Demoni e angeli

di Sylphs
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 15 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
 

 
 
 
 
 
Nella fornace il fuoco ardeva instancabile, riempiendo con i suoi continui crepitii l’immenso e terribile silenzio che gravava su tutta la vecchia casa abbandonata. Tende consunte e stracciate pendevano tristemente dai muri di pietra, cocci e frammenti di mobili invadevano il pavimento ammucchiandosi agli angoli delle stanze, la polvere ricopriva in uno strato impenetrabile quel luogo in rovina, che parlava di disperazione, di speranze infrante, di cieca rabbia e di un’inconsolabile solitudine. Un tempo forse la residenza aveva avuto un’anima, un soffio vitale che, pur senza toglierle quell’aspetto lugubre, l’aveva animata e posseduta, ma ora di quell’anima non rimaneva nulla se non brandelli, scartoffie, libri e carillon spezzati.
Un tempo forse il suo proprietario aveva accarezzato e abitato quelle mura polverose dando loro un’utilità e un significato, aveva strisciato nel buio facendo echeggiare ovunque le sue risate sguaiate e perse, ma da settimane ormai quelle risa non erano altro che un lontano ricordo. Heather Ville era vuota, sconcertata dallo stato di apatia che aveva preso il suo padrone da che la bella Irene era fuggita per sempre da tale prigione di solitudine e oscurità, ricercando la luce e il tepore di un aitante ragazzo normale, e assisteva impotente al proprio lento disfacimento, protestando di tanto in tanto con deboli tintinnii da parte del lampadario schiantato al suolo, con spifferi e con cigolii lontani, incapace di arrendersi alla sua fine ormai imminente.
Raphael” esclamò distintamente Jonas Lawrence, primogenito del defunto Hugo: “Raphael, guardami”.
La figura curva accasciata accanto alla fornace, poco più di un logoro fagotto di stracci che giaceva come morto nella maleodorante celletta in cui un tempo aveva consumato i suoi orrori, non diede segno di averlo udito e continuò ad emettere un sibilo continuo, animalesco, che risuonava costantemente sui sudici muri di pietra. Era un verso terribile, un lamento bestiale, ma se non fosse stato per esso Jonas probabilmente avrebbe pensato che il fratello minore fosse perito, tale era la sua immobilità. Ma c’era ancora vita in quelle membra disfatte, ancora calore in quella pelle imputridita da un patto stretto ormai più di vent’anni prima, nonostante il tremendo colpo che lo aveva ridotto in quella maniera il più piccolo dei Lawrence e colui che più aveva subito la crudeltà del padre non era morto, non era scomparso da un mondo che non lo aveva mai voluto.
“Raphael” ripeté Jonas con una nota stanca nel tono, avanzando di un passo verso la massa informe raggomitolata accanto al fuoco: “Sono passati quindici anni, Raphael. Non hai niente da dirmi?”
Ancora non sapeva come aveva fatto a rintracciare il fratello fuggiasco, come le sue ricerche lo avevano condotto in quella casa, né se doveva ringraziare Dio o maledirlo per quella fortuna, ma ce l’aveva fatta. Per anni e anni aveva girato il mondo cercandolo in ogni angolo di Europa, inseguendo un’ombra di cui non conosceva neppure il volto, e la sua determinazione era stata scalfita pian piano dai continui insuccessi, da come quell’individuo continuasse a sfuggirgli e a non lasciare la minima traccia di sé. Era stato quasi sul punto di lasciar perdere, di tornare in Svezia dalla sua famiglia e di chiudere i ponti una volta per tutte con quella maledizione, sennonché proprio un mese prima aveva incontrato un uomo della sua stessa estrazione, un tale Giorgio Lancaster, e finalmente aveva scoperto dove l’assassino di suo padre e di Viktor si era nascosto in tutti quegli anni. Si era aspettato un incontro terribile, un confronto che l’avrebbe segnato per sempre, invece provava soltanto pietà per quell’essere sofferente ormai più di là che di qua.
“Nostra madre è morta” annunciò la notizia nella speranza di scuoterlo dalla sua apatia e chinò il capo, rigirandosi il cappello tra le mani. Come ogni Lawrence che si rispetti, il trentaseienne primogenito di Hugo e Ingrid era alto e dal fisico asciutto, aveva folti capelli di un biondo tanto chiaro da apparire bianco e un viso sottile dai lineamenti affilati e maliziosi, dominato da occhi cerulei: “Poco dopo la tua scomparsa, Raphael. Ha parlato con me prima di soccombere al dolore e mi ha detto della tua…” esitò, nervoso, ascoltando il rumore del silenzio e il sibilo animalesco dell’altro.
Deformità?
“…diversità” concluse infine: “Mi ha raccontato ogni cosa. Voleva chiederti perdono, Raphael, per aver permesso la tua reclusione. E farti sapere che riguardo a Viktor e a nostro padre…” serrò la mascella, incapace di nascondere la sofferenza e il rancore: “Capiva”.
Non la senti?”
Fu appena un bisbiglio, che fuoriuscì quasi impercettibilmente dalle labbra della figura abbandonata sul pavimento sporco. Ciononostante Jonas rabbrividì, spaventato dal suono di quella voce aspra e raschiante, pervasa dal timbro metallico di chi non se ne serve da giorni, che gli aveva dato la precisa sensazione che qualcuno avesse appena camminato sulla sua tomba. Non poteva negare a se stesso d’essere rassicurato dal fatto che il fratello gli desse la schiena; sua madre lo aveva messo a conoscenza di tutta la storia, ma se oltre alla voce si fosse aggiunto anche il suo viso mostruoso, certo avrebbe avvertito l’impulso proibito di fuggire immediatamente. Arretrò di un passo e adottò un tono prudente: “Cosa?”
“Heather Ville” quelle parole sembravano essere state strappate a forza da un involucro che aveva perduto ogni utilità. Si mosse leggermente sul pavimento, producendo un fruscio umido, pressoché indistinguibile nell’ampio e cencioso mantello nero in cui si era avvolto, e un occhio di un azzurro chiarissimo, iniettato di sangue, si volse a fissare l’uomo sulla soglia. Le fiamme si riverberavano nel suo sguardo: “Non la senti mentre muore? Non senti le sue grida di agonia? Sono ovunque…ovunque…prima erano lievi, quasi non si udivano…poi sono cresciute…si sono estese a tutti i piani…sta soffrendo. La mia cara, vecchia Heather Ville sta soffrendo…mi chiede aiuto…ma io l’ho tradita. L’ho tradita”.
Jonas non riusciva a trovare un senso in quel discorso inespressivo che non pareva indirizzato a nessuno in particolare: “Heather Ville?”
“Vorrei aiutarla a morire, sai?” continuò Raphael pacatamente: “Vorrei trovare il modo di far cessare i suoi lamenti. Lei è stata così buona con me…così buona…mi ha tenuto al sicuro…mi ha protetto…e come vuoi che l’abbia ripagata io? Lasciandola morire!” alzò la voce, mosso da un improvviso impeto di energia, e la sua capigliatura corvina, arruffata e sporca, ricadde disordinatamente sulle spalle larghe: “Ascolta!...Ascolta! Il lampadario strilla sotto di noi come un maiale al mattatoio…lo senti?”
“Io…”
“E la sua camera!...La sua camera!” la voce raschiante salì in un urlo stridulo e disperato e l’occhio puntato su Jonas si velò di lacrime, lacrime pure sulla sua pelle venefica: “L’ho distrutta, fratello, tutta quanta…lei era ovunque, ovunque…il letto aveva il suo profumo, i muri mi parlavano con la sua voce, la lampada brillava come i suoi capelli…ed io l’ho fatta a pezzi da cima a fondo! Del resto, non era certo in buono stato…” ridacchiò tra i singhiozzi: “Era alquanto sudicia, la sua camera!...Alquanto sudicia…”
Suo fratello era folle. Jonas non serbava alcun ricordo di lui, gli era stato impedito di vederlo quando era ancora un bambino e, poiché era sempre stato assai più ligio alle regole di Viktor, aveva finito per dimenticare addirittura la sua esistenza. Ma la persona che vedeva ora…sempre se così si potesse definire…non aveva più un briciolo di ragione. Un dolore vivo e autentico gliela aveva rosa come un tarlo, il peso della solitudine l’aveva schiacciata e ridotta in polvere. Aveva sperato di poter parlare francamente con lui, di portargli il messaggio della sua amata madre, ma comprese che egli non avrebbe ascoltato niente, né da lui né da nessuno.
“L’amore…” sussurrò Raphael strisciando più vicino alla fornace. Jonas, impietrito, si sostenne alla gelida parete di pietra: “L’amore?”
“L’amore non è fatto…per i mostri. I sentimenti…non hanno senso. Le avrei offerto la luna, fratello, anzi, lo avevo già fatto. Mi sarei strappato il cuore dal petto e glielo avrei posto ai piedi se lo avesse chiesto. La volevo morta… volevo che mi appartenesse per sempre…ma lei mi aveva guardato per davvero…aveva visto l’uomo e non il mostro…e le ho reso la libertà. E pensi che mi abbia premiato per il mio sacrificio? No! Ha preferito il suo bel giovane onesto…ha preferito la luce…e non la biasimo, no, non la biasimo affatto. Chi vorrebbe mai stare con uno come me?”
Batté con violenza i pugni contro il pavimento, incurante del sangue scuro e denso che prese a colargli dalle nocche, e si sollevò in ginocchio con movimenti grevi e faticosi, ansimando: “L’amore trasforma i demoni in angeli…” rise amaramente e con abbandono: “L’amore non ha fatto nulla di tutto questo per me. E questi dannati lamenti!” ruggì, levando all’intorno uno sguardo di fuoco: “Mi fanno diventare matto!”
“Raphael…” mormorò Jonas senza sapere bene cosa dire. Non conosceva la persona di cui il fratello stava parlando, e benché si fosse ripromesso di occuparsi di lui come gli aveva chiesto la madre, decise che ormai era fuori dalla portata di qualsiasi aiuto. Il meglio che poteva fare era andarsene e lasciarlo solo con la sua dimora agonizzante.
Si volse, ma in quel momento la voce raschiante esclamò, imperativa: “Fermati!”
Si bloccò. Fu più forte di lui. C’era qualcosa in quel tono di comando che lo spingeva ad obbedire, un non so che di ultraterreno che aveva preso possesso delle sue gambe e le aveva radicate al suolo. Si accorse, stupefatto, di stare tremando. Ma non aveva nulla da temere da quella creatura schiacciata dalla sofferenza, dal suo giovane fratello mai esistito davvero. Perché spaventarsi? Era in condizioni tali che non avrebbe potuto nuocere nemmeno a se stesso, figurarsi ad un uomo forte e ben piazzato come lui!
“Fermati” ripeté in un sibilo la presenza alle sue spalle. Jonas sentì che si alzava faticosamente dal pavimento, ma non osò voltarsi. Non voleva vedere la sua mostruosità, l’immagine dei peccati di suo padre scolpita nel corpo di un ventisettenne costretto ad assorbirli e a farli suoi, o avrebbe perduto per sempre ogni forma di rispetto nei confronti del defunto genitore, non avrebbe potuto vivere sapendo ciò che aveva fatto a Raphael. Voleva soltanto andarsene in quel momento, abbandonare al suo dolore l’essere che dimorava in quella residenza oscura e che aveva soffocato la bontà e la purezza del bellissimo bambino che ricordava vagamente. Se lo avesse guardato, avrebbe associato per sempre il fratellino che gli rivolgeva il suo primo sorriso e lo scrutava con curiosi occhi azzurri ad un mostro demoniaco.
“Mi avete messo in gabbia tutti quanti, non è così?” continuò Raphael da dietro. Pronunciava le parole con calma stanca: “Tutti avete  preteso da me un pezzo della mia anima e poi ve ne siete andati, lasciandomi qui a marcire. Sapete cosa significa non avere niente? Niente, al di fuori di una casa che muore maledicendomi per averla trascurata e un misero anellino d’argento, simbolo di un amore che ha fatto a pezzi il mio? Lo sapete?!”
“Raphael, ti prego…” ansimò Jonas, la fronte cosparsa di brillanti gocce di sudore: “Non so di cosa stai parlando”.
“Però qualcosa di buono c’è, in tutto questo” disse l’altro imperterrito: “Non avere più un’anima ha i suoi vantaggi, l’avreste mai detto? Lei se l’è presa, la mia Irene l’ha portata via con sé…a Parigi…” quel nome era come veleno sulle sue labbra: “Non so cosa voglio, non so più niente, ma certo so che è il momento di porre fine alle sofferenze di Heather Ville. Lei è l’unica ad avermi accettato al suo fianco…la mia vecchia…ah! Ah! Povera Heather Ville…vorrei che offrisse a me una morte rapida e indolore, lo sapete?”
Continuava a rivolgersi a lui usando il plurale, cosa che inquietava Jonas sempre di più. Aveva la sensazione che Raphael non lo vedesse come se stesso, ma come famiglia Lawrence in generale.
“Raphael…” ebbe appena il tempo di pronunciare il suo nome.
 
Il corpo dell’uomo bruciava lentamente nel bel mezzo di un incendio purificatore. Le fiamme rosse ferivano gli occhi della figura in piedi, solenne, al centro della celletta, coperta dal mantello e con il volto nascosto sotto al cappello che aveva sottratto alla sua vittima.
I Lawrence avevano lottato, lottavano sempre, del resto, così come avevano fatto quindici anni prima, quando si era impadronito dell’accetta e una scarica di adrenalina gli aveva attraversato le vene. Adesso non esistevano più ed Heather Ville poteva andarsene in pace.
Il silenzioso e impassibile personaggio si sfilò l’anellino d’argento che portava al dito e lo scrutò in silenzio per qualche istante, rigirandolo tra le dita guantate. Era pressoché impossibile decifrare la sua espressione sotto al cappello che ne celava le fattezze, ma la tenace stretta con cui cinse il gioiello e la rigidità delle spalle testimoniarono una rabbia sopita. Si chinò e, con un unico movimento elegante, infilò al dito del morto il piccolo cerchietto argentato. I Lawrence e lei meritavano di svanire insieme in quel rogo, di consumarsi, di divenire polvere.
L’uomo ammantato contemplò ancora per qualche istante il macabro spettacolo, incurante delle fiamme che avrebbero potuto lambirlo, poi si volse in uno svolazzo nero e uscì dalla cella, prima ombra, poi più nulla.
 
Angolo autrice: Ok, ehm…non so molto bene cosa dire al riguardo. L’idea di dare un seguito a questa storia non mi dava pace così ad un certo punto ho tagliato la testa al toro, mi sono seduta al pc e ho scritto questa…cosa. Sperando che non sia un disastro totale…coomunque, se non mi odiate e se avete la pazienza di star dietro a Raphael ancora una volta, ne sarei davvero lieta!
Nel frattempo vi saluto, un bacione
Elly  

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2
 

 
 
 
 
 
“Non capisco perché mai dobbiate sempre propinarmi la carne. Quante volte devo dirvelo che sono diventata vegetariana?”
L’ampia sala centrale del castello dei Lawrence era immersa in una penombra rarefatta. Il silenzio era rotto soltanto dai passi dei domestici che andavano e venivano, recando sontuose portate e sostituendo bottiglie vuote con altre piene che spargevano tutt’intorno fragranze di fragole e d’uva. I commensali, costretti per l’ennesima volta ad una cena cui partecipavano controvoglia, somigliavano ad una grottesca accozzaglia di individui totalmente diversi e incompatibili l’uno con l’altro che si ostinavano, per rispettare l’educazione, a dividere il loro tempo insieme pur non facendo nulla per riempirlo in maniera costruttiva. Le posate in argento sterling urtavano contro la fine porcellana dei piatti e i pezzi del pollo arrosto che era stato appena servito venivano masticati con esasperante lentezza e innaffiati con sorsi di vino e acqua fresca.
Hannah Ullmann, la sorella minore di Harriet, un’adolescente in gonna corta con un taglio scalato di capelli castano chiari e una smorfia scontenta sul viso brufoloso e poco interessante, piluccava nel piatto con aria disgustata e spingeva ai margini la carne, gli occhi malamente bistrati di matita nera che parevano aver preso un violento pugno e le unghie smaltate di un verde aggressivo: “Mi viene da vomitare” bofonchiò melodrammatica, afferrandosi il ventre rotondo ed esibendo una smorfia di ripugnanza: “Come fate a voler mangiare un cadavere?”
“Hannah, smettila” sibilò la madre, Lisbeth, a voce bassa e minacciosa, fulminandola con una delle sue famose occhiate assassine e, nel contempo, rivolgendo un sorriso falso e amabile a Jesper e Christine, così colmo di ruffiano calore da far venire il latte alle ginocchia d Harriet, che sedeva rigida alla destra del suo fidanzato. Odiava quei pasti, quei silenzi e quell’astio inespresso che aleggiava costantemente sopra al tavolo, odiava le lagne infantili di sua sorella e gli sguardi di avvertimento della madre, e odiava dover recitare la parte di quella brava e zitta che non dava problemi e che mangiava la sua cena senza disturbare nessuno, per poi andarsene a capo chino. Per fortuna almeno Erin non sottostava alla tortura, lei consumava i suoi pasti nelle cucine un’ora prima di loro perché Christine non sopportava la sua vocetta penetrante.
Ovviamente Hannah non smise. Harriet non capiva se quella storia del vegetarianismo fosse una tecnica per attirare l’attenzione o una delle morbose fissazioni della sorella dopo “Lost”, “Twilight” e i tatuaggi, destinata a sparire nel giro di poco tempo: “No, mamma, il mio è un discorso molto serio. E facendo così tu non fai altro che incoraggiare la morte degli animali, chiudi gli occhi su una realtà fin troppo grave e vivi consapevolmente nella beata ignoranza. Ma chi non vuole vedere è colpevole quanto chi uccide! Lo sai come allevano i polli e a cosa li sottopongono? Su youtube ho visto un video che…”
“Hannah, non a tavola” sussurrò Harriet con tono pacato, bevendo un sorso d’acqua dal suo bicchiere. L’ultima volta che la ragazzina si era lanciata in una delle sue truculente descrizioni degli abusi subiti dagli animali, Christine aveva vomitato e l’aveva accusa violentemente di averle rovinato la salute (in realtà la giovane sospettava che la vera causa fosse stata la bottiglia di bourbon che la moglie di Jonas si era scolata nel pomeriggio), e pur ammettendo che a volte sua sorella riusciva ad essere davvero esasperante, non sopportava di vederla sgridata da quella donna orribile. Come prevedevasi Hannah si girò di scatto a guardarla con un lampo di collera negli occhi marrone muschiato e spinse via il suo piatto pieno: “Non a tavola cosa? Guarda che è una realtà! Esattamente come lo sono l’olocausto e l’omosessualità e le guerre…dovete sapere a cosa acconsentite mangiando questo schifoso pollo!”
“Una parola di più e ti sbatto in camera tua!” esclamò Lisbeth stringendo la forchetta tanto forte da sbiancarsi le nocche. Lanciò uno sguardo languido al giovanotto seduto a capotavola: “Scusala davvero, Jesper. Ma sai, alla sua età…”
Harriet si stupiva che il suo fidanzato non si innervosisse o non pretendesse il silenzio come faceva di solito. A dire la verità, non sembrava neppure accorgersi del diverbio delle Ullmann. Se ne stava con aria beata e assorta a fissare ora il soffitto, ora Christine che aveva preso posto di fronte a lui e si era messa tutta in ghingheri, con un camicetta bordeaux dalla vertiginosa scollatura e un paio di leggins aderentissimi. Il sogno di ogni sporcaccione, pensò Harriet disgustata passando poi ad osservare Jesper, bellissimo e ben consapevole di esserlo con la sua carnagione candida, i lineamenti regolari, i pettorali scolpiti e i vispi occhi celesti che brillavano da sotto la chioma biondo scura. La prima volta che aveva posato gli occhi su di lui era rimasta incantata dalla sua prestanza e aveva pensato che sarebbe riuscita ad amarlo… ma aveva una luce strana nello sguardo, un che di triviale nel sorriso che le sollecitava brividi.  Sembrava sempre nascondere qualcosa, celare marciume e insania dietro al suo viso da bravo ragazzo. Eppure era incredibile l’effetto che faceva alle donne: sua madre lo fissava come un cucciolo che vuole farsi benvolere, Christine si leccava letteralmente le labbra e persino Hannah assumeva tutto un altro atteggiamento in sua presenza, gesticolando, alzando la voce e tirando spesso in dentro la pancia pienotta per apparire più magra. Persino lei si sentiva obbligata a sfiorarlo quando le passava accanto, a guardarlo, a seguire la sua scia.
Aveva qualcosa di demoniaco in sé, e il sentimento che Harriet nutriva per lui poteva essere descritto con le parole odio-amore. Del resto, essendo opposti si completavano a vicenda, ed erano due emozioni altrettanto forti e divoranti. Sicuramente non riusciva ad essergli indifferente come avrebbe voluto, altrimenti non avrebbe avvertito l’impulso di ucciderlo non appena lo vedeva amoreggiare con altre ragazze. Ne era gelosa e allo stesso tempo il pensiero che potesse metterle le mani addosso la disgustava…che cosa provava veramente?
“Vuoi mandarmi in camera mia come se avessi tre anni?” intanto il litigio tra Hannah e Lisbeth proseguiva: “Per quanto ancora mi terrai rinchiusa in questa tomba? Non c’è nemmeno uno straccio di pub ad un miglio di distanza!” la ragazzina afferrò rabbiosamente il proprio iPhone e mostrò lo schermo vuoto: “Non ricevo sms da cinque giorni! Cinque giorni! Si dimenticheranno tutti di me, rimarrò sola come un cane!”
Gli occhi opachi della madre promettevano percosse e sfoghi non appena fossero state lontane dai due Lawrence persi in un universo a parte, ma Harriet decise di intervenire per placare le acque, come faceva sempre. Hannah apparteneva a quella categoria di adolescenti ossessionati dalla popolarità, dall’approvazione altrui e dalle esperienze sconsiderate, troppo insicuri e sperduti per costruirsi una propria identità e alla deriva in un mare la cui corrente veniva decisa dai media e dalla moda, e avendo amato anche lei, all’epoca, divertirsi così (anche se con meno foga), capiva che non doveva essere facile per la sorella adattarsi a quella nuova e assurda situazione, ad una sorella ventiduenne in procinto di sposarsi e ad un maniero cupo e solitario.
“Klaus ti ha chiamata?” le domandò cambiando argomento, riferendosi al ragazzo con cui l’altra era uscita negli ultimi tempi.
“No!” sibilò Hannah mordendosi forte le labbra: “Che ti aspettavi?” Jesper pareva completamente fra le nuvole, per cui osò: “Dopo questa storia mi considerano tutti una sfigata! E figurati se rimane con me, grassa come sono…”
“Tu non sei affatto grassa” la consolò Harriet con fermezza, convinta di ciò che diceva. La corporatura morbida di Hannah le si addiceva, la rendeva addirittura più bella. Era proprio come doveva essere…ma sua madre, attaccata ai cliché, glielo aveva fatto pesare fin da quando era piccola ed ecco qui i risultati. Capiva fin troppo bene perché Lisbeth andasse tanto d’accordo con i Lawrence: come loro era una maniaca della bellezza classica e asettica. Figurarsi che con finta ironia soprannominava lei “totem” a causa della sua alta statura.  
“Non verrà nemmeno alla festa di Halloween!” proseguì la ragazzina, affranta: “Ed io avevo comprato un costume stupendo apposta per farmi vedere da lui!”
Jesper emise un lieve gemito. Aveva rovesciato la testa leggermente all’indietro e un sorriso appagato gli si era impresso sulle labbra, mentre Christine, lì di fronte, era sempre più protesa in avanti, tanto che le si vedevano i seni attraverso la scollatura.
Harriet venne assalita improvvisamente da un sospetto fortissimo. Fece cadere ad arte una posata e si chinò a raccoglierla, con una sensazione sgradevole nel petto. E lì vide quel che si aspettava: il piede nudo di Christine stava massaggiando, dall’altra parte del tavolo, le intimità del suo fidanzato. Un indescrivibile gelo le scese nel cuore e strinse forte le labbra, costringendosi a rialzarsi come se niente fosse e a riprendere il suo posto. Si allungò per pescare dal cestino posato al centro del tavolo un pezzo di pane, e si accorse rabbiosamente che le tremavano le mani mentre se lo accostava alla bocca. Si obbligò a respirare profondamente per riprendere la calma, strinse e rilasciò i pugni più volte, resistendo al folle impulso di tirar via di scatto la tovaglia di purissimo lino bianco e di fracassare a terra l’argenteria e le porcellane di famiglia, palesando a tutti la beffa che stava avendo luogo sotto il suo stesso naso. Davvero la credevano così stupida? Davvero pensavano di burlarsi di lei in quella maniera, sbattendole in faccia l’infelicità della sua situazione?
Quella sgualdrina e quel bastardo non sapevano nulla di lei, dei suoi sogni, dei suoi sentimenti, delle sue aspirazioni. Soddisfavano la reciproca lussuria lì, accanto a lei, al suo stesso tavolo, e per salvare la sua famiglia doveva fingere di non vedere, fare buon viso a cattivo gioco, sorridere e consumare il suo pollo come se tutto andasse bene e non potesse desiderare altro dalla vita. Oh, se solo avesse potuto agguantare il coltello e castrare quello stronzo così ingiustamente bello…o prendere per i capelli la futura cognata e ficcarle la faccia nella scodella del purè…le prudevano le mani dal desiderio di farlo, ma si dominò.  
Un giorno, le disse la sua parte calcolatrice, un giorno, quando ti sarai assicurata la tua parte di patrimonio, ti rifarai. Non dimenticare che a breve tornerà il marito di quella puttana e che avrai un’ottima arma da usare contro di lei.
“Vuoi del vino, Christine?” la ragazza riuscì addirittura a dare alla propria voce un’intonazione gentile, prendendo la bottiglia e inclinandola sopra al calice della donna. L’altra si riscosse appena, staccò con estrema fatica gli occhi dal volto di Jesper e le gettò un’occhiata a metà tra l’infastidito e il distratto: “Scusa?” le domandò sgarbatamente. Harriet continuò a sorridere come se niente fosse: “Ti domandavo se volevi del vino”.
E se cordialmente bevendolo potresti strozzarti e crepare.
“Sì, sì, cazzo!” sbraitò la donna con rabbia. A giudicare dalla sua espressione stizzita e da come Jesper stava tornando presente a se stesso, doveva averla interrotta. Meglio così. Le versò il liquido rosso scuro con generosità e la osservò afferrarlo, portarselo alla bocca con uno scatto nervoso e tracannarne il contenuto in un sol sorso.
Una vera signora, non c’è che dire!
Jesper le sorrise, dedicandole finalmente la sua preziosa attenzione, e appoggiò la mano aperta sul tavolo, facendola scivolare nella sua direzione. Un chiaro invito a prenderla. L’orgoglio le ordinava di ignorare il gesto e di fulminarlo con lo sguardo, ma c’era quel qualcosa in lui…quel qualcosa di non umano…come se il suo fascino gli fosse stato donato da forze malvagie… che la attirava inesorabilmente, e si ritrovò, con sincera umiliazione, ad intrecciare le dita alle sue, pelle contro pelle, e a fremere a quel contatto, di un misto di desiderio e repulsione.
“Harriet, Harriet” sussurrò, portandosi la palma della giovane alle labbra e depositandoci un bacio lungo e intenso, mentre gli occhi azzurri, identici a quelli del padre, non abbandonavano neppure un istante il suo viso: “Sempre così generosa e disponibile”.
Lei ritrasse bruscamente la mano e se la strofinò, non sapeva se per cancellare il ricordo del bacio di lui o per mantenerlo vivo. Era convinto di farsela buona in quella maniera, di poterla sedurre come faceva con tutte le altre sue conquiste? Si sbagliava di grosso. Forse lo desiderava, del resto tutte lo desideravano ed opporsi a quel comando era pressoché impossibile, ma non gli avrebbe concesso il suo amore. Non sarebbe caduta così in basso. Non sarebbe divenuta un fantasma pallido e servizievole come Ingrid, pronto ad accorrere ad ogni cenno del marito.
Si alzò bruscamente dal tavolo e borbottò: “Non mi sento molto bene. Scusatemi”.
 
“Perché proprio lei, Jesper? Perché non un’altra?”
Christine era mezza distesa sul letto del giovane Lawrence, le gambe nude sensualmente accavallate e i lunghi capelli rossi sparsi sui guanciali di seta come una colata di fiamme, vestita unicamente della sua camicia da notte di raso e con le lunghe dita curate strette intorno ad un bicchiere di cognac. Drappi di velluto color porpora e pregiati tappeti persiani donavano alla stanza del giovane un che di esotico e lussurioso, e dinnanzi all’ampio letto a baldacchino era appeso un ritratto di famiglia, in cui Hugo e Ingrid, circondati da Jonas, Jesper e Viktor, scrutavano il vuoto con visi fermi e inespressivi. Il loro secondogenito emerse dal bagno con i capelli umidi per il bagno e l’accappatoio che lasciava intravedere i muscoli del petto.
Christine era più vecchia di lui di alcuni anni, ma si sentì immediatamente la gola arida e un crampo di desiderio le trafisse i seni. Buon Dio, quel giovane era un invito alla libidine, e ne aveva conosciuti di uomini nella sua vita! Era nata nel fango e si era sottoposta alle umiliazioni più terribili pur di sollevarsi da esso e scrollarselo di dosso, pur di non sentire più lo sguardo compassionevole della gente puntato addosso e la propria miseria, aveva venduto se stessa in tutti i modi possibili e aveva pensato unicamente al suo obiettivo, i soldi. L’unica cosa che davvero contasse, l’unica cosa che non necessitava di alcun coinvolgimento emotivo…i soldi e la bellezza. Se ripensava agli uomini vecchi e avidi a cui aveva abbandonato il suo corpo in cambio di favori, alle loro mani rugose addosso, provava soltanto un vago senso di repulsione. Sacrifici necessari, incidenti di percorso che le avevano permesso di evadere da una vita che odiava e di cui annegava il ricordo nell’alcol. Ora era diversa da quella Christine, era migliore. Aveva sposato un uomo che non amava e gli aveva dato una figlia a cui non poteva voler bene, ma viveva nel lusso e non doveva più patire la fame, non doveva più accapigliarsi per pretendere il suo posto nel mondo. Niente veniva regalato, tutto aveva un suo prezzo. E lei non aveva mai esitato a pagarlo. Non se ne pentiva. A volte la persona che scorgeva nello specchio la disgustava, ma non se ne pentiva.
Però stava invecchiando. Era una consapevolezza secca, fatale. Minuscole rughe incominciavano a segnarle la pelle di magnolia, i primi capelli grigi si annidavano in mezzo a quel vortice scarlatto. Senza la sua giovinezza, la sua merce di scambio, il premio che offriva, sarebbe tornata ad essere la vecchia Christine Andersson. Quella che a malapena sapeva leggere, quella che si ritirava dietro il muretto e accontentava le voglie di coetanei brufolosi per poi essere osteggiata e disprezzata da loro, quella che entrava in una casa puzzolente di alcol e di nicotina e che trovava la madre china a sniffare la sua dose, o talmente fatta da sfogarsi su di lei…e il solo pensiero la faceva strillare, le dava il sangue alla testa. La sua bellezza era tutto quello che aveva, e avrebbe venduto l’anima al diavolo pur di non perderla. Se fosse divenuta vecchia e brutta, Jonas l’avrebbe buttata via come uno straccio vecchio e sarebbe finita in un sudicio condominio pagato da lui, già fresco di seconde nozze, con quell’odiosa bambina a cui badare, quel fardello urlante che le era stato insinuato nel grembo e che le aveva deformato il corpo durante nove, orribili mesi. Cristo, avrebbe preferito ammazzarsi. O magari avrebbe ammazzato sua figlia per punire Jonas, si sarebbe presa la sua ultima terribile rivincita.
Ma non voleva arrivare a tanto. A finire in un condominio, ovviamente, non a liberarsi di Erin o addirittura di suo marito. Quella prospettiva non le faceva il minimo effetto. Aveva amato suo padre e il suo amore l’aveva distrutta, non intendeva concederlo a nessun’altro. Pedine. Ecco cosa dovevano essere gli altri, per lei. Finché te ne fregavi, non avevi nulla da perdere.
Si alzò sinuosamente dal materasso e raggiunse il giovane Lawrence, affondando le unghie smaltate nei suoi capelli bagnati e facendole scivolare fino al suo torace nudo: “Sei sicuro che quella puttanella ci sarà utile? Pensavo che volessi qualcosa di meglio”.
Lui, accigliato, non respinse la donna: “Tu non immagini neanche quanto sia preziosa ai fini del patto, Christine. Il tuo problema è che sei accecata dall’odio”.
“Dall’odio?” lei scoppiò in una risata sorpresa e si ritrasse, gli occhi bluastri che scintillavano nel viso affascinante e feroce: “Mi deludi molto, Jesper. Se proprio vuoi saperlo, non odio né quella ragazzina, né nessun’altro. Semplicemente penso a me stessa. È così terribile? Se non si ha un minimo di egoismo, si viene calpestati” una lieve smorfia le torse le labbra: “Ma non penso che persone come te possano capirlo”.
“Vorresti farmi credere di aver sofferto?” la mano di Jesper si mosse con velocità sconcertante e l’afferrò per la gola, sbattendola con forza contro il muro. L’espressione del giovane era divenuta feroce quanto quella di lei e la esaminava con freddo interesse, rafforzando la stretta sul suo collo e studiandola attentamente: “Vorresti davvero farmi credere che ci sia qualcosa di più di una sgualdrina che non vuole invecchiare, in te?”
Un tempo quelle parole velenose le avrebbero fatto male. Ma ad ogni cosa si fa il callo, anche alle ingiurie, ed era stata così tante volte omaggiata di appellativi quali “troia”, “puttana” e altri simili da aver sviluppato una sorta di indifferenza assuefatta. Per gli uomini tutte le donne capaci di dominarli con la bellezza erano sgualdrine e tutte quelle che invece non ne erano in grado, stupide senza cervello…ma era un bene che Jesper non sapesse niente di lei, l’avrebbe tenuto meglio in pugno. Mai, mai mostrare ciò che c’è dietro alla superficie. Neanche al proprio alleato.  
Nessuno doveva sapere chi era davvero, soprattutto lui.
Si limitò a guardarlo a sua volta. Le aveva stretto la gola in una morsa ferrea, ma non tremò e non si lasciò sfuggire rantoli, rimase ben salda nella sua presa, il respiro appena un po’ ansimante, e sostenne il suo sguardo senza batter ciglio, circondata dalla sua chioma di fuoco. Non temeva le percosse degli uomini, i soprusi, le violenze. Anche quelle erano cose a cui aveva fatto l’abitudine, e di cui Harriet e tutte quelle come lei non sapevano nulla.
“Se davvero ritieni che vada bene” disse a voce bassa: “Allora continueremo per questa strada. Ma attento a non affezionarti troppo alla tua piccola promessa”.
Jesper grugnì e la spinse rudemente contro il tavolino da notte, strappando la camicia da lei indossata con pochi gesti violenti e scoprendole il busto dalla pelle candida e ancora liscia. Christine urtò contro la superficie dura con lo sterno e si piegò in avanti, i capelli rossi che le spiovevano sopra al viso e le mani che cercavano un sostegno, ma non oppose resistenza neanche quando lui le afferrò i seni voluminosi, stringendoli fino a farle male, e si premette su di lei, sfregandole i genitali sulle natiche. Affondò i denti nelle labbra, l’espressione gelida e imperscrutabile dietro ai capelli sciolti e arruffati, gli occhi blu che sfavillavano, e acconsentì al suo tocco che non le procurava nulla all’infuori di un mero piacere fisico. Presto, una volta ottenuto ciò che desiderava, si sarebbe potuta rivelare per quello che era e il suo “scambio” con Jesper sarebbe cessato.
Lui la penetrò senza delicatezza né amore, quasi con furia, e iniziò a muoversi freneticamente su di lei, tenendole la testa premuta contro il tavolino e affondando dolorosamente le dita nella lunga chioma. Christine chiuse gli occhi e accettò il tutto passivamente, senza gemere né ansimare, tirando il fiato di tanto in tanto.
Jesper si chinò sul suo orecchio: “A volte mi chiedo perché ti ho coinvolta. Tu non sei una Lawrence”.
Gli occhi di lei brillarono di uno scintillio inquietante: “Anch’io sono una Lawrence adesso”.
Fuori dal castello, nel buio della sera, una figura avvolta in uno spesso soprabito, con il volto celato da un cappello nero e una valigetta con su il nome di Jonas A. Lawrence, emerse dalle ombre notturne e alzò lievemente il capo, contemplando in silenzio l’enorme costruzione che le incombeva sopra.
Una voce rauca e bassa sussurrò piano: “Casa”.
 
Angolo autrice: Salve a tutti! Allora, come avrete notato ho alzato il raiting rispetto a “Follia d’amore e d’oscurità”, perché in questo sequel saranno presenti delle scene un po’ più forti. Del resto quando si tratta di intrighi di famiglie nobili, di matrimoni, tradimenti, odi e amori, io ci vedo sempre una componente erotica e ho deciso di inserirla…sperando che la cosa non infastidisca! A quanto pare Christine e Jesper hanno in mente qualcosa…questa ultima scena è un assaggio del loro rapporto, che in realtà è piuttosto controverso e complicato…ma si scoprirà in seguito JHarriet è coinvolta nei loro piani e immagino che abbiate capito tutte chi è la misteriosa sagoma che sopraggiunge alla fine ;)
Non ho altro da dire, ma voglio ringraziare tutti coloro che leggono e recensiscono, nella speranza che non mi abbandoniate in quest’esperienza nuova per me…scrivere il sequel di una storia!
Un saluto a tutti,
Elly  

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3
 

 
 
 
 
 
Il tepore dei tenui raggi del sole pomeridiano illuminava la stanza, dove Erin sedeva china, i lunghi capelli scarmigliati che le scendevano in una cascata chiarissima sulle spalle. Il viso era nascosto dalla massa della capigliatura, ma si intuiva una smorfia d’ansia su quelle guance piene. I piedi della bambina non arrivavano a toccare il pavimento, ma ciondolavano mollemente a mezz’aria. Un rumore improvviso la spinse ad alzare il capo, e il suo sguardo trepidante e speranzoso si volse di scatto verso la sontuosa porta dalla quale Harriet era appena entrata: “Papà è tornato?”
La giovane osservò il visetto pieno di aspettativa, lo scintillio che era brillato nei grandi occhi azzurri e non riuscì a nascondere il dispiacere: “No, Erin, mi spiace”.
La bimba abbassò nuovamente la testa, e i piedini, che fino ad allora si erano mossi convulsamente, si fermarono.
“Aveva detto che sarebbe venuto. L’aveva promesso! Tornerò in tempo per la festa di Halloween, così aveva detto…come mai non è qui?”
Harriet non sapeva bene cosa rispondere. Jonas era un padre severo e autoritario, ma a differenza di Christine, per la quale la figlia avrebbe potuto anche non esistere, aveva preso a cuore la sua educazione e le era stato spesso accanto, facendole regali e portandola a passeggiare sulla spiaggia o nelle brughiere. Erin gli era molto affezionata e questa sua improvvisa assenza rovinava completamente l’allegria per il ricevimento ormai prossimo. In effetti, non era da Jonas tardare così tanto: aveva provato a chiamarlo due volte ma aveva sempre il cellulare spento.
“Il suo aereo avrà fatto tardi, tesoro” le disse gentilmente, sedendo accanto a lei sul divanetto foderato di velluto verde e tentando di ravviarle la bionda chioma ingarbugliata: “Tu, piuttosto, dovresti iniziare a prepararti per la festa”.
“Non ne ho voglia” ribatté Erin imbronciata.
“Ma come? Non stavi nella pelle!”
“Mi annoierò di sicuro. Non conosco nessuno degli invitati. E poi…” le manine paffute tormentarono nervosamente la stoffa dell’abito rosa indossato dalla piccola (Jonas aveva la mania di abbigliarla come una bambola di porcellana e il suo guardaroba pareva concepito per una Barbie): “Non ho neanche un amico”.
Ci credo, pensò Harriet con una smorfia. Studiare da privatista, con la sola compagnia di un austero professore, non forniva molte opportunità di allargare le proprie conoscenze. Però sorrise scanzonata: “Incontrare nuova gente serve proprio a questo, Erin. Sono sicura che ti farai tantissimi amici alla festa”.
La bimba arrossì leggermente e distolse il viso, nascondendosi dietro ai capelli sciolti: “Io…non saprei cosa dire. Gli altri bambini mi mettono a disagio. Sono così allegri e vivaci e io invece…sto sempre zitta”.
Sì, in effetti Erin non somigliava affatto ai suoi coetanei. Parlava, si muoveva e perfino guardava in maniera molto più matura e intenta, ed era dotata di un’intelligenza precoce, la quale obbligatoriamente la condannava ad un ricorrente isolamento. Anche Harriet aveva accusato problemi simili, ma più nell’adolescenza che nell’infanzia, il suo carattere riflessivo e silenzioso, il suo lessico ricercato, spesso persino la sua incapacità di far fronte alle battute malevole e di difendersi l’avevano resa un’estranea agli occhi dei suoi coetanei ed era stata profondamente sola, circondata da poche amiche a lei simili e da centinaia di libri di ogni genere. A volte avrebbe desiderato essere come Hannah, tormentata da problemi e preoccupazioni estremamente più futili dei suoi ma, in un certo senso, felice nella sua superficialità. Si era lasciata alle spalle la quattordicenne con l’apparecchio ai denti e l’inossidabile sorriso dietro cui covava in silenzio insicurezze e rancori…ma adesso stava per sposare un bastardo innamorato di se stesso. Beh, era inutile commiserarsi, le cose non sarebbero cambiate. Il Principe Azzurro che ogni donna sognava d’incontrare non l’aveva salvata allora e non l’avrebbe salvata adesso. Era troppo disincantata per credere alle favole.
“Non sono tutti dei chiacchieroni” rassicurò Erin: “Conoscerai persone sensibili quanto te. Potresti portarli in camera tua, se vi annoiate troppo, e fargli vedere uno dei tuoi dvd…mi pare che te ne sia arrivato uno nuovo dalla Francia pochi giorni fa, giusto?”
La bambina si risollevò un po’ e accennò un sorriso: “Sì, si intitola . È bellissimo!”
“E di che cosa parla?” le domandò Harriet, intuendo di aver trovato un argomento che la distraesse dal dispiacere per l’assenza paterna. Erin era dotata di una fervida fantasia, che si manifestava nei suoi disegni e nei piccoli racconti che scriveva e che le faceva leggere, e amava moltissimo guardare film e ascoltare storie. Aveva appositamente scritto un brano per Christine in occasione del suo ultimo compleanno, chiudendosi a chiave in stanza e dedicandosi al lavoro cuore e anima, arricchendo le tre pagine riempite con la sua miglior calligrafia di ghirigori e cornici, e tutto quello che la madre aveva esclamato a lettura conclusa era stato: “Suvvia, Erin, non è certo farina del tuo sacco! Ammettilo che hai scopiazzato da Dickens!”
La bimba aveva reagito con una risatina forzata, ma Harriet, dopo il ricevimento, l’aveva sentita piangere rabbiosamente nella sua cameretta.
“Parla di un inventore e di un proiezionista parigini che accidentalmente, nel corso di una visita all’orto botanico, ingrandiscono una pulce e la trasformano in un mostro alto due metri” si lanciò eccitata ed entusiasta: “Tutta Parigi cade nel panico più assoluto e il presidente avvia una terribile caccia al mostro, ma lui in realtà è buono e gentile e ha un grandissimo dono per la musica. Una notte capita per caso al cabaret dove si esibisce Lucille, una fanciulla bellissima con una voce stupenda, e lei lo sente cantare la sua vita triste e solitaria, capisce che non è affatto il mostro di cui parlano i giornali e lo accoglie nel suo camerino. Lui si innamora di lei, riescono a liberarsi del presidente e vivono felici e contenti nel teatro dove si esibiscono insieme!”
“È veramente carino e originale” commentò Harriet, sincera: “Sono sicura che le altre bambine non lo conoscono”.
“Ma io mi vergogno!” protestò Erin: “Loro vorranno vedere di sicuro una favola tipo Biancaneve o Cenerentola…e a me sono sempre state davvero antipatiche, così belle, dolci e perfette. Signorine gné gné”.
“Chi sarebbe una signorina gné gné?”
Harriet trasalì al suono di quella voce affascinante e gioviale e sollevò gli occhi di scatto verso la porta. Jesper entrò, con il suo solito sorriso accattivante sulle labbra, reggendo una scatola foderata di carta rossa, già vestito di tutto punto per la festa di Halloween. Un’aderentissima calzamaglia nera gli metteva in evidenza le gambe muscolose e…qualcos’altro…, uno splendido gilet rosso fuoco con ricami luccicanti gli fasciava il torace scolpito e a completare il tutto indossava un lungo mantello di seta scura col cappuccio, dalle maniche ampie come sacchi, che formava una pozzanghera ai suoi piedi. I capelli biondo scuri erano pettinati all’indietro col gel e il viso era ricoperto di biacca bianca, con ombre di kajal sotto gli occhi e le labbra sensualmente dipinte di un bordeaux violaceo. Lunghi canini finti spuntavano dal labbro superiore e affondavano in quello inferiore.
Un vampiro rimuginò la giovane, incapace, suo malgrado, di staccargli gli occhi di dosso, e quasi lo sembra davvero, con quel sorriso troppo largo.
Erin trattenne il respiro e saltò giù dal divanetto, correndogli incontro: “Caspita, zio, hai un costume stupendo!”  
Lui rise e la prese per la vita, sollevandola da terra e facendola volteggiare in aria: “Sta attenta, piccola. Sono un demone che odia la luce del sole e si nutre di bellissime bambine” finse di morderla sul collo e la bimba si dibatté, ridendo a crepapelle.
Harriet si alzò lentamente, ostentando un’espressione fredda e composta. Jesper mise giù Erin e si volse nella sua direzione, impigliando lo sguardo al suo e fissandola con curiosa intensità. Finora l’aveva sempre osservata con interesse moderato, come se fosse stata un oggetto raro e prezioso che intendeva aggiungere alla sua collezione e non un essere umano, la sua futura consorte, e spesso e volentieri aveva mostrato nei suoi confronti persino indifferenza, nonostante tendesse ad assicurarsi sempre che non l’aveva abbandonato. Adesso, invece, c’era una nuova luce in quegli occhi che sembravano ancor più grandi a causa dello spesso contorno nero. Non era lo sguardo di un uomo che si accorge di amare la fidanzata…non era neppure una passione improvvisa. Soltanto desiderio, forse? Il calore le affluì alle guance e alle orecchie quando una simile eventualità le attraversò la mente e comprese di esserne lusingata. Ma non voleva provare riconoscenza per la lussuria di un giovane che la tradiva senza sforzarsi di nasconderlo, solo perché l’aveva omaggiata di un’occhiata cupida.
“Ho trovato la maschera adatta a te, Harriet” disse infine il suo futuro marito, appoggiando sul pavimento la scatola rossa: “Voglio che tu sia bellissima stasera. Tutti devono vedere quanto è attraente mia moglie e invidiarci”.
Harriet fece una smorfia. E così si ricordava di lei solo per poterla esibire ai suoi amici? Per farsi bello ai loro occhi? Forse Ingrid e Christine avevano accettato un tale compromesso e si erano arrese al ruolo di ornamento del marito-padrone, ma non erano donne che brillavano per emancipazione. Ingrid era nata negli anni quaranta, quando la società era totalmente diversa da quella attuale, e Christine non poteva farsi tante pretese, dal momento che il matrimonio con Jonas era stato la sua salvezza. Lei, invece…
Io cosa? Sono esattamente come loro. Anch’io salverò me stessa e la mia famiglia grazie alle nozze con Jesper, anch’io devo compiacerlo, per non fargli cambiare idea.
Tirò fuori un sorriso stiracchiato: “Beh, sono ansiosa di vederla”.
Erin capì di doverli lasciare soli l’uno con l’altra e si ritirò con la discrezione che le era abituale, chiudendosi delicatamente l’uscio alle spalle. Essere indesiderata non era una novità, per lei: fin da quando riusciva a ricordare, era sempre rimasta sola davanti ad una porta chiusa a chiave, attendendo invano, per ore, che si aprisse per lasciarne emergere un sorriso affettuoso, uno sguardo di considerazione, quelle tre parole mai pronunciate: “Entra pure, Erin!”
Suo padre aveva adempiuto con coscienza ai suoi doveri di genitore, ma trascorreva la maggior parte del tempo all’estero per motivi personali e i periodi che avevano passato insieme erano stati assai più sporadici di quelli in cui non era a Lawrence Borg. E sua madre non le aveva mai voluto bene, nonostante avesse tentato in tutti i modi di essere buona e brava, di studiare e di non infastidirla con la sua presenza, di conquistarsi anche solo un’oncia del suo affetto. Christine sembrava cieca e sorda a quei tentativi disperati, probabilmente l’attenzione che le dedicava era troppo scarsa per permetterle di intuire l’immenso e desolato amore che la figlia provava per lei e la sua famelica brama dell’approvazione materna. La bambina considerava gli appartamenti della genitrice un sacro santuario e, quando vi passava davanti, veniva invasa dalla stessa reverenza che coglie il pellegrino giunto finalmente alla meta del suo lungo viaggio. Per lei Christine era bellissima e terribile, una divinità da adorare in silenzio e da cui non aspettarsi nulla se non qualche fugace rimprovero o qualche occhiata di fastidio misto ad astio, che la feriva pari ad una frustata. A volte aveva l’impressione che la madre rimpiangesse di averla messa al mondo. Ed era certamente colpa sua, del suo stupido carattere solitario e della sua immaginazione troppo fervida. Senz’altro Christine avrebbe preferito una figlia estroversa e vivace che prediligeva la vita all’aria aperta agli ambienti chiusi del castello.
Harriet era gentile con lei ed Erin le voleva molto bene, anche se la conosceva da poco. Spesso dentro di sé fingeva che fosse la sua sorella maggiore e che insieme condividessero il fardello dell’indifferenza di Christine. Ma lei aveva lo zio Jesper, mentre Erin era completamente sola, troppo impacciata per attaccare bottone con chicchessia. Le piaceva immaginare di essere qualcun altro, una bella principessa prigioniera in una fortezza che sarebbe stata salvata da una presenza buona e premurosa. Non uno di quegli stupidi allocchi alla Azzurro di “Shrek”, un uomo dolce e sensibile capace di apprezzarla per ciò che era e di assecondarla nei suoi passatempi. Magari ne sarebbero venuti due, uno per lei e uno per Harriet, e sarebbero vissute per sempre felici e contente.
Uscì nel vasto giardino che circondava Lawrence Borg, sollevando timorosamente la gonna per timore di sporcarla. Sua madre teneva tantissimo allo stato dei suoi abiti e andava su tutte le furie se le scopriva addosso una macchia o una sgualcitura. Tirava un venticello fresco e gli alti steli d’erba erano piegati di lato, un’ampia distesa smeraldina attraversata da sentieri ricoperti di ghiaia candida e da folte siepi, con qualche statua qua e là e un labirinto di arbusti in un angolo, ormai inutilizzato. Di solito Erin si sedeva sulla panchina di marmo sotto all’albero di pesco, avvolta in un vortice di fiori rosa, e giocava con le sue bambole, inventando fantastiche avventure. Quel giorno, però, la oltrepassò senza fermarsi e si avvicinò all’austero cancello che delimitava il perimetro della proprietà, cercando di non pensare alla festa che si avvicinava. Aveva uno splendido costume da strega ma lo avrebbe indossato principalmente per farsi ammirare da suo padre, e lui non c’era. Quindi l’idea del caos, della gente e delle occhiate le riusciva decisamente indigesta.
Alzando un attimo lo sguardo, avvistò una sagoma scura ferma davanti al cancello di ferro, avvolta in un soprabito che la nascondeva quasi completamente e con il viso celato da un cappello a tesa larga. Quel cappello...era così simile a…
“Papà!” la gioia la invase totalmente, riscaldandole il cuore e i sensi come una medicina benefica, e si lanciò in avanti con impeto da campionessa olimpica, dimentica del vestito e del rischio di rovinarselo sulla ghiaia scricchiolante. Non c’erano dubbi, quel cappello apparteneva a suo padre, lo avrebbe riconosciuto tra mille! Dunque aveva mantenuto la promessa, era tornato!
L’uomo oltre il cancello venne scosso da un lieve sussulto quando il richiamo felice della bambina risuonò per tutto il giardino e scrutò da dietro lo spesso copricapo quella figuretta minuscola che gli correva incontro a braccia aperte, i capelli biondi al vento e un sorriso pieno di sollievo sul visino sottile: “Sapevo che saresti…”
Le parole le morirono in gola e i suoi passi frenetici rallentarono tutto d’un colpo fino a cessare completamente. Nondimeno era giunta accanto alle sbarre d’acciaio e fissò, con un misto di delusione e di sconcerto, la sagoma in piedi di fronte a lei: “Tu non sei mio padre!”
Da lontano era stata tratta in inganno, ma ora vedeva chiaramente l’errore ingenuamente commesso. Jonas era un uomo di corporatura abbastanza massiccia, con le spalle larghe e l’ossatura solida, l’individuo che aveva scambiato per lui, invece, era magro e agile, alto di statura e con un fisico scattante. Inoltre, a differenza del primogenito di Hugo, biondo come Erin, costui aveva ciocche di capelli corvini che sfuggivano al cappello e gli spuntavano da dietro il collo, raccolti in una morbida coda. La bambina non riusciva a vedere nient’altro di lui a causa del fitto strato di indumenti e dei guanti in pelle nera che gli coprivano le mani. Ma era attratta soprattutto dal copricapo, e non si sentiva affatto a disagio, una cosa alquanto strana per lei: “Il tuo cappello è identico a quello di mio padre” disse con semplicità.
Lui portò una mano a toccarlo e le domandò, con una voce bassa e stranamente melodica: “Chi è tuo padre?”
“Jonas Lawrence” indicò l’imponente residenza: “Questo è il maniero di famiglia, Lawrence Borg. Io sono sua figlia Erin”.
L’uomo scrutò da dietro il cappello la bambina e il castello alle sue spalle, passandoli in rassegna varie volte, come se volesse imprimerseli a fondo nella mente. Il fatto che fosse pressoché invisibile gli dava un’aria inquietante ed enigmatica, ma Erin sottostò a quel muto esame senza problemi e lo osservò a sua volta con interesse, convenendo con se stessa che no, non l’aveva mai visto prima e no, non faceva parte degli invitati. Non sapeva bene per quale motivo ma quell’individuo le ispirava simpatia. Beh, era rinomato che tutti i tipi strani affascinassero Erin Lawrence: “Tu chi sei?” gli chiese, sinceramente incuriosita.
Non aveva la possibilità di guardarlo in faccia, ma ebbe l’impressione che sorridesse: “Puoi chiamarmi R” commentò con una punta di macabra ironia. Poi alluse al castello con un cenno del capo: “Dunque i Lawrence vivono ancora qui”.
La bimba annuì: “Adesso ci siamo soltanto io, mia madre, lo zio Jesper, la sua promessa sposa Harriet e le di lei madre e sorella”.
L’uomo chiamato R drizzò il capo di scatto: “Jesper sta per sposarsi?”
“Sì” Erin era gratificata dal suo interesse dal proprio nuovo ruolo di informatrice. Non era abituata ad essere trattata come una persona adulta: “Con una ragazza davvero molto simpatica. Stasera si festeggia Halloween tutti insieme”.
“La notte dei mostri…” ridacchiò R. Erin lo fece a sua volta, senza un motivo preciso. Però quell’uomo la divertiva. Aveva in sé una specie di lugubre umorismo e ogni volta che parlava con quella sua voce profonda e astuta, le veniva da ridere. Improvvisamente fu presa dal desiderio di guardarlo in faccia e allungò la manina attraverso le sbarre per togliergli il cappello, ma lui reagì con prontezza e l’afferrò per il polso, bloccandola. Si era mosso in maniera talmente fulminea che la bambina sussultò e lo fissò con i grandi occhi spalancati.
“Suvvia, piccola Erin Lawrence” sibilò l’uomo col cappello, aumentando la stretta sul polso magro: “Non fare la curiosa. Chi è curioso si caccia nei guai. La conosci la storia di Barbablù?”
Era ovvio che si aspettava una risposta negativa. Ma Erin ribatté, con tutta la sfrontatezza dei suoi cinque anni e con un tono piuttosto saccente: “Certo che la conosco, signor R. Non sono mica un’ignorante. Parla di quell’uomo vedovo di tantissime mogli che si risposa con una giovane e le vieta di andare nella sua stanza. Ma lei, quando il consorte è assente da casa, si fa vincere dalla curiosità e gli disobbedisce, scoprendo che nella famigerata stanza Barbablù tiene le teste decapitate di tutte le sue antiche coniugi, vittime del suo stesso errore”.
Lui tacque per qualche istante, senza lasciarle andare il polso. Erin soggiunse, per nulla spaventata da quella morsa: “A me personalmente piaceva come storia”.
R le domandò a bruciapelo, a metà tra il piccato e l’irriverente: “Tu desideri vedere il mio volto. Ma se sembrassi il Fantasma dell’Opera o un mostro del genere?”
Nuovamente la replica della bambina fu immediata e comicamente candida: “Mio padre mi ha portato a vedere il musical a Londra cinque mesi fa. L’ho adorato. E lui poi non era tanto brutto. Mi piaceva molto più di quell’insipidone prescelto da Christine alla fine. Speravo che cambiasse idea, ma è come mia madre…” un’improvvisa amarezza velò il viso di Erin: “Pensa alla bellezza esteriore”.
Probabilmente si sbagliava, ma le parve di aver colpito quel tipo strano dal bizzarro pseudonimo. Sarebbe stato troppo bello per essere vero. Di solito non osava mai parlare dei film o delle fiabe che conosceva perché le persone la guardavano in modo strano o mostravano un’assoluta mancanza di interesse, e finiva sempre per sentirsi stupida e anormale. Invece lui la stava a sentire per davvero. Come Harriet. L’emozione le fece luccicare gli occhi.
Lentamente, R le lasciò andare il polso. Erin agì con l’impulsività dei bambini e aprì il cancello dall’interno, un po’ affaticata dal peso di quelle vecchie sbarre di ferro. In fin dei conti Harriet non aveva tutti i torti, conoscere persone significava farsi nuovi amici, e non le importava che l’uomo col cappello fosse molto più grande di lei. Era sicuramente più interessante delle sciocche bimbette fronzoli e risatine che si sarebbero presentate quella sera, tutte rigorosamente iscritte a danza classica o a ginnastica ritmica e figlie di gente in vista: “Vuoi venire alla festa di Halloween? Io sono la nipote di Jesper, posso invitare chi voglio!” propose, con entusiasmo appena un po’ insicuro.
R restò un attimo in silenzio, poi si produsse nuovamente nella sua risata macabra e ironica: “Potrebbe essere interessante, in effetti”.
Se Erin avesse potuto scorgerlo senza la protezione del copricapo, avrebbe visto una smorfia di trionfo, eccitazione e vedetta pervadere la sua faccia martoriata dai peccati di un altro uomo. Ma il cappello era ampio e ben sistemato e il sorriso - se così si poteva chiamare – dell’ospite rimase senza echi. Tutta rapita da quell’inaspettata novità, la bambina lo prese audacemente per la mano guantata e lo tirò in direzione del portone d’ingresso: “So io quel che ti ci vuole! Mio padre aveva acquistato il suo costume per la festa ma sicuramente non verrà…” storse le labbra, ma scosse il capo, scacciando ogni pensiero triste: “Quindi penso che potrai metterlo tu! Lui è più grosso di te ma se lo stringiamo ti starà a pennello!”  
R si lasciò trascinare all’interno del palazzo dall’eccitatissima padroncina di casa e, al momento di oltrepassare il portone, passò le dita sulle vecchie mura in una rapida, rancorosa carezza.
Al quarto piano, stagliata contro il vetro della finestra, la figura pallida e livida di Christine Andersson, una macchia bianca circondata dal rosso della capigliatura, non aveva perso una sola mossa del colloquio appena manifestatosi nel giardino sottostante e le sue lunghe mani affusolate si torcevano incollerite sulla camicia da notte.
Sfuggente come un felino, lasciò che la pesante tenda di broccato ricadesse ad oscurare la visuale della sua stanza da letto e si ritirò dalla finestra.
 
“Sei perfetta, min karlek*” sussurrò Jesper all’orecchio di Harriet, le parole una carezza languida sulla sua pelle: “Assolutamente perfetta”.
La ragazza, rabbrividendo per il piacere nel percepire il fiato caldo del suo fidanzato che le scivolava giù per il collo, si contemplò immobile nel lungo specchio che aveva di fronte, la cornice lavorata in elaborati stucchi d’oro e di bronzo e la superficie talmente larga da riflettere sia lei che il giovane Lawrence, in piedi alle sue spalle nel suo costume da vampiro. Erano occorsi ben quarantacinque minuti perché la sua vestizione, compresa di trucco e parrucco, fosse completata e l’abilità della cameriera Hunrike e di un esperto estetista pagato profumatamente per prestare i suoi servigi alla celebre famiglia, ma il risultato era senza dubbio qualcosa di…straordinario. Jesper voleva davvero che desse il meglio di sé quella sera, era rimasto in attesa fuori dalla porta per tutto il tempo e aveva esaminato il lavoro concluso con un’attenzione quasi maniacale, un sorriso di compiacimento che lentamente gli si allargava sulle labbra e una luce possessiva negli occhi circondati da false borse scure.    
Harriet fissava l’immagine riflessa nello specchio e stentava a riconoscersi nella creatura esotica e affascinante che ricambiava il suo sguardo con un’espressione sorprendentemente composta. Era sempre andata in giro con ampi maglioni e jeans sformati e il trucco non le era mai piaciuto più di tanto, lo usava nelle occasioni importanti ma per il resto preferiva farne a meno, dal momento che aveva la fortuna di possedere una bella pelle e di non necessitare di cipria o fondotinta. Quella che aveva dinnanzi non aveva nulla in comune con la ragazza semplice, acqua e sapone, che era sempre stata, eppure, allo stesso tempo, era sempre lei, Harriet Ullmann.
L’abito, lungo fino ai piedi, era di una vibrante tonalità blu elettrico, la stoffa ricca e pesante coperta da uno strato di tulle impalpabile che scivolava come onde su una baia increspata sulle generose curve del suo corpo e le fasciava alla perfezione, rivelandole senza sembrare volgare e piovendo giù in guisa di una selvaggia cascata. Sul merletto esterno erano state applicate minuscole pietre verdi, nere, rosse e ambrate, un arcobaleno multicolore che le conferiva un’aura iridescente, e altri preziosi le adornavano le scarpe in tinta. Le maniche erano lunghe, aderenti alle braccia snelle, e terminavano con un ricamo di pizzo nero. I morbidi riccioli castano scuri erano stati acconciati in trecce sottilissime, che s’innestavano nelle ciocche più folte, le quali ricadevano sulle spalle e la schiena, facendo risaltare vistosamente il viso, il corpo e il vestito, e un diadema d’argento e di zaffiri le circondava il capo.
Ma l’opera più mirabile l’aveva certamente portata a compimento il truccatore: la faccia della giovane era stata divisa in due parti con precisione sopraffina e da un lato risaltava una falce di luna in perfetto accordo con l’occhio, il naso e le labbra, dall’altro un sole infuocato. Il risultato finale era selvaggio e ipnotico e le iridi sembravano più verdi e intense che mai, come se facessero parte della composizione. Aveva timore di muoversi, di guastare quella spaventosa perfezione, aveva addirittura timore di starnutire.
“La dea degli inferi, Persefone” commentò Jesper con voce vibrante, facendo scorrere le dita eleganti sulle spalle nude della giovane: “Per due stagioni vive nella luce al fianco della madre…” sfiorò il sole dipinto sul viso liscio: “E per due stagioni nel regno oscuro del marito” passò alla falce di luna. Chinò il capo sull’incavo del collo di Harriet, dov’era allacciata una catena d’argento che terminava in un grosso medaglione incastonato di una lucida pietra azzurra, e premette la bocca sulla pelle morbida e sensibile, strappandole un fremito di desiderio. Come incapace di staccarsi dalla creazione che lui stesso aveva ideato, le depose addosso una scia di baci ardenti che andavano dalla gola agli angoli delle labbra, attento a non rovinarle l’acconciatura e il trucco brillante. I canini finti le pungevano appena la carne.
Harriet socchiuse le palpebre e inarcò la schiena, cercando di resistere al fascino del suo fidanzato e all’atmosfera soporifera che li circondava. Sapeva perché lui si comportava così, perché all’improvviso pareva non volersi più separare da lei: era un amante e un seguace della bellezza pura ed esteriore, la ricercava con l’avidità di un cane affamato e desiderava farla sua, possederla, carpirla, e in quel momento lei ne faceva parte, era divenuta una creatura esotica e fascinosa che Jesper bramava così come avrebbe bramato una bambola a grandezza naturale. La sua visione dell’universo, delle donne, la disgustava profondamente, ma il corpo traditore la costringeva a restare immobile, a godere ancora un altro poco di quelle sensuali carezze, di quell’ardore, di quei baci infuocati sulla sua pelle nuda e piena di brividi. Lo amava? Non lo amava? O era semplicemente vittima dell’incantesimo che aveva irretito ogni donna che aveva posato gli occhi su di lui?
Jesper le posò le mani sul seno colmo e l’attirò più vicina: “Sei mia, Harriet” bisbigliò, possessivo, sfiorandole l’ovale del volto e facendole girare la testa nella sua direzione: “E sei bella…giovane…innocente. La mia dolce Persefone. Non permetterò a nessuno di portarti via…di rovinare tutto”.
C’era qualcosa di ambiguo in quelle parole, un significato nascosto, ma in quel momento premette le labbra sulle sue, rapendole in un bacio profondo e autentico, e la confusione della ragazza svanì, offuscata da quel contatto insopportabilmente intimo che finora egli non aveva mai cercato. Mai l’aveva baciata e mai aveva dato l’impressione di volerlo fare, con il tempo si era persuasa che il momento sarebbe giunto il giorno delle nozze, quando le avrebbe sollevato il velo e sarebbero risuonate le parole famose: “Puoi baciare la sposa!”
Quell’assalto la coglieva del tutto di sorpresa e non riuscì a difendersi. Non era la prima volta che le succedeva, c’erano stati altri giovani, altre storie, altri scambi di quel tipo, e mai nessuno l’aveva coinvolta più di tanto. Rimase immobile tra le braccia di Jesper, consapevole della delicatezza con cui la teneva stretta per non guastare la sua creazione (dunque lui non partecipava pienamente al bacio, se pensava ancora a simili cose) e semplicemente lo lasciò fare, senza rispondere e senza spingerlo via. La sua lingua era fredda ed esperta nella sua bocca e le sue carezze professionistiche…chissà quante volte aveva offerto quei piaceri ad altre donne e se lo aveva fatto con quella gelida abilità.
Tu non mi ami, pensò Harriet con disperazione, ribollendo di desiderio e di dispiacere ai baci del fidanzato, se mi amassi non mi baceresti in modo così impersonale.
Jesper si scostò, la guardò negli occhi verdi e angosciati, aggrottò la fronte magnificamente modellata e allungò una mano verso il suo viso. Come per magia il cuore della giovane accelerò i battiti e lo stomaco le si strinse per la tensione e l’aspettativa. Forse intendeva farle una carezza, una semplice, affettuosa carezza? Oh, se lo avesse fatto, se si fosse accontentato di un gesto tanto semplice dopo il bacio elaborato di prima, forse lei…
Le dita del giovanotto le sistemarono con fare infastidito una ciocca che era sfuggita alla complicata acconciatura e raddrizzarono il diadema: “Cerca di ballare con moderazione alla festa” borbottò: “Altrimenti disferai l’opera a metà serata”.
Le spalle di lei si incurvarono e abbassò lentamente il capo, detestandosi per il peso delle lacrime che premevano contro le palpebre. Non gli avrebbe dato una simile soddisfazione, non avrebbe pianto per lui. E poi probabilmente non si sarebbe dispiaciuto per lei quanto più per il trucco, che si sarebbe sciolto a causa delle lacrime.
Le offrì il braccio con affettata galanteria: “Vogliamo andare, mia bella Persefone?”
Non era affatto pronta ad affrontare le luci, la musica e il caos che sarebbe imperversato nel corso della festa, non con il sapore dei suoi baci estranei ancora sulle labbra. Ma non aveva scelta. Doveva mostrare carattere, sostenere gli sguardi che avrebbe attirato in quanto fidanzata di Jesper e anche semplicemente grazie al magnifico costume e superare quella maledetta serata. Aveva un cattivo presentimento, una sensazione sgradevole dentro, di cambiamento, di svolta negativa, di cose che crollavano e che nascevano.
Scacciò quelle sciocche fantasie, infilò il braccio sotto quello di Jesper e con la mano libera sollevò l’ampia gonna blu: “Andiamo” disse con determinazione.
 
Quando l’uomo chiamato R emerse dalla stanza da letto di Erin, la bambina era seduta in anticamera e non la smetteva di dimenare i piedini dall’eccitazione, abbigliata del suo vestito da strega e con i capelli biondi raccolti in un’ampia crocchia sulla nuca sotto un cappellaccio nero trapuntato di stelle e lune argentee. Il suo costume era color della notte, con lacci di cuoio che si incrociavano sul corpetto e una gonna che s’allargava a mo di corolla in mille pizzi e merletti, ed era completato da una calzamaglia di raso nero e da ballerine ricoperte di lustrini. Si era truccata le labbra con un rossetto viola scuro e applicata sulla guancia uno strass a forma di ragno, e andava molto fiera della sua maschera semplice e tradizionale. Pensava che avrebbe fatto il suo ingresso in sala senza suo padre ad accompagnarla, sola sotto tutti quegli sguardi, e invece era riuscita a trovarsi un cavaliere per puro caso e l’aveva invitato di sua iniziativa, come un’adulta. Tutta la sua smania di divertirsi si era freneticamente ridestata.
Ovviamente non aveva detto a nessuno di R. Non ancora, almeno. Preferiva tenerlo tutto per sé ancora un po’, godersi in santa pace la novità senza che sua madre o lo zio Jesper gliela strappassero, e poi condividerla con loro. Peraltro non era sicura che avrebbero acconsentito a farlo venire alla festa, ragion per cui aveva deciso di agire in segreto. Tanto non faceva nulla di male, giusto?
Udì la porta della sua stanza aprirsi e poi richiudersi e subito si girò, trattenendo il respiro: “Wow!” batté le mani, felice come ben poche volte era riuscita ad essere: “Ti sta a pennello, signor R!”
Il “signor R” l’aveva seguita fin lì con la sicurezza di chi conosce l’ambiente e aveva detto ben poco, limitandosi ad aiutarla con il costume, la crocchia e il trucco. Non dava l’idea di gradire la compagnia della bimba e sembrava covare qualcosa, ma non l’aveva interrotta mentre discorreva a raffica di mille futili cose e per Erin era stato un fatto così raro e inaspettato che si era guadagnato, senza volerlo assolutamente, l’imperitura gratitudine della più piccola dei Lawrence.
Il costume che avrebbe dovuto indossare Jonas e che Erin aveva ceduto all’ospite gli stava perfettamente, come se fosse stato creato apposta per lui. Il completo da gentiluomo dei primi del Novecento rivestiva il suo corpo alto e asciutto aderendo perfettamente alla pelle e non facendo neanche una grinza e l’ampio mantello di velluto nero lo avvolgeva come un vortice, il cappuccio calato sulla fronte e le mani nascoste nei soliti guanti. Ma la vera opera d’arte era la maschera, acquistata in una bottega veneziana a costo di fior di quattrini: di fine porcellana candida, tanto lucida da riflettere il lucore del lampadario, gli ricopriva soltanto la parte destra del volto e lasciava esposta la sinistra, ma egli era riuscito a sistemare il cappuccio in modo che anche quella rimanesse immersa nell’ombra, per cui era del tutto anonimo e invisibile. L’occhio che la scrutava attraverso il foro era di un azzurro chiaro e penetrante, la stessa tonalità, in effetti, delle sue iridi, le iridi di Erin.
“Ora sei davvero come il Fantasma dell’Opera!” sentenziò la bambina, eccitata.
L’idea le era venuta non appena R aveva nominato il celebre titolo e non era riuscita a rinunciarci. Jonas aveva prescelto quel costume perché erano andati a vedere il musical di recente, ma forse, ammise Erin tra sé e sé, al suo nuovo accompagnatore stava ancor meglio che al padre assente. Pareva addirittura nato per vestire i panni di uno dei famosi mostri della letteratura. Sarebbe stato bello creare un’accoppiata e, a questo punto, abbigliarsi da Christine Daaé, ma Jonas ai tempi le aveva negato il suo consenso poiché sarebbe stato di cattivo gusto comparire in sala in veste di “innamorati”, e adesso non aveva tempo di cercare un altro costume. Poco male, nei loro contrasti, sarebbero risaltati entrambi.
R si volse verso lo specchio da parete e si contemplò, sfiorando la maschera di porcellana e il magnifico mantello. Le sue labbra accennarono un sorriso storto, ambiguo, quasi amaro: “Ottima scelta, piccola Erin Lawrence” fu il laconico commento. La bimba lo raggiunse, luminosa come un piccolo sole, e si aggrappò intrepidamente al suo braccio: “Avanti, scendiamo!”
“Certo” ribatté il suo sinistro cavaliere: “La tua famiglia attende”.
 
Angolo autrice: Beh, dovevo far travestire Raphael da Fantasma dell’Opera. Non ho resistito alla tentazione ed eccolo qui, abbigliato della maschera che tutte conosciamo : ) vi starete chiedendo perché aggiorno come se avessi il diavolo alle calcagna, ma ho una risposta: il due parto per due settimane e purtroppo non potrò scrivere né andare su internet, per cui sto cercando di farlo il più possibile adesso, probabilmente prima di quella data posterò il capitolo sulla festa di Halloween, in cui ne accadranno delle belle…spero che continuerete a seguirmi perché il vostro appoggio mi è davvero prezioso! Che altro dire? Non ci crederete ma Erin mi sta davvero simpatica, di solito nelle storie non vado matta per i bambini ma lei mi piace, spero davvero che condividiate la mia opinione! E ho citato anche “Un mostro a Parigi”, film delizioso che consiglio a tutte le amanti del genere e che il raccontuccio della piccola non rende abbastanza (scusa, Erin, scherzo XD). Raphael sta per scatenarsi di nuovo come suo solito…e conta su di voi! (“Aiuto, scappiamo!” Ndr Voi) XD anche se è profondamente offeso per essere stato paragonato a E.T. e al mostro di Frankenstein nelle ultime recensioni, sebbene io abbia riso parecchio alle sue spalle e abbia avvertito decisamente meno la tensione assassina della storia grazie alla vostra ironia ;)
Un grazie di cuore a tutte quante, come sempre vostra
Elly    
 
*Borg= castello in svedese.
*Min karlek= amore mio in svedese. 

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Capitolo 4
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5
 

 
 
 
 
 
 
“Davvero non riconosci tuo fratello, Jesper?”
Un silenzio gravido, pesante, assoluto calò sul balcone nel quale i due Lawrence si fronteggiavano uno davanti all’altro, da una parte il bel Jesper, perfetto e impietrito nel suo costume da vampiro, il volto che impallidiva mortalmente sotto la biacca e le pupille che si dilatavano dallo stupore, e dall’altra Raphael, la reincarnazione vivente del Fantasma dell’Opera, il ghigno vendicativo sepolto sotto la maschera e il cappuccio. Le risa, la musica e le voci che scaturivano dal luminoso salone da ballo filtravano liberamente sino a loro, ma a questa frase parvero divenire impercettibili, un inquietante sussurro di sottofondo che coprì il mutismo in cui erano caduti i due fratelli.
Mutismo che perdurò per minuti interi, solidificandosi in una cappa soffocante e isolandoli dal resto degli invitati, da Christine, perduta nel fulcro delle danze, da Harriet, smarrita invece nei fumi dell’alcol, e da Erin, vittima innocente di antichi rancori e segreti che la sua famiglia aveva preferito dimenticare nella sbilenca e abbandonata torre in cui il figlio rinnegato aveva vissuto per dodici anni. Segreti che adesso Raphael riportava a galla con la sua sola presenza, con l’orrore che si celava dietro la fine porcellana bianca, pesante sui suoi lineamenti marchiati dal peccato.
Jesper boccheggiò, vinto da uno stupore che per un attimo cancellò dalla sua mente ogni altro pensiero o congettura, e si allontanò istintivamente dallo spettro di quella figura avvolta dal mistero e dal rischio, da quel demone creduto erroneamente esorcizzato che tornava a maledire il palazzo più adulto, più indurito, più folle, più pericoloso. E si deformò per il terrore, la sua faccia che aveva fatto palpitare fin dalla più tenera adolescenza cuori femminili, si piegò nella smorfia di un bambino terrorizzato, inerme dinnanzi al suo peggiore incubo.
 
“È vero che nella torre c’è un mostro?” chiede il piccolo Jesper con gli occhioni chiari dilatati dal timore superstizioso, un soldatino di piombo stretto al petto come a difenderlo dalla creatura spaventosa che dimora nel luogo proibito. Victor annuisce, saccente, e sorride con malizia: “Un mostro orrendo, talmente brutto che non può guardarsi allo specchio se vuole evitare di romperlo! È stato mandato da un demone a perseguitare la nostra famiglia e la notte si sentono i suoi lamenti inquietanti, uuh, uuh!”
“Smettila!” strilla il bambino, restio ad ammettere di essere meno coraggioso del fratello minore: “Sono solo bugie!”
“Oh, ma io l’ho visto” ghigna Victor: “Lo tengono al buio, in mezzo ai vermi, con delle catene. È come il Minotauro, il figlio del re di Creta che l’aveva imprigionato nel Labirinto perché si vergognava di lui”.
 
Jesper non aveva mai voluto vedere, né tantomeno intuire l’esistenza di quel fratello maledetto e indegno, di quella macchia oscura nell’eterno lucore della sua illustre famiglia, persino quando, deceduti suo padre e Victor, era salito nella famigerata torre nel tentativo di scoprire cosa Hugo Lawrence aveva tenuto segreto per tutti quegli anni e cosa aveva consumato la sua anima non aveva indugiato sugli effetti personali che vi aveva trovato, sulla lurida branda, la ciotola incrostata di sporco, le manette d’acciaio infisse al muro, segni inequivocabili di una presenza che aveva abitato quel luogo. Per lui il figlio più piccolo altro non era che una paura infantile, una creatura minacciosa pari al mostro sotto al letto o al Baubau, un essere che aveva fatto partorire incubi alla sua mente di bambino ma che aveva presto dimenticato. E ritrovarselo lì, di fronte, in carne ed ossa, per giunta avvolto in un pesante mantello nero e con l’orrore nascosto dietro la maschera, era così assurdo, così privo di senso che arretrò fino ad andare a sbattere contro la balaustra e continuò a tenergli incollati addosso gli occhi dilatati.
“Non è possibile…” sussurrò, esangue: “Tu non puoi…”
“…esistere?” continuò Raphael al suo posto con voce sepolcrale. Una risata bassa e inquietante emerse da sotto al cappuccio, un suono che non aveva nulla di ilare e che trasudava una macabra ironia: “Oh, io esisto, fratello. Purtroppo esisto”.
Jesper rabbrividì, sentendosi chiamare “fratello” da quella presenza minacciosa, e le sue dita si serrarono sul gelido parapetto con rinnovata forza, come se egli necessitasse di un appiglio a cui aggrapparsi per non stramazzare al suolo: “Che cosa vuoi?!” sibilò piano, cercando spasmodicamente dentro di sé una scintilla di quell’esuberanza che era solito mostrare e che s’era spenta tutta insieme.
Raphael fece un passo avanti, incurante del terrore che dominava l’animo del giovane. Dopotutto, era un qualcosa con cui faceva i conti da tempo immemorabile e che ormai non lo scalfiva più: “Come, non mi dai neanche il benvenuto, fratello?” snudò i denti in un abominevole ghigno celato dalla maschera: “Strano! Pensavo che fra membri di una stessa famiglia ci si dovesse aiutare a vicenda, o sbaglio?” lasciò la frase in sospeso come se s’aspettasse una risposta da lui, ma proseguì dopo un istante, volgendo lo sguardo all’immensità del cielo puntellato di stelle: “Certo c’è da ammettere che sono venuto senza avvertire, e me ne scuso profondamente. Davvero scortese da parte mia! Ma vedi, ero nostalgico di questo vecchio e gelido palazzo, di cui in fondo ho visitato solo la torre, e della mia cara, carissima terra natale. Non trovi che sia naturale per un uomo voler tornare alle sue origini dopo tanto tempo in cui è stato lontano da casa? Lasciai questo luogo che ero un ragazzino e ci ritorno da adulto…eppure non è cambiato affatto, sai?” accarezzò con falso languore il marmo del balcone, rivolto apparentemente più a se stesso che ad un immobile Jesper: “Tutto è esattamente come lo ricordavo. Anche tu, fratello, sei proprio come ti ho immaginato”.
“Non chiamarmi così!” rantolò il giovane con voce strozzata, frugando alla cieca intorno a sé alla disperata ricerca d’una qualsiasi arma da usare che però non si palesava alle sue mani frementi.
“E in quale altro modo dovrei chiamarti?” le sopracciglia corvine di Raphael si levarono in una perfetta espressione di meraviglia, quei lineamenti che Jesper non voleva neppure figurarsi nel cervello si mossero sotto la fine porcellana della maschera: “Non condividiamo in fondo lo stesso sangue? Non siamo entrambi figli di Hugo e Ingrid Lawrence? Questo che cosa ci renderebbe, se non dei fratelli? In effetti, però, siamo diversi…” i suoi penetranti occhi azzurri si soffermarono sulla figura magra e prestante di Jesper, sul suo viso perfettamente cesellato e sullo splendore della sua chioma serica: “Molto diversi. Il demone e l’angelo!” soggiunse con tono quasi giocoso: “Un magnifico contrasto, non trovi? Ho sempre pensato che gli opposti si facessero risaltare a vicenda. Sono talmente marcio che la tua bellezza rifulge come non mai, e tu sei talmente splendido che la mia corruzione non ha confini”.
“Tu sei pazzo…” bisbigliò Jesper, la voce un distillato di avversione, orrore, paura e un oscuro presentimento che gli ghiacciava pian piano le membra. Non poteva accettare l’esistenza del fratello rinnegato, non poteva, e tentava di convincersi che quello che aveva di fronte non fosse altro che uno squilibrato, un malato di mente che s’era infiltrato nel castello con l’inganno e che ora desiderava confonderlo con i suoi accenti insinuanti e le sue pose malsane.
“Non è la prima volta che mi muovono una simile critica” commentò Raphael pacato: “Espongo soltanto i miei pensieri, Jesper. Le mie emozioni. Se i miei, i nostri genitori non mi hanno insegnato a usarli, se ho dovuto partorirli nella solitudine di una torre, la colpa è soltanto dei Lawrence”.
“Non mi interessa” replicò il giovane, tremando convulsamente sotto il costume da vampiro: “Io non…”
“DOVREBBE INTERESSARTI, INVECE!!”
Quello di Raphael fu un ruggito, un’esplosione totalmente inaspettata che colse di sorpresa Jesper e gli strappò un mezzo grido, poiché il più piccolo dei Lawrence aveva abbandonato tempestivamente la sua calma, arrivandogli vicinissimo e puntandogli contro un dito accusatore, e le sue iridi chiare avevano preso a scaricare su di lui scintille d’una rabbia autentica, d’un furore che aveva senz’altro trasfigurato il suo volto invisibile. Ed ora ansava come una belva feroce, incombendo sopra un terrorizzato fratello, consumandolo con le fiamme del suo sguardo infuocato di rancore e odio, digrignando i denti in una smorfia aggressiva e disumana: “Dovrebbe interessarti, e molto!” continuò, sputando le parole come fossero veleno: “Per troppo tempo hai fatto finta di niente, fratellino, per troppo tempo hai goduto di una pace che a me era stata negata! E sarebbe decisamente ora che il tuo cervello superficiale si distogliesse dalle sue sciocche occupazioni abituali e si concentrasse su qualcosa di più importante! Perché, capisci, io sono importante, e sono anche molto, molto stanco di tutto questo disinteresse. È una cosa che mi manda in bestia, il vostro non voler vedere ciò che è scomodo, ignorare alcune cose per quieto vivere! Lo trovo terribilmente maleducato nei miei confronti, e ti consiglio caldamente di prestarmi attenzione, d’ora in avanti”.
Se anche Jesper avesse avuto qualcosa da ridire, lo scoppio d’ira di Raphael aveva ucciso definitivamente in lui ogni slancio o impeto di coraggio ed egli in quel momento non aveva alcunché del Principe Azzurro, o dell’eroe affascinante che era sempre stato, s’era appiattito al parapetto, una figurina pallida e tremante, con le labbra esangui e le pupille dilatate, e il fiato si condensava in nuvolette di condensa che fuoriuscivano dalla sua bocca muta. Nel frattempo, al di là delle sontuose tende a balze che li separavano dal salone illuminato, gli invitati seguitavano a ballare, chiacchierare, ridere, ignari della tragedia familiare che si stava verificando a pochi metri da loro.
Con qualche difficoltà, Raphael tornò presente a se stesso e si ricompose, rilassando i muscoli irrigiditi dal furore e sistemandosi meglio il cappuccio sul capo: “Guarda!” esclamò, un po’ infastidito, un po’ ironico: “Mi ero ripromesso di gestire la faccenda con dignità ed ecco che mi hai fatto scaldare subito! Non sono venuto alla tua graziosa festa per litigare con te, fratello. Sei un uomo impegnato, in fondo, l’erede dei Lawrence ne ha di cose da fare!”
“N-non sono l’erede dei Lawrence…” bisbigliò Jesper: “Jonas lo è”.
Raphael scoppiò in una fredda risata agghiacciante che si perse nell’oscurità di quella notte infausta e nello scrosciare delle onde del mare non troppo lontano: “Allora non lo sapevi!” disse: “Tante felicitazioni, fratellino, nessuno ti farà più concorrenza. Il povero Jonas, ahimè, ha avuto qualche problema col…fuoco”.
Occorsero alcuni secondi prima che il messaggio venisse assimilato pienamente, e appena ci riuscì, Jesper perse il poco colore che gli restava in viso e dischiuse le labbra, senza che alcun suono ne scaturisse. Malgrado la morsa di gelo che gli aveva agguantato il cuore, tuttavia, la sua mente fredda e calcolatrice formulò rapidamente l’unica conclusione a cui era arrivato, una conclusione che forse avrebbe sconvolto un altro, ma non lui.
Ha ucciso Jonas. Lo ha ucciso come ha fatto con Victor e nostro padre.
Non provava dolore per questo, non aveva mai nutrito un affetto particolare per il fratello primogenito, anzi, s’era sempre sentito invidioso per i privilegi di cui godeva, privilegi che gli avevano permesso di diventare il capo della compagnia promossa da suo padre e ottenere un notevole guadagno personale, guadagno che lui, Jesper, non aveva mai eguagliato e che avrebbe saputo gestire senz’altro meglio, dal momento che Jonas era sempre stato un ingenuo e uno sciocco, incapace di far fruttare davvero la compagnia. Che fosse morto non era affatto una disgrazia, anzi, si poteva dire che ciò giocasse invece a suo favore e che fosse una fortuna, ma a paralizzarlo era la consapevolezza che ad ucciderlo era stato il fratello rinnegato, il mostro che aveva maledetto la sua famiglia fin dalla nascita e che l’aveva decimata, cercando invano di placare la sua sete di vendetta.
“Vuoi ammazzare anche me?” il giovane si stupì enormemente del tono atono e tranquillo della propria domanda, una domanda da cui dipendevano la sua vita e la sua morte e che aveva posto però come se si trattasse di un quesito normale, di scarsa importanza. Era convinto che fosse la mossa più logica da parte di Raphael. Loro lo avevano scacciato, allontanato, seviziato, e lui tornava per trascinarli con sé nell’oblio e ottenere la sua rivincita come tutti i mostri della letteratura, Frankenstein per primo.
Ma Raphael non aveva mai agito nella maniera più logica, e non s’era mai accontentato di così poco. Se avesse desiderato ottenere ciò che voleva nel modo più semplice e rapido, avrebbe preso Irene con la forza e non avrebbe architettato quell’articolato piano per conquistarla.
“Tu mi sottovaluti, broder*” ribatté pertanto il figlio più piccolo, girando intorno a Jesper come la tigre che sinuosa valuta la sua preda, aspirando ingorda l’odore della sua paura crescente: “Potevo accontentarmi di qualcosa di così effimero e fulmineo come la morte quando ero un ingenuo dodicenne, ma ne ho avuto di tempo per riflettere da allora. Non ho intenzione di torcerti un capello, non a te, almeno”.
Quell’ultima precisazione suonava più che mai ambigua, ma Jesper si fece forza, traendo coraggio dalla consapevolezza che ora nuotavano in un ambito a lui più congeniale: “E allora cosa vuoi? Denaro?” gli scambi e i compromessi erano un qualcosa che conosceva fin troppo bene, si poteva dire che avesse costruito la sua vita sulla base di essi e che niente per lui ne fosse privo, neanche l’amore, neanche la felicità. Si apprestava a sposare una ragazza che in cambio da lui avrebbe preteso aiuti economici per la sua famiglia e Christine gli aveva venduto il suo corpo perché la rendesse partecipe dell’obiettivo che si prefiggeva. Se quell’essere era venuto per ottenere da lui una ricompensa, beh, gliel’avrebbe data e se lo sarebbe tolto dai piedi. Nonostante la pavidità, egli era un uomo molto pratico e non tollerava ostacoli di sorta.
“Denaro?” Raphael scosse la testa: “E che cosa me ne faccio del denaro? Con il denaro non si compra la gioia o la soddisfazione” fece una pausa, senza staccare da Jesper i penetranti occhi azzurri, e scandì bene le parole: “Io voglio il posto che mi è stato ingiustamente negato, fratello. Voglio ciò che mi spetta di diritto. Voglio essere riconosciuto come Raphael Lawrence, e voglio la mia parte di patrimonio, ma non sotto forma di un volgare assegno con cui potrai comprarti una mia partenza, bensì come mio diritto di erede”.
Jesper boccheggiò. S’era sentito pronto a concedergli qualsiasi cosa gli avesse chiesto pur di ricacciarlo nell’abisso da cui proveniva, ma le condizioni che aveva appena enunciato non avrebbe mai potuto rispettarle. Se l’esistenza del figlio maledetto fosse stata resa pubblica, se la gente avesse scoperto che era fratello di un mostro, di un assassino, se le azioni di Hugo fossero trapelate, la memoria di suo padre si sarebbe squarciata per sempre e la sua famiglia avrebbe perduto ogni forma di prestigio, forse avrebbero potuto persino incriminarlo! E non poteva permettere una cosa del genere, non poteva mostrare ad amici e parenti quella cosa, quel demone che aveva ucciso Jonas!
“Sei pazzo!” ripeté in un’esclamazione sprezzante: “Appena scopriranno chi sei ti sbatteranno in carcere!”
Raphael emise un rassegnato sospiro: “Questo è un effetto collaterale che affronterò quando sarà il momento, e soprattutto se sarà il momento. Non mi sembra così assurdo che un uomo desideri essere riconosciuto per quello che è. Capisci, fratellino, io voglio che la gente, vedendomi, dica Quello è il figlio dei Lawrence! Sono stanco, davvero, davvero stanco di nascondermi dietro ad una lettera, di agire in incognito, di non poter gridare al mondo intero chi sono. Perché vedi, di recente mi sono reso conto che anche in questo modo, anche nascondendosi, non si ottiene niente. Assolutamente. Niente. Quindi, perché non mostrarsi alla luce del sole? Perché non farla finita una volta per tutte con gli inganni, i sotterfugi, le maschere? Siamo mostri entrambi, Jesper, tu e io, ed è ora che il mondo lo comprenda fino in fondo. Questo è ciò che voglio, e questo è ciò che mi darai”.
“Tutto quello che avrai da me sarà un arresto!” gridò in risposta il fratello, le guance spruzzate del rosso della collera e il bellissimo viso deformato in una smorfia livida, animalesca, fuori controllo: “Pagherai per quello che hai fatto a Jonas, mostro! Pensi davvero che la tua parola valga più della mia? Posso farti arrestare quando desidero, e non saresti che un comune e volgare squilibrato che ha molestato un giovane uomo d’affari in cambio del suo denaro! Non hai niente che possa nuocermi! Non sei altro che una nullità, uno spettro, un nulla!”
S’aspettava che Raphael esplodesse come già era esploso, addirittura che lo aggredisse, ma il giovane figlio rinnegato non fece niente del genere. Al contrario, si produsse in una risatina sottile, inquietante come unghie strusciate su una lavagna, imbevuta del gusto amaro della disillusione e della follia: “Ah, caro Jesper!” pronunciò ogni parola con una sorta di stanca calma, di atono divertimento, un tono che, nonostante tutto, sollecitò nel giovane un brivido di timore: “Come sei ingenuo. Davvero pensi che io non possa nuocerti in alcun modo? Ma hai forse dimenticato la magia che trasforma i demoni in angeli? Quella magia che rende tutti normali, comuni?”
Jesper lo fissò senza capire, le dita ancora artigliate al parapetto.
“No? Non ti sovviene nulla?” Raphael sembrava quasi annoiato. Pochi mesi prima un discorso del genere l’avrebbe infiammato e infervorato, ma ora se ne serviva quasi con leggerezza, la leggerezza sgradevole e malvagia di chi ha subìto un grave colpo e per questo ha smesso di credere: “Strano, è quel genere di magia che le persone come te conoscono bene. Era graziosa, la tua sposa…” nuovamente, le sue labbra celate dal cappuccio si piegarono in un sorriso macabro, storto, sbagliato: “Incarnato diafano, occhi di smeraldo, capelli soffici come bambagia. Quand’è che dovresti condurla al talamo, fratellino?”
Immediatamente i pugni di Jesper si serrarono e una repentina rigidità s’impossessò dei suoi muscoli, si drizzò dinnanzi al lugubre uomo mascherato con gli occhi accesi da un panico montato con sorprendente rapidità e un’agitazione che non era riuscito a nascondere, non se l’argomento di quella conversazione era divenuto Harriet, la pedina fondamentale del suo piano, il tesoro senza il quale lui e Christine non avrebbero mai ottenuto quello che volevano, che li avrebbe salvati, per sempre. E non era apprensione per la fidanzata quella che lo muoveva, ma terrore nel vedere le proprie trame messe a rischio e la propria leva minacciata.
“Non nominarla!” ringhiò infatti come una fiera: “Tieni Harriet fuori da questa storia!”
Ma Raphael, che non sapeva nulla del piano del fratello e che in ben poche occasioni si era curato di qualcuno che non fosse se stesso, non avrebbe mai potuto comprendere quel che si celava dietro le righe e allargò il sogghigno trionfante: “Sai cosa stavo pensando? Pensavo che una fanciulla così bella e così purastarebbe meglio in un letto diverso da quello nuziale…un letto con lenzuola crespate, bellissime lenzuola crespate…il viola si intonerebbe magnificamente agli orecchini di ametista che indossava questa sera…potrebbe divertirmi alquanto, occuparmi di preparare adeguatamente lei e il suo giaciglio”.
Il pallore di Jesper era mortuario, una vena gli si era gonfiata sulla tempia e stringeva ambedue i pugni come se bramasse di colpire il fratello: “Non oserai! Non oserai toccarla!”
Gli occhi azzurri di Raphael diedero uno scintillio inquietante, un luccicore che per un attimo illuminò il buio del balcone: “Non hai idea degli abissi in cui mi sono immerso, fratello. Non hai idea del sangue che mi macchia le mani”.
Prepotente, l’immagine di Irene che giaceva, inerme e indifesa, sotto alla lama del suo pugnale d’argento, pronto a calarle sul petto ansante e a spaccarle il piccolo cuore spaventato e innocente s’impose nella sua mente, ma egli la ricacciò indietro con forza, le iridi ancora sfavillanti di quel macabro bagliore e la bocca piegata in una smorfia cinica: “Non sarebbe un problema per me aggiungere quello della tua pallida sposa triste. Dopotutto, è tanto tempo che non godo della compagnia di un essere umano che non nutra orrore nei miei confronti e sarebbe gratificante avere una bella ragazza immobile e docile che non fugga dopo avermi visto. Ma una sposa viva è sempre migliore d’una sposa morta, dico bene? Perciò, accetta le mie condizioni e potrai godertela come vorrai, fratellino”.
Jesper gli sputò addosso, tentando convulsamente di nascondere il panico, la tensione, il vicolo cieco in cui era stato costretto e da cui non sapeva come uscire, come scappare, la trappola in cui quel demone l’aveva chiuso, proprio nel momento meno opportuno, quando Harriet e il potere che gli derivava dal prestigio familiare gli erano più utili.
Raphael non si scompose. Alzò una mano guantata a pulire la porcellana diafana della maschera dalla chiazza bagnata e allargò le dita per mostrarle al fratello: “L’hai sporcata, contento? E non era neppure mia” s’asciugò sulla giacca elegante di Jesper, che non trovò il coraggio di scostarsi e lo lasciò fare, impietrito dalla collera e dall’incertezza.
“Hai due giorni, fratellino” soggiunse il figlio rinnegato: “Due giorni per darmi ciò che mi spetta. Se non lo farai, la tua Harriet dovrà abituarsi anzitempo all’eternità” gli accennò un inchino affrettato: “Ora, se vuoi scusarmi, ma mi sono trattenuto anche troppo al tuo party. Lo capisco sempre quando sono indesiderato, e non ho alcuna intenzione di guastarti la festa. Ottimi addobbi, comunque. E anche il rinfresco l’ho trovato…gustoso”.
Le campane della cattedrale vicina rintoccarono la mezzanotte in quello stesso istante, squassando la notte con i loro cupi rimbombi, echi roboanti che si ripercossero persino sul balcone in cui i due uomini sostavano. Raphael tese l’orecchio al suono che si affievoliva: “Tempismo perfetto, no? La notte dei mostri giunge al termine, ed io mi ritiro”.
Si volse, in uno svolazzo del lungo mantello nero, e lasciò Jesper solo accanto al parapetto, paralizzato in una posa rigida e innaturale, infilandosi nuovamente nel salone riccamente ammobiliato e percorrendolo a passi rapidi e silenziosi. Aveva perduto ogni desiderio di non dare nell’occhio e passò dritto per la pista da ballo, zigzagando tra abiti vaporosi e complesse pettinature come un’ombra tra le luci e fermandosi a rivolgere riverenze palesemente ironiche alle donne che urtava: “Pardon, mademoiselle, desolato davvero!”
Una figurina pallida ed esile s’aggrappò ai suoi calzoni sulla soglia della sala, l’unica persona lì dentro a non volere che se ne andasse, liberando tutti quanti dalla sua nefasta presenza, l’unica che aveva in qualche modo goduto della sua compagnia, che l’aveva apprezzato, ignorando candidamente chi era. Erin Lawrence, la nipote che fino al giorno prima non sapeva neppure di avere, la figlia dell’uomo che aveva ucciso e colei che l’aveva introdotto nel castello e che gli aveva offerto su un piatto d’argento la possibilità di arrivare a Jesper, quella bambina piccola, fantasiosa, incapace di capire, che ora lo fissava con occhi dispiaciuti e supplichevoli: “Non andartene, signor R!” lo pregò con un fil di voce: “Non volevo che lo zio Jesper se la prendesse con te, io…”
Si interruppe, senza sapere come andare avanti, come sciogliere le corde vocali irrigidite dall’insicurezza e dal timore d’essere derisa o scacciata come sempre era avvenuto con la madre e rafforzò la stretta sui pantaloni dell’uomo, l’uomo che aveva atteso per tutto quel tempo sulla porta e che considerava suo amico.  
E Raphael abbassò su di lei lo sguardo infastidito e incapace di far fronte ad un simile attaccamento, un attaccamento che lui, mai amato da nessuno, mai cercato, non avrebbe mai potuto capire, e che giudicava quindi incomprensibile. Per giunta, era consapevole che quella creaturina innocente l’avrebbe odiato, aborrito con tutte le forze se avesse saputo d’avere davanti l’assassino di suo padre ed era questa una ragione sufficiente a tenerla alla larga. Questa, e la somiglianza fisica con Irene, uno spettro che ancora lo tormentava e affliggeva.
“Non piangere, bambina” sibilò infatti, con un tono duro che strappò al cuore della piccola un sussulto di mortificazione e di dolore: “Hai lasciato entrare il male nella tua casa, ma non vorresti tenertelo vicino se sapessi cosa si cela dietro la maschera che gli hai regalato”.
Erin batté le palpebre, la mente ancora troppo semplice e pura per cogliere il significato di quella frase: “Signor R, tu non sei affatto il male!” protestò: “Tu mi hai ascoltata e nessuno prima…”
“Ti ho ascoltata perché mi servivi da lasciapassare, bambina” la interruppe brutalmente lui. S’infuriò con se stesso per la piccola fitta di dolore che avvertì nel petto atrofizzato e gelido, e digrignò i denti, perché quando voleva sapeva essere cattivo, e molto, e lo era stato, persino con Irene, quando l’aveva definita una ragazzina superficiale dal viso grazioso, incurante delle lacrime che le colavano sulle guance e del suo dispiacere. E lo fu anche adesso, allo stesso modo, crudele e implacabile nelle parole che le rigettò addosso: “Non cercare in uno sconosciuto quello che non hai avuto dai tuoi genitori”.
Erin trattenne il respiro e indietreggiò, fissandolo con occhi spalancati e feriti, gli occhi di una bambina che in cinque anni di vita era stata più respinta che accettata, più offesa che capita, e in cui per un attimo Raphael si rivide, con supremo fastidio. La superò, senza più una frase, un commiato, o un’ultima cattiveria, ed uscì dal salone portandosi dietro tutta la sua oscurità, seguito dallo sguardo straordinariamente silente e addolorato della sua nipotina, da quello sospettoso di Christine, e da quello fisso e impietrito di Jesper.
 
Angolo autrice: Ehilà! C’è nessunoo? Immagino di no, vero? Beh, non posso darvi torto, dal momento che questa storia era allegramente partita per la Costa Concordia…ed ora eccomi qui con questa nuovo capitolo, e dopo il mostruoso ritardo nutro scarse speranze che qualche buon samaritano ci abbia ancora sperato…ma io tengo molto a Raphael e dato che l’ispirazione era perduta nei meandri del mio cervello, ho aspettato che mi tornasse…non posso assicurare di essere costante negli aggiornamenti ma per me il progetto è importante e non ho intenzione di abbandonarlo, e spero tanto, tantissimo che voi vogliate perdonarmi e possiate rimmergervi nel mondo di Raphael : ) lui da parte sua se lo augura, e maledice l’autrice poco ispirata che stenta a far proseguire la sua storia XD
Un bacione a tutti, e scusate ancora!
Sylphs   
    

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Capitolo 5
*** Capitolo 7 ***


Capitolo 7
 

 
 
 
 
 
 
Le ombre delle ultime casupole del borgo si facevano sempre più lugubri, allungandosi a dismisura mentre i bagliori del sole morente si inabissavano sotto l’orizzonte per portare luce ai popoli al di là del mare, scalzando la notte dal loro cammino. I contorni delle vie si nascondevano nell’oscurità. Nel giro di qualche minuto il buio attorno fu totale, e così denso che neppure un occhio di lince avrebbe potuto penetrarlo.
Fortunatamente Jesper aveva portato con sé una torcia, così da poter girare ancora, contravvenendo alla più grande legge della natura che prevede che ogni essere chiuda le palpebre con il calare della notte. Ma la sua missione era più importante di qualsiasi regola, e non poteva rimandare la visita a Ursula al mattino seguente. Tanto non sarebbe riuscito ad assopirsi quella notte, così la legge divina non sarebbe stata comunque rispettata.
Girò gli ultimi due incroci con il cuore che batteva fortissimo nel petto. Suo padre e suo fratello erano stati assassinati appena quattro giorni prima ma l’unica cosa che lo turbava era la lettera da lei inviatagli quello stesso giorno, l’orribile commiato scritto dalla mano che più amava. Gli aveva voltato le spalle, detto addio, proprio come tutti gli altri, si era allontanata da lui per sfuggire alla maledizione che gravava sulla sua famiglia, ma doveva essere in grado di spingerla a cambiare idea. Non si erano forse amati fin da bambini, non erano esistiti l’uno per l’altra, non aveva anteposto lei alla sua insaziabile sete di potere, già viva in lui malgrado i sedici anni vissuti? Com’era possibile che bastasse solo quell’infausto avvenimento, quell’omicidio a spegnere la passione che li aveva uniti?
No, Ursula non poteva averlo abbandonato davvero. Aveva avuto paura, del resto era una creatura debole e fragile, paura che, essendogli vicina, la maledizione colpisse anche lei, e per questo aveva cercato di ampliare le distanze, ma le avrebbe riportato alla mente i bei momenti trascorsi insieme, l’avrebbe indotta a tornare sui suoi passi. Il Mostro gli aveva già portato via suo padre e Viktor, non si sarebbe preso anche lei, soprattutto adesso che aveva avuto la sua vendetta ed era scomparso per sempre dalla sua vita!
La porta di legno verniciata di scuro era leggermente scrostata, così come il resto della casa, piccolina e malridotta, ricoperta da graffiti e chiazze di sporcizia. Jesper sorrise prima di bussare: il ceto sociale di Ursula era di gran lunga più basso del suo, ma non gli interessava.
Rimase ad ascoltare l’eco dei battiti che si perdeva nell’oscurità della notte. Nessuna risposta.
Con il cuore in gola bussò ancora. Magari lei era davvero decisa a stargli lontana, e non voleva lasciarlo entrare. E se vedendo dalla finestra chi era aveva già deciso di tenerlo fuori? Oppure non aveva ancora visto nulla…in questo caso non sarebbe stato meglio nascondere il proprio viso nelle tenebre, e fare in modo che lei aprisse la porta? Senza pensarci due volte spense la torcia e il nero della notte lo circondò nel suo abbraccio soffocante, divorando la chiazza di luce in cui aveva camminato fino a quel momento. Una lieve smorfia contrasse i suoi lineamenti: lui, Jesper Lawrence, membro di una delle famiglie più ricche e prestigiose, costretto a nascondersi nel buio come uno spettro a causa della vergogna e del disonore in cui l’aveva gettato quella creatura che forse non era nemmeno chi dicevano che fosse…giacché non riusciva a credere che suo padre potesse aver stretto un patto con un demone. Il pensiero del genitore gli inflisse una fitta di dolore.
“Chi è?”
La voce di Ursula era debole e assonnata, ma se lui avesse sentito quella di Dio non gli sarebbe parsa più bella.
“Ursula…sono io, Jesper”.
Aveva pronunciato quelle poche parole con tono esitante, ma caldo, e sentì che dalla parte opposta della porta lei si stava ritraendo, trepidante e ostile.
“Che cosa vuoi? Mi sembra di essere stata abbastanza chiara nella lettera, di aver spiegato a fondo ogni motivo che mi avrebbe spinta a….”
“Perché lo hai fatto? Perché ti sei allontanata da me? So che mi ami”.
Dietro l’uscio la sentì esitare, stretta alla maniglia di ottone, ma la risposta che arrivò qualche attimo dopo era dura: “Tu credi solo quello che ti fa comodo credere. Ti convinci senza alcun motivo di cose che nessuno ha mai detto” la voce argentina era incrinata dalle lacrime di rabbia che le riempivano gli occhi: “Qual è il problema? Non sei in grado di accettare la realtà dei fatti o cosa? Non capisci che le cose non avvengono come le desideri tu? Mi hai mentito, mi hai tenuto nascosta la verità per tutti questi anni, finché ho dovuto scoprirla grazie ad un omicidio!”
“Ti prego, apri la porta. Voglio parlarti di persona, non attraverso un muro. Nulla ci aveva mai diviso, in passato…”
Il tono del ragazzo era carezzevole, quasi stucchevole. Dopo qualche attimo la maniglia si abbassò e la porta si aprì, cigolando. La luce invase il vialetto, mostrando ogni cosa prima nascosta dalla notte. Jesper scorse la fanciulla, ritta sulla soglia, con il viso ostinatamente voltato per non guardarlo negli occhi, nascosto da una cascata arruffata di capelli dorati.
“Non puoi mandare tutto all’aria, Ursula. Ricordi quanto siamo stati felici? Ricordi…”
“Non hai alcun diritto di dirmi ciò che posso o non posso fare!”
La voce di lei esprimeva rancore, ma le sue mani candide si torcevano nervosamente sulla lunga camicia da notte in cui era avvolta, ed era certo che la sua espressione non era affatto di rabbia, bensì di sconforto e indecisione. Rincarò la dose, sicuro di essere sulla strada giusta: “Ricorda quando passeggiavamo in riva al mare, e io ti dicevo che ti avrei protetta sempre e…”
Lei scoppiò in una risata aspra e colma di derisione: “Sei forse riuscito a proteggere tuo padre e tuo fratello? Sei riuscito a impedire che un ragazzino di dodici anni li facesse a pezzi? E riusciresti a fermarlo, se decidesse di tornare? No! Non ti rendi conto che…”
“Quel ragazzino se n’è andato” Jesper si stupì del proprio tono duro e aspro, ma si costrinse a proseguire: “Non può più farci del male, chiunque fosse, è sparito. La sua scomparsa ha preteso un prezzo terribile, e per questo sarà cercato e punito. Ma non tornerà”.
Dietro i capelli chiari e spettinati di lei gli parve di scorgere un sorriso sarcastico, una smorfia schernitrice. Continuò: “Io ti ho protetta, sempre. Tu non sai, tu non capisci…quanto io ti ami”.
Fece una pausa, ascoltando l’eco delle sue parole. Non aveva pronunciato quella frase in nessuna occasione, aveva mostrato il suo sentimento con i fatti, ma non era mai arrivato a dichiararlo. Ora gli sembrava quasi di essersi liberato da un peso, come se quelle parole avessero gravato a sua insaputa sul suo animo fino a quel momento. Una sensazione calda, confortevole, lo invase, la stessa che si prova dopo aver superato uno scoglio particolarmente impervio, o aver scalato una parete ripidissima.
Ursula non parve però dare peso eccessivo alla frase.
Jesper andò avanti, rosso in volto: “Ma so che anche per te è lo stesso, non ti rimprovero per un solo attimo di indecisione. Non commettere questo errore, vieni con me, non lasciamo cadere ogni cosa nel dimenticatoio, rafforziamo il nostro amore con i fatti, dimostriamocelo l’un l’altra! Tu volevi, in un momento di sconforto, stroncare l’unica ancora che ci tiene al mondo…perché tu, Ursula…tu sei la mia ancora, senza di te io sarei…sì, sarei sospeso nel vuoto. Solo tu mi permetti di vivere ancora”.
Era uno dei discorsi più melensi e stupidi che avesse mai pronunciato, si disse appena ebbe chiuso la bocca. Ma mentre parlava non programmava le frasi, non calcolava astutamente l’esito di ogni parola, come aveva sempre fatto nei suoi sedici anni di vita, perfezionando il proprio lessico e la propria eloquenza su consiglio di suo padre. Quel discorso gli veniva dal cuore.
Allungò la mano, trepidante, e prese quella di lei, stringendola forte. Ursula volse lentamente la testa a guardarlo, e per un istante lui le lesse sul viso tutti gli anni passati insieme, quando la loro vita era ancora perfetta e rosea, priva di ombre, a passeggiare sulle rive del Mar Baltico e a promettersi un futuro felice e luminoso, prima bambini, poi adolescenti.
Ma fu, appunto, questione di un istante.
I lineamenti angelici della ragazza si deformarono in una smorfia di risentimento e di rabbia e tutte le emozioni precedenti scomparvero, lasciando il posto ad un disgusto totale e pieno, come se il mostro fosse lui, e non il fautore della loro rottura. Con uno strattone ritrasse la mano e gli disse con furia: “Non entrerò nel tuo orrore, Jesper. Non cadrò vittima delle aberrazioni di cui la tua famiglia si è macchiata. Non ti amo più, lo capisci questo? Sei sicuro che anche per me sia lo stesso? Beh, ti sbagli, tu ti sbagli sempre. Credi che non ti conosca? Non fai altro che convincerti di ciò che è meglio per te. Non so come fai, ma ogni volta che capita un inconveniente lo superi fingendo che non esista. Mi hai tenuto nascosta una cosa troppo grande, e non posso passarci sopra, è inutile che cerchi di persuadere entrambi del contrario. Il nostro amore è finito e non possiamo fare nulla per ravvivarlo”.
“Ursula, cosa stai dicendo, ascolta quello che…io posso…posso…”
“Tu puoi cosa? Cosa, Jesper?!” lei proruppe in una fredda risata che rese il suo volto ancora più duro, gli occhi azzurri più glaciali, prima di proseguire: “Puoi forse offrirmi una vita senza tenebre e orrori? Puoi forse cancellare ciò che è stato? Puoi forse garantirmi la sicurezza e la protezione che desidero? Cos’hai tu da offrirmi, Jesper, se non una casa maledetta da avvenimenti orribili, uno spettro che ti perseguita e un cuore troppo vigliacco da ammettere la verità?” Ursula lo stava fissando da un luogo lontanissimo e le sue parole gli arrivavano soffuse, come se avessero dovuto percorrere prima un lungo tunnel che li separava: “Nella mia ingenuità, nella mia cecità, ti avevo concesso il mio amore. Solo ora mi sono accorta di essermi sbagliata, di essermi legata al membro di una famiglia di mostri. E non resterò vincolata ad un mostro solo in nome di ciò che è stato, al fratello di un assassino. Hai sempre preteso che fossi alla tua altezza senza mai darmi niente in cambio, e non è questo che desidero. Non hai niente da offrirmi? Dunque lasciami in pace e non tornare più!”
Gli scoccò un’occhiata carica di disprezzo, si girò, superò la soglia della casa che lui conosceva così bene e chiuse la porta dietro di sé, lasciandolo solo nel buio.
 
Jesper era immobile dinanzi alla finestra della sua stanza da letto e teneva la fiera fronte premuta contro il vetro freddo, la mano destra stretta sulla tenda di broccato che aveva scostato per poter ammirare il mare che si rifrangeva contro gli scogli, forza irruenta e implacabile di cui aveva udito lo scroscio fin da bambino, avendo la camera situata sul lato a picco su di esso. Era ancora in vestaglia, malgrado fosse mattino inoltrato, e il suo bellissimo volto era scuro di emozioni nient’affatto allegre, lo sguardo offuscato da ricordi che si era sforzato di scacciare e che la maledetta figura mascherata aveva riportato a galla.
Christine aveva ragione, occorreva chiamare qualcuno che si occupasse di quell’ostacolo in silenzio e senza destare scalpore, eliminandolo e gettandolo nuovamente nel dimenticatoio dove era giusto che stesse. Non voleva saperne più niente, niente, di quella storia, non voleva neanche prendere in considerazione l’idea che il mostro avesse detto la verità, perché se davvero fosse stato così, se davvero quello che l’aveva minacciato fosse stato suo fratello, allora l’odio e il rancore che aveva accumulato da quella notte sarebbero emersi dalla gabbia nella quale li aveva intrappolati e…non sapeva cosa sarebbe successo, a quel punto.
Abbassò le palpebre e le serrò, la mascella contratta per un tumulto di sentimenti che magistralmente non manifestava e le dita bianche per quanto forte stringevano la tenda. Nel buio dei suoi occhi chiusi, risplendente come una stella, era apparsa quella figura che si era imposto di non rammentare più, non come l’aveva vista l’ultima volta, piena di rancore e di disgusto, ma come si era mostrata a lui prima che Raphael rovinasse tutto, una ragazza ingenua e vitale, che lo fissava con i suoi dolci e luminosi occhi azzurri.
“Presto” bisbigliò tra sé e sé, un sussurro inquietante che fluì rauco dalle sue labbra serrate: “Presto”.
Bisognava affrettare le nozze con Harriet, concludere la faccenda prima possibile, anche a costo di destare sospetti. Non temeva affatto che il mostro potesse attuare le proprie minacce, Lawrence Borg era ben sorvegliata e non gli avrebbe permesso di posare un dito sul suo tesoro senza che ne venisse immediatamente a conoscenza. No, non avrebbe distrutto tutto una seconda volta, non gli avrebbe portato via il suo amore di nuovo. Se necessario, avrebbe incominciato a raccogliere l’occorrente prima del tempo, ma il piano doveva funzionare. Doveva.
Perché non era il potere che desiderava, pur avendolo bramato infinitamente fin dalla più tenera giovinezza. Quello lo aveva già, e sapeva perfettamente come procurarselo. No, lui voleva una cosa che non aveva più cercato, che si era negato da allora.
E l’avrebbe ottenuta a qualsiasi costo, sarebbe stato disposto a sprofondare in qualunque abisso.
“Niente è mai come ti aspetti” le parole di suo padre gli echeggiarono nella mente: “Ricordalo sempre, Jesper: se da una parte il tuo desiderio verrà esaudito, dall’altra ciò esige sempre, sempre un prezzo”.  
Abbassò lo sguardo sulla lettera, ormai sbiadita dal tempo, che si rigirava tra le mani e la strinse con forza, passando i polpastrelli in una lunga, fremente carezza sulla svolazzante firma scritta in fondo: Ursula.
 
Harriet non riusciva a togliersi dalla testa quel crisantemo.
Per la verità era alquanto strano che un semplice fiore potesse aver catturato così fortemente la sua attenzione, ma durante l’intera giornata seguente occupò gran parte dei suoi pensieri, balenandole alla mente nei momenti più impensati e nelle situazioni meno convenienti. Dopo averlo rinvenuto sul comodino, era rimasta a lungo seduta sul letto, in camicia da notte, stringendolo fra le mani e carezzandone distrattamente i petali bianchi, e aveva cercato e ricercato di venirne a capo. Non era da escludere l’ipotesi che, ubriaca com’era, se lo fosse portato lei stessa in stanza e avesse dimenticato ogni cosa, però non riusciva a convincersene fino in fondo. Dell’imbarazzante festa di Halloween e della sua umiliante condotta aveva pochi e vaghi ricordi, su cui peraltro non desiderava neppure soffermarsi, ma nulla che riguardasse il crisantemo.
Aveva fatto la figura della stupida e si era resa ridicola, questo lo rammentava benissimo, e se ne pentiva. Non soltanto per le occhiatacce di sua madre e gli sguardi furtivi dei domestici, ma soprattutto perché aveva dimostrato che a lei importava, di Jesper, delle sue scappatelle, della sua mancanza d’amore, e non era così…non per davvero, almeno. Naturalmente soffriva per gli affronti che le faceva e non aveva alcuna intenzione di starsene buona e zitta, ma il suo non era un amore non corrisposto. Lei non amava Jesper. Probabilmente era attratta da lui, questo sì, tuttavia i suoi sentimenti non andavano al di là di questo. E invece ubriacandosi, facendo quella scena, aveva dimostrato esattamente il contrario. E aveva dato spettacolo di fronte a quello sconosciuto travestito da Fantasma dell’Opera, quello strano individuo che si era presentato alla festa al braccio di Erin…gli era praticamente caduta fra le braccia, e il solo ripercorrere nella mente il loro incontro la induceva ad avvampare con violenza e ad avvertire un intenso disgusto per se stessa.
Sperava vivamente che fosse solo un ospite di passaggio e che non l’avrebbe mai più rivisto, non avrebbe osato guardarlo negli occhi dopo lo stato in cui si era fatta sorprendere. Aveva gettato la maschera, gli aveva rivelato quel che vi era nascosto, e non se lo poteva perdonare.
Finì per sistemarsi distrattamente il crisantemo fra i capelli castani, incastrandolo in una ciocca e usandolo come una sorta di talismano o di portafortuna. Erano passati parecchi anni dai tempi in cui credeva ancora in Babbo Natale, la Fatina del Dentino o gli spiritelli domestici a cui dovevi lasciare una ciotola di latte per ottenere il loro favore, ma la parte di lei ancora bambina trovò divertente l’idea che un buon genio l’avesse presa in simpatia e avesse deciso di proteggerla. Sarebbe stata una novità, mai nella sua vita qualcuno si era preso davvero cura di lei e le piaceva crogiolarsi in quell’illusione, confidare nell’esistenza di un folletto benefico.
“Un folletto dai gusti bizzarri” pensò con un sorrisetto: “Poteva scegliere un fiore meno lugubre…anche se, devo ammetterlo, questo mi piace”.
“So che è dura per lei”.
Trasalì bruscamente, strappata da quella voce al flusso dei suoi pensieri. Per un attimo appena credette sul serio che a parlare fosse stato lo spirito che le aveva donato il crisantemo, uno spirito di cui in qualche modo avvertiva la presenza nell’aria, ma quando si volse, assumendo involontariamente una posizione di difesa, si diede della cretina e arrossì. Era soltanto Eva, la vecchia cameriera che si occupava di pulire la sua stanza, entrata per adempiere ai suoi compiti giornalieri così silenziosamente da non aver palesato la sua presenza. O forse piuttosto era lei quella troppo distratta per accorgersi del resto del mondo.
“Eva!” esclamò, vergognosa e sollevata. Chi diavolo credeva che potesse essere? “Mi hai…spaventata”.
“Mi scusi, signorina Ullmann” disse l’anziana donna, mortificata: “Non era mia intenzione”.
“N-no, non è colpa tua” per qualche strana ragione, la ragazza non riusciva a liberarsi dall’incomprensibile ansia che la pervadeva. Aveva a che fare con qualcosa che serpeggiava nell’aria, in quella camera prima tanto familiare… una nota stonata, un particolare fuori posto…aveva…aveva come la sensazione che qualcosa fosse cambiato, lì. Ma era solo suggestione, senza dubbio. Scrollò le spalle: “Cosa stavi dicendo?”
La domestica abbassò gli occhi in un atteggiamento umile e sottomesso. Lavorava a Lawrence Borg da parecchi anni, fin da quando Hugo era piccolo, e adesso era curva sotto il peso dell’età avanzata, con le rughe scolpite in profondità nella pelle e il seno cadente. Le malelingue sostenevano che fosse stata una delle amanti del defunto signor Lawrence e che in gioventù fosse stata bellissima, ma lei non aveva mai né smentito né confermato quelle voci. Era una figura piuttosto interessante, in effetti, e sembrava in preda ad una lotta interiore. Alla fine mormorò, esitante: “Io…comprendo il suo stato d’animo, signorina. Il signor Jesper…lo conosco da quando era bambino, e so che…beh, ho sempre saputo che non avrebbe fatto un matrimonio felice”.
Harriet si voltò prontamente verso di lei, dedicandole tutta la sua attenzione. Finora in sua presenza aveva sempre conservato un silenzio religioso, e quest’improvvisa confessione la coglieva di sorpresa, ma la catturava anche. Dopotutto, Jesper era il suo futuro marito e sapeva pochissimo di lui, a parte che era l’erede di un cospicuo patrimonio e che, se Jonas non si decideva a saltar fuori, avrebbe avuto in mano la compagnia fondata dai suoi avi: “Perché?” interrogò la vecchia: “Perché dici questo?”
Eva rimase qualche attimo soprappensiero, fissandola, la scopa stretta tra le mani avvizzite. Poi esordì con un racconto, molto più dettagliato di quanto Harriet avesse sospettato.
“Jesper era un bambino dolce ed affettuoso, sempre delicato e attento, a detta di tutti gli insegnanti che lo avevano seguito anche educato, intelligente ed interessato ai discorsi affrontati. Era inoltre bellissimo e molto ambizioso ed era l’orgoglio di suo padre. Il signor Lawrence non aveva mai dedicato molto tempo ai suoi figli, ma riponeva numerose speranze nel suo secondogenito, parecchi pensavano addirittura che lo preferisse a Viktor e a Jonas, e che non gli sarebbe dispiaciuto vederlo a capo della sua compagnia. C’era però un’unica pecca nel suo comportamento. Trascorreva moltissimo tempo con una bambina, la figlia di una delle cameriere, che l’aveva avuta giovanissima”.
Fece una breve pausa. Harriet pendeva dalle sue labbra. Jesper non aveva mai lasciato intravedere nulla di sé, si era sempre ammantato della sua aura di perfezione, e poter vedere cosa si celava sotto quell’aura, chi era veramente il suo compagno era per lei una benedizione: “E poi?” sollecitò la domestica. Quella riprese: “Il signor Hugo aveva sempre tentato di scoraggiare quest’amicizia, ma purtroppo senza mai prendere alcun provvedimento serio. Così il bimbo era cresciuto condividendo tutto con quella ragazzina di basso ceto, che si faceva di anno in anno più sfacciata. All’epoca io avevo il comando in cucina e la madre di quella creatura serviva le portate, e intimavo spesso alla bambina di smetterla di darsi arie da gran signora e di tentare anzi di non contrariare Mr Lawrence, ma tutto inutilmente. Sulle prime mi dava ascolto, rimanendosene qualche giorno, dopo la scuola, rincantucciata in cucina, ma poi immancabilmente il signorino Jesper si abbassava a presentarsi lì per cercarla. Con il tempo poi è diventata sempre meno pronta a obbedire. L’ultima volta che provai a ripeterle il rimprovero, quando aveva circa quindici anni, mi disse queste testuali parole: Oh, Eva, piantala di infastidirmi con la solita solfa, altrimenti giuro che lo racconto a Jesper e ti faccio licenziare, così impari! Mi disse proprio così, lo ricordo bene. Naturalmente, come può capire, signorina, mi sono guardata bene dall’aggiungere altro, anche se ce ne sarebbe stato proprio bisogno. Quella ragazzetta si credeva ormai una di famiglia, era convinta che sarebbe diventata la nuova signora Lawrence, si figuri un po’! Jesper, la giovane promessa, il promettente uomo d’affari erede del patrimonio dei Lawrence sposato con la figlia di una donna delle pulizie rimasta gravida a diciassette anni!
“Il problema era che Jesper, nonostante il suo desiderio di farsi strada, sembrava prenderla in assurda considerazione. I due, crescendo, si accorsero che l’amicizia che li legava si stava trasformando velocemente in amore. Così vidi che spesso si appartavano in lunghe passeggiate in riva al mare, o in stanzette isolate. Naturalmente mi venne il sospetto che fossero diventati amanti, e come a confermarlo il signorino prese a parlare di matrimonio, di unione, attirandosi l’ira del padre, che in quel periodo era particolarmente irritabile di suo. Sembrava ammattito. Una volta, mentre trasportavo dei panni sporchi, lo udii litigare furiosamente con Hugo e sentii il signore gridargli queste parole: Sei davvero convinto che l’amore sia più importante del potere? Ah, in questo si vede la tua giovinezza, Jesper! Credi che quella ragazza ti sarà grata, che ti ami per ciò che sei? C’è una sola cosa a cui punta, ed è il tuo denaro! È così che va, tutti cerchiamo il potere, poveri e ricchi, ed io lo so bene, benissimo! Al momento opportuno, quando si sarà assicurata il tuo patrimonio, ti abbandonerà!
“E così fu. O almeno, in parte. Perché qualche mese dopo, come lei ben sa, lui e il signorino Viktor vennero assassinati da un omicida senza volto di cui non si trovò più traccia e si cominciò ad avere paura, a temere che il palazzo fosse infestato, che per qualche motivo la famiglia Lawrence fosse maledetta. Molti dei domestici che allora lavoravano al mio fianco diedero le loro dimissioni, io rimasi solo per l’affetto che mi legava ai padroni. Quell’orrendo avvenimento aveva marchiato questo luogo troppo a fondo, era come se il sangue di quei due poveretti macchiasse le pareti, le vasche, il pavimento… come se contaminasse l’aria che respiravamo. E probabilmente fu troppo da sopportare per Ursula, questo era il nome della ragazza amata dal signorino Jesper. Pochi giorni dopo l’omicidio, si licenziò senza neanche dirgli addio, lasciandogli una gelida lettera di commiato nella quale spiegava frettolosamente di non farcela più a vivere in quel luogo maledetto e che, in capo ad una settimana, sarebbe partita con la madre.
“Da quel momento in poi, il signorino non fu più lo stesso. Iniziò a frequentare bische e locali malfamati, a cercarsi un’amante dopo l’altra, a seppellire qualunque sentimento. Gli rimase solo la sete di potere, la stessa sete di potere che aveva animato suo padre. Il colpo ricevuto era stato troppo grave e profondo, non c’era più amore nel suo cuore…per questo mi sono sempre detta che non avrebbe avuto un matrimonio felice, né lui, né la sua sposa”.
Eva tacque e, come pentita di averle rivelato il segreto del suo padrone, si congedò con un cenno della testa e uscì in fretta dalla stanza.
Harriet si lasciò cadere pesantemente sul materasso, schiantata dal peso di quelle confessioni. Aveva sempre giudicato Jesper dalle apparenze, vedendolo solo come un giovanotto arrogante e narcisista, interessato unicamente al denaro e al piacere e incapace di scorgere l’infelicità altrui…ma ora scopriva che era diventato così a causa del comportamento di quell’Ursula, che era stata quella ferita a trasformarlo nel mostro con cui avrebbe dovuto trascorrere il resto della vita. E come poteva odiare una persona che aveva sofferto quanto lei, che aveva patito le sue stesse delusioni? Ma, del resto, non riusciva neanche a perdonarlo, giacché era sbagliato arrecare dolore agli altri solo perché tu lo avevi provato. Quindi i suoi sentimenti per lui erano ancora più complicati!
“Oh mio dio” sussurrò, sfiorando il crisantemo incastrato tra i suoi riccioli: “Ma che cos’ha questa famiglia? Perché le sventure sembrano seguirla ovunque? E succederà la stessa cosa a me, quando ne farò parte?”
Sotto di lei, nel nascondiglio, un’ombra si mosse e abbandonò il punto da cui aveva origliato tutta la conversazione, seguita dall’orlo strisciante del mantello. Qualcosa non quadrava. Se Jesper aveva amato soltanto Ursula, perché si era tanto spaventato quando aveva minacciato di far del male ad Harriet? La cosa non l’avrebbe minimamente interessato se gli avesse dato quanto voleva, ma il fratello stava temporeggiando troppo, per i suoi gusti, e lui non era tipo da fare niente per niente.
Bene, se quell’imbecille gli avesse negato ciò che gli spettava, avrebbe messo in atto le sue minacce e avrebbe scoperto cos’è che lo legava alla sua promessa sposa.
 
Erin sostava in piedi davanti allo specchio di camera sua, la mezza maschera bianca stretta tra le manine esili e il visetto pieno di una determinazione e una rabbia che toglievano dolcezza ai lineamenti morbidi. Un fuoco sorprendente le ardeva nelle iridi cerulee, dello stesso azzurro chiarissimo che contraddistingueva gli occhi di Raphael da quelli del resto della famiglia, e le labbra piene erano serrate in una linea sottile.Si era chiusa nella propria camera dopo aver abbandonato il salone da ballo e non aveva voluto vedere nessuno, nemmeno Harriet.
Lentamente, con gesti quasi ieratici, sollevò il pezzo di fine porcellana candida e lo fece aderire alla metà destra del volto, rabbrividendo di un misto di piacere e paura quando la sua pelle morbida entrò in contatto con il gelo della maschera, un gelo stranamente confortante. Tornò a guardare la propria immagine riflessa e ciò che vide le piacque, tanto che riuscì persino a sorridere, un lusso che le parole crudeli del signor R le avevano tolto.
Con quella maschera, sentiva di poter fare qualsiasi cosa, di non avere vincoli a trattenerla. Era come se fosse Erin e allo stesso tempo non lo fosse, e dal momento che, sopra tutti gli altri, odiava se stessa, quell’idea la allettava, la allettava molto. Suo padre l’aveva abbandonata, ormai era inutile illudersi, non sarebbe tornato mai più. Non poteva vivere per sempre in una favola.
“So che sei qui intorno, signor R” bisbigliò al suo viso semicoperto, gli occhi pieni di quella sconcertante decisione: “Gli altri non possono percepire la tua presenza, ma io sì, perché c’è qualcosa che ci unisce, e non mi importa che l’idea non ti va. Prima o poi ti troverò, scoprirò chi sei”.
 
 
Angolo autrice: *squillo di trombe*….Jesper è stato innamorato!!! Chi l’avrebbe mai detto? Il belloccione vanesio un tempo aveva pure un cuore! Vedete a cosa si va incontro badando solo alle apparenze XD? Okay, scherzi a parte, in questo capitolo ci sono state rivelazioni a proposito di questo personaggio odiato all’unanimità (anche dalla sottoscritta, lo ammetto). Il racconto del suo passato non ha lo scopo di renderlo migliore, visto che è una carogna fatta e finita, ma sto cercando (invano) di dare un certo spessore psicologico a tutti quanti e ho deciso di indagare un po’ anche lui. Qual è il piano suo e di Christine, cosa vogliono ottenere? Vi avverto che il secondo incontro Harriet/Raphael è molto vicino ;)
Ringrazio calorosamente Homicidal Maniac, Niglia, Nimel17 e Dora93 per il loro preziosissimo appoggio, ragazze, non ce la farei senza di voi, un bacione a tutte quante, come sempre vostra
Sylphs 
 

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Capitolo 6
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8
 

 
 
 
 
 
 
Lo studio privato di Jesper Lawrence era una palese ostentazione di ricchezza, e il mobilio, le decorazioni, mancavano totalmente di buongusto, risultando, agli occhi della maggior parte di coloro che vi si recavano, pacchiane e degne del più infimo bazar. Drappi color porpora rifiniti d’oro incorniciavano le ampie vetrate che si affacciavano sullo scrosciante mar Baltico, un tappeto persiano dai complicati ricami copriva il pavimento di marmo, arazzi ricoperti di lustrini ornavano le pareti e l’armadietto dei liquori era in legno di ciliegio, così come gli scaffali su cui il giovane riponeva i propri libri. La statua di una donna nuda coperta soltanto da un peplo gettato con noncuranza su una spalla (Venere, forse?) dava bella mostra di sé accanto ad un divanetto foderato di velluto e il secondogenito di Hugo sedeva ad una scrivania di dimensioni gigantesche, su cui troneggiava con evidente prepotenza una lampada d’epoca con il paralume ricamato.
Ma quello che più di tutto saltava all’occhio era l’enorme ritratto appeso dietro la suddetta scrivania, nel quale un Jesper al massimo del suo fulgore sedeva su una poltrona sfarzosa con la schiena dritta e le mani saldamente appoggiate ai braccioli, il volto atteggiato in un’espressione altera e supponente che lo rendeva simile ad un re o ad un generale. Fin dal diciottesimo secolo era abitudine dei Lawrence farsi ritrarre a grandezza naturale, e se i primi dipinti mostravano algidi individui in giacca e scarpe con la fibbia, negli ultimi risaltavano uomini con sigarette tra le dita e gel a tenere indietro i capelli.
Il giovane, sprofondato nella propria sedia, assorto nei suoi pensieri, giocherellava con un fermacarte e ogni tanto levava gli occhi verso la porta, come se aspettasse qualcuno. In piedi in un angolo dello studio sostava invece Christine, abbigliata di un maglioncino di cachemire e di un paio di leggins aderentissimi, in preda ad un visibile nervosismo e ad un’impazienza che si faceva di minuto in minuto più pressante.
“Sei sicuro che verrà?” interpellò il suo alleato quando non ne poté più di quello snervante silenzio: “E soprattutto, sei sicuro che sia la persona giusta?”
Lui rispose senza staccare gli occhi dal fermacarte: “Assolutamente. È un vecchio pazzo, ma è l’unico in grado di scovarlo”.
“E cosa ti fa credere che vorrà aiutarci?” sibilò la donna: “Cosa ti fa credere che dopo tutti questi anni sia disposto a rivivere il passato? Avremmo dovuto fare a modo mio, ingaggiare un…”
“…cosa? Un sicario?” la interruppe Jesper. Scoppiò in una risata dall’inflessione aspra: “Se quello squilibrato è davvero…chi dice di essere” non riusciva a pronunciare la parola fratello: “Allora qualsiasi uomo tu possa chiamare non riuscirà mai ad eliminarlo. Tu non lo conosci, Christine, non hai visto di cosa è stato capace, che cosa ha fatto…”
Chiuse gli occhi per un istante e si aggrappò ai braccioli dell’ampio seggio, travolto da quel ricordo che aveva seppellito nei meandri più oscuri di sé e che era tornato a galla, con tutto il resto…
 
…lui e Ursula che giocano a nascondersi e a trovarsi, in un rito che è ormai in uso tra loro e che li ha accompagnati durante l’infanzia e l’adolescenza, nel giardino di Lawrence Borg, sotto la mole oscura della torre più alta e di quelle snelle attorno, le loro risate gaie e spensierate, i loro corpi che si sfuggono e si attirano, i loro occhi luminosi. Lei che scivola leggera dietro una siepe, in un guizzo della sua gonna viola, accompagnata dall’eco della sua risatina dolce e leggera come l’aria, lui che sta al gioco, che la cerca dietro gli arbusti e negli angoli più bui, chiamandola, il volto sorridente, la mente priva di preoccupazioni, scoprendo tracce del suo passaggio ovunque, sui tronchi che hanno provato il vanto di aver sentito sulla loro rude corteccia la morbidezza della bianca mano della fanciulla, sulle foglie impregnate del suo profumo, nel vento che è passato tra i suoi capelli biondissimi, scompigliandoli e disperdendoli…
Ma all’improvviso la pace del momento è infranta da un grido acutissimo, così penetrante da tagliare l’aria, l’urlo sgomento e terrorizzato della ragazza nascosta, e quel solo grido gli spegne il sorriso sulle labbra e pianta in lui la preoccupazione, gelida, oscura, repentina: “Ursula!” la chiama, e segue il suono delle sue urla, proveniente da quella torre maledetta e paurosa che ha temuto fin da bambino e in cui non è mai entrato, ma stavolta, per lei, deve.
Luce, oscurità, freddo, silenzio, l’ambiente è gelido e puzzolente e sa di orrore, di solitudine, di contaminazione, vorrebbe scappare, per non esserne infettato, per non inalare quell’ossigeno impregnato dal sentore della follia, ma ecco che scorge Ursula, immobile in fondo alla ripida scala a chiocciola che si incunea nel buio più fitto, che osserva qualcosa con immensi e disperati occhi azzurri. E la invoca, la invoca con disperazione, ma lei non si volta, non da segno di udirlo, non muove un muscolo. Non vuole vedere quel che lei ha scoperto, non vuole, eppure avanza pian piano, nella tenebra più fitta, si mette al suo fianco, e…
…rosso. È tutto…rosso. Un colore troppo acceso in quel buio, troppo violento, ma che ci si sposa così bene, che sembra così giusto nel nero. Tre corpi giacciono esanimi accanto ai primi gradini, dalla testa di quello di suo padre esce qualcosa di molle e orrendo, e, oh, Dio, la sua testa è spaccata! Quello accanto è il suo fratellino, il suo bel fratellino, la cui faccia è adesso una poltiglia senza forma umana…non sogghignerà mai più. L’altro non lo conosce, ma gli sembrano comunque tutti uguali, e si sente fissato dai loro pallidi occhi vacui, gli sembra che striscino nel rosso e gli vengano incontro tendendo mani adunche per afferrarlo e dilaniarlo, non sono più i suoi parenti, sono mostri, mostri nella torre del mostro, e lo vogliono morto.
“N-No!” strilla terrorizzato, incespicando e cadendo all’indietro con un tonfo, le mani premute sugli occhi per non guardare, in un gesto inutile e infantile al contempo: “No!”
Ursula stramazza al suolo priva di sensi, ma in quel momento per lui conta solo sfuggire alle creature, a quella torre dannata, e si trascina fuori piagnucolando, ma neanche nella luce del sole lo sguardo dei mostri si distoglie dalla sua schiena.
 
“Già una volta mio padre provò a sopprimerlo con l’aiuto di un sicario” sussurrò Jesper a fior di labbra, lo sguardo perso nel vuoto: “Quell’essere, qualsiasi cosa sia, è scaltro e ha acquisito capacità fuori dal normale, come una vista più acuta della nostra, un udito fino e un’estrema familiarità con le ombre e i nascondigli. Non abbiamo modo di batterlo, né noi né uno sconosciuto, ma lui sa come ragiona, conosce i suoi punti deboli”.
Christine sembrava scettica, e non si faceva problemi a mostrarlo: “Credo che tu lo stia sopravvalutando, Jesper. È fatto di carne e sangue, una pallottola può forargli il fegato e un pugnale può spaccargli il cuore esattamente come succederebbe ad un comune essere umano”.
Il giovane le scoccò un’occhiata infastidita: “Il vero ostacolo non è ucciderlo, è trovarlo. Fin da quando è nato ha imparato a nascondersi, non possiamo competere con la sua abilità nell’occultarsi, nessuno di noi può farlo, a parte quel vecchio”.
“Un vecchio” la donna lo scandì con disprezzo: “Ci siamo ridotti a dipendere da un vecchio per eliminare quel mostro”.
“Moderi i termini, signora Lawrence”.
Christine ebbe un sobbalzo, tanto inaspettatamente era risuonata quella frase aspra. Si volse di scatto verso l’uscio, il volto irrigidito in una smorfia diffidente, e si ritrovò ad incontrare lo sguardo cupo e freddo di un uomo anziano ma ancora ben portante, entrato nello studio senza neanche essere prima annunciato, con evidente prepotenza. Una sessantina d’anni circa, aveva un corpo vigoroso e sano, solo lievemente infiacchito dall’età, e un viso impassibile e severo, segnato da alcune rughe che scavavano linee profonde nella pelle ruvida. Vestiva panni abbastanza modesti, ma ostentava un forte orgoglio e li contemplava con palese disprezzo, gli occhi ridotti a fessure. La donna reagì a quell’occhiata poco lusinghiera serrando le labbra, ma Jesper lo accolse con un ampio sorriso: “Signor Berg! È un piacere rivederla”.
Gli tese una mano, ma l’altro, dopo aver richiuso la porta senza delicatezza, non accennò a stringergliela e lo fissò truce: “Il piacere è tutto tuo, Jesper”.
Il giovane incassò un po’ malamente e il sorriso si fece più teso: “Le sono grato di essere venuto”.
“Ti prego di non incominciare con i soliti convenevoli, con me la tua pantomima da uomo di mondo non funziona” lo interruppe bruscamente Berg: “Ti ho conosciuto quando ancora giocavi coi soldatini e pretendevi che ti si regalassero le caramelle, e anche se la maggior parte dei tuoi insegnanti stravedeva per te, a me non mi hai mai incantato. Non hai mai tenuto la mente aperta, mai, né ti sei dimostrato qualcosa di diverso da un bambino viziato”.
Il giudizio era stato duro, secco, quasi brutale, ed aveva letteralmente freddato Jesper, il quale s’era immobilizzato alla scrivania con le guance spruzzate dal rossore della vergogna e della collera, i pugni serrati e la mascella contratta, vibrante di un’umiliazione che non poteva buttare fuori, non davanti a quell’uomo solido e severo che riusciva a tenerlo in pugno con la sola potenza dei suoi occhi castani e della sua espressione carica di disgusto.
Christine, al contrario, intervenne con la sua consueta invadenza: “Se per lei è un dispiacere rincontrare Jesper, allora perché è venuto? Perché ha risposto alla convocazione?”
Berg si girò lentamente a guardarla, e quando la scrutò persino lei, abituata a non distogliere lo sguardo in nessuna occasione, dovette faticare per non chinare il capo, tale era l’intensità con cui l’uomo la fissava: “La moglie di Jonas, dico bene?” le chiese lentamente. Lei annuì con un brusco scatto del capo, stringendosi istintivamente le braccia al petto come se dovesse difendersi da un attacco. Le labbra di Berg si torsero in un sorriso sghembo e ironico: “Il giovanotto si è preso una bella gatta da pelare…mi dica, cosa l’attraeva di più, lui o il suo patrimonio?”
Christine avvampò e le sue iridi bluastre scagliarono scintille come quelle di una tigre infuriata: “Chi le da il diritto di insultarmi a questa maniera?!” strillò, tremando per la rabbia: “Non è certo nella posizione di dare giudizi, o di criticarmi solo perché il mio ceto sociale è più basso di quello di mio marito!”
“Temo che mi abbia frainteso, signora” disse Berg pacato: “Non ho mai criticato nessuno per il suo ceto d’appartenenza, non sono certo un uomo che si permette di giudicare dalle apparenze, anzi, ho visto spesso poveri molto più capaci di ricchi. Ma mi è bastato guardarla negli occhi per comprendere l’errore commesso da Jonas…beh, dopotutto è sempre stato un ingenuo”.
La donna era divenuta paonazza e aveva snudato i denti in una smorfia quasi animalesca, la capigliatura scarlatta a circondarla come la criniera di una leonessa: “Lei non sa nulla, né di me, né di mio marito!” sibilò. Lui rise, una risata priva di allegria: “Oh, mi permetto di dissentire. Ho vissuto al fianco di questa famiglia per molto tempo, purtroppo per me, e ho imparato a conoscerla bene. A proposito, dov’è il maritino? S’è preso una vacanza?”
Jesper, che aveva conservato il silenzio fino a quel momento, lasciando alla cognata l’arduo compito di fronteggiare l’ospite, interruppe quella concitata discussione dicendo con tono esitante ma fermo: “Jonas è morto, signor Berg. Lui l’ha ucciso”.
Il vecchio si fece immobile. Il colore defluì rapidamente dal suo viso, rendendolo bianco come una pergamena, e gli occhi si sgranarono leggermente, accesi da una scintilla indecifrabile, in cui sembravano racchiusi timore, sorpresa, shock e l’ombra d’un antico dolore, di una ferita ancora aperta. Per qualche attimo parve incapace di muoversi o di aprir bocca, paralizzato dal significato di una frase che solo lui e i due presenti avrebbero potuto cogliere, poi, lasciando perdere Christine, spostò la propria attenzione sul giovane, guardandolo senza alcuna traccia del sarcasmo e della superiorità di poco prima. Bisbigliò piano, come se avesse paura d’essere udito: “Cosa?”
“È tornato, signor Berg” rispose Jesper. Una parte di lui ancora rifiutava quella prospettiva, ma era meglio metterla in questi termini con Berg: “È di nuovo qui”.
L’uomo tremava impercettibilmente. Dischiuse le labbra, le tenne aperte per qualche secondo come se covassero parole che non riuscivano a tradursi in suoni, quindi sussurrò: “Raphael è tornato?”
Jesper rabbrividì appena nell’udire il nome proibito. Ma annuì, secco: “Esatto”.
Gli raccontò cosa era accaduto la notte di Halloween, quello che il Lawrence rinnegato aveva detto e ciò che aveva preteso, e l’espressione di Berg, mentre la narrazione andava avanti, divenne sempre più immobile e sofferente, le rughe si moltiplicarono sulla sua pelle e le sopracciglia s’aggrottarono in un cipiglio dietro cui si nascondevano pensieri a loro preclusi. Quando Jesper tacque, voltò le spalle a lui e a Christine e si mise a passeggiare avanti e indietro per lo studio, borbottando tra sé e gesticolando.
“Come è potuto succedere? Non sarebbe più venuto qui, aveva promesso! Cosa può averlo spinto a fare ritorno nella fossa dei leoni? E perché all’improvviso gli interessa tanto essere riconosciuto? Che cosa…”
“I suoi borbottii sono davvero illuminanti, mi creda, signor Berg, ma se dicesse qualcosa di comprensibile gliene saremmo grati” sbraitò Christine, ricompostasi in una posa di sgradevole irritazione. Lei e l’ospite erano partiti decisamente con il piede sbagliato. Berg le scoccò uno sguardo che gelido era definire poco: “Hai messo a parte questa donna del segreto, Jesper?” ringhiò: “Non fa parte della famiglia!”
“Christine fa parte della famiglia più di lei, signor Berg” replicò il giovane aspramente: “E si tratta dei miei parenti, non dei suoi. Decido io a chi rivelare di Raphael e a chi no, non sono faccende che la riguardano”.
Christine si permise un sorrisetto compiaciuto e levò il mento. Berg digrignò i denti; era chiaro che disapprovava la condotta di Jesper, ma in effetti non era un Lawrence, e non aveva la facoltà di insistere ancora. Con molta difficoltà, cessò di osservare ferocemente il viso soddisfatto della donna e fissò il giovane dritto negli occhi: “Perché mi hai voluto qui?”
Questi inspirò a fondo e tornò a concentrarsi sul fermacarte: “Lei conosce questo castello e la zona che lo circonda come le sue tasche, non c’è passaggio segreto, pertugio o sentiero nascosto di cui non sia a conoscenza. Con mio padre eravate molto amici un tempo e lui le ha mostrato ogni più piccola parte del posto”.
L’espressione di Berg non mutò: “Queste sono ovvietà. Sei stato cresciuto con l’idea di infarcire di belle frasi qualsiasi discorso, ma ciò che conta veramente è la sostanza, ragazzino. Perciò va al sodo. Se ho risposto alla tua convocazione, è stato solo in nome dell’affetto che in passato mi legava a questa famiglia…un affetto infausto” soggiunse piano tra sé.
Jesper aggrottò le sopracciglia: “Allora andrò al sodo. Ho bisogno che lei lo trovi, signor Berg. E che me lo consegni”.
Una cappa di silenzio calò sullo studio dopo che ebbe chiuso la bocca. Berg lo fissò nel più totale mutismo, il viso indecifrabile e remoto, e Jesper riuscì, a stento, a non distogliere il proprio, le mani avvinghiate convulsamente al fermacarte e i lineamenti irrigiditi dalla tensione e dall’aspettativa. Christine, dal canto suo, che all’inizio era stata la più ansiosa, sembrava aver deposto gran parte del suo nervosismo e se ne stava appoggiata comodamente ad uno degli scaffali, le braccia incrociate sul petto e le iridi che luccicavano debolmente nella penombra. Emanava sarcasmo e una buona dose di sprezzo. A seguito di quella lunga, opprimente pausa, il vecchio disse lentamente, scandendo ogni sillaba: “E tu credi davvero che sarei disposto a farlo? Che te lo metterei tra le mani, sapendo cosa gli faresti?”
La tensione e l’ansia lasciarono il posto, sulla faccia di Jesper, ad una smorfia orribile, che gli tolse per qualche attimo tutta la sua bellezza e lo trasformò in una caricatura di se stesso: “Quel mostro ha ucciso mio padre e mio fratello!” ruggì, alterato da una rabbia autentica: “Li ha fatti a pezzi, e tu non vuoi nemmeno che sia punito?!”
Berg perse di colpo il suo contegno severo e fece un passo avanti, arrivandogli vicinissimo, paonazzo e con una vena che gli pulsava sulla tempia. Pur essendo anziano, superava Jesper in altezza di mezza testa: “Per una volta guarda per davvero, e non solo ciò che vuoi vedere! Ha assassinato i tuoi parenti, è tutta qui la questione? Hai forse dimenticato quel che gli ha fatto tuo padre?! Hai forse dimenticato le condizioni in cui veniva tenuto? Sì, tu, tua madre e Jonas rifiutavate di sapere la verità, ma io ho visto che cos’era quella torre, ho visto le umiliazioni e le sofferenze che quel bambino ha dovuto subire, e diavolo, un altro si sarebbe liberato dei suoi carcerieri molto prima! È stata la tua famiglia a tramutarlo in un mostro, ma lui non è mai stato questo, e meriterebbe di ottenere ciò che vuole senza alcuna esitazione!”
Tacque, ansimando per riprendere fiato. Il fuoco dell’esaltazione gli ardeva nelle pupille, e Christine esclamò, dilatando lievemente gli occhi: “Lei gli vuole bene!”
Berg scoprì i denti, fissandola con astio: “Non cerchi informazioni su quel che non potrebbe mai capire, signora”.
Jesper si inserì nuovamente nel discorso. La furia di poco prima sembrava averlo abbandonato, e il suo tono era divenuto gelido e calcolatore: “Se non farà quel che le chiedo, potrebbe avere a pentirsene, signor Berg”.
Berg scoppiò in una risata dal retrogusto amaro: “E cosa mi farai, Jesper? Commissionerai il mio omicidio? Sei proprio come tuo padre, un arrogante innamorato di se stesso e del suo potere, che finirà per consumarsi. Dio solo sa quante volte ho tentato di ricondurre Hugo alla ragione, ma non c’è mai stato verso. Non ho paura di te, ragazzino, sono vecchio ormai, e la morte non mi spaventa. E poi, non è detto che tu riesca a eliminarmi. Non ho più il vigore dei miei anni migliori, ma so ancora badare a me stesso”.
Diceva il vero, e Jesper lo sapeva bene, anche se non l’avrebbe mai ammesso. Berg non aveva mai corrisposto al proprio ruolo, aveva sempre avuto qualcosa di diverso che lo distingueva da tutti i suoi colleghi, e il giovane rammentava, con vergogna, di averlo immensamente temuto negli anni della sua infanzia; era l’unico che non si era mai lasciato incantare dalla sua eloquenza e dal suo visino angelico e, a differenza di coloro che lo osannavano e perdonavano in tutto, non gliene aveva mai passata una e lo aveva spesso umiliato davanti a tutti, ripescandolo per la collottola nel bel mezzo di una marachella o comparendogli davanti proprio quando stava per rubare una fetta di torta dalle cucine o compiere un dispetto ad un altro bambino. Allora era un quarantenne solido e inflessibile, ma gran parte della sua forza era ancora con lui, malgrado l’età avanzata, e in qualche modo lo temeva ancora, di quel timore rispettoso classico degli infanti.
Però non poteva lasciarsi sopraffare da quel sentimento, non se il piano era in pericolo: “Forse non le importa di se stesso” disse, più cautamente di prima, sforzandosi di infondere alle proprie parole logica e ragionevolezza: “Ma cosa mi dice della mia fidanzata? Harriet ha solo ventidue anni, e se Raphael non viene fermato in tempo, le farà del male. Sa bene quanto me che quando mio…” dovette compiere un notevole sforzo su se stesso prima di riuscire a pronunciarlo: “…mio fratello promette qualcosa, mantiene sempre la parola data.
Una lieve increspatura di incertezza comparve sul volto di Berg e Jesper esultò, proseguendo sullo stesso registro: “Probabilmente non metterà in atto le sue minacce oggi, come aveva invece affermato, né domani, dato che mi impegnerò a fornire la mia fidanzata della migliore protezione, ma finché rimane a piede libero, la sua sicurezza è in pericolo. Lei non sa nulla dei nostri segreti, è giusto che paghi per qualcosa che non la riguarda?”
Le sue argomentazioni avevano fatto breccia nell’animo dell’uomo, si vedeva, e pareva in preda ad una lotta interiore. Arretrando leggermente, gli domandò con diffidenza: “Perché ti preoccupi tanto di quella ragazza, Jesper? Non hai mai amato nessun’altra dopo che...”
“Taccia!” quello del giovane fu uno scatto, un fulmine a ciel sereno. Lo mise a tacere tanto concitatamente da strappare a Christine un sussulto e a Berg un’espressione di stupore, ma non guardò nessuno dei due e fissò invece un punto sul tappeto, stringendo convulsamente il fermacarte: “Taccia”.
Berg assottigliò le palpebre, scrutandolo con sospetto, ma non indagò ulteriormente: “Bene, come desideri. In ogni modo, ho bisogno di riflettere e di considerare tutte le implicazioni di questa vicenda”.
Christine disse la sua: “Se accetterà di lavorare per noi, verrà ricompensato lautamente”.
Lui le lanciò un’occhiata piena di sarcasmo: “Non è il denaro che decide per me, signora, anche se forse per lei è così” ignorò le labbra serrate della donna: “Se sceglierò di accettare, sarà solo e soltanto per impedire che un’innocente venga coinvolta, e state pur certi che non vi consegnerò Raphael”.
Christine accennò a obiettare, ma Jesper la prevenne e sfoggiò il suo miglior sorriso: “Per noi va bene”.
La cognata lo fissò esterrefatta, tuttavia finse di non notarla e continuò invece ad osservare il vecchio, stranamente insoddisfatto dalla docilità con cui aveva approvato le sue condizioni. Dopo un’altra lunga pausa di silenzio, Berg si voltò bruscamente e si avvolse stretto nello sdrucito giaccone invernale che indossava, una testimonianza del cambiamento della sua vita, da agiata a misera: “Non abbiamo altro da dirci” borbottò: “Vi comunicherò la mia decisione quando sarà il momento”.
Senza salutare nessuno dei due, uscì a grandi passi dallo studio e si chiuse la porta alle spalle con malagrazia. Lo sentirono percorrere il corridoio in fretta, accompagnato dagli inutili richiami di un domestico che cercava di scortarlo all’uscita, la quale però era da lui conosciuta alla perfezione, quindi svoltare l’angolo. Si muoveva nel palazzo con sicurezza, senza esitazioni. Solo a quel punto Christine esternò tutta la sua disapprovazione e si rivolse a Jesper bisbigliando furiosamente: “Come ho fatto a fidarmi di te?! Quell’uomo, chiunque sia, certo non è dalla nostra parte! Inizio a pensare che tu stia smarrendo il senno, Jesper, se credi davvero che agirà a discapito del mostro! Per giunta non siamo nemmeno sicuri che accetterà di aiutarci!”
“Oh, accetterà” replicò lui tranquillo, seguitando a giocherellare col fermacarte. C’era un che di malsano in questo, di ossessivo, accentuato dalla sua aria persa e distratta. Christine digrignò i denti, resistendo a stento all’impulso di afferrarlo per le spalle e girarlo verso di sé: “E cosa te lo fa credere?”
Lui emise un pesante sospiro: “Ha sempre avuto un forte senso di giustizia, non lascerà che Harriet muoia”.
La donna non era affatto soddisfatta da quella spiegazione: “E che mi dici della sua condizione? Che beneficio traiamo dal suo lavoro se, dopo aver trovato quell’essere, non ce lo consegna?”
“Mi credi davvero così stupido?” finalmente, il giovane staccò gli occhi dal fermacarte e li appuntò sul viso arcigno di Christine: “Ovvio che alla fine Raphael cadrà nelle nostre mani. Perché incaricherò qualcuno di seguire Berg. E al momento opportuno, questo qualcuno ammazzerà lui e prenderà il mostro. L’unica utilità del vecchio è scovare il suo nascondiglio”.
La comprensione si fece strada pian piano sul volto di Christine e lo rilassò, lasciando solo una lieve traccia della sua diffidenza: “Oh!”
“Lieto che tu abbia compreso” Jesper si permise un tono petulante, quindi le tese le braccia: “Ora vieni qui”.
Lei ubbidì con una certa rigidità, soggiacendo meccanicamente al suo volere, ma seguitando a provare una sorta di incomprensibile insoddisfazione che le impediva di fingere un piacere che non aveva mai avvertito. Si accomodò morbidamente sulle sue ginocchia, avvolgendogli il collo con le braccia, e subito lui le strappò di dosso il maglioncino con insolita urgenza, afferrandole i seni e titillandole i capezzoli fino a farla gemere. Con un unico, aggressivo gesto, la spinse distesa sopra alla scrivania e alla donna si mozzò il fiato per l’urto che prese la sua schiena, mentre Jesper, in piedi davanti a lei, con gli occhi offuscati, armeggiava per togliersi la cintura e l’afferrava per i capelli, spostandole la testa di lato in modo da non vederla. Di solito, prima di giungere all’atto vero e proprio, la toccava e la baciava, stavolta invece la penetrò immediatamente e affondò il viso nei suoi capelli, mormorando con voce rotta dagli ansiti una parola che all’inizio lei non intese, ma che alla fine riuscì a distinguere: “Ursula, Ursula, Ursula”.
Nella mente di Jesper vi era una radura spoglia nel bel mezzo di una foresta, risentimento, tanto risentimento, e il cadavere di una fanciulla tra le sue mani.
“Ti farò tornare, Ursula…rimetterò tutto a posto…”
Christine, in silenzio, passiva, ascoltava.
 
La stanza di Harriet era immersa nell’oscurità. Due notti esatte erano passate da Halloween, e anche se un’istintiva inquietudine l’aveva accompagnata nelle sue consuete occupazioni, la ragazza, ignara del pericolo che correva, aveva dormito sonni relativamente tranquilli, anche se in questo caso, forse per uno strano, potente presentimento, si dimenava sotto le calde coperte e mugolava suoni angosciati, il viso nascosto dalla cascata di riccioli.
Un’ombra incombeva su di lei, fissandola nel buio con le sue iridi chiarissime che avevano ormai più familiarità con la tenebra che con la luce.
Raphael era a volto scoperto. Non era mai successo prima che abbandonasse la sicurezza dei suoi tanti rifugi con la propria deformità ben visibile, ma dal momento che per giungere nella camera da letto della sua vittima gli era bastato risalire dal passaggio nel camino, non aveva reputato necessario indossare il cappuccio. E poi c’era un che di poetico nel mantenere la propria promessa senza maschere a nasconderlo, dopotutto quello che doveva fare era degno d’un mostro, e con l’aspetto d’un mostro lo avrebbe portato a termine.
Le sue labbra vizze si piegarono in un sorriso storto, mentre faceva scorrere una mano lieve come brezza sul corpo della fanciulla, strappandole un piccolo brivido che la spinse a rannicchiarsi di più sotto le coperte: “Hai un incubo, mia cara?” sussurrò: “Io lo so bene, cosa sono gli incubi. Me ne sono nutrito fin dall’infanzia, ho respirato la mia paura, ho lasciato che divenisse parte di me. La paura è una buona compagna, quando impari a conoscerla. Io vivo nella paura, in fondo” un’ombra di mesto rammarico si insinuò nella sua voce che graffiava il buio come artigli su una lavagna: “Prima l’ho avuta, e tanta, soffocante, poi l’ho ispirata. C’è così tanta paura in me che la sento scorrermi nelle vene, a volte penso che potrebbe quasi uccidermi”.
Sfiorò con il pollice la guancia morbida di Harriet e lei emise un gemito, voltandosi dall’altra parte. Una risatina beffarda fuoriuscì dai polmoni del mostro: “Lo vedi, mia cara? Persino il tuo incubo è più sopportabile del mio tocco. Persino i dormienti hanno orrore di me. Sono il mostro sotto al letto che hai temuto da piccola, il baubau, il folletto maligno, il fantasma, e tutte le figure che le vostre menti hanno creato per non accettare il fatto che sono umano, come voi. Ma è meglio che taccia adesso, non vorrei turbare il tuo dolce sonno!” con un elegante movimento, sedette sul letto e le accarezzò i capelli, saggiandone una ciocca tra le dita: “Sai, tu mi ricordi lei. Un tempo il tuo tenero viso mi avrebbe fatto desistere dall’idea di spegnere la luce che lo possiede, un tempo avrei posto il mio cuore ai tuoi piedi e avrei dato qualsiasi cosa per farti vedere oltre le apparenze. E sai cosa avresti fatto tu?” le sue dita si strinsero attorno al ciuffo di capelli e lo tirarono, non tanto da svegliarla, ma abbastanza da strapparle un rantolo: “Tu me lo avresti spezzato”.
Per un attimo i suoi occhi divennero torrenti d’odio e l’atmosfera nella stanza sembrò farsi più densa, carica di un terrore, di una minaccia che presto sarebbe esplosa in qualcosa di terribile. Ma fu un attimo. Inspirando a fondo, Raphael ricacciò indietro la parte peggiore di sé che rischiava di emergere e tornò al suo contegno abituale, lasciando la presa sulla ciocca: “Che cosa devo farne di te?” sospirò: “Se ti uccido, non otterrò mai ciò che voglio. Se ti lascio in vita…”
Rimase in silenzio per qualche istante. Poi, con un movimento veloce e repentino, si chinò su Harriet e la sollevò ancora avvolta nel bozzolo di coperte, passandole un braccio sotto le gambe e uno attorno alla schiena. Se l’avesse privata del piumone, il freddo gelido che pervadeva la camera avrebbe contrastato troppo con il calore precedente e si sarebbe destata. Reggendola con una delicatezza esemplare, si voltò verso il camino e accennò un passo in quella direzione, non prima di aver deposto sul comodino, laddove aveva messo il crisantemo, una piccola nota.
Improvvisamente, la porta cigolò e il figlio rinnegato si arrestò di botto, dilatando gli occhi lucenti e girandosi con le labbra arricciate in un ringhio rabbioso.
Una figuretta era immobile sulla soglia, la manina delicata ancora stretta sulla maniglia, e il chiarore lunare che penetrava dalla finestra lasciata distrattamente semiaperta le colpiva in pieno il volto, un volto troppo bianco per essere reale. Ma non era un volto…bensì una maschera, la maschera, che copriva metà dei suoi lineamenti. La camicia da notte pendeva storta da un lato e gli occhi erano sgranati in un’espressione che non era di terrore.
Erin.
Lei e Raphael si fissarono per un lunghissimo istante, paralizzati ognuno nella sua posizione. Lui sembrava aspettarsi che da un momento all’altro la bambina gridasse, richiamando gli abitanti del castello addormentato, o che fuggisse da quella visione, ma la piccola non fece nessuna delle due cose. Lentamente lasciò andare la maniglia, senza smettere un solo minuto di guardarlo, e, un piede dopo l’altro, gli si avvicinò, attratta come da un’invisibile filo, da una calamita che la attirava accanto alla creatura più pericolosa con cui mai avesse fatto i conti. Era stato l’istinto a dirle di abbandonare il calore confortevole del suo letto per recarsi nella camera di Harriet, ed era l’istinto ad ingiungerle di accostarsi a suo zio. Lui non si ritrasse quando la vide venirgli incontro, continuò a ricambiare il suo sguardo con i penetranti occhi azzurri, e probabilmente, appena fosse stata alla sua portata, l’avrebbe uccisa così come aveva ucciso chiunque aveva…
…visto il suo volto.
Se ne rese conto solo in quel momento. Con un sussulto, la mano scattò a coprire alla meno peggio le deformità visibili ma fu costretto ad usarla nuovamente per sorreggere Harriet, il volto marchiato che si contraeva nell’orribile smorfia assunta quando Irene gli aveva strappato il drappo a tradimento. Eppure Erin non urlava, non lo supplicava di sottrarre quell’orrore alla sua vista, non fuggiva, anzi, giunta a pochi passi da lui, allungò la manina, incurante del suo irrigidimento, e toccò lo sfacelo che era la sua faccia, un tocco così lieve, così innocente, così privo di condanna.
“Sei…” mormorò in un soffio. Non scorgeva le cicatrici e i solchi che i peccati suoi e del padre gli avevano lasciato sulla pelle, lei vedeva davvero oltre le apparenze, ed aveva davanti un giovane bello e normale, dai meravigliosi occhi azzurri, con i tratti appena oscurati da colpe commesse solo da Raphael, e non da Hugo: “Sei così…bello”.
Un tremito lo percorse, qualcosa fremette sotto la sua carne offesa. Ma fu ugualmente rapido ad agire: le sue dita volarono sulla nuca della bambina e la avvolsero in una morsa. Forse nelle sue intenzioni originali aveva programmato di spezzarle il collo, del resto non sarebbe stato affatto difficile, vista la sua sottigliezza, ma si limitò ad esercitare una piccola pressione nel punto che sapeva e il corpicino si accasciò a terra senza un lamento, privo di sensi, il rilassamento dell’incoscienza cancellò dai suoi tratti la meraviglia e la benevolenza di poco prima.
Ansimando per chissà quali pensieri, Raphael si volse, stringendo Harriet al petto, e azionò il meccanismo che apriva il passaggio segreto, affrettandosi giù per la scala con una fretta inconsueta.
Sei così…bello. 
    

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Capitolo 7
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9
 

 
 
 
 
 
 
Fu l’esclamazione di stupore di Eva, la cameriera, a scuotere Erin dal suo stato di incoscienza, a risvegliare i suoi sensi neutralizzati dalla soffice stretta di Raphael e a farle schiudere lievemente le palpebre nella luce vermiglia che invadeva la camera da letto, tanto oscura quando vi era entrata, tanto luminosa adesso, con l’alba che filtrava in ogni angolo e lo riempiva di sfumature rosse come sangue fresco. Spesso aveva pensato che i riverberi scarlatti emanati dal sole fossero i flussi sanguigni che scorrevano dal suo corpo accecante, tingendo il cielo all’intorno, e che si fosse tagliato le vene per il dolore che gli causava l’impossibilità di stare accanto alla luna da lui amata, nella fervida fantasia della sua mente di bambina. Quando aveva provato a dirlo a suo padre, lui aveva aggrottato le sopracciglia nella posa severa che conosceva così bene e aveva fatto un gesto brusco: “Hai un’immaginazione decisamente contorta, piccola”.
Con sua madre non ne aveva neanche fatto parola.
Furono proprio quei raggi color sangue a restituirle i ricordi, uniti alla voce rauca e isterica dell’anziana domestica che correva ansiosa per la camera, frugando ogni cantuccio alla ricerca di qualcosa che non si palesava, e che invocava inutilmente, alzando sempre di più il tono: “Signorina Ullmann!”
Erin appoggiò con cautela una mano sottile al freddo pavimento e fece leva per mettersi seduta, la maschera che, perso l’appiglio su un orecchio, rimaneva a penzolarle instabilmente sull’altro, e osservò per qualche attimo l’agitazione crescente di Eva, senza dire una parola. Harriet non avrebbe potuto risponderle, non più. Il signor R l’aveva presa, per condurla nel suo reame di ombre, e non l’avrebbe ceduta indietro tanto facilmente. Un senso di gelo calò sul suo cuore e i suoi occhi azzurri si incupirono come un cielo in tempesta.
Il signor R era stato lì, per la seconda volta. E per la seconda volta lei non era riuscita a trattenerlo, a capire, a spiegarsi l’incomprensibile attaccamento che nutriva nei suoi confronti e che non s’era attenuato, neppure dopo che l’aveva ridotta all’incoscienza. Un attaccamento che s’era fatto ancora più forte adesso che lo aveva visto in faccia e che ogni finzione era crollata, rivelandole il suo viso…il viso di un giovane dai lineamenti segnati dalla più nera sofferenza e dalla più torbida solitudine, un giovane sperduto e tormentato quanto lei, che nascondeva dietro ad una mostruosità apparente il proprio animo lacerato…un giovane che li odiava, che odiava i Lawrence, e per una ragione ben precisa, giacché Erin non poteva credere che li detestasse senza un motivo, e lei doveva scoprire qual era, e perché lo aveva spinto a rapire Harriet.
In quell’istante la porta della camera si spalancò brutalmente, andando a picchiare contro lo stipite, ed entrarono sua madre e lo zio Jesper, seguiti da una singhiozzante Eva che evidentemente, mentre la bambina era persa nelle sue riflessioni, doveva aver dato l’allarme e che tentava con affanno di spiegare la situazione. La colpì profondamente l’agitazione che sembrava essersi impossessata di Jesper e Christine, un’agitazione che non si spiegava, dal momento che non si erano mai interessati di Harriet, prima: il volto di suo zio era pallido in modo quasi mortuario, gli occhi dilatati in un’espressione di terrore e di furia cieca, e sua madre, anche se si sforzava di contenersi, aveva nelle iridi bluastre quello sguardo felino e vibrante che le incuteva una paura antica e viscerale giù, nello stomaco. L’uno in vestaglia, l’altra in camicia da notte, offrivano uno spettacolo oltremodo indecente, soprattutto Christine, con il trucco sbafato del giorno prima e i capelli in disordine. Piombarono nella stanza come furie ed Erin si rannicchiò istintivamente contro il muro, abbracciandosi le ginocchia, sperando di sfruttare le proprie piccole dimensioni per passare inosservata.
“Come sarebbe a dire, è scomparsa!” ruggì Jesper, alterato da una furia autentica che sbalordiva Erin sempre di più. Considerava lo zio un uomo freddo e calcolatore, il cui fascino consisteva appunto nei modi contenuti e suadenti, e la folle angoscia che dominava le sue pupille, stravolgendole, la smorfia raccapricciante che gli torceva le labbra lo facevano sembrare un’altra persona. Dunque, in realtà, amava Harriet? Lei e la fanciulla si erano sbagliate nel giudicarlo? Era preoccupazione, il sentimento che lo rendeva così instabile? Incombette su una terrorizzata Eva e le rivolse uno sguardo carico di una minaccia terribile, d’un odio atavico: “Avevo dato ordine che la sua stanza venisse sorvegliata giorno e notte, vecchia! Come avete potuto lasciar entrare uno sconosciuto?!”
“S-signor Jesper” balbettò quella, appiattendosi alla parete e facendosi scudo col braccio come se temesse l’arrivo d’una percossa. Del resto, il giovane aveva un’espressione così stravolta che non era da escludersi: “P-posso assicurarle che nessuno è entrato in questa camera, stanotte. Io…”
Christine proruppe in una derisoria risata che rese il suo volto ancor più glaciale e arcigno: “E allora come ha fatto a scomparire nel nulla, stupida? È stata forse rapita dal Fantasma del Natale Passato?!” la sua mano dalle unghie laccate scattò in avanti e diede un violento spintone all’anziana donna, mandandola a sbattere contro il muro e strappandole un fioco grido. Erin sobbalzò nel vedere la scena e aprì la bocca, senza riuscire a emettere un monosillabo. Le torture e i soprusi inflitti ai deboli e agli oppressi la toccavano nel profondo, giacché aveva dovuto subirli fin dalla nascita, e c’era qualcosa di orribilmente sbagliato nel modo in cui i due avevano chiuso Eva in un angolo, tagliandole ogni via di fuga e terrorizzandola con le loro domande urlate e i loro corpi tesi e pronti a colpire, qualcosa che ricordava un comportamento animale, il branco che circondava l’elemento debole e lo faceva a pezzi senza pietà, e l’orrore le si agitava dentro come un cavallo selvaggio, l’orrore e il senso di ingiustizia. La domestica lavorava a Lawrence Borg da anni ed era sempre stata brava e fedele, non meritava quel supplizio!
“La prego” singhiozzando in maniera incontrollabile, Eva si appellò a Jesper, colui che aveva visto crescere e a cui si era affezionata: “La prego, mi creda, sto dicendo la verità! Nessuno è entrato e nessuno è uscito!”
“Taci!” gridò lui, fuori di sé, spintonandola nuovamente contro al muro; la testa della vecchia cozzò contro l’intonaco raffinato e un rivolo di sangue le scese dalla tempia, accompagnato dall’ennesimo grido, suo e di Erin. Christine gli appoggiò una mano sul braccio: “Jesper…”
“Come hai potuto farlo?!” ringhiò il giovane, cieco e sordo ad ogni cosa, bruciando la vittima con le fiamme del suo sguardo stravolto e furibondo e spingendola per l’ennesima volta, come se non potesse farne a meno, come se l’idea d’aver perso Harriet, l’unica speranza di ottenere ciò che voleva, l’unico sottile velo che lo separava dalla follia, avesse scatenato dentro di lui una bestia a lungo sopita, ma mai eliminata. Eva urlava e lo implorava di avere pietà, ma le afferrò i radi capelli grigi e le diede uno schiaffo in pieno volto: “Tutto quello che dovevi fare, vecchia, era prenderti cura della mia fidanzata, e avvertire i miei uomini se qualcuno avesse attentato alla sua sicurezza! E tu non hai fatto niente, niente!”
“La prego, la prego…” i rantoli e i singhiozzi dell’anziana donna erano divenuti isterici, il sangue le colava dalla ferita alla tempia e il fragile corpo scricchiolava nell’urtare il muro. Erin era balzata in piedi e gridava a squarciagola, le guance rigate di lacrime: “Basta, basta!”
“Non capisci che ora è tutto inutile?!” proseguì Jesper, incapace di fermarsi, di staccare le mani dalle deboli membra della sua vittima: “Non capisci che senza di lei non potrò più mettere le cose a posto?! Non lo capisci?!”
“JESPER!” quello di Christine fu un grido acuto, un comando imposto con la veemenza di chi cerca di acquietare uno spirito furibondo, e la donna, nel lanciarlo, si gettò impetuosamente su di lui, allontanandolo a forza da una sanguinante Eva e cercando invano di incontrare i suoi occhi allucinati: “Jesper, smettila!” continuò, strillando. C’era da riconoscerle che era intervenuta con notevole sangue freddo e che non tremava, mentre prendeva nelle sue le mani sussultanti del giovane e le serrava in una morsa ferma: “Smettila. Non tutto è perduto! Cosa credi di fare, eh? Pensi che uccidere questa idiota ci riporterà indietro Harriet?”
Lui parve tornare in sé dopo aver vagato a lungo in una dimensione rossa e caotica, dominata unicamente dalla rabbia, lo sconforto e il dolore nella sua forma suprema. Batté le palpebre, alternando lo sguardo dalla figura accasciata a terra della domestica a quella di Christine che ancora lo cingeva in un abbraccio di contenimento, e la smorfia folle si dissipò lentamente dai suoi tratti, senza abbandonarli del tutto: “Non è più qui!” disse in un impercettibile fil di voce: “Senza Harriet noi…”
“Lo so” ribatté con calma Christine, accarezzandogli i capelli sudati e indugiando sulla pelle arrossata del suo volto: “Ma non dobbiamo perdere la testa, Jesper. Ormai il danno è fatto, però possiamo risolverlo, se manteniamo i nervi saldi. Lui non è uno stupido, ammazzarla non gli porterebbe alcun beneficio. È ovvio che l’ha presa in ostaggio, e finché è viva, le nostre speranze vivranno con lei”.
Le iridi sconvolte di Jesper sprofondarono in quelle bluastre dell’alleata, due laghi tranquilli e luccicanti che celavano tempeste e pericoli nelle loro profondità, ed esse le catturarono, avvolgendole in una stretta cristallina e spegnendo a poco a poco il fremito che le rendeva tanto folli. Pian piano, i suoi muscoli si rilassarono nel forte abbraccio della donna e il respiro si fece meno irregolare, le membra cessarono di essere scosse da tremiti e sussulti. Incurante della presenza di Erin ed Eva, Christine sorrise morbidamente nel vederlo più calmo e si mise in punta di piedi, sfiorandogli le labbra in un bacio dolce e sensuale. La bimba trasalì, indietreggiando istintivamente da quello spettacolo sbagliato e inaspettato e il volto di suo padre le si stagliò dolorosamente nel cervello, suo padre che tuttora era disperso chissà dove, suo padre che quei due stavano tradendo, e nella maniera più gretta. Venne assalita da un senso di nausea, di disgusto, e distolse bruscamente lo sguardo, sentendosi più che mai debole e impotente, incapace di difendere Eva o l’onore perduto del genitore. Le lacrime si erano asciugate sulle sue gote ma le bruciavano ancora la retina, consumandola.
Se fossi grande e forte come il signor R si soprese a pensare Non oserebbero baciarsi così davanti a me.
Christine si staccò infine dal giovane e, tenendogli una mano, si rivolse seccamente ad Eva, senza curarsi del suo pianto isterico e del suo capo che sanguinava: “Hai trovato niente? Qualcosa che possa essere stato lasciato al posto della signorina Ullmann?”
Cercando riparo contro la parete, la vecchia indicò tremante il comodino di fianco al letto e affondò la testa nelle ginocchia. Senza degnarla più d’un’occhiata, Christine raggiunse il mobile e le sue palpebre si assottigliarono in un’espressione di sospetto e di concentrazione, mentre sollevava tra le mani un singolo foglio bianco: “Un messaggio…”
“Cosa dice?!” anche se era riuscito a ritrovarsi, Jesper non si era certo liberato dalla cupa consapevolezza di aver perso la sua leva, il suo tesoro, la fonte delle sue speranze, e fu con un gesto brusco e frenetico che strappò la nota di mano a Christine, tuffandosi al suo interno e divorandola con avidità mista ad odio, un odio ancestrale, nero, divorante, che cresceva ad ogni parola elegantemente scritta con inchiostro rosso sangue:
Caro fratello,
è con intenso rammarico che ti lascio questa lettera, e posso assicurarti che non c’è alcuno qui più perplesso e addolorato di me. Ti avevo concesso due giorni esatti per darmi ciò che mi spettava, ma non lo hai fatto, né hai accennato a prendere in considerazione i miei bisogni. Di conseguenza, io ho sorvolato sui tuoi, poiché è evidente che non hai alcuna intenzione di gestire civilmente la faccenda. Di questo sono dispiaciuto e pieno di disappunto, dal momento che sei un uomo intelligente, e certo non avrai pensato che i tuoi uomini potessero fermarmi, giusto? La mia mano giunge a distanze incommensurabili e può agire ovunque, in qualsiasi luogo.
Ti consiglio di non sottovalutarmi, fratello, per il tuo bene e per quello della tua promessa. Mi sono preso la libertà di invitarla presso la mia nuova dimora e di godere della sua dolce compagnia per quindici giorni, non uno di più, non uno di meno. In questi quindici giorni, non avrà padrone di casa migliore né più premuroso di me, e provvederò ad ogni sua necessità. Se al termine di essi tu avrai accolto la mia richiesta, te la restituirò e non sentirete più parlare di me. Ma se persisterai nella tua ostinazione, te la rimanderò chiusa nel legno di ciliegio, tra soffici lenzuola crespate.
Nella speranza di risolvere al più presto questo spiacevolissimo affare, ti porgo i miei più sinceri saluti,
R
“Maledetto” le dita di Jesper stringevano il foglio tanto forte da stropicciarlo, i denti erano serrati in una posa dura e animalesca, carica d’un rancore così intenso che, se avesse potuto, avrebbe senz’altro ridotto in cenere quella minacciosa e infausta missiva, mandatagli dal mostro che ancora una volta aveva distrutto il suo equilibrio, i suoi sogni, i suoi progetti, lasciandogli in mano nient’altro che un pugno di mosche, un niente. E rivide l’orrore e la delusione scolpiti in profondità nei lineamenti di Ursula, la sua voce cristallina spezzata dalla rabbia che lo allontanava per sempre, il suo corpo che rifuggiva svelto dentro la propria casa, chiudendo fuori lui, il suo amore, la sua maledizione. La scorse mentre abbandonava precipitosamente il motorino sul ciglio della strada e correva impaurita nel bosco, scappando da lui, ancora una volta, come se fosse un lupo cattivo, un essere immondo, e lei una dolce e indifesa Cappuccetto Rosso, troppo candida per restare accanto al fratello di un assassino.
“Maledetto…” la carta frusciante si accartocciò nel pugno livido in cui la chiuse, tremando convulsamente per quell’ennesimo affronto, quell’ennesimo ostacolo alla felicità che meritava e che gli veniva negata. E Christine la scorse di nuovo, la bestia celata da quel viso bello e affascinante, la creatura sanguinaria che aleggiava sopra Jesper, e prese in mano la situazione con la prontezza di chi è ancora capace di ragionare e di pensare con lucidità: “Lo troveremo, Jesper” gli assicurò sicura: “Ci riprenderemo Harriet e dimenticheremo questa storia. Andrò in paese, dal signor Berg, lo metterò in condizione di accettare. Come hai detto tu, lui conosce come funziona la mente di quel folle, non gli sarà difficile scovarlo”.
Jesper si limitò ad abbassare le palpebre, le spalle curve sotto un fardello che s’era fatto ancora più pressante e difficile da sostenere, la lettera stropicciata che cadeva piano sul pavimento, quella lettera che aveva gettato sale sulle sue ferite e sul suo rimorso. Le grida acute e disperate di Ursula, della sua piccola Cappuccetto Rosso, echeggiavano intorno a lui più assordanti che mai.
Christine si voltò, decisa a mettere in atto i suoi piani seduta stante, e nell’attraversare la stanza diretta alla porta il suo sguardo risoluto si posò su Erin, rincantucciata esangue nel suo angolino, pressoché ignorata fino a quel momento. Un brivido percorse la schiena della bambina allorché la madre si arrestò, fissandola, un brivido pieno di timore e di avversione, di amore e odio insieme, sentimenti contrastanti e fortissimi che quasi le toglievano il respiro. Perché temeva e venerava Christine come il fedele teme e venera la divinità a cui è votato, strisciando per ottenerne l’approvazione e maledicendola per i tormenti che gli infligge, e quando la fissava a quel modo, con le iridi blu scintillanti e la bocca rossa semiaperta, aveva sempre paura che la divorasse, dilaniandola prima con le lunghe unghie smaltate.
Tu” sibilò la donna, le pupille dilatate per lo stupore di trovare quella figuretta in un ambiente a lei tanto incongruo e in una situazione ancor più assurda, senza neanche usarle il riguardo di chiamarla per nome, quel nome che era stata lei stessa a darle ma di cui non si serviva quasi mai. E si appiattì al muro, Erin, sentendosi sferzata da quel tu quasi fosse stato un dardo intriso di veleno, un veleno che acutizzava in lei la consapevolezza d’essere una nullità, e forse ancor meno, per la madre.
Non si è neanche accorta della tua presenza cantilenò una voce dentro di lei, malevola e ridacchiante sei stata qui per tutto questo tempo, e non se n’è resa conto!
“Che cosa ci fai qui?” proseguì Christine in un ringhio soffuso, scavandole dentro col suo sguardo bluastro che era sempre riuscito a cavarle fuori ogni segreto o pena, senza però dargli la minima importanza e limitandosi a prenderne atto con precisione telegrafica. Uno sguardo da cui Erin cercò disperatamente di difendersi, bardandosi d’un’armatura immaginaria, ignorando il bruciore che avvertiva al viso e nel petto, perché sapeva che sua madre era sospettosa per natura e che si domandava se per caso sapesse qualcosa, se fosse una testimone, e lei non aveva intenzione di tradire il signor R, giacché aveva compreso, o almeno intuito, che il loro interesse per Harriet aveva qualcosa di malsano, di orrendo, e doveva tenerla al sicuro. Non era il giovane mascherato, il suo vero nemico.
“Ho…ho sentito Eva urlare e sono entrata” mentì balbettando, furiosa con se stessa per la poca credibilità del suo tono, una poca credibilità di cui Christine si avvide subito, abituata com’era alla menzogna e agli inganni, stringendo le palpebre ancora di più e afferrandola per le spalle con una presa rude, feroce, priva del benché minimo affetto, una presa dolorosa per via delle unghie che le penetravano nella carne, quasi volessero estorcerle l’informazione assieme al sangue: “Non dirmi bugie” sibilò, piena di velate minacce: “Harriet è tua amica, dico bene? Non vorresti lasciarla in mano al suo rapitore, no!”
“Io non so niente” Erin aveva voglia di piangere. Affondò i denti nel labbro inferiore per impedirselo, mordendo con tanta forza da avvertire il sapore dolciastro del sangue. Sua madre aveva potere su di lei, molto potere, ne era consapevole ora più che mai, e probabilmente lo sapeva anche Christine, a giudicare dal suadente sorriso che sostituì la smorfia acida di prima, e dal modo in cui le lasciò andare le spalle, cessando di martoriarla con le unghie: “Se hai visto o sentito qualcosa, piccolina” mormorò con voce tenera e affettuosa, una voce che Erin bramava ardentemente di udire fin dalla nascita e che mai aveva adottato per rivolgersi a lei: “Allora devi dirlo alla mamma. È la cosa giusta da fare, amore” le accarezzò dolcemente i capelli e la bimba si odiò per la fitta di piacere che la spinse a socchiudere gli occhi e ad inarcare la schiena, una fitta pericolosa e degradante, sintomo di un amore che non avrebbe dovuto provare, non per una donna che la usava e non le voleva bene, né mai gliene avrebbe voluto.
“Allora?” la sollecitò: “Devi raccontare qualcosa alla mamma, Erin?”
Dilaniata dall’incertezza, lei si costrinse a scuotere la testa, a restare fedele a se stessa, malgrado una parte del suo animo desiderasse con tutto il cuore l’affetto e la considerazione di Christine: “No. Eva ha urlato e mi sono preoccupata, tutto qui”.
Il sorriso trasudante falso amore materno scomparve come una folata di vento estivo e tornò l’espressione che conosceva ormai a menadito, quella mescolanza di fastidio, astio e indifferenza, che non cessava mai di ferirla.
“Bene” sibilò Christine, rialzandosi e allontanandosi a labbra serrate: “Se le cose stanno così, smettila di girovagare per il castello e va in camera tua a fare i compiti. E togliti quella ridicola maschera dal viso!”
Erin non pianse, non le diede questa soddisfazione. Un tempo forse lo avrebbe fatto, ma adesso, dopo aver visto quanto i Lawrence avessero ferito anche Raphael, sapeva di dover essere forte per entrambi. Sua madre e lo zio Jesper avevano in mente qualcosa, qualcosa che riguardava Harriet, e il signor R era in qualche modo legato alla sua famiglia…lei avrebbe scoperto ogni cosa, dato un senso alle menzogne e salvato lui e la sua amica.
Era l’unica cosa che potesse fare.
 
Harriet mugolò, con la sensazione di emergere da un denso, nero, umido mare di catrame appiccicoso, una sostanza viscida che le avviluppava i sensi e annebbiava i pensieri, e si mosse debolmente nella morsa implacabile delle corde, serpenti di canapa che le affondavano nella carne e la vincolavano alla sedia alla quale era legata, scomoda prigione di legno in cui era finita a causa del suo eccessivo coraggio e impeto di ribellione, doti che aveva creduto essere vantaggiose, ma che non le avevano portato altro che disgrazie lì, in quel luogo dimenticato da Dio, buio e freddo come una catacomba, dimora dell’essere che l’aveva rapita e strappata alla luce del sole. L’aveva costretta a bere un liquido dall’insopportabile sapore amaro, tenendola ferma per la nuca, e per quanto fosse riuscita a rovesciarne gran parte sul davanti della camicia da notte, lunghe sorsate erano scivolate giù per la gola e avevano spento in lei ogni energia, lasciandola intontita e semincosciente.
(…maledetto ti ucciderò se riuscirò ad averti tra le mani io…)
Si divincolò inutilmente, gemendo allorché la ruvida canapa le scavò la pelle dei polsi, lacerandola e aprendo ferite purulente. Da un certo punto di vista, si era meritata quella scomoda e degradante posizione; vi erano persone che, in circostanze come la sua, davano prova di grande integrità e sangue freddo, mantenendo la calma e recitando la parte dell’ostaggio passivo, ma aveva scoperto in se stessa un furore e un’aggressività che in alcun modo era riuscita a trattenere e che le avevano procurato quella sedia e quelle funi, annodate tanto abilmente che il minimo movimento le serrava di più intorno al suo corpo.
Non sapeva che ore fosse, se splendesse il sole o regnasse la luna, giacché in quelle gallerie non filtrava il minimo raggio di luce, ma ricordava di essersi coricata sul suo letto abbastanza presto, lieta di rifugiarsi nel soffice abbraccio delle coltri dopo la scoperta misteriosa del crisantemo e le rivelazioni sul conto di Jesper e della sua antica fidanzata, Ursula. Il sonno non aveva tardato ad avvolgerla, un sonno profondo, riposante, privo di sogni, e proprio mentre dormiva le era stata tolta la libertà, il bene più prezioso che un essere umano possieda, il tesoro al quale aveva già sufficientemente rinunciato.
(….nessuno mi salverà non sono niente solo la figlia di un uomo morto caduto in disgrazia, comprata dal giovane rampollo Lawrence che come me potrebbe averne a bizzeffe…)
Quando si era destata non aveva scorto intorno a sé le rassicuranti pareti bianche della sua camera da letto, o il profilo delle colline alberate fuori dalla finestra aperta, ma un’oscurità così densa che quasi ne aveva sentito il sapore, un’oscurità marcia e venefica a cui si accompagnava un puzzo di muffa e stantio e una serie di aspri, dissonanti rumori metallici in sottofondo, stridori che spezzavano il silenzio e le graffiavano le orecchie come artigli acuminati, portandola a drizzarsi a sedere con uno scatto terrorizzato e confuso, a premersi una mano tremante sul petto squassato da ansiti e a dischiudere le labbra in un gemito strozzato, il sospiro di un urlo che non trovava la via per esplodere, perché non era più a Lawrence Borg (o almeno così sembrava), nel suo letto, al sicuro, e perché qualcuno, un nemico, senza alcun dubbio, l’aveva portata via da lì, conducendola in quel pozzo senza fondo, in quell’ambiente a lei celato dal manto di buio, bestia nera e immensa che non si sarebbe aperta per lei ma che le si chiudeva intorno come una tenaglia, rubandole aria ai polmoni. E più della consapevolezza di essere sola nel covo di una presenza ostile era stato appunto quel non poter vedere, quel non avere idea del posto in cui era capitata o delle eventuali creature che strisciavano nelle vicinanze a gettarla in preda ad un panico isterico, ad una paura antica come il tempo, poiché non c’è nulla che gli umani temano quanto l’ignoto.
“Dove sono?!” aveva esalato in una via di mezzo tra un rantolo e un grido, il sangue che le martellava convulsamente le tempie e il sudore che colava fin dentro lo scollo della sottile camicia da notte, troppo leggera per il freddo mordente che pervadeva la sua prigione, un freddo che, unito all’umidità di cui l’aria era impregnata e alla totale assenza di luce, l’aveva portata a ipotizzare d’essere stata condotta in un sotterraneo, una catacomba o un dedalo di gallerie. Tastando con gesti frenetici il giaciglio nel quale mani ignote l’avevano deposta, aveva scoperto che si trattava d’un vero e proprio letto, con coperte di lana e guanciali morbidi, un letto dalla struttura in ferro battuto circondato da una cortina così vecchia e fragile che al minimo tocco si era pressoché disfatta. La sensazione di cattività e terrore cresceva rapida dentro di lei, aveva bisogno di capire dove fosse finita, per cui aveva appoggiato i piedi nudi sul gelido pavimento di pietra, rabbrividendo fino al midollo, ma in quell’esatto momento una voce maschile, raschiante come metallo e melodica come lugubri note d’arpa, era strisciata nel buio e l’aveva bloccata, ghiacciandole il sangue nelle vene.
“Non un passo di più, ragazza. L’oscurità è insidiosa e fin troppo irta di pericoli per chi non la conosce”.
Harriet si era irrigidita da capo a piedi, scossa nel profondo da quella voce il cui timbro le risultava stranamente familiare, come se lo avesse udito in un sogno o in un ricordo molto lontano, e aveva conficcato istintivamente le unghie nel materasso del letto, muovendo a scatti gli occhi completamente ciechi nell’oscurità circostante ed esalando rapide nuvolette di condensa: “Chi sei?” aveva bisbigliato in un soffio, sforzandosi con disperazione di non cedere ai nervi. Era lui il suo nemico, il suo rapitore, la bestia che l’aveva privata della libertà e condotta in quella catacomba ignota, e se c’era una cosa di cui era sicura, beh, quella cosa era che non doveva farsi sopraffare dal panico; una rabbia sotterranea le pervadeva le membra, quel fuoco che le ingiustizie subite avevano acceso in lei si era ridestato e serrava forte i denti, combattendo contro la paura e l’orrore. Non sapeva nulla del suo carceriere, né indovinava i motivi che lo avevano spinto a rapirla, ma già lo odiava, con intensità incandescente.
“Sempre i soliti noiosi interrogativi” aveva ribattuto la voce inquietante, da un punto della stanza del tutto diverso rispetto al precedente. Harriet si era voltata di scatto, spaventata dalla rapidità silenziosa con cui lui si muoveva: “Chi sei? Cosa vuoi? Perché mi hai portato qui? Un tempo questo gioco mi divertiva molto, ma sono stanco ormai, e non mi sono mai piaciute le domande. Certo, prima il bello era porle, però, curioso, persino questo mi ha stancato!” nel suo tono vi era una sorta di lugubre ironia, di umorismo nero: “Anzi, meglio mettere le cose in chiaro da subito, fanciulla. Non voglio sapere nulla di te, cosa ti piace, cosa non ti piace, chi è la tua famiglia, chi ti ha fatto battere il cuore…”
Harriet aveva conservato il silenzio, limitandosi ad alzarsi cautamente in piedi per aggrapparsi alla struttura del letto. Il suo rapitore stava facendo tutto da solo, giacché lei non aveva dato cenno di voler parlare di sé, ma le andava benissimo che si distraesse in un monologo. Confidava nel fatto che fosse cieco, in quel buio, così come lo era lei, e che dunque non potesse controllare i suoi movimenti. Aveva teso al massimo le orecchie, cercando di capire da dove esattamente la sua voce provenisse, ma si spostava continuamente, come se rimbalzasse sui muri, sul soffitto, sul pavimento, e non ci fosse alcun corpo a emetterla, come se scaturisse da un fantasma, analogia che le aveva strappato un brivido e che aveva risvegliato nella sua mente il ricordo della festa di Halloween..
“Non ci sarà alcun rapporto tra di noi” aveva continuato con fredda cortesia la presenza nascosta nelle tenebre: “Al di là di quello che unisce ospite e padrone di casa”.
Qui Harriet non era riuscita a trattenersi e le era scappato un risolino isterico, mentre nel cervello continuavano a succedersi le immagini della festa ormai trascorsa, risolino a cui era seguita un’aspra replica, replica che l’aveva lasciata stupefatta dal momento che non si era mai ribellata a nessuno in vita sua: “Io non sono tua ospite, bastardo! Sono tua prigioniera! Fatti vedere, se hai un minimo di amor proprio! Ti diverte terrorizzare una ragazza senza che lei possa neppure guardarti in faccia? Perché mi hai rapita?! Che cos’è che vuoi?!” la sua mente lavorava febbrile: “È per Jesper? Perché sono la sua fidanzata?” improvvisamente, la nebbia che le impediva di rammentare chiaramente gli eventi di Halloween si era dissipata e aveva sgranato lievemente gli occhi, levando un’esclamazione: “Il Fantasma dell’Opera! Tu sei l’uomo travestito da Fantasma dell’Opera!”
Tutto acquistava un senso nuovo, adesso! Ecco qual era il tassello mancante! Quando aveva abbandonato il balcone, ubriaca, e aveva lasciato soli Jesper e lo sconosciuto mascherato, si erano senz’altro parlati…e per giunta il giovane Lawrence si era mostrato alquanto teso e angosciato negli ultimi due giorni…e il crisantemo! Anche la comparsa del fiore si spiegava.
(…stupida che non sei altro davvero credevi che te l’avesse regalato un genio gentile?)
“Così è per Jesper” aveva sibilato, serrando le mani sulla testiera in ferro battuto e digrignando i denti per il disgusto che le causava la propria condizione, un disgusto che annientava e sopprimeva la paura, sostituendola con la rabbia: “Mi hai presa in ostaggio per avere il suo denaro, porco!”
La voce raschiante si era alzata di tono e vi era serpeggiata una percepibile sfumatura di astio: “Tieni a freno la tua graziosa lingua, ragazza, se non vuoi che un mostro te la strappi! Le ragioni per cui ti ho condotta qui ti rimarranno sempre ignote, e mai nessuna luce rischiarerà questo luogo nei quindici giorni che trascorrerai presso di me. Ma posso assicurarti” e qui era di nuovo sopraggiunta la folle garbatezza di poco prima: “Che non ti mancherà mai nulla e avrai a disposizione ogni tipo di comodità. Basterà che tu chieda qualcosa e subito l’avrai. I pasti ti verranno serviti sul comodino di fianco al letto e per raggiungere il bagno non dovrai fare altro che cinque passi a sinistra, quella porta sarà per te sempre aperta, e dentro troverai una candela accesa, l’unica fonte di illuminazione che ti verrà concessa e che in nessun modo dovrai portare in questa stanza. Io lo saprò. Il buio è il mio più fedele amico, cara, e nel buio vivremo. Le uniche regole a valere saranno le mie”.
Harriet aveva agito d’istinto. Mentre lui le spiegava quelle che sarebbero state le condizioni della sua prigionia, non l’aveva ascoltato neppure per un secondo, il corpo ridotto ad un fascio di nervi frementi per la furia e l’odio. Già era stata intrappolata in un matrimonio di convenienza e in un’unione infelice, non avrebbe accettato a capo chino anche quest’ultima ingiustizia, non si sarebbe tramutata docilmente nell’ostaggio con il quale quel bastardo senza volto voleva ricattare Jesper! Qualcosa era saltato dentro di lei, l’ultimo vincolo, l’ultima catena, e levò un grido penetrante nello scagliare in direzione della voce il primo oggetto che le era capitato a tiro e che si rivelò essere una lampada polverosa sistemata sul tavolino da notte, lampada che fendette l’aria e che di sicuro lo mancò, a giudicare dal clangore metallico che emise toccando il pavimento. Ma la ragazza non aveva perso tempo e si era lanciata in avanti alla cieca, le mani tese di fronte a sé per attutire eventuali urti, i capelli al vento, consapevole della folle inutilità del suo gesto, delle poche possibilità che aveva, però piena di una determinazione selvaggia e incontenibile.
In pochi secondi era inciampata con un mezzo strillo in un divano e vi era piombata distesa, le ciocche che le si spargevano disordinatamente intorno al viso. Si era rialzata, ansimante, dominata dalla foga, annaspando, e aveva provato di nuovo ad affrontare il muro di buio e a cercare un’uscita invisibile, ma qui il suo rapitore, che evidentemente l’aveva lasciata fare senza intervenire, l’aveva afferrata per la vita da dietro e lei aveva urlato nel sentirsi premere contro un petto maschile e nel percepire il suo fiato gelido accarezzarle la nuca e le sue mani rudi stringerla fin quasi a toglierle il respiro. C’era un che di marcio e opprimente in quella presenza, un alito mefitico, un alone di cattiveria e di peccato che l’aveva disgustata e spinta a dimenarsi inutilmente nella sua morsa, gridando: “Lasciami! Lasciami, vigliacco!”
“È inutile che giochi a Strega di Mezzanotte, bambina” aveva replicato lui in un ringhio minacciosamente atono: “Hai perso in partenza. Questo buio è per me più luminoso di un mattino d’estate mentre tu sei cieca, cieca come la mosca nella tela del ragno!”
Un braccio era serrato attorno ai fianchi di Harriet, l’altro in prossimità della gola, ed era quello che aveva attaccato, incapace di arrendersi, chinando la testa con uno scatto fulmineo e affondandoci i denti. Una parte di lei, quella più irrazionale, si era persuasa d’avere a che fare con qualcosa che non era umano, ma scoprì ben presto che era invece fatto di carne e sangue come tutti quando lo sentì ringhiare e allentare la stretta su di lei. Ne approfittò all’istante per liberarsene; avrebbe potuto tentare di nuovo la fuga, ma sapeva bene che in quel buio era inutile, per cui s’accontentò di incurvare le dita ad artiglio e graffiarlo sul viso. La sua carne era gelida e madida come qualcosa di morto e umida al tocco. Qualcosa in lei fremette di repulsione, ma s’ostinò a cacciare le unghie in profondità nella pelle finché lui, con un ruggito furibondo, non la respinse con un violento manrovescio che la lasciò stordita.
Era stato a quel punto che l’aveva drogata e legata alla sedia, mentre lei giaceva in uno stato di catramosa semincoscienza.
“Sei più stupida di quanto pensassi” sibilò la voce dell’uomo senza volto nella cortina di tenebre, penetrando a fatica la cappa di intontimento calata sulla sua mente: “Ti ho offerto vitto e alloggio e ogni genere di comodità, ed è così che mi ripaghi! Ah, l’ingratitudine è una delle cose che più mi infastidiscono… uno si sforza di essere gentile, di comportarsi con buona educazione, ed ecco qui i ringraziamenti…”
Harriet non cercò nemmeno di ribattere, non avrebbe saputo come farlo. Era di certo caduta nelle mani di un folle, e con un folle non ci ragioni. Si limitò a scoccare uno sguardo colmo d’odio all’oscurità, sicura, a quel punto, che lui potesse vederlo. Non aveva idea di chi fosse, di cosa fosse, ma percepiva ancora l’umidità gelida della sua carne sotto le dita, e l’alone malvagio che emanava il suo corpo, un alone capace di respingere chiunque.
“Quindici giorni, ragazza” proseguì il suo carceriere implacabile: “Quindici giorni e saremo liberi entrambi”.
Non era così vecchio, si disse confusamente la giovane, almeno non tanto vecchio da poterla chiamare ragazza.  
“Il tuo fidanzato deve rispettare un impegno nei miei confronti, e lo rispetterà. Non lascerà annegare nel buio la sua dolce innamorata viva. Perciò non avere paura, e smettila di guardarmi in quel modo. Sto soltanto sopravvivendo. E non c’è nulla di sbagliato nel sopravvivere”.
Una preghiera le saliva prepotentemente alle labbra, ma la ricacciò indietro, troppo orgogliosa per supplicarlo di slegarla. Era la punizione per il suo tentativo di ribellione, e l’avrebbe sopportata in silenzio. Quel folle l’aveva rapita per ottenere qualcosa da Jesper, ma non gli si sarebbe arresa. Non aveva alcuna garanzia che il suo fidanzato pagasse il riscatto e la salvasse, non l’aveva mai amata, e non aveva alcuna ragione valida per privarsi dei suoi averi affinché fosse libera, se non la pietà umana, una virtù che però gli era sempre mancata. Doveva cavarsela da sola, e non lasciarsi sconfiggere dalla situazione e dalle avversità. Non le rimaneva altro che se stessa, e su se stessa avrebbe contato.
“Hai paura del buio?” la voce del mostro non era priva di una sottile vena di sadismo: “Ti ci abituerai. Tutti si abituano prima o poi, te lo dico per esperienza personale. Ho vissuto così a lungo nelle tenebre, ed ero molto più piccolo di te…quando si popolavano di spettri, ripetevo sempre una vecchia filastrocca: un bel giorno nel bel mezzo della notte, due ragazzi morti si svegliarono per fare a botte. Schiena contro schiena si fronteggiarono, tirarono fuori le armi e si spararono. Il poliziotto di ronda che era sordo udì rumori forti, venne e sparò ai due ragazzi morti”.
“Smettila!” rantolò Harriet. Le parve di vederlo sogghignare: “Tu sei cresciuta con dolci ninnenanne. Così sono cresciuto io” in fondo in fondo nella sua voce albergava un odio sedimentato, un’amarezza lugubre, soffocata dal sarcasmo: “Sonni tranquilli, ragazza”.
(…oh sì sonni tranquilli anche a te bastardo perché non avrai vita facile ed io non mi arrenderò mai mai mai…)  
  

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Capitolo 8
*** Capitolo 11 ***


Capitolo 11
 

 
 
 
 
Quando gli occhi di Harriet si abituarono alla luce seppur fioca dell’unica candela presente nella stanza da bagno, socchiuse le palpebre che aveva prudentemente stretto a fessura per difendere le pupille sensibili e le sbatté un paio di volte, percependo le ciglia appiccicose che si staccavano le une dalle altre; l’infelicità della sua situazione le aveva impedito di soffermarsi su cose normali come l’igiene personale, ma ora che il suo carceriere l’aveva praticamente costretta a ricordarsene, si accorse di sentirsi tremendamente sudicia e coperta di sudore gelido, con le labbra secche, la lingua gonfia e i capelli incollati al cranio. Dio, avrebbe ucciso per un sorso d’acqua!
Era confortante e strano insieme poter vedere di nuovo dopo ore e ore di completa oscurità, e come prima cosa fissò proprio il mozzicone di candela appiccicato in quella che aveva l’aria di essere una nicchia scavata nel muro di pietra di fronte alla porta che lo stronzo aveva sbattuto alle sue spalle, con la cera calda che colava in rivoli sul pavimento e la fiammella che ondeggiava appena, proiettando ombre distorte e inquietanti sul basso soffitto e sulle strette pareti che le si chiudevano addosso in modo soffocante, provocandole una vaga sensazione di claustrofobia. Non avrebbe potuto utilizzare una lampada, o una torcia? Quell’esile candela aveva un aspetto fragilissimo, e temeva che il minimo soffio di vento avrebbe potuto spegnerla e precipitarla nuovamente nel buio.
E non ho intenzione di rinunciare alla luce così facilmente, ora che posso usufruirne.
Si osservò attorno con attenzione, facendosi avanti a piccoli passi con le braccia incrociate sul seno e la pelle d’oca nei vari punti che la camiciola da notte lasciava scoperti. Più che un bagno, quella sembrava proprio essere una latrina, e il puzzo di fogna che la appestava a causa delle piccole dimensioni le fece arricciare il naso. Fortuna che aveva visto di peggio: le toilette dei fast food erano uno spettacolo che non si dimentica facilmente! Aveva forma quadrata e tutto era in pietra nuda e disadorna, con qualche traccia di mucillaggine biancastra sui muri. Una grata in alto a destra faceva entrare un minimo di aria respirabile ed erano stati collocati sul pavimento, apposta per lei, un pitale, una tinozza piena d’acqua e, sopra una lastra in compensato, uno spazzolino da denti male in arnese, un tubetto di dentifricio, un asciugamano, un paio di jeans ripiegati con maniacale precisione e un pullover rosso.
Fece una smorfia.
Ha pensato proprio a tutto, il bastardo.
La vista di quegli oggetti e in particolar modo del pitale la fece sentire umiliata, nel profondo. Nessuno avrebbe dovuto vivere in quelle condizioni, nessuno avrebbe dovuto soggiacere ad un trattamento così disumano. Certo, se avesse voluto vedere il bicchiere mezzo pieno avrebbe potuto dirsi che poteva andar peggio, che certi ostaggi erano stati tenuti in guisa ben più tremenda della sua, che li avevano legati, picchiati, abbandonati nella loro sporcizia e nei loro escrementi, ma doveva ammetterlo, al momento di loro le importava ben poco. Era la sua situazione a bruciarle, e soprattutto i motivi per cui era costretta a sopportare quella porcata. In fin dei conti, il suo rapitore voleva vendicarsi di Jesper, non di lei, ma, sorpresa sorpresa!, a pagare era lei, che non c’entrava niente, che in certi giri loschi non aveva mai voluto entrare, che si era sforzata soltanto di farsi bastare quel poco che aveva, di vivere in pace.
Invece no, oltre al danno si era aggiunta la beffa. Peraltro quell’R doveva essere alquanto malinformato, se credeva che il giovane rampollo si sarebbe privato dei suoi preziosi averi per salvarla. Un’altra disposta a diventare la nuova signora Lawrence se la sarebbe potuta trovare in quattro e quattr’otto, una che ne fosse davvero felice, una bella e seducente come Christine. Sarebbe stato quasi divertente assistere alla reazione del suo carceriere quando Jesper avrebbe fatto sapere che non aveva alcuna intenzione di cedere al ricatto. Ma non aveva la minima voglia di interpretare, per l’ennesima e ultima volta, la parte di quella zitta che non dà problemi, del cadavere floscio e patetico abbandonato in qualche campo o gettato nelle profondità del mar Baltico. Non sarebbe stata la vittima delle beghe dei potenti, qualsiasi fossero. Non stavolta.
Mentre si toglieva, riluttante, la camicia da notte, da qualche angolo recondito della mente giunse un’idea bizzarra e ripensò al duplice omicidio avvenuto a Lawrence Borg ormai quindici anni prima, l’assassinio del padre di Jesper e del figlio terzogenito Viktor che all’epoca aveva destato tanto scalpore. Non si era mai trovato il colpevole e il caso era stato chiuso da tempo, e per giunta i Lawrence superstiti non avevano mai spinto affinché si indagasse per bene, avevano lasciato che la tragica vicenda scivolasse nel dimenticatoio, rifiutando categoricamente di tornare sull’argomento.
Ma negli ultimi giorni, al castello erano avvenuti una serie di fatti strani: la comparsa di R alla festa di Halloween, il nervosismo che Jesper aveva ostentato dopo aver parlato con lui sul balcone, la scomparsa di Jonas…
Un momento! E se quella sparizione fosse stata, in qualche modo, collegata al suo rapimento e all’omicidio di Hugo e Viktor? Se l’assassino che a quei tempi aveva manifestato il proprio odio per i Lawrence in maniera tanto efferata e violenta (si diceva che i cadaveri fossero stati trovati in condizioni pietose) fosse tornato per portare a compimento la sua vendetta? Magari passando prima a fare una “visitina” a Jonas? Se R e quel pluriomicida fossero stati la stessa persona? In quel caso era finita nelle mani di un omicida senza pietà, uno che uccideva senza pensarci due volte…del resto, non le riusciva difficile credere che qualcuno potesse odiare i Lawrence, parevano avere la bastardaggine nel dna, e non era sicura che gestissero i loro affari in modo pulito, anzi…
Ma se lo scopo dell’assassino era vendicarsi di loro, perché rapirla per ottenere un riscatto? Non poteva semplicemente far fuori Jesper ed Erin ed eliminare i discendenti della famiglia dalla faccia della Terra? Non avrebbe avuto alcuna difficoltà a farlo, sul balcone era stato completamente solo con il suo fidanzato, e, oh, Dio, si era presentato alla festa al braccio di Erin…quella carogna aveva ingannato la bimba per poter penetrare indisturbata nel maniero e le era stata accanto a lungo, l’aveva usata, mentre la piccola lo credeva ingenuamente un amico, ignara di aver offerto vitto e alloggio all’assassino del padre…
Insomma, se avesse desiderato estirpare i Lawrence, avrebbe potuto farlo benissimo, ma non l’aveva fatto. Aveva scelto di ricattare Jesper. O forse il suo ragionamento era tutto sbagliato, e quel bastardo non c’entrava niente né con Jonas né con l’omicidio di papà Lawrence e figlio, era solo un volgare, losco individuo che mirava all’ingente patrimonio di cui il suo fidanzato, vista l’assenza del primogenito, sembrava essere l’unico detentore. Anche se non ne aveva granché l’aria. Sembrava più un folle esaltato e inasprito, e non le aveva dato l’idea d’essere molto attaccato al denaro…odiava i Lawrence, questo era poco ma sicuro, però le aveva fatto intendere d’essere stato vittima di un torto grave da parte loro…beh, non era certo l’unico! E poi, sebbene fosse restia ad ammetterlo, in qualche modo era rimasta colpita da lui. Un individuo ben strano e fuori dal comune, decisamente, con doti alquanto inquietanti. Ma un punto debole doveva averlo di sicuro, come tutti.
Immerse il piede nudo nella tinozza e cacciò uno strilletto, togliendolo subito in una fontana di schizzi e saltellando in preda ai brividi. Accidenti, non credeva che l’acqua fosse così fredda! Cioè, non che si fosse aspettata una sorgente termale, ma aveva la temperatura di un fiordo artico in pieno inverno, santo cielo! Se a questo si univano le pessime condizioni in cui il suo carceriere la teneva e il clima di quella specie di sotterraneo, si sarebbe ammalata in un batter d’occhio.
E allora? Quando si manifesteranno i primi sintomi, sarai già fuori di qui. E non è il caso di insospettirlo.
Inspirò a fondo ed entrò nuovamente nella tinozza, con tutti i muscoli contratti e i pugni stretti lungo ai fianchi. Il freddo le morse la carne come una bestia feroce e aggressiva, mozzandole il respiro e paralizzandola quasi allorché si sedette all’interno del grosso recipiente, stringendo i denti e combattendo le staffilate brucianti che le penetravano nelle ossa. Avrebbe voluto uscire immediatamente e avvolgersi nell’asciugamano, ma si costrinse a prendere la saponetta che le era stata lasciata sul bordo e a strofinarsi con foga, cercando di fare più in fretta possibile; più restava immersa in quell’acqua gelata, più aveva la sensazione che il corpo si logorasse e s’intorpidisse, e invece doveva essere al pieno delle sue forze, se intendeva tentare di scappare.
Avrebbe dovuto prevederlo, che sarebbe finita così. Avrebbe dovuto dare più retta alle voci secondo cui i Lawrence fossero maledetti, e con loro tutti quelli che gli si avvicinavano. La sua amica di penna londinese, conosciuta durante un viaggio, Amelia Nilsson, l’aveva messa in guardia più volte dopo che le aveva comunicato che avrebbe sposato Jesper. Le famiglie così ricche e potenti, per giunta invischiate nella criminalità, aveva detto, non portavano altro che guai. Prima o poi nemici vari si sarebbero approfittati del suo legame di parentela con il giovane e le avrebbero fatto del male per arrivare a lui.
In effetti, Amy, avevi proprio ragione.
Una lacrima calda le scivolò lungo la gota gelata, ma se l’asciugò con furia, strappandosela quasi dalla pelle. Non poteva apparire debole, neanche a se stessa. Se ricadeva nel solito circolo vizioso di arrendevolezza e autocommiserazione, sarebbe stata davvero spacciata.
Rievocò le parole della sua amica, chiudendo gli occhi per immaginare che fosse proprio lì vicino a lei: “Se quell’uomo ti mette sotto, Harriet, allora tu rendigli pan per focaccia. Voglio dire, siamo cento volte più intelligenti di quei sottosviluppati! Soprattutto tu. Loro avranno anche tanti bei muscoli, ma noi abbiamo cervello. E quello sì, che è una risorsa preziosa”.
“Noi abbiamo cervello” mormorò pianissimo. Sì, poteva, doveva farcela ad uscire da quella maledetta situazione. Magari non era la ragazza più sexy, furba o ingegnosa del mondo, ma non era stupida. A scuola aveva sempre preso il massimo dei voti, era stata membro onorario del gruppo di scienze, piazzandosi prima in classifica al Torneo Regionale (nella frustrazione e nell’odio del suo rivale maschio) ed aveva stupito tutti quando aveva ricavato da un tostapane, una spilla da balia, una lampadina e un campanello da bicicletta un efficiente sistema di allarme. Hannah diceva che assomigliava a Violet Baudelaire della serie degli “Sfortunati eventi”, l’inventrice, sua madre la reputava una dote stupida e inutile. In effetti, per sposare Jesper le sue capacità non le erano servite affatto, ma in questa particolare circostanza, potevano tornarle molto più utili di un bel faccino e di una parlata accattivante.
Sì, posso farcela, posso farcela!
Finì di lavarsi i capelli, strizzandoli per eliminare più acqua che poteva, e si affrettò ad uscire dalla tinozza, rabbrividendo con violenza nell’abituarsi di nuovo alla temperatura normale. Afferrò l’asciugamano scolorito dalla lastra di compensato e ci si avvolse come in una coperta, frizionando il corpo che stillava gocce di ghiaccio puro. A dispetto del bagno artico e dell’aspetto angusto di quella latrina, passare un po’ di tempo sola, al sicuro dietro un uscio chiuso, senza temere in ogni momento una comparsa del suo carceriere e sentendosi quindi libera di riflettere con calma, le aveva fatto bene. Era molto più lucida e determinata di prima. Ed era pronta a mettere in atto il suo piano di fuga. Sarebbe stato rischioso, certo, ma tanto se non fosse scappata sarebbe comunque morta, quindi non aveva niente da perdere. E poi, almeno al momento, era troppo preziosa per essere uccisa. Se R la scopriva l’avrebbe punita, e gravemente, oltretutto, ma non le importava. Non adesso. Non più.
In fondo, lui non era tanto peggiore di Jesper e dei tormenti psicologici che le aveva inflitto. Era solo più sfrenato e privo di controllo. Ed Harriet, a dispetto dell’opinione di qualsiasi essere umano, preferiva soffrire che morire. Proprio così. Dopo quella notte in cui la Morte le aveva respirato sul collo ed era arrivata a sentirne l’odore, dopo che aveva assaporato l’idea di perdere tutto, persino il dolore, che in fondo la rendeva se stessa, al contrario del nulla assoluto, si era scoperta disposta a sopportare qualsiasi tortura pur di vivere.
Perché lui aveva deciso di trascinarla con sé nell’oblio per negarle la sofferenza, e per reazione Harriet si era aggrappata a questa stessa sofferenza con tutta se stessa, l’aveva ritenuta un bene prezioso quanto la gioia e la felicità. Alle volte era stata persino masochista.
Quindi sì, era pronta ad accettare la punizione di R, pur di cercare di rimanere viva.
E poi cosa si può inventare di tanto rivoltante e malato, a parte legarmi di nuovo ad una sedia o frustarmi? Forse mi incatenerà ad un congegno meccanico in stile B moovies con lame incrociate e vampate di fuoco. O magari darà prova della sua famosissima “galanteria” da gentiluomo e si accontenterà di una bella fustigata.
Malgrado tutto, riuscì a ridere sommessamente, e il pensiero del suo carceriere che la udiva e si crucciava nel non vederla in preda allo scoramento più totale accrebbe ancora di più quell’improvviso e insensato buonumore. Si lavò i denti con accuratezza, sputando saliva mista a dentifricio sulla lastra in segno di spregio, e indossò i jeans e il pullover rosso, che si tendeva un po’ troppo sul suo seno abbondante. Chissà dove R aveva rimediato quegli indumenti. Chissà se era davvero lui l’assassino di Hugo Lawrence, del suo terzogenito e di Jonas. Chissà perché si ostinava a vivere nelle tenebre.
Domande che in ogni caso non avrebbero mai trovato risposta, giacché se fosse riuscita a fuggire, sarebbe andata il più lontano possibile da Lawrence Borg e dalle nefandezze celate al suo interno, sotto agli stucchi, alle colonne e al fasto. Magari avrebbe potuto trovare rifugio presso Amy e lavorare a Londra come cameriera o bigliettaia, con un falso nome, finalmente libera. In ogni caso, avrebbe detto addio per sempre a Jesper, a sua madre e Christine. Probabilmente, passato un po’ di tempo, avrebbe fatto sapere ad Hannah ed Erin dov’era e avrebbe ripreso i contatti con loro, ma sarebbero state le uniche. Se avesse potuto le avrebbe portate via con sé, tuttavia era infattibile, e rischiava un’accusa di sequestro da parte della madre della bimba, sempre che le fosse importato della sorte della figlia.  
Ma ora era il caso di concentrarsi sul presente, e di organizzarsi il futuro dopo, quando, e soprattutto se il suo tentativo di fuga avesse avuto successo. Programmare qualcosa che forse non sarebbe mai esistito era inutile, lì, nella tana del lupo.
Aveva bisogno di un’arma, ma non necessariamente di una lama o una pallottola, semplicemente di un oggetto che, in buone mani, sarebbe potuto divenire tale. Ambire ad uccidere il suo carceriere era un piano troppo ottimistico e irrealizzabile, quindi non valeva nemmeno la pena di provarci. Ci sarebbe stato tutto il tempo dopo di denunciarlo, quando avrebbe compreso dove diavolo l’aveva portata, e quanto lontano quella specie di sotterraneo era da Lawrence Borg. Qualcosa le diceva che non si erano allontanati troppo dal maniero: dopotutto, R aveva bisogno di mantenere i contatti con Jesper. Quello che poteva fare al momento era colpirlo in modo tale da renderlo temporaneamente distratto o, nella più rosea delle ipotesi, inoffensivo, per avere la possibilità di arraffare la candela e lanciarsi fuori dalla stanza in cui l’aveva confinata. A quel punto sarebbe stata impacciata dal buio, dal luogo sconosciuto e dalla paura, mentre lui sarebbe stato nel proprio territorio, ma non le venivano in mente altre soluzioni, e spesso bisogna arrangiarsi con quel che si può. In ogni caso, tentar non nuoce, giusto?
Giusto.
L’asciugamano…l’unico uso che poteva farne era gettarlo addosso al suo rapitore come aveva fatto Don Abbondio con Lucia ne “I promessi sposi”, ma una mossa simile avrebbe sortito un effetto troppo breve, e lui si sarebbe liberato del pezzo di stoffa in men che non si dica. E poi era troppo difficile portarlo fuori dalla latrina senza che se ne accorgesse. No, una strada da non prendere assolutamente. La candela sarebbe stata perfetta per scatenare un incendio o addirittura dar fuoco al bastardo, ma era stato chiarissimo al riguardo, mai spostarla da lì, e avrebbe notato immediatamente che l’aveva presa. A malincuore, doveva escludere anche quella. La saponetta era troppo poco dura per stordirlo se gliela avesse fracassata in testa, si sarebbe soltanto infuriato…e fatto una doccia fuori programma. Ridacchiò in maniera, c’è da ammetterlo, lievemente isterica. Il pitale, che non aveva ancora utilizzato visto che era almeno un giorno che non mangiava né beveva niente, sì che lo avrebbe spedito nel mondo dei sogni, ma era ingombrante, altra cosa che avrebbe subito notato.
Si rigirò tra le mani lo spazzolino da denti con le setole umide di dentifricio e passò il polpastrello sul manico liscio e sottile. Era un oggettino insignificante e, all’apparenza, pressoché inoffensivo. Ma era piccolo, fatto apposta per passare inosservato, e avrebbe potuto perforare senza problemi un bulbo oculare, se lo avesse conficcato nel modo giusto…oh, sì. A quel punto il mostro sarebbe stato in preda ad un dolore atroce che sarebbe durato parecchio, e lei avrebbe avuto tutto il tempo di darsela a gambe. Il difficile era uscire dalla latrina senza che lui si avvedesse della sua…
Un bussare sordo interruppe bruscamente le sue macchinazioni e da dietro la porta giunse la voce imperiosa del suo carceriere: “La mezz’ora che ti ho concesso è terminata, ragazza. Esci”.
Harriet sussultò involontariamente e si volse di scatto a fissare l’uscio, serrando la presa sul manico dello spazzolino. Aveva perso del tutto il senso del tempo e non si era accorta di quanto ne fosse passato. Doveva trovare il modo di portare con sé l’oggetto senza dare nell’occhio, e subito, altrimenti tutto quel pensare non sarebbe servito a nulla.
“Allora?!” spazientito, R bussò ancora una volta, ma più che dei leggeri colpetti le sue furono delle vere e proprie botte, con cui squassò rumorosamente il legno: “Sei tanto stolta da mettere ancora più a dura prova la mia pazienza? Perché restare barricata lì dentro non ti salverà. Non è una porta chiusa a tenere lontani i mostri. E i mostri la possono sfondare, se vogliono”.
La ragazza rabbrividì a quella poco velata minaccia. Non doveva farsi prendere dall’ansia, non doveva essere precipitosa. Se la sua voce avesse tremato anche solo un po’, lui se ne sarebbe reso conto. Nervi saldi e sangue freddo, ecco cosa le occorreva. Non era mai stata impulsiva, e non lo sarebbe diventata proprio adesso. Prese un bel respiro, combattendo contro la bestia inquieta che le si agitava nello stomaco gridando sciagura, e si costrinse ad adottare un tono mortificato e docile: “Arrivo subito, io…devo soltanto vestirmi”.
Il risultato non le piacque affatto. Le era uscito una specie di piagnucolio.
La voce del suo carceriere sopraggiunse in un sibilo acrimonioso: “Sono molto stanco di star dietro alle vostre sciocchezze. Molto, molto stanco. Se devi vestirti, fallo, subito. Perché se metterai a dura prova la mia pazienza…mi stai ascoltando?! Se metterai a dura prova la mia pazienza, te ne farò pentire come solo un mostro sa fare. Hai capito bene?”
Ad Harriet battevano i denti, ma deglutì tutta la sua tensione e rispose: “Sì, faccio in un attimo”.
Da dietro l’uscio riecheggiò un grugnito formidabile e profondo che le fece accapponare la pelle.
In fretta, in fretta…
Con le mani che le tremavano, si strappò diversi capelli bagnati, sopportando a denti stretti le brevi e acute fitte che la cute mandava ogni volta che la defraudava della sua “pelliccia”. Era fastidioso, ma tollerabile, molto più tollerabile dell’essere prigioniera di quel pazzo. Quando ne ebbe presi a sufficienza, li unì a formare una ciocca e la lisciò, ringraziando di aver fatto il bagno: se fossero stati ancora ricci, il suo piano sarebbe fallito in partenza. L’acqua li aveva allisciati. Abbassò la cerniera dei jeans e li calò di qualche centimetro, imponendosi meticolosità, ma quando provò a legarsi la fune improvvisata attorno alla coscia, si accorse con orrore che era troppo corta. Le sfuggì un gemito strozzato.
“Che cosa stai facendo lì dentro?” berciò il suo carceriere.
Si morse il labbro fino ad avvertire il sapore del sangue: “E-esco subito, solo un momento!”
“Due minuti, ragazza. Due minuti e sarò da te”.
Oddio oddio oddio…
La foga e il terrore minacciavano di sopraffarla, la fretta rendeva inconsulti i suoi movimenti, e fu con rabbia che si strappò altri capelli, con violenza, incurante del dolore, incurante di ogni cosa a parte la porta che al momento era chiusa e sicura, ma che a breve avrebbe lasciato entrare il suo peggiore incubo. E se fosse successo…
Sbrigati, cazzo, sbrigati!
Fece un nodo all’estremità della prima cordicella di capelli e la legò insieme alla seconda, pregando che fosse abbastanza. Per miracolo o bontà divina, stavolta le circondò la coscia senza difficoltà e lasciò andare il fiato, annodandola con precisione. Afferrò lo spazzolino dalla lastra di compensato e lo agganciò alla fune, provando qualche passo per vedere se teneva.
Teneva.
“I due minuti sono quasi passati, ragazza!”
In preda ad una cieca frenesia, si rialzò i jeans e lasciò la patta aperta, coprendola con il pullover che, per fortuna, era lungo abbastanza. Aveva avuto l’accortezza di sistemare lo spazzolino sull’interno coscia, per cui non vi era alcun rigonfiamento sospetto. Malauguratamente le sue mutandine erano troppo sottili per contenere l’oggetto, dunque, per evitare che R vedesse che lo aveva preso, aveva dovuto ricorrere all’escamotage dei capelli. Non era da escludersi che lui si accorgesse ugualmente di ciò che aveva fatto, sembrava non sfuggirgli nulla, ma se nella vita non si rischiava…
Udì il rumore terribile di una chiave che girava nella serratura e si lanciò in avanti come una disperata: “Ho fatto, ho fatto!”
Non ebbe il tempo di registrare neanche un particolare della figura del suo carceriere, tanto egli si mosse in fretta: in un paio di secondi o poco più, spalancò l’uscio, l’afferrò per un braccio, strappandole un sobbalzo e tirandola fuori dalla latrina, e lo richiuse bruscamente sulla stanzetta illuminata, facendola ripiombare nelle tenebre che le parvero ancora più dense e soffocanti, dopo che le aveva abbandonate per mezz’ora. Sbatté le palpebre, cercando di abituarsi al buio e di mettere a fuoco i contorni della sagoma che incombeva su di lei, e lui le ordinò, gelido: “Alza le braccia!”
Non era il caso di contrariarlo, non ancora, per cui ubbidì, sentendosi terribilmente esposta con il petto scoperto e il pullover che si rialzava di qualche centimetro a causa del movimento, senza, grazie al cielo, rivelare la cerniera aperta. La frugò, controllando nelle tasche, tra i capelli, dietro il collo, ed Harriet si costrinse a farsi rigida sotto il suo tocco impersonale e disgustoso e a sopportare quella perquisizione, con il cuore che le batteva così forte e così violentemente che temeva lui ne potesse sentire le pulsazioni accelerate dalla paura. Era il cosiddetto “momento della verità”. Se la scopriva, doveva scoprirla adesso. Sarebbe stato così abietto da spogliarla e allargarle le gambe per dare una bella occhiata al suo interno coscia, o quel ridicolo “so comportarmi da gentiluomo” stava a significare che non si sarebbe spinto a tanto? Non confidava affatto nel suo onore e nella sua moralità, a malapena sopportava di essere toccata da lui come un oggetto, ma forse, chissà…
“Non ho preso niente” farfugliò, detestandosi per il suo tono spaventato.
Le rispose un sogghigno sarcastico: “Questo lascialo decidere a me. Cosa credi, che io non vi conosca? Siete infide, bugiarde, tutte quante. E non commetterò di nuovo l’errore di fidarmi di voi”.
Di nuovo? Aveva forse già rapito una ragazza in passato? E aveva a che fare con il misterioso “Stephan” che aveva nominato mezz’ora prima?
“Sei pallida…” soggiunse, meditabondo: “E tremi…”
Harriet venne percorsa da un lungo brivido. Maledizione al suo corpo che non riusciva mai a starsene al suo posto! E maledizione a lui che vedeva così bene al buio! Lo guardò a sua volta, curiosa, suo malgrado, di scoprire che aspetto avesse l’individuo che le aveva tolto la libertà, ma l’oscurità era troppo fitta, e per giunta sospettava, a giudicare da quel poco che riusciva a scorgere, che portasse un cappuccio, perché tutto quello che distingueva erano quegli inquietanti occhi chiarissimi che sprigionavano una fioca e malsana luminosità. Sembravano gli occhi di un felino.
Si affrettò a distogliere lo sguardo e ribatté, piano: “È tanto difficile intuire perché sono pallida e tremo?”
“No” fu la risposta sibillina: “Ma ti sanguina il cuoio capelluto”.
Trasalì e portò una mano di scatto a tastare il capo. Percepì qualcosa di viscido e bagnato.
“Io…” ansimò, con il cuore in tumulto e la coscia che pareva ardere nel punto in cui aveva legato lo spazzolino: “Sono…caduta. Ho battuto la testa”.
Lui si produsse in una risatina agghiacciante: “Quanto sei brava a mentire, signora Jesper. Quasi più brava di una certa persona di mia conoscenza”.
Harriet arretrò di qualche passo e incontrò con la schiena la superficie solida e inamovibile della porta che conduceva alla latrina, chiedendosi follemente quanto dovesse apparire pallida e atterrita in quel momento, la bambina colta con le mani nella marmellata, il topolino chiuso in trappola: “Non sto mentendo” disse in un soffio, la voce che rispecchiava quella del condannato a morte quando risuona il famigerato “Dead man walking!”
“Ma davvero?” la canzonò R. La raggiunse, tagliandole ogni via di fuga, e abbatté le mani ai lati della sua testa, facendole rimbombare lugubremente sulla pietra, negandole qualsiasi possibilità di scampo. Avrebbe voluto essere inconsistente come un fantasma per trapassare l’uscio alle sue spalle e sfuggirgli, per non avvertire tanto fortemente la sua presenza fisica che la chiudeva in un angolo e la sopraffaceva, ma era un desiderio impossibile. Una goccia di sudore gelido tracciò il contorno della sua spina dorsale. Era consapevole in modo quasi doloroso dello spazzolino. D’impulso, avvicinò le dita ai jeans.
Gli occhi cerulei erano vicinissimi, due fari nelle tenebre. Il loro possessore le sfiorò una ciocca di capelli, portandogliela dietro l’orecchio, e le sussurrò sulla pelle: “Hai paura di me?”
Harriet ricambiò lo sguardo, serrando forte le labbra: “No”.
La mano che le toccava i capelli si arrestò: “No?”
“No” ribadì, e si accorse di essere sincera. In quel preciso istante, non aveva paura di lui. Proprio come non aveva avuto paura di suo padre, quando aveva accettato che le avrebbe fatto del male, che non si sarebbe fermato. Perché a quel punto scattava l’istinto di sopravvivenza, e nient’altro contava più. Era lei o lui. E non c’era tempo per provare terrore. Si sentiva vuota, immensamente lontana da ciò che le stava capitando, come se assistesse alla scena da spettatrice, e facesse il tifo per la ragazza senza, però, temere davvero per la sua sorte.
Le parve, ma forse era solo una sua impressione, che il suo carceriere fosse rimasto stupito dalla sua affermazione, a giudicare dall’improvvisa immobilità, e capì che il momento era quello, e che se non avesse agito adesso, avrebbe perso per sempre la sua occasione.
“Non ho paura di te” ripeté, infilando una mano nei jeans e districando con un colpo secco lo spazzolino dalla corda di capelli.
Poi glielo piantò dritto in uno dei globi luccicanti che aveva per occhi.
 
Il condominio aveva un’aria sudicia e decadente. I muri erano rovinati da una quantità spropositata di graffiti che disegnavano sul cemento scolorito frasi oscene e simboli vari, al soffitto mancavano parecchie tegole e le finestre, a poca distanza l’una dall’altra, davano su appartamenti minuscoli e malridotti. Al primo piano due ragazze adolescenti ballavano, dimenando i corpi seminudi e ancora acerbi in una goffa imitazione di sensualità, due vecchietti guardavano la televisione con un’espressione vuota e più da cadavere che da vivente, un omone pelato e tatuato sfogliava la sua copia di Playboy e un uomo e una donna, forse sposati, forse fidanzati, forse soltanto attratti l’uno dall’altra, facevano sesso. Non c’erano tende a nasconderli, le loro occupazioni erano perfettamente visibili a chi si fosse preso la briga di soffermarsi ad osservarli. Ma sinceramente nessuno con una vita degna di essere vissuta l’avrebbe sprecata in quel sudicio vicolo invaso dai rifiuti e dai gatti randagi, pervaso da quel tanfo particolare che Christine chiamava “puzza di miseria”, a spiare gli scarti dell’umanità che cercavano di ammazzare la noia e la depressione.
Nessuno, tranne lei.
Odiava fare ritorno al luogo in cui era nata e vissuta finché quell’inetto di Jonas le aveva fatto la grazia di trapiantarla dalla stalla alla stella, eppure non poteva farne a meno. In qualche modo aveva un legame, con quel purgatorio, legame che non era stato spezzato dal suo matrimonio, e sentiva il bisogno, soprattutto adesso che le cose si erano fatte tanto difficili, di sguazzare nella merda che l’aveva partorita, di ricordare a se stessa di essere migliore di Jesper e di quelli come lui, la cui fortuna era piovuta dal cielo, di essersela guadagnata con le unghie e con i denti, soffrendo, vendendosi, umiliandosi, strappandosi a forza a quella topaia gretta e maleodorante per “ascendere” al favolesco maniero che incombeva sopra alle misere casupole del paese, sovrastandolo dal promontorio a picco sul mare dove era stato edificato, forse proprio per ricordare ai comuni mortali quanta differenza ci fosse tra loro e i Lawrence. I Lawrence.
Meritate di essere schiacciati, distrutti tutti quanti!
C’era un abisso, tra quei condominii e il castello, e lei l’aveva oltrepassato. Se ne rendeva conto più che mai proprio in quei momenti, quando contemplava, accanto ad una fila sbilenca di cassonetti e avanzi di cibo cinese, i suoi “simili” che si crogiolavano nel loro marciume, scopando, masturbandosi, guardando quei programmi televisivi falsi e patinati o ascoltando la musica a tutto volume per non pensare, o accorgersi di quanto in basso si trovassero nella catena alimentare. Erano insetti, luridi scarafaggi che strisciavano frenetici in cerca di una via di fuga, e i Lawrence i giustizieri armati di DDT che potevano decidere chi far vivere e chi no.
Sua madre l’avevano eliminata senza la minima pietà. Era morta di overdose, certo, ma la droga era solo una conseguenza, il colpo di grazia glielo avevano vibrato loro. Un tempo, prima che lei nascesse, non era stata il miserabile rottame con cui Christine era vissuta fino ai tredici anni e a cui aveva retto la testa un’infinità di volte mentre si vomitava anche l’anima, accompagnandola sul divano e pulendo tutto. Un tempo era stata una ragazza vivace e bellissima, non quanto lei, che aveva ereditato il diabolico fascino di quei bastardi oltre alla naturale bellezza materna, ma abbastanza da far girare la testa a chiunque posasse gli occhi su di lei. Non c’era fiamma che ardesse quanto i suoi meravigliosi capelli, né ambra che scintillasse come i suoi occhi color miele.
Ma la bellezza è un’arma a doppio taglio, una rosa irta di spine nascoste, e aveva finito per essere la sua rovina. Un uomo avido, corrotto e affascinante aveva notato quello splendido fiore e aveva deciso di coglierlo, e sua madre, come ogni ragazza povera e di belle speranze, lo aveva riversato di tutti i suoi sogni e le sue aspettative, aveva visto in lui il fottuto Principe Azzurro sul cavallo bianco che l’avrebbe portata via dalla miseria, nel suo palazzo, come Richard Gere con Julia Roberts in quel polpettone fasullo, “Pretty woman”, e aveva subito aperto le gambe per lui. Christine non era mai riuscita a capire perché le fanciulle fossero così idiote e illuse, perché cazzo non si rendessero conto di una dinamica ormai divenuta un cliché.
Dopo essere stata deflorata e scopata ancora, e ancora, e ancora, dal bellissimo Principe Azzurro biondo con la fede nuziale al dito, che saliva da lei per una sveltina e spariva come uno spettro, per poi ricomparire dopo giorni, e a volte addirittura settimane, la ragazza piena di  fragili illusioni aveva finalmente cominciato a mettere in moto il cervello e gli aveva chiesto con più insistenza di lasciare la moglie, cosa che lui le aveva promesso spesso con tono distratto, accompagnando simili giuramenti a qualche “ti amo” che al principio l’aveva rabbonita, ma che ora non le bastava più. Il Principe Azzurro, a quel punto, anziché prendere tra le braccia la sua Cenerentola vestita di stracci e calarla sul nobile destriero in attesa fuori dalla finestra rotta del condominio fatiscente, si era rivestito dei suoi capi pregiati, era salito in sella e si era dileguato al galoppo in fretta e furia, lasciando la fanciulla sola e incinta e consapevole di averlo preso in quel posto.
Le aveva dato un nome fasullo, ma lei aveva capito chi era veramente, e il bello era che a quel punto non aveva neanche pensato di metterlo nei guai, di vendicarsi in qualche maniera! No, la povera, sedotta e abbandonata Liv Andersson aveva solo e solamente incolpato se stessa dell’accaduto, perché non era stata abbastanza bella, fascinosa e ubbidiente da indurre il Principe a scegliere lei anziché la moglie. Aveva pianto lacrime per il suo amato scomparso e aveva tenuto il bambino, una ben magra consolazione, abbandonandosi a piaceri più miserevoli di quelli che lui le aveva donato carezzandola e avvolgendola con le sue braccia scolpite: alcol ed eroina.
Christine non le aveva mai perdonato quell’arrendevolezza, quella mesta rassegnazione, quel disfacimento a cui era andata incontro per un uomo che l’aveva usata e gettata via, e di cui le parlava in toni estatici, ignara dell’odio che la figlia aveva lentamente coltivato per lui e per la sua famiglia, dell’acrimonia che era cresciuta in lei, una bastarda (forse nemmeno l’unica!) dimenticata e archiviata come un cattivo ricordo. Aveva assistito come una schiava fedele e sottomessa la carcassa in cui si era tramutata la bellissima fanciulla dai capelli di fiamma, lavorando al posto suo, accogliendo quelle merde degli uomini del quartiere in casa per farsi sbattere fin dagli undici anni e guadagnarci qualcosa, sotto i suoi occhi allucinati e strafatti che non parevano nemmeno rendersi conto di quel che succedeva, aveva reso la propria avvenenza il mezzo con cui sopravvivere, l’unico dono concessole dal padre desaparecido. Quando poi Liv era morta di overdose, aveva giurato a se stessa, durante il misero funerale, che l’avrebbe vendicata, che avrebbe venduto l’anima al diavolo pur di infliggere atroci sofferenze ed eterne torture alla genia che le aveva entrambe rovinate. Non si sarebbe accontentata di ucciderli, no, si sarebbe infiltrata tra di loro come una serpe, sondando il territorio, e li avrebbe dannati per sempre.
Dal primo all’ultimo. Nessun Lawrence, neanche il più ignorato, si sarebbe salvato. Non avrebbe avuto pietà, così come non l’aveva avuta Hugo Lawrence quando era svanito all’orizzonte, nel suo mondo perfetto. Non aveva parlato a nessuno della sua relazione adulterina con Liv Andersson, una delle tante che gli avevano scaldato il letto, dunque nessuno dei figli era a conoscenza di avere una sorellastra.
Aveva sedotto Jonas con ridicola facilità. Si era alleata con Jesper e ci aveva fatto sesso senza che lui sospettasse mai nulla. Ma alla fine avrebbero capito. Nella loro suprema boria, si sarebbero resi conto di aver fatto male i calcoli. Grazie al piano di Jesper, divenuto suo a tutti gli effetti, avrebbe potuto ritorcergli contro la sua stessa strategia e dare pace a se stessa e a sua madre.
Perché nessuno più di Liv meritava di avere salva l’anima.
“Scusi, signora, ha mica qualche spicciolo?”
Christine si volse, strappandosi a pensieri che si concedeva solo lì, dove tutto era cominciato. Un vecchio senzatetto con addosso una giacca composta da pezze di stoffa spaiate cucite insieme e guanti senza dita, la pelle vistosamente coperta di chiazze brune, rughe e cicatrici e il mento punteggiato di radi peletti bianchi, le si era accostato zoppicando, facendosi strada tra i rifiuti, e la guardava speranzoso, passandosi la lingua gonfia sui pochi denti rimasti.
Una terribile sensazione di deja vu la assalì.
“Ehi, Chris, me lo fai un pompino?”
“Ehi, Sven, te ne vai affanculo?”
“Che c’è, fai la preziosa?”
“Solo con chi non ha abbastanza soldi, Sven. E, tanto per mettere le cose in chiaro, non ho monete da darti”.
“E dai, neppure per una birra?”
“Neanche per idea”.
“Andrai all’inferno, Chris”.
“Allora ci vediamo lì”.
Era ridotto peggio di quanto ricordasse. All’epoca aveva una barba degna di questo nome e almeno quattro denti in più, e di quello sfogo violaceo sulla tempia non c’era traccia. Puzzava da far paura, un puzzo che in passato non le aveva mai dato alcun fastidio e che invece ora avvertiva con violenza, tanto da arretrare di diversi passi. Si strinse nella sua costosa pelliccia di visone, incassando la testa nelle spalle, e fu colta dall’improvvisa paura di essere riconosciuta, di dover fare i conti con quella parte della sua vita, quando era soltanto la sciacquetta Chris Andersson che la dava via a chiunque, la figlia della drogata, e non la signora Christine Lawrence, vedova del defunto Jonas Lawrence, suo marito e fratellastro.
Alla fine, un modo per acquisire il cognome che le spettava di diritto l’aveva trovato.
“Ce l’ha qualche spicciolo?” ripeté Sven, speranzoso: “Fa un freddo del diavolo, muoio dalla voglia di scaldarmi con una vodka”.
Christine fece una smorfia e aprì rabbiosamente la borsetta di marca con il cinturino d’oro, ansiosa di liberarsi di lui, di mandar via quello spettro indesiderato che pareva deciso a costringerla a ricordare. Mentre armeggiava con il suo fottuto portafoglio fatto a cartellina, con decine e decine di scomparti in cui teneva la carta di credito sua e del marito, le tessere dei vari club a cui si era iscritta con Jonas, il passaporto, la foto di sua madre, le banconote, Sven la scrutò attentamente, guardando sotto alla pelliccia, all’orologio con il cinturino di brillanti, al trucco impeccabile, e borbottò, cogitabondo: “Mica l’ho già vista da qualche parte, signora?”
La donna strinse le labbra e gli porse con gesto brusco una manciata di spiccioli: “No, credo proprio di no”.
Il vecchio si affrettò ad intascare il denaro, ma non smise di puntarle addosso quei suoi occhiacci rapaci: “Giurerei che è identica a…”
“Si sbaglia” lo ghiacciò Christine, freddandolo con un’occhiata al vetriolo delle sue, quelle che avevano sempre ammutolito quel coniglio di Jonas, rattrappendolo nella sua modesta persona. Sven levò le mani magre e chiazzate in segno di resa, ridacchiando: “Okay, okay, mi scusi. Le consiglio di tornare dalle sue parti, non è posto per una signora perbene come lei, gira brutta gente”.
Un velo di amarezza si dipinse sul viso algido e imperturbabile di Christine, mentre gli occhi blu si sollevavano a fissare l’appartamento in cui l’uomo e la donna, finito di fare sesso, si erano messi a litigare furiosamente, quello in cui erano vissute lei e sua madre: “Già…”
Forse poteva sembrare una signora, ma si sentiva ancora sporca sotto agli abiti pregiati, al trucco scintillante e ai gioielli. Solo il sangue dei Lawrence avrebbe lavato via la lordura. Voltò le spalle a quel vecchio fantasma del passato, i capelli rossi accuratamente raccolti sotto una coppola di pelliccia nera, il suo vero marchio distintivo, e raggiunse in fretta la Cadillac che la aspettava fuori dal vicolo, sul ciglio della strada. Oscar, l’autista personale dei Lawrence, si fumava una sigaretta appoggiato pigramente al cofano, ma appena la vide scattò quasi sull’attenti e la schiacciò sotto la suola della scarpa, aprendole la portiera: “P-prego, signora Lawrence”.
Christine sorrise, accomodandosi sui sedili di pelle dal profumo intenso. Jonas aveva sempre reputato quelle sue visite al quartiere malfamato del paese una bizzarria di cui non curarsi, un istinto nostalgico nella moglie.
E ora, grazie a Dio, marcisci in qualche terra straniera così come meriti.
Quasi era grata al mostro quartogenito del suo paparino per aver reso un favore al mondo levando dalla circolazione suo marito. Peccato che le avesse messo i bastoni tra le ruote, e che l’avrebbe ucciso per questo, insieme a tutti i parenti.
“Oscar” disse, imperiosa, togliendosi i guanti: “Riportami al maniero”.
“Subito, signora Lawrence”.
 
Un ratto grosso quanto un chihuahua, dall’ispido pelame nerastro e dagli scintillanti occhi rossi, passò correndo sopra al piede di Harriet e la ragazza non riuscì a trattenere un gridolino raccapricciato, indietreggiando scompostamente. La bestiaccia, con le zampette che ticchettavano appena sull’umido pavimento di pietra, si dileguò all’istante, lasciandola di nuovo sola.
Era già il terzo che si poneva sulla sua strada e ancora non aveva fatto l’abitudine alle apparizioni fulminee di quegli sporchi e rapidi abitatori delle tenebre. Si sfregò le braccia, ansimando, nel tentativo di limitare i violenti brividi che la squassavano fino al midollo, e sgranò gli occhi il più possibile nel buio denso, senza, tuttavia, riuscire a vedere oltre i lastroni bagnati su cui metteva i piedi. Udiva, in sottofondo, uno sgocciolio macabro ed esasperante, un plic plic plic che si rifrangeva dal soffitto alle pareti ricoperte di piante infestanti e chiazze di viscida materia verde, ma a parte il “verso” dell’umidità le sue orecchie non captavano altri rumori, e la consapevolezza che lui era, probabilmente, molto vicino, da qualche parte in quei sotterranei, dandole la caccia e covando propositi violenti nei suoi confronti, annientava brano a brano tutto il suo buonsenso, istillandole un panico acuto. Le sembrava che fosse ovunque, sopra, sotto e ai lati, quasi un tutt’uno con quel luogo sordido e marcio, e che tendesse artigli di ombra per ghermirla, che ad ogni angolo le sarebbe apparso davanti, punendola per ciò che gli aveva fatto.
Era andato tutto dannatamente storto.
Quando aveva approfittato del suo momento di debolezza per piantargli lo spazzolino nell’occhio, non aveva colpito con la solida intenzione di ferirlo e non era riuscita né a cavargli un bulbo, né tantomeno ad accecarlo, gli aveva soltanto causato un dolore che lo aveva indotto a crollare in ginocchio con le mani premute sul volto e la bocca spalancata in una voragine di denti e ferocia che vomitava ululati, maledizioni e grida. In preda al terrore, aveva evitato sia di vibrare un secondo colpo, sia di impadronirsi della candela e l’aveva scavalcato con un salto, muovendosi a tentoni nell’oscurità e trovando un’apertura nel muro grazie alla quale era uscita dalla sua cella, ritrovandosi, tuttavia, in un immenso, sconosciuto e tenebroso complesso di gallerie, tunnel e condotti in cui si era immersa totalmente a caso, mossa unicamente dal desiderio di allontanarsi il più possibile dal suo carceriere. I “Maledetta!” e i “Vipera!” che le aveva urlato con voce frantumata dalla furia omicida e dalla sofferenza le avevano messo le ali ai piedi e le erano penetrati nel corpo come un veleno letale, dandole un’idea piuttosto chiara di cosa avrebbe subìto, se fosse riuscito a riprenderla.
Correre però era difficile in quel posto, se non addirittura controproducente, ed era inciampata più volte sul suolo viscido e scivoloso, procurandosi lividi e graffi e imbrattandosi i vestiti puliti di chiazze verdi. Come se non bastasse, il buio le impediva di guardarsi attorno e procedeva con le mani tese dinnanzi a sé, a guisa di un sonnambulo, per evitare di cozzare contro i muri o di incontrare qualche oggetto, svoltando senza alcuna logica e sentendosi sempre più persa, spacciata e lontana dalla salvezza e dalla luce del sole. Aveva l’impressione di essere una pedina in un enorme percorso a ostacoli e di muovercisi a stento, mentre il suo rapitore rideva e la contemplava dall’alto come Jack in “Shining” con la riproduzione in miniatura del labirinto dell’Overlook Hotel, pronto a schiacciarla in qualsiasi momento. Se lo sentiva alle spalle, che la inseguiva sibilando tra i denti minacce e imprecazioni, ed aveva il terrore di essersi messa a girare in tondo e di finirgli a breve dritta in braccio. Eppure, nonostante tutto, non riusciva a pentirsi di aver provato a scappare. Un essere umano non poteva resistere in quelle condizioni.
A giudicare dalle dimensioni e dall’aspetto del luogo in cui era stata condotta, poteva dedurre che si trattasse di un impianto fognario in disuso, o di una catacomba (ma non c’era traccia di loculi), o dei sotterranei di un qualche castello antico. Forse proprio Lawrence Borg? Sarebbe stato fantastico crederci, ma era improbabile. Troppo scoperto, a suo parere. E poi l’isola di Gotland era famosa per i suoi edifici austeri, gotici e datati, chissà quanti manieri sul genere erano disseminati nei dintorni. Ora come ora, l’ipotesi del sotterraneo era la più plausibile. Non ne era sicura, giacché a malapena riusciva a camminare senza finire col sedere per terra, ma, costeggiando il muro con una mano, aveva incontrato il legno di alcune porte, molte delle quali con una piccola apertura in basso, tipica per farci scivolare del cibo, ed aveva pensato immediatamente a delle celle, e poi a scheletri incatenati, a fantasmi che si trascinavano dietro cigolanti catene e a sale delle torture.
Ma queste ultime fantasie erano più dovute al panico che ad altro.
In ogni caso, non aveva tempo di farsi una cultura o di capire per bene in che genere di posto quel bastardo l’avesse trascinata, di sicuro non ci aveva messo molto a riprendersi dalla “spazzolinata” e si era lanciato subito al suo inseguimento, avvantaggiato dalla vista soprannaturale, dalla conoscenza del luogo e da un modo di muoversi più fluido e silenzioso. Se non si sbrigava a trovare una via d’uscita, qualunque via d’uscita, si sarebbe ritrovata da capo a dodici, e ancora peggio di prima. Ma intorno a lei non cambiava niente, niente, lo sgocciolio monocorde accompagnava i suoi passi goffi e rumorosi, il puzzo di putrefazione, umidità e muffa non accennava minimamente a diminuire, i topi strisciavano dappertutto come se volessero farle dispetto e il buio le si premeva addosso come una coperta soffocante, permettendole di distinguere solo i muri, il soffitto e il pavimento, tutti uguali, in qualsiasi corridoio o tunnel svoltasse. Cambiavano solo le dimensioni: alcune gallerie erano tanto larghe da proiettare un’eco infinita, altre così strette da darle un senso di soffocamento e costringerla, in certi casi, a procedere chinata.
La frustrazione e la foga aumentavano, le probabilità di fuggire no.
Maledizione, maledizione!!
Faceva troppo rumore, mentre il suo carceriere era troppo silenzioso. A causa della sua impossibilità di vedere bene, calava i piedi a terra con pesantezza, per ancorarsi al suolo e sentirsi meno sospesa e in pericolo, e sbandava spesso, tenendosi rasente ai muri per svoltare quando occorreva. Per di più aveva gridato quando quello stupido ratto le era passato sul piede e l’eco aveva propagato lo strillo alla perfezione, facendolo arrivare senza dubbio alle orecchie di R. C’era solo da sperare che quella specie di labirinto sotterraneo fosse così intricato e ampio da confondere le sue tracce e rendergli arduo il compito di acciuffarla. Poi l’occhio doveva dolergli…non gliel’aveva cavato, d’accordo, ma per sanguinare aveva sanguinato…quindi aveva senz’altro reso la sua vista meno acuta!
Si fermò un attimo a riprendere fiato, ansando, con i capelli ancora umidi per il bagno che le si appiccicavano al volto madido. Intorno a lei, le tenebre, ma intuiva di avere il soffitto ben alto sopra la testa e il plic plic si era fatto più insistente, così come il fetore di vomito e decomposizione. Che cazzo aveva fatto per meritarsi questo? Bisognava arrendersi all’evidenza, non sarebbe mai riuscita ad uscire di lì senza che qualcuno le indicasse la strada, e aveva la sensazione che gridare aiuto avrebbe solo rivelato la sua posizione al mostro, senza attirare l’attenzione di possibili salvatori. Era finita dritta nel Tartaro, tra i topi e il marciume, e il resto dell’umanità incombeva sopra di lei, in quel mondo di luce, gioia e agio da cui R l’aveva brutalmente strappata. A ben pensarci, quei sotterranei rispecchiavano appieno la personalità del suo carceriere: putridi, corrotti e venefici come lui. A furia di costeggiare le pareti con la mano e di sbatterci contro, si era imbrattata tutta quanta della mucillaggine verdastra e i piedi nudi erano in condizioni pietose, sporchi, melmosi e graffiati. Il secondo topo l’aveva anche morsa sulla caviglia.
Ci mancherebbero solo il colera o la rabbia…
“Ragazza…”
Trasalì, con il cuore che le si fermava in petto e risaliva fino alla gola. La voce pacata e raschiante, talmente atona da mettere spavento, era echeggiata lungo le gallerie e nei muri come un veleno ed era arrivata fluttuando fino a lei, agghiacciandole le vene. Non sembrava molto vicina, ma se lo era abbastanza perché lei la udisse, allora il suo carceriere aveva coperto gran parte della distanza che aveva guadagnato.
“Sto venendo a prenderti, ragazza…” proseguì in un sibilo smorto, ben peggiore della rabbia di poco prima, il suo aguzzino: “Non puoi nasconderti qui dentro…”
Terrorizzata ma stranamente lucida, Harriet non fece nulla di avventato o di stupido come mettersi a correre o cacciare un urlo. Si appiattì al muro più vicino, ogni muscolo teso e fremente, e serrò le labbra per trattenere i respiri rotti e ansimanti sputati dai suoi polmoni ricolmi di bile, strisciando in avanti con la massima cautela nella direzione che reputava opposta a quella da cui era risuonata la voce.
“Non puoi uscire di qui, ragazza. Non puoi tornare nel tuo angolo di paradiso. Sta tranquilla, non ti farò niente. Dopotutto, sono un ottimo padrone di casa…ti terrò solo buona e tranquilla così non SCAPPERETE PIÙ, MALEDETTE!”
Sul finire della frase egli stava ringhiando, con rabbia autentica ma con un timbro vocale curiosamente spezzato, ed Harriet prese a strisciare lungo il muro con maggior foga, combattendo il terrore e l’ansia che le si agitavano dentro. Avrebbe voluto essere piccola e invisibile come il ragno appiccicato alla sua destra, un essere ignorato e lieto nella sua pace tutto intento a tessere la propria tela. Invece era grossa, grossa e ingombrante, e pur muovendosi con cautela produceva rumori che risultavano assordanti alle sue stesse orecchie. Non osava pensare all’eventualità di venire presa, se lo avesse fatto, i suoi nervi avrebbero ceduto.
“SONO STANCO DEI VOSTRI GIOCHETTI!” ruggì il suo aguzzino da un punto pericolosamente prossimo a quello dov’era lei, rabbioso come un animale ferito, sperduto come un bambino pieno di risentimento con una voragine nel petto, voragine che aveva potuto riempire solo di odio, solitudine e sete di vendetta: “SONO STANCO DI VOI!”
La ragazza girò l’angolo e il terreno le sfuggì da sotto ai piedi.
Gridò, mulinando le braccia come eliche nel disperato tentativo di mantenere l’equilibrio, ma non riuscì ad indietreggiare e sprofondò nel dislivello che, a causa dell’oscurità, non aveva notato, immergendosi fino alle ginocchia in un orrido liquame verdastro, dai torbidi arabeschi blu, gialli e bianco sporco, che scorreva lungo tutto il condotto che aveva sfortunatamente scelto, lambendo due muretti, uno alla sua sinistra, e l’altro alla sua destra, quello da cui era caduta, con un lugubre e osceno sciabordio. Il puzzo che quella roba emanava era rivoltante, e la sensazione di viscido che le trasmise così intensa da provocarle un conato di vomito.
Cazzo, cazzo, cazzo…
Provò a risalire sulla terraferma, ad aggrapparsi ai bordi di pietra e a tirarsi su, ma erano troppo in alto per lei e le sue dita non facevano presa, si contraevano invano e scivolavano sulle pietre umide. Si spezzò un’unghia, gemendo, e una risata agghiacciante riecheggiò tutt’intorno come lo sparo di un cannone.
“Sei finita in acqua, piccola sirena senza coda?”
Boccheggiando in preda al panico e impossibilitata di risalire sul pavimento, Harriet strinse i denti e avanzò lungo la galleria invasa dall’orrido liquame, odiandolo per come aveva ridotto le sue gambe ad un ammasso malsicuro e terribilmente lento; le imprigionava in una morsa molle ma fortissima, incollandosi alla stoffa dei jeans come i tentacoli di Alien alla faccia di John Hurt, e faceva una fatica tremenda a muoverle per spostarsi, combatteva strenuamente per allontanarsi da un mostro che a breve l’avrebbe ghermita. Le sembrava la scena di un horror di serie B, l’ambientazione era perfetta, anche se non era bionda, non aveva due enormi seni palpitanti e non indossava un abitino succinto. Il pazzo insegue la ragazza in un inquietante sotterraneo ed ella è priva di scampo…a breve sarebbe dovuto emergere ruggendo Killer Croc o una piovra gigante come quella che aveva tentato di utilizzare Johnny Depp in Ed Wood di Burton.
La ragazza sarebbe morta per mano del mostro acquatico o del maniaco psicopatico?
La tua segreta passione per l’horror e per i fumetti di Batman non ti salverà.
Perché diavolo si metteva a pensare a certe cose in quella situazione?! Era assurdo, assurdo!!
Via via che avanzava lungo il tunnel che pareva dilatarsi all’infinito davanti e dietro di lei, forse una delle arterie principali del complesso sotterraneo, il livello dell’acqua putrida si alzava, arpionandole prima tutte le gambe, poi la vita, come l’abbraccio avvolgente e umidiccio di un maniaco sessuale. Eppure non poteva fermarsi, non poteva tornare indietro, giacché sentiva chiaramente che il suo carceriere era entrato in quel tunnel e la inseguiva dal muretto, i passi agili e leggeri che procedevano sicuri sulla pietra mentre lei annaspava e arrancava in quella maleodorante prigione liquida.
“Ti sei forse chiusa in trappola?”
Stavolta la voce raschiante era vicina, troppo vicina, ma Harriet si impose di non voltarsi. Se l’avesse visto alle sue spalle, proprio come Orfeo aveva visto Euridice, il risultato sarebbe stato identico a quello del mito: una totale disfatta. Se non lo guardava, invece, poteva illudersi di avere ancora tempo, di avere una speranza, poteva imporsi di staccare i piedi dal suolo e continuare ad avanzare, che per una volta sarebbe stata premiata.
Il liquame le arrivava ormai a metà busto, tutto il suo corpo era lambito dal suo tocco viscoso e molliccio, e l’odore era talmente insopportabile da farle rigurgitare un misto di saliva e succhi gastrici, l’esiguo contenuto del suo stomaco vuoto, e ancora non intravedeva la fine di quella galleria, la cessazione delle sue sofferenze, di quella fuga umiliante e disperata.
“Non puoi venirne a capo, ragazza” sibilò il suo aguzzino: “Arrenditi!”
Era proprio dietro di lei, ma Harriet non si girò: “FOTTITI!” ruggì, le ciocche di capelli che iniziavano ad imbrattarsi di marciume e a spargerlo sul suo collo: “CHE CAZZO TI HO FATTO, EH?! COSA VUOI DA ME?!”
I passi agili e silenziosi rallentarono leggermente. La giovane, invece, seguitò ad andare avanti, ormai nuotando più che camminando, i vestiti si erano tramutati in un peso immane che la rallentava, la impacciava, la trascinava sotto. Sollevò la testa il più possibile, respirando a pieni polmoni quell’aria puzzolente che però aria era, e che tra poco sarebbe scivolata via in un luogo inaccessibile, e si disse che non avrebbe mollato. Preferiva morire annegata anziché finire nuovamente nelle mani di quel folle. Se era destino che non ce la facesse, perlomeno si sarebbe scelta da sola la propria fine. Certo non si sarebbe arresa agli altri. Non più.
“Fermati!”
Si stupì perché l’ordine che R le aveva lanciato conteneva una nota di panico, forse di cui lui stesso era inconsapevole, uno spavento inconscio che non era riuscito a nascondere. Sapeva che temeva solo per i propri propositi circa Jesper, che se avesse perso il suo prezioso ostaggio, non avrebbe più ottenuto ciò che desiderava…
…ma certo deve avere in programma di uccidermi, dato che Jesper non ha nessuna intenzione di…
…eppure non resistette e, con il liquame all’altezza del naso, lo fissò, fissò per appena qualche secondo i suoi occhi azzurri che brillavano nelle tenebre, uno meno del solito, proprio alla sua destra, e gli occhi azzurri ricambiarono lo sguardo. Le loro iridi rimasero impigliate per un lungo istate, poi quelle verdi di Harriet scomparvero sotto il livello dell’acqua, e andò sotto.
Non era come immergersi nel mare, o in un fiume. Piuttosto assomigliava allo sprofondare lentamente in una massa appiccicosa e contaminante di catrame, in una sostanza che la infettava e prendeva possesso di ogni parte di lei, penetrandole all’interno con mille propaggini acuminate e violandola, torturandola, smembrandola. Sentiva la putredine serrarsi attorno a lei, abbarbicarsi ai suoi capelli che più che ondeggiare divenivano più pesanti, bloccarle i muscoli e impedirle di tornare indietro, dove si poteva respirare, o risalire in superficie. Era troppo densa, troppo torbida, e non riusciva a vedere più nulla, neanche dilatando gli occhi al massimo. Sebbene non lottasse per sopravvivere, non voleva inghiottire quel marciume, consentendogli di terminare l’opera, e serrava le labbra più che mai, si teneva stretta la propria purezza, ma forse l’aveva già persa da tempo, forse suo padre aveva ragione, e in quel mondo non aveva senso custodirla, e faceva fatica a pensare con chiarezza, a ricordare cosa stesse facendo, o dove fosse. Immagini confuse e prive di senso le lampeggiavano davanti alle pupille e le convulsioni le scuotevano i muscoli ormai sfuggiti al suo controllo.
Più che annegare, stava soffocando nella putredine.
Una fine iniqua, disgustosa, umiliante. Ma inevitabile.
O forse no?
Qualcosa di duro e di terribilmente forte la agguantò all’improvviso per i fianchi, senza delicatezza, senza nessuna traccia della cura che si sarebbe aspettata dalla Morte che veniva a prenderla, ed espulse dai suoi polmoni che bruciavano e dolevamo da impazzire quel poco ossigeno che le rimaneva, facendole bere una sorsata abbondante e venefica di quel liquame. Le invase la gola, amaro, infetto, repellente, e tutto si dissolse in una marea di puntini bianchi, mentre la Morte, o chissà chi, la trascinava via a forza, trasportando quel corpo impazzito che si dimenava convulsamente negli ultimi spasmi e che non sentiva più proprio.
Il bastardo potrebbe sempre rapire Erin, ne sarebbe capace… fu il suo ultimo e sparuto pensiero.
 
La pugnalavano al petto. Con vigore. Con sadismo. Non si interrompevano neanche un minuto, i colpi si susseguivano ad un ritmo vertiginoso, ed erano uno più tremendo dell’altro. Facevano un male d’inferno.
Mugolò, un suono disarticolato e folle.
“Respira!” ruggiva una voce remota e lontana, che le riusciva in qualche modo familiare, ma che le provocava una sensazione sgradevole. Chiunque fosse, era una cattiva persona. E il suo comando non ammetteva repliche, ma i polmoni bruciavano troppo, la gola ardeva come se fosse foderata di carta vetrata, e le tenebre la chiamavano, spingevano per soffocare quei confusi barlumi di coscienza. Fino a poco tempo prima le aveva temute, ma ora erano dolci, erano invitanti, erano belle.
Un’altra pugnalata devastante le schiacciò i polmoni, rigirandosi ben bene nei muscoli inerti, e loro vomitarono a zampilli una disgustosa sostanza viscida che le fece bruciare il palato ancora di più. Tossì, consapevole delle lacrime di dolore che si mischiavano all’acqua sul suo viso. Faceva…così male.
“Respira, maledizione!” tornò a ringhiare la cattiva persona, con voce rabbiosa, frenetica e, in qualche modo, spaventata. Harriet provò l’impulso di consolare la cattiva persona, di sorriderle e dirle che sarebbe andato tutto bene. Un impulso…davvero strano.
La cattiva persona non sembrava saper bene cosa fare, come destreggiarsi, per cui, mossa da quella bizzarra ondata di compassione, cercò di aiutarla, di liberarsi i polmoni, anche se era difficile, tanto difficile, e l’acqua che rigurgitavano non sembrava finire mai.
“Ecco, sì…respira!” ansimò la cattiva persona con rinnovato vigore, colpendola di nuovo al petto. Il getto di liquido che le fuoriuscì dalla bocca fu copioso, la fitta di dolore anche. Avrebbe voluto dirgli di far piano. Ma le tenebre premevano ancora ai margini della sua coscienza.
Non poteva accogliere il loro invito, però. Non prima di aver scacciato la putredine.
“Forza!” la incitò la cattiva persona, sollevandola e colpendole, questa volta, la schiena. Harriet si piegò in due, tremando in modo incontrollabile, e vomitò ancora. Ma la gola e il petto facevano troppo male. Voleva dormire. Però doveva far capire alla cattiva persona che sarebbe andato tutto bene…
Socchiuse le palpebre, serrandole per scacciare il buio e le macchie scure che chiazzavano il suo campo visivo, e scorse un volto a pochi centimetri dal suo, stravolto e ansimante.
Il mostro alla fine l’aveva trovata davvero, proprio come in un film.
O forse era solo un’allucinazione.
Si abbandonò tra le sue braccia e perse conoscenza.
 
Angolo autrice: Bene, bene…eccomi qui con questa roba di cui non sono per niente soddisfatta…una roba che, per comodità, chiameremo capitolo. Confesso che è stata una bella sfida, non è filato liscio come il precedente, ma gli eventi erano più…diciamo influenti, ed ecco il risultato. Raphael ha salvato Harriet dall’annegamento, perché gli serviva, certo, ma inconsciamente si è preso una bella strizza quando l’ha vista affondare…una strizza diversa da quella di chi perde un ostaggio…e vedremo poi cosa succederà tra questi due : ) spero di non aver deluso, ma del resto, per adesso Raphael è ancora un nemico per la giovane, e non è ancora tempo che la difenda e che difenda se stesso dagli altri…per cui l’ha salvata dai “sotterranei”, diciamo così :’)
Quanto a Christine, è la figlia bastarda di Tywin Lann Hugo Lawrence ed è decisa a vendicarsi della famiglia che ha ripudiato lei e sua madre…quando Niglia ha paragonato lei e Jesper a Cersei e Jaime di Trono di Spade aveva ragione sotto un punto di vista perché sono fratellastri! Ma in che consiste il loro piano? Perché gli serve Harriet? A proposito, secondo voi lascio raiting arancione o lo metto rosso per temi come l’incesto? Secondo me arancione basta, ma non voglio turbare nessuno : )
Nel prossimo chapter entreranno in scena Berg ed Erin e avremo un po’ di Harriet/Raphael (secondo voi come coppia come li si potrebbe abbreviare?) anche se in minor quantità. Ringrazio infinitamente Niglia, Homicidal Maniac e Beauty che con il loro sostegno, disponibilità e gentilezza illuminano le mie giornate <3      
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Questo è il FANTASTICO disegno che Homicidal Maniac ha fatto di Raphael  *_* quando l'ho visto sono andata in brodo di giuggiole!  Grazie ancora, carissima <3 per lunedì dovrebbe arrivare l'altro racconto su Bunny, scusa il mostruoso ritardo!

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Capitolo 9
*** Capitolo 10 ***


Capitolo 10
 

 
 
 
 
“Signor Jesper, dov’è mia sorella?”
Jesper osservò la ragazzina che lo fissava con grandi occhi nocciola e con un pallore ansioso sul volto paffuto e incorniciato dai capelli allisciati ad arte e serrò i pugni dietro la schiena, imponendosi di non lasciar trapelare nulla del tormento che gli si agitava dentro come un serpente inquieto dal suo timbro vocale: “È partita. Un piccolo viaggio prima del matrimonio. Da quell’amica londinese, pare. Dovrebbe tornare tra quindici giorni”.
Hannah sbatté le palpebre e lo fissò, l’incomprensione stampata a chiare lettere sulla fronte. L’assenza di Harriet, per lei, non aveva senso, giacché non l’aveva mai lasciata sola ed era dunque impossibile che lo avesse fatto adesso. Un profondo fastidio si impossessò del giovane Lawrence di fronte al suo sguardo scettico e spaventato; non la biasimava, lui stesso non avrebbe creduto con facilità ad una spiegazione così traballante, ma i problemi che lo opprimevano erano così tanti, che non poteva certo dedicare la sua attenzione a quella ragazzina idiota. Sua madre si era rivelata assai più malleabile al convincimento, tanto stupida e cieca da pensare che se lui non era in ansia per la promessa sposa, non c’era assolutamente niente da temere. Era il tipo di donna che cerca di crearsi meno problemi possibili.
Lo stesso non si poteva dire di Hannah Ullmann.
“Ma…” obiettò, esitante, intimorita da lui, nonostante tutto: “…non è possibile! V-voglio dire…se fosse partita, avrebbe…avvertito, lasciato almeno un biglietto…lei non è…”
Jesper iniziò a perdere la pazienza. Non era abituato a trattare con gli adolescenti, a far fronte alle loro domande supponenti e indisponenti, e soprattutto non era pronto a sostenere un interrogatorio su Harriet…che era scomparsa ormai da due giorni e la cui assenza era stata ovviamente notata…come se non fosse già abbastanza terribile dover convivere con la consapevolezza che il pazzo che si proclamava suo fratello l’aveva rapita, conducendola in un nascondiglio segreto, per ricattarlo e pretendere un pagamento impossibile…riconoscerlo come Lawrence sarebbe stata la rovina sociale della sua famiglia…e che se non avesse preso una decisione in merito in tempo, i suoi piani, la sua redenzione sarebbero andati in frantumi, e avrebbe perso la sua unica occasione di rimediare agli errori del passato. Quel mostro maledetto lo aveva rovinato, rovinato…colpendolo proprio laddove era più vulnerabile…e quel bastardo di Berg era un vero osso duro, Christine stava ancora tentando di convincerlo a braccare Raphael. Purtroppo, il vecchio era la loro unica speranza di risolvere la faccenda senza riesumare i peccati dei Lawrence e senza perdere Harriet e ciò che rappresentava. Poiché Jesper non poteva cedere al ricatto, ma neanche lasciare che la sua fidanzata morisse. Era in un vicolo cieco. E la tensione, la paura, l’odio rischiavano di uccidere la sua mente fredda e lucida e di fargli commettere imprudenze.
In quel momento, avrebbe volentieri fatto sparire tanto la madre quanto la sorellina di Harriet, ma Christine gli aveva consigliato cautela. La situazione era estremamente delicata, e un solo passo falso avrebbe potuto distruggere il fragile castello di carte che avevano costruito con tanta cura. Già era scomparsa una Ullmann, se anche le altre due si fossero dileguate, Lawrence Borg si sarebbe riempito di poliziotti, investigatori, curiosi. E tutti i segreti che suo padre aveva custodito gelosamente nel castello sarebbero venuti alla luce. No, non l’avrebbe permesso; al di là del suo coinvolgimento personale nella questione, aveva un rispetto profondissimo per il genitore deceduto e per la nomea irreprensibile della sua famiglia e non li avrebbe infangati, mai e poi mai. Forse era persino disposto a…se Berg non avesse scoperto il nascondiglio del mostro in tempo…lasciare che Harriet…
Gliel’avrebbe fatta pagare. Avrebbe inflitto a quell’essere ogni singola stilla di sofferenza che gli stava causando adesso. Non gli era bastato mettere Ursula contro di lui, frantumare il suo unico desiderio puro e semplice, quell’amore che lo aveva fatto sentire se stesso, più di qualsiasi altra cosa…no, aveva dovuto colpirlo una seconda volta, e sempre nello stesso punto, devastargli la vita e schiacciarlo per puro sadismo, per insensata brama vendicativa, per cattiveria intrinseca…suo padre e Viktor avevano ragione, i mostri vanno eliminati, soppressi, giacché infettano il mondo con la loro presenza e sono malvagi per natura. E lui lo avrebbe neutralizzato, avrebbe vaporizzato quella piaga umana e l’avrebbe ricacciata nella putrida fossa da cui proveniva e dove era giusto che stesse…come si era permessa di rivendicare il proprio ruolo in un mondo che non le apparteneva?! Come aveva potuto pretendere di essere degna del proprio cognome?
Di una sola cosa rimproverava suo padre: non averlo ucciso quando ne aveva la possibilità. Era stato troppo morbido con quella cosa.
“Ehm…signor Jesper?” lo chiamò Hannah, esitante, ma determinata a saperne di più.
“Cosa vuoi che ti dica?!” gli uscì un tono più seccato di quanto avesse voluto: “Harriet è partita per Londra, tutto qui. Si sa che il periodo prima delle nozze è strano, avrà voluto starsene un po’ da sola, tagliare i contatti…credi che sappia come funziona il suo cervello? Che motivo avrei per mentirti, sentiamo un po’?”
La ragazzina trattenne il respiro e arretrò di qualche passo, le guance spruzzate di una vampata scarlatta. Negli occhi le passò uno scintillio fugace, colmo di rancore, prima che girasse sui tacchi e abbandonasse il salotto nel quale avevano conversato a grandi passi. Jesper udì la porta che sbatteva e si lasciò cadere su una poltrona di velluto cremisi come un peso morto, sprofondandoci e fissando con i bulbi oculari lucidi e arrossati le braci nerastre nel camino spento. La sua non era stata una grande mossa. Quella mocciosa si era senz’altro insospettita. Avrebbe cominciato ad indagare, fare domande, e lo avrebbe messo in una posizione scomoda, lo avrebbe costretto a giustificarsi…perché non se ne poteva stare buona in un cantuccio?! Perché gli esseri umani sapevano essere così irritanti? Perché era tutto così maledettamente complicato? Le cose non potevano andare per il verso giusto almeno una volta? Aveva sempre giudicato le dicerie circa una maledizione che opprimeva la famiglia Lawrence fandonie superstiziose, ma iniziava ad esserne meno sicuro. Forse la sua famiglia era realmente perseguitata dalla malasorte.
Solo ora mi sono accorta di essermi sbagliata, di essermi legata al membro di una famiglia di mostri. E non resterò vincolata ad un mostro solo in nome di ciò che è stato, al fratello di un assassino!”
Rilasciò un gemito di pura frustrazione e afferrò, in un moto di furia incontrollata, il delicato orologio di porcellana bianca a fiori della sua compianta madre, ordinatamente riposto sulla mensola sopra al camino, scagliandolo contro ad uno dei muri intarsiati. Andò in mille pezzi con un rumore stridente e i fragili pezzi diafani si sparsero sul pregiato parquet, assieme a qualche rotella e ad una delle lancette. Distruggere quel cimelio di famiglia lo fece sentire stranamente più padrone della situazione, meno in balia degli orrori e del marciume che si nascondevano negli oscuri recessi del maniero. Per la prima volta in tutta la sua esistenza, non avrebbe voluto essere un Lawrence. Se non lo fosse stato, nessun folle mostruoso gli avrebbe strappato i parenti scannandoli a sangue freddo e Ursula non avrebbe mai avuto motivo di lasciarlo, di prendere le distanze da lui e dall’oscurità che si portava dietro, non l’avrebbe mai obbligato a…
“Cos’è, ci diamo al lancio degli oggetti pregiati?”
Grugnì e levò sulla figura comparsa sulla soglia uno sguardo cupo e alquanto poco ospitale. Non era proprio in vena di gestire una conversazione con quella puttana di Christine. Gli era utile, molto utile, perché era indubbiamente una donna intelligente e pratica, ma non aveva nulla dell’arrendevolezza e della docilità di Harriet e di sua madre Ingrid e spesso e volentieri riusciva a tenergli testa e a rivendicare un ruolo di dominanza che non le apparteneva. E poi aveva bisogno di stare da solo, di isolarsi con i propri demoni e consumarsi nella rabbia repressa e nell’atarassia più totale.
Ma lei non era dello stesso avviso.
Si chiuse la porta alle spalle, di modo che non potessero essere uditi, e si tolse di dosso la voluminosa pelliccia di visone nero che Jonas le aveva regalato circa due anni prima, appoggiandola su un divano insieme alla borsa di pelle. Le guance e il naso arrossati dal freddo e i capelli fulvi leggermente arruffati testimoniavano che doveva essere appena rientrata a Lawrence Borg. Esaminò i frammenti di porcellana disseminati a terra e increspò le labbra in una smorfietta di divertimento ed esasperazione: “Non ho mai capito cosa ci troviate voi uomini di tanto catartico nel rompere gli oggetti. Molto passionale, senza dubbio, ma fin troppo teatrale, non credi?”
Jesper conficcò le unghie nei braccioli della poltrona: “Lasciami stare, Christine”.
Lei sollevò un sopracciglio: “Ho visto la cicciona vegetariana andar via di qui a passo di carica. Sembrava molto sconvolta. Non ti avevo raccomandato di andarci cauto? È già abbastanza seccante dover placare quelle due con una bugia raffazzonata e inventata su due piedi, ora dai loro anche motivo di sospettare di noi?”
Jesper si sentì punto sul vivo. Non avrebbe accettato una ramanzina, meno che mai da quella sgualdrina arricchita che aveva fatto fesso suo fratello per avere il suo denaro: “Non ho tempo da perdere dietro a quelle donne”.
“Ragioni come un bambino” sibilò la sua interlocutrice, sprezzante: “Se scoprono di quel mostro, sai bene che chiameranno qualcuno per indagare e che verranno alla luce cose che non devono venire alla luce. È importante riuscire a convincerle che è tutto sotto controllo”.
Il giovane ebbe uno scatto della testa, come se una zanzara lo avesse punto dritto nell’orecchio. Lei aveva ragione. Era questo che più di tutto lo mandava in bestia. Si stava comportando in modo nient’affatto intelligente, e rischiava di dare a Raphael esattamente quello che voleva. Non si sarebbe permesso di cadere tanto in basso da invidiare Christine e la sua freddezza lucida e calcolatrice, ma se andava avanti così, l’esistenza del figlio più piccolo non sarebbe rimasta segreta ancora a lungo.
“Ti sembra facile?” bisbigliò furiosamente, drizzandosi in piedi e misurando il salotto avanti e indietro: “Far finta che una persona sia partita per un viaggio così come un fulmine a ciel sereno, senza avvertire né salutare nessuno, senza una nota di commiato, mettendo a parte del suo progetto solo me?! Le Ullmann sono due idiote, ma non fino a questo punto”.
Christine sedette in bilico sulla spalliera del divano, accavallando le gambe inguainate in lunghi stivali di pelle, e si aprì una bottiglietta di birra che Jesper non aveva notato, bevendone un sorso generoso: “Non ho detto che sia facile, infatti” disse dopo aver deglutito: “Ma non abbiamo altra scelta. Finché Harriet non salta fuori, bisogna coprire la sua assenza. Comunque ho fatto in modo che la sua valigia, i suoi effetti personali e alcuni dei suoi vestiti sparissero e mi sono messa in contatto con certi amici di famiglia. Il suo nome figurerà tra i passeggeri del volo per Londra di due giorni fa. Questo dovrebbe essere un fattore convincente, per le ciccione”.
Il secondogenito di Hugo non disse nulla. Non voleva ammettere di essere rimasto colpito dallo spirito di organizzazione della sua alleata. Pochi, in una situazione simile, sarebbero stati capaci di agire con la prontezza e l’acume da lei dimostrati. Era stata più astuta di lui…e dato che finora l’aveva sempre in qualche modo sottovalutata, perché era una donna, perché proveniva da un ambiente degradante, perché sembravano interessarle solo l’alcol e i soldi, la consapevolezza di aver emesso un giudizio affrettato gli lasciò un sapore amaro in bocca. Non aveva mai reputato Christine pericolosa, era stato sicuro di poterla tenere al guinzaglio senza problemi…ora, dinnanzi al luccichio dei suoi occhi, si ritrovò a temerla per la prima volta.
“Bene” borbottò, in un tono che poteva voler dire tutto o niente.
Se anche lei si era accorta del suo stato d’animo, non lo diede a vedere: “E porto buone notizie” proseguì con falsa noncuranza, rimirandosi le unghie smaltate.
Un barlume di speranza si accese nel petto di Jesper e per la prima volta si protese verso di lei, sinceramente interessato a quanto diceva: “Quali?”
“Berg” la donna pronunciò il nome dell’antico istitutore dei ragazzi Lawrence arricciando le labbra in una maniera che rendeva più che mai palesi i suoi sentimenti verso il soggetto: “Sono passata alla pensione in cui alloggia. Si è convinto a lavorare per noi…beh, ovviamente a patto di non consegnarci Raphael, ma ci siamo già messi d’accordo al riguardo”.
In effetti, era una notizia decisamente positiva. Aveva ostentato sicurezza con la sua alleata e si era dichiarato certo che l’uomo avrebbe infine acconsentito ad aiutarli, ma in un angolo di se stesso non aveva mai deposto la paura di ricevere un rifiuto. Berg era un individuo imprevedibile, con una severa e inossidabile concezione di giustizia, ed era sempre difficile prevedere cosa pensasse e cosa volesse…ora che lo avevano dalla loro parte, forse c’erano speranze di mettere nel sacco il mostro e strappargli Harriet. La prospettiva più rosea che si potesse verificare.
“Probabilmente” disse tra i denti: “Si sarà convinto quando ha saputo del rapimento della mia fidanzata…”
“Esatto” rispose Christine: “Tutto sommato penso che sia un sentimentale. Ha chiesto assoluta libertà di movimento nel castello e facoltà di entrare e uscire a suo piacimento, e agli orari che più ritiene giusti. Gliel’ho concessa, ma…”
“Hai fatto bene. Abbiamo bisogno di lui, in fin dei conti. Non sarà un problema mettergli qualcuno alle calcagna” si soffermò un attimo, pensieroso, poi la guardò: “C’è quell’anziana cameriera…quella Eva…lei ha visto cos’è successo…potrebbe parlarne in giro…”
Un sorriso complice e quasi giocoso si allargò sul volto di Christine, le sue iridi bluastre diedero in un guizzo vibrante: “Non hai saputo, quindi!” sospirò: “La poveretta è morta questa mattina. Proprio mentre faceva colazione. Il cuore ha ceduto. Del resto, era parecchio decrepita…ma solo una domestica senza famiglia, nessuno se ne rincrescerà troppo”.
Jesper sussultò internamente, stupefatto suo malgrado. Si era liberata di Eva…senza neppure consultarlo, chiedere se era d’accordo, discuterne con lui! Aveva giocato con la vita e con la morte dei suoi dipendenti e se ne gloriava con quell’aria di divertita sufficienza, come se fossero bambole e lei una bambina bramosa di manovrarle…la vecchia era ormai un fardello inutile, e per giunta aveva lasciato che Harriet venisse rapita senza muovere un dito, ma Christine non aveva nessun diritto di ammazzarla e prendere certe decisioni da sola.
“Che cosa hai fatto?!” ruggì: “Dici a me di andarci cauto?!”
Lei lo osservò sbattendo le palpebre, piena di incomprensione almeno apparente: “Perché te la prendi? Aveva ottanta e rotti anni, è normale che…”
“Non farmi ridere, Christine! So che cosa…”
Con un unico, fluido movimento, la donna si portò davanti a lui e gli chiuse le labbra con un dito, mettendolo a tacere: “La vecchia è morta di morte naturale, Jesper” sentenziò come se fosse una verità universalmente riconosciuta, fissandolo intensamente negli occhi: “È così che è andata. E non vogliamo essere noi stessi a seminare sospetti, spero”.
Lui serrò i pugni. Avrebbe voluto schiaffeggiarla, con forza, e farle abbassare la testa, toglierle dalla faccia il sorrisetto di vittoria. Ma ancora una volta, quella troia aveva ragione, non poteva attirare l’attenzione. E oltretutto, lei gli serviva. Era uno strumento troppo utile per sacrificarlo.
“Non puoi prenderti certe libertà” soffiò, riducendo gli occhi a fessure.
Christine gettò indietro la testa con spregiudicatezza: “Finora abbiamo agito a modo tuo, Jesper. E si sono visti i risultati. Ho intenzione di prendere parte attiva al piano. E di rivoluzionare le cose” gli offrì un sorriso duro come l’acciaio: “Suvvia, tesoro, non è il caso di rabbuiarsi così. Abbi fiducia, per una buona volta. I nostri interessi sono gli stessi, lo sai bene. Quello che faccio, lo faccio per entrambi” alzandosi in punta di piedi, gli sussurrò all’orecchio, in un refolo di fiato caldo che gli fece correre un brivido lungo la schiena: “Quel mostro morirà. Te lo prometto”.
Il giovane si scostò, fissandola: “Non provi mai” esitò, temendo che lei potesse leggergli nelle pupille il ricordo di Ursula: “Un po’ di…rimorso?”
Il viso di sua cognata sembrò perdere ogni emozione: “No” replicò, neutra: “Per arrivare dove sono arrivata, è d’intralcio e basta”.
 
Harriet sognava un ricordo dimenticato, nelle profondità della terra fredda e inospitale, prigioniera del buio e di un mostro vendicativo e crudele di cui tuttora ignorava i piani. Un ricordo che scaturiva da un passato lontano, tratto fuori dall’oblio dalla sua sventurata condizione, forse, o dalla paura che era divenuta una presenza fissa accanto a lei, un mostriciattolo rachitico e maligno appollaiato sulla sua spalla, con gli artigli tenacemente piantati nei suoi riccioli e gli occhi baluginanti nelle tenebre, che non le dava mai tregua ed era sempre pronto a bisbigliarle parole oscene nell’orecchio.
Nel suo sogno, o reminiscenza, o qualsiasi cosa fosse, si trovava a letto, nella sua antica casa, e il sonno dolce e innocente proprio dei bambini tardava ad avvolgerla, mentre si crogiolava beatamente sotto il tepore delle coperte. Anche se in realtà non era più una bambina, come tutti le ripetevano, aveva già quattordici anni. Ma le piaceva pensare di esserlo. Era bello immaginare di vivere ancora il periodo d’oro di quando era piccola. C’era un’immagine che, fissa nella sua memoria, le provocava una sensazione di pace, di felicità ormai passata per sempre. Nella fotografia che le era rimasta stampata nella mente era raffigurato un uomo bellissimo e fiero, nobile d’aspetto, con gli occhi che parevano sprigionare luce propria e le labbra sempre pronte a sorriderle con calore e gentilezza. Suo padre quando ancora tutto andava bene, quando lei era la sua piccola principessa e non mancava di portarle regali, prendendola tra le braccia e baciandola su tutta la faccia con la sua bocca morbida. Allora, forse, alcune volte, aveva colto, dietro al suo atteggiamento gioviale e radioso, un’indecifrabile angoscia mista ad un’ansia che, dalla bambina quale era, non si era potuta spiegare, ma non si era mai soffermata a pensarci più di tanto, aveva preso ciò che il genitore le aveva dato e ne aveva fatto tesoro.
Ma ora lo vedeva diversamente, dal punto di vista di una ragazzina di quattordici anni, e capiva che già allora c’erano state avvisaglie di ciò che sarebbe diventato, della voragine di disperazione in cui sarebbe sprofondato, facendosi sempre più apatico, assente e morto, come se abitasse un altro mondo e nel suo nuovo mondo non ci fosse spazio per nessuno, tantomeno per lei o per Hannah. Eppure lo amava e lo apprezzava ancora di più per gli sforzi compiuti quando era piccola. Quell’uomo così sconsolato era riuscito a mettere da parte il proprio dolore per lei, sua figlia, tanto da far apparire alla bambina quei momenti come i migliori della sua intera vita. Inoltre, quando rievocava i ricordi, scopriva di provare un amore indicibilmente forte per lui, tanto forte da resistere per anni e anni senza perdere la propria intensità. In fin dei conti erano passati quasi quattro anni da quando era caduto in depressione, e ancora non si era arresa a lasciarlo consumarsi e smarrirsi definitivamente nelle tenebre.
Quanto a sua madre, le voleva bene, ma era un affetto diverso, come dovuto, non le scaturiva dal fondo dell’anima per riscaldarle a fiotti il petto. Era un affetto freddo, insensibile, l’affetto che una figlia deve provare per colei che l’ha messa al mondo, come l’attaccamento di una gatta per i suoi micetti, abbandonati malamente appena giunge l’età in cui non hanno più necessità delle cure materne. Le dispiaceva pensarlo, ma sarebbe stato inutile fingere il contrario. Del resto, quella freddezza era reciproca: Lisbeth era troppo opportunista e presa da se stessa per dedicarsi a lei (o al marito) e quello che più temeva era che la depressione di quest’ultimo li avrebbe fatti finire tutti per strada, non si preoccupava per la salute di lui. A volte, Harriet sentiva di odiarla.
E ora se ne rimaneva a letto senza riuscire a prendere sonno, rigirandosi tra le coperte, sempre più inquieta, sapendo che sua madre era andata a cena con alcune amiche, Hannah a dormire dalla compagna di classe Fanny, e che dunque lei e suo padre erano completamente soli in casa, divisi dalla parete che separava le loro camere da letto. Lui non usciva mai dalla propria, rimaneva tutto il giorno a letto con le serrande abbassate, stordito dai tranquillanti o intento a leggere libri su libri, e non l’aveva fatto neanche quella sera, anche se Harriet l’aveva tanto sperato. In effetti, il fatto che Lisbeth e Hannah fossero assenti l’aveva portata a pensare che forse sarebbe uscito dal proprio isolamento, per lei, perché condividevano un’intesa speciale ed era sempre stata la sua preferita. Ma naturalmente, una patetica ragazzina non poteva certo spingere un uomo gravemente depresso ad emergere dalla sua tana. Era stata una stupida a partorire certe puerili speranze. Alle ventidue e trenta si era decisa finalmente a mangiare sola in cucina la cena che sua madre le aveva lasciato, ormai fredda, e poi si era coricata, colta da un’insensata e bruciante rabbia, per se stessa, per suo padre, per tutti quanti.
Per questo lasciava che i ricordi dell’infanzia affiorassero così liberamente, a mille a mille, senza porre loro alcun freno, e per questo non riusciva ad addormentarsi, a sgombrare la mente abbastanza da scivolare nel dolce oblio del sonno.
Un fruscio inatteso, appena fuori dalla porta, interruppe i suoi pensieri bruscamente. Si mise a sedere, spaventata.
Chi poteva essere a quell’ora? Sicuramente non sua madre, dato che non aveva sentito aprirsi la porta d’ingresso. Ma del resto non aveva nemmeno udito suo padre lasciare la propria stanza, ed era assolutamente impossibile che fosse lui il visitatore (non veniva più a darle la buonanotte da quattro anni, e sarebbe stato insensato farlo quando si presumeva che lei dormisse da un pezzo). Ma in questo caso sull’uscio di camera sua c’era qualcuno che voleva farle del male, un ladro forse!
Non aveva motivi validi per pensarlo, ma avvertiva un senso di pericolo, di minaccia, che la schiacciava al suolo come un macigno, e sapeva, sentiva che la presenza fuori dalla sua camera era ostile. Pensò di urlare e chiamare aiuto, ma si rese conto di essere impietrita dalla paura. Non si era mai trovata in una situazione del genere, e non aveva idea di come comportarsi. Doveva trovare un’arma? Nascondersi?! Piantarla di porsi sciocche domande e agire prima che fosse troppo tardi?
La maniglia si abbassò lentamente e la porta iniziò ad aprirsi, cigolando. La ragazza era al colmo del terrore e non aveva il coraggio di muovere un muscolo. Il cuore le batteva nel petto ad una velocità spaventosa, le sembrava di avere nel torace l’organo di un’altra persona, tanto questo si dibatteva. Come un animale selvaggio chiuso in una gabbia, che non vede l’ora di uscire e stupidamente si dimena con foga nelle pareti della sua prigione, cercando uno spiraglio di salvezza.
La porta si spalancò del tutto e la luce del corridoio la investì in pieno. Poteva vedere chiaramente ogni cosa attorno a lei, tranne la figura in piedi sulla soglia, che risultava essere totalmente in ombra. La tensione aveva raggiunto il massimo, il suo animo era talmente pieno di angoscia che neppure la più piccola idea riusciva ad intrufolarvisi saltellando da qualche luogo recondito della sua mente. Aveva voglia di gridare, di afferrare il primo oggetto che le fosse capitato a tiro e tirarlo contro quella creatura ignota che voleva sorprenderla nella vulnerabilità del sonno.
Poi questa parlò, e la sua voce smorta, atona e familiare le entrò nel corpo raggelato, riscaldandolo, come una sorta di antidoto ad un orribile veleno mortale che la stava lentamente pietrificando.
“Cosa ne sarebbe di te se ti lasciassi andare? Non posso vederti soffrire. Preferisco separarmi da te, per sempre, piuttosto che vederti in preda ai tormenti”.
“Papà!” sussurrò Harriet, stupita e lieta insieme, scostando impetuosamente le coperte e fissando l’uomo in piedi sulla soglia che aveva parlato come se avessero già avviato una conversazione, o come se piuttosto si fosse impigliato, poco prima, in un ragionamento contorto cui aveva dato voce solo adesso, in sua presenza. Il cuore, che si era placato un attimo quando aveva riconosciuto la voce del genitore, riprese a batterle forte, ma certo non per il terrore, bensì per un’improvvisa ondata di felicità ed emozione: era tantissimo tempo che non discorreva più a tu per tu con lui e quasi non riusciva a credere che fosse venuto nella sua camera. Poco importava che lo avesse fatto a mezzanotte e che si fosse messo a bofonchiare tra sé.
Mosse a tentoni la mano in cerca dell’interruttore della sua abat-jour: “Papà, cosa…”
Lui non si spostò dalla sua posizione e riprese a mormorare in tono monocorde e incessante come se non l’avesse udita: “Io lo so cosa vuol dire, soffrire. Lo so. E alla sofferenza è preferibile qualsiasi cosa, persino una morte rapida e indolore. Il nulla è così confortante…magari non sarai felice, ma non soffrirai neppure, nessuno ti procurerà cambiamenti d’umore”.
Harriet trovò finalmente l’interruttore e lo premette. La luce della lampada si accese, spandendo un fioco e dorato bagliore nella sua stanza, e si riflesse sul volto di suo padre, palesandoglielo.
Qualcosa non andava.
Era in pigiama, con la vestaglia abbottonata storta, i capelli arruffati e la barba vecchia di alcuni giorni, e puzzava di letto e di abiti non lavati. Il viso era emaciato, pallido e spettrale nella penombra, e non lasciava trapelare alcuna emozione, sembrava una specie di maschera votiva, di totem impassibile e solenne. Gli occhi la fissavano, riflettendola nelle pupille dilatate, e avevano uno sguardo allucinato e fisso, sconvolto dai tranquillanti e da qualcosa di diverso, di inspiegabile, che le fece scorrere un brivido lungo la schiena e la portò a stringersi nelle coperte, come se potessero davvero offrirle protezione. La guardavano, ma sembravano, nel contempo, non vederla. Avvertì in bocca un sapore dolciastro, sgradevole, pungente: “Papà” ripeté, inquieta: “Che stai dicendo? Perché non sei a letto?”
Se anche le sue parole lo raggiunsero, non diede segno di averle assimilate: “Io ci ho provato, a vivere” sussurrò, apatico: “Te lo giuro, ci ho provato tanto. Ma è tutto inutile. Le cose non vanno mai per il verso giusto. Per quanto uno ci provi, sono solo i malvagi a vincere. E, capisci, non posso permettere che tu subisca quello che ho subìto io”.
Sembrava quasi che non si stesse rivolgendo a lei, ma al nulla.
La paura che aveva provato al principio si rifece avanti, malevola, stringendole il cuore come una mano dotata di artigli, e si sforzò di ricacciarla indietro, perché quello era suo padre, accidenti, il padre che amava più della sua stessa vita, e non poteva temerlo!
“Papà” ribadì per la quarta volta; sentiva come se pronunciando il suo titolo, ciò che significava per lei, avrebbe potuto strappargli quella disperata apatia e riportare indietro il Ludwig Ullmann che aveva conosciuto da piccola: “Papà, che stai dicendo?”
Quando lui levò gli occhi a guardarla, erano pieni di lacrime, gocce argentee sulle sue guance cispose e scarne: “Fa tanto male, Harriet” sussurrò, straziato, vacillando appena; vide che nascondeva qualcosa dietro la schiena: “Non ci riesco, a sopportarlo. Tu mi capisci, non è così?”
“Sì” bisbigliò, ammutolita. Una parola che le uscì meccanicamente.
“Ne ero sicuro” la bocca di lui si allargò in un sorriso grottesco, inquietante, una smorfia ilare che otteneva l’effetto di renderlo ancora più disperato e insano: “Tu sei proprio come me. Ingenua…pura…” si rabbuiò: “E il mondo i puri li distrugge. Li fa a brandelli, pezzo per pezzo, lentamente, finché di loro non resta nulla, a parte l’agonia. Ti schiaccerà come ha fatto con me, io lo so, lo so bene. E non lo riesco a sopportare. Capisci?! NON LO RIESCO A SOPPORTARE!”
Trasalì a quell’urlo e si tirò indietro, appiattendosi al muro, mentre lui ansimava come un mantice, sudando, le dita che si aprivano e si chiudevano in un tic nervoso e gli occhi scintillanti nella semioscurità. Le venne da piangere, per l’assurdità e l’irrealtà della situazione, e si morse con forza il labbro per non farlo, per non cedere ai nervi: “Papà, che succede?” rantolò in un soffio isterico. Quello non era suo padre. Non poteva esserlo. Suo padre non le faceva paura. Suo padre non vaneggiava nella notte. Suo padre non aveva quello sguardo.
Continuò a sorridere del suo sorriso malato: “Ci ho pensato tanto, Harriet, tanto davvero, e adesso so cosa devo fare. È dovere di ogni genitore agire per il bene del figlio, e questo farò. Non lascerò che il mondo ti distrugga. Non gli permetterò di rovinarti. È assolutamente impossibile per quelli come te e me vivere senza finire, prima o poi, atterrati da qualche terribile dramma. Per questo è meglio non vivere. Quando non vivi, non soffri. Ed io non ce la faccio più a soffrire. Ma sarebbe egoista, insensibile e terribile da parte mia andarmene e lasciare te in pasto al mondo, così ecco quel che faremo: andremo insieme nel luogo della non vita. È questa l’unica soluzione”. 
Ghiacciata da quel discorso delirante, Harriet puntò gli occhi sull’oggetto che Ludwig celava dietro la schiena e conficcò le unghie nel materasso, accostandosi alla debole luce dell’abat-jour quasi potesse tenere lontane le tenebre che sembravano aver posseduto la mente di suo padre, così come il fuoco, nella tradizione popolare, scaccia gli spiriti maligni: “Papà…” la voce le si spezzò e una lacrima rotolò lungo la guancia, ma stavolta non pose al pianto alcun freno, lasciò che il genitore assistesse al suo terrore, che la vedesse come una persona, capace di disperarsi e di provare emozioni.
Un’increspatura di dolore incrinò la maschera di malsana beatitudine dell’uomo e le venne incontro nella stanza, strascicando i piedi, gli occhi traboccanti di amore e di dispiacere: “Oh, tesoro, ti prego, non piangere!” le sussurrò dolcemente: “Sono stato proprio cattivo con te in questi ultimi anni, vero? Ti ho lasciata sola, ti ho abbandonata…e sei finita in quell’orribile edificio, quella scuola così piena di cattiveria e di sporco, dove nessuno poteva notare la tua figurina, dove il male si annidava come in un covo di serpi…so cosa vuol dire, me li ricordo bene quegli anni, proprio bene…” serrò le labbra in una smorfia rabbiosa: “Nessuno merita un simile travaglio, meno che mai tu. Solo che ero troppo preso da me stesso, non mi rendevo conto…poi qualche giorno fa ho pregato Dio affinché mi mostrasse una via d’uscita per noi, e Lui ha risposto” le rivolse nuovamente quel suo sorriso grottesco: “Mi ha illuminato, Harriet, e mi ha spiegato il modo in cui sfuggire ai peccati del mondo”.
La mano, che prima era ritirata dietro la schiena, si spostò lungo il fianco e il nero lucido della rivoltella scintillò di un unico, letale bagliore che seccò totalmente la bocca di Harriet e le riempì le vene di piombo fuso. Era abbandonata nella mano di Ludwig, cadente sulla gamba, come se egli non fosse nemmeno consapevole della sua presenza, quasi gli penzolasse tra le dita come una bambola rovinata e pressoché ignorata. Quando vide che la fissava, però, la sollevò di qualche centimetro e se la rigirò tra le mani, studiandola, con un mezzo sorriso sulle labbra: “Bella, vero? Ci sono due proiettili. Uno per te e uno per me”.
Una voce urlava a squarciagola nella testa di Harriet, un urlo stridulo, insopportabile e disumano che era esploso appena lui aveva mostrato la pistola e che non aveva accennato minimamente a cessare, o perlomeno a diminuire d’intensità. Le pulsava contro le tempie, provocando un martellio insopportabile, e faceva troppo male perché potesse tentare una qualsiasi mossa difensiva, non riusciva neanche più a parlare. Tutta la situazione aveva un che di irreale, di onirico, e forse avrebbe dovuto semplicemente lasciar fare, non opporre resistenza, così si sarebbe svegliata, nel suo letto, come ogni mattina, e avrebbe eliminato i vaghi ricordi dell’incubo con acqua gelida e una sostanziosa colazione.
“Non devi avere paura, tesoro mio” suo padre giocherellò con la rivoltella e posò il dito sul grilletto: “Non farà male. Il nostro tempo in questo sporco mondo è finito. Ci aspetta la pace”.
 
Un rantolo strozzato le fuoriuscì dalle labbra mentre spalancava gli occhi nel buio assoluto della sua prigione, e contrasse istintivamente la mano sul cuscino umido, accorgendosi di aver scalciato di lato le coperte dimenandosi nel sonno; così esposta, con la pelle sferzata da ogni spiffero gelido e quella leggera camiciola da notte che le copriva a stento le forme, si sentì vulnerabile all’istante. Il freddo che pervadeva il (sotterraneo? Catacomba? Fogna?) in cui era rinchiusa le era penetrato nelle ossa, sedimentandosi ben bene, e si accorse di tremare come una foglia, preda di un attacco di brividi che, forse, l’avvisava di un malanno in arrivo. Come se non bastasse, le scappò un sonoro starnuto, un suono che parve assordante nel mortuario silenzio, e si affrettò a tastare freneticamente intorno a sé finché non incontrò la stoffa sgualcita delle coperte e se la rimise addosso, avvolgendovisi come in un bozzolo. Le dava una sensazione di sicurezza del tutto illusoria, dal momento che certo un plaid non l’avrebbe difesa dal suo carceriere, ma fin da quando era bambina si era sempre sentita molto più al sicuro con le coperte addosso che senza, e non esitò a seppellirsi sotto di esse, girandosi dalla parte del muro di pietra gelida a cui aderiva il letto che le era stato assegnato, un’altra tecnica per smorzare un poco il senso di minaccia; rivolgersi al nulla tenebroso della stanza accresceva ulteriormente la sua paura, perlomeno di una solida parete poteva fidarsi.
Alcuni fotogrammi mentali del sogno si erano salvati dal buco del dimenticatoio in cui spesso precipitavano al risveglio, ma si rifiutò di pensarci. Certe immondizie credeva di averle buttate in discarica da un bel pezzo, di averle sepolte sotto una valanga di altri rifiuti puzzolenti e marci come quelle, ma a quanto pare la sua infelice condizione di prigioniera le aveva riportate alla luce. E non poteva sopportare che lui la vedesse sudare, fremere e singhiozzare per i mostri del suo passato, che gioisse del suo terrore, godendo di ogni singolo gemito. Aveva tenuto duro stoicamente sulla scomoda sedia alla quale l’aveva legata, e quando aveva sciolto le corde e l’aveva accompagnata sul letto nel quale si era destata al principio, non lo aveva degnato di una sola parola, facendosi rigida come un pezzo di legno nelle sue mani gelide e sinuose. Da allora non aveva più captato la sua presenza, ma non era da escludersi che fosse in quella stessa stanza proprio in quel momento; sembrava muoversi nel buio come un pesce nell’acqua, strisciarvi silenziosamente e con gli occhi che lo scandagliavano alla perfezione mentre lei, Harriet, vi annaspava a stento, cieca e sorda ad ogni cosa, e l’idea che potesse essere ovunque, che la stesse spiando le inviò una morsa gelida in tutto il corpo, un sapore di bile in bocca. Sapeva che era un pensiero stupido, che probabilmente si stava facendo suggestionare dall’atmosfera, ma iniziava a credere che non fosse neanche un essere umano, ma un qualche demone maligno, uno spettro sanguinario e invisibile che l’aveva condotta nel proprio Tartaro.
No, Harriet, ti sbagli. Vuole farti credere proprio questo, di essere un mostro soprannaturale a cui non puoi sfuggire. Ma quando l’hai morso, ha urlato. È un uomo. Ed è fatto di carne e sangue come te.
Tenersi stretta quella certezza si era rivelato essere più difficile di quel che pensava, via via che le ore si sommavano alle ore e una specie di quieta disperazione si impadroniva di lei, sostituendo il cieco terrore provato quando si era accorta di essere stata imprigionata in quel buco. Se davvero il suo carceriere era un uomo, qualcosa di anormale lo doveva avere di sicuro: la familiarità assoluta con le tenebre, ad esempio, la silenziosità innaturale dei suoi movimenti, quel sottofondo di repulsione e minaccia che lei avvertiva costantemente, quell’estraneità che aveva provato solo in presenza di una belva feroce, da cui poteva aspettarsi di tutto, e non certo di un uomo razionale e cosciente.
La possibilità che Jesper pagasse il riscatto e la liberasse non l’aveva neppure presa in considerazione. Era cambiato qualcosa, da quando il mostro le aveva tolto la libertà, qualcosa di fondamentale eppure di vacillante, e si sentiva piena di rabbia e di furia vendicativa, per essere stata usata, strumentalizzata al fine di ottenere ricompense varie, e adesso perfino rapita e tenuta come ostaggio. Non aveva mai protestato, aveva ingoiato ogni guizzo d’ira o di amarezza, ma adesso sentiva di aver oltrepassato il punto di non ritorno, di essere stanca, definitivamente. Di tutti quanti. Della loro avarizia. Del loro menefreghismo. Del loro ego. Che se ne andassero affanculo. Se mai fosse uscita di lì, e ne dubitava, li avrebbe mollati con un palmo di naso, e non si sarebbe più sacrificata per tirarli fuori dalla merda in cui da soli si erano immersi fino al collo. Che fosse sua madre, a sposarsi qualche ricco erede! Che Jesper si trovasse un’altra idiota disposta a sopportarlo! E che quell’R, come l’aveva chiamato Erin alla festa di Halloween, morisse di una morte lenta e dolorosa! Che morissero tutti, tutti!!!
Si asciugò con furia, usando il dorso della mano, le poche lacrime di rabbia che le erano sgorgate dagli occhi asciutti e doloranti e si passò più volte la lingua sulle labbra secche e screpolate. Aveva sete. E fame. Il suo carceriere le aveva detto che l’avrebbe tenuta in vita quindici giorni, prima di spararle un colpo alla testa, chiuderla in un sacco di plastica e ficcarla nel bagagliaio di un furgone, o in un bidone della spazzatura, o magari direttamente a mare, ma non si era vista l’ombra né della colazione, né del pranzo, né della cena (a dire il vero, era difficile calcolare lo scorrere del tempo lì, e del tutto impossibile stabilire se fosse giorno o notte). Forse la stava punendo ulteriormente di essersi ribellata, mandandola a letto senza pasto come se fosse una bambina disobbediente e riottosa, quale che fosse il motivo, aveva un bisogno disperato di nutrire il corpo dolorante.
Ma non si sarebbe mai abbassata a supplicarlo di concederle un tozzo di pane e un bicchiere d’acqua. Piuttosto preferiva morire di fame. Aveva deciso di giocare con lei il gioco del gatto e del topo, ma era felicemente ignaro del fatto che Harriet quel giochino lo conosceva alla perfezione, aveva interpretato il topo fin dall’infanzia, e non era più disposta a starci. Aveva già accettato che Jesper non si sarebbe scomodato a cedere al rapitore quello che gli aveva chiesto in cambio di lei, dunque doveva contare solo su se stessa, e per una volta nella vita, non aveva assolutamente niente da perdere. Le opzioni erano due, uscire di lì o morire, e non si sarebbe sforzata di compiacere quel bastardo, di accarezzargli l’ego per meglio disporlo nei suoi confronti; non avrebbe più strisciato, per nessuno. Mai. Più.
Suo padre diceva che quelli come loro erano destinati ad essere schiacciati. Bene, se era così, avrebbe tirato fuori i denti, perché il topo non era così inoffensivo come poteva sembrare, era rapido, estremamente rapido, sapeva come nascondersi, e trasmetteva infezioni e malattie letali con un morso, se questo morso era dato bene. Era un paragone stupido e puerile, ma in Tom e Gerry, o in Titty e Silvestro, erano sempre gli inseguiti ad avere la meglio. Gli inseguitori al più si facevano fregare da soli e perdevano proprio a causa della loro arroganza ed eccessiva sicurezza.
Un fruscio appena percettibile ruppe il silenzio profondo e stranamente confortante che poche ore prima l’aveva tanto spaventata (ora, invece, per contrasto, temeva i rumori, l’attimo in cui la quiete sarebbe stata spezzata da uno scoppio, come accadeva in quasi tutti i film dell’orrore), ed Harriet scattò come un cane a cui viene calpestata la coda, drizzandosi a sedere tra le coperte bagnate del suo sudore gelido e scandagliando la cortina di tenebre con occhi assottigliati in un’espressione di tensione e di rancore: “Che cosa vuoi?!” strillò, sicura che si trattasse di lui: “Lasciami in pace!”
Se il buio, all’inizio, le era apparso come un muro impenetrabile e compatto, adesso che erano trascorse diverse ore in cui era convissuta con esso aveva più l’aspetto di un velo nerastro che ammantava tutto quanto, sbiadendolo e rivelandole solo qualche contorno qua e là: il divanetto contro cui era inciampata quando aveva tentato, invano, di fuggire, una forma lunga e imponente che poteva essere un armadio, un quadro, la porticina che R le aveva detto conduceva al bagno. Forse, chissà, se fossero passati giorni senza che le venisse concessa una sola fonte di luce, sarebbe divenuta abile quanto il suo carceriere a muoversi nelle ombre.
Rimase in ascolto del silenzio per minuti che parvero durare secoli, poi ci fu un secondo fruscio, in un punto completamente diverso dal precedente, e si volse con un ansito strozzato, rattrappendosi contro la testiera del letto e avvolgendosi nella coperta come in un mantello: “Smettila!” ringhiò istericamente: “Non so a che gioco stai giocando, ma smettila!”
“La signorina ha forse paura?”
Trasalì e con la coda dell’occhio ebbe l’impressione di cogliere un luccicare di iridi azzurre alla sua destra, ma quando si girò in quella direzione, la voce melodica e raschiante le giunse alle spalle, un sibilo che andò ad accarezzarle direttamente la nuca: “Cos’è che ti spaventa di più, il buio, me o semplicemente quello che potrei farti senza che tu possa difenderti in alcun modo?”
Lasciandosi sfuggire un gridolino acuto, la ragazza si voltò ancora una volta, ansimando per un misto di fatica e paura, e allungò una mano nell’oscurità cercando di afferrarlo, di prenderlo di sorpresa prima che potesse spostarsi di nuovo e ancorarlo in un punto, sentire che era solido, che era reale, che poteva toccarlo e quindi anche fargli del male, ma sebbene bramasse disperatamente un contatto fisico con lui (per quanto, da un’altra parte, l’idea la repellesse non poco), le sue dita si chiusero solamente sul nulla, e uno spiffero le scompigliò appena i riccioli sudati e appiccicati al volto, un movimento veloce come quello di uno spettro.
“Guardami, ragazza, sono…sul soffitto! …e ora…dietro l’armadio! …ma aspetta…eccomi presso l’uscio! …c’è qualcuno? …qualcuno è in casa? …nel bagno, questo bel bagno che ti sei ben guardata dall’usare! ….sul divanetto…è davvero comodo!...dovresti provarlo! …alle tue spalle!”
Rideva di un riso agghiacciante da demone esaltato e rimbalzava da una parte all’altra della stanza come una pallina da flipper, la sua voce risuonava ora da un punto, ora da un altro, senza alcuna soluzione di continuità, ad una velocità umanamente impossibile, Harriet non aveva neanche il tempo di puntare gli occhi nel suo nuovo nascondiglio che già lui era scivolato oltre come un liquido, e continuava a sfuggirle, a tenerla incatenata a sé con i suoi toni raccapriccianti e i lievi spostamenti d’aria del suo corpo che cambiava posizione, spingendola a volgersi di continuo, a seguirlo (inutilmente) con lo sguardo, a privarla di ogni difesa e raziocinio via via che il senso di pericolo si accresceva e capiva di essere davvero alla sua mercé, che nessuno avrebbe mai potuto stargli dietro, non nel suo ambiente naturale, non lì, in quell’oscurità che sembrava essere il suo territorio preferito.
E quando non ne poté più di quel gioco sadico che era destinata a perdere in partenza, quando la frustrazione raggiunse l’apice, premette il viso contro il cuscino e rilasciò un grido incrinato e lugubre, straziato dallo sfinimento: “SMETTILA, MALEDIZIONE, SMETTILA!”
“È un vero peccato” sospirò lui, con un’ombra di falso rammarico e di vera malevolenza: “Che tu sia così terribilmente e inesorabilmente cieca”.
Lei strinse i denti: “Ed è un vero peccato che io sia così terribilmente e inesorabilmente priva di una pistola con cui forarti il cervello!”
All’improvviso, senza che potesse in alcun modo prevederlo, dita gelide si infilarono brutalmente tra i suoi capelli, afferrandoli alla radice e tirandole la testa all’indietro, e in mezzo battito di ciglia avvertì il freddo mortale di una lama affilata come un rasoio che le premeva contro la giugulare, mentre l’ombra indistinta del suo carceriere inghiottiva la sua, più piccola ed esile. Si irrigidì da capo a piedi, paralizzata da quella fulminea e insopportabile prossimità, e aprì immediatamente la bocca per urlare, ma lui gliela tappò all’istante, aumentando la stretta sul suo corpo, e la giovane rabbrividì di repulsione nel sentire l’umido gelo di quelle dita serrate sulla morbida carne delle sue labbra. Premevano a tal punto da arrestarle la circolazione e da fargliele formicolare come se mille millepiedi ci stessero strisciando sopra, sicuramente per impedirle di morderlo; e in effetti, non aveva modo di aprire le mandibole.
“Hai la lingua velenosa” le sibilò R all’orecchio, aumentando la pressione del pugnale contro la sua gola finché Harriet non percepì il viscido calore di un rivolo di sangue che scivolava lungo il collo e si perdeva tra i seni: “Ma ti conviene tenerla a freno se non vuoi che te la strappi. Mi pare di avertelo già consigliato qualche ora fa, ora che ci penso, e non mi piace ripetermi”.
Le staccò la mano dalla bocca, ma prima che lei avesse modo di ribattere era già scivolato via, facendosi scudo con le tenebre di cui sembrava essere il padrone. Ancora ansante per l’aggressione inaspettata, Harriet si portò una mano alla gola, bagnandosi i polpastrelli di sangue, e indirizzò uno sguardo torvo e omicida alla stanza buia, più arrabbiata che terrorizzata, cosa di cui si stupì; aveva una voglia matta di strappargli il pugnale con cui l’aveva minacciata e piantarglielo nello stomaco, di dissanguarlo su quel pavimento.
Lui ridacchiò, sardonico: “Non guardarmi in quel modo, ragazza. Tutti prima o poi dobbiamo soffrire. Persino tu, con la tua vita dorata e perfetta. Persino loro”.
“Tu della mia vita non sai un cazzo” masticò tra i denti serrati, raggrumando nella voce spezzata tutto l’odio che provava per lui. Non aveva mai imprecato spesso, a sua madre non piaceva, ma non le importava più niente di ciò che gli altri volevano o non volevano, aveva tutto il diritto di parlare come più le aggradava!
“In effetti hai ragione” dal tono, egli sembrava quasi divertito: “E neanche voglio saperlo. Sai, mi stupisci. Credevo che fossi una creatura quieta e pacifica…quasi un cadavere, per il povero, sventurato Jesper…invece ne hai covato di risentimento, dico bene? E glielo hai tenuto nascosto…gli hai mentito…” le parve che sogghignasse: “Ma non ti biasimo per questo. Mi sono sempre piaciute le menzogne”.
A ben pensarci non aveva motivo di giustificarsi con quel pazzo, ma le sue parole avevano toccato un tasto dolente, e non riuscì ad impedirsi di rispondere: “Io non gli ho mentito. Non gli ho mai mentito. Non sono come Christine, come lui, come te…io non sono come voi!”
“Voi?” le fece eco il suo carceriere, con una bizzarra sfumatura di irritazione: “Voi?! Mi spiace deluderti, ragazzina, ma io non ho mai avuto niente a che fare con i Lawrence” si produsse in una risatina aspra: “Fanno parte di un club fin troppo esclusivo”.
Non poteva esserne del tutto sicura, ma, oltre al disgusto e all’odio, forse c’era una punta di rammarico in quell’affermazione.
“Se tu non fossi come loro” replicò: “Non rapiresti una ragazza per ottenere denaro! Non ti nasconderesti nelle tenebre come un comune profittatore, che usa un passamontagna per celare la sua identità, senza nemmeno mostrarti in viso!”
“Io non mi nascondo” berciò lui, astioso: “Ti guardo senza che tu possa guardare me. È un modo buono come un altro di proteggersi”.
“È un modo buono come un altro di essere un vigliacco! Perché è questo che sei, R o come diavolo ti chiami, che, te lo dico subito, mi sembra un diminutivo completamente idiota ed egocentrico! Un vigliacco. Tanto quanto Jesper, anzi, più di lui!”
“Ti sbagli” lui lo ringhiò concitatamente, in fretta, come se le sue frasi lo spaventassero e si sforzasse di non darlo a vedere.
Harriet sogghignò, trionfante: “Non mi sbaglio affatto. Lui almeno ha il coraggio di tramare alla luce del sole, di rendere evidente a tutti la sua avarizia e la sua malvagità…mentre tu preferisci agire nell’ombra, tu non ti mostri per quello che sei, tu inganni…e sai che ti dico? Che mi fai schifo per questo! Mi disgusti molto più di lui! Siete uguali, voi due, fatti della stessa pasta, e…”
“NON HAI NESSUN DIRITTO!”
Si aspettava uno schiaffo, invece arrivarono i suoi occhi, i suoi scintillanti occhi slavati che la fissavano, ardendo di rabbia, rancore e furia omicida, ad appena qualche centimetro di distanza, due globi infuocati e allucinati che le mozzarono il fiato in gola e la costrinsero ad appiattirsi al muro; egli era vicinissimo, curvo sul suo letto, eppure l’unica cosa che distingueva nel buio erano quelle iridi luccicanti che la catturavano e la straziavano come la lama di un pugnale.
“Non hai nessun diritto di paragonarmi al tuo fidanzato” ansimò, in un sibilo cupo e invelenito: “Tu non hai idea, non hai idea…di quello che…che io… tu non conosci neanche lontanamente gli abissi in cui…per questo credi migliore quel tuo Stephan!”
“S-Stephan?” bisbigliò Harriet, confusa: “Chi è Stephan?”
Gli occhi chiari del suo carceriere si dilatarono enormemente, per mezza frazione di secondo colse in lui un guizzo di panico, di terrore per essersi lasciato sfuggire qualcosa che evidentemente non desiderava lasciarsi sfuggire, e si sorprese a pensare che fosse meno vecchio di quello che aveva ipotizzato in un primo momento, che potesse essere…giovane. Proprio come lei e Jesper. E, stranamente, lo considerò il fatto più sorprendente.
Subito dopo, però, quelle iridi slavate si incupirono nuovamente, occultando il tumulto di emozioni che per un istante era riuscita a scorgere, e divennero gelide, così gelide da ghiacciarle il sangue nelle vene, gelide quanto la sua voce raschiante: “Ho promesso al tuo fidanzato che, se mi avesse accontentato, ti avrei riportata da lui viva, e posso assicurarti che saprei essere il padrone di casa più attento e accurato del mondo, se tu lo meritassi…ma stai mettendo a dura prova la mia pazienza”.
“Chi è Stephan?” insistette, tenace e, forse, un po’ troppo incauta.
Udì i denti di lui digrignare, ma non perse il tono glaciale: “Ti ho già comunicato le regole. Niente domande su di te, niente domande su di me. Quale parte esattamente non ti è chiara?”
Senza lasciarle il tempo di aggiungere altro, la afferrò per un braccio, sollevandola a forza dal letto, e Harriet si irrigidì a quel tocco umido che le appariva terribilmente empio, come se l’avesse sfiorata il peggiore tra i peccatori. Avrebbe voluto allontanare quella mano come se fosse stata un’immonda sanguisuga. Se anche lui se ne accorse, però, non lo diede a vedere. La strattonò, facendola muovere a forza, e la ragazza reputò saggio non opporre resistenza, visto che aveva compreso quanto fosse inutile vincere con la forza, domandando impulsivamente: “Dove mi vuoi portare?!”
Le rispose un verso sarcastico: “Oh, sta tranquilla, ragazza, non ho intenzione di toccarti neanche con un dito. Io le mantengo, le mie promesse, e so comportarmi da gentiluomo, anche se forse ti è difficile crederlo”.
Da gentiluomo, certo. La rapiva, la rinchiudeva in un sotterraneo, la minacciava, la teneva lì con la forza ma, ovviamente, si comportava da gentiluomo. C’era da sputargli in faccia. Non lo fece, però. Sarebbe scappata, giacché non aveva nessuna intenzione di arrendersi, ma non in maniera così grossolana, facendolo infuriare o tentando attacchi diretti. Sarebbe stata una mossa stupida e inutile, e lei non era una sciocca, anche se si era finta tale per molto tempo. Forse la maschera arrendevole e docile, sempre disposta a sopportare, che aveva portato tanto a lungo le sarebbe potuta servire per mettere nel sacco quel bastardo…per coglierlo di sorpresa.
Lui raggiunse la porta del bagno, si fermò lì davanti: “Hai mezz’ora per provvedere alle tue abluzioni” decretò con malcelato astio: “Non un minuto di più, non un minuto di meno. Troverai anche un cambio d’abiti, e la tua colazione sul comodino, quando tornerai qui. Proprio come avevo promesso”.
Harriet abbozzò una riverenza sprezzante, sicura che egli fosse perfettamente in grado di vederla al buio: “Grazie infinite, mio signore”.
Proprio non riusciva a impedirsi di provocarlo.
Venne spinta malamente nella toilette, illuminata dalla fioca luce di una candela che le trafisse gli occhi disabituati come una lama, da un R che si mosse tanto attentamente da non sfiorare neppure con un gomito la stanza rischiarata, quindi la porta si richiuse alle sue spalle con un tonfo sordo.
Due secondi, e una chiave girò nella serratura con un clac metallico.
 
Angolo autrice: torno dopo secoli e secoli di latitanza e mi ripresento con questa schifezza…sono sempre arrugginitissima quando rimetto mano alle mie discutibili opere! Mi scuso ancora una volta per il ritardo, ma come vedete, questa storia ho la ferma intenzione di finirla, magari lentamente, ma la finirò…e regalerò a Raphael emozioni migliori di quelle che ha sperimentato in passato!! Qui, oltre al siparietto Jesper/Christine, abbiamo avuto un accenno del passato di Harriet, e un suo accanito confronto con Raphael…sotto sotto questi due hanno qualcosa in comune, secondo me, ecco perché si scannano : ) (da notare infelice lapsus freudiano di R che fatica a digerire la faccenda di Irene…) Harriet è molto meno incline della biondina a trovare affascinante e misteriosa la situazione, ma come ha giustamente detto Niglia in una recensione, si è subito mostrato a lei in veste di “mostro”, mettendo le mani avanti per evitare qualsiasi tipo di contatto diverso da quello carceriere/prigioniera, mentre l’altra ha tentato di conquistarla con il suo lato umano che ella ha fatto a pezzi…non sono nient’affatto soddisfatta di come è venuto fuori il tutto, ma questo è ciò che tento affannosamente di spiegare :’)
Il prossimo capitolo sarà dedicato quasi interamente a Harriet/Raphael, con riferimenti occulti alla “Bella e la Bestia” (tipo lei che tenta di fuggire e lui che…bla bla bla) ai quali non so resistere, più una scoperta sul conto della “carissima” Christine (ognuno qui ha qualcosa da nascondere!) da quello dopo ancora torneranno in scena la piccola Erin e Berg, i buoni della situazione : )
Mi scuso ancora, e spero che qualche buon samaritano abbia ancora la pazienza di seguirmi e di leggere simili scempiaggini!
Un bacio,
Sylphs 

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Capitolo 10
*** Capitolo 12 ***


Capitolo 12
 

 
 
 
 
Sul conto della torre più alta di Lawrence Borg circolavano parecchie leggende, molte delle quali sfioravano i limiti della fantascienza, che Erin aveva sentito raccontare spesso dalle domestiche, strette in un crocchio bisbigliante e pettegolo e avide di scambiarsi, durante le faticose ore di lavoro, ogni sorta di speculazione o ipotesi sui segreti dei loro celebri e ambigui padroni. I Lawrence, del resto, erano amati e odiati in pari misura da quasi tutto il paesino che dominavano dall’alto del loro antico palazzo e incutevano non poco timore con quella bellezza algida e imperscrutabile, la quale non aveva saltato neanche una generazione, e quei modi d’una cortesia pericolosa e intrisa di minaccia, quei loro piccoli, invisibili sistemi per graziare o condannare chiunque osava entrare in affari con loro o soltanto porsi sul loro cammino. Era risaputo che avessero fondato il loro patrimonio su stuoli di cadaveri e accordi nient’affatto puliti, specialmente in passato, quando la loro stella brillava più fulgida che mai, eppure nessuno aveva mai trovato una sola prova che li marchiasse come colpevoli, nessun indizio che potesse minare la loro incrollabile posizione.
Perché la cosa in cui i Lawrence riuscivano meglio era nascondere ogni sorta di “sporcizia” che avrebbe potuto deturpare il buon nome di famiglia ed estirparla dalla faccia della Terra, cancellarla come se non fosse mai esistita. In questo, non avevano pari.
Si diceva che la torre fosse stata costruita nel 1765 apposta per ospitare una famosa antenata, lady Katherine Lawrence, che aveva smarrito la ragione a causa della morte del marito. Confinata in quella che era divenuta a tutti gli effetti la sua prigione, lady Katherine vi aveva vissuto per ben nove anni e i suoi malinconici lamenti, le sue grida, i suoi singhiozzi avevano perseguitato dall’alto gli abitanti del maniero, infiltrandosi attraverso i muri, i soffitti, i pavimenti e risuonando nei momenti più impensati. Dopo quella lunga cattività, la donna si era, secondo la versione ufficiale, buttata giù dalla torre, con addosso il suo abito da sposa e circondata dall’impalpabile velo di tulle ricamato, ma c’erano stati alcuni, molto temerari, c’è da dirlo, che avevano ipotizzato che i suoi familiari l’avessero eliminata, affinché la piantasse di rendersi tanto “visibile” con tutti quei gemiti e quei pianti. In ogni modo, la storia era finita ben presto nel dimenticatoio, e la torre lasciata in abbandono. Naturalmente, erano nate in poco tempo una gran quantità di dicerie sul conto del fantasma di lady Katherine che ancora abitava quel macabro luogo, riempiendolo dei suoi lamenti e delle sue grida di rabbia.
Ma Erin ai fantasmi non credeva. Non a quelli morti, s’intende. Giacché aveva imparato che non sempre gli spiriti sono defunti.
Poi c’era stata la vicenda dei due gemelli di sette anni, Karl e Greta, risalente al più vicino, ma ugualmente remoto, 1854. Una vicenda che le aveva fatto molto più effetto di quella della folle Katherine perché riguardava da vicino due bambini pressoché della sua stessa età e della sua stessa famiglia, e che le aveva fatto trascorrere non poche notti insonni.
Karl e Greta erano stati, almeno secondo le chiacchiere locali, le due pecore nere della famiglia Lawrence, a partire dal colore dei capelli. La caratteristica fondamentale della celebre genia era, infatti, la chioma dorata come quella degli angeli del paradiso, le iridi chiare e l’incarnato di porcellana. Vista la propensione dei più antichi Lawrence a sposarsi tra fratelli e cugini per preservare la purezza del sangue, i biondi capelli erano stati tramandati di padre in figlio, e di madre in figlia attraverso i decenni, e nessuna capigliatura era mai stata più scura di un color cenere. Eppure, malgrado i loro genitori fossero rigorosamente dotati di riccioli chiari, i gemelli erano venuti alla luce con una folta, ricca massa di capelli neri come ali di corvo. E già solo questa peculiarità, di cui non avevano alcuna colpa, aveva assai maldisposto lord e lady Lawrence. Come se non bastasse, i bimbi avevano osato crescere con una serie di difetti che mai nessun Lawrence prima aveva mostrato: Karl soffriva di crisi epilettiche e aveva estreme difficoltà a digerire ciò che mangiava e Greta aveva paura di tutto, persino della sua ombra. Negli sporadici ritratti conservati sul fondo di scaffali polverosi o negli angoli invisibili di scansie nascoste, apparivano come due esserini cadaverici e denutriti, con le ossa che quasi bucavano la pelle e gli abitini dimessi, i visetti tristi e docili segnati dalle occhiaie e dal dolore.
Qualche anno dopo la loro nascita era venuto al mondo il terzogenito, un Lawrence “degno di questo nome” con un faccino da putto, una bionda chioma riccioluta e una salute di ferro, ed era stato l’orgoglio e il sollievo dei suoi genitori. Herbert, questo era il suo nome, era stato esibito a tutti i balli, le feste e i ricevimenti dell’epoca, vestito degli abiti migliori e tutto ben sistemato, mentre Karl e Greta rimanevano in casa a giocare con vecchi balocchi e a recitare salmi e omelie, celati come qualcosa di immondo, vergognoso e turpe.
Era stato il commento di una certa Lady Bergman a scatenare tutto, rivolto a lord Lawrence in occasione di una festa di beneficenza: “Vostro figlio è adorabile, senza dubbio, ma…il titolo non andrà al primogenito? A…Karl?”
Per l’appunto. Le terre, gli affari di famiglia e il titolo di barone erano destinati a quel bimbo malaticcio e debole che lord Lawrence avrebbe volentieri fatto sparire, e il suo Herbert, quel fiore destinato a grandi cose, invece, non era altro che un cadetto.
Circa sei mesi dopo, si era sparsa la notizia che i due gemelli, approfittando della distrazione della governante, erano andati a curiosare nella torre più alta del maniero e, chissà se per disattenzione, o nella foga del gioco, o per la paura di quel luogo tetro, Karl era inciampato ed era precipitato di sotto, esattamente come la defunta lady Katherine. Quanto a Greta, era stata ritenuta “sotto shock” e nessuno aveva prestato ascolto ai “deliri” in cui sosteneva che il fratellino fosse stato spinto. La governante che aveva permesso una simile tragedia era stata messa a morte e al funerale dello sventurato Karl lord e lady avevano pianto lacrime di coccodrillo, avvolti nel loro perfetto, incontestabile cordoglio di genitori afflitti. Herbert era diventato l’erede legittimo del titolo nobiliare e Greta si era ammalata di tisi pochi anni dopo, morendo da sola, con la sola compagnia di una fidata domestica, in modo a dir poco iniquo.
“La signorina non stava così male” aveva singhiozzato la suddetta domestica in una locanda, a seguito del licenziamento: “Se il dottore l’avesse curata per davvero forse avrebbe potuto vivere, almeno un po’ di più”.
Ma il dottore di famiglia era un amico intimo di lord Lawrence e la giovane Greta non aveva smesso di “delirare”, così era andata a far compagnia al fratello.
Per questa vicenda e per quella di Katherine si era diffusa la voce, tra quelli che più odiavano i Lawrence, che la torre fosse il posto in cui essi facevano sparire i loro scheletri nell’armadio. I loro “fantasmi scomodi”.
Erin non l’aveva mai visitata. Era stata sbarrata e bollata come “luogo proibito” da quando lo zio Jesper vi aveva trovato i cadaveri del nonno e dello zio Viktor. Da allora, la porticina a cui si accedeva tramite un angolo isolato del vasto giardino era stata rigorosamente chiusa a chiave e tra  il personale era circolato il rigido e assoluto divieto di sostare nei pressi. Non che fosse mai stata frequentata, non dai domestici, almeno: anche ai tempi in cui Hugo era ancora vivo, l’unica chiave che conduceva alla torre l’aveva custodita solo e soltanto lui, e gli unici a cui aveva dato il permesso di entrare erano stati Viktor e la moglie, che tuttavia aveva usufruito una sola volta della concessione. Avevano qualcosa da nascondere, nessuno aveva dubbi al riguardo, ma l’ancestrale timore per i Lawrence aveva frenato ogni possibile curioso dallo scoprire di cosa si trattasse. E adesso, la torre era diventata definitivamente un “tabù”. Troppi brutti ricordi. La vecchia Eva diceva sempre che le tracce di un avvenimento malvagio non se ne vanno mai del tutto, che restano nell’aria, sui muri, e contaminano più di quanto uno si immagini. Erin aveva paura della torre, non poteva negarlo. Ma ne era anche affascinata. Provava un misto di attrazione e repulsione.
Persino mentre sostava sulla sua panchina preferita, sotto ai rami in fiore dell’albero di pesco, non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Si ergeva, scarna e solitaria come il braccio avvizzito di una mummia, sopra ai balconi e alle guglie del sontuoso e impressionante castello, i mattoni scrostati e irregolari che sembravano sul punto di cedere da un momento all’altro e il tetto a punta, e proprio sulla cima l’unica finestrella la fissava, come l’enorme occhio infuocato di Sauron. Nelle orecchie le echeggiavano le minacce di sua madre, quelle poche parole che si era degnata di rivolgerle di tanto in tanto: “Se mi secchi ancora una volta, ragazzina, giuro che ti sbatto nella torre e ti chiudo dentro, e allora vedremo se avrai ancora voglia di rompere il cazzo!”
Christine rideva sguaiatamente, dopo averle prospettato una simile tortura, e lei si sentiva lo stomaco in subbuglio, le gambe molli e la bocca invasa dalla bile al solo immaginare quanto terribile dovesse essere starsene intrappolati là sopra, nel buio più assoluto, in mezzo al tanfo di chiuso e di morte, con i fantasmi di lady Katherine e dei gemelli che sussurravano nelle tenebre e le tue peggiori paure che venivano a galla. Era sicura che sarebbe impazzita, e credeva abbastanza alla possibilità che la madre la rinchiudesse lì da provare un acuto, paralizzante terrore; in fin dei conti, anche lei era una pecora nera, pur avendo i capelli biondi, e non sarebbe poi stato tanto assurdo se fosse andata a scontare la sua difettosità in quel luogo maledetto. Non si era mai sentita una degna Lawrence. Una degna Lawrence è divertente, esuberante, allegra, estroversa, furba. Lei era noiosa, timida da far pena, sul malinconico andante, introversa e cretina. E dopo gli ultimi avvenimenti, dopo che nella sua testa avevano preso a formarsi certe strane domande, il pensiero di finire nella torre non era poi così remoto.
Staccò a fatica lo sguardo dalla sagoma sbilenca ed enigmatica della torre, affascinante quanto un film o un racconto spaventoso, che le faceva venire gli incubi ma che doveva vedere (o ascoltare) fino in fondo, e controllò rapidamente che non ci fosse nessuno intorno. Non c’era nessuno. Il parco era vuoto, se si escludeva il giardiniere, che però stava potando alcuni cespugli di rose in un punto abbastanza distante da quello dov’era lei, e qualche domestico di passaggio. Da quando il signor R aveva rapito Harriet (cosa che sapevano solo lei, lo zio e sua madre ma che non aveva detto a nessuno, intuendo che non sarebbe stata una buona idea), Christine e Jesper erano stati più indaffarati che mai e non li aveva più visti né sentiti. Comunque aveva fatto i suoi compiti, era andata a letto presto, e quando le era venuta fame si era presentata in cucina e aveva sbocconcellato qualche fetta di pane e miele, senza dar fastidio a nessuno. Intanto, aveva rimuginato.
Ma da sola non era brava a rimuginare. Aveva bisogno di Johnny. Solo che Johnny veniva soltanto quando non c’era nessuno, ma proprio nessuno nei paraggi, e spesso neanche in queste circostanze si faceva vedere. Era davvero esigente e sospettoso!
“Johnny” lo chiamò sottovoce, guardando nervosamente in direzione del giardiniere; le dava la schiena: “Johnny!”
Quando sentiva il bisogno di parlare con lui, indossava sempre una maglia verde, larga e sformata, con una striscia gialla all’altezza del polso. Ritirò la mano all’interno della manica e trasformò la striscia nella bocca di una specie di pupazzetto che le sue dita animavano dall’interno. Johnny aveva una voce rauca e gracchiante, un po’ sgradevole: “Cosa vuoi, stupida?”
Erin trasalì, dispiaciuta, e incurvò un poco le spalle: “Non chiamarmi così!”
“Ma è quello che sei” ribatté pronto Johnny, con quell’astuzia velata di malevolenza che la disarmava ogni volta: “E comunque non la devi prendere così male. La stupidità ti ha salvato la vita, baby. Se fossi stata intelligente, sai da quanto ti avrebbero già fatta fuori?”
La bimba aggrottò la fronte, suo malgrado esitante: “Non…non devi parlare in questo modo”.
“Parlo come cazzo mi pare!” s’inviperì lui, avvelenato. Fece il verso a Christine: “E piantala di seccarmi, ragazzina! È così che dice sempre la strega, vero? Cazzo, merda, culo, palle!”
“Smettila!” sibilò. Avrebbe voluto urlare, ma aveva troppo timore di essere udita dal giardiniere: “Non lo sopporto quando fai così!”
“Oh, ma davvero? Eppure mi sembra di ricordare che quando volevi fare il rito voodoo contro di lei dei miei suggerimenti avevi bisogno, giusto? Sennò da sola ti saresti solo squarciata la mano con quegli spilli!”
Erin arrossì violentemente, per la vergogna e il senso di colpa che tuttora, a due anni di distanza dal fattaccio, la tormentavano: “È stato un incidente! Io non volevo farlo davvero! Poi ho raccontato tutto al prete e ho fatto penitenza, ha detto che ero assolta…”
La bocca di stoffa di Johnny si torse in un ghigno sardonico: “Sì, lo so bene che, fifona come sei, hai finito per spifferare tutto a quel panzone…ma io lo so quanto ci hai goduto a fare la bambola e a trafiggerla da tutte le parti. Fu quando ti dimenticò in macchina per, vediamo, quattro ore, e tu hai urlato e strepitato fino a non avere più voce?”
Erin affondò i denti nel labbro tremante: “Smettila”.
“Che fai, piangi?”
“Perché devi essere sempre così cattivo con me?!”
“Perché sono cattivo. Come la strega e lo zio Jesper. Mentre tu sei solo una fifona piagnucolosa”.
“Non è vero!”
“Sì che è vero. E lo sai”.
Chinò il capo, lasciando che i capelli le coprissero il viso: “Già. È vero”.
Johnny poteva essere una carogna fatta e finita, ma chiamava le cose col loro nome, ed era intelligentissimo. La metteva in soggezione e provava un gusto particolare ad insultarla e umiliarla, eppure…eppure aveva bisogno di lui, quando i pensieri erano troppi e si accavallavano senza una logica, o quando era accecata dalla confusione, la rabbia o il dolore. Possedeva la straordinaria capacità di fare chiarezza nella sua mente e dissipare la matassa.
Johnny era il ragazzo che viveva nella sua maglia. Lui le faceva capire le cose, a volte addirittura gliele mostrava. Era molto più navigato e furbo di lei, sebbene usasse spesso tutte le imprecazioni di sua madre e tendesse ad arrabbiarsi per un nonnulla. Era il suo unico amico. Certo, un amico poco lusinghiero…ma pur sempre un amico che la stava ad ascoltare e le dava dei consigli. Non ridacchiava mai come le bambinette stupide del corso di danza. Non bisbigliava alle sue spalle per poi interrompersi di botto quando lei arrivava. Non la chiamava “strana”. Se aveva un problema, lo esternava subito, senza sotterfugi né giri di parole.
Non aveva detto a nessuno di lui, perché era perfettamente consapevole che non esisteva. Non era pazza…non fino a questo punto. Sapeva bene di esserselo inventato, che era solo un “amico immaginario”. Ma la faceva sentire bene. La aiutava. E quando lo evocava, era molto più reale delle sue bambole o dei personaggi delle sue storie. Era come Tilly-Tilly, la gemella-fantasma della protagonista di un romanzo che Harriet le aveva letto.
E perché non poteva avere uno stupido amico immaginario, se questo le dava sostegno? Un sacco di bambini se ne facevano uno.
Certo, a suo padre aveva provato a dirlo. Così magari…chissà, forse si sarebbe reso conto di quanto si sentisse sola, con lui sempre lontano, all’estero. Magari avrebbe notato il collegamento, Johnny-Jonas. Ma appena l’aveva saputo, l’uomo l’aveva presa con una risata e uno scuotimento di testa e aveva iniziato a chiedere cose tipo: “Johnny cosa ne pensa del mio prossimo viaggio? Johnny cosa pensa della mamma?”
“Papà, Johnny non è me” aveva spiegato a fatica, paonazza in faccia: “È solo il ragazzo che vive nella mia maglia”.
“Beh, ma avrà le sue idee, sì o no? E cosa pensa di…”
Non aveva più affrontato l’argomento con Jonas. Aveva deciso, definitivamente, che da ora in poi Johnny sarebbe stato soltanto suo.
“Johnny?” chiese piano, titubante, dondolando i piedi nel vuoto.
“Cazzo vuoi, ragazzina? Ancora mi secchi?”
Ignorò la rispostaccia: “Johnny…ho un po’ paura”.
“Wow, ma che novità!” la sfotté lui, muovendo la bocca in una serie di smorfie derisorie: “E di cos’hai paura stavolta, baby? Fammi indovinare…di tua madre?”
“Anche…Johnny, io…penso che lei e lo zio Jesper abbiano in mente qualcosa …qualcosa di brutto”.
“Congratulazioni, Sherlock! E da cosa l’avresti dedotto?”
“B-beh…Harriet è in pericolo e hanno detto a tutti che è partita per Londra, non hanno fatto niente per chiedere aiuto…”
“E quindi?”
“E quindi…e quindi è sbagliato! Lo so, lo sento che il signor R non è cattivo, che l’ha rapita per un motivo, ma dovevano comunque chiamare qualcuno che aiutasse Harriet. E poi sono sempre così indaffarati…”
Johnny assunse un tono amaro: “Baby, c’è qualcosa sotto, è chiaro. Qualcosa che riguarda tanto loro quanto il signor R. E che adesso riguarda anche la tua preziosa Harriet. Ricordi quando lo zio Jesper si chiudeva sempre in biblioteca e tua madre si appartava a parlare con lui? Ricordi il libro che portava sempre sotto al braccio?”
Erin corrugò la fronte, tentando di risvegliare la memoria. Non si era soffermata molto, all’epoca, su quei particolari, benché li avesse registrati. Dato che quasi tutti al castello la ignoravano, era sua abitudine scrutarli non vista e prendere nota di tutti i loro comportamenti e spostamenti, grazie alla protezione dell’anonimato. E sì, rammentava che per un lungo periodo lo zio Jesper si era barricato in biblioteca, comparendo immancabilmente con un volume appresso…un volume…molto antico, le sembrava…con la copertina in pelle nera…e delle borchie…di cui però non aveva letto il titolo.
“Pensi…pensi che sia importante?” chiese, incerta.
“Certo che è importante, scema! Sono i dettagli che contano! Trattava quel tomo con troppa cura…e non ha mai amato i libri, lo sai bene”.
“Ma che c’entra Harriet?”
“Sei lenta, eh? Harriet gli serve. E ora che il signor R l’ha rapita se la vogliono riprendere, così la potranno usare. E magari già che ci sono accoppano il signor R”.
“No!” prima che potesse trattenerlo, un grido le sfuggì dalle labbra. Avvampò, portandosi di scatto una mano alla bocca, e notò che il giardiniere aveva interrotto la propria potatura e la stava guardando, con una lieve ombra di preoccupazione sul volto sudato. Cadde in preda al panico e lo stomaco le si strinse in una morsa.
“Sorridigli!” sibilò Johnny: “Dì a quel babbeo che va tutto bene!”
Piegò all’insù gli angoli delle labbra, producendo una smorfia nient’affatto convincente, e sollevò la manina in un gesto stentato: “Va…va tutto bene!”
L’uomo ristette qualche secondo, poco convinto, poi, con un’alzata di spalle, tornò alle sue rose.
“Caspita, sei stata di un realismo impressionante!”
“Sta zitto” borbottò, imbarazzata: “E non ti provare a dire che uccideranno il signor R!”
“Perché? È la verità. Hanno ammazzato Eva che non aveva solo controllato Harriet, figurati cosa fanno al suo rapitore”.
“Eva è morta di vecchiaia”.
“Come no”.
“E comunque io non gli permetterò di fare del male al signor R!”
“Squillo di trombe per la superba eroina!”
Lo scherno di Johnny la feriva, ma non quanto altre volte. Perché la sola prospettiva che sua madre e lo zio Jesper potessero mettere le loro manacce luride addosso ad R la ripugnava, così come la ripugnava l’idea che volessero approfittarsi della povera Harriet. Lei e il misterioso giovane uomo sfigurato erano stati gli unici che non l’avevano giudicata strana, che nel loro piccolo le avevano offerto qualcosa di simile al conforto e alla felicità, e non era solita dimenticare i favori. Né gli insulti. Era piccola, stupida e incapace, ma non aveva niente da perdere ad indagare.
“A parte la vita”.
Osservò truce la striscia gialla tessuta sulla manica: “Sei un fifone, Johnny”.
“Non sono un fifone, sono realista”.
“Comunque io troverò quel libro. E andrò anche nella torre”.
Era sicura che il “luogo maledetto” avesse a che fare con quella vicenda inquietante. Un’intuizione, più che altro.
“Non farmi ridere, hai una paura tremenda della torre”.
Arrossì lievemente, ma drizzò il capo, dandosi un tono, o almeno cercando di farlo: “Le paure si possono vincere. Il papà lo diceva sempre”.
“Il papà è morto, scema”.
Sussultò: “Non è vero”.  
Suo padre non era morto. Johnny era veramente cattivo a ipotizzare una cosa del genere. Jonas aveva avuto solo…un contrattempo. Non sarebbe stata la prima volta. Ma sarebbe tornato. Sapeva che sarebbe tornato. E a quel punto lei avrebbe risolto il mistero, scoperto ogni cosa e salvato la situazione. Gli avrebbe raccontato tutto e lui sarebbe stato fiero di lei, le avrebbe fatto un sacco di coccole, stringendola forte e facendole il solletico con la barba. La bambina gli avrebbe fatto capire che anche se la mamma in sua assenza baciava lo zio Jesper lei, Erin, sarebbe sempre stata dalla sua parte, e non lo avrebbe tradito mai. Sarebbero stati tutti insieme, lei, suo padre, Harriet e il signor R.
“Sicuro, felici e contenti”.
Strinse i denti, asciugandosi furiosamente la lacrima traditrice che le era scivolata, chissà per quale stupido motivo, lungo la guancia. Ripeté con forza: “Il papà non è morto”.
“Invece sì!”
“Invece no!”
“Invece sì!”
“Invece no!”
“Invece potresti tacere un attimo, bambina?”
Le si gelò il sangue nelle vene, mentre Johnny, stupefatto quanto lei, taceva di colpo, e la mano scattava fulminea fuori dalla maglia.
Qualcuno l’aveva sentita parlare con Johnny.
Qualcuno l’aveva sentita parlare con se stessa.
Il “qualcuno” in questione era un uomo, anziano ma ancora ben portante, con le spalle larghe, la schiena dritta e una postura ferma, sicura, che niente e nessuno avrebbe potuto far crollare. Indossava un cappotto piuttosto logoro e sdrucito e il volto aveva lineamenti duri e marcati, così severo da istillarle immediatamente un senso di soggezione. Non la guardava come facevano gli altri quando la sorprendevano nei suoi giochi strani, con il sopracciglio inarcato e una piega malevola delle labbra, si limitava anzi a scrutarla con severità e con una lieve punta di impazienza, quasi fosse esasperato da lei. Il calore affluì violento e impetuoso alle gote e alle orecchie della bambina.
In un primo momento, provò addirittura ad opporsi mentalmente alla sua presenza, a dirsi che non era reale, non l’aveva beccata davvero a parlare con Johnny, non le aveva carpito il suo più intimo e imbarazzante segreto…perché per lei, essere sorpresa nel corso di una conversazione col suo amico immaginario era penoso quanto, per un adolescente, lo era farsi scoprire a masturbarsi dalla madre.
L’uomo attese per qualche istante una risposta che non sarebbe mai arrivata, poi lo sollevò sul serio, il sopracciglio, ma più con aria scocciata che derisoria: “Non è esattamente salutare starsene così a bocca spalancata, piccola. Va a finire che ci entrano le mosche”.
Erin la richiuse di scatto, rannicchiandosi su se stessa come una tartaruga nel suo guscio e nascondendosi in fretta e furia dietro ai lunghi capelli sciolti e arruffati che le cadevano davanti al viso. Se sua madre fosse stata come quelle di Charlotte, Astrid o Mia, sempre a fianco delle figlie nelle situazioni difficili, avrebbe usato le sue gambe come barriera, nascondendosi dietro di esse, ma così non era, per cui aveva preso l’abitudine di coprirsi coi capelli, tipo una bambina indemoniata. Poteva quasi illudersi che dietro a quella cortina gialla non ci fosse nessuno.
“Ma lui c’è, scema” le sibilò nel pensiero Johnny: “E devi rispondergli, o crederà che sei ancora più matta!”
Deglutì, cercando invano di rinfrescare con la saliva la gola secca come il deserto, e si sforzò di tirare fuori la voce, di rimediare alla terribile figuraccia e porsi sotto ad una luce migliore agli occhi di quello sconosciuto: “Uh?”
Uh.
Aveva ragione sua madre. Era una ritardata. Un fenomeno da baraccone. Non era affatto una Lawrence degna di questo nome, era la vergogna della sua famiglia. Meritava di essere rinchiusa nella torre.
L’uomo la esaminò in silenzio per qualche minuto. Si contorse a disagio sotto quello sguardo attento e scrutatore, a cui sembrava non sfuggire nulla. Provò nei suoi confronti un barlume di rancore, senza poterci fare nulla. Era capitato nel cosiddetto posto sbagliato al momento sbagliato, l’aveva scoperta a discorrere amabilmente con se stessa e adesso se ne stava lì a fissarla come se fosse un’attrazione turistica. Chi accidenti era? Prima il signor R, e ora lui… Lawrence Borg si stava riempiendo a dir poco.
Alla fine, l’uomo si schiarì la voce: “Che tu sappia, il portone d’ingresso è aperto?”
Gli occhietti di Erin, di quell’azzurro chiarissimo identico a quello di Raphael, al sicuro dietro ai capelli, schizzarono a fissare l’entrata del maniero, poi tornarono a concentrarsi sull’ospite. Perché voleva sapere una cosa del genere? Era venuto anche lui a tramare, complottare e bisbigliare? E cercava di carpirle informazioni come avevano fatto il signor R e sua madre?
Scosse la testa, in un gesto che poteva voler dire tutto o nulla, e si tirò indietro.
Berg sospirò, alzando gli occhi al cielo. Poi, come se avesse intuito i suoi pensieri, spiegò seccamente: “Devo svolgere un lavoro per conto del signor Lawrence. Mi chiamo Sigmund Berg. Mi ha promesso che avrei avuto libero accesso ad ogni angolo di Lawrence Borg”.
Erin trattenne il respiro. Era stato lo zio Jesper a chiamare quel tipo? Forse lo aveva incaricato di salvare Harriet!
“O forse” insinuò mellifluo Johnny: “È qui per accoppare lei e il tuo caro e adorato signor R”.
Rabbrividì dall’orrore. Per molti aspetti Johnny la aiutava a districarsi nei ragionamenti complicati, ma poi si dimostrava estremamente restio ad andarsene dalla sua testa, e non faceva che riempirgliela di brutti pensieri e di cattive insinuazioni. Era come il diavoletto di Kronk nelle “Follie dell’imperatore”. Ma perché non c’era anche l’angioletto, pronto a dispensare massime e a rassicurarla con gentilezza?
La voce secca e autoritaria di Berg la strappò brutalmente alle sue congetture: “È buona educazione rispondere quando ti viene fatta una domanda, bambina”.
Non era stato un vero e proprio rimprovero, quanto piuttosto una specie di insegnamento, burbero e spiccio, che l’uomo le aveva trasmesso con l’aria di chi sta facendo qualcosa di spiacevole ma necessario. Per Erin fu come una doccia fredda e provò il desiderio di fuggire, andare via, lontano dallo sguardo penetrante di quello sconosciuto che le scavava dentro. E lei non era abituata ad essere guardata con tale intensità, spesso a malapena si accorgevano della sua presenza. Sembrava che Berg volesse scoprire i suoi segreti.
“Come ti chiami?” le chiese. Lei capì che era il caso di rispondere, e subito, tanto che lo fece mangiandosi le parole, e le uscì una specie di: “’Rin”.  
Berg contrasse la mascella: “Erin?” scandì.
“S-sì” balbettò la bambina di rimando, rossa al di là dei capelli.
“Bel nome” borbottò Berg, con tono noncurante: “È una divinità celtica. Incarna la fertilità della terra”.
Erin piegò il capo di lato, stupita: “D-davvero?”
L’uomo scrollò le spalle: “Una triplice divinità, di cui Erin rappresenta solo un aspetto, a dirla tutta. Ma non è questo il punto”.
“E quali sono gli altri aspetti?” la domanda le sfuggì di bocca prima che potesse fermarsi. Si morse il labbro. Forse allo sconosciuto non andava di spiegare. Forse lo stava scocciando, come scocciava sua madre quando le poneva un quesito. Però le piaceva l’idea della divinità celtica. Forse c’era un mito al riguardo, come quelli greci che le piacevano tanto!
Berg le rifilò un’occhiata in tralice: “È un discorso troppo lungo!”
“Oh!” fece lei, delusa, trovando conferma ai suoi timori. Era meglio stare zitti, se stavi zitto non rischiavi di ottenere un rifiuto.
“Sei la figlia di Jesper?” le domandò lo sconosciuto.
Scosse la testa con foga, affannata come una stupida: “No no, lo zio Jesper è mio zio…”
“Lo zio Jesper è mio zio!” le fece il verso Johnny: “Dovrebbero incoronarti regina di eloquenza!”
Avvampò: “Cioè…lui non…Jonas è mio padre, e Christine mia madre”.
Perché quel Sigmund Berg non la lasciava in pace?! Era evidente che con lui era partita male. Si sentiva patetica proprio come le succedeva le rare volte in cui parlava con Christine. Anche se…le era piaciuto in maniera insospettata, il commento sulla divinità celtica.
“Erin” sospirò Berg, con una lieve sfumatura di gentilezza: “Prendi un bel respiro”.
Ubbidì meccanicamente, perché aveva usato lo stesso tono del suo professore quando facevano lezione, e a quel tono era abituata ad ubbidire. L’ossigeno che le entrò nei polmoni era pesante come piombo, ma l’anidride carbonica che buttò fuori le parve meravigliosamente leggera.
“E ora” proseguì Berg, quasi annoiato: “Ripeti la tua risposta in modo forte e chiaro”.
Di nuovo, fece come le era stato detto, e si stupì moltissimo quando pronunciò una frase perfetta, cristallina e intendibile come quelle che diceva in presenza di Harriet e delle sparute persone con cui si sentiva a suo agio: “No, sono figlia di Jonas e Christine”.
“Capisco” commentò l’uomo, mentre una strana luce gli si accendeva un attimo negli occhi, prima di svanire e lasciarli nuovamente duri e impenetrabili: “E il portone è aperto?”
Le era bastato prendere un bel respiro per parlare bene! Come mai non ci aveva mai pensato? Forse perché era troppo ovvio? O perché Berg aveva un aspetto tanto solido e autoritario che quando ti diceva le cose, queste erano? Il suo professore non era affatto così! Biascicava gli argomenti con tono monocorde e spento e appena lei si distraeva, o poneva una domanda troppo strana, si inalberava terribilmente e poi andava a lamentarsi con suo padre e a insistere che viveva “scollegata dalla realtà, in un mondo tutto suo”.
“E ha ragione” berciò Johnny: “Tant’è che Sigmund Berg è ancora lì che aspetta una risposta ma tu sei troppo presa dai tuoi pensieri per dargliela”.
Trasalì e le uscì una specie di grido, quasi, alzando la voce, potesse compensare la pausa di silenzio: “Sì! Sì, è aperto!”
“Bene” fece Berg: “Allora vado”.
Accennò un passo in direzione del castello, ma poi parve ripensarci. Si chinò su di lei, senza mutare espressione di una virgola, e con una mano forte e vigorosa le scostò i capelli dal viso. Fu un gesto così sorprendente e inaspettato che Erin rimase a bocca aperta, improvvisamente priva di barriere che la difendessero dal mondo, o che le dessero l’illusione di essere sola.
Berg la guardò dritto negli occhi (a pensarci, non le aveva chiesto nulla sulla conversazione con Johnny) e disse: “Non devi vergognarti del tuo viso, piccola. Nessuno dovrebbe”.
Erin lo fissò, ammutolita, con le mani che le sudavano copiosamente in grembo e gli occhietti strabuzzati nella faccia pallida. Quasi pentito di ciò che aveva fatto, lui si scansò con un movimento rapido e brusco, lasciando che la chioma bionda della bambina tornasse a ricadere in avanti, e le voltò le spalle senza neanche salutarla, avviandosi a grandi passi verso il portone d’ingresso.
Lei lo seguì con lo sguardo, rigida come una statua sulla panchina.
“Non devi vergognarti del tuo viso. Nessuno dovrebbe”.
“Seguilo!” esclamò Johnny.
Spalancò gli occhi: “Cosa?”
“Seguilo, no? Lo zio Jesper l’ha mandato a indagare sul signor R!”
Scrollò il capo come per allontanare una mosca molesta: “Tu sei pazzo…”
“E tu più di me! Volevi provare a salvare lui e Harriet, giusto? Bene, segui quell’uomo!”
“E se poi mi scopre?”
“Non ti scopre. Sei bravissima a nasconderti, e poi sei molto più piccola di lui. Fidati del vecchio Johnny, seguilo!”
Erin ripensò a come le aveva spiegato che il suo nome fosse quello di una divinità, al fatto che non le aveva posto domande sul dialogo a tu per tu con se stessa, e al modo in cui le aveva scostato i capelli dal volto. Le faceva un po’ paura, ed era diffidente, ma forse…se davvero era stato incaricato di cercare informazioni sul signor R…
Prima di poterci ripensare, saltò giù dalla panchina, sulla ghiaia scricchiolante, e accennò una corsetta goffa e stentata, sulla scia di Sigmund Berg, l’istitutore che quindici anni prima aveva cresciuto e salvato Raphael Lawrence.
 
Jesper correva nel bosco, in quel bosco. Non ci era più tornato, da quando era successo, eppure adesso che tutto era sul bilico di un baratro profondo, adesso che il demone era tornato a maledire ancora una volta il suo futuro, non aveva potuto farne a meno. Perché nella sua mente, sapeva che c’era la possibilità di perdere Harriet per sempre, che forse non l’avrebbe ripresa in tempo, che il mostro era furbo, molto furbo, e che dunque occorreva trovare un piano alternativo, una scappatoia che nella sua boria, la sua arroganza, non aveva mai considerato, sicuro che tutto si sarebbe svolto secondo i programmi, che niente sarebbe andato storto, solo perché lui lo desiderava tanto.
Proprio come suo padre, si era sopravvalutato, aveva sopravvalutato il proprio potere, e a causa di questo avrebbe potuto perdere tutto. Ma era capace di imparare dagli errori del genitore. Era capace di pensare con la sua testa, checché ne dicesse quella puttana di Christine! E non era disposto a rinunciare a lei, solo perché quell’essere disgustoso aveva deciso di rovinargli l’esistenza!
Avrebbe riaperto il libro. Erano anni che non lo faceva, che lo teneva nascosto persino a se stesso, terrorizzato all’idea che qualcuno, Christine, lo trovasse, che gli strappassero un segreto che era e doveva restare soltanto dei Lawrence, ma non aveva altra scelta. Doveva scoprire se era possibile ottenere la ricompensa in altro modo, se c’era un sistema, qualsiasi sistema…una bestia in fondo al suo stomaco gridava sciagura, ma non intendeva ascoltarla, non questa volta.
Questa volta, la bestia sarebbe rimasta sopita.
Dal libro era incominciato tutto, la rovina di Raphael, di Viktor, di suo padre, di lui, di Ursula…e dal libro tutto sarebbe finito. Lo aveva consultato una sola volta, e poi lo aveva portato con sé, chiuso con un lucchetto, visibile agli altri, ma inaccessibile al loro tocco…inaccessibile alle sue stesse mani, giacché la chiave che lo apriva, l’aveva nascosta in un posto innominabile.
Posto che avrebbe dovuto visitare, senza possibilità alcuna di scelta.
E il percorso attraverso la foresta sembrava inesistente, tanta era la velocità che egli utilizzava per correre. Gli alberi divenivano un’unica macchia verde, mentre la luce del sole lo inondava a tratti, facendo rilucere la sua ampia e fiera fronte, imperlata di sudore. Le radici sembravano tendere agguati al giovane corridore, ma lui le superava, i piedi tanto leggeri nel toccare il suolo che parevano quasi volare.
Ursula, Ursula, Ursula…
Ogni sentimento di paura, desolazione e dolore che aveva sperimentato in quegli ultimi giorni trovava un minimo di requie in lei, nel suo nome, ma allo stesso tempo si decuplicava, tanto senso di colpa quelle tre sillabe stillavano. Un Lawrence non avrebbe dovuto amare, suo padre glielo aveva detto tante volte, perché avrebbe finito per distruggere l’oggetto del suo amore, condurlo alla rovina…
“Io non sono mio fratello, porca puttana!! Non sono lui!”
“Sei proprio come lui! Vattene via, vattene via!”
Gli ultimi alberi gli si pararono di fronte, come in un incubo. Si lanciò in una folle corsa verso la roccia, quella roccia, non avrebbe potuto sbagliarsi, anche a distanza di anni. Quella dove il terreno era più molle e cedevole, quella su cui lui e Ursula si erano seduti tante volte a fare un picnic, ridendo spensierati e ignorando l’ombra che incombeva su di loro.
“Non sai con chi hai a che fare, sgualdrinella che non sei altro!”
“Sei impazzito?! Cosa vuoi fare?!”
Si gettò sul terreno singhiozzando, e con le ultime energie che gli rimanevano dopo la corsa frenetica iniziò a spostare la terra soffice, che gli si infilava sotto le unghie, grattando sassi e erbe selvatiche, tirando via, insieme con le zolle, anche la sua stessa angoscia e disperazione.
Vide affiorare dalla terra qualcosa di più duro.
Lo scheletro della ragazza giaceva lì da anni, eppure, nonostante la mente di Jesper fosse consapevole del tempo trascorso, rimase impietrito nell’accorgersi di cosa era divenuta. I fluenti capelli biondi erano totalmente scomparsi, il cranio era sporco di fango e terriccio. Le orbite vuote, tana di piccoli vermi bianchi, avevano perso tutta la loro dolcezza, e assomigliavano alla finestrella della torre più alta, quella da cui il mostro li aveva sempre scrutati, covando piani di vendetta. Sembravano scrutare lui, e accusarlo, mentre i denti scoperti ghignavano con maligna soddisfazione. Un conato di vomito lo assalì, ma si costrinse ad ignorare l’orrore, a relegarlo in un angolo di sé, a convincersi che quello non fosse nient’altro che un oggetto, mentre strappava con gesti decisi gli stracci muffi che un tempo erano stati gli abiti della ragazza, cercando di non far caso alla sporcizia e la desolazione di quel momento, di non dare ascolto ai ricordi, soprattutto di dimenticare il motivo per cui Ursula si trovava lì, nella terra fredda e inospitale.
“No, lasciami!”
“Vuoi che sia uguale a lui? Eh, puttana?! È questo che vuoi?!”
Improvvisamente toccò un oggetto di metallo. Lo afferrò e, liberatosi della stoffa bagnaticcia e piena di terra, lo alzò alla luce del sole. Una chiave, una piccola chiave d’ottone. La chiave che apriva il maledetto libro. Sepolta insieme allo scheletro della ragazza che amava, nell’unico luogo in cui nessuno l’avrebbe cercata.
La strinse al petto, mentre le lacrime rigavano silenziose il volto perfetto, e sussurrò, a quel teschio grottesco e roso dal tempo: “Troverò un modo, amore…qualsiasi modo”.
 
Angolo autrice: Ciao a tutti! Okay, non uccidetemi, so già di aver promesso un po’ di Rarriet (come direbbe Niglia) o di Rietael (come direbbe Jo_TheRipper) ma, ecco, il brodo si è allungato parecchio e secondo me avrebbe appesantito (anche perché da ora in poi i due cominceranno ad innamorarsi e vorrei che i loro momenti risultassero i centrali in un capitolo), così ho deciso che il prossimo chapter sarà nuovamente incentrato su di loro e sulle evoluzioni del loro rapporto : ) cominceremo a correre su due binari paralleli, da una parte Raphael e Harriet nei sotterranei, e dall’altro i magheggi vari a Lawrence Borg…finché le cose non torneranno ad unirsi! Coomunque, spero di riuscire a postare il prossimo capitolo entro giovedì, data in cui partirò per la cara vecchia Parigi, ma lì avrò un pc quindi non disperate, non partirò di nuovo per la Costa Concordia!
Allora, qui siamo tornati nella mente della piccola, stramba e inquietante Erin…che, devo ammetterlo, adoro. Non ci posso fare niente, ogni volta che mi immergo nel suo punto di vista mi ci perdo a capofitto. Scusate per il mezzo disastro venuto fuori! Ah, la storia dell’amico immaginario Johnny si rifà al Tony di “Shining”, quello che faceva avere a Danny le visioni…non ho potuto resistere ad un collegamento con uno dei miei film preferiti! Quanto al fatto che abbia dato al suo “amico” un nome simile a quello del padre, è un rimando all’Esorcista (tanto per rimanere su argomenti allegri XD) nel quale la protagonista chiama il demone Capitano Howdy, abbreviazione di Howard che è, appunto, il nome del padre…tutti casi di bimbi con carenze affettive che sviluppano curiosi meccanismi mentali, insomma XD però Erin ha un animo buono, ci tengo a precisarlo! Come in fondo lo ha anche Raphael :D che Johnny imprechi e la insulti secondo me è legato alla figura materna che si lascia sfuggire certe belle bestemmie in sua presenza e non fa che trattarla male! Coomunque…si è messa ad indagare, sulla scia di Berg…i due in qualche modo si avvicineranno?
Jesper, Jesper…su Jesper c’è poco da dire, immagino, e poi sto sproloquiando troppo :’) ringrazio tantissimo Niglia, Homicidal Maniac, dobralik e Jo_The Ripper per aver recensito, e tutti coloro che seguono questa follia <3 ragazzi, senza il vostro sostegno non ce la farei! Niglia, poi, mi ha fatto da poco un bellissimo regalo, e dico in tutta sincerità che se dovessi dedicare le avventure di Raphael a qualcuno, le dedicherei a lei e a Homicidal, che le hanno seguite con costanza, disponibilità e affetto e senza le quali non saprei proprio che fare, anzi, che scrivere! Ragazze, avete dato un senso a questo personaggio brutto, sporco e cattivo, era più di quanto potessi sperare!
Un bacione a tutti,
Sylphs 

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Capitolo 11
*** Capitolo 13 ***


Capitolo 13
 
 
 
 
 
 
Harriet vorticava in un cielo di un bianco abbagliante e spiegava al vento un immenso paio di ali piumate, argentee e scintillanti sotto la luce dorata del sole. I capelli si agitavano furiosamente tutto intorno e le braccia nude erano allargate a comprimere il vuoto abissale che si dilatava sotto di lei, un vuoto pressoché privo di terreno solido. Rideva, gettando indietro il capo, e lasciava che le correnti ascensionali la catapultassero in mille direzioni diverse, battendo con vigore le grandi propaggini che le spuntavano dalle scapole.
“Provate a prendermi!” esclamò, ignorando il bagliore troppo intenso del sole che le ustionava la testa. Niente avrebbe rovinato il suo volo: “Provate, se vi riesce!”
Un gorgo nero e pulsante guadagnava terreno dietro di lei, inquinava la purezza incontaminata del cielo e lo tingeva di tonalità malate, violacee come lividi, pulsanti di malvagità. Il sole la seguiva per salvarsi, seguitando a colpirla sulla fronte con i suoi raggi spietati, e lei volava sempre più disperatamente nel bianco che restava, con quella bassa risata sguaiata che le scaturiva dai polmoni: “Siete finiti!” gridò con odio: “Finiti!”
Ma il buco nero era come un’enorme calamita che attirava ogni cosa nel proprio raggio d’azione e ben presto si sentì trarre indietro da una forza spaventosa, malefica, da un’energia che le aveva arpionato le ali e le tirava a sé. Urlò, dibattendosi inutilmente, e in un impeto di disperazione impugnò alto nell’aria uno spazzolino da denti con le setole imbrattate di capelli, diventato tagliente come una lama, e se le mozzò di netto, in una pioggia di scuro sangue viscoso. Cadde, gridando a squarciagola, e la pressione atmosferica le si scaricò sulla testa con tale violenza che se la sentì esplodere.
 
La sua bocca era secca come il deserto, il nero catrame promanato dalla nube
le pulsava nelle vene e le contaminava, irrorava linfa venefica nel suo cervello martoriato. Gemette, un suono basso e rasposo, battendo le palpebre nel buio totale di una stanza asfittica: “No…mi ha preso…l’oscurità…”
Nero e ombre a circondarla, un’arsione insopportabile ai polmoni e un mal di gola che le faceva pulsare la trachea ogni volta che inspirava respiri rauchi. Si lasciò sfuggire un colpo di tosse, la mente in agonia, e una sagoma scura entrò nel suo campo visivo, pronunciando parole che non riusciva ad intendere.
“Forse posso risalire…” mormorò mentre le tenebre la avvolgevano e la portavano via con loro, nei meandri dell’incoscienza.
 
Camminava in un ampio corridoio intarsiato simile ai tanti di Lawrence Borg e lo strascico del suo lungo abito da sposa la seguiva strisciando, sorretto da sua madre e sua sorella Hannah, entrambe silenziose e impassibili, ognuna con un abito da sera di diverso colore. La sua mano era abbandonata in quella di Jesper, bello e altero nel suo completo nero ed elegante.
“Dove siamo?” chiese in un soffio mentre seguitavano ad avanzare vicini nella tenuta da sposo e sposa, in un silenzio tombale. Lui le sorrise con calore, le baciò il palmo della mano e si chinò a bisbigliarle all’orecchio, con il tono languido ed intimo di un amante: “Non verrò a salvarti!”
 
Fruscii. Spostamenti. E ancora tenebre, sempre tenebre.
Una persona era china su di lei, ombra immensa tratteggiata nell’oscurità della stanza, e le aveva alzato la testa con cautela. Le fitte le tagliavano la fronte in due, il bruciore penetrava in ogni terminazione nervosa. Voleva dormire, tornare a Lawrence Borg, dire a Jesper che….
“Non posso sposarlo” biascicò: “Ho cambiato idea”.
La figura emise un grugnito e le sollevò il capo ancora di più, con mani agili e gelide come la morte. In quella presa c’era qualcosa di malsano che le feriva la carne pari agli artigli di una bestia mostruosa, la stessa bestia che l’aveva fatta prigioniera.
“Non…toccarmi” ansimò alla bestia, incapace, tuttavia, di sottrarsi. Lui non le diede ascolto e le premette contro le labbra riarse un bordo duro e sbeccato: “Bevi” ordinò una voce raschiante, troppo bassa e formidabile per appartenere ad un uomo. Lacrime roventi le colarono sulle guance ma ubbidì, assetata come mai era stata in vita sua, prosciugando in un attimo l’acqua limpida e fresca. Il suo corpo bruciava, un calore mortale le pulsava sotto la pelle.
La bestia le appoggiò sulla fronte una pezzuola bagnata e le palpebre cedettero al dolore, trascinandola nell’oblio.
 
Sedeva su una poltroncina di velluto nel bel mezzo dell’ampio, fastoso salone da ballo in cui si era tenuta la festa di Halloween, mentre era in corso una sorta di cena celebrativa, con un calice di vino in mano e addosso l’abito blu da Persefone che aveva realmente indossato quella notte. Intorno a lei, gli ospiti bevevano e cantavano a squarciagola, tutti vestiti da fantasmi, mostri o zombie, ormai ubriachi fradici. La luce delle lampade e del lampadario spandeva bagliori dorati sulle facce rosse dei convitati, e in piedi sopra una sedia Jesper e Christine, camuffati rispettivamente da vampiro e da diavolessa, dirigevano il coro scalcinato agitando una forchetta.
Rise, mandando giù un sorso di vino diluito. Si aspettava di avvertirne il sapore dolce e ricco sulla lingua, invece non aveva gusto, le scivolava giù per la gola senza lasciarsi indietro alcuna sensazione di piacere. Allontanò il calice con un gesto stizzito e strinse più vigorosamente i braccioli della poltroncina, scrutando con occhi torvi il caos circostante: avevano preso a cantare con più forza, sbattendo i pugni contro i tavoli e battendo le posate sui bicchieri e i piatti vuoti, ed erano grotteschi, con gli occhi strabuzzati e iniettati di sangue, le guance paonazze, i ventri gonfi, le venuzze in rilievo. Jesper e Christine agitavano le forchette con foga isterica, facevano loro cenno di aumentare il volume tergendosi la fronte zuppa di sudore. Non cantavano più, urlavano. Il frastuono le faceva scoppiare la testa.
“BASTA!” strillò, scattando in piedi con le dita convulsamente serrate sul suo ricco costume. Tremava per la sofferenza e l’esasperazione: “Smettetela!”
Loro si limitarono a ridere. Il suo fidanzato e sua cognata descrissero all’unisono cerchi e spirali impazzite con la posata e il canto raggiunse un livello umanamente impossibile, echeggiò altissimo sul soffitto affrescato. Si tappò le orecchie, stringendosi la testa così forte che dalle tempie prese a colare sangue denso: “Basta, basta, basta…”
Le gole frementi dei convitati si squarciarono, la pelle sembrò liquefarsi sotto la potenza di quelle note dissonanti e i corpi si afflosciarono a terra come macabre marionette senza fili, mentre dalla bocca spalancata di ognuno emergevano le membra viscide e contorte di veri mostri, esseri striscianti con baluginanti occhi rossi e zampette da insetto, e il canto si trasformava in un orrendo verso stridulo, tanto forte da frantumare l’aria. Urlò, arretrando e inciampando sulla propria sedia, e le creature scaturite dal corpo di Jesper e Christine, ancora più distorte delle altre, le vennero incontro muovendo le zampe come prima muovevano le forchette, chiudendo le mandibole schioccanti su di lei e ficcandole in gola a forza una grinzosa massa sanguinolenta che gliela occluse e gliela riempì di bile, impedendole di respirare.
 
“Nooo…”
Gridava e piangeva contemporaneamente, dibattendosi nelle coperte umide di sudore, scalciandole lontano da sé, e si vomitava addosso getti di liquido amaro, la gola ostruita dalla sensazione di avere davvero ingoiato quella mostruosità: “No!” gemette tra un conato e l’altro: “No, via!”
Qualcuno tentava di rimetterle addosso le coperte, ma le trasmettevano un orribile senso di soffocamento e continuava a scostarle, urlando a squarciagola, folle di panico al pensiero che Jesper e Christine l’avessero contaminata per sempre, che infilandole in bocca quella roba l’avessero guastata: “NO, NON VOGLIO, NON VOGLIO!”
“È finita!” gridò la voce cupa e raschiante di prima, mentre le mani fredde la circondavano per tenerla ferma: “Calmati, è finita adesso!”
“No…” singhiozzò, tremando per lo shock e abbandonandosi pian piano alla stretta tenace di quelle braccia. Le sembrava di percepire dentro di sé il gusto acre e insopportabile del putrido liquame in cui aveva rischiato di annegare, e al tempo stesso si sentiva minacciata, in pericolo. Stava male, così tanto male, sentiva di dover morire a breve: “Non infettatemi” farneticò: “Qualunque cosa ma non infettatemi!”
Venne riadagiata sul letto, coperta, quindi un panno le pulì la bocca dal vomito. Continuava a sussultare sul materasso.
“Bevi” intimò la voce raschiante con lo stesso tono della volta prima. Docile, ingollò la bevanda che le era stata accostata alle labbra e stavolta avvertì un sapore diverso, un po’ aspro, che l’avvolse in una cortina di pesante torpore e la sprofondò nel sonno, un sonno privo di sogni, nero e profondo.
Quando si svegliò per la quarta volta, il terrore acuto e l’agonia della febbre erano svaniti e la sua mente era lucida. Le sembrava di aver vagato tra le ombre per eoni, smarrita in visioni grottesche, e di esserne emersa a costo di mille fatiche e prove, esausta ma salva.
Ho avuto la febbre. Ingoiare tutto quel putridume e quella sporcizia deve avermi quasi avvelenata.
Fu il suo primo pensiero.
Sono fuori pericolo.
Malgrado il netto miglioramento, faticava ancora un poco a rimettere a fuoco la situazione, tuttavia ricordava. Ricordava tutto. Il rapimento da parte del misterioso individuo che sospettava essere un completo folle, il suo tentativo di fuga, la corsa nei meandri dei sotterranei con i passi del suo aguzzino che la inseguivano, il frenetico arrancare nel liquame che l’aveva avvolta come una coperta, trascinandola in profondità…e le braccia che all’ultimo momento la riportavano in superficie. Gli ultimi momenti erano più confusi, più che altro le sembravano il principio del delirio, poiché una sola immagine le era rimasta impressa nelle retine, ed era un’immagine così orrenda, così mostruosa che solo cercare di dipingerla nella mente le provocò un brivido gelido e tagliente come una lama passata dolcemente sulla sua spina dorsale. No, doveva essere stata di sicuro un’allucinazione. Una creatura tanto terribile era senza alcun dubbio il frutto dei suoi peggiori incubi.
Quanto all’altra creatura…quella che la teneva prigioniera…
Deve essere stato lui a salvarmi e a riportarmi qui.
Riconosceva la forma del letto su cui era adagiata, così come il tessuto morbido e ricamato delle coperte che una mano ignota le aveva messo addosso. Era tornata in “cella”. Ma, e questo la sorprese, anche se il suo carceriere aveva stabilito la regola secondo la quale avrebbero vissuto nelle tenebre, c’era una singola candela accesa sopra al tavolino da notte, che illuminava con il suo tenue bagliore soltanto il letto e parte del divanetto foderato di velluto color vino contro cui era inciampata la prima volta che aveva tentato di riconquistare la libertà. Il resto della camera era impregnato di buio. Danzando sulle pareti di pietra, le ombre proiettate dalla fiammella creavano macabri giochi di luci. Studiò per qualche istante quella piccola fonte di luce ormai prossima a consumarsi, sbalordita, e si accorse che accanto ad essa giaceva un vassoio con sopra un bicchiere d’acqua e una ciotola di quello che sembrava brodo di pollo tiepido. Un pasto da ammalato.
Il pensiero di dovere la vita al suo aguzzino la ripugnò. Aveva sempre saputo di avere scarsissime possibilità di fuggire, eppure, quando era riuscita a metterlo temporaneamente fuori gioco, aveva sperato che…ma aveva peccato di ingenuità, come al solito. Non bastava volere una cosa perché questa si avverasse. E quell’uomo, sempre che questo fosse, era molto più forte e scaltro di lei. L’aveva addirittura salvata. Ma non l’avrebbe certo ringraziato per la buona azione. Se aveva rischiato di morire era stato solo per colpa sua. E aveva finito di mostrare gratitudine a coloro che la rovinavano. Se credeva che gli sarebbe stata riconoscente, era ancora più pazzo di quanto pensasse.
“Finalmente ti sei svegliata. Iniziavo a temere di non vedere mai più i tuoi occhi verdi” ghignò una voce roca e insinuante nell’oscurità, che Harriet riconobbe all’istante come quella del suo carceriere. Sussultò involontariamente, rimproverandosi con durezza subito dopo – sarebbe mai riuscita a non farsi cogliere di sorpresa da quel mostro? – e fece dardeggiare lo sguardo tutt’intorno, cercando di capire dove egli fosse. Detestava che la guardasse senza che lei potesse guardare lui, si sentiva inferiore, in svantaggio, e malgrado non potesse vederlo, malgrado non sapesse nemmeno che aspetto avesse, percepiva le sue pupille puntate addosso con dolorosa intensità, in un’occhiata che la bruciava come se a sferzarla fossero state lamine infuocate e non gli occhi di un uomo. Digrignò i denti, affondando nel contempo le unghie nei palmi delle mani.
“Già ti metti sul piede di guerra?” la canzonò R, asciutto; era fuori dal raggio di luce proiettato dalla candela, nascosto nella cortina di oscurità: “Ti ho salvato la vita. Questo dovrebbe bastare a rassicurarti sul mio conto”.
Harriet scoppiò in una risata secca come un colpo di frusta, ignorando il dolore lancinante che avvertiva alla gola: “Lei non mi ha affatto salvato la vita. Se stavo per annegare era solo perché cercavo di scappare da lei. La verità è che preferivo morire!”
No, non era così. Nonostante la sua infelice situazione, voleva vivere. Ed era…sollevata di non essere affogata in quel putridume. Sarebbe stata una fine troppo iniqua e troppo ingiusta. Ma sarebbe morta piuttosto che ammetterlo davanti a lui.
“Davvero?” le domandò, con un tono che le diede l’impressione che lui sapesse che aveva mentito: “Dalla morte non c’è ritorno, fanciulla. Non ci sono candele a rischiarare il tuo cammino né speranze a illuminare i tuoi giorni. Solo tenebre e rimpianti che non troveranno mai pace. È sul serio la morte che desideri?”
Frustrata, Harriet abbassò lo sguardo in grembo, torcendosi furiosamente le mani, e si lasciò sfuggire a fior di labbra: “Se non mi fossi mai fidanzata con Jesper questo non sarebbe successo…”
“Concordo” sibilò il suo carceriere: “Immischiarsi negli affari dei Lawrence non porta nessun vantaggio. E prima o poi tutti ne pagano il prezzo”.
Harriet fece un sorriso cinico: “Allora anche lei deve essere un Lawrence”.
Le rispose un silenzio assoluto, così denso che le parve al contrario che la stanza fosse piena di urla e di rumori assordanti, tanto le orecchie le pulsavano e il sangue le rimbombava nei timpani. Impulsivamente, si avvolse il busto con le braccia e si rese conto con un lieve trasalimento di non indossare più il pullover e i jeans ormai logori che aveva trovato nella latrina, ma al contrario un antico abito rosso che doveva risalire a parecchi decenni prima, con una generosa scollatura foderata di rose finte, il bustino decorato con perline che pendevano lievemente dai fili e una lunga, frusciante gonna di seta. Era sorprendentemente in buono stato.
“Non dicevo sul serio” disse infine, inquietata, in qualche modo, dal perdurante silenzio – possibile che volesse davvero risentire la voce di lui? – “È stato lei a mettermi questo vestito?” chiese quindi accusatoria, sollevando un lembo di stoffa scarlatta.
Stavolta, R rispose dopo pochi secondi, in tono smorto e privo di interesse: “Sì. Lasciami dire che il rosso è il tuo colore. E che ti dona molto di più di quegli stracci di cotone”.
Le guance della ragazza si imporporarono per la collera: “Lei non aveva nessun diritto!” gridò. Fu chiedere troppo alle sue corde vocali ancora doloranti; tossì furiosamente, in preda ad un bruciore di gola quasi insopportabile, con le lacrime agli occhi, ma andò avanti: “Non aveva nessun diritto di prendersi queste libertà! Non sono un animale, sono una persona!”
La sola idea che quell’essere l’avesse vista nuda le risultava intollerabile. Era stata umiliata in tutti i modi possibili, ma con questa mossa aveva violato la sua intimità, le aveva lasciato addosso un marchio indelebile e infamante. Aveva voglia di gettarsi su di lui e graffiarlo, di ucciderlo con le sue stesse mani, ma con spietata lucidità sapeva che non sarebbe servito a nulla, specialmente ora che si sentiva tanto debole, e che anzi si sarebbe ridicolizzata ancora di più agli occhi di quel bastardo.
“Preferivi morire assiderata?” ribatté R, a metà tra il piccato e il divertito: “Sei stata tu a buttarti nel canale, ragazza. Te l’ho forse chiesto io? Se ti avessi lasciato addosso i tuoi indumenti fradici il caro Jesper sarebbe andato all’altare con un cadavere. È davvero questo che volevi?”
Harriet strinse gli occhi, furiosa; avrebbe voluto lacerare quell’abito che le accarezzava la pelle trasmettendole lo stesso sentore di morte del tocco del suo carceriere, ma era evidente che i vestiti che le appartenevano fossero stati riposti fuori dalla sua portata, e da un certo punto di vista, il discorso di lui era corretto: “Quello che volevo” ringhiò battagliera: “Era riavere la mia libertà!”
“Ahimè!” sospirò lui, con un accento di folle mortificazione: “Questa, purtroppo, è una delle poche cose che non posso offrirti”.
Il volto della ragazza si indurì: “C’è forse qualcosa che può offrirmi?”
“Ma certo” la voce di lui appariva vagamente sorpresa, come se stesse ribadendo un’ovvietà: “Non sono un mostro, ragazza, o almeno non quel tipo di mostro. Ti sto forse facendo mancare qualcosa? Hai un letto su cui dormire, una casa in cui stare – ebbene sì, un sotterraneo può essere considerato una casa, se non c’è nessun’altro posto in cui rifugiarsi! – e vestiti nuovi e puliti! Ti ho addirittura concesso una candela”.
“Quale onore!” replicò Harriet, grondando amaro sarcasmo.
Questo parve contrariarlo un poco: “Sei una piccola ingrata, ragazza” berciò, producendo un lieve, viscido fruscio che le fece supporre che si stesse muovendo nella zona buia in cui se ne stava rannicchiato: “Una piccola, diabolica ingrata e non c’è categoria che io detesti di più. Oh, ho avuto a che fare con gli ingrati, eccome! Piccole carogne che non conoscono il valore dell’ospitalità e che considerano un grazie l’onta peggiore…dico io, che cosa mai potresti volere di più, piccola ingrata? Ti ho forse incatenata alla parete?! Ti ho forse rinchiusa in una torre?!” scoppiò in una risata pervasa da una nota di allarmante follia che sembrò riecheggiare sulle pareti di pietra e rimbalzare dal soffitto al pavimento come una biglia impazzita: “No!...no!...no! Non ho fatto nulla contro di te all’infuori di tenerti qui!”
“E le sembra poco?!” la gola le doleva da morire e le membra chiedevano a gran voce riposo, ma aggrappandosi alla struttura in ferro battuto del letto Harriet riuscì a tirarsi in piedi, reggendosi a stento sulle gambe malferme e dardeggiando occhiate di fuoco all’oscurità. Forse un altro si sarebbe arreso a quei folli discorsi, ma se avesse taciuto, tremebonda, e avesse lasciato che lui proseguisse nella sua delirante arringa, forse avrebbe prolungato la sua vita, ma non avrebbe cambiato nulla nella sua situazione; e poiché era chiaro che prima o poi sarebbe dovuta morire, tanto valeva combattere, lottare almeno in quell’ultima battaglia: “Anche quando una persona viene spogliata di tutto ciò che ha, della sua dignità, dei suoi sogni, delle sue speranze, può continuare a vivere in nome della cosa più importante, ed è la libertà!” proseguì, con voce orribilmente rauca e spezzata: “La libertà di fare ciò che si vuole, almeno entro i limiti del possibile, e di esistere secondo le proprie regole! E la libertà, R, è ben più importante di un letto comodo e di un vestito nuovo!”
Come poteva non comprendere un concetto così naturale e giusto? Come poteva non capire una cosa tanto semplice?
Dalla coltre di tenebre che aveva davanti, un muro invalicabile e un confine netto tra giorno e notte, giusto e sbagliato, angeli e demoni, provenne un tetro a umido silenzio rotto soltanto dal respiro accelerato dell’uomo che la teneva prigioniera, e Harriet ansimò per qualche minuto, senza fiato, quasi inconsapevole delle poche lacrime che le erano cadute sulle guance. Moriva dalla voglia di prendere la candela dal comodino, avanzare e fare luce in quell’angolo di ombre, per conoscere il volto di R, ma al tempo stesso sentiva di non doverlo fare, che quello era l’ultimo, sottile velo che la separava dall’abisso. Fintantoché non l’avesse visto in faccia, avrebbe avuto ancora qualche speranza di uscirne viva. Perciò rimase dov’era, tremante, con la gola in fiamme e la pelle che scottava; la febbre, a quanto pare, non le era passata del tutto.
“Tu mi parli di libertà” sibilò infine R, così repentinamente da causarle un piccolo trasalimento: “Ma tu ce l’hai già la tua libertà, piccola ingrata…la libertà di essere”.
Harriet aggrottò la fronte, senza capire: “La libertà di essere?”
“Esatto!” ringhiò lui: “La libertà di essere! Ed è l’unica libertà che conta! La libertà di avere un nome e di poterlo dire quando incontri qualcuno! La libertà di avere un’identità, anche la più terribile, che ti permette di andartene in giro alla luce del sole, di guardarti intorno e pensare tutto questo mi appartiene, perché io sono!! Io sono, piccola ingrata! Ma il bello di voialtri di sopra è che non lo capite…no, non lo capite affatto…” un sogghigno inquietante nel buio, un altro fruscio: “Per voi che cos’è la libertà? Solo camminare con le proprie gambette da un posto all’altro senza che nessuno gridi o ve lo impedisca, perché, ovvio, voi siete belli, e questo per voi è normale! Per me questo è un privilegio, piccola ingrata, un privilegio! Per me la libertà naturale di cui parli è semplicemente avere un nome! E per averlo sono disposto a qualsiasi cosa, qualsiasi cosa!!”
C’era una tale, angosciosa disperazione nel tono del suo carceriere che Harriet se ne sentì sopraffatta, come se un macigno pesantissimo le fosse piombato addosso e l’avesse schiacciata a terra, giù, giù, giù, ancora più in basso del sotterraneo in cui si trovava. E non era un fardello che fosse in grado di sostenere, no, nessuno ci sarebbe riuscito, le provocava anzi un senso di repulsione, la voglia di tapparsi le orecchie, accucciarsi a terra e difendersi in quel modo infantile dal significato di quelle parole. Lui era il suo aguzzino, l’individuo che l’aveva rinchiusa nelle viscere della terra e imprigionata, eppure si ritrovò a provare pietà per lui.
“Tutti possiedono la libertà di essere…” disse in un soffio.
“Questo è quello che pensi tu, piccola bella ingrata! Ma uno sgorbio, la libertà di essere, non ce l’ha. È così che mi chiamavano…sgorbio, sgorbio…finché mi hanno tolto il mio nome! E che cosa sono io adesso? Un vermiciattolo che vive sul fondo di un contenitore? Il mondo me l’ha negata, la libertà…e io la nego a te, perché è venuto il momento di pagare il prezzo, piccola ingrata” R fece una pausa, respirando con forza nelle tenebre, poi ripeté, in una macabra cantilena: “Bisogna pagare il prezzo, pagare il prezzo”.
“Tu chi sei?” sussurrò Harriet, terrea sotto la fievole luce della candela, che proiettava bagliori rossastri sulle sue iridi verdi e lucide e danzava sull’antico abito cremisi.
“Forse dovresti chiedermi…” ribatté lui: “Che cosa sono, piccola ingrata”.
Deglutendo a fatica, la giovane si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio con un gesto nervoso, quasi isterico: “E che cosa saresti?”
Si aspettava una risposta immediata, invece R lasciò trascorrere diversi istanti in silenzio. L’atmosfera era come sospesa, immobile, e Harriet aveva dimenticato la sua indignazione e perfino il dolore alla gola e alla testa, tanto era presa dal dialogo. Fino a quel momento, non aveva mai intuito fino in fondo quanto fossero forti e assoluti il tormento e la pazzia del suo carceriere, ma ora lo vedeva chiaramente. E se da una parte era inorridita dall’abisso in cui lui viveva, dall’altra quella strana sensazione che chiamava pietà, in assenza di altri termini adatti, la spingeva a insistere, a sapere.
Ma chi gioca col fuoco finisce per scottarsi..
“Non lo so” mormorò infine R, nel tono sperduto e improvvisamente disorientato del bambino lasciato nel gelo della sua solitudine, cambiando atteggiamento: “Non lo so proprio”.
Si fissarono, Harriet contemplando una nebulosa, incerta sagoma che sembrava essere fatta di vapore e luce lunare, R la ragazza abbarbicata alla struttura del letto con le guance bollenti e i lunghi riccioli appiccicati alla pelle madida di sudore. Fu lei a cedere per prima: travolta da una repentina, potente ondata di debolezza, si lasciò cadere sul materasso sollevando la vaporosa gonna scarlatta, temendo di svenire di nuovo – e non voleva, doveva rimanere lucida, il più possibile – e rilasciò un sottile gemito, afferrandosi le tempie nella speranza che così facendo avrebbe contenuto il cervello che voleva esplodere.
“Tu stai male” commentò lui, come sbalordito da una simile verità.
Harriet storse la bocca: “Indubbiamente ho avuto giorni migliori”.
La candela sul tavolino da notte tremolò e, subito dopo, si spense di colpo, come se dita invisibili si fossero chiuse sullo stoppino, soffocando la fiammella. La giovane sussultò – se era stato R, non capiva proprio come potesse esserci riuscito – e sentì dei passi che si avvicinavano, percorrendo la camera avvolta ora nella sua interezza dalle tenebre. L’improvvisa assenza di luce le aveva fatto comparire chiazze bianche davanti agli occhi e se li strofinò con le nocche: “Che cosa…”
“Sta tranquilla” la interruppe lui. Pareva aver abbandonato il piccola ingrata: “Sei la mia ospite. E devo fare in modo che tu stia bene nella mia dimora”.
Non sono tua ospite, per l’amor di Dio, sono tua prigioniera.
Ma stavolta evitò di dirlo ad alta voce. Era troppo stanca per mettersi a discutere. Invece, domandò confusa: “Per quanto tempo…sono stata…”
“…incosciente? Un giorno circa. Mi sono preso cura di te”.
L’idea di quell’individuo che si prendeva cura di lei non la rassicurò affatto, anzi. Si pentiva di aver cercato di scappare, aveva ottenuto solo di rimanere ventiquattr’ore alla sua completa mercé, priva di sensi, dandogli modo di spogliarla, rivestirla e maneggiarla come una bambola animata. Santo cielo, avrebbe avuto fine quella follia?
Percepì un corpo che raggiungeva il letto su cui si era accoccolata, che lo aggirava muovendosi con attenzione, poi due mani invisibili, ma non per questo irreali, sollevarono la tazza di brodo di cui Harriet distingueva la sagoma, reggendola con cura: “Devi mangiare qualcosa, piccola” mormorò R, ancora più inquietante in quell’inaspettata dimostrazione di premura: “Solo così le tue guance riprenderanno il loro colorito. Su, apri la bocca”.
La ragazza si appiattì contro la testiera, girando il capo di lato per sottrarsi alla fumante cucchiaiata che quella buia figura le stava avvicinando alle labbra: “No!” ansimò, terrorizzata. Si rimproverò immediatamente di aver mostrato in maniera così palese la sua paura: non aveva deciso di essere forte? Ma non sopportava che il suo aguzzino la imboccasse. No, a questo non si sarebbe piegata.
“No?” le fece eco lui, calmo. Una calma pericolosa.
“Non ho…non ho fame” balbettò pateticamente.
“Davvero?” sempre molto tranquillo.
Harriet non voleva guardare dalla sua parte, ma non poté farne a meno. Le ricordò l’Uomo Nero delle favole, avvolto com’era dal buio come da un mantello. Scorgeva solo i suoi occhi azzurri e penetranti, quasi ipnotici, e la ciotola che reggeva tra le mani, il cucchiaio rimasto a mezz’aria come la bacchetta di un direttore d’orchestra. Quell’uomo emanava gelo, un gelo terribile. Per un attimo, pensò di tendere una mano verso di lui e toccarlo per assicurarsi che fosse reale, che non fosse lei ad essere impazzita e ad aver immaginato ogni cosa, ma respinse con furia la brama inopportuna. Doveva stargli lontana, lontana, lontana. Questo gridava la sua parte razionale, irrigidendola tra le lenzuola a causa della vicinanza tra di loro.
“Tu hai paura di me” constatò R, scandendo ben bene le sillabe. C’era una sfumatura strana nella sua voce, e captandola Harriet rabbrividì, impossibilitata a scendere dal letto e scappare dalla sagoma oscura che incombeva su di lei come uno spettro: “Io…”
“Prima non l’avevi” continuò il suo carceriere: “Quando hai provato a fuggire non avevi paura di me. E io lo so il perché”.
Ora la ragazza avrebbe voluto prendergli di mano la tazza e bere il suo brodo, ma era troppo tardi: “E…qual è il perché?” lo assecondò. Non poteva fare altro.
“Il perché…” spiegò R, tranquillo: “È che prima mi comportavo come un mostro. E questo la tua mente lo riesce a gestire. Ora che mi sto comportando come un uomo…” puntò i luccicanti occhi cerulei su di lei: “Non lo accetti. Non è così, piccola ingrata?”
Il riutilizzo dell’epiteto la inquietò e spostò impulsivamente le gambe all’altro lato del letto, tentando di posare i piedi sul pavimento per stabilire un contatto tra sé e una possibile via di fuga, nel caso la tempesta che percepiva nell’aria, un crepitare di scoppi e sibili pronto ad erompere in una fiammata potentissima da un momento all’altro, esplodesse.
Cerca di farlo ragionare, cerca di far tornare quello premuroso…
“Non è questo” bisbigliò, troppo incerta, troppo prudente: “Il fatto…”
La tazza del brodo le sibilò vicino, così vicino da strapparle un violento sobbalzo e da farle avvertire la collisione sulla pelle come se fosse realmente avvenuta, e andò in frantumi contro la parete alle sue spalle con un assordante crash, schizzando minestra bollente sul cuscino e sul suolo di pietra e spargendo cocci affilatissimi che piovvero a fontana tutto intorno al letto. Gridò, facendosi schermaglia con un braccio, e sgranò gli occhi sulla figura evanescente di R, che nel più assoluto mutismo afferrò il bicchiere d’acqua, lo levò sopra la testa e poi infranse a terra anche quello, aggiungendo al disastro di frammenti altri pezzi trasparenti che formarono una letale prigione tagliente che la circondava; per pura fortuna nessuno era finito sopra al materasso. Pallidissima e boccheggiante, la ragazza conficcò le unghie sulle coperte, mentre il suo carceriere, sempre silenzioso – si poteva ostentare quella affaticata tranquillità e distruggere nel contempo tutti gli oggetti che gli capitavano sotto mano? – vibrava un calcio al divanetto, ribaltandolo con furia e scagliandolo lontano.
“Smettila!” strillò Harriet d’impulso, pregando che non dirigesse la sua ira su di lei: “Smettila, ti prego, smettila!”
“Dovete pagare il prezzo” vaneggiò lui, strappando il vassoio dal comodino e lanciandolo pericolosamente vicino a lei; le passò accanto sfrecciando, scompigliandole i capelli, e la mancò per un soffio, sebbene lei non l’avesse giudicata una disattenzione, ma un intento preciso, di farle provare la paura e salvarla per miracolo. R le puntò contro un dito accusatore: “Dovete pagare il prezzo, piccola ingrata! È questo che volete, giusto? Un demone che distrugge, un demone da combattere!” ridacchiò: “Ma ve ne pentirete. Saranno guai per tutti, piccola ingrata, per tutti. Alla fine di questa storia, ogni singolo essere umano ricorderà il mio nome. Ed avrò anch’io la mia libertà di essere”.
Faticando a riprendersi dallo shock, Harriet non riuscì a trattenersi: “Tu sei pazzo…”
Evitando i frammenti di vetro, lui si appoggiò alla struttura del letto e si curvò sulla giovane finché ella non scorse il profilo di un mento aguzzo e di guance scarne che si mossero insieme al ghigno raccapricciante che gli si era aperto sul volto nascosto: “Non c’è nulla di pazzo nel voler essere, piccola” il suo fiato soffiava gelido sulla pelle bianca di lei. Soggiunse, quasi carezzevole, spostandole una ciocca di capelli lontano dal viso: “Se provi a scappare ancora dalla mia dimora, ti legherò di nuovo. E ti lascerò legata finché i tuoi morbidi polsi non si scorticheranno e la tua dolce voce diverrà rauca per le grida”.
Harriet chiuse gli occhi, rabbrividendo fin nel profondo del suo essere sotto la carezza di quel mostro.
Da qualche parte nei sotterranei risuonò un rumore. Fu smorzato, appena percettibile, ma bastò a riscuotere entrambi: R si ritrasse di scatto dalla sua prigioniera, con un sibilo formidabile che gli prorompeva dai polmoni e una luce guardinga, insana nelle iridi chiarissime che si volsero rapide a fulminare la porta della camera, e a lei parve di emergere da una voragine a seguito di una lunga apnea, di vedere la luce per la prima volta, anche se tutto ancora era impregnato di oscurità e di follia.
Qualcuno aveva parlato. Una voce umana aveva disturbato la quiete mortuaria di quei sotterranei. Le si mozzò il fiato in gola.
Oh mio Dio, forse vengono a prendermi!
R le scoccò un’occhiata velenosa: “Tenta di seguirmi e a pentirsene al posto tuo saranno coloro che ami, ragazza” berciò astioso: “La mia mano arriva ovunque, ricordalo bene. Vado ad occuparmi del nostro gentile visitatore e torno subito da te…oh, e al tuo posto non proverei a scendere dal letto” aggiunse giocosamente, indicando i cocci sparsi: “Finita questa storia non vorrei ripulire anche il tuo, di sangue. Inoltre è ancora troppo prezioso per essere versato”.
Quella minaccia le fece correre un brivido lungo la schiena, eppure il cuore, come protestando contro la paura del suo aguzzino, batteva selvaggiamente, risvegliatosi non appena quella voce era riecheggiata nel buio della sua prigionia. Non rispose nulla e lo seguì con gli occhi mentre raggiungeva la porta, muovendosi sicuro nelle tenebre.
“Riposati, piccola” le mormorò sulla soglia, con quel tono premuroso che la atterriva e la sbalordiva in pari misura.
Poi svanì tra le altre ombre.
 
Angolo autrice: Non ho molto tempo per sproloquiare dato che tra poco devo andare all’università, comunque eccomi nuovamente tornata, ve l’ho detto, sono una piaga nella mia lentezza ma questa storia, anche se va sempre più a catafascio, non la abbandono ; ) chi è il misterioso visitatore? Vi dico subito che non si tratta di Berg, nel prossimo capitolo si chiarirà il mistero…e forse ci sarà un impercettibile avvicinamento tra Harriet e Raphael! Non voglio fare le cose di fretta, lui è molto preso nei suoi piani folli e lei è ovviamente inorridita, sto procedendo con calma…è un disastro o si può salvare? Coomunque, il vostro sostegno mi aiuta un sacco, critiche/commenti sono ben accetti! Intanto un salutone a tutti quanti e un bacio <3  
   
 

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Capitolo 12
*** Capitolo 14 ***


Capitolo 14
 
 
 
 
 
 
Jesper infilò esitante la chiave nel grosso lucchetto, la girò e fece scattare la serratura. Il lucchetto si aprì con uno schiocco secco. S’era asserragliato nella sua camera da letto, assicurandosi che nessuno lo disturbasse o capitasse incidentalmente da quelle parti, specialmente Christine – ma la donna era impegnata a gestire quelle lagne ambulanti della signora Ullmann e della sua figlia minore – tuttavia, sebbene il silenzio regnasse pressante e avesse addirittura inchiodato le tende di broccato alle finestre affinché da quel momento in poi le sue azioni rimanessero segrete, non riusciva a liberarsi dal terrore immotivato di essere spiato. Gli sembrava di avere una spada di Damocle sospesa sopra al capo, e che il filo che la reggeva diventasse di giorno in giorno più sottile. Che lo sguardo malevolo di Christine lo seguisse ovunque, luccicando di soddisfazione.
L’alleanza con quella puttana si era rivelata un’arma a doppio taglio…
Ma non poteva attendere oltre, doveva scoprire se esisteva un altro modo, se perdere Harriet lo avrebbe davvero precipitato nel più nero sconforto, e il libro, antichissimo e polveroso, con la copertina di pelle nera ormai lisa e crepata lungo i bordi e le borchie logore, cantava come una sirena. Non aveva idea di come fosse capitato nelle mani dei Lawrence ormai secoli prima, ma facendo delle ricerche era venuto a scoprire che colui che lo aveva trovato, Lacke Lawrence, nell’anno 1754, aveva ribaltato le condizioni economiche della famiglia, allora impoverita e sull’orlo del lastrico, innalzandola a ricchezze spropositate. Quel tomo era una benedizione e una maledizione al tempo stesso. Tutto aveva un prezzo, Jesper non era così stupido da non capirlo, e suo padre lo aveva pagato nel modo più duro. Lo stesso Lacke Lawrence si diceva fosse impazzito e si fosse suicidato tagliandosi le vene nel letto che condivideva con la moglie in preda ad un attacco isterico. Ma era disposto ad accettare le conseguenze delle sue azioni.
Era disposto a tutto.
Chiuse un attimo gli occhi azzurri – non indossava altro che un paio di pantaloni sformati, era a petto nudo, con i muscoli scolpiti lucidi di sudore, e i capelli biondi aderivano al palpitante volto terreo – poi li spalancò e aprì il pesante volume, fissando immediatamente lo sguardo spiritato sulla prima pagina.
A grandi lettere dorate campeggiava una scritta affilata, De pacti.
Il suo cuore incominciò a battere ad una velocità spaventosa, e la vista gli si fece più acuta per l’emozione fortissima. Non riusciva a controllare il tremito alle mani, né il respiro alterato e irregolare. Quello, quello era il vaso di Pandora dei Lawrence, e in quanto membro della famiglia, non era immune al fascino irresistibile che esercitava su di lui. Iniziò a leggere, avidamente, ma senza la minima pazienza, saltando la maggior parte delle parole nella foga di trovare il segreto; fortunatamente era sempre stato uno studente zelante ed aveva un’ottima conoscenza del latino, traduceva all’impronta, afferrando subito il senso di ciascuna frase.
Mentre voltava le pagine freneticamente, ma nel contempo attento a non danneggiare la carta ingiallita e sottile, l’immagine dello scheletro che giaceva nella terra fredda e inospitale vista poche ore prima, con le orbite vuote e pochi stracci muffi a coprire le costole e l’intrico di ossa sporche, gli si stagliava nitida nella mente. Lo stava facendo per lei, solo per lei…e utilizzare un potere occulto per amore non era un delitto, giusto? No, no, no…
 
Non era riuscito ad accettare con lo stoicismo e la freddezza che avevano sempre caratterizzato suo padre l’abbandono di Ursula, a farsene una ragione, a dirsi che aveva solo sedici anni, che era ancora giovane, che avrebbe trovato qualcun altro e la luce avrebbe illuminato nuovamente il vuoto e la desolazione della sua vita.
Non aveva voluto farsene una ragione. Si era rifiutato cocciutamente, non tanto per il dolore che gli scivolava nelle vene, sulla pelle, come cera incandescente – c’era, era ovvio, ma il dolore di un amore adolescenziale si può superare – quanto per la rabbia e l’odio che lo consumavano a fuoco lento mentre, rigirandosi tra le lenzuola puzzolenti di sudore, barricato nella sua camera con le finestre tappate, rivedeva nella mente il modo sprezzante con cui Ursula gli aveva voltato le spalle e i cadaveri di suo padre e suo fratello che giacevano, mutilati, in mezzo al sangue e alle cervella. Due avvenimenti manifestatisi in rapida successione che gli si erano abbattuti contro senza preavviso e senza che se lo aspettasse, stravolgendo il suo animo di ragazzo viziato, immune ai dispiaceri, un ragazzo che aveva avuto finora tutto quello che desiderava e che si era ritrovato, nel giro di una settimana, privo di ogni cosa, senza capire assolutamente perché.
Hugo e Viktor erano stati brutalmente assassinati e l’unica persona che avrebbe potuto aiutarlo ad elaborare il lutto, l’unica che avrebbe potuto dissipare l’oscurità dalla sua esistenza e dargli la forza di andare avanti, anziché confortarlo e stargli vicino aveva preferito tradirlo, scappare, e peraltro nella maniera più spietata e crudele possibile.
“Non resterò legata ad un mostro, al fratello di un assassino, solo in nome di ciò che è stato!”
Credeva che il mostro fosse lui. Non Raphael, no, lui, che l’aveva aiutata e amata, che l’aveva scelta anche se era la figlia di una cameriera, lui era il mostro, naturalmente! Sua madre, non meno distrutta di lui dalla perdita recente, aveva provato a consolarlo, a spiegargli che Ursula era ancora profondamente immatura e che chiunque, alla sua età, di fronte ad un omicidio così efferato sarebbe scappato, ma Jesper quelle parole se l’era fatte entrare da un orecchio e uscire dall’altro perché era sicuro che al posto dell’ex fidanzata non si sarebbe comportato in un modo così vigliacco e meschino, no, lui sarebbe rimasto, l’avrebbe stretta forte, e sostenuta in quel periodo difficile!
Ma probabilmente ad Ursula non fregava nulla del suo lutto e del suo dolore, né che suo padre e suo fratello erano stati fatti a pezzi, se la sbatteva alla grande di lui, mentre Jesper combatteva contro i demoni e la paura rotolandosi tra le coperte lei preparava le valigie per trasferirsi, felice e contenta, farsi una nuova vita e, magari, anche un nuovo fidanzato.
La sola prospettiva riempiva di sangue il cervello del ragazzo.
Te lo puoi scordare, troia, te lo puoi scordare di sfuggire alla maledizione e ridere di me, di farti scopare da un altro mentre io sto qui ad ascoltare il medico che mi descrive come non è riuscito a ricomporre la testa di mio padre per quanto era danneggiata!!
Spedendo un domestico di fiducia ad indagare al paese era venuto a scoprire che Ursula avrebbe preso l’aereo per Stoccolma, dove l’aspettava una zia disposta ad ospitarla, il tredici febbraio, e il fatidico giorno della partenza, il giorno in cui lei sarebbe scomparsa per sempre dalla sua vita, Jesper si ritrovò, senza sapere neanche come, ad indossare in fretta e furia i primi abiti che gli capitarono sotto mano e ad uscire dalla propria camera con un’aria spiritata e quasi folle, il volto livido e sbattuto dopo i giorni di reclusione e la chioma arruffata. Non aveva idea di cosa volesse fare, sapeva solo che doveva impedire alla ragazza di partire, che lei non aveva il diritto di abbandonarlo, era solo una spiantata del cazzo, una sguattera con un bel visino, mentre lui era un Lawrence, e nessuno, a sentire suo padre, poteva prendersi gioco di un Lawrence. Se lo ripeteva come un mantra, una cantilena ossessiva.
Nessuno si prende gioco di un Lawrence, nessuno si prende gioco di un Lawrence…
Inforcò il motorino rosso fiammante e si lanciò in strada a velocità folle, chino in avanti, con le dita bianche serrate sul manubrio, le cosce abbrancate convulsamente al metallo e i capelli che volavano da tutte le parti, scendendo dal pendio dove era situato Lawrence Borg senza badare a semafori o cartelli, una saetta impazzita nell’aria umida e gelida del mattino. I fiocchi di neve, impalpabili come ovatta, gli baciavano le guance bollenti. Il paesaggio intorno a lui risplendeva di un biancore abbacinante. Si era morso l’interno guancia così forte che avvertiva il sapore ferroso del sangue in bocca.
Raphael gli aveva tolto suo padre e suo fratello ed era fuggito senza ricevere alcuna punizione, gli aveva distrutto la serenità senza scontare la sua colpa; ormai, ogni volta che ripensava ad Hugo e Viktor, li rivedeva stesi ai piedi della scalinata della torre, suo padre con il cranio maciullato e la materia cerebrale sparsa intorno, suo fratello con le viscere e gli intestini esposti come vermi fumanti, e risentiva quell’odore, un odore che tuttora gli dava la nausea. Ma Ursula non avrebbe fatto lo stesso. No, Ursula non lo avrebbe lasciato solo.
Era assurdo, sentiva come di doverla punire non solo dell’abbandono, ma anche dell’omicidio. La rabbia, il dolore, l’odio, lo shock, erano troppo forti, aveva bisogno di scaricarli.
Conosceva a menadito la strada per l’aeroporto, aveva accompagnato suo padre prima che egli partisse per uno dei suoi innumerevoli viaggi di lavoro in tante occasioni, e sapeva che tagliava per i boschi, tenendosi alla larga dal villaggio. Il vento gli frustava la faccia in staffilate crudeli e gli schiacciava la pelle sulle ossa e i capelli sul cranio, infilandosi sotto ai vestiti turbinanti e pizzicandogli delicatamente la carne. Ai lati del nastro d’asfalto scorrevano abeti dalle chiome imbiancate di neve e betulle livide come fantasmi, che protendevano rami adunchi verso di lui. La foresta era talmente fitta e intricata che non s’intravedeva nulla, al suo interno, a parte il manto candido che s’era depositato sul terreno, formando uno strato compatto e uniforme. I cartelli lo avvertivano del passaggio di lupi e cervi, ma neanche li vedeva. Il motorino rombava sotto di lui come un animale furibondo e i piccoli occhi della fauna locale lo scrutavano, luccicando tra i cespugli.
Lo scenario aveva in sé qualcosa di fiabesco. Mancava solo Cappuccetto Rosso…
Apparve, davanti a lui, la sagoma inconfondibile di una macchina, un mezzo di trasporto adatto ad un adolescente, piccolo e fragile. La riconosceva perché era stato lui stesso a regalarla ad Ursula quando, compiuti i sedici anni, aveva passato il corso di guida, e lei per la gioia gli aveva gettato le braccia al collo e lo aveva ricoperto di baci. Un ghigno storto, privo di qualunque allegria, gli piegò le labbra violacee. La ragazza era sempre stata timorosa e prudente nel guidare, non superava mai gli ottanta, mentre lui schizzava come un bolide, nessuno poteva eguagliarlo.
Eccoti, puttana schifosa…
Accelerò ancora di più, incurante del freddo spietato di quella mattina di febbraio, e accorciò la distanza che lo separava da lei finché non vide il suo profilo seduto al volante, i capelli biondi raccolti in una coda alta che lasciavano scoperto un collo lungo ed elegante, da cigno, e due spalle ben modellate. Ursula poteva anche essere povera, ma dal punto di vista fisico nessuno la eguagliava…Jesper ricordava ancora la morbidezza della sua chioma quando ci affondava le mani e il suo profumo inebriante, un profumo di donna e non di bambina. Lei era sua. Era un Lawrence e quando un Lawrence vuole una cosa se la prende. Nessuno l’avrebbe toccata, mai più.
Accostò il motorino alla fiancata dell’automobile e gridò, sguaiatamente: “Vai da qualche parte?”
Per la sorpresa, lei perse il controllo del mezzo di trasporto e sbandò un poco, avvicinandosi al guard-rail. Girò freneticamente il volante e, nel voltare la testa, i suoi occhi incrociarono quelli di Jesper; in mezza frazione di secondo il giovane li vide dilatarsi e riempirsi di un misto di stupore e di paura che lo fece tremare per il piacere.
Doveva avere paura, doveva temerlo di un timore sacro. Portò il motorino davanti alla macchina, sbarrandole la strada, ed Ursula fu costretta a premere con foga sul pedale del freno per non andare a sbattergli contro. Le ruote stridettero sull’asfalto incrostato di brina, producendo un suono lamentoso, lugubre, e i tergicristalli che scorrevano sul finestrino per liberarlo dal ghiaccio si bloccarono. Jesper godeva perché la stava costringendo a fare quello che voleva lui, perché finalmente si stava imponendo sugli eventi e ne stava determinando il corso, senza che questi lo travolgessero e sfuggissero al suo controllo. In quell’ultima settimana non era stato altro che una loro vittima, un burattino inerte, ma adesso basta. Adesso era il suo turno.
“Ma che cazzo…” la ragazza aprì lo sportello con un movimento brusco ed uscì dalla macchina, stretta ed intirizzita nel pellicciotto rosso – un altro suo regalo – con le guance che avvampavano di collera e gli occhi ancora dilatati, due palle bianche in un volto perfetto: “Sei impazzito?! Potevi ammazzarmi!”
Non era più spaventata. Il respiro era accelerato e ansimante, ma alla paura si era sostituita la stessa rabbia supponente con cui l’aveva trattato quando si erano lasciati, e questo non andava bene.
Jesper smontò dal motorino, lasciandolo crollare sulla strada con indifferenza, e fissò la sua ex dritto negli occhi: “Ursula, devo parlarti”.
Lei era paonazza, incredula e furibonda insieme, le braccia incrociate sotto il seno per difendersi dal freddo e le labbra tremanti da cui scaturivano nuvolette di vapore: “Parlarmi?” scandì, sconcertata: “Parlarmi?!” ripeté ancora una volta mentre l’ira prendeva il sopravvento sullo sgomento: “Sai dove vi potete ficcare tu e il tuo parlare?! Ma cosa cazzo hai in testa, Jesper?! Cosa cazzo ti salta in mente?! Non hai nessun diritto di…”
Lo sguardo del giovane si indurì, facendosi gelido come il ghiaccio: “Non. Urlare” sibilò, pacato.
“Io urlo quando e quanto mi pare!” strillò lei di rimando, quasi isterica, mentre la neve, circondandoli e dividendoli, le spolverava di zucchero la coda di capelli biondi: “Cosa cazzo ci fai qui, Jesper? Cosa vuoi?!”
Lui aggrottò la fronte: “Te l’ho già detto. Parlarti”.
Ursula scosse il capo più volte, strabuzzando gli occhi: “Abbiamo già parlato a sufficienza. Non ti amo più, te lo vuoi ficcare in testa o no?! E devo prendere un aereo, non puoi piombare qui e sbarrarmi la strada e…”
“Tu non prendi nessun aereo” ribatté Jesper quasi serenamente, imponendosi di stare calmo, di gestirla come avrebbe fatto suo padre, con lucidità e freddezza. Ursula era davvero irritante con quella voce acuta e penetrante, da cagnolino rabbioso, le labbra strette in una linea severa e le mani arrossate dal gelo che si torcevano incollerite, ma non c’era motivo di perdere la testa. Dopotutto, anche se l’aveva tradito, la amava ancora.
“Cosa?”
Faceva la finta tonta, una tecnica femminile tra le più gettonate. Il suo messaggio era stato chiarissimo.
“Cosa?” ribadì la ragazza, trattandolo come un ritardato, cosa che lo infastidì ancora di più: “Scusa tanto, Jesper, ma non ho proprio tempo di star dietro alle tue scenate di protagonismo. Lasciami andare e facciamola finita qui”.
Jesper fece un passo verso di lei: “Sai, Ursula” incominciò lentamente: “Tu credi che io sia solo un idiota con una bella faccia. Che non ci sia niente dietro. Un idiota con una bella faccia e una tendenza alla megalomania. Sei convinta di potermi voltare le spalle pochi giorni dopo l’omicidio di mio padre e di mio fratello come se nulla fosse, e di potertene andare felice, perché tanto io non ce l’ho una sensibilità, giusto?”
Anche se la sua voce si era mantenuta pacata, qualcosa nel suo sguardo doveva averla messa sul chi vive, perché impallidì lievemente e arretrò sui tacchi alti, il petto che si alzava e si abbassava velocemente: “Senti…” esordì, ma Jesper la interruppe. Era un Lawrence e nessuno può parlare ad un Lawrence prima che egli abbia finito un discorso.
“No, senti tu, Ursula! Senti tu!” stavolta lo alzò, il tono, incapace di trattenere il rancore, e gioì nel vederla azzittirsi bruscamente; a quanto pare aveva ereditato parte dell’autorevolezza paterna: “Sei stata la mia prima e unica ragazza. Il primo bacio l’ho dato a te, l’amore l’ho fatto solo con te. Ti ho dato tutto quello che desideravi e non me n’è mai fregato nulla delle tue origini. Quello che chiedevo in cambio era un po’ di conforto. Un abbraccio, una parola gentile. Ma devo averti fatto qualcosa di veramente orrendo, perché invece tu mi hai sbattuto la porta in faccia, mi hai mandato al diavolo, pur sapendo cosa stavo passando!”
Si era arcuato nella sua direzione, livido, ansimante, contratto, e la ragazza era indietreggiata ulteriormente, appiattendosi all’automobile e fissandolo con un principio di spavento nelle pupille. Quando parlò, aveva adottato un accento più cauto, meno aggressivo, che il giovane Lawrence trovò più falso e ipocrita che mai.
“Ascolta, Jesper…” mormorò, detergendosi il sudore che, malgrado il freddo artico, le imperlava la fronte: “Questa situazione…è troppo per me. L’omicidio, tutto quanto…non ce la faccio a sopportarlo. Ho bisogno di dimenticare. E tu devi accettarlo”.
“Devo accettarlo perché non ho scelta!” ringhiò. Le si avvicinò ancora, arrivando quasi davanti a lei: “Tu, Raphael, non me l’avete lasciata una scelta! Ho perso un padre che amavo e un fratello giovanissimo e ho dovuto andare avanti perché non avevo scelta, ma non farò lo stesso con te!”
La ragazza, ora, era davvero pallida, salvo per le orecchie e il naso, violacei per il gelo: “Jesper, stai delirando…”
“E anche se fosse?” le afferrò il braccio di colpo, con uno scatto rapace, e lei sussultò mentre stringeva la presa sul suo arto delicato: “Tutti hanno ottenuto quello che volevano con mezzi illeciti…mio padre il potere, Raphael la vendetta, tu la tua pace…ma io?” accostò il volto a quello terreo di Ursula e bisbigliò, quasi dolce: “Non andrai a Stoccolma dalla zietta, amore. E non t’affannare per l’aereo, perché lo perderai”.
Lei lo fissò muta per un paio di secondi, il seno palpitante, le iridi fisse, la bocca dischiusa. Era bellissima. Jesper tese una mano per accarezzarle la guancia, e quando la toccò, non lo respinse né si fece indietro. Forse…
All’improvviso, con un movimento repentino, gli assestò una ginocchiata sull’inguine con tutta la forza che aveva e Jesper ebbe la sensazione che una lama incandescente gli fosse penetrata nei genitali, mentre si ritraeva e crollava in ginocchio ululando dal dolore.
Ursula, boccheggiante, tremante di un misto di paura e trionfo, con le ciocche bionde che sfuggivano alla coda, proruppe in un grido selvaggio: “Sta’ lontano da me, pazzo psicopatico!”
Poi accennò a rientrare nella macchina, e in quella visione l’adrenalina corse frenetica nelle vene di Jesper.
Nessuno si prendeva gioco di un Lawrence.
Allungò una mano e le arpionò una caviglia; Ursula era poco stabile a causa dei tacchi alti, e a quella morsa gridò e perse l’equilibrio, cadendo a terra e perdendo la calzatura. Jesper, continuando a stringerle il piede nudo, iniziò a riprendersi dal colpo basso e a muoversi nella sua direzione, il respiro rotto e ingolfato, una vena che pulsava scoperta sulla fronte e un barlume di odio puro nello sguardo.
“Puttana!” ruggì con furore incontrollato, mentre lacrime insensate gli si gonfiavano sotto le palpebre: “Maledetta puttana!”
I suoi propositi originari, molto confusi, a dire il vero, la ragione, erano sfumati in una nebbia rossa e viscosa, e il trauma da poco subìto, lo spettacolo dei cadaveri martoriati di Hugo e Viktor gli lampeggiava nel cervello come un’insegna al neon.
Ursula si contorse come un’anguilla e riuscì a liberarsi, poi balzò in piedi, calciando via la scarpa rimasta, e scavalcò agilmente il guard-rail, sfilacciandosi l’orlo della gonna e correndo tra gli alberi del bosco. Una figurina piccola, esile, indifesa tra gli alberi lividi, affusolati e aguzzi come quelli dipinti da Friedrich.
Una bionda Cappuccetto Rosso che fuggiva dal lupo cattivo.
Ma lui era solo Jesper, cazzo, solo Jesper, e non voleva farle del male, voleva solo che lo accontentasse, che esaudisse i suoi desideri, come sua madre aveva sempre fatto con suo padre!
“Torna qui, lurida troia!” gridò tra i singhiozzi strozzati che gli squassavano le spalle, raddrizzandosi e seguendola in mezzo ai tronchi.
“Aiuto!” le grida di Ursula erano meno terrorizzate di quanto si sarebbe aspettato, suonavano potenti, rabbiose: “Qualcuno mi aiuti, per favore!”
“Smettila!” urlò di rimando, scostando uno scarno ramo e affondando gli stivali nella neve fresca, compatta, che gracchiava sotto le sue suole; le impronte della sua ex, stagliate sul manto bianco, erano un filo di Arianna che lo conduceva sicuro alla meta: “Non sono un fottuto mostro come Raphael, non devi chiedere aiuto!”
Gli alberi s’innalzavano come pallide ombre tutt’intorno, oscurandogli la visuale, e i cespugli gli ferivano le ginocchia. In lontananza echeggiò l’ululato di un lupo, un verso triste, melanconico, funereo, e Jesper allontanò con un gesto impaziente i capelli umidi dal volto, distinguendo a fatica la silhouette di Ursula che incespicava nella natura insidiosa. Il suo passo era incerto, sbilanciato: quando l’aveva agguantata e l’aveva fatta cadere, doveva averle procurato una lieve distorsione alla caviglia. E quella stupida, invece di fermarsi, continuava a correre, a strillare aiuto al nulla!
“Sei una stupida, Ursula!” gridò nel tono infantile e costernato di un bambino che si vede privato dei regali che gli spettano di diritto: “Sei proprio una stupida! Io non sono mio fratello, porca puttana! Non sono lui!”
“Sei proprio come lui!” replicò la ragazza con odio e paura, ormai sempre più vicina, la coda disfatta e i capelli fluttuanti nel vento: “Vattene via, vattene via!”
“No! No, no, no!”
Si gettò in avanti con disperazione e collera isterica e la placcò, afferrando tra le braccia quel corpo che aveva sfiorato e amato; urlando, caddero entrambi nella neve, che sollevò un ventaglio di zolle e li ricoprì di un pulviscolo immacolato, e rotolarono, avvinghiati, mentre il profumo della fanciulla penetrava nelle narici di Jesper. Finalmente poteva abbracciarla di nuovo, essere confortato dal suo calore, dal suo…
Unghie laccate calarono sul suo volto e lo graffiarono, strappandogli un gemito. Ursula si dimenava come impazzita, contorcendosi, scalciando, gridando.
“Lasciami!”
La fissò incredulo, per un attimo inerte di fronte a quella gragnola di colpi, schiaffi e calci. Perché si comportava così? Perché reagiva come se l’avesse aggredita? Lui voleva soltanto che si fermasse, che lo ascoltasse, e che gli desse la possibilità di spiegarsi! Era un Lawrence, una persona d’onore! E l’amava!
Gli occhi azzurro pervinca di Ursula, bagnati di lacrime, scintillavano di una furia sconfinata: “Toglimi le mani di dosso, porco, bastardo, psicopatico!”
La foresta era un luogo isolato, ma comunque, se qualcuno fosse passato in macchina, avrebbe potuto sentire le sue strilla e insospettirsi, e Jesper non poteva permetterlo, la famiglia veniva prima di tutto ed era già stata lordata abbastanza dal duplice omicidio, se avessero pensato che era lui stesso un assassino, che aveva assalito una fanciulla indifesa nel bosco, il buon nome dei Lawrence sarebbe finito definitivamente nel fango…lo doveva a suo padre, a Viktor, alla loro memoria!
“Zitta!” sibilò, concitato, tappandole la bocca e guardandosi intorno con occhi frenetici e ansiosi: “Zitta, cazzo, lasciami spie…”
Continuando a divincolarsi, Ursula gli morse la mano e lui la ritrasse con un’imprecazione soffocata, mentre le urla penetranti tornavano a spaccare l’aria, riempiendogli il cervello di panico.
“Smettila!” ansimò, terrorizzato, sbatacchiandola sulla neve in una fontana di spruzzi: “Non sai con chi hai a che fare, sgualdrina che non sei altro, non sai chi sono, cosa succederebbe se…”
Una voce nella sua testa, una voce fredda e curiosamente ragionevole, gli domandò: “Cosa vuoi fare? Sei impazzito?”
Jesper non ne aveva idea, sapeva solo che doveva farla smettere di urlare, che doveva proteggere la famiglia.
Credeva di essere stato abbastanza chiaro, di averle fatto intendere il suo messaggio, eppure quell’idiota non accennava a calmarsi, era una furia scatenata, gli aveva riempito le braccia e il collo di graffi e pareva liquida sotto le sue dita, inconsistente e pronta a sfuggirgli da un momento all’altro. Ma se fosse scappata, avrebbe raccontato in giro un sacco di bugie, che lui l’aveva aggredita con l’intento di ucciderla, che era pericoloso quanto suo fratello, avrebbe distorto la realtà a suo piacimento e lo avrebbe rovinato…
“No!” urlò Ursula: “No, lasciami, lasciami su…”
Lo schiaffo di Jesper interruppe immediatamente le sue strilla. Il ragazzo, perso ormai ogni barlume di raziocinio, cieco e convulso come un animale braccato, la sbatteva con forza contro il terreno, ancora e ancora e ancora, e sulla neve rimaneva impressa la sua sagoma, in un macabro gioco dell’angelo.
“Vuoi che sia uguale a lui?” ringhiò senza sapere nemmeno cosa stava dicendo, le lacrime che gli rotolavano sulle guance e cadevano sul corpo della fidanzata: “Eh, puttana?! È questo che vuoi?!”
Quelle che Ursula urlava non erano più parole, ma semplici suoni disarticolati di terrore. C’era qualcosa di orrendo, di innaturale in quella scena, perché Jesper non avrebbe voluto sbatacchiarla a quel modo, avrebbe voluto abbracciarla ed essere abbracciato, confortarla ed essere confortato, era tutto sbagliato, tutto quanto! Amava Ursula, la sua sofferenza lo faceva inorridire e cercava in ogni modo di porvi rimedio, e invece adesso era lui a procurargliela e non riusciva a capire come potessero essere arrivati a quel punto, un punto da cui era impossibile tornare indietro.
È colpa di Raphael, Raphael, Raphael…
Se solo lei si fosse tranquillizzata, porca puttana!
“Sta’ calma!” gemette: “Non voglio farti del male, io…”
Lei tentò di dargli un’ennesima ginocchiata ma stavolta la anticipò e un secondo schiaffo le fece volare la testa sul suolo; il pellicciotto e la gonna erano inzuppati di sangue, sangue che le aveva impiastricciato anche i capelli chiari.
Esasperato ed esausto, Jesper le diede uno scossone più forte degli altri e la sbatté nella neve con forza spropositata, sperando di metterla finalmente a tacere. Il capo di lei sbatté ancora una volta a terra e stavolta si udì un orrido, fievole crack, il crack dell’osso del collo che si spezzava.
Poi il silenzio. Niente più urla né contorcimenti. Solo il silenzio. Un magnifico, riposante, pacificante silenzio.
Ansimando, Jesper lasciò andare Ursula, che si era fatta improvvisamente docile ed immobile nella sua stretta, e cadde su un fianco, nella neve fredda che gli asciugava il sudore dalla pelle, traendo respiri rauchi e ascoltando il battito forsennato del cuore che pian piano rallentava e l’adrenalina che si estingueva. Provava sollievo. Perché, a parte tutto, era finita. E si sentiva stanco, prosciugato, svuotato.
“Non voglio farti del male” mormorò, beandosi del contatto con la neve: “Voglio solo che mi ascolti. Mi ascolterai, adesso?”
La ragazza non rispose.
Anche se il corpo protestava, Jesper si costrinse a sollevarsi sui gomiti e a volgersi nella sua direzione, curvandosi per guardarla più da vicino. Nel corso della lotta, il bel viso di lei era stato contratto dalla rabbia, il terrore e la foga, ma adesso i lineamenti si erano rilassati ed era tornata bellissima, come la Bella Addormentata, come una piccola Cappuccetto Rosso. I capelli dorati, sciolti, si spargevano in ciocche disordinate sul seno e sulle spalle e l’incarnato diafano era baciato dai fiocchi candidi che s’infiltravano tra i rami degli alberi. Gli occhi azzurri guardavano in alto, vitrei, calmi, assenti.
Era splendida e malinconica come un’Ofelia.
“Ursula” la invocò, piano, quasi avesse timore di svegliarla, scuotendola delicatamente.
Lei non reagì. Il collo era piegato in un’angolazione strana, sbagliata.
Un guizzo di panico pervase Jesper. “Ursula!” la scosse con più vigore, poi le prese un braccio, lo alzò, lo lasciò a lo osservò ricadere inerte a terra, come quello di una bambola.
Il fiato gli mancò di colpo, il cuore si strinse in una morsa atroce.
“Ursula!” boccheggiò, scrollandola con violenza, mentre il capo della fanciulla ciondolava e gli occhi ruotavano innaturalmente verso il basso: “Ursula, cazzo, svegliati! Svegliati!”
Un movimento impercettibile, un fruscio elegante sul suolo innevato lo spinse ad alzare la testa, e lo spettacolo che si ritrovò davanti lo paralizzò sul posto, tingendogli il viso di un pallore mortale.
Il lupo aveva forme sinuose, aggraziate. Il manto di un bianco argenteo punteggiato di grigio sui fianchi e sulla gorgiera. Se ne stava ritto e fiero come una divinità della foresta, ad appena qualche centimetro di distanza da lui e dal cadavere di Ursula, e li contemplava con sottili, insondabili occhi giallo arancio, gli unghielli piantati a terra e il muso proteso verso di loro. Le orecchie erano ritte, la coda frustava l’aria.
Jesper lo fissò, immobile, pietrificato dalla paura, con i muscoli gelati e il sangue che martellava nelle orecchie, e il lupo ricambiò il suo sguardo, studiandolo con un’intelligenza che mai si sarebbe aspettato da una bestia. Il suo odore, un odore pungente, inebriante, giungeva ad ondate. Piano, con grazia, abbassò la testa e si accinse a leccare il sangue dai capelli di Ursula, ma il ragazzo, senza riflettere, la allontanò dalle fauci dell’animale, levando una protesta rauca: “No!”
Gli occhi gialli del predatore lo inchiodarono. Per un attimo, fu sicuro che lo avrebbe assalito, e si sorprese a non provare timore. Doveva pagare per ciò che aveva fatto.
Ma poi, come decidendo che non ne valeva la pena, che sarebbe stato più spietato lasciarlo in vita a convivere con il suo rimorso, il lupo argenteo si ritrasse, silenzioso, e scomparve tra i tronchi lividi come un’ombra inconsistente, abbandonandolo lì, con il corpo di una giovane donna da seppellire tra le braccia.
 
Una lacrima, una sola, colò lungo la guancia di Jesper e cadde sulle pagine dell’antico libro, formando un cerchio perfetto. Il giovane serrò le labbra, imponendosi di mantenere un contegno, di essere Lawrence fino in fondo, e riprese a cercare febbrilmente l’informazione di cui aveva bisogno. Aveva vissuto con quella colpa piantata sullo stomaco per anni, ma adesso avrebbe rimesso le cose a posto. Non sarebbe stato certo Raphael ad impedirglielo. Quel volume era la chiave di ogni cosa, e fintantoché l’aveva in suo possesso, era il più avvantaggiato tra i giocatori.
All’interno di un salottino al piano superiore, Christine cessò di spiarlo dal buco sul pavimento che aveva fabbricato apposta mesi prima e lo coprì con un pregiato tappeto di damasco, mentre le labbra rosse si piegavano in una rigida, brutale smorfia di conquista.
Jesper aveva finalmente portato la chiave con cui si apriva il tomo. Una svolta era prossima.
Sedette ad un tavolino di legno laccato, scostandosi i capelli rossi dal viso, e con un’unghia appuntita riprese a scorrere il catalogo dei volumi contenuti nella biblioteca del maniero, che ne specificava scaffale e collocazione, sicura che prima o poi avrebbe trovato quello che cercava, una mappa di Lawrence Borg che le illustrasse tutti i passaggi segreti del castello. Jesper era troppo preso dalla sua ossessione per pensarci – inoltre, era convinta da tempo che fosse dotato di un’intelligenza piuttosto scarsa, era solo impulsività – e Berg era appena giunto.
Sarebbe arrivata al mostro e alla ragazza prima di loro. Avrebbe messo le mani sul libro segreto dei Lawrence. E avrebbe ottenuto la sua vendetta, sua e di sua madre.
 
Henrik aveva scoperto il passaggio nel camino per puro caso. Lavorava come domestico a Lawrence Borg da anni, ma prima d’ora non aveva mai dovuto pulire la camera da letto della signorina Harriet. Da quando Eva era morta, tuttavia, le direttive erano cambiate, e si era dovuto accollare quarantamila mansioni in più di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Perché, sinceramente, ne aveva le scatole piene, di sgobbare dalla mattina alla sera per quegli stronzi ricchi e ricevere in cambio da loro nient’altro che occhiate di sufficienza e ulteriori ordini.
Ne aveva in generale le scatole piene di essere considerato una nullità, un essere umano insignificante, un elemento di arredamento. E di spaccarsi la schiena in quel maniero enorme solo per guadagnare i soldi necessari ad accudire suo fratello Morgan.
Morgan, che invece di spazzare il pavimento e lavare le finestre ad una ragazzina che era pure assente, in viaggio a Londra, a quanto pareva, se ne stava al calduccio a casa, con Maud a lavarlo e profumarlo. Si poteva pensare che la sorte fosse stata benevola con lui, ad una prima occhiata. Lui aveva avuto tutto ciò che era mancato a Morgan. Una mente acuta e intelligente, la possibilità di andare a scuola, di istruirsi, un corpo sano e scattante, anche se non propriamente splendido, un lavoro e la possibilità di portarsi il pane a casa, una moglie carina e degli amici.
Ma chi lo pensava non aveva guardato bene. Perché non avevano capito che Morgan aveva molto di più, lo aveva sempre avuto. Intanto i suoi genitori. Loro non avevano mai dato retta a lui.
Quando tornava a casa da scuola, percorrendo da solo tutta la strada lunghissima e pericolosa anche a cinque anni, a malapena si accorgevano della sua presenza. Perché Morgan aveva una crisi.
Quando aveva preso il suo primo A in matematica suo padre gli aveva rivolto una breve pacca sulla spalla, e sua madre non lo aveva nemmeno sentito. Perché Morgan aveva ingoiato una cucchiaiata di minestra da solo, senza sbavarsi.
Quando era rimasto bloccato a casa di un amico per l’incidente alla metro avevano chiamato solo sei ore dopo, niente affatto preoccupati, per informarlo che Morgan doveva andare dal medico e che quindi a casa non avrebbe trovato nessuno.
I suoi amici, prima ancora di informarsi della sua salute, gli chiedevano di Morgan. Persino quando aveva proposto a Maud di sposarlo lei, dopo aver acconsentito con le lacrime agli occhi, aveva aggiunto: “Possiamo prendere Morgan in casa. Così i tuoi genitori possono riposare, ormai stanno invecchiando”.
Insomma, tutto era un Morgan, Morgan, Morgan. Morgan e i suoi bisogni, Morgan e il suo umore, Morgan e i suoi problemi. Se Henrik era andato a lavorare dai Lawrence era stato principalmente per lo stipendio, più alto di tutti gli altri, malgrado il carico di lavoro logorante, e perché suo fratello necessitava di attrezzature che non potevano permettersi. Maud lo aveva lodato a lungo per il suo spirito di sacrificio, ma l’avrebbe volentieri mandata al diavolo. Non aveva idea di quanto si sentisse inutile, insignificante come uomo, umiliato dal contegno altezzoso dei “padroni”, e tutto per prendersi cura di un fratello handicappato che gli aveva usurpato l’affetto dei genitori e le comodità. Sapeva che era un discorso egoistico, che Morgan non aveva colpa, eppure era una tentazione fortissima mollare scopa, spolverino e spazzolone e licenziarsi in tronco, fuggire dall’isola e dall’aura soffocante che gravava su Lawrence Borg a gambe levate.
Nell’infilare la testa nel camino per rimuovere la cenere e la fuliggine, lo aveva colpito un fortissimo attacco di tosse e si era imbrattato da capo a piedi, cosa che aveva accresciuto il suo malumore e la sua frustrazione. Perché pulire quella camera, se la sua occupante non c’era? Erano giorni, ormai, che la signorina Harriet Ullmann era assente dal castello, ma anche se molti tra i domestici dubitavano della veridicità della versione fornita dal signor Jesper e dalla signora Christine, a Henrik non fregava assolutamente nulla. Per lui, quella ragazza avrebbe potuto anche cadere in mare e affogare. Cosa gli cambiava? E poi Eva era morta in modo a dir poco sospetto, era arrivato alla conclusione che quello che non sai non ti danneggia. Si mormorava da un pezzo che i Lawrence non avevano le mani pulite.
Ecco, i Lawrence sì che erano persone realizzate! Soldi a palate, potere e carisma. Henrik aveva sperato di farsi notare dal signor Jesper, magari di riuscire a convincerlo di possedere un acume fuori dal comune e di diventare un suo aiutante, ma il giovane l’aveva a malapena degnato di un’occhiata distratta. Ovvio, perché non era altro che un omuncolo insignificante!
E qui, rovistando tra le ceneri, aveva tastato involontariamente la L in rilievo, una forma sinuosa che aveva istintivamente schiacciato, facendo pressione con il polpastrello.
E gli si era aperto il passaggio, con un rombo sommesso, mentre il pavimento scompariva in una stretta scala a chiocciola che scendeva nelle profondità della terra sotto i suoi occhi strabuzzati e increduli.
Per un po’, era rimasto immobile a fissare la scala, tremante, con le mani serrate sullo spolverino e la bocca dischiusa in un’espressione di sciocca meraviglia. Un…passaggio segreto? Aveva veramente scoperto un passaggio segreto? Aveva sentito alcune chiacchiere al riguardo, voci secondo le quali Lawrence Borg abbondava di misteri e zone proibite, ma non si era mai immischiato più di tanto in quelle faccende. Eppure la scala a chiocciola c’era, impossibile negarlo! Cosa nascondevano là sotto? E perché nessuno là dentro s’era mai accorto della…
…Eva, quel vecchio pipistrello. S’era sempre occupata lei di quella camera in passato, sicuramente sapeva e non aveva detto niente. Si raccontava che fosse stata in rapporti intimi con l’antica padrona, Ingrid Lawrence, chissà cosa s’erano bisbigliate quelle due…magari la signora le aveva fatto promettere di non rivelare alcunché e la mummia avvizzita aveva giurato. Fatto stava che lui adesso il passaggio lo aveva trovato. Ma che doveva fare? Andare a dirlo al signor Jesper? E se i Lawrence avevano nascosto al suo interno qualcosa di scottante e il giovane lo considerava uno sgradito testimone da eliminare? Non ci teneva a fare la fine di Eva, grazie. Ma allora doveva forse fingere che non fosse successo niente, richiudere il passaggio e tornare ai suoi doveri?
La prospettiva lo lasciava fortemente insoddisfatto.
Cose del genere non capitano alle persone insignificanti come lui, è la regola. Eppure era capitato, il passaggio si era aperto per lui, e sentiva che se non avesse colto l’occasione, se avesse lasciato correre, sarebbe rimasto per sempre prigioniero dei bisogni e degli acciacchi di Morgan, intrappolato in una vita insoddisfacente. Il buio oltre la scala, benché inquietante, lo chiamava a sé, e non poteva fare a meno di chiedersi cosa ci fosse al di là di quei gradini. Un tesoro, forse? Documenti che attestavano atti illegali compiuti dalla famiglia, prove della loro colpevolezza?
Si immaginò mentre andava alla polizia, mentre esponeva la sua avventura e veniva inneggiato come un eroe, come colui che aveva finalmente battuto i Lawrence, il Robin Hood dell’isola di Gotland, l’unico che era stato in grado di distruggere la loro fama inossidabile e gettarli nel fango. Al paese tutti li disprezzavano, avrebbero accolto con entusiasmo spropositato la sua impresa. E Maud lo avrebbe finalmente guardato come una donna guarda un uomo, avrebbe potuto spedire Morgan in una di quelle cliniche costosissime dove non gli sarebbe mancato mai nulla e godersi una vita vera.
Indugiò ancora qualche istante, fissando la scala a chiocciola e mordendosi le labbra, poi lasciò bruscamente lo spolverino e corse a prendere una pistola dalla vetrinetta d’esposizione del defunto Hugo Lawrence, un maestro al poligono di tiro, e una torcia, con tre parole a risuonargli nel cervello.
Cogli l’attimo, Henrik.
 
Harriet non si mosse per parecchi minuti, prigioniera del buio soffocante che regnava nella sua cella e delle parole colme di minaccia che il suo carceriere le aveva indirizzato prima di partire all’inseguimento dell’intruso. Avvertiva uno strano, insensato senso di freddo, quasi di paura, anche se la novità avrebbe dovuto riempirla di speranza.
C’era stata una voce, su questo non poteva assolutamente sbagliarsi. Una voce umana. Qualcuno, chissà come, chissà perché, era riuscito a penetrare nei sotterranei, ma R si era accorto della sua presenza, e aveva avuto modo di vedere, quando aveva tentato di scappare, che nel buio e nelle ombre egli si muoveva come un pesce nell’acqua, al contrario di qualsiasi altro individuo. Inoltre sapeva dell’intruso, mentre l’intruso, forse, non sapeva di lui. E questo lo avvantaggiava enormemente. Conosceva quei cunicoli come le sue tasche, prova ne era lo scarso lasso di tempo che aveva impiegato a raggiungerla mentre lei provava a destreggiarsi nel dedalo, e al contrario il suo salvatore (?) sarebbe stato impedito dalle tenebre e dall’insidiosità del luogo.
Era spacciato.
E lei certo non poteva lasciarsi sfuggire quell’occasione, rimanersene buona buona lì mentre il suo carceriere ammazzava qualcuno! Era stata impotente per giorni, aveva covato odio, rabbia, risentimento, e adesso un messaggio la ricolmava di nuove energie, di incuranza del pericolo.
Cogli l’attimo, Harriet.
A farla esitare, a instillarle un improvviso e sgradevole dubbio, era la natura dei suoi sentimenti contrastanti per R. Se da una parte, infatti, lo odiava e desiderava con tutto il cuore vendicarsi di ciò che le aveva fatto, dall’altra le sue parole, il suo comportamento, la disperazione che, nonostante tutto, si portava appresso, la colpivano e non la lasciavano indifferente. Fino a poco tempo prima lo avrebbe denunciato senza pensarci due volte e avrebbe guidato la giustizia fino a lui, ma adesso…voleva sfuggirgli, era ovvio, ma non era più così pronta a bramare la sua morte e la sua disfatta. Forse era più semplice lasciarlo svanire tra le ombre…
Sì, e credi che lui accetterebbe la cosa?
In ogni modo, il suo rapitore l’aveva lasciata incustodita e c’era forse qualcuno disposto ad aiutarla, solo questo doveva importarle. La sorte di R non era affar suo. Era già abbastanza assurdo pensarci, anziché augurargli di finire nel peggiore dei modi.
Si sporse a contemplare con una smorfia la raggiera di cocci che circondava il letto su cui era seduta. Non c’era da dire, il mostro aveva fatto proprio un bel lavoro! E le aveva anche tolto calze e scarpe, lasciandola a piedi nudi, con quello scomodissimo abito rosso. Grugnì, rimboccandosi la gonna fino alle ginocchia; doveva saltare, non c’era alternativa, se provava a camminare in quel labirinto di frammenti taglienti si sarebbe messa fuori uso i piedi in un attimo. R aveva dato per scontato che non ci avrebbe provato, che la paura l’avrebbe frenata, ma si sbagliava.
Si era sbagliato tantissimo, sul suo conto.
Si mise in piedi sul materasso, la gonna ancora sollevata, e fronteggiò i cocci prendendo dei lunghi respiri e preparandosi emotivamente alla prova. Non era in ottima forma, aveva ancora la gola in fiamme e i muscoli indolenziti, ma si sentiva abbastanza lucida da tentare.
Coraggio, Harriet, puoi farcela!
Peggio di così non poteva andare, giusto? Era stata promessa in sposa ad un bastardo, rapita da un folle non meglio identificato, tenuta segregata in dei sotterranei, aveva rischiato di affogare in un fiume di melma ed era stata ricoperta di insulti e invettive. Ormai era la normalità, per lei.
La voce, nel silenzio profondo, tornò a farsi sentire. Le parole erano ancora indistinte, ma si trattava chiaramente di un uomo. Il cuore di Harriet mandò un palpito di emozione e paura. Avrebbe voluto gridare all’intruso di stare attento, che il pericolo stava arrivando, ma in quel caso avrebbe rivelato la sua presenza ad R. E l’elemento sorpresa era la sua unica possibilità di salvare se stessa e quell’altro.
Chiuse gli occhi, strizzando le palpebre, tagliò la testa al toro e saltò, dandosi una spinta poderosa coi piedi.
Avvertì lo spostamento d’aria che le scompigliava i riccioli, rabbrividì pensando alla distesa di cocci appuntiti che si stendeva sotto di lei, e un attimo dopo atterrò pesantemente, senza grazia – ma non era mai stata un tipo sportivo, diceva sempre di avere una mens sana in un corpore poco sano – sul pavimento di pietra, barcollando in avanti e risucchiando l’aria in una sorsata ansiosa, preparandosi al dolore…
…che non venne.
Aprì gli occhi, sbalordita, e si fissò i piedi nudi: erano illesi. Non un graffio né una scalfittura li deturpava. Guardandosi dietro le spalle, scorse i frammenti di vetro e porcellana, ormai lontani e inoffensivi. Ce l’aveva fatta. Li aveva attraversati. Si chiese se l’intensità del suo desiderio di riuscirci glielo avesse permesso davvero, come in una magia, e si sorprese a crederci. Nulla era impossibile, a questo punto.
La voce dell’intruso, in lontananza, continuava incautamente a risuonare. Doveva salvarlo. Doveva uscire di lì.
Si osservò intorno, abituata all’oscurità e quindi capace di distinguere gli oggetti disposti nella camera, e si soffermò su un vassoio appoggiato sul tavolino da notte, probabilmente quello su cui R aveva posto la scodella di zuppa in seguito mandata in frantumi. Non propriamente il massimo come arma di autodifesa, ma si era ridotta ad usare uno spazzolino da denti, un vassoio era più di quanto potesse desiderare.
 
“Ehi, c’è qualcuno?” chiamò Henrik per l’ennesima volta, sicuro, ormai, di non ricevere risposta.
Aveva deciso che se c’erano persone là sotto, impegnate in chissà quale losca e sporca attività, tanto valeva rivelarsi subito e accampare una scusa; aveva capito, dopo aver girato a vuoto per un po’ ed aver perso l’orientamento in quei cunicoli tutti uguali, di non aver modo di nascondersi o passare inosservato, semplicemente non sapeva come muoversi in quel posto maledetto, e si stava maledicendo per aver dato retta all’istinto e per essersi cacciato in quella situazione. S’era aspettato una sorta di camera blindata, di antro ricolmo di ricchezze o di libri proibiti, invece la scala a chiocciola l’aveva condotto in quelli che apparivano chiaramente i sotterranei del maniero, sotterranei abbandonati a se stessi, a giudicare dallo stato di degrado che vi regnava. Polvere, sporcizia e una disgustosa mucillagine verdastra avevano ricoperto tenacemente pareti e soffitto in pietra, e piante atrofizzate e pallide crescevano tra i lastroni, proliferando nelle crepe come serpi avviluppate. Uno sgocciolio costante gli echeggiava nelle orecchie e vi erano un freddo e un’umidità tali che si sentiva battere i denti.
Inoltre, quel posto era un vero e proprio labirinto, cunicoli, corridoi, cellette si succedevano gli uni agli altri in un intrico incomprensibile e l’oscurità, dilatandosi intorno a lui, li rendeva ancor più impenetrabili; il fascio di luce elettrica che scaturiva dalla torcia era troppo flebile per illuminare qualsiasi cosa si trovasse oltre qualche centimetro di distanza da lui. E via via che andava avanti, che tentava inutilmente di ritrovare la strada per la scala, l’angoscia, la tensione, l’isteria avanzavano a loro volta verso la sua mente.
Era fottuto. Una conclusione pura e semplice. Le persone come lui non facevano i conti con situazioni del genere e ci doveva essere un motivo! Quel labirinto era al di fuori delle sue capacità, al di fuori delle capacità di chiunque, e come un perfetto idiota, un frustrato, era andato ad infilarcisi millantando di diventare un eroe, di mandare al diavolo Morgan, Maud e i Lawrence ed uscire dalla propria mediocrità.
Ogni azione audace aveva un prezzo, e questo era il suo. Lì dentro non c’era alcun tesoro, né alcuna prova che potesse mandare i Lawrence davanti ad un giudice. C’erano solo topi, puzza e oscurità. Quando aveva compreso senz’ombra di dubbio di essersi perso e il panico aveva iniziato a farsi sentire aveva provato ad invocare aiuto, ma naturalmente non era giunta risposta.
Tastò, in un gesto quasi inconscio, il manico della calibro 38 che aveva trovato tra i vari fucili e carabine della collezione dei Lawrence, l’unica arma da fuoco che sapesse in teoria usare, e che aveva riposto dietro la schiena, e un fiotto di sollievo lo travolse. La presenza della pistola lo rassicurava, lo faceva sentire un po’ meno impotente e inutile. Se lì intorno ci fosse stato…qualcosa, beh, perlomeno avrebbe saputo come fronteggiarla.
Quasi l’avesse evocato con i suoi pensieri, con la sua paura, qualcuno si mosse nelle tenebre. Fu un movimento sinuoso, quasi impercettibile. Ma lo captò ugualmente.
Gli si ghiacciò il sangue nelle vene. Un fiotto denso e acido di timore, avviso, tensione gli riempì la bocca di bile amarissima. Ruotò la testa a destra e a sinistra nel buio totale: “Chi c’è?!” la voce venne fuori spezzata, ma forte. Una piccola esplosione nel silenzio.
Non ci fu replica.
Forse se l’era solo immaginato. Non sarebbe stata la prima volta. Il buio l’aveva sempre innervosito e spinto ad autosuggestionarsi. Quando era piccolo, si era autoconvinto, tramite un ragionamento meticoloso, che le chiazze di saliva che trovava sul cuscino la mattina – saliva rigorosamente sua – appartenevano invece al mostro sotto al letto che, desideroso di papparselo in un sol boccone, sbavava come un cammello. Chissà perché, Henrik si ritrovò a pensare nuovamente proprio al mostro sotto al letto e tornò a stringere il metallo gelido della pistola, la fronte imperlata di sudore.
Lo avvertì di nuovo. Il fruscio di un corpo che si spostava, fendendo le tenebre. Troppo sonoro, troppo evidente per essere frutto della sua immaginazione.
C’era qualcuno. Lì. In quel cunicolo. Qualcuno che si muoveva nell’oscurità. Qualcuno che gli voleva male.
Aspetta, aspetta, non è detto, stabilisci un contatto…
“Chi c’è?” ripeté, in un fievole bisbiglio strozzato: “Chi sei?”
La creatura che si nascondeva nelle ombre conservò il silenzio. Ora la sentiva respirare. Respiri lenti, misurati, umani. Cazzo, cazzo, cazzo! Perché era sceso in quei maledetti sotterranei?! Perché non se n’era rimasto a pulire i suoi pavimenti? Ognuno aveva il suo ruolo e il suo era quello del fallito. E adesso c’era un essere…un uomo…che…non aveva mai creduto alle storie di fantasmi che si sussurravano a Lawrence Borg, ma se…se…
“Chi sei?” urlò a voce più alta, una voce che sapeva di pianto e terrore: “Che cosa vuoi da me? Lasciami stare!”
Una risata agghiacciante, roca, sibillina esplose nello spazio intorno a lui, rimbalzando in decine di echi e strappandogli un urlo soffocato.
“Chi sono io?” sibilò una voce raschiante in tono quasi divertito: “Un idiota viene nei miei sotterranei e sono io la presenza sgradita?”
Henrik si voltò di scatto, cieco di panico, estraendo la pistola dai pantaloni, e sparò nel punto da cui la voce proveniva, ma captò il proiettile che urtava inoffensivo contro una delle pareti di pietra e realizzò di aver mancato l’avversario, che nuovamente diede in quella sua risata terribile, da demonio.
“Glielo hanno mai detto, signore, che non si entra nella dimora altrui senza chiedere il permesso?” proseguì l’uomo, garbato, eppure la minaccia trapelava dalla gentilezza apparente, come una lama nascosta in un mazzo di fiori: “E ha portato anche un’arma con sé…ma bene, molto, molto bene!”
Henrik aveva solo cinque colpi in canna e non vedeva assolutamente niente, per cui non osò sparare ancora, ma spostava freneticamente quest’ultima da una zona all’altra del cunicolo e faceva lo stesso con il raggio della torcia, sudato e pallidissimo. Come faceva quell’individuo a nascondersi tanto bene?! E chi accidenti era?
“Sei venuto a scoprire se le leggende erano vere?” sussurrò, alle sue spalle, vicino, più vicino di quanto si sarebbe mai aspettato: “Se qui sotto c’era un mostro?”
Con un grido, Henrik fece per girarsi, il dito già pronto sul grilletto, ma un calcio fortissimo, quale non ne aveva mai presi in vita sua, lo colse all’improvviso in mezzo alla schiena e lo proiettò in avanti, sul gelido pavimento di pietra. La torcia e la calibro 38 gli sfuggirono dalle mani e il cuore ebbe una fitta di orrore puro mentre cadeva in ginocchio, senza fiato, e si sbucciava i palmi e le ginocchia. Gli salirono le lacrime agli occhi, più per lo sconforto che per il dolore, e lo stomaco si contorse e si lamentò.
“Ah-ah-ah” ammonendolo con fare quasi giocoso, la presenza celata dal buio avanzò verso di lui, udì i suoi passi agili che strisciavano sul suolo e percepì il suo ghigno anche senza vederlo: “Sai, di norma tengo l’ospitalità in gran conto, ma ho degli affari da sbrigare ultimamente e non ho intenzione di gestire seccatori. Tu mi capisci, vero?”
“Chi cazzo sei?” strillò Henrik, trascinandosi all’indietro e distinguendo a fatica una sagoma che incombeva su di lui, una sagoma che pareva confondersi con le tenebre circostanti, e un paio di baluginanti occhi azzurri, frementi di emozioni incontrollate.
“Chi sono?” gli occhi azzurri vennero attraversati da un luccichio: “Sono il figlio più piccolo dei Lawrence”.
“Cosa?” boccheggiò Henrik: “Il figlio più piccolo dei Lawrence era Viktor!”
“Davvero?” quel pazzo si chinò su di lui ed ebbe l’impressione di scorgere una pelle sfigurata e violacea, un naso aguzzo e un paio di labbra livide, ma forse era il terrore a giocargli brutti scherzi…o forse no. “Le tue informazioni, mio caro, sono un tantino datate…”
La mano di Henrik trovò il manico della calibro 38 proprio mentre le dita magre dell’aggressore gli si serravano intorno alla gola in una morsa d’acciaio, e afferrò l’arma come se fosse la salvezza, alzandola e premendola contro quelle che risultarono essere le costole dell’uomo, le sentì attraverso gli abiti e la carne. Gli occhi azzurri si dilatarono appena, colti di sorpresa, ed Henrik, in un’ondata repentina di trionfo e godimento, pensò che in fondo lo sarebbe stato davvero, un eroe, che quelli come lui tendevano ad essere sottovalutati, ma che proprio per questo potevano vincere.
“Hai fatto male i tuoi calcoli, bastardo!” esultò, preparandosi a premere il grilletto.
 
Harriet, paralizzata, inchiodata sul pavimento da una mescolanza incomprensibile di paura, indecisione, stupore, fissava, a pochi metri di distanza, la scena che aveva davanti: lo sconosciuto che, da inginocchiato, si alzava in piedi, paonazzo ed esultante, la pistola stretta nel suo pugno, la canna premuta contro l’addome di R, ed R, sagoma indistinta nel buio, che guardava l’altro con occhi spalancati e quasi…quasi…
…smarriti.
Sì…smarriti. Smarriti come quelli di un bambino che credeva di essere sul punto di ottenere un successo e che invece lo vede sgretolarsi e mutarsi in polvere, come quelli di un uomo che non vuole morire. Ed era uno sguardo umano, così umano, troppo umano per uno come lui. Quando aveva seguito le urla, gli spari, i rumori, si era preparata ad assistere allo spettacolo opposto, al suo carceriere che uccideva brutalmente l’intruso, al bianco e al nero, ed era stata sicura di come si sarebbe comportata.
Ma aveva trovato, invece, il grigio. Perché quello che stava per essere ucciso era il suo rapitore, il mostro che l’aveva privata della libertà e minacciata, ma era pur sempre un uomo, e nessun uomo merita di morire. Perché lo sconosciuto non si limitava a gambizzarlo, a ferirlo in modo da poter fuggire? Perché aveva intenzione di ammazzarlo a sangue freddo, lì, in quei sotterranei? Si era fermata alle spalle dell’intruso, eppure R, che pure le era di fronte, non l’aveva ancora vista. Era troppo preso a fissare la canna della pistola prossima a sparargli, con quello sguardo da ragazzo spaurito.
Harriet si chiese all’improvviso quanti anni avesse e le tornarono in mente le parole che le aveva rivolto poco prima, cariche di astio e di dolore.
“Prima mi comportavo come un mostro…e questo la tua mente lo riesce a gestire. Ora che mi sto comportando come un uomo, non lo accetti”.
Le tempie le pulsavano impazzite, il cuore batteva ad un ritmo selvaggio e le mani si serravano convulse sul vassoio che teneva stretto al petto come uno scudo.
Poteva scappare. Poteva passare non vista intorno ai due contendenti e dileguarsi, e sarebbe stata salva. Lei odiava R…e in ogni caso, era una situazione più grande di lei.
Ma al tempo stesso c’era qualcosa, qualcosa di assurdo ma di forte, che le ripeteva che sarebbe stato sbagliato.
Poi R parlò, e la sua voce, di solito così demoniaca e spaventosa, venne fuori malsicura, spaventata, incredula, una voce che rispecchiava pienamente lo sguardo dei suoi occhi azzurri: “No…”
Harriet agì senza pensare. Si lasciò andare all’istinto. Gettandosi in avanti, levò il vassoio alto sopra la testa, mentre una scarica di adrenalina le percorreva le braccia, raggiunse Henrik un attimo prima che potesse premere il grilletto e liberarsi del più piccolo dei Lawrence e glielo abbatté sulla nuca con tutta la forza che aveva. Il colpo fu brutale, vigoroso, e colse lo sconosciuto impreparato. La sua mano lasciò la presa sulla pistola e il corpo cadde a terra con un tonfo sordo, inerte.
Boccheggiante, sudata, con le guance che scottavano e le iridi luminose, Harriet abbassò il vassoio e fissò, sgomenta, la figura dell’uomo prona sul pavimento, la protuberanza violacea che iniziava a gonfiarsi nel punto in cui l’aveva colpito, quindi alzò lo sguardo su R, immobile, pietrificato quanto lei, che la fissava di rimando, con lo stesso sguardo smarrito di prima…anzi, ancora più smarrito.
Le si mozzò il fiato in gola mentre continuavano a guardarsi, increduli.
Oh mio Dio…che cosa ho fatto?
 
Angolo autrice: Hola, todos! Eccomi ritornata dalla Costa Concordia :’) ho scritto un capitolo lungo nella speranza di farmi perdonare dell’immenso ritardo, so di essere un disastro, ragazzi…ma ve lo giuro, in un certo mio modo incomprensibile e bislacco amo questa storia, e sono anche felice quando la scrivo…spero che il chapter non vi abbia delusi! Si è fatta chiarezza sulla questione-Jesper: ricordo che quando pubblicai il primo flashback su di lui, ovvero quello in cui Ursula lo lasciava, alcuni dissero giustamente che una storia adolescenziale andata male non costituiva di per sé un trauma…ecco svelato l’arcano: a traumatizzarlo e a farlo “ossessionare” (si scoprirà in seguito a cosa) non è stato l’abbandono di Ursula, ma il fatto che l’abbia uccisa. Ho paura che quella scena sia stata un mezzo disastro…coomunque, di per sé quest’essere spregevole non è cattivo (nel senso che fa cose orribili ma non prova piacere a farle…ha uno scopo e lo persegue, non gliene frega nulla se implica il sacrificio di qualche vita) la vera anima nera, come parecchi hanno notato, è Christine…che continua a tramare nell’ombra ;)
Per la scena Rarriet devo ringraziare uno dei più bei film di tutti i tempi, V per Vendetta, a cui mi sono liberamente ispirata. Ricordate quando Evey sorprende un poliziotto qualunque nell’atto di arrestare V e difende il terrorista anche se allora lo crede malvagio? Ecco, ho reinterpretato la cosa. I sentimenti che Harriet nutre per Raphael sono alquanto contraddittori…al momento non li capisce neanche lei ;) comunque, come avrete sicuramente capito, abbiamo “passato l’angolo”…da qui si va in salita con loro due! Per la figura di Henrik ho preso ad esempio una vasta gamma di film horror o thriller, lì c’è sempre un povero sfigato che, mosso da desiderio di rivalsa o pura e semplice stupidità, va’ incontro al pericolo. È un cliché che ho voluto fare mio : )
Ringrazio tantissimo tutti coloro che recensiscono e che leggono e senza i quali questa storia navigherebbe nella mia mente, senza costrutto e senza uno scopo di vita, la sto creando insieme a voi ragazzi, che con il vostro sostegno e i commenti mi fornite la linfa necessaria ad andare avanti malgrado l’ispirazione altalenante e l’incostanza genetica : )
Un bacione!

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 15 ***


Capitolo 15
 
 
 
 
 
 
“Perché lo hai fatto?”
La voce di R era appena udibile, un mormorio fioco e soffuso che si perdeva nell’illimitato dedalo di corridoi sotterranei. Non si era mosso dalla sua posizione, era ancora immobile nel buio, con gli occhi azzurri spalancati e increduli.
Harriet, da parte sua, stringeva spasmodicamente al seno il vassoio con cui aveva colpito l’intruso – l’intruso, non il suo carceriere! – e ne fissava il corpo privo di sensi, per capacitarsi di averlo davvero ridotto così, di aver compiuto un gesto in cui si mescolavano follia e istinto. Non riusciva a far funzionare il cervello, ad ordinargli di elaborare una qualche spiegazione per il suo assurdo comportamento.
Forse non esisteva nemmeno, una spiegazione.
“Perché lo hai fatto?” insistette R, stavolta alzando quella sua voce demoniaca ma senza adottare un tono aggressivo. Pareva confuso e incapace di elaborare la situazione quanto lei, e la ragazza avrebbe riso, se tutto non fosse stato tanto assurdo e insensato.
“Devo essere sincera?” rispose, stupendosi dell’accento vagamente ironico scaturitole dalla gola.
Gli occhi luccicanti del suo carceriere la invitarono a continuare, fissandola avidamente dalle tenebre che seguitavano a celarle il suo aspetto. Lasciò cadere il vassoio, che si schiantò sul suolo di pietra scura con uno stridulo clangore metallico, e scrollò debolmente le spalle.
“Non ne ho la più pallida idea”.
Era… accaduto. Semplicemente, accaduto. E non esisteva discorso logico che potesse spiegare a lei o a lui le ragioni della sua azione. Si domandava cosa albergasse nel suo subconscio, cosa proliferasse sotto l’odio e la rabbia di superficie, e si rifiutava di rifletterci sopra, anche solo di pensarci, perché, era costretta ad ammetterlo, aveva troppa paura di ciò che avrebbe potuto trovare scavando a fondo, ed era così semplice, così comodo detestare il suo aguzzino per ciò che le stava facendo, mentre era così difficile accettare che forse, nel profondo del suo animo, qualcosa di lui doveva averla colpita.
Le venne incontro adagio, circumnavigando con indifferenza la sagoma accasciata dell’intruso e muovendosi nella sua direzione con quei passi agili e silenziosi che Harriet iniziava a riconoscere. Arretrò d’impulso, mettendosi sulla difensiva e rimpiangendo di aver fatto cadere il vassoio – adesso lo avrebbe volentieri usato contro di lui, contro Jesper, contro Christine e tutti coloro che si erano arrogati il diritto di comandarla e decidere del suo destino – ed R, notandolo, si fermò, le iridi chiarissime che non cessavano un attimo di scandagliarla con intensità e di carpire ogni più piccolo particolare di lei.
Era la prima volta che la osservava in quella maniera, finora non le aveva dedicato altro che occhiate sferzanti, colme d’ira o di freddezza.
“Tu mi odi?” le chiese piano.
Harriet, rigida, annuì; poco importava che una parte di lei giudicasse patetico quell’assenso alla luce degli ultimi avvenimenti, era troppo orgogliosa per fornire una risposta diversa.
Gli occhi azzurri si assottigliarono impercettibilmente: “E allora come mai?”
“Te l’ho detto” ribatté, fredda: “Non lo so”.
“Questo non è possibile!” scattò il suo carceriere con malcelato fastidio, e il sibilo irritato in cui si era tramutata la sua voce strappò un lieve sussulto alla ragazza: “Devi pur avere un motivo! Ed io…” indugiò con lo sguardo prima sul suo viso, poi sul suo corpo, e infine di nuovo sul viso: “Io lo conoscerò. Parla!”
“Cosa vuoi che ti dica, per l’amor di Dio?!” ringhiò Harriet, innervosita da quelle richieste perentorie e ossessive: “Per te tutto deve avere obbligatoriamente una ragione logica?!”
Le sembrò di cogliere una nota di stupore in R, di sorpresa per quella sua replica, e mai come allora desiderò rischiarare le ombre con cui l’uomo si faceva scudo, per studiare la sua fisionomia come lui studiava quella di lei e leggerne le espressioni. Aveva intuito che l’ostinazione del suo carceriere nel rimanere anonimo non era dettata solo dal timore che lei, vittima, potesse farsi un’immagine chiara del suo carnefice e in caso trasmetterla alle autorità, che c’erano altre implicazioni, ma provava una curiosità feroce. Forse, se quell’individuo avesse avuto un volto effettivo… le sarebbe apparso più reale.
Voi di solito le avete sempre, delle reazioni logiche” quello di R fu un sussurro.
Harriet inarcò le sopracciglia: “Noi?”
“Voi” confermò aridamente lui: “Vedete un mostro, e fuggite. Vedete la bellezza, anche addosso al peggiore tra i peccatori, e la idolatrate. Tutto è in bianco e in nero, tutto è inferno e paradiso, non ci sono sfumature. Anche… anche lei ha… quando… quando ha visto…” un digrignare di denti nel buio: “Tu devi avere un qualche fine, ragazza! Pensi che io non vi conosca? Che non conosca i cari Lawrence e tutti quelli come loro?” gradualmente, le sue erano divenute mezze grida: “Perché colpire lui e non me? Perché non scappare?”
Quello scoppio di agitazione spingeva Harriet a stare sul chi vive, ma non aveva paura di R, era una sensazione bizzarra e sconosciuta: da quando lo aveva salvato, improvvisamente la distanza che li separava, gli equilibri di potere che avevano imperversato fino a quel momento si erano distrutti e si sentiva alla sua pari, non lo temeva né aborriva più con la forza dei primi giorni.
"Se anche ti fornissi una spiegazione di qualche tipo" disse lentamente: "Questa situazione acquisterebbe un senso?"
Le rispose solamente il respiro raschiante e teso di R. Sospirò, stanca e spossata, e si passò una mano sulla fronte madida, cercando di mettere a tacere il ronzio insistente dei suoi pensieri: "Io sono qui. Tu sei qui. Tutto il mondo è lontano. Non ha senso. Ma forse bisognerebbe semplicemente accettarlo. Che non ha senso. Che magari non lo avrà mai. Lasciar entrare l'assurdo. Perchè no?" produsse una risata amara: "Che cos'ho da perdere?"
Una breve pausa. Poi il mormorio debole del suo carceriere: "Neppure io ho nulla da perdere".
Harriet guardò dentro le ombre che lo proteggevano: "Siamo qui, tutti e due, e nessuno di noi ha qualcosa da perdere".
Quel dialogo, quello scambiarsi frasi insensate nel buio, indovinando appena la sagoma dell'altro, aveva un che di irreale, di mistico. Ma, come aveva da poco affermato, forse doveva accettarlo e basta. Prenderne atto. E smetterla di cercare della normalità in una circostanza che di normale non aveva nulla.
R esitò appena una frazione di secondo prima di chiederle, con una sorta di avida curiosità: "Se non hai niente da perdere, perchè tanto impegno nel tentare di sopravvivere?"
Un cipiglio si dipinse sul volto pallido e sbattuto della ragazza, marcato da occhiaie talmente accentuate da deturparle le guance: "Potrei rivolgerti la stessa domanda. Qualsiasi cosa tu voglia da Jesper - e non mi interessa, sai? Le faccende dei Lawrence non sono affar mio - se non hai niente da perdere, perchè combatti a tal punto per ottenerla?"
"Perchè devono pagare il fio!" repentinamente, la voce di lui si era tramutata di nuovo in un sibilo di melodioso astio, di furia bestiale a stento trattenuta: "Tutti loro devono pagare il fio! Come è giusto che sia!"
Ad Harriet non sfuggì che stavolta non l'aveva inclusa in quell'indeterminato gruppo di individui che in certi momenti ipotizzava comprendesse solo i Lawrence, e in altri il mondo intero con le sue migliaia di abitanti belli e anonimi. Ma sul suo animo era scesa una strana e torbida calma, e si limitò ad assimilare la novità senza particolari reazioni.
"Io" spiegò piano: "Sopravvivo perchè arrendersi significherebbe darla vinta a mia madre e a tutti quelli che si sono presi il diritto di decidere del mio destino e chiudermi a chiave in una stanza buia, senza porte nè finestre, confabulando dietro le pareti e disegnando il mio futuro, un futuro che non desidero. Sopravvivo perchè penso che morire, svanire, li soddisferebbe. Da un certo punto di vista" alzò lo sguardo, quasi stupita, e incontrò quello bizzarramente intento e rapito del suo carceriere: "Sono come te. Mi hanno fatto troppo male perchè io possa semplicemente togliermi di mezzo".
La facilità con cui si era confidata la coglieva di sorpresa. Non era mai entrata in confidenza con le persone al punto da condividere con loro le parti più intime della sua anima, aveva sempre preferito calarsi nel ruolo monotono ma rassicurante dell'ascoltatrice, dando consigli senza scoprirsi in alcun modo, non sapeva se per autodifesa o per naturale riserbo, eppure era stato un mostro, un criminale a tirarle fuori quelle verità. Ricordava suo padre, quella notte in cui era entrato da lei farneticando assurdità, e avrebbe voluto disperatamente buttare fuori il boccone repellente e appuntito che quel ricordo era, ma si costrinse a darsi un freno, a non affidare quel segreto, quello sporco ad un uomo che avrebbe dovuto odiare.
"Ami Jesper?"
Non si aspettava quella domanda - pronunciata peraltro con una specie di tensione - , tuttavia non si mostrò impreparata. L'oscurità, impedendole di guardare in viso R e ammantando ogni cosa, la faceva sentire improvvisamente protetta, sentiva di poter essere sincera proprio perchè immersa nelle tenebre.
"No" ammise con semplicità: "Non l'ho mai amato. I primi tempi cercavo disperatamente di amarlo, nella speranza di poter avere un matrimonio felice, ma c'era - c'è - qualcosa in lui che mi disgusta. Come se le nostre cariche si respingessero a vicenda".
"Lui è bello" il tono di R era atono e quasi cantilenante: "Non è uno sgorbio. Come può disgustarti la bellezza? Dovrebbe essere uno sgorbio a disgustarti".
"Ma Jesper è uno sgorbio. Lo è dentro".
Gli occhi azzurri la sferzarono, lo sguardo di colpo vulnerabile: "Ti sbagli".
Harriet però non cedette; non più: "Non mi sbaglio".
Quasi dovesse difendersi da qualcosa, lui le disse con voce astiosa, come se la detestasse: "Lui però ti vuole".
Un sorriso sarcastico andò disegnandosi sulle labbra della giovane: "Davvero?"
"Non fare così" ringhiò R: "Io non mento. Non mento mai. Non sono come voialtri, che dite una cosa e poi ne fate un'altra, che convincete qualcuno di potersi fidare, che gli parlate notte dopo notte e ricostituite pezzo dopo pezzo il suo cuore infranto, solo per il gusto di distruggerlo una seconda volta e molto peggio di prima. Non mento, e lo so, lo so bene che Jesper ti vuole. Tu puoi anche non volere lui, ma lui vuole te".
Le pareva quasi un'accusa.
"E questo non dovrebbe rallegrarti?" era macabremente ironica: "Se" mimò le virgolette con le dita: "Mi vuole, allora pagherà il riscatto".
Lui la ignorò: "Non lo capisco, perchè ti voglia. Tu... non vai bene per lui. Sei troppo diversa. Sei troppo viva. E lui ha bisogno di qualcosa di morto. Qualcosa che lo accarezzi nel suo ego, che se ne stia in un angolo, senza dir nulla. Com'era mia madre. Mia madre è sempre stata una donna morta. E mio padre..." la fissò: "Ma tu non lo sei. Tu sei viva".
Per quanto contorti fossero i suoi discorsi, Harriet iniziava a vederci un senso. Anzi, li comprendeva addirittura. Nell'atmosfera c'era qualcosa di indefinibile, di magico quasi, e si sentiva sospesa, intenta, rapita. Forse anche R si sentiva così.
"E tu?" gli chiese con genuina curiosità: "Tu sei vivo o morto?"
Le arrivò un'occhiata vagamente sospettosa, diffidente, come se egli si stesse domandando se era realmente interessata o se lo stava ingannando, prendendo in giro come doveva essere accaduto in passato. Alla fine, prevalse la prima ipotesi.
"Io?" una risata sguaiata: "Ho cercato di essere vivo per tutta la mia esistenza, ma il mondo mi vuole morto. E non morto con una pallottola nel cervello o una lama nel cuore. Morto nell'animo, così che possa studiarmi, così che possa catalogarmi e non avere più paura di me" un odio antico gli vibrava nella voce: "Questa è la storia di tutti i mostri. Esaminali, martoriali, trovagli un nome e una definizione e li avrai addomesticati. Prima la torre, poi il circo, e addirittura Heather Ville... gabbie per tenermi prigioniero, e mio padre, gli zingari, Irene... dottori ansiosi di sezionarmi e poi buttarmi via. Tu probabilmente non capisci quello che dico. Ed è ovvio. Tu sei bella, tu porti la luce dentro di te. Ma..." un tremito, spezzato, e per un attimo Harriet pensò con immenso stupore che lui fosse sull'orlo delle lacrime: "Non chiedevo molto. Un sorriso, una carezza, una frase gentile. Avevo nel petto un amore talmente grande che stenteresti a immaginarlo. E bastava un cenno perchè... ma neppure quello mi è stato concesso. E allora ho tramutato l'amore in odio. Perchè così mi sento vivo".
Una pausa, lunga e assordante, durante la quale il buio parve solidificarsi in una cappa pesantissima, che li schiacciava entrambi. Poi un sussurro proveniente da R.
"Non avrei dovuto dirti queste cose".
Harriet non riusciva a definire ciò che sentiva. Erano emozioni troppo conflittuali e troppo sconosciute perchè potesse denominarle. Sapeva solo che, in qualche modo assurdo, non nutriva più odio nei suoi confronti. Il rancore, l'ira erano rimasti, ma si mescolavano ad un senso di pietà, di comprensione quasi. Dopotutto, erano simili.
"Come puoi saperlo?" bisbigliò: "Come puoi sapere che in te non c'è più nulla di quell'amore?"
Le iridi azzurre avevano un'intensità tale da farle mancare il respiro: "Non immagini neppure di cosa sono capace".
Lei non tremò: "Credo... che tu abbia già ucciso".
Un minuscolo fremito nelle pupille di R.
"Ma non mi scandalizzo".
Lui trattenne bruscamente il respiro: "Non ti scandalizzi?"
"No" lo disse con semplicità: "Esistono omicidi e omicidi, e tante possibili ragioni. Non conoscendole, chi sono io per giudicare?"
Avrebbe desiderato guardare R in faccia, perchè la tensione che indovinava appena nella sua figura le suggeriva che doveva aver assunto un'espressione particolare a quella sua ultima dichiarazione.
"Se mi vedessi" fece infine lui, lentamente, con macabro divertimento: "Mi giudicheresti".
"Che cos'ha che non va il tuo volto?"
"Cosa?"
"Non sono una stupida" aggrottò la fronte: "Ho capito che ti vergogni del tuo aspetto. Ma è davvero tanto brutto?"
R si allontanò di qualche passo, lasciando che ulteriori tenebre si addensassero nell'aria che li separava: "Avevi una candela. Potevi prenderla, avanzare e vedermi. Non l'hai fatto. Perchè?"
Lei scrollò le spalle: "Avevo priorità più importanti".
"Non ti importa del mio volto?" lui lo disse con una sorta di assoluto, sgomento stupore: "Non ti importa?"
Harriet incominciava a sentirsi leggermente divertita: "Forse è il tuo aspetto che devo temere? Può, che so, aggredirmi o provocarmi danni?"
"No..."
"Allora non vedo perchè dovrei farmene un problema. Ne ho già fin troppi".
Lui scosse freneticamente la testa: "Non può non essere un problema".
Quella sua ostinazione la colpiva: "Perchè no?"
Ricomparvero i modi forsennati, il fare esagitato: "La mia intera vita ha ruotato intorno al fatto che l'aspetto era la chiave di tutto. Che c'erano i demoni e gli angeli e che i demoni, gli sgorbi non avevano diritto al paradiso. Tu non puoi dire sul serio!"
"E allora lascia che ti veda!" lo esclamò con impeto, non con sfida, e mosse un passo in avanti, presa dal repentino, fortissimo desiderio di dimostrargli di avere ragione, di strappargli le sue convinzioni e fargli vedere che il mondo non era bianco e nero, demoni e angeli, ma una tavolozza di colori sfumati e che bastava cercare, uscire dalla propria prigione, reale e psicologica che fosse, per trovarle: "Lascia che guardi!"
R indietreggiò, sembrava quasi voler scappare da lei, dall'onestà delle sue parole: "No, no" mormorò, terrorizzato, agitato, folle: "Non di nuovo. Non posso sopportarlo. Non di nuovo. Giuro su Dio, se ti avvicini solo poco di più..."
Improvvisamente, mentre gli andava incontro con una mano tesa come a blandirlo, Harriet vide, con la coda dell'occhio, un fugace movimento frusciare dalle parti in cui giaceva il corpo privo di sensi dell'intruso. Le si ghiacciò il sangue nelle vene, un unico pensiero strillato a lettere cubitali nel cervello - lo abbiamo dimenticato, eravamo così presi da dimenticarlo, merda! - e l'uomo nel frattempo, ancora sdraiato sui lastroni di pietra, aveva afferrato la pistola e gliela puntava contro, un foro nero diretto al suo addome che sembrava quasi inghiottirla.
Anche R dovette accorgersi, perchè levò un grido terribile: "No!"
Poi il fragore del colpo. E l'odore denso della polvere da sparo a saturare l'aria.
La ragazza si tuffò di lato, uno scatto istintivo. Non abbastanza rapidamente, però. Un dolore acuto, lancinante, simile al morso di zanne acuminate le trafisse il fianco destro e si lasciò sfuggire un urlo soffocato, ripiegandosi su se stessa e sussultando per gli spasmi.
Era stata colpita. Aveva temuto per tutto quel tempo che R le facesse del male, e alla fine era stato un altro a ferirla. Premette una mano nel punto in cui la carne strillava di dolore e poi sollevò le dita che stillavano sangue fresco, fissandole con attonita fascinazione.
Il mio sangue. Morirò.
"Maledetto!"
L'esclamazione del suo carceriere, colma di una collera sanguinosa e mortale, di un odio alimentato da anni di sofferenze, la distolse per un attimo dalle fitte che scaturivano dalla ferita, portandola ad alzare il capo appena appena: R era scattato in avanti come una serpe, gli occhi azzurri più baluginanti e ferali che mai, e con un piede avvolto in uno stivale logoro aveva calpestato la mano con cui l'intruso impugnava la pistola tanto violentemente da spezzargli tre dita e da fargli lasciare la presa sull'arma. L'uomo lanciò un grido di pura sofferenza mentre l'altro, incombendo su di lui, ansimava di una furia primordiale, tanto intensa da provocare in Harriet un moto di profondo sbalordimento. Lo aveva visto spesso fuori di sè in quei giorni di prigionia, ma mai aveva mostrato una tale, incommensurabile ira.
"Le hai fatto del male!" ringhiò astiosamente all'intruso boccheggiante: "Le hai fatto del male, lurido ratto di fogna, le hai fatto del male! Lei è mia!"
Quello farfugliò qualcosa di incomprensibile, forse una preghiera, forse un insulto, che in ogni caso non placò minimamente R. Era cieco, bestiale, ingovernabile.
"Lei è mia!" ripeté, ogni parola echeggiante nel sotterraneo umido: "Mia, miserabile scarto umano, mia! mia! mia! Per quindici giorni, e solo io posso farle del male! E finché non prendo questa decisione è sotto la mia protezione, e tu l'hai ferita, schifoso, inetto omuncolo! L'hai ferita, l'hai fatta soffrire!"
Harriet sussultò quando lo vide estrarre con un movimento dalla grazia fatale un coltello dalle pieghe del mantello scuro, un corto pugnale dall'elsa decorata di intarsi in argento e la lama arrugginita in alcuni punti, che mandò un debole scintillio nell'oscurità. Si chinò sull'intruso che ancora piagnucolava per le dita rotte e lo afferrò spietatamente per i capelli: "Nessuno può toccarla all'infuori di me" sibilò con dissennatezza: "Nessuno!"
"Fermati..." provò a protestare debolmente la ragazza, ma il fianco doleva troppo e aveva il cervello annebbiato, incapace di elaborare pensieri compiuti. Tuttavia, non chiuse gli occhi quando il coltello calò sul corpo della vittima, quando uno schizzo di sangue macchiò la pietra del pavimento, non era mai rifuggita davanti agli orrori e assistette, mezza accasciata a terra, ai colpi che R menava perdutamente all'intruso. Quello emise solo un uggiolio da cane, tentò di sollevare le mani a pararsi prima di cadere sotto la pioggia di coltellate. C'era del metodo nel modo in cui il suo carceriere colpiva i punti fatali.
Sì. Ha già ucciso in passato.
Era cattivo. O meglio, il mondo lo aveva reso tale. Ma si accorse di provare un orrore minore di quanto si sarebbe aspettata dinnanzi alla dimostrazione della sua crudeltà. Stava impazzendo anche lei? O semplicemente iniziava a persuadersi che quell'uomo senza volto fosse il risultato di atrocità commesse da altri? Stava troppo male per riflettere.
Dopo un tempo infinito che in realtà erano pochi secondi, R gettò a terra il suo pugnale e respirò affannosamente, ansimò, tremando e sudando nel buio, col sangue dell'intruso che scorreva in una pozza ai suoi piedi. Aveva messo a nudo le sue sofferenze solo poco prima e adesso aveva ucciso qualcuno con furore da bestia.
Non è solo vittima, e neppure solo carnefice.
Harriet si trascinò faticosamente fino ad una parete e vi appoggiò il dorso, seguitando a premersi una mano sul fianco. Un gemito le scappò dalle labbra, ma bastò quel suono fievole a riscuotere R. Si voltò di scatto, gli occhi azzurri che la trovavano in un istante - occhi in cui all'odio si mescolava la preoccupazione - e le volò incontro, ancora ansimante.
"Dove ti ha ferita? Non doveva farlo. Non doveva. Voleva ucciderti, quello schifoso, ucciderti" nella foga si mangiava le parole, mentre cadeva in ginocchio accanto a lei: "Cosa credeva di poter fare... tu sei mia... credeva di poterti portare via... ma ha avuto quello che si meritava... la morte è stata troppo rapida per lui..."
La ragazza serrò le labbra. Ancora non provava orrore, persino a fronte di quei discorsi. E neppure scansava le mani gelide di R, che le allontanavano i capelli dal viso, la tastavano in cerca della lesione, la disordinavano e poi la ricomponevano in preda all'agitazione totale.
"Dove ti ha ferita?" incalzò: "Rispondi!"
"Al fianco..." si costrinse a staccare le dita dai fori di entrata e uscita - grazie a Dio il proiettile non era rimasto dentro la carne - ed udì il ringhio di disappunto e di rabbia che lui emise contemplando la ferita sanguinante. Le sue mani indugiarono ad un soffio dalla pelle lesa, ma senza toccarla direttamente, quasi avessero timore di accrescere la sua sofferenza.
"Non è grave" disse, anche se il respiro affannato e la folle ansia lo tradivano: "In camera da letto ho tutto ciò che serve a curarti. Non è grave" ripeté, come a convincere anche se stesso: "Avevo promesso che saresti stata al sicuro presso di me in questi quindici giorni. Che mi sarei preso cura di te. Ma posso rimediare. Lascia solo che..." ebbe una leggera esitazione - era intimidito? - prima di aggiungere piano: "...ti prenda in braccio".
Era strano, Harriet non aveva più la minima paura di lui. E si sentiva troppo intorpidita e dolorante per fare storie. Gli si strinse al collo, fingendo di non notare il piccolo sussulto che lo scosse, e lui fu rapido a passarle un braccio sotto le ginocchia e un altro intorno alle spalle, sollevandola senza sforzo. Fece una piccola smorfia, appoggiando il capo contro il torace del suo carceriere.
"Tranquilla" nella voce di lui c'era un improvviso riguardo: "Metterò tutto a posto. Tu sei la mia ospite. Cerca di resistere".
"Perchè" mormorò debolmente, combattendo contro la nausea che la colse quando R prese a muoversi con agilità nel dedalo di corridoi, trasportandola: "Sei così fissato con il fatto che in quanto tua ospite devi accudirmi?"
Lui rispose con naturalezza: "E' così che si fa".
"Non più..." la ragazza aveva la testa pesante, alle fitte acute s'era sostituita una forte sonnolenza, dovuta forse all'emorragia: "Questo è un concetto... davvero molto antico, R".
"Antico?"
"Sì... i padroni di casa usavano comportarsi così una volta..."
Il tono di lui esprimeva una forma di stizza: "I libri però ne accennano spesso".
Un pallido sorriso sbocciò sulle labbra di Harriet: "E quanto vecchi sono questi libri?"
Un silenzio eloquente.
"Dovresti..." le braccia di R erano comode, e d'impulso vi si rannicchiò meglio: "...uscire di più. Vedere il mondo... ne rimarresti sorpreso".
Le sembrava di affondare in una densa, pastosa melassa. Aveva le membra grevi, molli, i pensieri sconclusionati. Pensò: Ho rischiato di annegare solo ieri, e adesso un uomo mi ha sparato. R lo ha ucciso. Ed io sono stretta a lui. E scoppiò a ridere, con un che di perduto e di pazzo, buttando indietro la testa. No, la normalità era andata. Andata per sempre, forse.
"Perchè ridi?" nella voce di R era ricomparsa quell'avida curiosità.
Harriet si sforzò di raccogliere le idee per essere in grado di rispondergli: "Perchè... niente ha più senso. Ti ho salvato la vita... hai ammazzato quell'uomo davanti a me... e non riesco ad essere spaventata".
Lui tacque. C'erano solo le sue braccia, che l'avvolgevano e la conducevano nelle ombre, e i suoi passi silenziosi sui lastroni di pietra. La ragazza aveva l'orecchio appoggiato al suo petto, e udiva il battito poderoso e regolare del suo cuore. Un cuore che voleva vivere. Un cuore che lottava.
"Credo che tu..." biascicò incoerentemente: "Sia una persona viva. Non morta. Viva per davvero. Molto più... di Jesper".
Forse fu solo una sua impressione - del resto, era intontita, forse morente - ma le parve che R la stringesse impercettibilmente di più. Il sangue, nel frattempo, le aveva inzuppato buona parte dell'abito rosso e qualche goccia era caduta a terra, a marcare il loro cammino, come i sassolini e le mollichine di pane di Hansel. Qualcuno, arrivando ai sotterranei, avrebbe scorto la scia scarlatta? L'avrebbe seguita? Non le importava più. Tutto le appariva ininfluente, al momento.
Il suo carceriere la portò nella camera da letto, con il divano foderato di velluto e la porticina che conduceva al bagno, dove tutto aveva avuto inizio, e la distese delicatamente sul materasso, che la accolse come la più pura delle beatitudini. Si rannicchiò sotto le coperte, i brividi di freddo che la squassavano, e lui andò ad inginocchiarsi sulla sponda del letto con gli occhi azzurri fissi sul suo viso.
"Farà un po' male" bisbigliò ragguardevole: "Solo un po'".
Per tutta risposta, lei allungò una mano e gli toccò il viso, come se qualcuno l'avesse posseduta, obbligandola a compiere quel gesto. Lo sentì irrigidirsi da capo a piedi, farsi statua di sale sotto le sue dita, ma non ci badò, e le lasciò scorrere sulla pelle piagata e ossuta, tra i capelli incolti, fino al mento appuntito. Non era come vederlo con gli occhi - forse non sarebbe mai accaduto, non avrebbe mai posato lo sguardo su di lui - ma i suoi polpastrelli registravano sporgenze, curve, cicatrici che costellavano quella faccia testimoniando ognuna un peccato diverso.
Dopo aver conservato un'immobilità assoluta, R si ritrasse di scatto, tornò a proteggersi col buio e un'eco della sua minacciosità ricomparve, come una spina nel mezzo di un bouquet: "Cosa stai facendo?"
Ad Harriet sembrò vulnerabile, però. Come un bicchiere di vetro sul punto di spezzarsi. E le venne in mente che, anche se era alla sua mercé, le sarebbe bastato un gesto a mandarlo in frantumi. Quell'uomo era così terribilmente... fragile.
Non attese una risposta da lei. Forse non voleva conoscerla. Si limitò a spingerle contro le labbra quella che aveva l'aria e la consistenza d'essere una pasticca: "Prendi questa" le suggerì, ancora un po' teso: "Così non sentirai dolore".
Mai accettare cibo o bevande.
Un monito antico come il tempo. Ma Harriet era troppo stanca e confusa per dargli ascolto e ubbidì, accettando consapevolmente di affidarsi alle mani del suo carceriere. Tuffandosi nella sua anormalità.
E non aveva idea di come sarebbe andata a finire.
 
Angolo autrice: Hola! Eccomi tornata :') questo è un capitolo non molto lungo, totalmente incentrato sui Rarriet. Volevo... lasciargli un po' di spazio solo per loro. In realtà, confesso che non mi aspettavo si prendessero così tanto! Quando scrivo i personaggi fanno un po' le cose per conto loro, e in questo caso è come se un tappo fosse saltato e questi due finalmente si fossero liberati... devo dirvi che da adesso in poi le cose si faranno sempre più serie ;) in realtà come al solito ho una quantità di dubbi abnorme, spero solo di non aver combinato un disastro. Comunque, Harriet mi piace molto più di Irene, non soltanto come persona, anche come impatto su Raphael: se la prima era "il primo amore", fondamentalmente un'idealizzazione totale da parte di lui che va a cozzare dolorosamente con la realtà, la seconda rappresenta invece un sentimento più maturo e graduale, una comprensione e un mettersi a nudo intimi. Nel prossimo capitolo, rincontreremo Erin e Berg e avremo un'altra scena Rarriet :) A proposito: come pensate che Harriet scoprirà l'aspetto di Raphael? Io ho già pianificato tutto (muahah XD) ma mi interessano le vostre ipotesi!
E insomma, spero tantissimo che mi farete sapere cosa pensate, intanto un bacione a tutti quanti <3 

 

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