Shoes laces

di leo rugens
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo uno ***
Capitolo 3: *** Capitolo due ***
Capitolo 4: *** Capitolo tre ***
Capitolo 5: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 6: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 7: *** Capitolo sei ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


leo rugens' stories 2013 ©
Disclaimer: Questa storia è stata scritta per mero diletto personale e per quello di chi vorrà leggerla.
Non si tenta in alcun modo di stravolgere il profilo dei caratteri noti.
Ed Sheeran non è di mia proprietà.
Se copiate, giuro che vi prendo a sprangate.



Salve a tutti! Eccomi a invandere il fandom del mio gingerhead preferito.
Ho preso ispirazione dal video di Give me Love ma la trama si svilupperà in modo totalmente diverso.
Niente, anche se per ora è relativamente poco e scritto alle quattro e mezzo del mattino mi piacerebbe sapere cosa ne pensate. 

Sun.


Shoes laces.


 

***


Il nome Aria non è scelto a caso.
Quando avevo otto anni ed ero in spiaggia avevo la folle voglia di una granita.
Così presi i miei cinque euro di carta e corsi al chiosco. Dietro il bancone non c’era nessuno e, conoscendo bene i proprietari, mi affacciai curiosa sul retro. Una ragazza, che non aveva più di vent’anni, piangeva seduta fra le casse di frutta esotica che serviva per fare i cocktail.

"Perché piangi?"
"Non sto piangendo."
"Andiamo, a me puoi dirlo, mica sono come tutti quelli là fuori." 
Bisbigliai sorridendo un poco.
"Sono inciampata nei lacci delle scarpe."

Tutti i giorni la passavo a trovare, fermandomi a chiacchierare.
Avevo otto anni e nessuno giocava con me. E lei diventò la mia prima amica, dopo tanto tempo, là, in quella casa che credevo di non volere.
E anche se adesso sono anni che non la vedo o sento, ce l’ho ancora impressa nel cervello.
Quindi, ad Aria.
Per tutte le granite alla Coca Cola, le fragole allungate di nascosto, i nodi ai lacci delle Superga. Al sorriso che aveva quando le facevo leggere cosa scrivevo, ai suoi incoraggiamenti costanti.

"Se scriverai un libro un giorno, lo compro. Hai del talento!"
"Me lo prometti, Aria?"
"Te lo giuro piccolo sole, mano sul cuore." 


Per aver avuto il coraggio di confessarmi, l’anno dopo, che piangeva perché la vita l’aveva tirata sotto. Adesso spero che sia lei a trascinare la vita per la strada, mano nella mano.
E che abbia imparato a tenere legati gli stivaletti.


 

***

Prologo.

 

 

Avrebbe tanto voluto riassumere la sua vita in una sola, patetica frase: "Ciao, sono Aria e inciampo sempre nei lacci delle scarpe".
Chissà, se fosse stata così chiara, superficiale e vuota la gente l’avrebbe finalmente accettata. Lei era complicata, torbida, profonda. Sporca di pensieri, di piume, di dolcezza, di sussurri, di sogni e ne portava le ombre ovunque. Per strada, in fila al supermercato, sul tavolo di cucina illuminato da quella lampadina a cui ogni tanto prendeva il matto e iniziava a far andare e venire la luce.
Sbuffava, scuotendo i capelli, tagliandosi il dito con il coltello al posto di affettare le zucchine, alzando gli occhi al cielo visibilmente scocciata.
E  sospirava, posando stanca il taglierino, appoggiando il mento sul ripiano di lavoro, osservando dal basso le sue sculture che prendevano vita, soffiando via gli avanzi di legno, piano, come se avesse paura di fargli male. Solo due anni prima se qualcuno le avesse detto come sarebbe finita si sarebbe fatta una sana risata. Adesso invece la sua vita era un groviglio completo, come le matasse di lana che snodava sua nonna, di cui aveva solo qualche vago, sciupato ricordo.
Quella mattina lucidò il suo arco come al solito e contò le frecce: sarebbero bastate per un bel po’. Uscì di casa senza proferire parola, sbattendo forte la porta e sentendo le ali premere forte sulle scapole.



***

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Capitolo 2
*** Capitolo uno ***


Hello people, eccoci con il primo capitolo!
Oddio, mi sto emozionando, l'ho scritto oggi un po' a scuola e un po' in biblioteca, speriamo vada bene. Grazie infinite alle 15 recensioni solo al prologo, sono tipo morta infartata. Niente, spero di non deludere nessuno.
Vi lascio una gif di Andrew (Danny dei The Script),


Sun.


 

Capitolo uno



Scienziati (1)



 

Camminava silenziosa, attenta che ogni passo non pesasse, non destasse attenzione.
L’arco impugnato distrattamente nella mano destra, le frecce sulla spalla, i lacci degli stivaletti che ogni tanto battevano sull’asfalto bagnato. La gente non si fermava, non la vedeva, non faceva caso alla ragazza a naso insù che passeggiava sul ponte, come se stesse aspettando qualcuno. Eppure lei li vedeva tutti.
L’uomo di mezza età che rientrava a casa dopo l’ennesima giornata sfiancante in ufficio, suo figlio spiaccicato contro la finestra che sorrideva perché di lì a poco sapeva che lui avrebbe varcato la soglia dell’appartamento a braccia aperte, pronto per abbracciarlo. Sentiva odore di pollo e detersivi, segno che sua moglie aveva già mangiato ma aveva lasciato qualcosa di caldo anche per lui.
 Aria era lì proprio per quello: per l’amore.



Liz era sempre stata una ragazzina piuttosto particolare.
I suoi compagni di liceo se la ricordavano ancora con la salopette di jeans, i libri sottobraccio e la treccia disfatta sulla spalla. Era una matematica nata, per lei tutto si poteva contare: gli aghi di un pino, le bolle che fa il sapone, i trucioli della gomma che cancella, quanto una persona possa amare.
‘Ti amo tanto.’ Tanto quanto? Quanto una meteora si infiamma a contatto con l’atmosfera? Quanto le tartarughe che, appena uscite dal guscio dell’uovo, cercano subito di raggiungere il mare?
Credeva, da brava matematica qual’era, che ogni cosa fosse una grandezza, che tutto si potesse misurare; dai secondi che le porte della metro ci mettono per chiudersi a quanta sincerità, quanti abbracci, quanti piatti rotti possono esserci in una relazione. Aria, Liz l’aveva trovata per caso qualche settimana prima, nel reparto dei surgelati al supermercato con la solita treccia scombinata che portava dai tempi del liceo, le maniche del maglioncino pesca tirato su fino al gomito, il telefono cellulare pronto a cadere da un momento all’altro dalla tasca del jeans chiaro. Liz era qualcuno che Aria cercava, quel qualcuno a cui apparteneva una delle sue frecce.



Fin dai tempi dell’Antica Grecia si tramandavano oralmente leggende sull’anima gemella. Si dice che in principio l’uomo fosse sferico e  che un giorno Zeus, adirato con lui, lo spaccò a metà con una delle sue potenti folgori. Mise poi, fra i due, oceani e continenti di distanza. Ognuna cercava disperatamente di ricongiungersi all'altra. Ormai non bastava più trovarsi, ilembi non coincidevano più come prima: dovevano scegliersi, accettare le parti che non combaciavano più.
Imparare ad amare ogni singolo spigolo, smussarlo con i propri vuoti. Quella era la freccia di cui Liz aveva bisogno, fabbricata apposta per lei.



Andrew si stropicciò le palpebre con il dorso della mano, stiracchiandosi. Dopo tutto quel lavorare in laboratorio gli occhi bruciavano e non sentiva più le gambe. Ordinò una pizza al ristorante del quartiere e, conoscendo il proprietario, chiese di farsela recapitare per le otto e mezza. Aria lo osservava fuori dalla finestra, appollaiata pigramente su un ramo delle quercia secolare di fronte al condominio. Andrew era un ricercatore, passava metà dei suoi giorni davanti a fiale e provette e, se l'amore non si poteva imbottigliare, allora non lo aveva mai visto, sentito o provato. Aria lo aveva trovato per caso mentre seguiva Liz a lavoro. Si erano urtati un paio di volte e chiesti scusa imbarazzati sotto lo sguardo assente del mondo. Ma a lei non era sfuggito niente e aspettava solo il momento giusto: il loro.



Liz uscì di casa sistemandosi meglio il basco. Aria la seguiva qualche passo più indietro, sicura di non dare nell’occhio. Arrivata davanti ad un ristorante spinse la porta ed entrò, facendo tintinnare le campanelle appese.
"Ciao Liz!"
"‘Sera Mark." Rispose con voce sottile.
"Come posso esserti utile?"
"Avevo chiesto a Tina di farmi un po’ di take away."
Il cameriere sparì in cucina, lasciandola alla cassa a tamburellare con le dita sul mogano. Aria aspettava fuori, battendo il piede ad un ritmo che conosceva soltanto lei. Non si era accorta minimamente del ragazzo con i capelli rossi dentro al locale che, ogni due sorsi di caffè, le gettava un’occhiata fugace.
"Ecco a te!"
La donna si chinò sulla borsa intenta a cercare il portafoglio. Mark si voltò verso il suo capo, intento a mormorargli qualcosa all’orecchio. Liz aspettava impaziente, una consunta banconota da venti sterline in mano.
"Successo qualcosa?"



Aria osservava il luccichio dell’anello poggiata serenamente alla penombra di un muro. Finalmente Liz uscì dal ristorante, il suo giapponese che penzolava placido in una bustina di plastica e un cartone per pizza in mano.
"Grazie mille!" La salutò il cameriere con la mano.
"Mi devi un favore!" Scherzò lei.
Aria buttò l’ultima occhiata annoiata al negozio per poi seguirla nella notte, non notando due occhi azzurri che la seguirono finché fu loro possibile.



Arrivarono davanti al condominio di Andrew e Liz suonò un paio di volte un campanello.
"Si?" Gracchiò l’altoparlante.
"Pizza a domicilio!"
La serratura dal portone scattò e la donna lo aprì, entrando tranquilla, con lei che la seguiva a debita distanza. Quando si fu accertata che avesse preso l’ascensore, Aria cominciò con calma a salire la prima rampa di scale, l’arco che sbatacchiava leggermente contro gli scalini. Fece l’ultimo e il campanello dell’appartamento 67 trillò allegramente, facendo correre Andrew ad aprire.
"Oh." Mormorò appena la vide.
Lei sorrise imbarazzata porgendogli la pizza.
"Mark ha avuto un contrattempo, mi ha chiesto di portarla al posto suo."
Annuì pensieroso prendendo il cartone fra le mani.
"Grazie mille…"
"Liz." Lo aiutò lei.
"Liz. Credo di averti già visto da queste parti, forse in Thunder Road…"
"Può darsi…"
"Andrew."
"Bene Andrew, il mio giapponese mi aspetta, buona serata!"
"Anche a te!"



Andrew non chiuse finché Liz non scomparve dietro alle porte scorrevoli dell’ascensore, quella sera. Lei, del canto suo, mentre riscaldava i suoi okonomiyaki freddi al microonde, pensava al suo sorriso e al suo maglioncino stropicciato. Aria si buttò sul letto, prendendo la freccia in mano: bruciava.
Era arrivato il momento giusto.



 

***
 

 



I was just guessin’ at numbers and figures,
pulling your puzzles apart.

Coldplay - The Scientist

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Capitolo 3
*** Capitolo due ***


Salve a tutti!
Mi sono dimenticata di ringraziare Dusty, la mia favolosa beta, per il banner della storia. Grazie mille per l'appoggio che state dando a questa storia anche se è solo iniziata, siete veramente l'amore. Sono veramente sclerata, causa quasi due ore di concerto Sheeraniano in diretta youtube. Se sono in queste condizioni (segni di pianto ancora ben visibili e il dubbio di essere viva o meno) da dietro un pc non oso immaginare come sarei se, un giorno, lo vedessi live. La canzone legata a questa coppia è forse un po' scontata, ma niente li descrive meglio, secondo la mia umile opinione.
Vi lascio, accogliete Corinne come si deve, un bacio :)


Sun.



Capitolo due

 

Skinny love (1)
 


 


L’appartamento di Aria si trovava in un’anonima palazzina grigia. Era una finestra sulle vie più trafficate della città, sulla sua fretta, la sua voglia di correre.
Il leggero strato di smog che si vedeva quando il cielo era terso, il vento che fischiava fra le imposte, le luci soffuse che illuminavano tutto alle cinque del pomeriggio in Dicembre, il sole che tramontava pigramente dopo le otto in Luglio. Il solito, svogliato raggio di sole che tutte le mattine faceva capolino dall’imposta semiaperta e accarezzava piano il ripiano della cucina, i piatti da lavare, il ventilatore fermo, la vecchia radio che aveva aggiustato qualche mese prima. L’armadio chiuso, le scarpe allineate di fianco, i vestiti da mettere buttati sulla sedia in malo modo, il cuscino stropicciato. Aria non ci faceva mai caso, trascorreva ogni secondo libero intagliando tranquilla, magari cantando a bocca chiusa un motivetto dei suoi. Là dentro ci stava poco e niente, giusto il tempo di dormire qualche ora la mattina, prima di andare a lavorare come tirocinante al negozio di falegnameria in fondo alla III Avenue. Ogni giorno, esclusi il Martedì e il Sabato, apriva trafelata la porta sul retro e si metteva a lavoro. Quando il signor Worth scendeva, verso le undici e un quarto, la trovava puntualmente a spolverare la terza mensola del secondo scompartimento a destra. Sorrideva di cuore a vederla così presa ed entusiasta del suo lavoro. A fine turno, Aria prendeva i due ciocchi di legna più brutti che trovava in magazzino e se ne tornava a casa con quelli sottobraccio. Le bastava quello che guadagnava in negozio a sopravvivere, a volte addirittura a permettersi più del necessario.
Un materasso per terra, uno dei due ciocchi di legno che bruciava allegramente nel camino, le ali rilassate, piegate sulla schiena mentre affilava le frecce, costruiva un nuovo arco, intagliava un burattino, la fronte agrottata per la concentrazione, il taglierino fra pollice ed indice. Nessuno sapeva da dove venisse, come fosse la sua voce, se aveva fratelli o sorelle, il suo cognome. Appena pensavi di averla fra le mani scivolava via,
e così era il cerchio, infinito, come il cane che si rincorre la coda, come se Aria esistesse ma in un mondo a parte, sotto gli occhi di tutti ma dove nessuno poteva entrare.



Corinne amava i vestiti. Gilet, skinny jeans, felponi, camicie: utti quei colori le mettevano allegria, le stoffe carezzavano la sua pelle, ognuna in un modo diverso, suo. Non metteva, però, mai piede nei negozi d’abbigliamento, perché non le piaceva vedere tanti vestiti uguali. Magari cambiava il colore, magari la taglia, magari il motivo, ma lla fine erano sempre gli stessi, addosso a sei miliardi di altre persone.
Aveva un disperato bisogno di sentirsi diversa dall’americana che magari avrebbe comprato la felpa rosa che vedeva in vetrina al negozio vicino a scuola così se li faceva da sola, bucandosi le dita con la macchina da cucire, finendosi gli occhi cercando l’ispirazione su svariati siti web di moda, spremendosi le meningi per farsi venire in mente un nuovo capo. Ogni giorno cambiava stile, non si vestiva mai due volte nella stessa maniera. L’unica cosa che sembrava rimanere sempre la stessa era il suo Eastpack rosso che tutte le mattine prima di uscire si buttava stancamente su una spalla. Camminava fino al college come se non avesse fretta, non avesse paura di fare tardi ai corsi. Sembrava quasi  che passeggiasse tranquilla, che il tempo scorresse lento e gli altri corressero o si affrettassero per qualche assurdo, futile motivo. Se ne stava lì, gli auricolari alle orecchie, il naso seppellito nella sciarpa arancione, i capelli biondi sparsi disordinatamente sulle spalle, l’anima che vagava in posti sconosciuti. Chiudeva con leggerezza l’armadietto e si dirigeva in classe guardando dove mettesse i piedi, senza alzare mai lo sguardo. Appena seduta si metteva la matita dietro l’orecchio e ascoltava vagamente quello che il professore spiegava, il foglio immacolato sul banco e pensava a come riempirlo, con cosa riempirlo. Disegnava tutto nella sua testa, ogni singola linea. Quando suonava la campanella si cancellava tutto, come le impronte sul bagnasciuga, una foglia in balia del vento.
Aria l’aveva trovata al college, avevano chiamato al negozio per aggiustare un paio di cattedre e lei si era presentata lì, cassetta degli attrezzi in mano, la visiera del cappello che le nascondeva il viso. Non aveva alzato lo sguardo dai bulloni da cambiare quando si sentì picchiettare su una spalla.
"Ti era caduto questo."
Corinne le tendeva imbarazzata il suo cacciavite a stella e lei la ringraziò con uno dei suoi rari sorrisi; decise così di premiarla con una freccia.



Alex rientrò a casa prima del previsto, aveva trovato meno traffico del solito e i semafori tutti verdi come se qualcosa, o qualcuno, volesse che tornasse quindici minuti prima, i capelli scompigliati, il casco in mano, il passo pesante sul vialetto. Mentre ritirava la posta dalla buca delle lettere la vide apparire in fondo alla via e, inconsciamente, sorrise. Non la vedeva dal giorno precedente ma quando lei non c’era sentiva un gran vuoto all’altezza del cuore, come se gli portassero via un pezzo.
"Alex!" Esclamò stupita quando fu a una decina di metri da lui, una cuffietta sola all’orecchio, l’altra che penzolava e sbatteva piano contro la pancia.
"Ehi." Mormorò passandosi una mano fra i capelli, spettinandoli più di prima. Alex era un bravo, bravissimo ragazzo, aveva un cervello eccezionale e il cuore al posto giusto. La sera non dormiva senza una rilassante tazza di camomilla e la mattina non si svegliava senza la sua caraffa di caffè amaro, dimenticava sempre le chiavi di casa sul mobile del corridoio, adorava guardare il tennis in televisione e aveva una particolare fissa per l’azzurro: lo rappresentava appieno. Chiaro, trasparente, paziente, malinconico, tranquillo, smemorato.
"Come mai sei tornato così presto?"
"Non lo so nemmeno io, ad essere sincero."
Lei sorrise imbarazzata, affondando il mento nella sciarpa arancione che portava quel giorno.
"Ehi, quella te l’ho fatta io!" Disse con sguardo stupito, indicandola con il dito e guardando le guance di lei prendere fuoco.
"Si, per il mio compleanno due anni fa…" Mormorò vaga.
Alex le strizzò l’occhio, rigirandosi fra le mani le bollette da dividere con sua madre quella sera seduti a tavola, calcolatrice alla mano, la lavastoviglie che lavorava rumorosamente.
"Come procedono gli studi?"
"Procedono, diciamo. Forse un po’ a rilento, ma vanno avanti. Devo finire un progetto per la prossima settimana nel week-end."
"Vuoi una mano?"
Tentennò un secondo rigirandosi per le mani il cellulare, le dita coperte di graffi.
Graffi che lui avrebbe voluto accarezzare uno ad uno, chiedergli la sua storia, se era possibile che una come lei potesse farsi male.
"Mi farebbero comodo due mani in più, perché no."
Le spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio per poi allontanarsi di qualche passo, alzando una mano imbarazzato come per salutarla.
"Sono felice di esserti utile. Adesso vado a preparare il pranzo!"
"Ciao Alex, buon appetito!"
"Anche a te!" Le rispose prima di chiudere la porta della villetta con il tetto blu.
Sentì  suonare il campanello, sentì suo fratello aprirle, sentì suo padre chiederle come era andata la giornata, sentì il tonfo dell’Eastpack rosso, le cerniere chiuse male, il dizionario di Greco che spuntava da una tasca.
Alex e Corinne erano vicini di casa da quando ne avevano memoria. Lui si ricordava una bambina esuberante che girava su un monopattino verde speranza e che urlava appena vedeva qualche ragnetto tessere tranquillo la sua tela. Lei si ricordava un bambino tranquillo che legava i libri al sellino della bicicletta e che si arrampicava sulla siepe di casa sua per riprendere il pallone. La sciarpa che le aveva regalato per il suo diciassettesimo compleanno era l’unica cosa comprata in un negozio che osava mettersi, non le interessava che la donna d’affari russa ne usasse una uguale identica, magari abbinata ad una di quelle terribili pellicce di ermellino che vedi spesso addosso ai nordici.
Quella sciarpa gliel’aveva regalata Alex, in un pacchetto un po’ disfatto, dicendole che appena l’aveva vista in negozio il pensiero era volato a lei. Fu una delle poche volte in cui lui diventò più o meno del colore dei suoi capelli: rosso. Le guance andavano a fuoco, le mani completamente congelate. Aria si divertiva a guardarli parlottare le sere d’Agosto in veranda, il dondolo che oscillava distrattamente, gli occhi che si cercavano in una continua acchiapparella, come quella a cui giocavano quando andavano alle elementari, le finestre al posto dei denti. Le piaceva quando lui aspettava che lei uscisse a prendere il giornale lasciato sul vialetto la Domenica mattina per poi aprire la porta a sua volta, facendo finta di essersi svegliato in quel momento. Si meravigliava di quanto lui fosse una frana a recitare e di quanto lei gli credesse, nonostante capissero tutti, anche i passanti, quanto le piacesse e scuoteva la testa divertita guardandoli darsi un buongiorno un po’ imbranato, le mani attorcigliate e i pigiami ridicoli.
Quando vedevi Alex e Corinne ti veniva da pensare solo questo: quanto fossero schifosamente teneri e quanto l’amore possa rendere stupidi.



 
***
 

 

And if you’re broken I will mend you and
  keep you sheltered from the storm that’s raging on now
.

Ed Sheeran - Lego House

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Capitolo 4
*** Capitolo tre ***


Sono viva, esatto! Come vedete ho apportato delle modifiche all'aspetto dei capitoli, dato che questa storia è fatta da tante altre.
Un puzzle nel puzzle insomma. Ogni storia sarà composta da tre/quattro capitoli, ad eccezioni di alcune che saranno delle OS.
Chiarisco: questa storia si baserà su tutti i tipi di amore che conosco, che vedo. Quello fra adulti, fra ragazzo e ragazza o, come in questo caso, ragazzo e ragazzo. Mi aspetto un botto di 'smetti di seguire la storia' dopo questo capitolo, se devo essere sincera e, rimanendo schietta, non me ne importa più di tanto. Ringrazio tantissimo tutti, da chi perde tempo recensendo a chi lo perde leggendo.
Mi defilo, lasciandovi con Adam (Grant, ma voi lo conoscete come Sebastian di Glee),


Sun.

 



Capitolo tre



Los sueños son la sangre de la vida (1)



 

Ricordava ancora il giorno in cui le erano spuntate le ali: doloroso, bianco, eterno, bello, naturale. La prima piuma che premeva contro la pelle, prudeva, grattava, impaziente di uscire, rivelarsi al mondo. Il sangue bruciava, lei così bianca, lui così rosso. Sembrava di essere finiti nella favola di Biancaneve, solo riadattata ad un povero angelo disgraziato, uno di quelli che non conoscono il proprio destino. Le ali crescevano, si allungavano. Si contorceva dal dolore, dall’impazienza, dallo spavento, strappava i vestiti, rotolava su se stessa, pregava che la tortura finisse, sorrideva quando le erano concessi due minuti di pace, la volte imperlata di sudore, i capelli scompigliati. Non aveva testimoni quell’agghiacciante, meraviglioso spettacolo. Solo il vento avrebbe sussurrato di una ragazza sdraiata su un parquet scuro, le ali che si spiegavano, sporche di sangue, candide come la neve e solo il mare avrebbe raccontato della loro potenza, della loro maestria.
Solo il fuoco avrebbe descritto la loro luce, pari a quella di mille soli e un centinaio di galassie e solo Aria le avrebbe portate nascoste sotto un maglione, una t shirt, una canotta. Solo lei le avrebbe aperte lentamente, solo lei le avrebbe scrollate dalla pioggia londinese che la prendeva, alle volte, alla sprovvista. Se c’era una cosa che amava era spiare. Dal buco di una serratura, sul tetto di qualche casa, di sottecchi. Analizzava ogni singolo movimento delle persone, i dettagli del loro outfit quotidiano, il loro sguardo. Non si perdeva niente, non voleva. Odiava giudicare, sbagliare, cambiare. Voleva rimanere statica, voleva seminare amore senza avere la pallida idea di cosa fosse. Non le piaceva l’idea di partire senza punti fissi, di basarsi sul niente più totale. E se le basi non c’erano lei le costruiva.
Se non poteva costruirle, semplicemente, le sognava.



Nicholas non gli era mai piaciuto.
Troppo lungo, importante, pomposo, troppo troppo; l’ultima cosa che ti aspettavi da un ragazzo come lui, così solare, semplice e disordinato.
Tutte le mattine lo vedevi entrare di corsa a scuola, la camicia che svolazzava, i pantaloni che cadevano giù, il libro di scienze che stava scordando sulla scrivania fra le braccia. Quello era Nick, così timido ed impacciato. Lo stesso Nick che la sera portava fuori il cane fischiettando, che giocava all’ Xbox sul letto quando si annoiava, che passava le serate su Twitter a cazzeggiare. Mentre camminava per il corridoio al cambio dell’ora diretto all’armadietto per prendere i libri di diritto non faceva mai caso a come lo guardassero gli altri. Si limitava a mettere il braccio intorno alle spalle della sua migliore amica e sospirare mentre lei gli sorrideva incoraggiante e lui ricambiava, sentendosi morire dentro.
Sentiva la pelle tirare, come se un ago gli stesse bucando i pori, un’etichetta venirgli cucita addosso, una di quelle che, per quanto tu possa tirare, non si strappa. La lasciava lì, a dargli fastidio, desiderando avere le forbici per tagliarla via.
Nick era sempre stato strano, strano perché capiva, strano perché pensava, strano perché studiava. Sensibile al punto da non riuscire quasi a spiaccicare quella benedetta zanzara che lo torturava da settimane sul muro, al punto da farti commuovere commuovendosi.
Lo classificavano, lo impacchettavano, magari lo mettevano a saldo sullo scaffale centrale. Tutti quanti. Perché Nick sentiva, con tutta l’anima, a prescindere. Non gli importava se fosse un ragazzo, un gatto, il sole, la notte, bello, interessante: lui sentiva e basta.
Sapeva vedere, apprezzare i dettagli, riempire gli spazi. Lo penalizzavano perché guardava lontano, perché accarezzava le anime altrui, gli sussurrava piano, le metteva a nuovo con un paio di sorrisi. Non era possibile tutta quell’intelligenza, quella cura. Marchiato a fuoco dalla società, come una bestia da macello.
Perché era gay.
Perché amava.



Adam corse in camera sua quel pomeriggio, consapevole del fatto di essere solo, di nuovo. Non solo in casa, perché suo padre era ancora a lavoro; era solo ogni singolo della vita, fra la folla, in palestra, per strada.
Si sentiva costantemente un fantasma, uno di quelli che non attraversano le pareti. Un ombra sul mondo, un puzzle di ricordi, la nebbia leggera della mattina presto. Una folata di vento e sarebbe volato via, non lasciando niente. Sospirò stancamente, passandosi una mano tra i capelli. Gettò lo zaino per terra accanto al cassettone e tolse la giacca della divisa, gettandola sul letto disfatto. L’orologio segnava le tre e mezza, il suo ticchettio gli riempì il cervello, facendogli desiderare di romperlo in mille pezzi. Odiava i rumori ripetitivi. I colpi del pendolo, i ticchettii continui, le molle che saltavano. Dopo pochi minuti i suoi nervi cedevano e gli veniva una gran voglia di spaccare tutto, il mondo piuttosto che continuare a sentire quel rumore. Allentò il nodo della cravatta e si sedette alla scrivania spostando un paio di fogli rimasti lì a vegetare.
Accese il computer e si collegò a Twitter, spaparanzandosi comodamente sulla poltrona da ufficio che gli avevano regalato qualche anno prima.
Cliccò subito sulle iterazioni, per vedere se c’era qualche novità, se qualcuno l’avesse cercato: niente di nuovo. Sbuffò alzando gli occhi al cielo e iniziò a scrivere cosa gli frullava per la testa, sperando di districarsi i pensieri.


A_musso scrive: Solo, tanto per cambiare.


Nick_s ti ha retwittato.

Nick_ s e altre due persone hanno cominciato a seguirti.



Nick_s scrive: @A_musso So come ci si sente.



Cliccò curioso sul suo profilo, iniziando a leggere chi fosse. Frequentava la stessa scuola di un suo compagno di pugilato ed il suo viso gli sembrava tremendamente familiare. Dove lo aveva già visto?



A_musso scrive: @Nick_s Per caso ci conosciamo?


Nick_s scrive: @A_musso Eravamo insieme alle elementari (: Sono Nick Grogan.




Nick Grogan. Lo aveva di sicuro sentito nominare.
Il falshback venne poco dopo, facendo assentare un attimo i suoi occhi, travolgendolo con la sua potenza.




Gli altri bambini correvano in giardino sotto gli occhi vigili delle maestre, schiamazzando allegramente. Lui li guardava incuriosito seduto sull’altalena, la suola delle scarpe che si consumava contro la sabbia. Non sapeva giocare con gli altri, non ci riusciva proprio.
Gli dicevano cosa fare, decidevano loro le regole e Adam proprio non lo sopportava. Aveva nove anni e già sapeva che non si è mai totalmente liberi nella vita ma era più forte di lui. Quando le cose gli erano imposte, anche se alla fine gli piacevano, diceva sempre di no. Voleva sceglierle lui, non essere costretto a farlo così lo isolavano, lo dimenticavano come i bambini con i vecchi giocattoli, le persone con le storie. Adam era l’orsacchiotto senza una zampa sul fondo della cassa dei giochi, la spesa che la mamma si era dimenticata di fare: nessuno faceva caso a lui.
Quel giorno, mentre se ne stava comodamente straiato sul prato a fissare il cielo, la sua esistenza dette nell’occhio a qualcuno.
"Sembra un leone con le scarpe."
Riscosso dal suo flusso di coscienza interiore si girò per vedere chi gli avesse parlato.
Un bambino con una finestrella al posto dell’incisivo gli sorrideva furbo, il brick del succo di mela stretto nella manina paffuta.
"Cosa?"
"La nuvola che stavi fissando! Se la guardi bene sembra un leone con le scarpe."
Volse di nuovo lo sguardo al cielo osservando con più attenzione.
"Hai proprio ragione. Quella accanto sembra un elefante che beve del tè."
Sentì l’erba frusciare accanto a sé e una gamba sfiorare la sua.
"Già, magari stasera andranno insieme a qualche festa!"




Sorrise al pensiero mentre tornava nel mondo reale, digitando frettolosamente sulla tastiera.



A_musso scrive: @Nick_s Eri tu quello che guardava le nuvole con me in cortile?


Nick_s ha aggiunto ai preferiti il tuo tweet.


Nick_s scrive: @A_musso Ci hai preso! Eravamo in classe insieme, ma evidentemente non ricordi…




Effettivamente non ricordava.
Ma quando mai Adam aveva fatto caso a chi lo circondava? Tutti gli sorridevano come per schernirlo, scuotevano la testa sconsolati se lo vedevano, quasi fosse un caso irrecuperabile di chissà quale malattia mortale e lui si era abituato alla loro fretta, al loro sdegno, alla loro pietà.
Perché appena sapevano che non aveva mai conosciuto sua madre gli appoggiavano una mano sulla spalla e mormoravano un "perdonami" appena udibile. Non le aveva mai capite, tutte quelle scuse; la sua mamma era bella nelle fotografie, sorrideva.
Quel giorno in ospedale non ce l’aveva fatta perché i medici si erano distratti, troppo presi da lui che strillava come un aquila, come se volesse dire ‘Qui non voglio starci, portatemi indietro!’ I loro occhi avevano fatto in tempo a scontrarsi, lei a sorridere esausta prima di lasciarlo per sempre. Non ci aveva mai dato troppo peso, era troppo piccolo per ricordare, non l’aveva mai conosciuta o abbracciata. Semplicemente non sapeva cosa significasse avere una mamma, quindi non stava male. Se c’era una cosa che sapeva fin troppo bene era che la gente è stupida e ormai aveva perso la speranza a farglielo capire e Nick se lo ricordava non perché erano stati in classe insieme, ma perché era stato l’unico a sorridergli tranquillo e a fare qualcosa per lui non per pietà, ma per amicizia.



A_musso scrive: @Nick_s No, effettivamente non ricordo… Diciamo che l’unica cosa che so è che i leoni hanno le scarpe!


Nick_s ha aggiunto ai suoi preferiti il tuo tweet.

Nick_s scrive: @A_musso O che gli elefanti bevono il tè! (:




Adam, quando vedeva quegli smile, pensava istintivamente al sorriso con la finestrella che aveva quasi dieci anni prima e, intenerito, si dava dello stupido perché non si era ricordato di così tanta sensibilità.



Il tweet di Nick_s è stato aggiunto ai tuoi preferiti.

A_musso scrive: @Nick_s Visto che siamo due poveri sfigati con altri sei miliardi di persone che li fissano, stiamo da soli insieme?



Nick_s scrive: @A_musso Magari a guardare le nuvole al parco di Reger Road sabato alle quattro?


A_musso scrive: @Nick_s E facciamola, questa cazzata. Come faccio a riconoscerti?


Nick_s scrive: @A_musso Te lo ricordi il succo di mela che bevevo sempre?


A_musso scrive: @Nick_s Come dimenticarlo! Cosa c’era con le nuvole? #confusione.


Nick_s scrive: @A_musso Mi riconoscerai da quello (:


Il tweet di Nick_s è stato aggiunto ai tuoi preferiti.

Hai iniziato a seguire Nick_s.




Adam lo avrebbe seguito ovunque. Lo aveva ritrovato dopo tutto quel tempo e certo non se lo sarebbe fatto scappare, non di nuovo.
E mentre iniziava i compiti di fisica sbuffando, Nick sorrideva allegro fissando lo schermo del cellulare. Si ricordava bene di lui, lo aveva colpito dal primo momento. Lo zainetto sempre aperto, i pantaloni consumati sulle ginocchia, i capelli annodati. Aveva provato una tenerezza infinita mista alla curiosità tipica dei bambini. Ritrovare un pezzo di sé era quello che gli serviva in quel periodo. Ricordava fin troppo bene il suo sguardo annoiato, come se il mondo fosse solo un programma televisivo noioso del sabato mattina. Quando uscì con il cane alle calcagna non si accorse di Aria che, come al solito, lo seguiva fino al fondo della via, la sua freccia nascosta sotto la felpa.



 

 

***

 

 

 




So come on, courage, teach me to be shy.

Damien Rice - Cannonball

 

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Capitolo 5
*** Capitolo quattro ***


Hola!
Questo capitolo contiene un linguaggio abbastanza scurrile, al punto di avermi fatto cambiare in 'giallo' il rating della storia. Ci sono delle bestemmie e tratta in modo leggero di prostituzione (parentesi random: chissà perché usare una quantità immane di parolacce non mi è risultato difficile, anzi)
e il linguaggio è molto Ed (ma anche molto Sun, chi mi conosce può tranquillamente testimoniare.) Credo di aver detto tutto (siete fantastiche/ci e vi amo, nessuno escluso)
Cercatemi pure sui social, sono nella mia bio, ho tanta voglia di parlare con voi!
Vi lascio con una gif di May,

Sun.





Capitolo quattro


You don't have to put on the red light.



 


 

 

Ed Sheeran era completamente matto.
Su quello, non ci pioveva. Lo testimoniavano i suoi capelli rossi, la sua prima chitarra, la sua marca preferita di birra triplo malto irlandese e anche le tipe che si era scopato sul retro di qualche squallido bar di periferia, mani ovunque e bocche impegnate a fare cose troppo diverse dal sorridere. Era allora che a Ed veniva la voglia di prendere e andarsene, senza neanche prendersi la briga di tirarsi su i pantaloni o agganciarsi la cintura. I gemiti lo risvegliavano, gli toglievano la terra di sotto i piedi; cadeva, rovinosamente, e il mondo reale lo salutava come un vecchio amico, uno di quelli così sentiti e conosciuti che ti sta quasi sui coglioni.
“Edward caro, come va?”
“Ed cazzo, Ed. Mi chiamo Ed!” Esclamava, più furente che mai, e quella era veramente la volta buona che lo vedevi  scappare per strada come se qualcosa lo stesse inseguendo, alle spalle niente di diverso da una puttana perplessa, il rossetto un poco sbavato e un “Ma che problemi ha quello?”



Stuart, ogni volta, rideva gettando la testa all’indietro, battendo una mano sul tavolo del locale, facendo girare qualche curioso. “Merda, dude sei da ricovero!”
Ed faceva finta di niente, prendeva un lungo sorso di caffè –rigorosamente freddo- e guardava distratto fuori dalle vetrate del cafè, magari aggiungendo un sospiro. Stuart lo fraintendeva, ogni cazzosissima volta, interpretando il suo non parlare come un essersi offeso.
“Andiamo bro’, è la quinta in una settimana che lasci a bocca asciutta! Cos’hai al posto dell’uccello, un lingotto d’oro ventiquattro carati?”
Allora Sheeran si lasciava scappare un sorrisino, sia perché l’idea di avere un lingotto d’oro al posto del cazzo era veramente una boiata, sia perché in realtà rifletteva su altro, i pensieri che, rossi come i suoi capelli, correvano chissà dove.



“Dio cane!” Fu tutto quello che riuscì a pensare, allontanandosi a passo svelto da una ragazza –Roxanne?- e pulendosi la bocca con il dorso della mano.
“Successo qualcosa?”
“No, cioè sì, voglio dire… Scappo.”
E scappò davvero, riaggiustandosi la maglia dei Ramones che quella stava cercando di sfilargli.
“Salve Edward.”
“Porca puttana, è Ed. E-D. Andiamo, non è difficile, sono due fottute lettere!”
“Come va stasera, tesoro?”
“Una merda, lo vede anche da sola no? È la sesta in cinque giorni che pianto in un vicolo che puzza di vomito.”
“Prendila con filosofia, non era il tuo tipo, caro.”
“Chi se ne frega, voleva scopare, che ti aspetti da una che si chiama Roxanne?”
“Cosa c’entra?”
“I Police scrissero una canzone su una troia una volta.”
“I termini Edward! E con questo?”
“La prostituta in questione si chiamava Roxanne, Signora Mondo.”
Quando ho detto che Ed Sheeran parlava con il mondo, mica scherzavo. Lui si sedeva su una panchina, usciva sul terrazzo a prendere una boccata d’aria, accordava Lloyd e, se ti avvicinavi, lo sentivi borbottare, iniziando così a dubitare della sua sanità mentale. Per quanto volgare potesse essere, in tutti quegli anni che parlavano, Ed –al mondo- aveva sempre dato del lei. Gli piaceva pensare che fosse una donna, la mamma che aveva sempre voluto, una signora di classe, forse un po’ acida ed egoista. Per lei, lui era Edward, niente abbreviazioni o stupidi nomignoli; era Edward quando si svegliava tardi, se si ubriacava troppo, anche mentre si faceva la doccia.
“Edward caro, lo shampoo fallo due volte!”
“Signora Mondo, la smetta di rompere i coglioni e mi lasci pisciare in piace.”
“Edward, per l’amor del cielo, smettila di farla sotto la doccia!”
E riniziavano, come una di quelle coppie che si sopporta da tutta la vita.



Ed Sheeran era completamente matto.
Su quello, non ci pioveva. Non perché trovasse soprannomi per tutti o perché, a ventidue anni compiuti, guardasse ancora le maratone di Pingu: semplicemente per l’amore. Lo vedeva agli angoli delle vie, mentre tentava di ripararsi da qualche temporale, nelle ciglia quando sfioravano le guance, in una macchia di sugo sulla camicia bianca. Provava, così, a descriverlo, scrivendo alle due del mattino, sull’aereo, in macchina mentre scattava il semaforo verde, creando file chilometriche di auto e beccandosi accidenti fin troppo fantasiosi.
“Porco dio, un secondo, ho quasi finito!”
Quando invece ne aveva per delle ore.



“Esci, tesoro?”
“Sì, Signora Mondo.” Rispondeva, sistemandosi un’ultima volta i capelli.
“Mi raccomando…”
“Non bevo troppo, promesso.”
Se fosse stata umana, Ed gli avrebbe dato un bacio sulla guancia e sarebbe corso fuori, ignorando i suoi “Ricordati le chiavi!”
Alla fine, era esattamente quello che faceva: lasciava fluttuare un bacio nell’aria, appoggiando le labbra su una guancia invisibile, infilava il giubbotto e usciva, sbattendo la porta. Rientrava sempre qualche minuto dopo, giusto il tempo necessario per afferrare il mazzo di casa dal tavolo di cucina.



May giocherellava con la cannuccia del suo drink da almeno dieci minuti, gli occhi distratti e le dita congelate.
“Un whiskey and coke.” Ordinò un ragazzo, sedendosi sullo sgabello accanto al suo.
Sotto le luci psichedeliche della discoteca le sorrise, le braccia incrociate sul bancone.
“Ciao, io sono Ed!”
“May, piacere.”



“Quindi, May” Singhiozzò Ed, al settimo shot, completamente andato “Cosa hai detto di fare nella vita?”
Non lo aveva detto, ecco perché lui non ricordava. Tentennò, stringendo forte il bicchiere di vetro e guardandosi nervosa intorno.
Il suo nome parlava da solo, o almeno, così pensasa. Come se i Beatles, anni prima, avessero visto il futuro, cantando di una poco di buono chiamata Margaret May, in arte Maggie Mae.
“Vendo.”
“Uh, commerci. Cosa?”
“Vendo amore.”
La fissò, per un tempo che le parve infinito e poi le sorrise, come aveva fatto qualche ora prima al bancone.
“Sai, ti ammiro.”
“Perché la do a pagamento?” Commentò acida, non volendo la sua pietà, compassione o quello che era.
“Assolutamente no. Tu l’amore lo regali, io da un paio di mesi a questa parte non riesco neanche a trombare.”
Le strizzò l’occhio e May sentì la tensione scivolarle via di dosso, iniziando a ridere con lui.
“Dai forfait all’ultimo secondo, vero Ed?”
“Esatto.”
“Come mai?”
“Ho paura.”
“Di cosa?”
“Non lo so. Forse di non essere amato.



Ed Sheeran era completamente matto.
Su quello, non ci pioveva. Eppure non sapeva che il suo scappare dall’amore in fondo non era che un bisogno disperato, uno di quelli che brucia il cuore. Il continuo ubriacarsi, le mani spesso nascoste dalle maniche del maglione, i singhiozzi soffocati nel cuscino: era tutta una dipendenza, la continua ricerca di rosso che –pur avendo in abbondanza- mancava terribilmente nella sua vita.



May non aveva ancora capito quale fosse il suo destino quella sera, a ridere con un povero ginger sfigato sul divanetto dello Sherlock, il locale più in voga in città. Il suo nome poteva anche essere il titolo di una canzone sconcia scritta da quattro coglioni nei lontani Sessanta ma aveva tanti significati.
May era possibilità, scelta.
May era maggio, il sole che splendeva, i fiori appena sbocciati.
“Sai, sono l’ultima persona che ti dovrebbe dire qualcosa” Mugugnò Ed nel bavero della giacca mentre passeggiavano tranquilli verso l'appartamento di lei -si era offerto di riaccompagnarla a casa- “Ma non sono le nostre capacità, i pregiudizi altrui o la merda che c’è in giro a determinare chi siamo. È quello che fai che fa capire chi sei veramente.”
“Hai appena citato, a grandi linee, Harry Potter, lo sai?”
“Ehi, sono Ron Weasley, che ti aspettavi?”

 

 

***

 
The air it turns me tool,
two pounds ten a week, that was my pay.

Beatles - Maggie Mae
 

 

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Capitolo 6
*** Capitolo cinque ***


Volevo scusarmi per il ritardo veramente assurdo ma, essendo Maggio, è un po' tosto aggiornare con una regolarità decente, contando che cambio sempre idea sulla trama di questa storia (voglio vedere che schifo mi viene fuori, infatti) non è semplice. Grazie a tutti per il supporto, it means the world to me. Prima che me lo scordi, questo capitolo va alla mia bellissima Cangi, che ha un sogno. Spero di accompagnarti con la chitarra un giorno, non smettere di crederci (se cliccate qui, potrete andare ad ascoltare le sue cover)
Ho finito, per ora :) Godetevi il capitolo e la gif di Liz!

Sun.



Capitolo cinque


Scienziati (2)





 

In Giappone, il  sakura è rappresentato con lo stesso numero degli elementi considerati sacri.
Uno: Acqua.
Due: Fuoco.
Tre: Vento.
Quattro: Terra.
Cinque: Vuoto.

Perché un fiore di ciliegio si fosse poggiato sulla sua finestra, Liz non lo sapeva. Basita lo fissava, spalancando gli occhi ogni secondo di più, la tazza di tè al ginseng ancora fumante tra le mani. Si affacciò alla finestra, guardandosi intorno più volte, come se volesse che la risposta cadesse dal cielo. Ravviò, sospirando, i capelli che le erano finiti sugli occhi, e si perse, giusto un momento, mentre il sole tramontava. Non c’erano più radici quadrate, parentesi graffe, frazioni, numeri. Immaginava e basta (prendendo in considerazione il fatto che fosse una matematica la cosa la spaventava e non poco). Aria la osservava compiaciuta, seduta sul tetto dell’edificio, dondolando i piedi e guardando di sotto di tanto in tanto. Le piaceva il leggero ticchettio che i lacci perennemente sciolti dei suoi stivali facevano contro il muro. Decise di rimanere lì ancora per un po’, ad aspettare il tramonto. Nell’antichità, il Destino era figlio del Caos e della Notte e nessuno, dèi compresi, poteva ostacolarne il percorso. Si dice collaborasse a braccetto con il Caso, combinandone di tutti i colori, nascosto dietro a una nuvola di passaggio. Liz Hemingway abitava in un condominio benestante, sulla IV Avenue, ed era una delle missioni di un angelo, caduto da chissà dove. Vi chiederete cosa c’entri tutto questo con il Fato. Beh, quel palazzo era anche casa di un musicista sfigato, pazzo, con i capelli rossi. Voi chiamatelo Ed, se vi va.



“Edward caro, perché stai rientrando così presto?”
“Niente Signora Mondo, è che non ho voglia di fare un cazzo.”
Sistemò meglio il borsone sulla spalla e sbuffò, alzando gli occhi al cielo. La prima stella della sera si accese e  notò una strana figura in cima alla costruzione.
“Ha visto anche lei?”
“Cosa?”
“Sul tetto, porca puttana! Oddio, vuole buttarsi di sotto!”
Aperta la porta si lanciò su per le scale, ricordandosi solo dopo due rampe che aveva a disposizione un ascensore. Premette tutti i bottoni, mordendosi le labbra impaziente.
“Per l’amor del cielo, Edward rilassati, andrà tutto bene!”
La verità era che Ed Sheeran aveva corso così tanto, quasi sfondato il maniglione antipanico che dava sul tetto perché ci si era visto, a cadere da lassù, con le braccia spalancate. Quando non trovò nessuno, sospirò deluso prima di rientrare a casa, nell’appartamento 7, non notando una ragazza nascosta dietro il muro, le ali appiattite contro i mattoni.



“Stue, ti sto dicendo per la centesima, fottuta volta che non me lo sono immaginato!- Batté rabbioso un pugno sul tavolo della cucina, stringendo un po’ più forte il telefono cellulare –Non sono pazzo, ok? Si, avevo bevuto un paio di biccheri… Continui? Fanculo.”
Riattaccò, visibilmente scocciato e si stropicciò gli occhi stanco, anche se non aveva sonno. Sbuffò e accese la playstation, ignorando Bellini che lo fissava stranito. Per quanto italiano e cognome potesse sembrare, Bellini era il nome che Ed aveva appioppato a un micio tigrato, trovato sull’altro lato della strada qualche anno prima. Forse per i grandi occhi gialli, forse perché anche lui andava matto per la birra, fu amore a prima vista. Era la sua unica vera compagnia, il solo che, con un po’ di miagolii comprensivi, riusciva a tirarlo un po’ su di morale.
“Edward caro, non so quanto possa confortarti, ma l’ho vista anche io, la ragazza.”
Ed sorrise, scuotendo un poco il capo e selezionando una partita che aveva l’aria di essere stata giocata e rigiocata “Non importa Signora Mondo, grazie comunque.”
Per l’ennesima volta scelse di giocare con il Manchester United, sbuffando e aprendo la lattina di birra che aveva poggiato prima sul divano.
“Secondo te sono pazzo?”
Il gatto agitò la coda e inarcò le sopracciglia. Porca puttana se lo era, se lo avesse saputo prima magari avrebbe aspettato qualcun altro che gli facesse da padrone.
“Voglio dire… Secondo te sono un pazzo visionario?”
Bellini si affrettò a scuotere leggermente il capo, sedendosi compostamente al fianco di Ed, che prendeva il terzo goal dal Chelsea in appena cinque minuti di gioco. Un disastro.
“Pensi che la rivedrò?”
I gatti, per molti, sono un contatto fra il mondo a noi conosciuto e quello sovrannaturale e sanno molte più cose di un qualsiasi essere umano. Questa tesi non è dimostrabile, ma Bellini, mentre si affrettava a strusciarsi addosso a Ed, facendolo ridere come un pazzo e tirare la palla nella propria porta, aveva finto di non vedere un’ ombra saltare sul loro balcone,inciampando nei suoi stessi piedi.
“Micio, piantala, prometto che avrai un sorso della mia birra, ma adesso fammi provare a giocare!”
Aria sorrise, prima di sparire nel buio della notte.



“No, mi dispiace, non ho visto niente.” Sussurrò dispiaciuta Liz a un Edward decisamente affranto, che le aveva suonato il campanello chiedendole se per caso avesse visto una ragazza con un paio di ali girare intorno al condominio la sera prima.
“Certo che al giorno d’oggi se ne vedono proprio di tutti i colori.- Sospirò, chiudendosi la porta alle spalle, ridacchiando sotto i baffi- Un angelo. Quel ragazzo deve smetterla di bere, finirà in psichiatria sicuramente.”
Si assicurò di aver spento tutte le luci e, dopo aver preso il cappotto, uscì pronta per andare a lavoro. Aveva da poco ottenuto una promozione e quel giorno avrebbero iniziato un progetto  insieme ad uno studio farmaceutico, per ricerche totalmente nuove. La cosa la elettrizzava dalla testa ai piedi, era divertente vederla quasi correre per strada per andare a lavoro, come se al suo arrivo non trovassi fiale e scienziati ma Babbo Natale con i suoi Elfi.
“Ciao a tutti!”
“Buongiorno capo, come sta?”
Liz sorrise, mettendosi un camice bianco nuovo di pacca. “Oh, direi bene. Quando arrivano i farmacisti?”
“Veramente la riunione è iniziata da dieci minuti, aula in fondo al corridoio.”
“Dio santissimo!”
Corse più veloce che poteva, lasciando la segretaria allibita dietro la scrivania.
Andrew poggiò le mani sul tavolo, le maniche arrotolate fino ai gomiti per pensare meglio.
“Allora, tutti presenti?”
La porta si spalancò, una donna con i capelli raccolti e le guance arrossate respirava affannosamente sulla soglia.
“S-s-scusate il ritardo, non… Lei?”- Confusa, guardò l’uomo curiosa, dimenticandosi di tutti i presenti-  Tu?”
“La tizia del sushi?”



Aprì la porta del laboratorio 14A, sospirando disperata. Forse avevano avuto la decenza di metterla in coppia con il tipo strabico seduto accanto a lei in riunione, o alla rossa con la voglia a forma di ingranaggio sul collo.
“C’è nessuno?”
Un uomo si affacciò dalla stanza laterale, sorridendo amichevole: Andrew, di nuovo. Liz arrossì fino alla punta dei capelli, facendo una smorfia.
“Ciao… Liz, giusto?”
Annuì, spostando lo sguardo sulle file ordinate di fialette già disposte sul bancone.
“Andrew?”
“Esatto. Che ne dici di metterci a lavoro?”
Sorrise, afferrando un paio di occhialini per evitare che sostanze nocive avessero contatto con i suoi occhi.
“Sì! Ma ti avviso, ho le mani di burro…”
“Bah, matematici.” Sbuffò l’altro, facendola scoppiare in una risata allegra.



Nell’antica Grecia si credeva esistessero tre dee minori, le Parche, che tessevano la vita di ogni singolo uomo. Quello che Aria, acquattata sulla finestra della farmacia della IX Avenue, non sapeva è che gli angeli non erano esclusi da quella cosa, anzi. E mentre se ne volava via, sapendo che di lì a poco sarebbe arrivato il momento giusto per una coppia di scienziati svitati, un filo bianco scintillò improvvisamente in un velo che, a giudicare dal colore arancio acceso, non poteva che appartenere a Ed Sheeran. Quel filo era proprio lei, completamente ignara del casino che di lì a poco si sarebbe venuto a creare.



 

***

 

Having heavy conversations
about the furthest constellations of our souls.

The Script - Science & Faith

 

 

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Capitolo 7
*** Capitolo sei ***


Non sono morta, sono vivissima. Scusate il ritardissimo, domani parto per Londra e sono stata pena di cose da fare. Ah, mi sono iscritta su White Pages, non ho ancora pubblicato nulla là sopra, ma ho in mente di farlo. Il nome è sempre leo rugens, ovviamente. Vorrei ringraziare tantissimo chiunque ami questa storia, perché per me significa davvero tanto. Grazie perché mi  sostenete sempre, per me è molto importante, siete la mia forza, l'arcobaleno in mezzo a tutte queste nuvolacce. Lui è il papà di Aria.  Torno il 23 Luglio, quindi se rispondo in ritardo alle recensoni, chiedo scusa in anticipo. Social networks nella bio, sempre a vostra disposizione!
Vi lascio con una gif di Alex e un bacio enorme,
Sun.















Capitolo sei


Skinny Love (2)


 

 

Aria, la sua vita prima se la ricordava bene. Una casa sulla nuvola più amata dalla Bora, la spazzola posata sul comodino; usata, vissuta. Se si concentrava, pensandolo forte, le tornava in mente suo padre: spalle larghe, voce ferma, ali infinite, le corse per saltargli in braccio quando tornava da lavoro. Quando gli chiedeva cosa facesse, lui rispondeva sempre dicendo che dava una mano –o forse il cuore- alle persone.
“E cosa sono?” Domandava curiosa lei, tirandogli una ciocca di capelli.
“Formiche, Aria. Formiche.”
Sorrideva, guardando il sole tingere l’orizzonte ora di rosa, ora di arancione.
“Posso anche io?”
“Un giorno, chissà.”
Spariva per giorni, partendo con una freccia già incoccata, le dita ad asciugarle le lacrime.
“Perché non posso venire con te?”
“È troppo presto. Ma, se vorrai, potrai fare il mio stesso lavoro da grande.”
Allora annuiva, smetteva di piangere e lo seguiva con lo sguardo, finché non lo inghiottiva il cielo. La mamma, Aria, non l’aveva mai avuta.
Se chiedeva come fosse, per gli altri era sempre “splendente, come il Sole.”
Così, guardava quella gigantesca palla infuocata e sbuffava, incrociando le braccia al petto. Solo con il tempo avrebbe notato il primo raggio di luce entrare proprio dalla sua finestra e l’ultimo accarezzarle i capelli prima di lasciare tutto alla notte. Segretamente, era arrivata a pensare che forse, quella stella, non era che sua madre: Aria le sorrideva a mezzogiorno e si sentiva meno sola al mondo. Dopo aver visto il suo tremilionesimo tramonto rosso, ebbe il coraggio di afferrare la mano di suo padre, fermandolo sulla porta di casa.
“Papà?”
“Dimmi.”
“Mi insegni tutto quello che sai?”



Aria a quindici anni ebbe il suo primo arco. Era un’arciera perfetta e sapeva muoversi utilizzando anche la più innocente brezza. Non sentivi nemmeno il suo odore, tant’era brava a mimetizzarsi. Aveva capito che gli esseri umani sono stupidi; egocentrici, egoisti, totalmente convinti di essere l’unica risposta e il più irrisolvibile dei problemi. Non le piacevano, le persone. Avrebbe volentieri incendiato la Terra e tutte le cose orribili che quelli avevano fatto. Il suo disgusto, quando la beccavi a pensarci, era palpabile; la bocca storta in una smorfia, le sopracciglia corrugate e quella rughetta di espressione proprio vicino al labbro superiore che solo una risposta avrebbe fatto sparire: l’amore. Non sapeva cosa fosse, ma era meraviglioso.
Portava un sacco di cose positive: intelligenza, saggezza, coraggio… Ne scopriva una nuova ogni giorno e ormai ne aveva viste così tante da iniziare a perdere il conto.
“Papà, perché esistono anche le cose brutte?” Chiese d’impulso una sera, seduta davanti al caminetto con una tazza di tè fra le mani fasciate. Si era fatta male all’addestramento, ma non si era fatta scappare neanche un gemito: era una guerriera.
“Altrimenti non ci sarebbero quelle belle.”
“Se non ci fosse la guerra, non avremmo la pace, quindi?”
“Esatto.”
“E noi cosa facciamo?”
“Noi? Niente. Diamo loro ciò di cui hanno bisogno per arrivare a scegliere.”
“Quindi potrei diffondere anche odio e disperazione?”
“Dipende da cosa vogliono gli esseri umani, amore mio.”
Aria sbuffò, appoggiandosi allo schienale con un broncio. Suo padre ridacchiò, posando l’avambraccio sul tavolo  e cercò il suo viso con lo sguardo.
“Ascoltami, so che possono sembrarti dei cretini, ma non lo sono. Hanno tesori sepolti ovunque, tu devi solo diventare brava a trovarli. Esistiamo grazie a loro, perché ci credono. Hai capito?”
“Sì.” Formulò, lenta, ignorando la sua ombra giocherellare sul muro.
“Va’ a dormire, domani devi alzarti presto.”
Suo padre le mancava terribilmente. Rivoleva i suoi occhiolini scherzosi al poligono di tiro e i primi voli su New York con lui che le spiegava come curvare per non andare a schiantarsi contro un grattacielo. Ricacciava indietro le lacrime e camminava un po’ più veloce, restando impassibile, di pietra, perché così le avevano insegnato. Per quanto fosse attenta e cauta, però, non vedeva mai una giovane donna con il suo stesso sorriso seguirla dall’altro lato della strada ogni volta che smetteva di piovere.



Corinne stava per avere una crisi di nervi. Aveva dato tutti gli esami, consegnato ogni relazione in un portalistini colorato, eppure sentiva che qualcosa non andava. Era come se avesse dimenticato qualcosa di importante ma non ricordava cosa fosse. Mentre finiva di tingere la nuova t-shirt rimuginava, senza successo, come se le avessero rubato un ricordo. Appese la maglia fuori, la bandana malconcia che tentava di fermarle i capelli per non farli finire sugli occhi mentre lavorava.
Alex quella mattina si era svegliato presto, perché doveva assolutamente potare la siepe, o sua madre lo avrebbe diseredato. Cesoie alla mano, vecchio berretto di suo padre calcato in testa, canticchiava una vecchia canzone punk; Corinne uscì di casa con il sacco dell’immondizia e lui alzò un braccio in segno di saluto. Era così bella con le guance macchiate di colore e la salopette consumata sulle ginocchia. Lei urlò un ciao in risposta e, dopo aver gettato i rifiuti, attraversò la strada con le mani dietro la schiena, come da bambina.
“Tua madre ti ha messo a sgobbare?”
“Già, con la solita scusa di togliermi dal testamento.”
Risero insieme, facendo volare via una farfalla posatasi troppo vicina. La guardarono sparire oltre i tetti, facendo piombare il silenzio. Da dietro un camino, Aria guardava un punto lontano, persa. Si riscosse, come da un incubo, e incoccò la freccia, appoggiando l’arco sul pergolato. Alex e Corinne erano in una situazione di stallo e la cosa l’aveva irritata a tal punto da rompere un rametto di ciliegio con le mani, per poi chiedergli scusa e farlo tornare come prima: non le piaceva quando le cose non andavano come previsto.



La freccia scottava, ma lei resisteva, aspettando che Alex le capitasse sotto tiro. Una scena vista e rivista, quella del cacciatore e del cerbiatto; stette là sopra per quelle che le parvero ore. I due si erano seduti sul marciapiede, irrimediabilmente vicini e con le spalle che si sfioravano. Vedeva Corinne rabbrividire ma esitava: sentiva che le sarebbero mancati, una volta finita. Aria, a scuola, era la migliore del suo corso nella pratica, ma aveva grossi problemi a spegnere le proprie emozioni, cosa che non risultava difficile agli altri angeli. Si affezionava alle persone, lasciarle andare era dura, dopo aver finito la propria missione. Con le lacrime agli occhi e l’amaro in bocca, le guardava andare via, girare l’angolo per l’ultima volta. Non sarebbe più tornata, aveva paura di soffrire troppo. Per consolarsi, si affacciava alla finestra del suo appartamento e mirava con l’arco, fra la folla: il primo che entrava nel mirino, era il suo nuovo protetto. Guardando la testa di Corinne appoggiarsi sulla spalla di Alex, sentendosi sola, Aria ebbe paura. Non scoccò, non quella volta. Si girò, mise l’arco in spalla e, con un singhiozzo, spiccò il volo.



Ed Sheeran amava chiunque avesse inventato il condizionatore. Se ne stava beatamente sdraiato sotto l’aria condizionata, con la coda di Bellini che gli batteva contro la coscia.
“Signora Mondo?”
“Dimmi, Edward.”
“Ma lei, fisicamente, com’è?”
“Non ho una forma fissa. Assumo quella con cui la gente mi immagina.”
Gli sarebbe piaciuto, essere un mutaforma. Diventare cosa più gli piacesse nel momento più –o meno- opportuno. Chissà com’erano le nuvole,  l’aria di alta quota o l’oceano. Aveva viaggiato tanto, ma solo con la fantasia; non si era mosso dalla sua Inghilterra, fisicamente parlando. Si sentiva un fallito con un vecchio CD di Damien Rice a tutto volume e la chitarra da accordare, eppure rimaneva lì, a cercare di prendersi un torcicollo. Ed era un mistero per tutti, amici e parenti compresi: non sapevano mai cosa pensasse o come gli venissero certe idee. Persino il suo gatto lo stava guardando con quel fare sostenuto tipico dei felini e, per tutta risposta, gli fece una linguaccia per poi tornare a cantare. Batteva un piede a ritmo, tamburellava le dita, lasciava che la musica gli entrasse dentro. Aveva voglia di correre, di metro, di scoprire chi fosse quella sul tetto l’altro giorno. Non si era buttata, impossibile, l’avrebbe vista schiantarsi, l’edificio era troppo alto. Cercava di ignorare la vocina nella sua testa che ripeteva, come una cantilena: “E se fosse volata via?”
“Signora Mondo,  ma gli umani possono volare?”
“Dipende, Edward caro. Tu credi possano farlo?”
“Non lo so.”



Mentre il CD finiva e Bellini si concedeva un riposino, Aria saltava da un tetto all’altro, sentendo il cuore stringersi, come se qualcuno ci avesse avvolto intorno una cintura e, ad ogni secondo, cambiasse buco, rendendo la striscia di cuoio sempre più stretta. La notte era ormai calata, fresca, come un’oasi nel bel mezzo del deserto per un beduino. Riconobbe il palazzo di Liz, la matematica, e decise di riprendere fiato lì.
Guardava la città accendersi, ricordandole le sigarette che fumava il signor Worth. Si sentiva esclusa da tutto quel tran tran, non aveva fretta; eppure, una parte di lei avrebbe voluto unirsi alla maratona, solo per sapere come ci si sentisse, solo per dire di averlo fatto. Si appoggiò all’inferriata sospirando e chiudendo le ali sulla schiena. Aveva un gran vuoto dentro che niente riusciva a riempirle, nemmeno il suo lavoro. Constatando che si fosse fatto tardi, si decise a riprendere il cammino, quando il maniglione antipanico della porta si abbassò.
Terrore.
Si nascose e trattenne il respiro, paziente. Si diede mentalmente dell'imbecille, perché aveva già rischiato una volta e non poteva farla diventare un'abitudine. Aria non poteva sbagliare, non avrebbe potuto permetterselo. Il ragazzo con i capelli rossi uscì, sospirando, dandole le spalle. Colse l’occasione per prendere la rincorsa e saltò sull'edificio vicino, per poi scappare verso l’orizzonte.
Ed, nel frattempo, non si era accorto di niente e fissava un punto lontano, poco definito e sorprendentemente buio. Il Maestrale cominciava ad alzarsi rabbrividì per il freddo. Si era finalmente deciso a rientrare, quando una folata di vento alzò qualcosa di incredibilmente luccicante e bianco: una piuma.
“Signora Mondo, cosa sa sugli angeli?”



 
***




I was following the pack, all swallowed in their coats with scarves of red tied around their throats,
to keep their little heads from falling in the snow.

White Winter Hymnal - Fleet Foxes

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