti, fui costretta a scappare. La seconda, fu solo un penoso dialogo a fare da cornice alla mia codardia. La terza..." si interruppe un attimo "beh, la terza hai visto come è andata a finire."
"I Ritornati sono umani a cui viene inoculata la scintilla dei demoni." recitai rigida "Non sappiamo ancora quanto rimanga in loro della vecchia vita, Addakra. Forse, potremmo..."
"No." Addakra emise un suono stridulo, raggelante "Non so come, né quando, ma devono averlo disseppellito e contaminato, è l'unica spiegazione. A quei tempi, il nome di Zanor Ves'eny era molto famoso tra le schiere demoniache e non. Sfregio, curiosità, esigenza di potere e dominio. Così mi fu detto. Ma so che il suo corpo è stato restituito a una vita che non avrebbe mai voluto. E so quanto sia pericoloso in quella forma."
"Era una leggenda, anche tanti anni dopo la sua scomparsa...ne parlavano sempre persino nella locanda di Silverkin. " replicai quieta, nell'aria l'odore un po' stantio del legno e della birra che era solito bere mio padre con gli amici "Come mi ha insegnato tu, i demoni sono sempre in caccia. Non importa di chi o cosa. Basta che, alla fine, ne entrino in possesso. Mi dispiace, Addakra, seriamente."
Addakra annuì, espirando rumorosamente, e capii che considerava chiuso l'argomento.
"È una storia con cui il destino si è già divertito abbastanza a giocare, Dyen, e io non ho più voglia di parlarne. Sai quello che c'era da sapere, sai perché ho esitato.
Domani attaccheremo nuovamente Slaught, ripulendola, e non esiterò, questa volta."
"Ma..." obiettai sorpresa "come..."
Alzò una mano, facendomi segno di stare zitta.
"Non ti preoccupare del come, Dyen." replicò in tono morbido " A quello ci penso io."
"Ma..."
"Niente ma, bronnen." disse liquidandomi con un gesto spazientito della testa " Io uccido demoni. Uccido ciò che significano e ciò che portano. Li guardo negli occhi e spengo il loro riflesso nel ghiaccio della mia lama. Ed è proprio quello che farò, domani. Riposati, mi servi vigile e attenta." si sollevò dal giaciglio e mi dispensò una pacca sulla spalla, lanciandomi la piccola brocca d'acqua "faccio io il primo turno di guardia."
Era la superficialità della codardia, ma non volevo sapere le sue reali intenzioni.
Egoista com'ero, volevo solo dormire e credere ancora.
Credere che quello che avevo letto nei suoi occhi non fosse l'ardore del martire.
Credere che tutto sarebbe andato bene.
Credere che avrei visto un'altra alba, ancora.
Che c'era una speranza per Zanor, per Addakra, per tutti noi.
Fu con questi sciocchi pensieri che la fissai inoltrarsi nel fitto sottobosco, in quella che era una routine di perlustrazione comprovata.
L'ultima.

Rovinò al suolo non appena i rovi la nascosero dalla vista di Dyen.
Aprì la bocca in un urlo muto, un lamento straziante la prima cosa che ne fuoriuscì, seguito da una serie irrefrenabile di singhiozzi.
Con la fronte poggiata sul terriccio e le braccia avvolte intorno alla vita, Addakra sembrava solo il pallido involucro dell'orgogliosa guerriera di pochi istanti prima.
Piangeva, scie di sale che altro non erano che l'allegoria di un futuro spezzato, ambizioni perdute, speranze seccate e un amore che non aveva mai smesso d'esistere.
Quella bronnen le aveva inflitto un colpo mortale come neppure immaginava, inchiodandola davanti ai suoi errori, davanti alla sua incapacità di superare le cose.
Di vivere.
Addakra non voleva vivere, questo era un crudo dato di fatto.
Addakra si muoveva per inerzia, fortunata d'essere nata - essere diventata - forte tra esseri insignificanti, furba tra stupidi di talento e veloce dove gli altri erano troppo lenti per cogliere un pericolo.
Ma a lei non fregava proprio un bel niente degli altri.
Non più.

La morte non è la peggiore sorte che possa capitare a un uomo: in un mondo come Matarisvan, straziato e corrotto, avvolto dal conflitto tra angeli e demoni per il controllo dei phazani, è forse il male minore.
Addakra lo pensava seriamente mentre camminava al fianco di Zanor, le loro impronte effimeri spettri sulla neve fresca.
Erano ormai in marcia da alcune ore quando giunse la cinica lama che deviò il corso della sua storia.
Poteva ancora ricordare il calore della schiena di Zanor, i muscoli fibrosi tesi sotto l'armatura leggera, lo sguardo artico fisso sul punto da cui si incuneavano i nemici.
Il sorriso di superiorità con cui accolsero gli accoliti oscuri e i loro gregari durò solo pochi istanti, giusto il tempo che ci misero nell'accorgersi che erano circondati.
Moloch aveva emesso una condanna a morte.
E il cappio penzolava proprio davanti a loro, sempre più vicino.
Il sapore amaro della consapevolezza si intromise nel suo palato, facendole incollare la lingua e digrignare i denti.
"Non credo che abbiamo molte possibilità..." mormorò Zanor emettendo un risolino teso "ma dobbiamo comunque combattere, no?"
Addakra annuì, incapace di dire altro, cercando tra le pieghe del suo essere anche sola una libbra dell'odio e della disciplina che l'avevano aiutata fino a quel momento.
Niente.
Tutto iniziava e finiva nel volto di Zanor, nei suoi capelli corvini, nella sua imprevedibilità di assassino e bestia.
E capì di essere condannata.
"Lyumaya moyar..." le sussurrò nelle orecchie "ti copro io."
I rakashi dondolavano incerti, nella tipica andatura delle loro razza, mentre i cultisti storcevano le loro deformi bocche nella parodia di un sorriso.
I saprofagi si accalcavano intorno alla pianura, annusando l'aria e pregustando già il macabro banchetto d'ossa e carne di cacciatore.
Addakra sospirò, troppo tenacemente attaccata alla vita per rinunciarvi così facilmente.
"Perfetto." replicò incolore "Prima i cultisti, poi gli uomini - capra."
Scattarono in completo sincrono, estraendo le doppie balestre e scoccando a ripetizione, fin quasi sentire il fuoco risalire lungo gli avambracci.
La neve si tinse del rosso del sangue dei demoni, al cielo grigio le urla di entrambi.
Poi, successe quello che cambiò la storia per l'ennesima volta: nella direzione peggiore.

Addakra si accovacciò sul mantello sdrucito, il ricordo di quell'attimo una mano gelida che estraeva a forza i resti di una vita mai goduta appieno.
Smise di respirare, serrando forte le palpebre, quasi volerlo cancellare.
Ma non si può cancellare l'orrore.

L'ascia bipenne del rakashi la colpì al fianco, falciandola.
Addakra scivolò al suolo, ritrovandosi soverchiata dalla massiccia figura caprina.
Uno zoccolo le spezzò il polso destro, l'altro le fratturò qualche costola.
Sputando un grumo di sangue, si inarcò contro il nemico, assestandogli un calcio a basso ventre.
Il rakashi arretrò di qualche centimetro, sufficiente per trapassarlo con il gladio corto.
Si fissò il polso inutilizzabile e, furibonda, cercò di recuperare la balestra con l'altra mano.
Strisciante, non si avvide del cultista che, etereo, le era giunto alle spalle, una sfera verdastra nei palmi putrefatti e piagati dalla corruzione.
Fu l'agghiacciante rumore della carne lacerata che la fece voltare di scatto, la realtà frammentarsi in tanti spezzoni sconnessi.

Si era detta che non poteva essere Zanor quello che le cadeva addosso, la testa divelta del cultista un dettaglio trascurabile al confronto dello squarcio che, come un fiore osceno, gli apriva l'addome.
Si era rassicurata del fatto che non ci fossero più demoni nei dintorni, che dovevano aver vinto.
Ma era stato un momento flebile e rapido quanto il frullare d'ali di un tenero uccellino.
Che le aveva strappato il cuore come il più feroce dei rapaci.

"Zanor..." lo chiamò implorante, stringendo una mano tra le sue, così piccole al confronto "Zanor..." singhiozzò patetica, chinandosi su di lui.
Era riuscito a levarsi il cappuccio, alzando il capo verso di lei.
Aveva gli occhi azzurri straziati dal dolore, dalla certezza di una morte sofferta e agonica.
Addakra lo strinse tra le braccia, il sangue di lui macchiarle il collo, le dita, il corpetto.
Lo sentì tremare, quasi una convulsione, gli ultimi spasmi di una puttana dalla faccia ossuta che voleva portarselo via.
Lo strinse più forte, maledicendosi per la sua incompetenza, desiderando anche un solo modo per strapparsi l'anima e morire con lui.
"Addakra..." lo sentì gracchiare, quasi imperioso, fino alla fine.
Zanor trovò il suo viso nell'ultima carezza, le dita fredde percorrere lo zigomo sinistro, raccogliendo stille di sale.
Le si avvicinò, cercando le sue labbra, morbide ed esangui, in un bacio feroce ed esigente, dove il sangue diventava l'espressione di una morte che non finiva nell'orgasmo di una notte.
"Non è così grave..." aveva gracchiato Addakra, nella stupida convinzione degli illusi.
Era il suo sangue quello che le lordava le mani.
Erano le sue viscere quelle che sentiva contro le gambe.
Era una voragine di membra e rimorso quella che tentava di tamponare con il mantello.
Era solo il triste tentativo di negare la realtà, perché quella realtà ti aveva già ucciso decine di volte.
Zanor aveva steso le labbra in un sorriso autentico, il primo, invero, da quando l'aveva incontrato.
Le era poi scivolato addosso, il suo ultimo respiro più debole del precedente, gli occhi vuoti, privi di espressione.
Con un gemito straziante, la vita di entrambi si era spenta nell'incavo della spalla di Addakra, il cui cuore era avvampato per l'ultima volta, consumando tutto e diventando un grido inconsolabile.

Quella mattina, coperta da una neve oltraggiosamente candida, Addakra aveva seppellito la sua umanità, giurando su di un vessillo d'ossa e finta giustizia.
Combatteva per estinguere una sete più antica, non per il bene degli altri.
Uccideva demoni per sfogare il proprio insano istinto, il dolore un'altra forma di esistenza.
Parlava poco e solo per offendere, denigrare gli altri.
Si svegliava la notte con una tremenda sensazione di assenza, mitigata solo dal ricordo.
Le sue braccia prepotenti, il viso dai tratti maschili, a momenti persino profani, la grana di una pelle intagliata nella guerra e nella violenza.
Ed era quando rimembrava come ormai tutto questo fosse solo polvere che si alzava sulle gambe tremanti, indossava il sudario della guerriera e scappava tra i cirri nerastri della notte, uccidendo per non gridare la propria desolazione.
Se è vero che la sofferenza tempra, rendendo più forti, lei avrebbe dovuto essere una torre inespugnabile.
Guardò il cielo, fasci rosati intravedersi tra le nubi che, dense, si raccoglievano intorno alla piana.
Allora perché si sentiva un fragile coagulo di errori e carne rossastra?


Note dell'autrice.
Rakashi: demone ispirato alla classica mitologia del dio capra, ovvero questo
Lyumaya moyar: è la storpiatura di Lyubimaya moya, che in russo significa 'mia amata'.
Ho immaginato che un cacciatore come Zanor, proveniente dalla terra del Nord, dovesse parlare una lingua dura e aspra, almeno al suono, come quella russa, per cui ho "distrutto" la naturale struttura per inserirla in un contesto che non le appartiene e renderla quindi idonea.


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Capitolo 10
*** Finis ludi ***


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Disclaimer: Questa storia è stata scritta per puro diletto personale, pertanto non ha alcun fine lucrativo. L’intreccio qui descritto e i personaggi rappresentati sono copyright dell’autrice (Nocturnia) e non ne è ammessa la citazione altrove, a meno che non sia autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.


Finis Ludi


Il sole era appena sorto quando Addakra mi svegliò, già completamente vestita per la battaglia.
"Hai fatto la guardia tutta la notte?" le chiesi intorpidita dal freddo.
"Sì." replicò parca "Non avevo sonno."
Raccolsi i miei abiti e arrotolai la coperta in silenzio, osservando, con la coda dell'occhio, la sua figura che, rigida, squadrava la piana e i fumi insani che provenivano dall'accampamento poco lontano.
"Sono pronta." annunciai agganciandomi la faretra sulla schiena "Quando vuoi."
Partì senza dire una parola, abbassandosi mano a mano che ci avvicinavamo all'avamposto.
Sentivo la paura battere e gridare da un angolo del mio spirito, ma la misi a tacere, regredendo al primo insegnamento che quella cacciatrice mi aveva inculcato mesi prima:
Se hai paura, muori ancora prima di essere colpito. Se hai paura, il dolore sarà cento volte più grande. Sei hai paura, allora dovevi lasciarti morire insieme ai tuoi genitori, perché questo mondo ti offende ogni giorno.
Mi arrestai bruscamente quando Addakra alzò la mano, indicandomi due saprofagi agli angoli della cattedrale.
La fissai negli occhi senza realmente vederli, oscurati com'erano dal cappuccio, ma sapevo già cosa fare anche senza un suo sguardo.
Incoccai due frecce e le lanciai contemporaneamente da ambo le balestre, trapassando le creature alla gola, senza alcun rumore.
Caddero al suolo insieme alla prima goccia di pioggia che andava a inaugurare una tregenda, un lago putrido in cui avrei perso ogni ideale, scivolando su di un fango di terra e merda.
Riportammo lo sguardo sul centro della vecchia piazza in rovina, osservando i quattro cultisti all'opera e i pochi saprofagi rimasti dalla scorsa sera.
"Sembra facile..." mormorai incerta
Addakra non mi rispose neppure, estraendo le pistole e togliendosi il mantello.
Fu allora che la vidi: la desolazione.
Le occhiaie della notte insonne, il rosso che circondava una pupilla maledetta e ungulata da rettile, cordoli di cicatrici che le sfregiavano la nuca nel marchio della bestia.
La sua bestia.
Le prime parole che mi rivolse dall'inizio della giornata furono anche le ultime.
"Prendi i saprofagi, sono deboli e infiacchiti dalla fame. Io lancerò una granata al centro dell'altare, uccidendo gli altri. A Zanor..." concluse alzando il mento verso una figura lontana, nascosta all'ombra del campanile "ci penso io."
Non mi dette il tempo di replicare: ma d'altronde, nemmeno c'era.
Si lasciò scivolare sul pendio, una palla di fuoco che stracciava i cultisti e le mie braccia che scattavano ancora prima delle gambe, il cervello spegnersi per far posto a quel vuoto in cui solo la violenza trovava una ragione d'essere.
Fissai la sua schiena snella nell'ultimo attacco.
Quello che avrebbe cambiato, ancora, il corso della mia vita.

Addakra era stata di una precisione letale, gli altri solo scarafaggi al confronto con la sua vera preda, il suo vero motivo.
L'aveva raggiunto piena di rabbia e di frustrazione, un acervus di momenti vissuti e momenti spezzati.
Lui si era voltato, regalandole uno sguardo spietato, in cui l'azzurro dei suoi occhi era talmente chiaro da risultare quasi bianco.
La lunga coda, retaggio del sangue demoniaco, sferzò l'aria, andando a schiantarsi contro il muro della cattedrale.
Estrasse le sciabole gemelle, mostrando un chiostra di denti bianchissimi e affilati.
"Zanor..." sussurrò lei
Tra i suoi capelli, un tempo corvini, si intravedevano i primi fili grigi, a memoria che lui era un morto, non un vivo.
Era un Ritornato.
Si erse in tutta la sua altezza, sorridendole malevolo.
"Addakra."
E furono quelle parole non dette a gridare, mentre si spezzavano il cuore.
Fu il cielo a piangere, mentre si divoravano l'anima a vicenda.
I grani del tempo avevano ricominciato a scorrere.
Per l'ultima volta.

La brama di conoscenza è qualcosa di umano e illusorio.
Quando avevo imparato a leggere, quasi l'unica per tutta Silverkin, mi ero sentita la più intelligente, la più colta.
Pensavo che tutto mi fosse permesso e che fosse bello, dolce, avere ragione.
Che decretasse una superiorità tutta mia, che nessuno poteva portarmi via.
Pensavo che il mondo fosse bianco o nero e che io, Dyen di Silverkin, fossi depositaria di una giustizia pietosa e benevola.
Ma quando vidi le armi di Addakra e Zanor cozzare, quando capii che la trama dell'universo è un pugno feroce di colori, di cui l'occhio umano ne percepisce solo l'infinitesima frazione, seppi di essermi sbagliata.
Che, compresi ingoiando un fiotto di bile acida, la giustizia non appartiene agli uomini: non ha forma o contorni.
La giustizia è solo una meschina forma di fatalismo.

Zanor aveva deviato i dardi con la lunga coda da demonio, screziata d'ebano.
Addakra aveva ricaricato, ma contro quel maglio implacabile era caduta sui polpacci, sboccando un fiotto di sangue densissimo.
"Non ti avevo addestrato poi così bene." disse sardonico, incombendole sopra.
Lei persisteva nel non rispondergli, stringendosi il braccio offeso.
"Cosa succede, ti hanno mangiato la lingua?" la sbeffeggiò lui
Addakra aveva estratto, rapida, un pugnale dallo stivale e gli aveva tranciato il legamento della caviglia, facendolo barcollare.
Felina, gli aveva assestato due montanti e l'aveva atterrato, scoprendo però il fianco, in cui si era incuneato il gladio di Zanor.
Aveva urlato dal dolore, afferrando il moncone di quella spada e spezzandola, colpendolo poi nella polpa morbida dell'addome.
Zanor si era dimenato sotto di lei, avvolgendole la coda intorno alla vita e stringendo convulsamente.
Le era sembrato si sentire gli organi interni esplodere, tanta era stata la pressione.
Si era inarcata, tentando di liberarsi da quella morsa ferrea, ma i pungoli di cui era armata le penetravano nella pelle, inumidendo col suo sangue il torace di Zanor.
La sollevò al cielo, rialzandosi e colpendola al viso con la mano aperta.
Crack.
Probabilmente le aveva fratturato uno zigomo, oppure l'orbita stessa, non avrebbe saputo dirlo con certezza.
Spruzzi di sangue gli raggiunsero il volto, in cui la pupilla era diventata così piccola da fondersi con il resto dell'iride.
Saggiò la vittoria nel plasma di Addakra, tergendosi le labbra e fissandola.
"Addakra... mia anima... mio cuore." sospirò Zanor prima di alzare, letale, il pugno.

Era morta tante volte, Addakra.
La prima, quando la sua famiglia, nobile, era stata sterminata dalle armate di Moloch.
La seconda, quando aveva dovuto fare i conti con una realtà che non le piaceva e non la voleva, la sua sola compagnia un taciturno cacciatore di almeno dieci inverni più di lei.
La terza, quando quel cacciatore le era morto tra le braccia, negli occhi ancora il rogo di Umenarn.

"Non si può uccidere l'amore..." le aveva detto Dyen un pomeriggio pigro e indolente, mentre lisciava l'impennaggio delle frecce.
"E chi te lo dice?" le aveva ribattuto Addakra sardonica, poggiando l'arma e fissandola.
"E' sempre stato così." la feroce morale delle fiabe, la nuda sicurezza di un universo infantile e dolce.
"Nelle tue favole, Dyen. Nelle tue favole." era stata la cinica risposta.

Muoveva un passo dietro l'altro, Addakra, distruggendo e odiando.
Tentava di sbranare quella crisalide vuota che era il suo amore, annegandola nella melma nera e putrida di un rimorso che non trovava pietà.
Grattava la superficie ruvida della sua memoria, tentando di cancellarvi l'impronta di un relitto di cui la storia aveva voluto farle dono.
Ma non funzionava.
Fintanto che avrebbe continuato a odiare, avrebbe anche continuato ad amare.
Era il dolore la sua lama.

Oltre il muro di fiamme che le sue granate avevano provocato, incrociò lo sguardo disperato di quella che avrebbe dovuto essere la sua allieva, ma che forse conosceva già tutto.
Era la seconda morte per Dyen, lo sapeva, ma nell'infinito del suo egoismo, non le importava.
Aveva tentato di abbattere con la crudeltà e l'inumana lingua della violenza le sue difese, la sua innocenza.
Aveva fallito, almeno in parte.
In quegli occhi, verde purissimo, Addakra vide la capacità di amare, odiare, soffrire; ancora.
E sorrise.

Si puntellò sui gomiti di lui, soppesandolo e cercandogli l'iride immota.
A tentoni, frugò nella cinta l'arma che avrebbe dovuto liberarla, percependo le vertebre della schiena incrinarsi.
"Un ultimo pensiero, mia amata?" replicò Zanor
"Sì..." rantolò ormai prossima al collasso "uno solo."
"Allora dimmi..." le aveva sussurrato avvicinandosi al suo orecchio "convincimi, Addakra."
Ed erano parole che fiorivano dalle vestigia putrefatte di un'epoca scomposta.
Erano parole che sapevano di un incubo incessante, una follia che, per molte notti, li aveva tenuti svegli e vigili.
Erano l'ultima supplica di un evo prossimo alla tomba.
Si era inclinata verso di lui, la pioggia che, densa, lavava colpe e sangue, rimorsi e veleno.
"Addio, Zanor..."
Quando il pugno di lui era affondato, inesorabile, nelle sue viscere, passandola da parte a parte, il piccolo coltello d'osso gli si era conficcato tra le costole, all'altezza del cuore.
Uccidendolo.
Zanor aveva strabuzzato gli occhi, lasciandola andare di colpo e rovinando al suolo.
Disteso sulla schiena, Addakra era strisciata fino a lui, guardandolo morire per l'ennesima volta.
Una mano all'addome e l'altra in quella di Zanor, la ferae lo vide sussultare, gorgogliare in cerca d'aria, la coda che frustava l'aere spasmodica, alzando gocce di fango ed erba.
Con uno scatto secco, Zanor volse il suo profilo migliore alla storia, negli occhi la scintilla di quell'umanità che l'aveva reso preda e non solo predatore.
"Addakra..."
Erano state le ultime parole che aveva sentito.
Aveva accostato il viso al petto inerte di Zanor, franandoci sopra.
E c'era qualcosa di dolce nella situazione intera, sebbene dall'addome sentisse colare un filo appiccicoso e morbido.
Il mondo si era fermato, frantumandosi sul suo asse e scricchiolando, eco di un cosmo ormai estinto.
Le grida di Dyen, il rumore della pioggia, il vento che spirava tra i suoi vestiti.
Tutto.

"È finita?"
"Sì."
"Davvero?"
"Sì, Addakra."
"Sono contenta."
"Dovevi vivere. Scappare."
"No."
"Non sono morto due volte per vederti crepare al mio fianco. Sono troppo egoista per assecondare i tuoi sentimenti, Addakra."
"Non ti lascerò, questa volta."
"Perché?"
"Perché sono anche io una terribile egoista. Non ho nient'altro oltre te, Zanor. Nessuno vive ancora per versare una sola lacrima per me."
"Lei sta soffrendo."
"Te l'ho già detto. Sono egoista."

Addakra vide solo una macchia nera e sfocata che tentava di trarla in salvo, legandole un panno intorno alla ferita e berciando offese nella sua lingua natia.
Serrò più forte le dita intorno alla mano di Zanor, sentendo i propri respiri rincorrersi tra loro, il suo cuore rallentare, l'anatomia di una morte incisa nella retina, nello spirito.
Morì in un giorno di pioggia e rimembranze Addakra, al cielo un sorriso che aveva un che di malinconico e sciocco.
Morì esattamente come era vissuta, abbeverandosi nel vischioso di un sangue maledetto e di un desiderio mai scomparso.
Morì con la cenere nella mente e la carne nel cuore.
Di nuovo, finalmente, umana.

"Perdonami..."
"Non fa niente, Zanor. Non importa. Avevi promesso."
"Erano le parole di un demonio."
"No. Erano il tuo vero desiderio."

Ed era l'inferno, lo sapeva bene.
Era sangue incandescente e corpi deliranti, nodi di fumo e d'anime.
Erano gli occhi di Addakra, la sua pelle pallida, il sorriso con cui gli tendeva le mani.
Zanor sapeva bene dov'era e non gli importava.
Non poteva redimersi, poiché era convinto di non aver peccato mai.
E mentre cingeva i fianchi della ferae, nascondendo il volto tra i suoi capelli, capì anche d'essere sordo alla sentenza di dannazione di quel giudice implacabile che chiamano 'Vita'.
Che gridasse pure al mondo il suo sgomento quell'essenza sempre gravida.
Che contasse pure i figli che le aveva tolto.
Il sangue più importante era infine stato versato, fino all'ultima goccia.
E giaceva ora tra le sue braccia.

" Mi hai mangiato il cuore, Addakra."
"Lo so. E tu hai consumato il mio."
"Adesso siamo pari."
"Per sempre."

Un giuramento che officiava la triste allegoria delle favole: che il per sempre è un matrimonio d'intenti che solo la Morte può celebrare, un confine tracciato in punta di piedi da una falce ricurva e affilata.
E che loro, infine, avevano superato.

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Capitolo 11
*** Sanguinem fundo ***


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Disclaimer: Questa storia è stata scritta per puro diletto personale, pertanto non ha alcun fine lucrativo. L’intreccio qui descritto e i personaggi rappresentati sono copyright dell’autrice (Nocturnia) e non ne è ammessa la citazione altrove, a meno che non sia autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.

Sanguinem Fundo



Sono passati tre mesi da quando ho seppellito Addakra e Zanor.
Ho trascinato i loro corpi nel fango e nella pioggia, piangendo e inciampando a ogni passo.
Ho scavato due buche vicine con le mani, fino a quando non mi si sono staccate le unghie e la pelle non ha cominciato a ulcerarsi.
Non respiravo neppure.
L'apnea della sofferenza mi impediva di farlo, l'incomprensione di quel risvolto della storia un pulsare continuo e sordo al centro del petto.

"Io uccido demoni. Uccido ciò che significano e ciò che portano. Li guardo negli occhi e spengo il loro riflesso nel ghiaccio della mia lama. Ed è proprio quello che farò, domani."

Aveva detto il vero, Addakra.
Lei abbatteva demoni. Ciò che significavano e ciò che portavano.
Di alba in alba, si era uccisa un poco ogni giorno, affilando i propri sentimenti quasi fossero una lama, soffocando e maciullando la propria anima e il proprio essere in quella chiostra di denti famelici.
Aveva ucciso il suo demone.
Aveva ucciso se stessa.
E mentre li ricoprivo con la terra umida, mi ero soffermata su quel mostro d'ebano che mi aveva portato via tutto, ancora una volta.
Faceva comodo pensare che le scelte fossero sempre e solo due, bianco o nero, giusto o sbagliato.
Faceva comodo pensare di aver ancora la possibilità di essere bambina, di essere accolta da braccia affettuose, che ti avrebbero medicato e curato.
Ma Zanor non mi aveva lasciato nessuna di queste illusioni.
Zanor Ves'eny era un nome che si ammantava di leggenda e oscurità, sussurrato dai codardi e gridato dai demoni, e me le aveva strappate tutte le mie certezze.
Prostrata al suolo avevo dovuto ammettere che sì, il Male era un maschio inciso nella tenebra e bellissimo.
Avevo dovuto comprendere, quasi un pugno assassino, che non avevo mai veramente capito Addakra: i suoi silenzi, la sua ferocia.
Tutte forme contorte di lesionismo, pire funerarie anticipate.
Il terzo idioma della sconfitta si annidava tra i miei ricordi, nella voce di mia madre e nella ragione che si celava in essa: alcune cose non sono fatte per stare insieme, non in vita almeno.
Ora, freddo e spento nella morte, mi fissava con i suoi occhi opachi, le mani ridicolmente grandi al confronto di quelle piccole di Addakra.
Mi fissava e mi permetteva di comprendere.
Tasasi di Albir mi aveva dato i natali, Addakra Oronar me li aveva tolti.
Su quella bilancia che era la mia vita, sconfitte e vittorie si erano ormai scambiate in ugual modo, sussultando e trovando, infine, il perfetto equilibrio tra perdita ed acquisizione.
Iniziava sempre con in principio furono Varok e Matharet, ma nessuno arriva mai alla conclusione.
Nessuno osava strappare il velo, scoprire che, con orrore, Varok non era così puro e Matharet non così puttana.
La vita, d'altronde, per molti è solo un insieme di comode certezze, dogmi e postulati incisi nella genetica dei Phazani.
Nessuno osava raccontarci a noi, bambini gettati in un mondo cieco, che le favole hanno una morale, sì, ma non quella che crediamo.


"In principio furono Varok e Matharet, piumini di luce e coaguli di tenebra. Sciolsero i vincoli con la loro patria per creare questo mondo. Combatterono per questo mondo, condannandolo a essere assediato, in eterno, dai sicari del luogotenente del Cielo, Angrovis, e dall'avanguardia dell'Inferno, Moloch. Non può esserci pace su Matarisvan, poiché noi siamo ciò che Hoenir temeva di più. Siamo il dubbio mascherato da certezza. Siamo la comprensione oltre le pastoie dell'ignoranza. Siamo il simbolo di un'unione possibile e rara. Siamo i Phazani. Siamo uomini. Siamo ciò che lui non sarebbe mai stato."
"E poi?"
"E poi niente, bambina mia. Si combatte per difendere la propria casa, la propria vita. La sai già questa storia, quante volte la vuoi ancora sentire?"

E mi pareva di udirla davvero quella voce, melliflua e rassicurante.
La voce di mia madre.

"Ma come finisce?"
"Tesoro, lo sai già."

No, non lo sapevo.
All'epoca, non ne capivo l'entità, ma dopo quel giorno, ne avevo appreso appieno il fiele.

"Matharet partorì figli bellissimi e fortissimi, i Phazani, e Varok ne fu così orgoglioso.
Ma poi, qualcosa cambiò in lui.
L'amore venne conosciuto per altro nome e l'invidia prese a roderlo dall'interno, schiantando passato e presente.
Voleva ucciderli. Tutti."
"L'ha fatto?"
"No, bambina mia, non c'è riuscito."
" Come mai?"
"Perchè Matharet li proteggé, piangendo e soffrendo. Percosse la terra con le sue mani, separandola per nasconderli a Varok. Le sue grida furono tali che persino il Cielo si accorse di loro e la Grande Guerra, quella che ancora oggi ci attanaglia, ebbe il suo inizio."
" E Varok?"
" Lui... lui, impazzì. Ma vi è un felice finale, Dyen. Alla fine Varok si ricongiunse a Matharet."
"Come?"
"Come tornò da lei?"
"No. Come si può essere felici se si è pazzi?"
"Perché, piccola mia, l'amore è solo un'altra forma di pazzia."

Ed era vero.
Varok si era ricongiunto a Matharet, certo: all'Inferno, nella tortura e nella follia, condannati da ambo i fronti.
Varok e Matharet, nella metafora crudele che erano Zanor e Addakra, mi avevano insegnato che l'amore non era una furiosa forma di condivisione, ma un'empia donazione.
Non dividi il tuo cuore e nemmeno lo completi, nella stucchevole convizione che è propria dell'adolescenza.
Lo concedi, lo offri, ne fai il dono più prezioso.
E, per farlo, devi estirpartelo dal petto.

"Mangiami il cuore. Distruggimi, così che io sia niente e poi sia ancora."

La vita mi aveva ridotto a un piccolo ammasso di ossa rotte e piaghe sanguinanti, la morte pareva quasi più pietosa.
D'altronde, pensavo, se aveva conferito la pace ai demoni e agli angeli, ad Addakra e a Zanor, perchè non poteva valere anche per me?
Eppure, quando ebbi finito, il cielo era un ammasso convulso di nubi e stelle, i polmoni tesi nello sforzo di inspirare, le ciglia asciutte.
Il vento sapeva di fumo e ferro, sangue e rassegnazione.
Sapeva di un'ora oscura e tetra, di un amore perduto e infine ritrovato.
Sapeva di una possibilità da cogliere e da difendere.

****

Guardai la modesta cittadina di Shunal, situata a sud di Rathos, poco lontana dalle montagne di Krasis.
Tormentai, distratta, la fibbia della sacca, scostandomi i capelli dalla fronte.
Erano passati tre mesi.
Tre mesi in cui avevo ucciso e vendicato, senza sosta.
Tre mesi in cui avevo raccolto appieno l'eredità di una donna scorpione, guidata da un vero istinto uterino.
Tre mesi in cui avevo vissuto la vita di Addakra come se fosse stata la mia, sprofondando e nutrendomi di quel crudo veleno, di quell'oscurità, di tutto quel rancore.
Sospirai, lo stomaco languire al profumo del pane appena sfornato e dei mosti ricavati dall'uva fresca.
Increspando le labbra in un sorriso genuino, vidi la locanda in cui c'eravamo fermate mesi prima io ed Addakra, i Tre Picchi.

"Sembra un buon posto dove rimanere per un po'." il pigolio triste e querulo di un uccellino dalle chiome biondissime e l'animo intatto.
L'annuire rigido e fumoso di una fiera dalle pupille ungulate e il cuore di una bestia.
"Già."

Vidi Joric e i suoi crini fulvi, gli occhi castani rifrangere i raggi del sole, come foglie prossime all'autunno.
Sospirai, incamminandomi verso la piazza, ampliando il mio sorriso quando notai il giovane cuoco venirmi incontro.
"Dyen!" esclamò allargando le braccia e stringendomi tra di esse "Sei tornata!" mi baciò, sollevandomi da terra e toccandomi gli zigomi, il naso, i capelli, come per assicurarsi che fossi reale.
"Te l'avevo promesso."mormorai affondando nel suo petto "L'avevo promesso, Joric..."
I suoi occhi mi scrutarono languidi e giurai di aver visto una scintilla ilare nel fondo di essi.
"E la tua amica? Quella silenziosa, la ferae..." tacque, incerto.
"Ha preso un'altra strada..." mormorai a capo chino "molto diversa dalla mia."
Tacemmo entrambi per qualche minuto, consapevoli che, in quel silenzio, dimoravano la mia infanzia, la mia innocenza.
Dimoravano una bambina spaventata e una donna che era solo una massa d'odio e ferocia.
Dimoravano le mani lorde di sangue di un assassino che, però, aveva saputo amare.
"Va bene..." replicò poi "C'è sempre posto per te, Dyen. Sempre." concluse ridendo "Ti mostro la tua camera, vieni!"

Stese le labbra sottili in una piega comprensiva, quieta e fresca, quasi fosse fatto d'acqua.
In esse, vidi l'accettazione totale del mio essere, delle mie cicatrici, del mio ruolo.
Vidi un amore che forse non sarebbe stato un rogo annichilente, ma sarebbe bastato a scaldarmi.
Vidi tutto quello che Addakra aveva visto in Zanor: un compagno, un amico, un amante.
E capii d'essere tornata a casa.

"Come fai?"
"A fare cosa?"
"A vivere... così..." aveva esclamato Dyen ruotando le dita in aria "senza una fissa dimora, senza una casa, come una raminga."
"Siamo cacciatori. Il nostro corpo e le nostre lame non conoscono sonno o requie. Non conoscono luogo fisso, poiché inseguire demoni è il nostro fine ultimo."
Uno sbuffo irritato a sfiorarle il fianco, la voce di Dyen che, acuta, tornava a interromperle i pensieri.
"Queste sono frasi da accademico, non da persona vera. Devi pur aver avuto una casa, qualcosa che ti ricordasse d'essere anche donna oltre che assassina."
Addakra la squadrò in silenzio, sul volto un sorriso lugubre, tra le mani l'anello con il blasone degli Oronar.
Avrebbe voluto dirle di Zanor.
Avrebbe voluto raccontarle di come si fosse riscoperta umana tra le sue braccia, di come la facesse sentire in pace con se stessa e con i suoi errori.
Avrebbe voluto confidarle di tutte quelle speranze infrante, tutti quei sogni imputriditi, quei sapori che non avrebbe mai più sentito, nell'animo come nel palato.
Ma non lo fece.
Distolse invece lo sguardo, scrollando le spalle e ignorandola.
Perché era proprio quando la luce si faceva più intensa che le ombre del passato si addensavano intorno al suo cuore, facendola sentire debole, inerte.
Fragile.
E il riverbero della fiducia di Dyen era il più crudele dei roghi.

Lo seguii, fermandomi solo qualche istante per guardare i barbagli rosseggianti di un sole prossimo al crepuscolo.
"Perché lo fai?" mi parve di sentire nell'aere "Perché scegli... questo."
Il suo odore, uno strano miscuglio di cuoio e lilium, si fece più intenso, più vicino.
"Perché, per la prima volta, non mi pento d'essere viva. Perché è questo che sono, Addakra: viva. Ed è questo che scelgo. Non di essere preda, nè cacciatrice, ma libera."
Un sospiro, il rumore dei ciottoli di strada che vengono spostati, il fruscio di un mantello.
"È una ragione... strana. Fiacca."
Stornai lo sguardo, quella voce che rimaneva zitta, in attesa.
"Per me no. Il mio cuore non giace tra le braccia di un morto, ma qui. Ed è una ragione abbastanza forte per continuare a respirare ancora."
Mi sembrò di vederla sorridere.
"Capisco."
"Tu hai fatto lo stesso, Addakra. Solo che hai abbracciato il figlio di un utero sterile. Hai scelto una vita che trova spazio solo nella morte. E sei più coraggiosa di me, per questo. Ma ci vuole coraggio anche per vivere, Addakra."
Ma non era rimasto che il nulla ad ascoltarmi o forse non c'era mai stato altro.

"Dyen! Vieni, dai! La camera è pronta!" mi urlò Joric, sventolando la mano destra e tenendo un pezzo di focaccia nell'altra.
Sorrisi un'ultima volta alle tenebre incombenti, sapendo che non importa chi il destino mette sul nostro percorso, ma come egli ci cambia la vita.
E Addakra mi aveva insegnato tanto.
Lei e il suo amore disperato.
Lei a la sua completa accettazione della bestia, a cui aveva tolto e dato tutto.
Lei e il suo odio, il suo nero talmente cupo da farmi, finalmente, vedere il bianco della storia.
Mi voltai, incamminandomi, sapendo che i morti non ritornano, se non nascosti nelle pieghe del nostro essere, ma la loro eredità ci segue sempre, oltre le loro tombe e i loro fiori putrefatti.
Mi voltai, verso un futuro da scoprire.
Mi voltai, abbandonando la rossa direttrice di una storia ormai estinta, per una tutta da scrivere.
Io, che ero figlia di un genocidio, mi voltai e non tornai più indietro.

E furono gli spettri del passato a fare da silenti testimoni al mutamento di un evo.



Nota dell'autrice.
Lilium: Il giglio (Lilium L. 1753) è un genere di piante della famiglia delle Liliaceae.

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