Cows and jeans

di Yvaine0
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***
Capitolo 8: *** 8 ***
Capitolo 9: *** 9 ***
Capitolo 10: *** 10 ***
Capitolo 11: *** 11 ***
Capitolo 12: *** 12 ***
Capitolo 13: *** 13 ***
Capitolo 14: *** 14 ***
Capitolo 15: *** 15 ***
Capitolo 16: *** 16 ***
Capitolo 17: *** 17 ***
Capitolo 18: *** 18 ***
Capitolo 19: *** 19 ***
Capitolo 20: *** 20 ***
Capitolo 21: *** 21 ***
Capitolo 22: *** 22 ***
Capitolo 23: *** 23 ***
Capitolo 24: *** 24 ***
Capitolo 25: *** 25 ***
Capitolo 26: *** 26 ***
Capitolo 27: *** 27 ***
Capitolo 28: *** 28 ***
Capitolo 29: *** 29 ***
Capitolo 30: *** 30 ***
Capitolo 31: *** 31 ***
Capitolo 32: *** 32 ***
Capitolo 33: *** 33 ***
Capitolo 34: *** 34 ***
Capitolo 35: *** 35 ***
Capitolo 36: *** 36 ***
Capitolo 37: *** 37 ***
Capitolo 38: *** 38 ***
Capitolo 39: *** 39 ***
Capitolo 40: *** 40 ***
Capitolo 41: *** 41 ***
Capitolo 42: *** 42 ***
Capitolo 43: *** 43 ***
Capitolo 44: *** 44 (Epilogo) ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Al nonno, che ci guarda e ci guida da lassù.
Sei stato forte fino alla fine, non hai mai smesso di esserlo.
Noi siamo forti per te, quaggiù. Tu sii forte per noi, lassù.

-E alle mie bionde, che mi ispirano e incoraggiano.-



 

Cows and jeans
1

 


Viaggiavo in treno da poco più di un' ora e i miei buoni propositi stavano già svanendo. Volevo già tornare a casa. Tutti quegli alberi, i campi, il treno che a ogni fermata si riempiva di gente dall'aria sempre più frizzante e curiosa. 
Lo sapevo, avrei dovuto portare pazienza. Mi sarei dovuta abituare a quelle persone, proprio come loro avrebbero dovuto abituarsi a me.
Ma quei dannati sguardi curiosi proprio non li reggevo. Non ero poi una persona così strana!
Jeans lunghi, felpa nera, scarpe da ginnastica bianche. La valigia blu sotto il sedile, uno zaino nero nel porta oggetti e una tracolla di jeans sulle gambe.
Troppi bagagli? Dovevo trasferirmi, non ero in gita.
Capelli appariscenti? Erano marroni, cavolo, più non-colorati di così non si poteva!
Occhi? Eh be'. Wow. Marroni pure quelli.
Naso? Normale.
Corpo? Minuto e decisamente poco interessante. Da dodicenne.
Oh. Ora capivo. Probabilmente quei campagnoli impiccioni vedevano una bambina piena di valige scappare di casa, e non una diciottenne cacciata dai genitori.

"Sei maggiorenne? Vattene dal nonno! Non può che farti bene".
Dunque... ciuuuffciuuuff! Ero in treno da un'ora verso il nulla più totale.
Perchè, vi chiedete? Probabilmente tutto era iniziato quando mio fratello aveva iniziato a parlare. Fin da subito aveva capito la sua vocazione: sparare stronz-... sciocchezze. Così, insulto dopo insulto, dispetto dopo dispetto, litigio dopo litigio, discussioni dopo discussioni coi genitori, nostra madre era impazzita e aveva deciso di spedirci tutti e due a vivere da qualche parte lontani da loro.
Poi ovviamente era intervenuto George, il nuovo compagno di nostra madre, proponendo un collegio chiamato non-so-come nella terra di non-so-dove, del quale conosceva il preside, che avrebbe potuto provvedere ad uno sconto della retta annuale in modo da permetterci di autofinanziarci... ma questo aveva scatenato l'ira di nostro padre. Ovviamente. Si era messo a sbraitare che quell'uomo non aveva alcun diritto di decidere cosa mamma avrebbe dovuto fare di noi; così aveva preso in mano la situazione, decidendo di spedire Joshua dalla prozia Krimilde in Germania finchè non avrebbe compiuto diciotto anni e di lasciare me, povera e dolce ragazzina indifesa, in casa sua finchè non avessi trovato un lavoro. Lo zuccone, tuttavia, proprio non voleva andarci, in Germania, e io mi ero offerta volontaria per fare a cambio con lui - non mi sarebbe capitata di nuovo l'occasione di andarmene in Europa e vivere gratuitamente nell'enorme villa di quella zitella ricchissima con una biblioteca più grande e sicuramente meglio fornita di quella della mia città.
Questo mio interesse era bastato a far sì che Joshua ci ripensasse, motivo per cui avevamo iniziato a litigare di nuovo, davanti a papà, alla mamma e a George.
Papà aveva battuto un pugno sul tavolo, forte, richiamandoci al silenzio. "Joshua. Tu, da Krimilde" aveva deciso, "e tu dal nonno!"
A quel punto non avevo potuto ribattere. George e mamma -non aveva un grande istinto materno, anzi non ne aveva per niente- preferivano largamente la presenza del simpatico bruffone -Joshua- alla mia. Inutile dire che io ero invece la cocca di papà; come lui ero stata sempre denigrata da tutti per la mia semplicità e noncuranza per certi dettagli come la vita sociale e il successo, cosa che invece contraddistingueva praticamente tutta la mia famiglia e, come loro, tutti gli abitanti della città in cui vivevo.
Papà non mi aveva mai punita e non sapevo esattamente perchè avesse iniziato quel giorno; forse io e Joshua avevamo veramente toccato il fondo.
Ad ogni mondo, non avevo potuto replicare: se ero riuscita a fare arrabbiare quel santo uomo forse era veramente giunto il momento di cambiare aria. Non mi ero mai trovata bene in quella città, ma nonostante avessi raggiunto da qualche mese la maggiore età non mi aveva nemmeno mai sfiorata l'idea di andarmene e farmi una vita da qualche altra parte.
Ora invece l'idea non solo era affiorata, ma mi aveva investita in pieno con la potenza di un treno.
Se solo fosse stata mamma -maledetta psicologia inversa!- a propormi un viaggio permanente a Sperdutolandia l'avrei mandata a quel paese senza troppi giri di parole e mi sarei trasferita a casa della mia migliore -e unica- amica Emily. Trattandosi però di papà -dannata la mia mente contorta!- avevo pensato che forse non sarebbe stata un'idea così cattiva.
Ora però quei dannati sguardi mi irritavano come l'ortica a contatto con la pelle.
E, dannazione, stavo già iniziando a parlare come uno di quei vecchi cow-boy che avevo tante volte visto negli scadenti film western di George.
Fissavo il territorio cambiare gradualmente fuori dal finestrino. I grattacieli avevano lasciato il posto ai normali condomini, poi alle casette a più piani, alle villette e schiera, alle industrie fumanti, infine alle autostrade. Tante autostrade, le città ormai visibili solo all'orizzonte.
Gran parte dei passeggeri erano scesi dal treno e ora iniziava a salire, uno ogni tre o quattro fermate, qualche pendolare.
E poi, piano, piano, iniziai a vedere le grandi proprietà, enormi giardini, qualche casa abbandonata, discariche e poi ancora: campi, tanti campi; sempre più campi e alberi. Ormai erano quaranta minuti che non vedendo che campi. Verdi e chiaro, verde scuro, dorati, color paglia, marroni, terra arata di fresco, campi di girasoli e grano. Poi, quando vidi questi, quasi mi venne un colpo: pascoli. Pecore, cavalli, buoi.
Ancora pecore.
Pecore, pecore, altre pecore.
Oh, e anche ...pecore.
Poi un cartello, il nome di un paesino. Il mio paesino.
Sospirai, terrorizzata all'idea di quello che mi aspettava una volta scesa e mentre il treno rallentava presi le mie cose.
Scesi dal treno e presi un ultimo respiro profondo.
Mi sentii estremamente smarrita vedendo che quel posto non aveva nemmeno una stazione, ma semplicemente una fermata - una fermata in mezzo ai campi, in mezzo al nulla.
Io ero in mezzo al nulla.
Un uomo passava su un trattore. Lo guardai. Lui alzò il cappello di paglia che portava in testa in segno di saluto. Un paio di donne più vicine mi sorrisero.
Come in ogni piccolo paese sperduto nel nulla, tutti sapevano che sarei arrivata: cosa mi aspettavo? Sospirai. 
"Scusatemi" mi feci coraggio e mi avvicinai a loro. "sono la nipote di Abraham Fletcher, sapete come posso raggiungere la sua" ...tana?, mi chiesi, stupidamente. "...abitazione?"
"Certo, cara." rispose una delle due, una signora robusta dai lineamenti gentili; "prendi quel sentiero attraverso il campo del signor Towell, ti porterà alla strada principale. Poi prosegui verso il ponte e vai sempre dritto, lì troverai la fattoria del vecchio Stewart. Poi..."
Mi ero già persa. Da che parte dovevo andare?
Aspettai che la donna finisse di darmi le indicazioni, sconsolata, poi sorrisi e la ringraziai.
Per un attimo indugiai, forse sarebbe stato meglio chiedere di nuovo di spiegarmi la strada, ma pensai che sarei passata per stupida così facendo. Quindi raccolsi tutte le mie cose, prendendo tempo, poi mi incamminai lungo il sentiero che mi aveva indicato di nuovo la donna, intuendo di essere molto più stupida di quando sembrassi.
Attraversai con quel sentiero il campo dell'uomo sul trattore e poi gettai tutte le mie borse a terra, esasperata. Estrassi il cellulare dalla tasca della felpa, pregando che non mi fosse caduto lungo la strada. Fortunatamente era ancora lì. Cercai quindi un numero in rubrica e premetti il tasto verde, ma non accadde sulla.
Riprovai: niente.
Irritata, tentai una terza volta, ma quel dannato cellulare riagganciava da solo prima ancora di prendere la linea.
"Che diavolo ti prende?!" sbottai.
Non c'era campo.
Mi guardai intorno, stupita: nemmeno un'antenna telefonica in lontananza. Non avrei dovuto sorprendermi, in teoria, in fondo ero in mezzo ai campi e ... alle pecore.
Avevo un caldo bestiale. 
Solo una cretina come me poteva partire per quel viaggio con una felpa pesante indosso. Tutta colpa di mia madre e della psicologia inversa. "Mettiti qualcosa di leggero, farà caldo." Dannata me! Eppure ero uscita dall'adolescenza, avrebbe dovuto essere finito il tempo di quelle cretinate infantili!
Diedi un calcio alla valigia e mi gettai a sedere a terra, sperando che in quel posto almeno non ci fossero insetti strani tipo le formiche carnivore o millepiedi giganti.
Mi tolsi la felpa e rimasi in canottiera. Sì, avevo anche quella. Persino i calzini lunghi, perché pur di dar contro a mia mamma mi sarei messa pure guanti, sciarpa e paraorecchie. Mi sentivo infinitamente stupida.
Appoggiai la schiena alla mia valigia e chiusi gli occhi; respirai a fondo e li riaprii.
Non avevo ancora realizzato la situazione, altrimenti mi sarei fatta prendere dal panico. Avevo diciotto anni; ero stupida come pochi; ero stata cacciata di casa. Quando ero stata spedita nella terra di nessuno, da sola, mio nonno non era venuto a prendermi alla fermata del treno. Mi ero dunque persa in mezzo ai campi e non avevo diea di dove andare. Non c'era campo, non telefonicamente parlando, e stavo scoppiando di caldo. Mi era appena passata di fianco una biscia...
Una... BISCIA?!
Mi alzai in piedi, gridando. Con un balzo saltai sulla valigia che si ribaltò facendomi cadere lunga e stesa nell'erba. Impiegai mezzo secondo a rialzarmi e posizionarmi sopra di essa, giusto in tempo per vedere la coda dell'animale sparire nell'erba dall'altra parte della strada, con mio estremo orrore.
"Santo Cielo!" pigolai, raggomitolandomi sopra il mio bagaglio. Probabilmente non sarei più scesa di lì. Sentivo un improvviso gelo in tutto il corpo e avevo la pelle d'oca. Mi sarei rimessa la felpa, se solo non fosse stata per terra. Il terrore che quell'essere tornasse indietro era esorbitante, e anche stupido. Per quale motivo un rettile strisciante sarebbe dovuta tornare a cercarmi? Non era mica Lord Voldemort!
Certo, in teoria era così, ma... al solo ripensare a quell' essere nero che serpeggiava sullo sterrato a pochi centimetri da me mi fece venire i brividi.
"RAZZA DI IRRESPONSABILE!" gridai al nulla, irritata.
Quel vecchio rincitrullito di mio nonno non capiva la gravità della situazione, forse? Ero stata cacciata di casa! Ero stata spedita a vivere in un luogo sperduto tra campi e pecore e non mi era nemmeno venuto a prendere alla stazione! Che poi non c'era nemmeno, una stazione!
Avevo una gran voglia di piangere, tutto d'un tratto.
Strinsi le ginocchia al petto e vi posai sopra la testa. Respirai a fondo e chiusi gli occhi.
Manuale di sopravvivenza made in Pan Fletcher, regola numero uno: mai piangere. Davanti ad altre persone, ma soprattutto in situazioni allarmanti: non fa altro che farti agitare di più e dimostrare la tua fragilità agli altri e -peggio ancora- a te stessa.
In quel momento il fatto di essermi appena imposta delle regole da sola mi sembrò estremamente ridicolo. Ma se non avessi dato ascolto a me stessa quando ero da sola, come...
Diedi un calcio allo zaino lì accanto prima di poter finire il pensiero. Rischiavo di impazzire.
Regola numero due, respirare a fondo e tranquillizzarsi.
Presi un respiro profondo e alzai gli occhi al cielo, osservando l'azzurro interrotto da qualche nuvoletta bianca.
Regola numero tre, trovare almeno tre aspetti positivi nella situazione.
Bene, ehm... l'aria non era poi così inquinata, il paesaggio era decisamente bello e rilassante e... e poi?
E poi non ero ancora stata investita da un trattore, cosa che però faceva ancora in tempo ad accadere.
Regola numero quattro, riflettere e fare qualcosa per uscire dalla situazione scomoda.
Be', questo era facile, no? Arrivare a casa di mio nonno nonostante non sapessi dove fosse e non avessi intenzione di mettere piede a terra.
Sbuffai e presi il mio fidato mp3 dalla tasca dei jeans. Auricolari nelle orecchie più accensione uguale musica. Musica uguale estraniamento dal mondo reale. Estraniamento dal mondo reale uguale poco panico. Meno panico uguale più pensieri lucidi. E magari come risultato all' equazione avrei trovato qualche buona idea per andarmene da lì, o magari la paura sarebbe svanita e me ne sarei andata coi miei piedi.



In der Ecke - Nell'Angolo:
E dopo tanto tempo e una storia lasciata a metà -causa: litigio mentale con uno dei miei personaggi preferiti-, ora ritorno con un qualcosa che non so dove mi porterà. Io so ciò che succederà esattamente come la povera Pan, che poco capisce di tutta quella situazione, al di fuori della presenza di un sacco di pecore.
Ovviamente i luoghi sono inventati e se posso vorrei evitare di localizzarli, per non incastrarmi in qualche strano meccanismo della mia mente che si rifiuta di scrivere fesserie -per quanto poco ci riesca, poi.
Ok, so, che tutto questo commento è esattamente inutile e penso anche un poco sconclusionato, ma dovete capirmi, sono le dieci e quaranta e di solito a quest'ora già dormo come un ghiro.
Il secondo capitolo è già pronto e giungerà a breve.
Poi non so tuttavia quando nè come potrò continuare la storia, quindi, abbiate pazienza.
Colgo l'occasione per informarvi della creazione di un blog in cui io e un mio amico abbiamo iniziato a pubblicare alcuni dei nostri scritti: http://emporiodellascrittura.blogspot.com/ . Date un'occhiata se vi va, altrimenti non sarò di certo io ad obbligarvi! ^^
Nella speranza che queste note dell'autore non vi abbiamo spaventato facendovi decidere di abbandonare Pan, vi auguro una buona notte. :)


Yvaine0


 

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Capitolo 2
*** 2 ***


Cows and jeans
 
2


"Hai intenzione di spostarti?!" 
Un'auricolare mi venne strappato via e il grido mi giunse direttamente all'orecchio.
Trasalii e aprii gli occhi, incontrando uno sguardo castano furioso.
"Cosa?" chiesi, spaesata.
Troppo estraniamento dalla realtà, troppo estraniamento!
"Vedi di toglierti di mezzo, principessa, dobbiamo passare con la macchina!" sbottò la ragazza che avevo di fronte, sistemandosi la coda di cavallo.
Si allontanò di due passi e mi lanciò in faccia la felpa. "E copriti, scostumata!"
Mi alzai in piedi, e mi infilai la felpa automaticamente, continuando tuttavia a non capire cose stesse succedendo. Recuperai lo zaino e la tracolla e portai il tutto da una parte, in modo da non intralciare il passaggio. La ragazza trascinò la mia valigia a bordo strada, poi portò le mani sui fianchi e mi osservò. "Hai bisogno di aiuto?" domandò, come se qualcuno l'avesse appena costretta a parlarmi. 
Mi ci volle qualche attimo per rispondere. Tempo nel quale il mio cervello capì che potevo uscire da quella situazione assurda solo chiedendo aiuto a quella ragazza così poco amichevole.
"Veramente...sì." ridacchiai, stupidamente. Le allungai una mano, presentandomi. "Sono Pan, sto cercando l'abitazione di Abraham Fletcher. Una signora mi ha indicato la strada, ma mi sono persa..." spiegai, sperando in un modo di solidarietà della ragazza verso una povera idiota senza senso dell'orientamento. 
Sorrisi, mesta.
Lei sospirò e mi strinse la mano. "Agatha McDonnel. Salta su, dobbiamo andare proprio lì".
Le sorrisi, realmente grata. "Ti ringrazio!" 
"Su, su, svelta. Kameron, scendi di là e dacci una mano a caricare i bagagli!"
Lo sportello del pick-up si aprì e un ragazzo con un sorriso a trentadue denti scese e mi venne incontro. "Piacere, Kameron Towell! Io abito qui, se in questi giorni vuoi venire a trov- ..."
"Stupido animale perverso!" lo interruppe Agatha. "Tieni a freno gli ormoni e prendi questa!" tagliò corto la bionda, mettendogli in mano la mia valigia. "Mettila sul pick-up, la accompagniamo dal vecchio"
Ero un po' frastornata, mi limitai ad abbozzare un sorriso poco convinto. "Grazie" sussurrai, raccogliendo zaino e seguendo Agatha e Kameron sul retro dell'auto. 
Poco dopo mi ritrovai assottigliata tra i due sui sedili anteriori del pick-up che arrancava sullo sterrato. Ad ogni buca venivo sbalzata addosso a uno dei due. Kameron se la rideva sotto i baffi che non aveva, per cui me ne accorsi senza troppi problemi. La cosa da una parte mi irritava e dall'altra mi imbarazzava. Dovevo sembrare parecchio ridicola, ma non era colpa mia se quell'aggeggio aveva sospensioni scadenti e la strada sembrava una forma di Emmental!
"Allora tu sei la nipote del vecchio Fletcher!" fu Agatha a rompere il silenzio.
"Sì..." Sono un tipo di poche parole, sì.
"Vieni dalla città, giusto?" Tuttavia anche lei sembrava faticare parecchio ad intraprendere una conversazione civile con qualcuno. Sembrava... arrabbiata. Non con me, mi auguravo. Non ero ancora arrivata a destinazione, non potevo aver già fatto arrabbiare qualcuno!
Annuii e le spiegai dove fosse la mia città Natale.
"Per quanto resterai?" intervenne Kameron guardandomi di sottecchi.
"Guarda la strada" lo rimproverò Agatha.
"Non essere così acida, Aggie!" ridacchiò lui. "Sto solo cercando di fare amicizia!"
Non potei fare a meno di rivolgergli un' occhiata scettica e lui rispose con un' occhiolino che fece sbuffare la bionda che stava seduta alla mia destra. "Non farci caso. Fa tanto il dongiovanni ma non ha mai avuto nemmeno una ragazza, il nostro Kameron!" replicò con un ghigno.
Un attimo dopo venni sbalzata in avanti e se non fosse stato per i riflessi pronti del ragazzo -che mi bloccò con un braccio muscoloso- la mia faccia si sarebbe spiaccicata contro il parabrezza.
Il ragazzo, un' espressione arrabbiata, aveva inchiodato e ora stava fissando in cagnesco Agatha, la quale ricambiava con uno sguardo divertito, le braccia incrociate e un sopracciglio inarcato. "Vogliamo negare la realtà?"
Kameron prese fiato, gonfiò il petto e fece per parlare, ma poi si sgonfiò come un palloncino, espirando. Chiuse gli occhi e scoppiò a ridere con una buona dose di autoironia. 
"Ecco, mi pareva" approvò la ragazza, sorridendo. Aveva un bel sorriso, notai. E il volto abbronzato ricoperto di tenere lentiggini. In effetti doveva essere più piccola di quanto non mi fosse apparsa non appena l'avevo vista. Avrà avuto sedici, diciassette anni. Era quell'espressione seria che si era portata appresso per tutto il tempo a farla sembrare più grande. 
Guardai Kameron. Lui era decisamente più grande di Agatha, forse aveva la mia età, o forse era più grande. Fisicamente dimostrava più o meno vent'anni, ma il suo volto era decisamente da bambino. Diciassette? 
"Oh, non è vero!" sbottò Agatha stizzita.
Senza che me ne accorgessi loro avevano continuato a bisticciare e io ero rimasta tutto il tempo ad osservare Kameron senza davvero vederlo. Pessima mossa, ne ero certa.
"Oh sì, piccola!" le disse lui, poi mi sorrise. "Niente male, eh?" mi fece di nuovo l'occhiolino, indicandosi con una mano.
Ecco, lo sapevo. Solo io potevo fare una figura del genere.
Arrossii, sperando che nessuno se ne accorgesse. Scossi il capo, fingendo di essere riemersa solo in quel momento dai miei pensieri. "Eh?" chiesi, stupidamente.
Ovviamente solo io potevo pensare di evitare la figuraccia in quel modo.
"Ehhh! Lo sapevo che la mia bellezza avrebbe incantato qualche ragazza prima o poi! Una ragazza di città per giunta! Che dongiovanni!" si pavoneggiò Towell mettendo nuovamente in moto l'auto.
Io finsi di non capire, augurandomi di non essere arrossita di nuovo, e posi una domanda a caso, per cambiare in fretta discorso. "Quanti anni hai, Agatha?" 
Lei abbozzò un sorriso comprensivo, che risultò una specie di smorfia, forse intuendo il mio svicolamento. "Quindici."
"Quindici?!" ripetei, stupidamente.
Lei mi guardò di sottecchi, probabilmente chiedendosi quanto fossi stolta da uno a dieci. "Già"
"Sembri più grande" osservai, a mo' di scusa.
Lei scrollò le spalle e mi sorrise. "Tu?"
"Diciotto"
"Uo-hoo!" rise Kameron, attirando l'attenzione di noialtre. Sorrideva alla strada di fronte a lui. "Sei più piccola di me, baby"
Agatha sbuffò. "Pensa a guidare, tu." lo rimproverò.
Dopo quel baby decisi che ignorare Kameron sarebbe stata un'ottima scelta. E poi, dopo aver scoperto che Aggie aveva solo quindici anni, mi sentivo più a mio agio a parlare con lei. Insomma, mi ero sempre trovata meglio con le ragazze più piccole, con loro riuscivo a stringere amicizia più semplicemente, in città. Soprattutto perchè a livello di esperienze ero sicuramente più simile a una ragazza del primo anno del liceo rispetto alle mie compagne. Come vi ho già detto, non godevo di grande popolarità e ... bè, Kameron non era l'unico a non aver mai avuto un ragazzo. Insomma, ne avevo avuto uno al secondo anno, ma era stato il primo e l'ultimo, e non ero andata oltre a qualche bacio. Era durata qualche mese, ma poi la nostra storia era scoppiata grazie alle abilità seduttive di una mia compagna di classe, Francis Thompson. 
"Come mai dovete andare da mio nonno?" chiesi, riemergendo dai miei pensieri e allontanando Francis e il mio ex dalla mia testa con stizza.
"Carichiamo della verdura da portare giù al mercato" spiegò Kameron. "giù in paese."
Annuii. "E' molto lontano il paese?"
Lui diede un'alzata di spalle. "Non tanto. Il negozio più vicino a casa del vecchio Fletcher sarà a... quanto Aggie? Quindici chilometri, su per giù"
Sgranai gli occhi. "Oh santo cielo!" sillabai esterrefatta, mio malgrado. Da casa dei miei, il negozio di prima necessità più lontano distava cinquecento metri. "Quindici chilometri?" ripetei, scioccata.
Quindici chilometri?!, la mia mente non riusciva a concepirlo, nonostante la cosa non fosse poi così strana. 
Mi battei una mano sulla fronte, mentre Kameron e Agatha se la ridevano. "Benvenuta in campagna, topolino di città" mi prese in giro la bionda. "Ti ci abituerai presto, fidati. Tu almeno puoi guidare, io devo chiedere sempre un passaggio a qualcuno!"
Mi sentivo una di quelle ragazzine viziate e abituate ad aver ogni desiderio esaudito con un solo schiocco di dita. Forse sembravo tale anche a quei due. Non era di certo quella la prima impressione che speravo di dare, ecco.
In effetti non sapevo bene cosa aspettarmi da quell' esperienza. Tuttavia ogni parola che veniva pronunciata da quei due mi sorprendeva. Dovevo apparire come una di quelle bambina di città che non hanno mai visto un animale diverso da un gatto, un cane o un piccione; una di quelle che alla domanda "Da dove viene il latte?" risponde "Dal supermercato". Era umiliante pensare che nemmeno quello sarebbe stato il posto adatto a me. In città mi era sempre stato detto di essere una sempliciotta, una campagnola. In campagna ora passavo per la ragazza di città viziata e persa senza il suo cellulare a portata di mano. In effetti in quel momento avrei venduto la mia felpa pur di poter parlare al telefono con la mia migliore amica. Avevo bisogno di sentire le parole di conforto che solo lei riusciva sempre a trovare.
Per tutto il resto del tragitto Kameron e Agatha scherzarono e si punzecchiarono facendosi battutine riferite a qualche abitante del paese di cui non afferrai il nome. Ovviamente anche avendolo capito non sarebbe cambiato niente. Tuttavia non mi sentivo a disagio tra quei due, nonostante non avessi idea di che cosa stessero parlando. Esattamente come con la donna che aveva cercato di indicarmi la strada. 
La gente lì sembrava realmente più limpida, anche solo ad una prima impressione. Speravo sinceramente che non fosse l'aria l'unica cosa genuina in quel luogo. 


"Eccoci qua" Kameron entrò nell'aia davanti ad una casa di legno, ricoperta da una vernice verde in parte scrostata. "Casa Fletcher" proclamò, tirando il freno.
Gli sportelli si aprirono quasi contemporaneamente e i due ragazzi saltarono giù dall'auto. Scivolai di lato e scesi anche io. Una staccionata bianca e un po' sgangherata delimitava la zona ghiaiosa, tutto intorno un prato rigoglioso che sfociava in un campo coltivato. Lo sterrato continuava a tratti, trasformandosi un un sentiero che portava a delle baracche sul retro, da dove si sentivano rumoreggiare delle galline.
"Vuoi una mano a portare dentro i bagagli?" domandò il ragazzo, scaricando la mia valigia. Agatha era sparita da qualche parte percorrendo in fretta uno di quei viottoli.
Recuperai lo zaino e la tracolla, e gli sorrisi. "No, grazie."
"Che te ne pare?"
Respirai a fondo. Cosa me ne pareva? Aveva l'aria di essere un posto tranquillo e rilassante. Mi ricordava la baita in montagna di Heidi, nonostante l'ambiente non fosse simile per niente. Libertà. L'aria lì sapeva di libertà. Tuttavia sapevo che non sarebbe stato tutto rose e fiori. Se ero lì era anche per imparare a guadagnarmi da vivere da sola, e questo significava che avrei dovuto lavorare sodo. "Niente male" risposi.
Nonostante gli avessi detto di no, Kameron prese la mia valigia e lo zaino e li trascinò fino sopra alle scalette in legno che portavano alla porta, coperta da una tettoia. Proprio come nei film, sotto al piccolo porticato c'erano una panchina con il suo tavolino di legno, e dal lato opposto una sedia a dondolo.
Suonai il campanello, ma Kameron scoppiò a ridere. "Non credere che sia in casa, Pan. Il vecchio sta in paese tutta la mattina. Le chiavi" si chinò e alzò lo zerbino. "stanno qui".
"Stai scherzando?"
"Perchè?"
"Lascia veramente le chiavi sotto il tappetino? Mai sentito parlare di furto? Cavolo, mi meraviglio che non gli abbiamo ancora svaligiato la casa!" Non sapevo se fosse più irresponsabile mio nonno a nascondere le chiavi di casa in un luogo così scontato o mio padre a lasciare che un uomo del genere vivesse da solo.
Kameron rise. "E chi vuoi che vada a rubargli in casa? Io? I McDonnel?" mi fece cenno di star tranquilla. "Non siamo in una metropoli, bimba. Qui ci conosciamo tutti e ci fidiamo tutti gli uni degli altri. Ti ci abituerai!"
Questa volta evitai accuratamente di sgranare gli occhi o di lasciare che mi cadesse la mascella: sarebbe stato poco gentile dubitare della veridicità delle sue parole. Tuttavia il mio cervello non concepiva che si potesse essere così tanto fiduciosi nei confronti di... tutti. Quale persona, in fondo, si sarebbe lasciata sfuggire l'occasione di poter usufruire liberamente della casa di un vecchio rimbambito -perchè non poteva essere che tale, se azzardava tanto- senza nemmeno dover forzare la serratura?
Mi resi conto di aver messo piede in un mondo completamente diverso dal mio, al quale non sapevo quanto sarebbe stato facile adattarsi. Molto, poco? Solo il tempo poteva saperlo. Io avrei dovuto aspettare nella speranza che la nuova vita non fosse poi così difficile.



In der Ecke - Nell'angolo:
Eccomi qua. :D
Questo è il secondo capitolo dell'avventura di "Pan nel paese delle pecore"! XD
L'avrei postato anche ieri pomeriggio, solo che mi sono ridotto all'ultimo momento e sono riuscita a postarlo solo sul blog prima di andare a vedere Rapunzel. ** Ecco, meglio che non mi dilunghi in argomento o le note diventeranno più lunghe del capitolo. ^w^ Dico solo che io quest'anno aspettavo dicembre solo per vedere due film, Harry Potter e Rapunzel. E se uno è riuscito a farmi scappare una lacrimuccia e un "devo rivederlo", il secondo ha superato le mie aspettative già altissime**. Ho passato mezz'ora pensando "non devi dire che ti piace solo perchè non aspettavi altro da quest'estate" -per Rapunzel- e sono uscita dal cinema col sorriso sulle labbra. Mai successo! :D In poche parole ve lo consiglio :3
Come ho già detto nelle risposte alle recensioni (**) non avrei mai pensato di ricevere commenti già nel primo capitolo. :3 Non è mai successo.**
Vi ringrazio di cuore :3
Yvaine0

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Capitolo 3
*** 3 ***


Cows and jeans
 
3


 

Kameron era uscito nel cortile ed ero rimasta sola in casa. Si sentivano lui e Agatha armeggiare con qualcosa sul cassone del pickup. Probabilmente erano le cassette della verdura per il mercato di cui mi avevano parlato.

Decisi di iniziare il mio soggiorno in quel posto con un'esplorazione della casa, visto che non c'era nessuno lì a dirmi dove stare o non stare.

Continuavo a pensare che mio nonno fosse un vecchio irresponsabile: quale uomo abbandonerebbe a sè stessa una diciottenne di città in mezzo alla campagna e poi in una casa vuota di cui peraltro lasciava le chiavi sotto lo zerbino? Bè, ora capivo da chi aveva preso mio padre. E anche mio fratello. In fondo era colpa di quei due se ora mi ritrovavo in mezzo alla vecchia fattoria dello squilibrato Abraham Fletcher.

Respirai a fondo. Sarei dovuta ricorrere di nuovo al manuale di sopravvivenza. Due volte nel giro di... secondo l'orologio del mio cellulare solo due ore. Ma per quanto mi riguardava in quel luogo il tempo avrebbe anche potuto scorrere al contrario, non me ne sarei stupita, a quel punto.

"Inspira, espira. Ce la puoi fare, Pan." sussurrai, conscia di sembrare una stupida. Ma tanto ero in una casa socnosciuta e vuota, no? Chi poteva vedermi?

Deglutii. Con la fortuna che mi ritrovavo era pure infestata dai fantasmi.

Sbuffai, rendendomi conto delle assurdità che mi frullavano nella testa, e mi decisi a riaffidarmi al Manuale di Sopravvivenza.

Regola numero tre, trovare almeno tre fattori favorevoli nella situazione. 

...potevo riciclare quelli di prima?

Ridacchiai tra me e mi avventurai all'interno, alla ricerca dei miei amici elementi positivi. Lasciai i bagagli a terra e oltrepassai la prima porta a destra. Oh!

Punto positivo primo: nella cucina c'erano tutti gli elettrodomestici essenziali e persino un televisore non troppo antiquato. Sospirai di sollievo.

Il secondo non fu difficile da trovare: il frigorifero era pieno e persino funzionante.

Ok, tutto ciò era decisamente buono. Dopo la vernice scrostata al di fuori della casa e le chiavi sotto lo zerbino malandato mi ero aspettata topi che uscivano dalle credenze, un televisore ante-guerra e un frigorifero assolutamente sgombero se non per un paio di lattine di birra e degli avanzi di insalata appassita. 

E invece no! Formaggi, latte, burro, verdura, acqua in bottiglia, bistecche e persino un contenitore con del pesce.

Aprii uno sportello e trovai un sacchetto pieno di pane. Fresco, a giudicare dal profumo.

In mezzo alla tavola da quattro posti un cestino di frutta dall'aspetto invitante.

Curiosai nei vari scaffali in legno e trovai tutto l'occorrente per cucinare, e in più spezie, un sacchetto di caffè da macinare, diversi infusi per il tè, ciotole, contenitori, bicchieri. Passai ai cassetti sul piano da lavoro e trovai tovaglie, posate, tappi di sughero e qualche altro oggetto. Sotto il lavandino c'erano i detersivi e un capiente secchio pieno di stracci. Dietro la porta persino un'aspirapolvere. 

Ok, il tutto non era poi così male. Senza contare poi che data l'assenza del nonno avevo probabilmente tutto il tempo per sistemarmi ed esplorare la casa in tranquillità.

Finalmente le cose sembravano andare per il verso giusto.

Scostai le tende lasciando entrare la luce del sole nella stanza.

Guardai fuori.

La finestra si affacciava sul lato destro della casa. Fuori si estendevano prati e campi fino all'orizzonte, una casa qua e là. Il paesaggio era rilassante, certo, ma per una che come me era cresciuta tra mura di altissimi palazzi fatti di vetro, acciaio e cemento, era anche un po' strano. Vedere la vastità di tutto ciò mi dava un senso di claustrofobia al contrario. Come se fossi completamente allo scoperto, in un posto in cui non c'erano nascondigli. Mi sentivo piccola, ecco. Piccola e fuori luogo.

Sospirai e tornai in corridoio, sperando di ambientarmi presto in quel luogo.

Passai alla stanza di fronte. 

Un divano verde cupo, un largo tappeto tarlato, una poltrona di pelle color legno e un'enorme libreria piena di volumi polverosi che mi attiravano come una calamita. Decisi che una volta sistematami, quelli sarebbero stati la prima cosa di cui occuparsi. Alla sinistra della porta c'era un tavolo di mogano circondato da sei eleganti sedie coperte da cuscini rossi. Su di un mobile un'antica radio che mi fece venire in mente quella di cui cantava Freddie Mercury in "Radio gaga", con la sua luce che irradiava le giornate adolescenziali e regalava notizie al cantante. Ero molto affascinata da tutto ciò. I mobili sembravano sussurrare una vita di ricordi ed emozioni.

Mi costrinsi a lasciare la stanza e mi recai in quella accanto: il bagno. Un piccolo bagno fornito solo dei sanitari essenziali -wc e lavandino- più una vecchia lavatrice. Aprii l'oblò e mi corressi: una vecchia lavatrice piena di panni da asciugare e stirare. Un secchio poggiato in terra attendeva di essere riempito con la biancheria pulita.

Sospirai di nuovo. Avrei fatto anche quello, quindi.

Dopo il piccolo gabinetto vi erano delle scale di legno che portavano al piano superiore. Le salii con riluttanza tenendomi stretta al corrimano. Mi aspettavo che si sfondassero da un momento all'altro, in effetti. Tuttavia il mio pessimismo risultò superfluo.

Aprii la porta che dava sul secondo piano e mi trovai in una stanza da letto decisamente spoglia: un divano-letto in mezzo al pavimento, dei vestiti gettati sulle coperte sgualcite e alcuni in terra in mezzo alla polvere. Persino della biancheria -non ebbi voglia di verificarne la pulizia- su di un vecchio baule aperto, pieno di abiti spiegazzati e messi alla rinfusa.

A destra una porta aperta che mostrava un bagno molto più accogliente di quello al piano inferiore, fornito di vasca, bidè e anche doccia. (In uno troppo, nell'altro niente, insomma).

Dalla parte opposta c'erano altre due porte che scoprii nascondere due stanze da letto identiche nella loro semplicità, tranne per il fatto che nella prima c'era un letto matrimoniale rifatto frettolosamente e un libro sul comodino, mentre nella seconda un letto singolo, sul cui materasso erano piegate le lenzuola pulite. 

Evidentemente il nonno non era poi così sprovedduto: mi aveva preparato le lenzuola. 

Dopo una capatina al bagno, decisi di rimandare l'esplorazione della libreria del vecchio, e mi dedicai invece a portare le valigie nella mia camera e a preparare quello che sarebbe stato il mio letto per un bel po' di tempo. 

La mia mente bacata non si era chiesta nemmeno lontanamente perchè ci fossero ben tre letti, due dei quali sfatti. La verità era che ero troppo occupata a sistemarmi in modo da sentirmi a casa per notare altro che non fosse quell'unico gesto di consapevolezza del mio arrivo lasciato dal nonno: le lenzuola pulite sul materasso. Mi stavo aggrappando a quell'unico gesto come se fosse l'unica cosa a non farmi sprofondare nel pavimento polveroso. Ed era normale: mi era stato strappato tutto ciò che avevo e mi avevano spedita come un pacco postale in luogo che non conoscevo, da un vecchio parente che avevo visto solo in foto, il quale sembrava non sapere nemmeno che sarei arrivata. La mia politica per sopravvivere mi impediva di sfogarmi piangendo, sperando di riuscire a diventare più forte. Tuttavia la malinconia si faceva sentire nonostante i miei tentativi di trovare un lato positivo in tutto. 

Inoltre la mia mente romantica si stava chiedendo se quella non fosse stata un tempo la stanza di mio padre, quella in cui aveva dormito da bambino, in cui aveva giocato e in cui si era sfogato prendendo a calci tutto quanto o piangendo come se non ci fosse stato un domani. 

Avevo l'mp3 nelle orecchie e stavo sistemando il cuscino dentro la federa, canticchiavo. Ripiegai il lenzuolo in un bel risvolto e sospirai. Uno dei lavori era concluso. I vestiti li avrei messi nell'armadio con comodo, ora mi attendevano quelli sporchi nel bagno al piano di sotto.

Freddie Mercury cantava dentro gli auricolari. Andai a scostare le tende alla finestra e mi incantai nuovamente ad osservare fuori. Non sapevo cosa pensare. 

Don't stop me now

I'm having such a good time 

I'm having a ball 

Il senso di smarrimento continuava a pervadermi ogni volta che mi rendevo conto di essere in mezzo al nulla. 

Don't stop me now 

If you wanna have a good time just give me a call 

Sospirai per l'ennesima volta da quando ero arrivata in quel posto. Mi sembrava di essere diventata una locomotiva. Il trenino Thomas, ecco. Quello che guardava Joshua da piccolo su PlayHouseDisney. Bè, lo guardavo anche io, in effetti. Ma non mi era mai piaciuto.

Erano sempre andate così le cose. Joshua decideva, il mondo si piegava al suo volere. Nemmeno fosse Dio in terra. Feci una smorfia e ascoltai le parole del cantante...

Don't stop me now ('Cause I'm having a good time) 

Don't stop me now (Yes I'm havin' a good time)

I don't want to stop at all 

...poi mi voltai per andare di sotto, rincuorata un po' dalla carica che mi dava la canzone.

Gridai di spavento, mentre gli auricolari mi venivano strappati per la seconda volta in quella mattina: un ragazzo alto e biondo mi fissava in cagnesco. "Che diavolo ci fai qui?" mi chiese, burbero. No, mi correggo: incazzato. Era proprio incazzato.

E la cosa mi diede sui nervi. Io ero in casa mia! O almeno, in quella che presto lo sarebbe stata. "Cosa diavolo ci fai TU, qui? Questa è casa di mio nonno!"

"Io qui ci vivo!" sbuffò lui, lanciando il MIO mp3 sul letto, con noncuranza. Quel tipo mi dava già sui nervi. 

Fissai il ragazzo in cagnesco per qualche istante. "Bè, anche io!" 

"Che diamine dici?" domandò, irritato. Io lo fulminai con lo sguardo, mentre iniziava a misurare la stanza a grandi passi. Prima che potessi rispondere si bloccò di colpo e si voltò fissandomi con astio. "Sei la nipote."

"Cacchio, sei acuto." Gli avevo appena detto che Abraham era mio nonno. "Vuoi una medaglia?"

Lui fece una smorfia e finse di ridere della mia battuta. "Simpatica. Sei proprio una principessina di città." sputò quelle parole come un insulto. 

Mi sforzai di non mettermi a sbraitare. Tutta quella situazione, dalle pecore a quel tizio pieno di sé era incredibilmente irreale e frustrante. "E tu, di grazia, chi sei?" cercai di rimanere tranquilla, con scarsi risultati. L'irritazione trasudava dal mio tono di voce, me ne rendevo conto persino io. 

"Dean" si limitò a rispondere, sbuffando.

Thomas. Il trenino Thomas. Ritiravo tutti i pensieri di poco prima: decisamente era LUI il trenino Tom. Sbuffava e mi irritava. Io ero una delle povere locomotive che dovevano sorbirselo, probabilmente.
Dean.
Thomas.
Dean Thomas! E inevitabilmente, come una perfetta cretina, gli scoppiai a ridere in faccia.

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Capitolo 4
*** 4 ***


Cows and jeans
 
4


 
Dal baratro del mio folle umorismo potteriano me la ridevo della grossa, senza dare segno di riuscire o volere smettere.
Dean mi fissava in cagnesco, senza proferir parola. Si limitava a fissarmi con più astio possibile. Evidentemente però non aveva bisogno di impegnarsi per farlo.
Sicuramente quell' improvvisa (?) pazzia era dovuto al nervosismo che avevo accumulato quel giorno. Non che mi fossero capitate le più grandi disgrazie, ma per i nervi di chiunque sarebbe stato troppo resistere a tutto ciò senza alcuno sfogo. 
Ero a digiuno di sfoghi da tre giorni, ovvero da quando mi era stata comunicata la mia immediata partenza.
Avevo sopportato in silenzio, impassibile o con un mezzo sorriso stampato in faccia,  la furia dei miei genitori e di George, le proteste di mio fratello, le sue accuse, il pianto e le preghiere della mia migliore amica che non voleva partissi. A tutto questo si era poi aggiunta Sperdutolandia e tutte le sue care pecore, l'assenza di campo, l'assenza ancora più irritante del nonno, il senso di piccolezza che guardare fuori dalla finestra mi infondeva e ora quel tizio che era comparso in camera mia e mi stava odiando dal profondo del cuore.
Perchè mi odiava, era chiaro.
Finiva sempre così quando la mia cisterna di sopportazione raggiungeva il limite. Scoppiavo a ridere come un' isterica per qualche sciocchezza e faticavo parecchio a smettere. Cosa che poteva essere decisamente frustrante e imbarazzante, ma preferivo questo sfogo a quello che invece mi toccava più spesso: la crisi di pianto isterico in piena notte.
Impiegai tutta la mia forza di volontà per smettere di ridere, e quando finalmente ci riuscii mi asciugai gli occhi, dai quali erano sgorgate copiose le lacrime -alcune di ilarità, altre di nervoso.
Molto divertente" sputò, astioso.
"Perdonami, non è per te" cercai di giustificarmi, un sorriso di scuse in volto. In effetti non era per niente per lui che ridevo. Era il mio folle bisogno di sfogarmi e ridere che aveva fatto tutto da solo, reagendo in conseguenza dei miei sconclusionati e confusi pensieri.
"Non che mi importi"
Lo trucidai con lo sguardo. La gentilezza non era proprio il suo forte. E dire che mi ero persino scusata! "Non che avessi intenzione di esporti le mie motivazioni" replicai, acida come una vecchia zitella di quelle che vivono da sole in enormi case dove ospitano solamente gatti. Una specie di Madama Pince in versione Babbana.
Mi maledii mentalmente per la mia dannata fissazione con Harry Potter.
Dean sbuffò e mi squadrò dall'alto del suo metro e ottantacinque, a occhio e croce.
Io lo fissai in cagnesco dal basso del mio metro e sessantuno. 
"Sembri Abraham in versione principessina dei nani"
"Come mi hai chiamata, scusa?" boccheggiai, indecisa se ridere o offendermi per quell'osservazione. Ero sempre stata piuttosto suscettibile riguardo alla mia altezza e al mio assomigliare ad una bambina.
"Piccola principessa dei nani?" ghignò. "Ti da fastidio?"
"Secondo te?" sbottai, incrociando le braccia, un' espressione degna del cipiglio severo della McGrannit. Ora basta seriamente, Pan!
"Sì" constatò, soddisfatto. "Buono a sapersi"
Non lo sopportavo già più. "Cosa hai detto che ci fai tu qui?"
Lui ghignò e si gettò a sedere sul letto che avevo appena finito di sistemare. "Ci abito"
"Non hai una casa tua?" non feci in tempo a mordermi la lingua, altrimenti avrei evitato quella frase. Poteva essere parecchio offensiva, specialmente se quel ragazzo non avesse avuto veramente un altro posto in cui stare. Mi era venuta d'impulso, vedendo quel tizio rovinare il lavoro che aveva occupato la mia ultima mezzora. Non ero portata per i lavori di casa, no. Non ero portata per quasi niente a dirla tutta, al di fuori della mia oziosa routine: lettura, musica, canto, litigi con Joshua, sopportazione delle imprecazioni di papà, mamma e George, chiacchierare con Emily e poi relax. 
Lui inarcò un sopracciglio. "Certo che ce l'ho. Tu non ce l'hai?"
"Ci sono dentro, no?"
Lui rise. "Ok, punto tuo. Lavoro per Abraham" spiegò.
"Ottimo. Ma questo non è direttamente proporzionale al fatto che tu sia seduto sul mio letto" replicai, fredda. 
Il vivi e lascia vivere non era una filosofia di vita che faceva per me. Quella era di Emily. Io ero più un tipo da occhio per occhio, dente per dente, non sempre, ma quando mi sentivo attaccata non c'era santo che tenesse, non potevo rimanere in silenzio e sopportare. Quando papà mi aveva cacciato di casa, avevo taciuto solo perché consapevole di essere caduta veramente in basso. Era stato un evento piuttosto raro, in effetti. Se l'avesse fatto mamma non avrei sopportato in silenzio.
"Sono in pausa"
"Sei in pausa sul letto che avevo appena fatto, allora"
"Tanto lo devi usare stasera"
"Ottimo. Quindi non rifarò il tuo, ora che so come la vedi. Un lavoro in meno"
Dean si alzò e varcò la soglia della mia stanza. Si tolse la maglia con un gesto fluido e la lanciò in mezzo al pavimento, per poi andare verso il baule ed estrarne una pulita. "Non ti ho chiesto di farlo" osservò, abbozzando un sorriso. Quando scorse il rossore che-maledetto- mi aveva pervaso le guance quello si trasformò in una vera e propria risata di scherno. "Ti sei scandalizzata per così poco?" mi prese in giro, infilandosi la t-shirt bianca.
Per quanto, dovevo ammetterlo a me stessa, quel ragazzo avesse un fisico da far sbavare la più rigida, fredda e insensibile ragazza del mondo, non avrei lasciato che si prendesse gioco di me in quel modo. A costo di mettermi in ridicolo da sola. Almeno sarei stata io -che ne avevo il permesso- a farlo. "Di certo non per così poco. Ho visto di meglio" dissi, senza alcuna inflessione della voce. Gli voltai le spalle e risistemai il lenzuolo che Dean aveva sgualcito, cercando di riprendermi. 
Visualizzando nuovamente nella mente -cosa che non avrei dovuto assolutamente fare- il fisico di Dean, osservai che era -sì- muscoloso, ma non esageratamente. Ironia della sorte: proprio il genere di muscolatura che piaceva a me. Forte, tonica, ma non troppo evidenziata. 
Sbuffai silenziosamente, mentre cacciavo quei pensieri dalla mia mente. 
"Dov'è mio nonno, a proposito?" mi voltai, cercandolo con lo sguardo, ma non c'era più. 
Uscii dalla mia stanza, incredula e diedi un' occhiata in bagno e nella stanza di Abraham, ma non era nemmeno lì.
Se ne era andato!
Sgattaiolai al piano di sotto e sentii armeggiare con delle bottiglie. Entrai in cucina e lo fulminai con lo sguardo. "L'educazione non deve essere il tuo forte. Io stavo parlando con te"
Lui si versò un bicchiere di latte e finse di dispiacersi, evidentemente divertito. "Oh, mi spiace!" esclamò. "E dire che pensavo fosse opportuno lasciarti sola con le tue fantasie. Non volevi un po' di privacy?"
Mi morsi la lingua per non essere volgare e insultarlo come facevo con mio fratello -l'unica persona con cui sfogassi tutta la mia riserva di sofisticati epiteti scurrili. Lui parve notare questo mio enorme sacrificio, perchè mi scoppiò a ridere in faccia prima di scolarsi il latte e mollare il bicchiere sul tavolo.
"Quando torna mio nonno?"
"Questa sera, quando è ora di chiudere le galline. Non vuole che lo faccia io"
"Non ha tutti i torti. Nemmeno io mi fido di te" sputai, conscia che fosse un commento totalmente fuori luogo.
"E' reciproco, principessa." mi sorrise, strafottente. Attraversò la stanza e si fermò sulla porta, a pochi passi da me, guardandomi dall'alto e facendomi sentire tremendamente piccola. "Ad ogni modo, è meglio che io torni al lavoro. Vedi di sbrigare qualche faccenda: Abraham non apprezza gli scansafatiche"
Sbuffai e annuii.
"A dopo, principessina degli gnomi" soffiò, uscendo a grandi passi dalla casa. 
Quando si fu chiuso la porta alle spalle, mi abbandonai ad un rumoroso gemito di frustrazione e feci una smorfia. Dopodichè decisi di rimboccarmi le maniche. Avrei fatto vedere a quello spaccone di che pasta era fatta la principessa degli gnomi. 
 
"...di gomma piuma!" sbuffai, frustrata, due ore dopo.
Ero finalmente riuscita a far partire quel catorcio che avevo osato definire una lavatrice.
Avevo messo ad asciugare tutti i panni del secchio lungo gli appositi fili che erano tesi nel cortile sul retro, ignorando i commenti acidi di Dean, che zappava la terra nell'orto lì accanto. 
Ero tornata dentro e avevo recuperato tutti i panni sporchi che avevo trovato sparsi per la stanza di mio nonno, di quella testa bacata e nel ripostiglio, e li avevo divisi secondo il lavaggio in diversi mucchi, cercando di non prestare attenzione ai pessimi odori che provenivano da quell'ammasso di stoffe che i due uomini avevano usato per lavorare. 
E ora avevo concluso il bucato. Finalmente.
Senza pensarci due volte me ne andai in camera mia, infilai gli auricolari nelle orecchie e mi gettai sul letto. Avevo bisogno di riposarmi un po'. Più tardi avrei dato un'occhiata a quei bellissimi libri giù in salone...

In der Ecke - Nell'Angolo:
!Hola chicas!
^w^ ci ho messo un secolo, ma sono tornata. :3
Ringrazio di cuore le anime pie che mi seguono, in qualche modo.** 
Ho dovuto finire di preparare il regalo di Natale per le mie amiche, è per questo che ci ho messo tanto tempo. Pubblicherò probabilmente anche quello, dopo Natale, però, altrimenti rovino la sorpresa. :3
marypao temo di non averi risposto alla recensione D: ...perdonami! :(
Dicevo... finalmente ci sono le vacanze! Ho già un po' di cose in mente da scrivere più avanti... questi capitoli sono un po' noiosi, in effetti. Era tanto che non improvvisavo una storia giorno per giorno, in effetti. Mi dispiace se non soddisfa le vostre aspettative, cercherò di migliorare. Per ora vi ringrazio infinitamente per aver letto, recensito, inserito la storia tra le preferite, seguite o ricordate! :3 
E ne approfitto per farvi gli auguri, non sapendo se mi farò trovare prima di Natale! Auguri a tutti! ♥

Yvaine0

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Capitolo 5
*** 5 ***


Cows and jeans
 
5


 
Ero sotto il getto tiepido dell'acqua calda, nella speranza di riuscire a rilassare le mie povera membra stanche. 
Pensando quelle parole mi resi conto di somigliare ad una vecchietta brontolona, ma dopo la giornata che avevo trascorso ne avevo tutto il diritto. Ero giunta alla conclusione che la mia permanenza a Sperdutolandia -da questo momento il nome ufficiale per quel luogo del caz- cavolo- sarebbe stata degna di quella dei dannati nell'Inferno di Dante Alighieri.
Come mai tutto questo pessimismo? Alla fine l'avevo conosciuto. Mio nonno, il vecchio Abraham -Abe- Fletcher. 
Poco dopo essermi messa a letto, mi ero rialzata. La tensione accumulata era troppa e non ero riuscita a chiudere occhio, per cui avevo deciso di mettermi a spolverare quella casa che sarebbe stata la mia per un bel po' di tempo. 
Mentre con uno straccio toglievo la polvere dai quadri nell'entrata , la porta si era spalancata e lui era entrato.
I nostri sguardi si erano incrociati e il cuore aveva iniziato a battermi fortissimo, terrorizzata da ciò che lui avrebbe potuto pensare di me. Non ero in grado di parlare; non avevo la minima idea di cosa dire, fare o pensare, così ero rimasta impalata sul posto. Avevo abbassato lo sguardo, spostato lentamente le mani dietro la schiena e avevo iniziato a dondolare sul posto, nel più completo imbarazzo. 
Abraham mi fissava, silenzioso. Sul suo volto si erano alternate diverse emozioni: prima sorpresa, poi confusione. Seguite da irritazione e rimprovero. 
"MCDONNEL" aveva rotto il silenzio all'improvviso con un grido che mi aveva fatto trasalire e alzare spaventata lo sguardo. "Quante volte ti ho detto di non portare le tue amichette in casa mia?!"
Quelle parole mi avevano colmata della più profonda delusione in un istante.
Non sapeva nemmeno che ero lì.
Dean si affacciò alle scale, dal piano di sopra mentre se la rideva sotto i baffi. "Ad essere sinceri, nemmeno una Abe" ribatté, divertito.
"Ed evidentemente ho fatto male" brontolò l'uomo spostando lo sguardo di rimprovero su di me.
A quel punto, rossa di indignazione, non ero riuscita a tenere a freno la lingua. "Io non sono un'amica di quel tizio" avevo precisato, frustrata. "Sono tua nipote!" avevo sputato con tutta la rabbia che mi stava salendo dentro, ma a voce non troppo alta.
"Oh" aveva borbottato, sgranando leggermente gli occhi. Dopodiché si era lasciato cogliere da un forte e palpabile imbarazzo che tuttavia non aveva fatto che aumentare la mia irritazione. Era rimasto lì impalato ad osservarmi, cercando più volte di dire qualcosa ma bloccandosi alla vista della mia rabbia.
Non avevo parole, sentivo solo una profonda delusione. In quel momento avrei pagato qualsiasi cifra per potermi voltare e tornare a casa mia, dove avrei dovuto sì sopportare i rimproveri di mia madre e George e gli insulti e le derisioni di Joshua, ma almeno ci sarebbe stato mio padre e ci sarebbe stata Emily, le uniche persone al mondo a cui importasse qualcosa di me.
"Vorrei andare a farmi una doccia" avevo detto, fredda, dopo aver respirato a fondo. Non potevo andarmene, tanto valeva evitare quei pensieri e adattarsi alla situazione. Come al solito.
Dean aveva ghignato, pregustando il sapore di ciò che Abraham stava per dirmi e la mia conseguente espressione.
L'uomo aveva annuito, mentre cercava di mascherare l'imbarazzo con una risoluta severità che probabilmente doveva contraddistinguerlo in normali circostanze. "Al massimo dieci minuti e l'acqua più fredda possibile"
A quel punto mi ero lasciata sfuggire un "Cosa!?". Cosa pensava potessi farmene di una doccia fredda, quel vecchio rimbambito?! E va bene, era estate, era Luglio! Ma io avevo passato tutta la mattina in viaggio su un lurido treno e ora ero in una casa polverosa e avevo i nervi così tesi che avrebbero potuto spezzarsi da un momento all'altro! 
"Regola numero uno: se vuoi rimanere qua, devi darti da fare. Regola numero due: devi guadagnarti con dei lavori extra ogni lusso che ti prendi. Numero tre: la colazione è alle sei, il pranzo alle dodici e la cena alle sette. Ritarda a tavola e salti il pasto. Numero quattro: ognuno sistema, riordina e pulisce ciò che usa."
Mi ero sforzata di non mandarlo a quel paese, e avevo annuito, la frustrazione alle stelle. "Posso fare una domanda?" avevo aggiunto, la voce traboccante sarcasmo.
"Regola numero cinque: si fa conversazione a tavola, per il resto si lavora. Chiaro?"
Sgranai gli occhi e mi lasciai sfuggire uno sbuffo di indignazione. Dov'ero finita, in un campus militare?! Avevo annuito, rendendomi conto dell'assurdità della situazione. Tuttavia la comicità velata di tutto ciò non era decisamente abbastanza per migliorare il mio umore. Anzi, lo stava facendo peggiorare: mi sentivo persino presa in giro dalla sorte. "Ottimo.C'è altro che dovrei sapere?" non avendo ottenuto risposta, avevo sbuffato. "Bene, ora metto io una regola. Pregherei che il biondino qui presente stesse lontano dal bagno per i prossimi dieci minuti. Credo sia il minimo."
Dean rise. "Ti concedo quindici minuti, principessina." aveva commentato, irrisorio. "poi verrò ad accoglierti!"
Lo avevo fulminato con lo sguardo, non ero decisamente in vena di certe cretinate, al contrario suo. 
"Non dire fesserie, McDonnel" era sbottato Abraham. "Ha ragione..." mi aveva guardato interrogativo, in attesa di un completamento per la frase.
Sentii il cuore cadere nel vuoto per andare ad infrangersi sul pavimento.
Non sapeva nemmeno il mio nome.
Avevo una voglia assurda di scoppiare a piangere e andarmene lontano da lì per non tornare mai più. Era il mio unico parente nel raggio di chilometri e chilometri, dannazione! Era mio nonno! E non sapeva nemmeno come mi chiamassi! 
Avevo stretto i pugni forte, fino a farmi sbiancarmi le nocche e cercando di rispedire le lacrime indietro avevo risposto "Pan" con astio. Avevo bisogno di Emily, subito. Sentivo un bisogno disumano di piangere e frignare come una bambina. Mi sentivo dannatamente stupida, perchè ci avevo anche sperato! Mi ero illusa! Avevo sperato di poter trovare un posto adatto a me, avevo sperato che a quel tizio fregasse qualcosa di me! Speravo di trovare qualcuno che potesse capirmi lì, ma evidentemente Lily era l'unica persona al mondo in grado di farlo.
Gli occhi mi bruciavano terribilmente e in gola avevo un groppo così grosso che faticavo a deglutire la saliva e a respirare.
"Pan. Ha ragione Pan. Vai a fare da mangiare, tu e non mettere piede al piano di sopra finché non ti avrà detto di essere presentabile. E tu sbrigati, fra poco più di mezz'ora si cena." aveva concluso, voltandosi per andare nel salotto.
Ed ora ero sotto il getto tiepido dell'acqua. Non avevo pianto una sola lacrima, mi ero sforzata di non farlo. La doccia stava risanando leggermente il mio umore sciogliendo la tensione e la rabbia, tuttavia la delusione era troppo forte per essere lavata via.
Sentivo un bisogno irrefrenabile di un abbraccio. Avevo bisogno di affetto. Mi avevano cacciata dal mio orribile mondo ed ero capitata in uno che era anche peggio, in cui non c'era assolutamente nessuno a cui importasse di me.
Il groppo in gola era ancora lì, deciso a rimanerci ancora a lungo. Io odiavo quella sensazione di oppressione che mi impediva di respirare bene e decisi che l'avrei ignorato finchè non se ne fosse andato. 
Dicono che se una cosa non uccide fortifica. Probabilmente anche quell'ennesima delusione che avevo ricevuto nel corso della mia vita mi avrebbe resa più forte una volta per tutte. 
Uscii dalla doccia e mi avvolsi nel mio vecchio accappatoio arancione. Non vedevo l'ora di poter andarmene a dormire. 
Guardai l'orologio nella mia camera e mi accorsi di aver fatto una doccia di quindici minuti. Non l'avevo fatto di proposito, ma decisi di prenderla come una rivincita principale. Mi vestii in fretta e scesi in cucina, i capelli ancora bagnati.
"Suppongo di non poter usare il phon" commentai acida, entrando nella stanza. 
Dean diede un'alzata di spalle. "Certo che puoi. Ma noi non ce l'abbiamo." 
Sospirai, esasperata. "E va bene" se la giornata aveva deciso di andare nel peggiore dei modi, le avrei lasciato avere il suo corso, remissiva. Era inutile cercare di combattere a quel punto della giornata, dopo un viaggio piuttosto lungo, degli incontri difficili, lavori domestici e troppe emozioni negative. Avrei semplicemente aspettato che il giorno volgesse al termine e me ne sarei andata a dormire nella speranza che la mattina seguente sarebbe iniziata leggermente meglio.
Decisi di aiutare Dean apparecchiando la tavola. Durante la mia esplorazione pomeridiana avevo scoperto dove stavano quasi tutte le cose, e grazie alla mia memoria fotografica niente male, ricordavo ancora dove stavano. Misi la tovaglia e iniziai a prendere le stoviglie da sistemare. "Mio nonno ha detto che ti chiami McDonnel, giusto?" chiesi, cercando di intavolare una conversazione civile.
Lui grugnì un 'sì' mentre rimestava con un mestolo dentro una pentola.
Quel cognome l'avevo già sentito quel giorno. Forse... "...per caso sei il fratello di- ?"
Lui sbuffò e si voltò a fulminarmi con lo sguardo, battendo un pugno sul mobile della cucina. "Sì, sono il fratello di Matthew" sbottò con rabbia.
trasalii, spaventata dal suo scatto d'ira. Che cavolo prendeva pure a lui? Era schizofrenico?! Ci mancava solo quella! Forse, ad ogni modo, dovevo essermi sbagliata. "E chi è? Pensavo fossi il fratello di Agatha. Mi sembra di ricordare che anche lei si chiami McDon-"
"Certo che è mia sorella, principessina. Quanti McDonnel vuoi che ci siano in paese?!" sbuffò, tornando a preparare la cena, senza abbandonare la rabbia.
"Come diavolo pensi che possa saperlo?!" scoppiai, portando via i piatti puliti. Li posai sulla tavola con rabbia, facendoli risuonare nel silenzio della stanza.
"Regola numero sei: chi rompe paga. Regola numero sette: chi trasgredisce alle regole salta un pasto a sua scelta." Abraham era comparso nella stanza e con aria severa mi rimproverò con lo sguardo per aver battuto le stoviglie sul tavolo. Doveva essere una caratteristica dei Fletcher organizzare secondo un elenco di punti la loro vita, notai con irritazione e una buona dose di ironia.  "Hai passato troppo tempo sotto la doccia" mi comunicò, fissandomi inespressivo.
'E CHI SE NE FREGA!' urlava la mia mente, mentre il groppo che avevo in gola si ingrandiva facendomi faticare ancor più a respirare. Era possibile che qualunque cosa facessi quella sera volgesse a mio sfavore? Persino cercare di far conversazione con Dean aveva portato alla sua furia! "Hai intenzione di farmi saltare la cena? Se ci tieni a saperlo ho già saltato il pranzo, quindi mi sono già punita" risposi con irriverenza, frustrata. 
"No, non ho intenzione di farlo. Non oggi. Devi ancora abituarti alle regole, quindi per oggi ti risparmierò la punizione."
Sospirai. Almeno quella era andata bene. "Finisci di apparecchiare, tra cinque minuti deve essere in tavola"
Che diavolo aveva nel cervello quel vecchio? Un orologio svizzero?! Era forse un parente del Bianconiglio, fissato con gli orari com'era?!
Finii di apparecchiare in silenzio, cercando di far sparire la mia tristezza, o quantomeno di arginarla. Non ci riuscii e quando finii di mangiare mi offrii di lavare io i piatti. Abraham aveva risposto con un "Regola numero quattro: ognuno..."
"Sì, sì, ognuno pulisce, riordina, sistema ciò che usa. Me lo ricordo. Cercavo solo di essere gentile" lo interruppi in un sussurro, mentre andavo al lavabo per lavare le mie stoviglia. 
Non appena finii lasciai il posto a Dean per lavare il suo piatto e decisi di andare a coricarmi il prima possibile. L'unica cosa che volevo era che quella giornata finisse. Ero stanca fisicamente, ma soprattutto psicologicamente.
Prima di andare a dormire dovevo fare una cosa, però. "Dovrei fare una telefonata" comunicai a mezza voce. Ero sicura che la mia rassegnazione mista a delusione fosse evidente sul mio volto. Non ero mai stata troppo brava a nascondere i miei sentimenti, ma non era mai stato un problema: a nessuno era mai importato molto di quelli. Eccezion fatta per Emily e papà. "Userei il cellulare, ma non c'è campo." O meglio, c'erano troppi campi, ma nessuno serviva alla linea telefonica.
Abraham annuì. "Domani mattina"
"Domani?"
"Non mi pare il momento adatto per andare in paese. E poi il bar sta per chiudere."
In paese? Questo significava che non c'era un telefono in quella casa!
La mia espressione scioccata fece sghignazzare Dean. Quel ragazzo si divertiva come un matto alle mie spalle, e senza preoccuparsi di non darlo a vedere, per giunta. "Va bene" cercai di darmi un contegno. "Quindi fino a domani mattina i miei non sapranno se sono viva, morta o dispersa, suppongo". 
Non che gliene importasse qualcosa, in fondo. Altrimenti non mi avrebbero spedita laggiù nelle mani di un uomo che non sapeva nemmeno il mio nome.
"Non credo sia un problema per loro aspettare fino a domani mattina"
"Già. In effetti lo credo anche io" brontolai, abbassando lo sguardo. Avrei voluto chiedere se avessi dovuto pagare la telefonata, ma era ovvio. Era un telefono pubblico, sicuramente, o comunque, essendo in un bar, supposi che il barista avrebbe dovuto traerne qualche profitto.
"Buona notte" borbottai, uscendo dalla sala.
Mio nonno mi rivolse un grugnito di saluto e Dean non rispose.
L'educazione non era il loro forte.
Nemmeno l'umanità doveva esserlo o avrebbero capito come diavolo potevo sentirmi in una situazione simile.
Chiusi la porta della mia camera e mi cambiai in fretta, poi mi raggomitolai sotto il lenzuolo che al momento di fare il letto avevo sperato il nonno avesse preparato per me. Molto probabilmente invece lo aveva solo dimenticato lì dopo averlo lavato. Sospirai e affondai il volto nel cuscino. Avevo bisogno di Emily, urgentemente. Ma avrei aspettato l'indomani.
Probabilmente avrei chiamato lei invece che mia madre, George o papà. Sarebbe stata la mia migliore amica a spiegar loro la situazione, tanto non mi avrebbero ascoltato. I primi due erano troppo presi dal rammaricarsi per come non ero e il secondo troppo deluso dal mio comportamento per potermi ascoltare. Magari le parole della buona e dolce Emily Gregor avrebbero invece fatto qualche effetto. Non sapevo esattamente quale effetto volevo avessero le parole di Lily sulla mia famiglia. Non sapevo cosa volevo. Volevo solo dormire in quel momento. I miei pensieri erano sconnessi e senza un filo logico. Erano i pensieri di una ragazza che non voleva piangere, voleva prendere in mano la sua vita e far vedere al mondo di che pasta era fatta, senza però che nemmeno lei lo sapesse.
 
In der Ecke - Nell'Angolo:
Buon pomeriggio gente!
Spero che questo capitolo non sia troppo noioso. E' stato un vero e proprio PARTO scriverlo. Prima l'ho iniziato a scrivere al pc, ma poi ho dovuto staccare. Quindi ho ricominciato a scriverlo sul quaderno degli appunti, ma non mi convinceva, quindi ho strappato la pagina e ho iniziato da capo. Poi sono rimasta due giorni in blocco, non sapendo come introdurre l'arrivo del nonno.
Poi, ... flash!
Mi sono illuminata. ** E una sera mi sono messa a buttare giù una bozza. Ho scritto pagine e pagine, poi... mia mamma mi ha staccato internet e ho perso tutto. D: Ci sono rimasta malissimo. D:
Però alla fine ce l'ho fatta! ^^
Spero solo non faccia troppo schifo. :D
Grazie mille per le recensioni ^^ sono cresciute, non me lo aspettavo :D
Grazie mille :D:D
Buone feste :),
Yvaine0

 

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Capitolo 6
*** 6 ***


Cows and jeans
 

6

 



La mattina seguente mi svegliai a causa di qualcuno che assestava forti colpi alla porta della mia stanza. “Muoviti, principessa!”
Lo stordimento post-riveglio, che solitamente mi accompagnava fino a metà mattinata, svanì in un istante. Il solo appellativo “principessa” pronunciato o meno con scherno bastò a farmi ricordare di non essere a casa mia. Quella semplice parola aveva attivato il mio cervello facendo sì che i ricordi della giornata precedente mi si riversassero addosso come una secchiata d’acqua gelata. I sentimenti negativi che la notte aveva fatto assopire si ridestarono in un batter d’occhio e vestirono in fretta gli abiti di una profonda rabbia ornata di frustrazione. Svanito l’effetto più o meno rilassante della doccia, era inevitabile che questa tornasse a farmi visita, e in un certo senso fu un bene. Preferivo decisamente la rabbia alla tristezza che mi bloccava il cervello in una fase di pessimismo e inattività. Con la furia invece, ero sempre portata a reagire. Ora nessuno poteva impedirmi di prendermela col mondo intero.

“Sta’ zitto!” brontolai, affondando il volto nel cuscino, cercando di ricordarmi come si usava il mio corpo. Quelle semplici parole bastarono a far capire a Dean che era riuscito nel suo intento, che quello fosse svegliarmi o farmi arrabbiare prima ancora di prendere conoscenza.
Mentre cercavo di capire come fare per riuscire a muovermi come una persona normale anzichè come un gorilla scoordinato e mi rivestivo in fretta, capii che se non volevo passare una giornata come la precedente mi sarei dovuta appoggiare al mio Manuale di Sopravvivenza e così feci.
Regola numero uno: non piangere.
Ero abbastanza sicura di non star piangendo. Anche perchè ero più arrabbiata che disperata, in quel momento. Tuttavia mi tastai le guance e battei le palpebre più volte, testando che le prime erano asciutte, mentre gli occhi erano privi di quel senso di “secchezza” che li riempiva dopo aver pianto.
Capii di non aver pianto nemmeno nel sonno e ne fui soddisfatta. La piccola Pan, forse, stava riuscendo a farsi forza e ad affrontare la vita come un’adulta.
Respirai a fondo per far fronte anche alla seconda delle regole, e recuperai un po’ di calma. Decisi di aprire la finestra per cambiare aria, mentre mettevo in moto il cervello per trovare i tre fattori positivi nella situazione. Quella era la fase più importante del procedimento, in modo da riuscir sempre a vedere con ottimismo ogni situazione e non sprofondare nello sconforto.
Spalancai i vetri e guardai fuori, respirando a fondo. L’aria fresca e pulita mi riempì i polmoni, mentre la luce rosea e celeste del sole non ancora sorto mi riempiva il cuore. Non mi ero mai svegliata così presto da vedere il sole sorgere.
Guardai rapidamente l’ orologio a muro e scoprii che erano le cinque e mezza.
No, mai così presto in vita mia.
Inspirai a pieni polmoni nuovamente, godendomi quel senso di pulizia che l’aria pura lasciava nella mia mente e dentro il mio torace.
L’ultima volta che avevo assaporato aria così limpida era stato in montagna, durante una delle vacanze annuali della mia famiglia in hotel di lusso. Avevo sempre pensato che andare a vivere in campagna fosse la cosa più bella del mondo. Questo ovviamente prima che fossi spedita come un pacco postale a Sperdutolandia, dove la vita procede scandita dalle regole di un vecchio scorbutico  privo di tatto, la doccia va fatta fredda e breve –come se fosse umanamente possibile stare a lungo sotto un getto d’acqua gelida!- e gli errori vengono puniti lasciandoti senza mangiare ...Ma, miseriaccia, nemmeno nel Medioevo! E che cavolo!
Sbuffai e guardai l’orizzonte. Il paesaggio era indubbiamente stupendo a quell’ora, con la luce rosea del sole non ancora sorto del tutto a pitturare la terra e il cielo come in una fiaba.
Come poteva quel luogo stupendo essere il mio girone dell’ Inferno? Di certo la mia pena non era stata scelta per contrappasso, visto che la solitudine della città mi aveva seguita fino a là, e anche il senso di inadeguatezza.
Ma dove diavolo era il posto adatto a me? Ero destinata a passare da un luogo ad un altro, spedita come un pacco postale da persone stufe della mia apatica e noiosa presenza?
Diedi un pugno al davanzale. Non potevo permettermi di farmi prendere dallo sconforto fin dalla mattina presto. Riportai con la forza la mente al mio Manuale di sopravvivenza e sospirai.
Non era giusto riutilizzare gli elementi positivi del giorno precedente, quindi misi in moto il cervello per trovarne altri tre nuovi. Il primo era sicuramente non essermi lasciata prendere da una delle mie crisi di pianto. Ne trovai altri due decisamente poco validi: avevo visto l’alba e non ero in ritardo per la colazione. Non ancora, almeno. Non erano abbastanza per costituire gli ultimi due elementi favorevoli, quindi decisi di unirli per formare insieme il secondo. Per quanto riguardava il terzo...
Persi lo sguardo nell’orizzonte finchè non sentii un rumore provenire da sotto di me.
Mi sporsi dal davanzale e vidi il nonno camminare goffamente fino al pollaio –che fortuna!, era proprio sotto alla mia finestra- e aprire il chiavistello facendo uscire le galline.
Alzò lo sguardo e mi vide.
Indugiò qualche istante poi abbozzò un sorriso tipico di chi non è abituato ad essere gentile. Chissà perchè non l’avrei mai messo in dubbio.
“Buongiorno” borbottò, imbarazzato dal tentativo di gentilezza.
Mi sforzai forse più di lui per non chiudere la finestra senza rispondergli e lo salutai con la mano, incerta. Insomma, non volevo che pensasse fossi un’ingrata, era pur sempre mio nonno. Però ero arrabbiata. Ma... oh, e che cavolo! Ero lunatica, ok? Il fatto che mi avesse riservato quella minuscola attenzione –nonostante sapessi che il saluto non si nega a nessuno- mi aveva riempito di nuova speranza.
Richiusi la finestra e sorrisi tra me. Bene, se quella piccola scintilla di speranza –che ovviamente era diventata il mio terzo punto positivo- si era riaccesa l’avrei alimentata io, e l’avrei sfruttata per illuminare un po’ quella zona ombrosa che mi circondava. Non potevo di certo considerarla oscurità, alla fine non era così tanto tragica la situazione.
E così, risollevatami con l’aiuto del mio Regolamento, scesi in cucina prima delle sei e, accertatami che Dean fosse ancora chiuso in bagno, preparai la colazione per tutti e tre.
La prima impressione era stata orribile. Sia la mia su quel luogo, sia quella del luogo su di me, evidentemente.
Mentre consumavamo le frittelle che avevo preparato mio nonno se ne uscì con un “Non sono male” che mi riempì mio malgrado di orgoglio. Insomma, sapevo di non essere una maga ai fornelli, a dirla tutta non cucinavo quasi mai, tranne quando riuscivo a convincere i miei a lasciarmi a casa da sola con la scusa del molto studio mentre loro si trascinavano Joshua da qualche parte per il weekend. Però il fatto che qualcuno mi dicesse che stavo facendo qualcosa di giusto mi diede un’ulteriore carica. Allora non mi rendevo conto di quanto potessi sembrare –o forse anche essere- una ragazza cresciuta con carenze di affetto ed attenzioni.
“C’è altro che sai fare?”
“Per esempio?”
“Oh, disegnare fatine e unicorni, ovviamente.” Fu il commento tagliente di Dean, che si guadagnò la seconda rispostaccia della giornata dopo solo mezz’ora che ero sveglia.
“Io mi limito alle cose esistenti, le creature delle fiabe le lascio a quelli che si fumano lo sterco di pecore” borbottai.
Abraham ignorò la risata di Dean e la mia espressione contrita. “Pulire, fare la lavatrice. Occuparti degli animali.”
Feci una smorfia, tornando a guardarlo. “Che tipo di animali?”
Se mi avesse risposto pecore, lo avrei ucciso. Odiavo le pecore. Erano così … ottuse. Mi ricordavano tanto tutti i ragazzi che seguono le mode senza un minimo di gusto o stile personale. Non che io modificassi le mode secondo i miei gusti, ovviamente. Io non le seguivo e basta.
Inoltre, sinceramente, mi facevano paura. Non so perché, ma le trovavo inquietanti.
“Folletti e gnomi”
“Quelli non sono animali, ma esseri semi-umani” lo corressi, con incuranza, continuando a guardare il nonno in attesa di una risposta.
“Galline e un paio di maiali.”
Grazie al cielo.
“Non abbiamo bisogno di lei, Abe” intervenne  Dean. “Insomma, alle galline ci pensi tu, io ai suini e a tutto il resto. Se vuole lavorare può occuparsi della casa o cercarsi un lavoro. Io non ho intenzione di farmi licenziare, non posso permettermelo.”
Osservai i due riflettere sull’osservazione del ragazzo. Io rimasi in silenzio, in fondo non c’era differenza per me tra lo sgobbare in quella fattoria, in quella vicina o nel bar. Tranne per il fatto che forse da qualche altra parte avrei potuto trovare un telefono o un po’ di gentilezza in più.
Tuttavia in angolo nel mio cervello una vocina stava obiettando che non era giusto che fossi io a trovarmi un lavoro lontano da quella che era casa mia per lasciare il posto al biondino irritante lì presente. Tuttavia, ridacchiando dentro di me per l’infantilità di quella voce, decisi che non era il caso di esprimere quelle parole ad alta voce, specialmente in un momento in cui tutto sembrava piuttosto tranquillo, nonostante la mia rabbia ancora in agguato dietro l’angolo.
“Che ne pensi, Pan?”
“Eh?”
Dean sbuffò sonoramente e alzò gli occhi al cielo. “Come volevasi dimostrare. Cosa ci guadagni a dare un lavoro qui alla principessa degli gnomi al posto mio, quando non è nemmeno in grado di rimanere con la mente presente cinque minuti?”
Gli lanciai un’occhiataccia. “Sempre meglio una con la testa tra le nuvole che un insopportabile pallone gonfiato con manie di grandezza.” Ribattei, acida. Poi mi volsi nuovamente lo sguardo a Abe.
“Preferisci occuparti della casa o cercarti un lavoro in paese?”
Paesepaesepaesepaese! Fatemi andare via di qui, fatemi incontrare qualche essere umano dotato di senso dell’umorismo!
“Be’, come dovrei raggiungere il paese?”
“Volando.” Sbuffò Dean.
Lo ignorai. Capivo che il povero piccolo Dean Thomas amasse il Quidditch e volesse viaggiare costantemente volando sulla sua scopa, ma non mi pareva il caso di svelare a tutti i Babbani di Sperdutolandia l’esistenza del Mondo Magico solo a causa della sua incapacità di contenersi.
Involontariamente ridacchiai e lui pensò che stessi ridendo per la sua orribile battuta e non per il sarcasmo in cui galleggiavano i miei pensieri.
“Io vado in paese ogni mattina alle sette.” Spiegò Abraham. “ti potrei portare in macchina. Oppure puoi comprarti un cavallo al maneggio dei Wolfs.”
Cavallo?
Sgranai gli occhi. Ok le pecore, ma … muoversi a cavallo? Dov’ero capitata, nel far west?
Dalla mia espressione Abe capì che aveva detto qualcosa di sbagliato. “… a meno che qualcun altro non ti dia un passaggio. Non hai una macchina, giusto?”
“No, non ce l’ho … ” sospirai, sconsolata. “Un cavallo…?” articolai a fatica. Non potevo proprio crederci.
“Stava scherzando, Vostra Maestà” soffiò Dean, con disprezzo. Alzò gli occhi al cielo e si alzò a lavare la sua tazza. Ovviamente non aveva nemmeno guardato le mie frittelle e si era limitato al caffè.
“Oh” sussurrai, arrossendo. Che emerita figura del caz- …cavolo! E avevo anche il coraggio di criticare il senso dell’umorismo di quella gente?
Oh, in effetti non è che brillassero di simpatia. Che razza di battuta era quella?
Piantala, Pan. Non cercare di svicolare: hai fatto una figuraccia assurda e devi prenderne atto.
Oh Merlino. Era vero.
Che figura.
 
Alle sette in punto, Abraham mise in moto la sua sgangherata auto -che non ebbi voglia di identificare- e partì lentamente verso il paese. La macchina si lasciava alle spalle un polverone incredibile, degno di quello che nei cartoni animati si alza dietro ai personaggi che corrono.
Ero seduta sul sedile del passeggero e osservavo il paesaggio: campi, campi, campi, qualche fattoria, pecore, pecore, alcune galline nell’aia di una casa … mucche!
“Sono mucche, quelle?” domandai, realmente interessata.
Quegli animali mi erano sempre piaciuti un sacco. Li trovavo … incompresi, senz’altro. Ma soprattutto dolci. Quando andavamo in montagna, quando ancora papà e mamma stavano insieme, facevamo lunghe passeggiate nei pascoli tra queste bestie e avevamo il permesso di accarezzarle. Mi erano sempre piaciute, sì. Forse per i bei ricordi che erano legati a questi animali, o forse semplicemente perché sono strana e i miei gusti non seguono alcuna logica.
Insomma … odio le pecore e amo le mucche. Non deve esserci per forza un perché, no?
“Ah-ah” annuì Abe. “Quelle laggiù e destra sono dei Towell. Noi abbiamo smesso di tenerle dieci anni fa. Come mai lo chiedi?”
Mi voltai a guardare le piccole sagome degli animali in lontananza, sorridendo. “Adoro le mucche.”
Abraham abbozzò un sorriso, senza schiodare gli occhi dalla strada.
Rimanemmo in silenzio per un po’: il paese ancora non si vedeva da nessuna parte. Secondo Abraham distava giusto dieci minuti dalla sua fattoria.
Ad un tratto tossicchiò attirando la mia attenzione. “Come sta tuo padre?” borbottò, stringendo le mani attorno al volante. “Lui e la Donna non stanno più insieme, vero?”
Rimasi in silenzio qualche istante, voltandomi ad osservarlo. La Donna. Non doveva stargli particolarmente simpatica la mamma.
Mi piaceva!
“No, da un sacco di tempo ormai. Mamma si è risposata” parlavo con voce atona, come se ogni emozione riguardo a quella storia fosse svanita da tempo. Forse era così. Certo, a volte faceva ancora male pensare ai miei genitori quando ancora erano sposati. Allora era tutto più semplice e molti dei miei problemi non esistevano. La nostra un tempo era una famiglia tranquilla, felice. Io e Joshua due bambini sereni e allegri, uno molto vivace, l’altra con la testa perennemente persa nei cartoni animati o nei suoi amati libri. Mi mancavano quei momenti, ma avevo deciso di smettere di starci male. Le cose erano cambiate e niente sarebbe più tornato come prima. Poco male, insomma. Il tempo scorre ,passa. O almeno era quello che mi ero sempre obbligata a credere. “Papà sta bene. Non vive più con noi, ma passa molto tempo a casa nostra. Non vuole che George faccia la parte del padre con noi.” Cosa di cui gli ero immensamente grata. “Non sembra infelice.” Conclusi, con un mezzo sorriso.
Abe annuì. “Parlami di tuo fratello”
Mi trattenni a stento dallo sbuffare. Sempre lui. “Joshua? Ha diciassette anni ed è un cretino. Semplice.”
Abraham rise. “Sei tale e quale a tuo padre” commentò, continuando a sorridere alla strada.
Voltai di nuovo il capo verso il mio finestrino e sorrisi raggiante.
Con quella singola frase il nonno si era meritato tutto il mio favore.
Non sentivo più la rabbia di quella mattina, sostituita da una rinnovata speranza verso quell’uomo e quel posto. Forse un piccolo posticino per me a Sperdutolandia c’era, in fondo.
“Siamo arrivati.” Mi comunicò l’uomo indicando un agglomerato di case in fondo alla strada.
Annuii, cercando di farmi coraggio. Avrei trovato un lavoro da lì a poco. Se avessi saputo che sarei finita a lavorare in un bar del far west o in una fattoria col cavolo che sarei andata al liceo.
Well, Pan. Welcome in Sperdutolandia-Town!

In der Ecke - Nell'Angolo:
Buon giorno a tutti! Siamo oggi qui riuniti per... hmn, no. Eva, mi hai passato gli appunti sbagliati, questi sono per i matrimoni! 
è piuttosto inutile inventarsi un'assistente se poi ti passa i fogli sbagliati. èwé
Cooomunque. E con "l'Epifania che tutte le feste si porta via" è praticamente finito il periodo di relax. D: Tra pochissimo inizierò la Voi-Sapete-Cosa (il mio cervello si rifiuta di pensare quella parola) e io sto rileggendo Harry Potter e il prigioniero di Azkaban. Ecco perchè la povera piccola Pan non sta risolvengo il problema del suo umorismo Potteriano, ma anzi sta peggiorando sempre più. Sta precipitando nel baratro più profondoooo~!
Hmn. Forse è il mio cervello che ci sta sprofondando... ><
Oh, bè... c'è di peggio.
Bene, volevo dire una cosa, ma non me la ricordo.
Ohh, sì: ecco! Vi ringrazio infinitamente per le vostre recensioni ^^ non so esattamente come possa piacervi questa... cosa(senza offesa per Pan), ma comunque vi ringrazio infinitamente. :3 Alcune più di altre sono significative, ma tutte, TUTTE mi hanno fatto sorridere e riempita di una strana sensazione che mi ha spinto a continuare a scrivere.^^ Vi ringrazio tantissimo, di nuovo.
Posso sembrare stupida e ripetitiva, lo so. Un po' lo sono, ma non ho ancora trovato un modo migliore per dimostrarvi la mia gratitudine proprio come la percepisco. :D Spero di tornare il prima possibile a postare il prossimo capitolo^^
Un saluto^^

Yvaine0

 

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Capitolo 7
*** 7 ***


Cows and jeans


7




Non che mi aspettassi chissà che, ma uno comunque ci prova sempre a sperar bene. E invece anche quella volta Sperdutolandia mi aveva sorpresa. Se l’avesse fatto in bene o in male non mi presi la briga di chiedermelo. 
Il paese era piccolo, un agglomerato di una ventina di abitazioni abbinate alle varie attività a conduzione familiare, più una chiesa. Nella piazzetta di fronte a questa, Abe parcheggiò il suo vecchio catorcio arrugginito. Scese e si incamminò, senza nemmeno preoccuparsi di chiudere la serratura.
Rimasi nuovamente basita alla vista della fiducia che quell’uomo aveva nei confronti della gente del luogo. Ricordavo che Kameron mi aveva assicurato che ci avrei fatto l’abitudine, ma mi veniva comunque la pelle d’oca alla vista di tanta sconsideratezza . Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio, no?
“Di qua” bofonchiò Abraham incamminandosi attraverso la piazza fino a quello che sembrava un vecchio saloon del far west, con la sola differenza che per entrare si doveva passare attraverso ad una banalissima porta di acciaio e vetro.
Aspettò che lo raggiungessi e mi precedette all’interno.
“Evviva la cavalleria, insomma” borbottai, prima di seguirlo dentro. Ero un po’ intimorita da quel luogo. Mi premurai di fissare con apprensione la porta, richiudendola delicatamente come se temessi potesse rompersi, mentre nella mia mente temevo di trovarmi un branco di uomini barbuti armati di pistole e forniti dei loro fedeli Stetson.
“Vieni” borbottò burbero Abraham, mentre salutava qualcuno e si avvicinava al bancone.
Preso un respiro profondo trotterellai al suo fianco, scoprendo con un’ ondata di sollievo che non c’erano cow boy e indiani lì dentro. 
Il locale era un vero e proprio saloon, forse risaliva addirittura al far west, non me ne sarei stupita. Le uniche evidenti modifiche apportate nel tempo erano la grossa televisione sistemata su un ripiano massiccio e un telefono nascosto dietro un pannello di legno che separava la sala da quello che doveva essere il corridoio che portava alle toilette.
Un attimo. Un attimo, un attimo. Quello era davvero un telefono?
Mi sembrava un miraggio.
Ecco probabilmente ciò che sembravo in quel momento: un’assetata in mezzo al deserto di fronte ad una piscina di acqua potabile fresca e cristallina.
Sentii Abraham tossicchiare per attirare la mia attenzione, e subito dopo chiamare qualcuno a voce piuttosto alta. “Ginger!”
Cercai di ricompormi, ma inevitabilmente il mio sguardo tendeva a raggiungere di propria volontà l’apparecchio telefonico. Mi sentii una vera e propria idiota. Avevo sempre criticato quel tipo di ragazze drogate dal telefono, che messaggiano in continuazione e sentono la necessità di un cellulare più dell’ossigeno. Ed ora, per colpa di quel coso mi persi l’entrata in scena della persona che mio nonno aveva chiamato. Come da copione, mi voltai e trovandomi davanti una donna sobbalzai, terrorizzata.
Abraham sbuffò lanciandomi un’occhiata di rimprovero, mentre quella rideva. “Scusi” borbottai timidamente, nel più completo imbarazzo. Non era così brutta, insomma. Anzi, non era brutta proprio per niente. Mi ero spaventata per colpa della distrazione. Dean avrebbe sicuramente avanzato un bel po’ di commentini acidi da donna mestruata per l’occasione, ma avevo la fortuna che fosse a casa a sgobbare nell’orto, quindi decisi che potevo anche eliminare quella coltre di imbarazzo che mi stava annebbiando la mente. 
Abbozzai un sorriso di scuse e aspettai che mio nonno dicesse qualcosa, mentre osservavo la donna. Era alta, i capelli color carota e un largo e dolce sorriso materno. Mi venne l’impulso di sorridere timidamente. 
“Lei cerca un lavoro. Trovagliene uno” ordinò mio nonno, facendomi sgranare gli occhi per l’incredulità. 
Mi voltai a guardarlo a bocca aperta, stupita da tanta maleducazione. “Per favore!” lo corressi, sdegnata. Non potevo credere che lui e i suoi modi da eremita potessero arrivare a tanto. Ma stava scherzando? Potevo capire che potesse trattare in quel modo me che ero sua nipote e dipendevo da lui, anche se mi sarebbe stato difficile da accettare un simile comportamento; ma con che coraggio si permetteva di parlare a quel modo ad una donna adulta?
Il vecchio ignorò le mie parole e andò a sedersi ad un tavolo con gruppo di altri uomini che lo salutarono.
Mi lanciò un’ occhiata senza un particolare significato e nascose poi il volto dietro ad un quotidiano. 
La donna scoppiò a ridere, spensierata.
“Non preoccuparti, ci sono abituata. Tu devi essere la giovane Pan!” mi allungò una mano. “Io sono Ginger, lavoro qui con mio marito. Se hai bisogno di qualcosa, mi trovi sempre qua”. 
“Piacere di conoscerla” le sorrisi timidamente, stringendole la mano. 
Era abituata ad un simile trattamento? Come diavolo faceva ad accettarlo?!
“Non darmi del lei, mi fai sentire vecchia” ridacchiò. Lanciai una nuova occhiata truce a mio nonno, facendo ridere ancora la rossa. “Ti ci abituerai anche tu, vedrai.” la guardai, senza capire. “Ai modi di fare di quel vecchio brontolone” spiegò sorridendo come se provasse affetto nei suoi confronti. “ha un cuore d’oro, sotto sotto”.
“Lo spero” sospirai, sorridendole amichevolmente. 
Mi stupii di esserci riuscita, in fondo il mio umore stava sprofondando per poi risalire di qualche gradino in continuazione: non pensavo di essere in grado di mascherare tutti questi alti e bassi dietro un sorriso. Anche se in fondo per me la cosa difficile non era tanto nascondere i sentimenti, quanto mostrarli.
Volevo crederci. Volevo sperare in un futuro di serenità per me in quel posto, con accanto una parte della mia famiglia. Volevo pensare che magari un giorno avrei potuto considerare mio nonno la mia famiglia, quella di cui sentivo il bisogno e che durante la mia adolescenza e la mia infanzia non mi aveva fornito esattamente il clima ideale per crescere come una persona sana di mente. Ma probabilmente non sarei cresciuta così nemmeno vivendo con Babbo Natale. A maggior ragione, in effetti.
“Abe dice che cerchi un lavoro, giusto? Vado a prendere la bacheca là fuori, così ci diamo un’ occhiata, che ne dici?”
La ringraziai e questa attraversò la sala per poi uscire dal locale. La guardai armeggiare con qualcosa appeso al muro accanto alla porta senza realmente vederla. 
Sapeva il mio nome.
Questo pensiero attraversò la mia mente come un razzo, senza un motivo apparentemente preciso. Ma mi ricoprì nuovamente di dubbi. Come poteva quella donna che non avevo mai visto conoscere il mio nome se mio nonno sembrava non conoscerlo fino alla sera prima? Com’era possibile che le donne alla fermata del treno, l’uomo sul trattore, Agatha e Kameron sapessero del mio arrivo se non era stato Abraham a parlarne? Poteva essere stato Dean, in effetti. Ma doveva averlo pur sempre saputo da mio nonno. 
Gli lanciai un’occhiata divertita e sorrisi tra me. 
Per qualche strano motivo il giorno prima aveva solo finto di non sapere come mi chiamassi. Mi aveva ferito tremendamente quel gesto incomprensibile, ma sapere che era stato frutto di una finzione mi rincuorò terribilmente. Forse aveva finto anche quando aveva detto di non riconoscermi, questo però avrei potuto accettarlo grazie alla mia prima nuova certezza. 
Ginger rientrò raggiante nel locale, reggendo tra le braccia un grosso pannello di legno spesso giusto un paio di centimetri. Feci per andare ad aiutarla, ma mi fermò con un sorriso.
Come si può fermare con un sorriso? Con un sorriso dolce, per di più? Non ne ho la minima idea. Ma per qualche motivo, il suo sorriso era in grado di rispecchiare esattamente ciò che voleva comunicarti, e non c’era possibilità di interpretarlo male. 
Posò la bacheca sul bancone del bar, poi sospirò e si mise le mani sui fianchi. Si girò per sorridermi. “Sei venuta proprio nel periodo giusto, c’è tanto lavoro da fare qui in estate!”
Yuppie. 
Alla mia pigrizia in quel momento venne un colpo, ne ero certa.
Cominciò a spulciare i vari foglietti colorati, scritti a mano con grafie differenti e più o meno frettolose. “Uh. Vediamo un po’... hai qualche esigenza particolare?”
Volevo stare il più lontano possibile dalle pecore in effetti. “No, niente di particolare.” 
Lei annuì, continuando a sorridere. Non era un sorriso forzato, non ti passava nemmeno per la testa a vederlo. La sua genuinità era evidente quanto la chioma di boccolosi capelli color carota.
Molly Weasley!
Pan, seriamente, inizi ad essere un caso preoccupante.
“Ok, ho trovato. Che ne dici di questo?” Mi porse un A4 spiegazzato su cui era scritto a caratteri grandi, in rosso ‘Cerco disperatamente una baby sitter. Hayley’ .
Ero sorpresa nel non trovarvi alcun recapito telefonico, nè un cognome o un indirizzo. Ma evidentemente facevo male. Immaginai che non ci poteva essere tanta gente con quel nome in paese e nei dintorni, o comunque un omonimo non avrebbe avuto gli stessi bisogni.

Che stupida, come avevo fatto a non pensarci subito. 
Vita di paese. Tutti sanno tutto di tutti. Una tuttosità unica. Evviva. 
“Che te ne pare?”
“Si può fare” accettai, abbozzando un sorriso. Quanto poteva essere dura badare dei bambini? “Quanti anni hanno?”
“Dai il più piccolo cinque, il più grande tredici” mi sorrise. 
“Ottimo, non penso ci saranno problemi” commentai, un po’ incerta. Non avevo mai lavorato, però sapevo come badare dei bambini. Emily era piena di fratellini –ne aveva due- e esattamente la stessa età. Ogni domenica i suoi genitori andavano a giocare a golf, e Lily rimaneva a casa con loro. Non me lo facevo mai ripetere due volte quando mi invitava a darle una mano con loro –ovvero sempre. Mi piacevano i bambini. Erano il contrario di tutto ciò che odiavo negli adulti. Falsità, pignoleria (?), saccenza, egoismo. Ok, potevano essere capricciosi, ma i capricci di un bambino erano gestibili, quelli di un adulto ti fanno solo venire voglia di prenderlo a schiaffi e mandarlo all’asilo. Ironia della sorte. 
“Perfetto. Abe, abbiamo trovato un lavoro a tua nipote!” proclamò ad alta voce, voltandosi a sorridere al nonno.
Lui abbassò il giornale e lanciò ad entrambe un’ occhiata truce. “Deve usare il telefono” borbottò, per poi tornare a nascondersi dietro la carta stampata.
Non me ne ero dimenticata. No, sul serio non me ne ero dimenticata. Perchè avrei... Oh! Sì, me ne ero dimenticata, va bene? Mi era già passato di mente di dover telefonare a casa, nonostante ci avessi pensato meno di cinque minuti prima. Questa in fondo era la prova che non ero una telefono dipendente, no?
“Oh, giusto. Posso?” domandai, indicando col un cenno del capo l’apparecchio telefonico. 
“Certo, tesoro, è lì apposta”.
Oddio. Nemmeno mia madre mi chiamava tesoro.
Non che mi desse fastidio, semplicemente mi pareva strano sentirmi chiamare in quel modo da una persona appena conosciuta. 
Mi avvicinai al telefono e, sospirando di sollievo vedendo che c’erano i tasti e non la rotella, digitai le prime cifre che mi vennero in mente.
“Pronto?”
“Pensavi di esserti liberata di me? E invece no!” dissi, divertita.
“Pan!”
“Ciao, Lily” sorrisi, come una stupida al vuoto, mentre un sospiro di sollievo e una raffica di domande mi tenevano occupate le orecchie. Le tenevano occupate solo passivamente, intendiamoci. In realtà avevo solo udito la voce della mia migliore amica accostare parole l’una all’altra, ma non avevo ascoltato un’ h, come certamente lei sapeva. Infatti ad un tratto respirò a fondo e rise di sè. “Com’è stato il viaggio?” scelse di chiedermi, poi.
“Non male. Se non fosse che il treno si è fermato in mezzo al nulla”
“Un guasto?”
“No, fermata d’arrivo” sospirai, piano, sperando che nessuno mi sentisse. Ero certa che potesse sembrare scortese da parte mia insultare quel luogo, ma non potevo non dire a Emily dove mi avevano spedita.
“Oh” se ne uscì, per poi rimanere in silenzio.
Toccava a me, dovevo raccontarle. Tossicchiai e mi guardai attorno, timorosa che qualcuno sentisse i miei commenti e potesse offendersi. “Hai presente Heidi?”
“Sì... perchè?”
“Non è tanto differente. Mancano solo le montagne.” Mi guardai attorno, vergognandomi di quello che stavo per dire. “è pieno di pecore, qui, Lily!” squittii con una punta di supplica nella voce. Sembrava stessi implorando che mi portasse via da lì. Cosa che probabilmente non mi sarebbe dispiaciuta particolarmente, se non fosse che dopo tutti i buoni propositi di qualche ora prima avrei ferito gravemente il mio orgoglio scappando.
La sentii ridere. “E tuo nonno?”
In tutta risposta gemetti, facendola ridere di nuovo.
“Te lo dico un’altra volta, ora come ora direi delle brutture” ammisi, vagamente divertita. Era imbarazzante quella situazione. Temevo che qualcuno potesse sentirmi.
“Vedrai che imparerai a conoscerlo presto. Sei una persona socievole in fondo.”
Risi di cuore. “Già talmente in fondo che il mio pancreas sta ancora scavando in miniera per cercare il mio lato amichevole!”
Sentii la sua solita risata cristallina e mi venne da sorridere. La mia Emily. Come avrei fatto senza di lei?Senza il suo sostegno? Non ero una persona sdolcinata, ma era l’unica persona che non aveva mai tradito la mia fiducia e nemmeno le mie aspettative. Con questo non voglio dire che fosse perfetta o prevedibile, ma era in grado di dire e fare sempre la cosa giusta.
“Cosa hai intenzione di fare, ora?”
Sospirai, pensandoci su. “Sto cercando un lavoro.”
“Tu?” commentò, incredula.
Ridemmo di nuovo. “Spiritosa! Ovviamente non di mia volontà, comunque”
“Ci avrei scommesso! Senti Pan, ho paura a chiedertelo, ma...”
“Cosa?” sgranai gli occhi.
“Hai già chiamato i tuoi?”
Rimasi in silenzio per un po’. In effetti... “No.”
“Pan!”
“Mi ci hanno spedito loro qua!” sussurrai, stizzita nei loro confronti. 
“Sono i tuoi genitori!”
“Possono chiamare loro.” Replicai, acida, omettendo di proposito il fatto che a casa di Abraham non c’era un telefono.
“Pan...”
“Ah-ah” la interruppi. “Niente prediche. Mi mancano solo quelle per crollare e il manuale mi impedisce di crollare, lo sai.”
“Manuale made in Pan Fletcher!” esclamò divertita e sconsolata. “Quel coso ti distruggerà prima o poi. Come stai messa a crisi?
Tossicchiai, in imbarazzo. “No, ancora nessuna crisi. Non mi distruggerà proprio per niente. Devo tenermi su in qualche modo, Lily. Quella è l’unica soluzione per non sprofondare. Anche se poi periodicamente sto di merda”.
A questo mio inadeguato sproloquio, seguì un silenzio denso di sottintesi, che mi parve non comprendere solo il telefono ma anche il locale che mi circondava. Ci misi qualche istante per capire il perchè di questa reazione generale e quando feci due più due, analizzando ciò che avevo appena detto trasalii e arrossii violentemente. “Oddio! Sembrano i discorsi di una drogata!” pigolai a mezza voce. Desideravo con tutta me stessa sotterrarmi in quel momento. Sul serio, avrei voluto che il pavimento di legno si aprisse e mi inghiottisse. 
Ovviamente mai una volta che i miei desideri si avverassero!
Emily scoppiò a ridere, mentre il saloon si ripopolava di voci e rumori di routine. Sospirai, sconsolata. Ma a che livelli poteva arrivare la mia stupidità? Lo domandai a quella dolce decerebrata che continuava a ridere come una pazza, causando un’ ulteriore ondata di più travolgenti risa da parte sua.
Sospirai. In effetti la scena doveva essere stata piuttosto divertente. No, mi correggo: ironica. Comica addirittura. Ma divertente proprio no. Quanto poteva farmi divertire il pensiero che la gente di un paesino sperduto in cui ero appena arrivata, dove tutti apparentemente sapevano da dove venissi ma non perchè fossi stata spedita lì, mi credesse una tossicodipendente? 
Mi vennero i brividi al solo pensiero. 
La sorte si credeva una gran burlona, evidentemente. Ma scherzava in modo troppo pesante per i miei gusti.
“Hai finito?” bofonchiai, fingendomi offesa. “Da ora non lascerò mai più un soggetto sottinteso se questo dev’essere il risultato” assicurai, sia a lei che a me stessa. 
Ma come diavolo si poteva rischiare di giocarsi la possibilità di una vita tranquilla in un modo così stupido! Evidentemente avevo un talento innato.
Talento che avrei volentieri ceduto a chiunque altro, anche pagando pur di sbarazzarmene.
“Sai, la storia delle regole dev’essere una qualità di famiglia” la informai, cercando di bloccare le sue risate e attirare la sua attenzione. “Anche il nonno organizza la vita in base ad una caterva di regole. Oh, la sai l’ultima?” abbassai la voce per evitare che qualcuno potesse sentirmi. “Non abbiamo un telefono, nè un phon, non posso fare la doccia calda, devo svegliarmi alle cinque e se trasgredisco devo saltare un pasto.” Sussurrai con tanta di quell’ironia che sembrava stessi scherzando. Purtroppo però non era così.
Emily ridacchiò. “Mi prendi in giro”
“Magari”
“Oh. Quindi da dove mi stai chiamando?”
“Il saloon”
“oh.”
“Già”
“Wait a moment” realizzò qualche istante dopo. “c’è gente nel bar?”
Sospirai. Stava per ricominciare. “Sì”
Tossì una risata ma si sforzò di trattenersi, prima di pormi un’altra domanda. “Quindi tu hai fatto quello sproloquio da ‘sono una tossica, ma devo tenermi su e il fine giustifica i mezzi’ in un luogo pubblico? ”
“Stai girando il coltello nella piaga” il che equivaleva ad un sì.
“Stavi per mandare in fumo la tua reputazione” sottolineò prima di scoppiare a ridere sguaiatamente. 
Se fossi stata lì con lei le avrei lanciato qualcosa. Non lo dico per dire, lo avrei fatto seriamente. Che fosse un cuscino, una ciabatta o un pacco di fazzoletti. A volte si era beccata addosso il –solo- contenuto del mio bicchiere, qualunque liquido fosse. Era un modo per sfogare la rabbia, visto che non era d’accordo che mi tenessi tutto dentro. Un po’ anche una ripicca per la sua avversione nei confronti del mio Manuale di Sopravvivenza. Tuttavia non mi aveva e non mi avrebbe mai obbligata a far qualcosa contro la mia volontà. Ad eccezione dello studio, ma per quello dovevo solo ringraziarla. Se non fosse stato per lei avrei rifrequentato la stessa classe come minimo per gli ultimi tre interi anni, nei quali la mia esigua voglia di studiare era proprio colata a picco fino ad estinguersi completamente. Forse per via dei continui e più violenti litigi con i miei genitori e Joshua o forse per la decisione di mia madre di sposare George, avevo perso ogni minimo interesse per portare a casa buoni voti. A nessuno importava sentire il mio parere, perchè avrei dovuto far saper loro il parere che i professori avevano della mia preparazione? Per cui non mi limitai a smettere di comunicare i voti, ma se non ci fosse stata Emily avrei definitivamente smesso di studiare e mi sarei chiusa nel mio mondo carta, inchiostro e note musicali senza lasciare che nessuno venisse ad interferire con me. 
Ci sono delle persone che accusano persone con comportamenti simili di non vivere. A volte mi era stato fatto notare, in modi più o meno delicati, ma a me il problema non era mai passato per la testa. La vita passata a stretto contatto con l’arte non è buttata via, è sicuramente intensa. Emozioni differente, ma sempre emozioni sono. 
Ancora una volta mi ritrovavo a dover ringraziare la mi migliore amica, altrimenti la mia tendenza all’ asocialità e all’autoconvincimento mi avrebbe portato ad un totale isolamento e all’eliminazione di qualunque possibilità di farmi una vita vera. Insomma, tuttora continuo a credere che la vita vissuta a contatto con l’arte non sia sprecata, anzi. Tuttavia l’arte bisogna farla e non accoglierla. Mi spiego: non basta leggere un milione di libri per dire di vivere davvero. Se li avessi scritti, anzichè leggerli, tuttavia, avrei potuto sostenerlo con almeno una parte di ragione.
Questione di punti di vista.
Continuo tuttavia a pensare che se non fosse stato per Lily, la mia vita si sarebbe presto ridotta a un passivo guardare –senza vedere- e un udire –senza ascoltare.
 

Meno di un’ora dopo ero nell’auto di Abe che stava parcheggiando nel giardino di una delle case più vicine al paese. Si voltò a guardarmi, severo. “Sicura di saperlo fare?”
Grazie per l’appoggio. No sul serio, se continui così diventerò vanitosa.
“Abbastanza. Quanto può essere difficile badare dei bambini?”



In der Ecke - Nell'angolo
Dopo secoli e secoli... eccomi :3
Chiedo venia, ma con la fine del quadrimestre, l'inizio di quello nuovo (quei geni dei prof che "anticipiamo le interrogazioni così non le avete tutte insieme"... sì sarebbe una cosa carina,,, se non l'aveste fatto tutti contemporaneamente.) e una dannatissima influenza, il capitolo non è stato il mio primo pensiero, ecco. Per di più anche la mia beta era nella mia stessa situazione, per cui doppio ritardo D:
Ora rispondo alle vostre recensioni, ci metto il mio tempo, scusatemi xD 
La mia pigrizia fa un baffo a quella di Pan o di qualunque altro essere vivente sulla faccia della terra (devo avere sangue di Snorlax o.ò)
Non ricordo esattamente il contenuto del cap- ah sì! Ginger! Sorriso dolce, ricci color carota: Molly Weasley! :3 
Abbiamo fatto la conoscenza di Emily e... ah, Pan ha trovato un lavoro. xD  
Sondaggio: quanti di voi leggendo l'ultima riga del capitolo hanno pensato 'le ultime parole famose'?  xD
LOL.
Insomma, è scontato che non andrà tutto liscio. Sarà un'esperienza singolare per Pan, questo è certo.
Vi lascio, gente! 
Al prossimo capitolo! Volo a rispondere alle vostre adorabili recensioni! 
Vi adoro!♥
Yv:3



 

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Capitolo 8
*** 8 ***


Cows and jeans


8



"Quanto può essere difficile badare a dei bambini?” 



Probabilmente tutti conoscono la teoria de “le ultime parole famose”. Ecco.
Non sapevo come definire la mia situazione.
Drammatica?
Fantascientifica?
Comico-parodica?
Farsa giullaresca?
Probabilmente avevo –e non è detto che non ce l’abbia tuttora- un’ enorme freccia fluttuante, addobbata con luci intermittenti, accompagnata da una graziosa scritta a caratteri cubitali che invitava la sfortuna a ‘colpire qui’ sulla testa. Non c’era altra spiegazione.
Non so, forse ero una specie di disastro della natura. Ogni volta che mi illudevo che qualcosa potesse andare per il verso giusto ogni mia speranza si frantumava facendomi sprofondare nello sconforto.
Come ho già detto altre volte: la sorte era una bambina dispettosa e capricciosa che aveva scelto me come bersaglio per i suoi tiri mancini. Quantomai astuti nonostante la giovane età. E credetemi se vi dico che in quel momento non esisteva paragone migliore.
Si era già fatto buio quando Abe parcheggiò l’auto nel capanno dietro casa. Mi guardò di sottecchi e scese.
Ero semplicemente stravolta, e la mia espressione diceva ‘lasciatemi in pace, mordo’. Ero allucinata, stanca e davvero tanto arrabbiata. Provata fisicamente –come potevo non esserlo dopo quella giornata?- e soprattutto psicologicamente.
Seguii Abraham in casa e, prima ancora che potessi ricordarmi della sua esistenza, Dean mi guardò e scoppiò a ridere sguaiatamente. Ridere di me. “E’ stato divertente, eh?”
“Chiudi quella fogna” sbottai, appendendo la giacca. Non so perchè me la fossi portata quella mattina, nonostante fossimo in estate. Forse era nella mia natura seguire i consigli di mia madre solo quando lei non era nei paraggi, non poteva vedermi e non poteva scoprirlo. O forse ero solamente una stupida ragazzina che faceva le cose a caso.
“Hai resistito tutto il giorno, complimenti”
“Lasciami in pace”
Lui mi ignorò. O meglio ignorò le mie parole, perchè in realtà non aveva alcuna intenzione di ignorare me, come invece speravo. “Chi ti ha dato più filo da torcere? Robin? Johnny?”
Lady Cocca? Sir Biss? Il principe giovanni?
Che diavolo voleva da me!? Non ero dell’umore giusto per sentire le sue... fesserie!
Lo trucidai con lo sguardo, mentre entravo in bagno per lavarmi le mani, nella speranza di allontanarlo da me almeno qualche istante. Non avevo voglia di essere presa in giro, lo avevano fatto già abbastanza quei piccoli demoni.
Abe chiese se la cena fosse pronta e l’irritante biondino rispose di sì, un attimo prima di raggiungermi nella stanza con quel suo sorrisetto irrisorio in volto.
“Che vuoi?” sbottai dopo un po’ che mi osservava ridendo sotto i baffi.
“Hmn. Dalla tua espressione direi decisamente i gemelli”
“Lasciami in pace”
“No. Johnny. Oh, il cane!”
“Non hanno un cane” sbuffai sconsolata. Magari lo avessero avuto. Almeno ci sarebbe stato qualcuno di civile in quel posto.
“Giusto. Allora decisamente Johnny”
“Chiudi il becco”
Rise di me. Ancora. “Ti sei cacciata proprio in un bel guaio”
“Dì un po’, gongolare è la tua specialità, vero?” sibilai, mentre mi asciugavo le mani. Strofinai così violentemente la salvietta contro la pelle che quando la riposi avevo la mani tutte arrossate.
L’asciugamano cadde.
Mi morsi la lingua per non mettermi ad urlare.
Persino la biancheria della casa era contro di me, cavolo!
Dean rise mentre la raccoglievo.
“Che ti hanno combinato?”
Gli lanciai un’occhiataccia. “Niente”
“Rob ha di nuovo finto un malore?”
Battei un piede per terra. “FINISCILA!”
Mi precedette in cucina sghignazzando. “Bingo. E’ sempre geniale quel trucco”
“Non è geniale. È infantile.” Brontolai sedendomi a tavola.
Era stato terribile. Quei cinque non erano bambini, erano bestie indemoniate! Come Hayley –la loro madre- se ne era andata avevano iniziato a correre ovunque e ad urlare, mettendo tutto a soqquadro sotto i maligni ordini del fratello maggiore, Johnny.
Avevo sopportato il disordine e il rumore assordante delle loro continue e immotivate grida per tutta la mattina, seguendo le istruzioni che la loro povera madre mi aveva lasciato prima di correre al lavoro.
Dopo pranzo avevano cercato di lanciarmi addosso un martello e qualche tonnellata di frutta che avevano trovato in giro per la casa e il giardino, ma questo posso accettarlo. Il momento peggiore, la situazione più angosciante che avessi vissuto in vita mia, si era manifestata intorno alle quattro, quando Robin era stramazzato al suolo. Le altre quattro canaglie si erano zittite e avevano iniziato a fissarmi, singhiozzando. Johnny mi aveva detto che suo fratello soffriva di cuore e a quel punto mi era preso un colpo.
Non ho mai preso lezioni di pronto soccorso, avevo solo un vago ricordo di un vecchio libro in cui un uomo si era sentito male e un’infermiera aveva prestato il primo soccorso mentre giungeva l’ambulanza. Tutto ciò però non bastava, non avevo la minima idea di cosa fare.
Le bambine si erano attaccate alle mie gambe e mi imploravano di aiutare loro fratello, Johnny correva in giro nel panico, mentre Thom piangeva.
Il maggiore dei fratelli mi disse che non avevano un telefono e quando mi ero accorta che il cellulare non prendeva nemmeno lì ero entrata in panico. Ero corsa fuori dalla casa gridando aiuto, senza sapere nemmeno dove andare. I bambini sembrava piangessero –bestiole dannatamente astute.
Avevo una gran voglia di piangere anche io, mi sentivo così inutile e impotente... una bambina immersa in una situazione più grande di lei e perdipiù privata di ogni possibile via di fuga. Di soccorso, in questo caso.
Non so come, ma dopo pochi minuti di interminabile attesa costellati di terrore, uno degli uomini che lavoravano lì intorno era corso da noi e gli avevo mostrato il bambino. Il quale, come da copione, si era rialzato, aveva salutato l’ospite e poi si era messo a ridere coi fratelli.
L’esperienza più terribile della mia vita, in assoluto. Non mi ero mai sentita così male, nè così stupida e presa in giro.
Non mangiai quasi niente a tavola. Dean continuava a ridere di me facendomi battutine di tanto in tanto, mentre Abraham si limitava ad uno scocciato silenzio.
Hayley, la madre di quei demòni, era stata così cordiale con me. Una donna squisita. Dolce e apprensiva. Ora capisco perchè mi avesse augurato buona fortuna. E ovviamente anche perchè Abraham mi avesse chiesto se fossi in grado di badar loro.
Avvisare le persone prima, no, eh?! Troppo facile lasciare in compagnia di quegli animali una povera innocente che non sospetta nulla!
“Sei un caso disperato. Riuscirai mai a farne una giusta?”
“Tu cos’avresti fatto?” sibilai, sfidandolo con lo sguardo mentre asciugavo il mio piatto, dopo cena.
“Non ci sarei cascato”
“Buon per te”
“E sai perchè? Perchè io li conosco.”
“E come diavolo pensi che potessi conoscerli, io?”
“Non potevi, principessa. Ecco perchè avresti dovuto evitare di prenderti quell’impegno. Hayley domani dovrà cercarsi una nuova baby sitter. Perchè non te ne stai dove non combini casini?”
Mi bloccai, fissando il nulla. Mi sentivo improvvisamente svuotata di tutto. “Mi stai dicendo che dovrei tornarmene in città?” Non riuscii a dire ‘a casa’. Dove abitavano i miei non era casa mia. Nemmeno quel posto era casa mia, però. Ero una minuscola adolescente dispersa nel mondo. Smarrita.
Lui diede un’alzata di spalle, completamente disinteressato. “Tu l’hai detto”.
Mi morsi il labbro inferiore.
Era stupido, ma mi sentivo ferita. Ferita dalle parole di uno stupido esaltato che si credeva Dio in terra.
In un attimo mi sentii pervadere dalla rabbia, di nuovo.
Che diritto aveva lui, un ragazzo che nemmeno conoscevo, di dirmi cosa dovevo fare? Che diritto aveva di rimproverarmi, darmi lezioni o cacciarmi dalla casa di mio nonno?
Non gliel’avrei data vinta, no. Non gli avrei dato alcuna soddisfazione, mai.
L’avevo presa sul personale, sì. Mi ero arrabbiata e quel che intendevo fare era fargli vedere di che pasta ero fatta.
Una combinaguai, una buona a nulla? Gli avrei fatto il culo a stelle strisce, gli avrei mostrato chi era la principessa. E di certo non ero io, poteva starne certo.
Pan Fletcher gli avrebbe dimostrato chi era.
Strinsi i denti e finii le mie faccende, senza più proferire parola.
Prima di annunciare che sarei andata a dormire, avevo già deciso cos’avrei fatto nei dettagli.
Senza rispondere alle sue provocazioni, senza dargli più alcuna soddisfazione, avrei dimostrato a lui, ad Abraham, a quei bambini indemoniati, ai miei genitori e a me stessa di che pasta ero fatta.

La mattina successiva mi alzai alle quattro e tre quarti, con una rinnovata forza di volontà. Nonostante l’ora fosse assurda, avevo puntato io la sveglia del telefono per il solo gusto di svegliarmi prima di Dean.
Mossa dalla voglia di rimboccarmi le maniche, mi vestii in fretta e andai in bagno a sistemarmi, mentre a casa tutti ancora dormivano –sole compreso.
Richiusi accuratamente la porta della mia stanza alle mie spalle per avere la soddisfazione di sentire il biondino bussare alla stanza vuota e cercare di svegliarmi, mentre ero già in piedi e avevo già iniziato le faccende domestiche. In realtà all’inizio avevo pensato di svegliarlo io, ma sarebbe stato più fine e soddisfaciente fare la mia vita senza sbandierare rozzamente che la guerra era ufficialmente aperta. 
Sgattaiolai, il più silenziosa possibile, al pian terreno e mi diedi alla preparazione della più accurata colazione che quei due avessero mai visto da mooolto tempo a quella parte.
Dei miei nonni avevo solo qualche vago ricordo. Quando eravamo piccoli, a volte io, mamma, papà e Josh venivamo in campagna dal nonno per il weekend. La nonna preparava le frittelle e la pasta fatta in casa per pranzo. Per merenda ogni giorno avevamo una torta nuova. Era una brava cuoca. Come tutte le nonne, forse, ma lei era davvero eccezionale.
Mentre cercavo di imitare le sue frittelle sbirciando nei libri di ricette che Abe aveva accuratamente riposto sulla mensola sopra il tavolo da pranzo, ricordai tutti gli odori, i sapori di un’ infanzia felice. Era tutto così semplice quando c’era la nonna.
Era tutto così semplice quando non conoscevamo George, e c’erano solo papà e mamma.
Mi sentii cogliere da una piacevole malinconia, da un’ ondata di ricordi che erano stati sepolti dalle preoccupazioni e dalle ansie, dai continui litigi tra i miei genitori e con mio fratello. Dal costante tentativo –prima di una bambina, poi di una ragazza- di farsi apprezzare o quantomeno notare, mentre tutti avevano altro a cui pensare. Bei ricordi rimasti a lungo sepolti sotto solitudine e innumerevoli pagine di grossi tomi trovati un po’ ovunque.
Non so esattamente come riuscii a preparare qualcosa di soddisfaciente, non so nemmeno cosa mi spinse a seguire quella linea di pensiero mentre me ne occupavo.
Tendevo a cuocermi nel mio brodo, non mi rifugiavo mai nei ricordi passati. Non avevo mai pensato che immergermi in una vasca di momenti sfuocati, vissuti quando ero così piccola da far sembrare la stessa cucina in cui stavo armeggiavo un immenso laboratorio in cui una grande e morbida nonna dai capelli di zucchero filato preparava le migliori delizie che si potessero assaggiare, potessero farmi tornare il sorriso dopo una nottataccia di sogni agitati e due giorni di insofferenza generale nei miei confronti.
Però fu così.
Era strano rivivere quei momenti che credevo di aver dimenticato. 
Mentre apparecchiavo e servivo la colazione –nonostante tutti ancora dormissero- avevo la testa fra le nuvole. Ero completamente assente. La mia mente viaggiava a destra e a sinistra, non ricordo esattamente nemmeno dove passò e dove la venuta del nonno interruppe i miei vaneggiamenti.
So solo che quando Dean entrò in cucina mi salutò con un’ occhiataccia frustrata, che mi riempì di una nuova e risanante soddisfazione. In quel momento rinnovai la promessa che avevo fatto a me stessa: avrei dimostrato a quel tipo, a mio nonno, ai miei genitori e a me stessa chi ero veramente. Non una bambina, non la principessa degli gnomi, non la nipote cacciata di casa dai genitori, non una sfaccendata, non un vecchio libro reso fragile dal tempo e dalle intemperie. Ero Pan Fletcher, e la mia operazione di restauro era appena iniziata.

Anche quella mattina Abraham mi caricò sull’auto per portarmi a casa di Hayley. Come c’era da aspettarsi, nonostante Dean avesse detto che la donna avrebbe dovuto cercare una nuova baby sitter, io avevo deciso di riprovare. No, non di riprovare, di riuscirci. Come tutti i bambini, anche quelle canaglie dovevano avere un punto debole, no? Per le mutante di Merlino, persino Fufi si addormentava con un po’ di musica! Potevano essere peggio di un cane gigante a tre teste, quei piccoli... esseri?
Mentre osservavo rapita le minuscole sagome dei bovini al pascolo, attraverso il finestrino, Abraham tossicchiò per attirare la mia attenzione. “Ti sei alzata presto, oggi”.
Sorrisi per mostrare che avevo sentito e per puro dovere morale. Dopodichè non potei evitare di rivolgergli un’ occhiata indagatrice di sottecchi. Magari era scortese da parte mia, ma non riuscivo a non chiedermi se stesse per rimproverarmi qualcosa. “Ho fatto rumore? Mi dispiace, se ti ho svegliato” misi le mani avanti.
“No, ...no”.borbottò, scuotendo leggermente il capo. Continuava a fissare la strada, senza rivolgermi uno straccio di sguardo. La cosa da un lato mi irritava, dall’altro mi incuriosiva. 
Si schiarì nuovamente la voce, piano. “Solo, mi chiedevo...”.
Mi voltai appena per osservarlo meglio. Era forse la prima volta che di sua spontanea volontà intavolava un discorso, seppure a fatica. Era anche la prima volta che lo sentivo tossicchiare a quel modo. 
Era sotto l’effetto di una strana pozione, o di una maledizione imperium?
(Quanto mi sarei decisa a smettere con questi bizzarri paragoni?)
O forse la mia speranza di instaurare un rapporto civile con il mio parente più vicino stava solo per essere nuovamente smontata?
Qualcosa dentro di me strinse i pugni e chiuse gli occhi, pronto al colpo che stava molto probabilmente per giungere. Da fuori, rimaneva la solita Pan, un po’ stupida, un po’ malinconica, un po’ acida.
“Sei piuttosto indipendente” osservò, continuando a tenere gli occhi fissi sulla strada.
Sì, in effetti era anche normale che lo facesse. Ma non avevo mai visto nessuno prestare così poca attenzione alla persona con cui stava discorrendo e così tanta alle regole stradali. Era un pensiero vagamente ridicolo, in effetti ma la vita in città molto spesso era assurda. Ai miei occhi sempre. A quelli degli altri io lo ero. 
Lanciai un’ occhiata di fronte a noi. Il paese era vicino, la casa di Hayley anche di più. Ormai eravamo arrivati, la nostra conversazione stava per finire. Non sapevo se sperare di sentire come sarebbe continuata o che si interrompesse così da evitare anche la più piccola delusione. 
Sospirai, capendo che sarei dovuta essere io a non porre fine al nostro breve scambio di battute. In altre parole: Abe sembrava non aver intenzione di dire altro.
“Non che sia mai stata troppo dipendente da altri. Mi ci vuole solo un po’ di tempo per regolarmi l’esistenza nelle nuove situazioni” replicai, una vena di amarezza nella voce. Avrei voluto fosse scontato, avrei voluto allo stesso tempo che " un po’ " di tempo’ fosse già interamente passato.
Ora, a distanza di anni, sono consapevole del fatto che fosse esagerato aspettarsi che in soli due giorni mi fossi completamente ambientata. Ma, cercate di capirmi, non me ne andava una giusta. Allora non vedevo l’ora che la fase delle difficoltà lasciasse il posto a quella in cui si poteva vivere senza trattenere le lacrime in continuazione, senza la costante paura che nemmeno quello fosse il posto adatto a me.
Abraham si schiarì nuovamente la voce. Mi preparai al colpo. Non gli rimaneva che premere il grilletto, ormai, ne ero certa.
Click.
“Nel capanno degli attrezzi c’è ancora la vecchia motoretta di tuo padre”.
Sbang.
“Oh”. Mi costrinsi ad annuire, puntando gli occhi leggermente sgranati sulla maniglia scassata del bauletto portaoggetti. 
Non sapevo cosa pensare. Dovevo prenderla come un informazione positiva o negativa? Dovevo sentirmi delusa, arrabbiata, contenta, speranzosa? 
Il problema fondamentale era uno: che diavolo era una motoretta?
Nella mia mente prese forma l’immagine di una sottospecie di trattore in miniatura, con me stessa alla guida. Poi mi chiesi se quello del nonno non fosse solo un invito ad intraprendere qualche altra faccenda domestica, e la piccola Pan nella mia fantasia cadde dal mezzo fin dentro un secchio. Poi senza nemmeno uscirne iniziava a strofinare la carrozzeria rossa ormai arrugginita con uno straccio e un’ espressione confusa.
Aggrottai le sopracciglia, frustrata. Mi vergognavo a chiedere al nonno di cosa si trattasse. Temevo mi prendesse per stupida. Allo stesso tempo, però, ero certa che già mi ritenesse una stupida e del fatto che non reagire in alcun modo alla sua affermazione non potesse che confermare la sua tesi. Che era poi anche la mia, intendiamoci.
Mi lanciò una rapida occhiata di sottecchi, probabilmente per scorgere la mia reazione. “Stasera te la faccio vedere”.
“Ottima idea” commentai, annuendo sollevata. Forse sarei riuscita a capire di cosa si trattasse, o magari avrei scoperto nel frattempo cosa il nonno intendesse per 'motoretta'.


In der Ecke - Nell'angolo
Salve, gente! Dopo tanto tempo -di nuovo D:- sono tornata!
Mi sento una totale ingrata, ma purtroppo non risponderò alle vostre recensione del capitolo scorso. Non sono dell'umore adatto. Non si tratta di menefreghismo, per carità. Solo che proprio come Pan anche io sono sull'orlo di una crisi. è un periodo un po' difficile che temo si concluderà con uno ancora peggiore, prima di poter andar meglio. Ora come ora mi sono aggrappata come quasi ossessivamente alla prima cosa che mi è capitata a tiro e che mi evitasse di pensare ai miei problemi: la musica dei Queen.
Per cui vi chiedo di scusarmi per la mia scortesia. Non è ingratidudine, sul serio. Se non fosse per voi credo che non scriverei che qualche riga lasciata a metà. Colgo l'occasione per ringraziarvi e scusarmi con voi -per i ritardi, per non rispondere, per gli errori e il casino dei capitoli. 
Ma ora, torniamo alla storia.
Parlando di Pan... come vediamo è sull'orlo di una crisi di nervi. è partita in quarta, decidendo che non darà soddisfazione a Dean, che -cinico e impassibile come sempre- la invita tranquillamente a tornarsene da dove è venuta. Con un sottinteso "che è meglio!" a mò di Puffo. La nostra protagonista non si fa mettere i piedi in testa e inizia ad elaborare un piano di contrattacco, che vedremo in seguito come procederà e soprattutto se funzionerà. Intanto, tesa e un po' nevrotica, Pan riceve un invito da Abraham ad utilizzare un motore per essere ancora indipendente, tuttavia totalmente non compreso. Chiedendosi cosa effettivamente il nonno le abbia detto, Pan arriva quindi a casa di Hayley per il suo secondo giorno di lavoro come babysitter. 
Bene, ora lascio campo libero a voi. Se avete voglia di esprimere il vostro parere, sapete come fare e che è sicuramente ben accetto. :J
Non sarò del tutto sgarbata, questa volta risponderò. xD
Un saluto,

Yvaine0

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Capitolo 9
*** 9 ***


Cows and jeans

9

 
Non sapevo se sentirmi felice o offesa dalla sorpresa con cui Hayley mi accolse.
Certamente, però, rimasi colpita quando chiamò a raccolta i suoi figli pregandoli di scusarsi con me, uno per uno, per ciò che mi avevano rispettivamente fatto il giorno prima. Le bambine e Thom si misero persino a piangere, facendomi stringere il cuore. Robin, evidentemente imbarazzato, farfugliò le sue scuse elencando i suoi misfatti. Johnny, dai canto suo, non disobbedì alla madre, ma lo sguardo con cui mi fissava mentre si scusava traboccava sfida –cosa per cui la madre si scusò nuovamente.
A quel punto una cosa era chiara. Anzi, due. Primo: proprio come me quel tredicenne non aveva alcuna intenzione di mollare i suoi propositi, cosa che avrebbe reso la mia permanenza in quella casa quantomeno interessante. Secondo: evidentemente Dean non era l’unico a non volermi tra i piedi. Non avevo idea del perchè ce l’avessero tanto con me, quei due, nè di come avessi fatto a tirarmi addosso il loro astio in così poco tempo. Per cui, mi limitai a rimuovere ogni domanda dalla mia mente e chiesi ai bambini cos’avessero voglia di fare quel giorno.
Quando a pranzo mi ritrovai ricoperta di proiettili di mollicca di pane, lanciatemi attraverso cucchiai-catapulta, capii che la strada sarebbe stata ancora lunga e faticosa prima di poter ottenere un briciolo di rispetto da quelle pesti. Tappa fondamentale per raggiungere la meta sarebbe sicuramente stato armarmi di pazienza e cercar di instaurare un rapporto civile con il capobranc-, ehm... con il maggiore. E nel frattempo avrei dovuto trovare un modo qualunque per riuscire a tranquillizzare almeno un poco quelle canaglie. Dovevo solo capire quale fosse la loro criptonite.
La mia mente registrò a stento un piatto che veniva sollevato, spostato e curvato di 180°. La vaga consapevolezza di quell’azione riuscì però a risvegliare i miei sensi, facendomi sgranare gli occhi in tempo per vedere la scena. Beth rovesciò a terra la zuppa di fagioli, che abbracciò il pavimento di legno con un sonoro SPLASH.
Sospirai, afflitta. Non poteva essere vero.
Johnny rise, complimentandosi con la sorellina per la trovata.
Gli rivolsi un’ occhiata truce. “Vuoi la guerra, eh? Che guerra sia allora” mi alzai a prendere uno straccio.
Non so perchè lo dissi, lo feci e basta. Non c’era un motivo, non ci avevo riflettuto. Era una frase come tante che tra coetanei sarebbe risultata una vana provocazione e –soprattutto da una che poteva essere scambiata per una ragazzina- avrebbe fatto ridere.
Lui invece ghignò, sfrontato e combattivo.
Ma c’era un qualche demone dentro di loro? Il fantasma di un qualche ex stratega militare vendicativo e frustrato che aveva intenzione di sfruttare quei poveri corpicini innocenti per sfogare i suoi rimpianti su qualche povero malcapitato –ovvero me?
Dov’erano i Ghost Buster quando servivano?
Ovviamente successe l’ultima cosa che mi sarei mai aspettata.
“ADDOSSOOOOOOOOO!”
“YEEEEEEEEEEHH!”
Tutti e cinque, chi più rapido, chi con un po’ più di calma, mi saltarono letteralmente addosso, facendomi rovinare sul pavimento. Finii inevitabilmente ad abbracciare a mia volta le assi di legno con la zuppa rovesciata da Beth a farmi da materasso.
A quella vista Johnny scoppiò a ridere, soddisfatto e chiamò le truppe in ritirata, da bravo imperator. Mentre mi alzavo a sedere dovetti ammettere che almeno sembrava essere un avversario leale.
“Guardatela! Sembra Piper!” mi additò, facendo ridere i più piccoli.
Ripulii con un solo gesto rabbioso il pavimento, giusto perchè mentre cercavo qualcosa con cui pulirlo meglio il legno non inghiottisse tutta la brodaglia. Mi alzai e mi ripulii il collo, senza nemmeno guardare quel maligno tredicenne. “Che... sarebbe?”
“La scrofa di papà!” rispose Robin, scoppiando poi a ridere fragorosamente, subito imitato dai fratelli minori.
Johnny ghignò, lanciandomi un’ occhiata di sfida che bene o male intercettai.
Come non detto. Aveva ritirato le truppe solo per potermi colpire sul piano psicologico.
L’unico problema era che, nonostante fossi mentalmente piuttosto provata dalle esperienze degli ultimi giorni, non avevo intenzione di farmi distruggere dai giochetti psicologici di un neoadolescente ancora in fase di svezzamento.
Senza degnarmi di rispondergli iniziai a pulire il pavimento con i prodotti adatti. Diedi uno sguardo alla mia maglietta mentre i mostri riprendevano a mangiare. In effetti con quella sostanza marroncina addosso potevo assomigliare ad un suino coperto di fango, dovevo riconoscerlo. “Preferirei badare lei che voi” commentai, tra i denti, senza guardarli. “Di certo lei mi tratterebbe meglio. Qualunque animale lo farebbe”.
In un certo senso fui soddisfatta nel vedere che le bambine e Thom avevano messo il broncio quando mi rialzai.
“Noi non ti vogliamo qui” disse Johnny.
Nonostante fosse chiaro come il sole, mi sentii ferita nel sentirmelo dire così apertamente.  “Perchè?”
“Non abbiamo bisogno di te”.
Lo osservai in silenzio, mesta. Ci ero rimasta male, sì. Stavo pensando a cosa potessi rispondergli, quando un busto ansimante si affacciò dalla finestra nella cucina. Trattenni a stento un grido e non allontanai i bambini solo perchè questi salutarono allegramente il nuovo venuto.
“Ciao, Terrence”.
“Salve ragazzi” soffiò la figura di un ragazzo di più o meno la mia età, appoggiandosi al davanzale per riprendere fiato. Doveva aver corso molto.
Mi schiarii la voce. “Ciao” palesai la mia presenza, in caso non mi avesse notato. Era normale che le persone spuntassero alle finestre? A giudicare dalle espressioni annoiate dei bambini giudicai che, sì, era usuale. Sperdutolandia non finiva mai di stupirmi!
Il ragazzo annuì, prendendo tempo. Gli offrii un bicchier d’acqua, iniziando a preoccuparmi. Lui rifiutò e dopo poco riuscì finalmente a raddrizzarsi, il respiro più regolare. “Tu devi essere Pan”.
La mia fama mi precedeva. E anche solo il fatto di averne una mi sorprendeva parecchio. “Sì”.
Annuì. “Hai ricevuto una chiamata giù al saloon. Ha risposto Abe e mi ha mandato a dirti di andare da Ginger e richiamare prima di andare a casa” mi spiegò.
Una chiamata? Ahia. “Grazie. Sai da parte di chi era?”
Lui diede un’ alzate di spalle. “Una donna. E urlava parecchio. Abe non è stato troppo gentile con lei”.
Ma certo: mamma. “Come se mai lo fosse” commentai giusto per non rimanere in silenzio. In realtà stavo già iniziando a preoccuparmi per come sarebbe andata la nostra conversazione. Sarebbe stata l’ennesima litigata, sicuramente. Ed era l’ultima cosa di cui avevo bisogno in quel momento. “Grazie, dopo andrò a telefonare”.
“Figurati. Io sono Terrence” mi porse una mano, abbozzando un sorriso cortese.
“Piacere” gliela strinsi, mentre con l’altra reggevo ancora lo straccio impregnato di prodotto per pulire i pavimenti in legno. L’odore pungente del detersivo si intonava splendidamente con la mia t-shirt decorata a macchie di pasta e faglioli. Mentre in città chiunque avrebbe storto il naso con disprezzo a quella vista, il ragazzo ridacchiò, solidale. “I ragazzi ti danno da fare, eh?”
Sospirai, grata per la reazione positiva. “Parecchio, in effetti” sorrisi.
Johnny mise nuovamente in atto la cucchiaio-catapulta centrando però sulla fronte il nuovo arrivato, il quale scoppiò a ridere.
“Sarà così sempre, finchè non te ne andrai!” mi informò il diabolico tredicenne.
“Buono a sapersi” ribattei, sorridendo amaramente, mentre gli altri iniziavano a suonare energicamente piatti e bicchieri usando le posate come bacchette.
 
“Johnny, dai, ascoltami un attimo!”
“Lalalalalalalala!”
“LALALALALALALALALALALALALALALA!”
“Ora... SMETTETELA!” sbottai, battendo con forza un grosso libro di favole sul tavolo.
Per un attimo in casa cadde il silenzio, mentre i mostriciattoli mi guardavano, chi sorpreso, chi vagamente spaventato e chi compassionevole –cosa che mi diede un tantino sui nervi. Poi il mezzano, Robin, mi fece il dito medio e tutti ricominciarono a fare confusione come se niente fosse.
“Ok, ... tu!” afferrai per un braccio il maggiore. “Ascoltami un secondo!”
“Lasciami! Non toccarmi! CHIAMO LA POLIZIA!” strillò con la sua voce ancora da bambino, allontanandomi.
Ringraziai il cielo per l’assenza di telefoni nei paraggi e perchè quelli a cui ero stata affibbiata non fossero viziati e capricciosi bambini di città. Quelli di Sperdutolandia –o almeno quelli che erano toccati a me- erano solo decisi a mettermi in difficoltà con tutti i metodi a loro disposizione. Che consolazione.
“E va bene, va bene! Ma tu ascoltami un minuto!” Era dura sovrastare la cacofonia infernale provocate dalle grida di quei demonietti.
Johnny non dava segno di volermi ascoltare, ma non aveva nemmeno ricominciato ad urlare. Si limitava a darmi le spalle, le braccia incrociate in segno di protesta.
Il mio lavoro per quel giorno era ormai terminato, Hayley sarebbe tornata da un momento all’altro. Avevo deciso che il modo migliore per convivere con quei bambini era scendere a patti col nomico, nonostante sapessi che sarebbe stato difficile convincere il ‘capobranco’.
Scelsi quel momento sapendo che dopo poco me ne sarei andata e così il fratello maggiore avrebbe avuto tutto il tempo di pensarci su, imprecare, sfogare la rabbia ma non su di me o magari consultarsi con il resto della tribù. Non sapevo esattamente che tipo di ‘grandecapo’ fosse, magari credeva nella democrazia.
“Io non ho intenzione di andarmene, Johnny. Anche perchè non posso permettermelo. Voi, dal canto vostro, non mi volete qui. Io, dal mio, non voglio avere problemi. Non più del nel necessario, almeno. La miglior cosa da fare è...”
“Andartene!” sbottò, senza nemmeno voltarsi a guardarmi.
“...scendere a compromessi” lo corressi, paziente. Dove trovassi la pazienza dopo una giornata trascorsa con quei cinque, non lo sapevo.
“No.”
“Ascoltami, prima di parlare. Basterà che entrambi di impegnamo... almeno un po’.” Quanto poteva essere allettante per un tredicenne la prospettiva di impegnarsi? Decisamente poco.
“Scordatelo!”
Per l’appunto.
Il ragazzino afferrò la prima cosa che trovò e me la scagliò addosso. Caso volle che l’oggetto fosse il telecomando del televisore e che non mi scansai abbastanza in fretta per evitare che mi colpisse sulla spalla, dove il giorno seguente –per la cronaca- sarebbe spiccato un simpaticissimo livido violaceo.
“Hey, potevi farmi male, sai?!”
“Era quello lo scopo!” rise, correndo poi dall’altro lato della stanza a dirigere i cori spaccatimpani dei suoi fratelli minori.
Pensandosi bene, non avevano praticamente fatto altro che urlare da quando ero arrivata, il giorno prima. Ma che razza di bambini erano? Non giocavano mai? Non si consumavano le corde vocali? Non incappacano in abbassamenti di voce dopo aver strillato tutto il giorno?
Mi gettai su una poltrona, sconsolata e chiusi gli occhi per qualche istante. “Che ora è?”
“L’ora che era ieri a quest’ora!”
Risero.
“Molto divertente” commentai, sarcastica. Aprii gli occhi e contorsi il collo cercando di scorgere l’orologio nella stanza accanto.
Sospirai. Ancora dieci minuti di lavoro.
Quella giornata sembrava non aver intenzione di volgere al termine.
Quando finalmente tornò Hayley, mi affrettai verso il paese. L’ultima cosa che avevo voglia di fare era telefonare a mia madre, ma sapevo di non avere altra scelta. O meglio, ne avevo. Ma consideravo decisamente immorale fingere di non aver ricevuto il messaggio da Terrence.
Giunta al saloon non mi aspettavo certo di vedere Abraham corrermi incontro a braccia spalancate per abbracciarmi e chiedermi com’era andata al lavoro; ma nemmeno mi aspettavo di sentirmi dire da Ginger che il vecchio se ne era andato qualche minuto prima annunciando che mi sarei dovuta arrangiare per tornare a casa.
Era logico, no? Tanto casa sua distava solo quindici chilometri dal paese. Sarebbe stata una passeggiata ristoratrice, dopo la fatica di una giornata di lavoro circondata da pestiferi mocciosi urlanti. Senza contare che avrebbe fatto buio prima che potessi giungere alla casa. Meglio, no? Avrei persino preso un po’ di fresco.
Nonostante tutte le ‘belle parole’ che mi erano venute in mente alla notizia, preferii evitare il momento insulti-e-imprecazioni. Sarebbe stato uno spreco di energia, che sarebbe senz’altro risultate utili durante la piacevole camminata in mezzo al nulla che mi attendeva.
Mi limitai a chiedere a Ginger di usare il telefono e, dopo una serie di sbuffi e sospiri, composi il numero.
"Pronto?"
"Heylà, Josh".
"A-ah! Sei nei guai, sfigata!"
Sbuffai. "Sì, sono contenta anche io di sentirti, affettuoso fratello minore" soffiai, sarcastica.
Lui rise. "Mammaaaaaa! C'è la Piaga al telefonooo!" gridò, sbattendo la cornetta sul mobiletto e lasciandomi ad aspettare senza nemmeno un saluto. Dopo avermi strillato in un orecchio, sia chiaro.
Forse il mio problema era che mi aspettavo troppo dalle persone.
"Pronto?"
"Ciao, mamma" salutai, cauta.
"TU! Razza di ingrata irresponsabile! Per quale strano motivo tieni spento il telefono, si può sapere?!" strillò sull'orlo di una crisi isterica. 
Home, sweet home!
"Non c'è campo, veramente. Da nessuna parte" la corressi, cercando di mantenere la calma. Ero comunque in un luogo pubblico, non sarebbe stato il massimo mettersi a strillare come un' adolescente in perenne conflitto con sua madre. Non tanto perchè non fossi in perenne conflitto con lei, ma poichè ormai avevo diciotto anni suonati e essendo maggiorenne non mi consideravo più in fase adolescenziale. "E, oh, non abbiamo un telefono a casa. Non ce n'è nessuno nel raggio di quindici chilometri" le spiegai, con un tono che era evidentemente volto a farle capire che non ero io l'irresponsabile, in quanto era stata lei a spedirmi a Sperdutolandia come un pacco postale sul quale non aveva nemmeno stampato il timbro 'fragile'. Tecnicamente era stato papà, sì, ma lei avrebbe potuto benissimo opporsi. E non l'aveva fatto. 
Poi, improvvisamente, un illuminazione. O meglio, un fulmine a ciel sereno. "Hey, un attimo! Perchè Joshua è a casa?!"
"Io e George abbiamo deciso di aspettare che sia maggiorenne prima di lasciarlo partire. Ad ogni modo non azzardarti a cambiare discorso, ragazzina! Con che faccia tosta hai osato tenermi in sospeso tutto questo tempo?!".
Ah, ed ero io quella che cambiava discorso! 
Quella sottospecie di cretino era ancora a casa! E potevo scommetterci il mio mp3 -e considerate il fatto che già prima di giungere a Sperdutolandia non lo abbandonavo mai un attimo e ora era rimasto l'unico modo per staccare la spina- che ci sarebbe rimasto. Sempre. Finchè non fosse stato lui stesso a deciderlo. 
Per l’ennesima volta ero consapevole di essere stata l’unica a subire le conseguenze delle azioni di entrambi. Per l’ennesima volta, sarei stata l’unica a essere punita, anche per lui.
Mi passai una mano tra i capelli, cercando di non sclerare. "Ho avuto da fare" le risposi, fredda.
"Come no. Però hai trovato il tempo per telefonare ad Emily!" mi accusò, con voce così acuta che temetti mi avrebbe perforato un timpano. La cosa mi infastidiva molto. Quella donna era totalmente priva di... scrupoli? Senso di maternità? Comprensione? Tutte e tre. Non mi capiva, era inutile. Era la persona che sulla faccia della terra riusciva minormente a interpretarmi. Era frustrante, e tanto. 
Ero stanca. Di tutto, di tutti.
Ero delusa.
"Per le persone che tengono a me trovo sempre tempo" sputai, acida.
Come era scontato che fosse, mia madre non fu contenta del mio commento. Iniziò a strillare nella cornetta, così forte che Ginger venne a chiedermi se fosse tutto ok. Le risposi di sì con uno sconsolato sorriso di cortesia, mentre mia madre continuava a gridare la sua chiassosa protesta contro la mia irriverenza e la mia ingratitudine.
Riattaccai, stufa, mentre lei ancora urlava, senza dirle una parola. Sapevo che il giorno seguente ne avrei subito le conseguenze, ma in quel momento ero troppo scossa per occuparmene. Pagai, ringraziai e salutai Ginger, e uscii senza curarmi di ciò che mi accadeva attorno, andando così a sbattere contro qualcuno di grande e grosso. O comunque più di me.
"Hey, ci si rivede!"
Lo guardai, accigliata e confusa. "Kameron, giusto?"
"Proprio io!" rispose, sereno. "Come te la passi, ragazza di città?"
Sospirai, sforzandomi di sorridere. In qualche modo sembrava che gli interessasse sul serio la risposta a quella domanda. "Potrebbe andare decisamente meglio." ammisi, sincera e un po' sconsolata.
Lui sorrise, solidale. "Vuoi che ti offra un caffè?"
Sinceramente dubitavo che la caffeina mi avrebbe fatto bene, scossa com'ero. Tuttavia, il suo sorriso sembrava sincero e mi sembrava un peccato rifiutare la compagnia di una delle poche –due, in effetti- persone che non mi avevano trattata con freddezza o disinteresse da quando ero in quel posto. Pochi giorni, che tuttavia sembravano settimane.
"Che ore sono?" mi informai.
"Le sette." rispose, dopo aver lanciato un' occhiata all'orologio a muro appeso sopra il bancone.
Ottimo. Cioè, non tanto: non sarei mai arrivata a casa del nonno in tempo per la cena. Non che avessi mai avuto di arrivare in tempo, visto e considerato che quel vecchio scorbutico mi aveva lasciato a piedi.
Il lato positivo era che non avevo più nulla da perdere, restando.
"No, grazie. Ma ti faccio volentieri compagnia" dissi, cortesemente.
Lui sorrise e mi guidò verso un tavolo, salutando i presenti uno ciascuno, per nome. 
Era stranamente piacevole passare del tempo qualcuno che sapeva di ‘amico’, nonostante fosse sicuramente troppo presto per considerare tale un ragazzo incrociato due volte. Tuttavia, in entrambe le occasioni, era capitato a fagiolo, salvandomi da me stessa e dalla lunga strada che separava la fattoria di Abraham dal paese. Mi erano sempre piaciute le coincidenze. Le trovavo divertenti.
 
 
In der Ecke - Nell'Angolo:
Mi sento stupida, e parecchio. Insomma, avevo detto che avrei aggiornato prima e invece è di nuovo passato un mese. D: Cercherò di impegnarmi di più, ve lo prometto. E se vi può essere di qualche consolazione, ci sono delle mie compagne che stanno contribuendo al mio più frequente futuro aggiornamento, spronandomi a scrivere. (Ho scoperto che per far leggere loro i miei scritti bastava stamparli. A saperlo prima! Meno e-mail mandate e rimandate... a vuoto!)
Intanto vi faccio in ritardo gli auguri di buona Pasqua. :3 E vi faccio quelli per la festa della Liberazione e per il lunedì dell’Angelo. Sempre che per queste due ricorrenze si facciano gli auguri. °-°
Mi sono resa conto che questa storia per ora non ha assolutamente di ‘romantico’. Ma il ‘romantico’  (anche se devo dire di non essere una gran romanticona) arriverà in seguito, per ora stiamo ancora solo cercando di far ambientare Pan nel suo nuovo mondo. Forse però dovrei cambiare sezione e mettere in Originali > Generale . Ma il romantico c’è. D: O meglio, ci sarà più avanti! Voi che ne dite? Sono combattuta. Lascio o cambio?
Vi informo anche del fatto che ho riaperto il profilo facebook con cui potete mettervi in contatto con me. :D Se a qualcuno di voi interessa lo trovate nella mia pagina autore, cliccando sull’apposita icona. In caso non funzionasse il link, potete sembre cercare YvaineZero Efp . Dubito ce ne siano altre, ma ad ogni modo io sono quella con l’immagine di Rapunzel da bambina. xD
Yvaine0

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Capitolo 10
*** 10 ***


Cows and jeans

10

 
“Ti ringrazio infinitamente, Kameron!” 
Era la ventesima volta che ripetevo quella frase, mentre il pick-up di quello che sembrava destinato a salvarmi ogni volta che mi attendeva una lunga a disastrosa camminata verso casa di Abe barcollava sulla strada piena di buche. Kameron entrò sorridente nell’aia di casa Fletcher e si fermò per farmi scendere. “Non preoccuparti, è un piacere”.
Gli sorrisi, veramente grata. “Prima o poi mi sdebiterò, te lo prometto”.
“Ma smettila! È così che funzionano le cose, qua. Non si chiede niente in cambio, perché si sa che prima o poi potrebbe capitare a tutti. Ti ci abituerai.”
Era la seconda volta che mi diceva che mi sarei abituata ai modi di fare di quel luogo, ma ogni volta ne ero sempre meno convinta. Certo, sarebbe stato fantastico se ognuno avesse aiutato il prossimo non aspettandosi nulla in cambio, ma dubitavo fosse realmente così. L’uomo era egoista per definizione, in fondo. Potevano esserci delle eccezioni, sì. Ma non più di qualcuna. “Speriamo. Grazie di nuovo!”
“Ancora?” rise. “Ci si vede in giro, ragazza di città!”
Non appena chiusi lo sportello Kameron fece manovra e uscì dallo spiazzo ghiaioso. Io corsi all’entrata e suonai il campanello, stanca a causa della lunga giornata appena trascorsa.
Non vedevo l’ora di mettere il pigiama e sprofondare sul materasso al piano di sopra. Me lo meritavo, in fondo.  
Fu proprio Abraham ad aprirmi la porta, accogliendomi con un caloroso saluto dei suoi. “Sei in ritardo.”
“Ma non mi dire?!” sbuffai, entrando. 
Tolsi le scarpe senza nemmeno slacciarle e le lasciai sul tappeto nell’entrata, accanto a quelle di Dean e del nonno.
“Regola numero tre: ritarda a tavola e salti il pasto!” disse, scocciato, avviandosi a passi lenti verso il salotto.
Sentii la rabbia montare. Oltre il danno, la beffa. Se non fosse passato Kameron mi sarei dovuta fare tutta la strada a piedi, e a quell’ora non sarei stata nemmeno a metà percorso!
“Cosa ti aspettavi, scusa? Mi hai lasciato mezzora di tempo per coprire quindici chilometri a piedi!” dissi, irritata. Ero stanca, non avevo voglia di sentirmi fare la predica. Ne avevo già ricevuta una, e per di più dall’ ultima persona sulla faccia della terra da cui sarei mai riuscita ad accettarne alcuna.
Quella stupidissima ironia della sorte poteva anche smettere di fare la simpaticona, per quanto mi riguardava, anche perché non era per nulla divertente. Dopo una giornata come quella non sarei riuscita a portare pazienza più di tanto; porzione che, a quell’affermazione del nonno, avevo già consumato.
Dean, che dal piano di sopra se la rideva beatamente a voce decisamente troppo alta per non essere udito, mi stava irritando e dismisura. Ero stanca, decisamente, dannatamente, stanca. Non potevo continuare così. Le cose non potevano andare avanti così. Forse... forse mi avevano fatto il malocchio, ecco!
Ero stizzita. Parecchio.
Il nonno si era fermato e ora mi osservava di sottecchi, in silenzio, cosa che mi innervosiva ancora di più. Per quale assurdo motivo non diceva mai niente? Parlava solo quando doveva rimproverarmi, quello stupido vecchio!
“Benvenuta nel mondo degli adulti, dove ci si organizza e si fanno sacrifici per poter andare avanti” disse Dean, e ricominciò a ridere fragorosamente.
Come ho già detto ero stanca, i miei nervi erano in decomposizione già da qualche giorno e non avevo più un briciolo di pazienza a mia disposizione. E, sì, sto cercando di giustificare la mia tendenza all’isterismo di quella sera.
“Stai zitto!” sbottai.
“Senti un attimo,...” ma il nonno non riuscì nemmeno a concludere la frase che ero già scattata come un molla.
“Lasciami stare, ok?” Alzai la voce senza nemmeno rendermene conto. Poi continuai, senza riuscirmi più a controllare. “Ne ho già sentite abbastanza per oggi, non voglio sentire una parola di più. Sono stufa! Sono stufa di tutto, sono stufa di questo posto! Non me ne va una giusta e non c’è nessuno che faccia qualcosa per aiutarmi! Che cosa pretendete da me?! Come cavolo pensate che possa fare tutto da sola?! Ho diciotto anni, ho preso la patente un mese fa, diavolo! Come posso cavarmela da sola quando non mi ha mai insegnato niente nessuno, secondo voi? Quei dannati bambini mi detestano, non ho tempo per dormire, non so come cavolo comportarmi e non ho nemmeno idea di che diavolo sia una motoretta!!!” la mia voce era acuta. Alta, e acuta. Una combinazione vincente per far soffrire gli innocenti timpani di qualunque essere vivente dotato di un udito.
Non so se vi sia mai capitato di lasciarvi sopraffare dalle emozioni. La rabbia mi pulsava nel cervello e nonostante sapessi che non aveva senso, dovevo –volevo- far capire loro quanto stessi male. Coscientemente o meno, stavo sputando fuori tutto quello che rimuginavo da giorni ma avevo preferito tenere per me. Una vocina, troppo flebile per poter essere udita chiaramente tra le grida della rabbia, mi intimava a smettere e andare a dormire.
“Rilassati e abbassa la voce, sembri un’ isterica”. Il commento giunse per primo, e Dean lo seguì a ruota, scendendo le scale mentre si sfregava con un asciugamano i capelli bagnati. Sembrava l’incarnazione del relax, in quel momento, con l’aria assonnata di quando ci si è appena goduti una doccia rilassante, e i pantaloni del pigiama già indosso.
Questo mi fece saltare i nervi del tutto.
“ISTERICA?!” strillai. “Che cavolo vuoi saperne, tu?! Insensibile menefreghista che non sei altro!”
“Hey, ma che vuoi da me? Non sono io che ti ho fatto venire qui?”
Tremavo, a quel punto. Come una foglia nel bel mezzo di una bufera. Mi mancava poco, davvero poco per crollare. Un soffio. Abbassai il capo, stringendo i pugni. “Secondo te sono venuta qui di mia spontanea volontà?!” 
“Bè, nessuno ti obbliga a rimanere. Pensi forse che qualcuno rincorrerebbe il treno piangendo disperato, se te ne andassi, principessa? Faresti un favore a tutti tornandotene da dove sei venuta!”
Socchiusi gli occhi, incassando il colpo, e mi morsi il labbro inferiore, ferita. Farfugliai qualcosa di imprecisato, conscia di essere sul punto di piangere. Era dannatamente ingiusto. E tremendamente vero.
“Hai detto qualcosa?” mi schernì nuovamente, Dean.
Strinsi i denti, poi sbuffai, arrendendomi al fatto che le lacrime avessero già iniziato il loro maledetto percorso lungo le mie guance. “Sei solo un grandissimo stronzo” conclusi, voltando la testa dall’altra parte, per non farmi vedere in faccia.
Abraham si schiarì la voce, poi sospirò. “Sembrate due bambini. Non vi vergognate?”
Lo guardai, spiazzata dalle parole più inutili che potessero uscire dalla sua bocca. Un singhiozzo mi scosse le spalle. Cosa mi aspettavo? Che mi difendesse, forse? No, non in quel mondo. Non in quella casa. “Ma vaffanculo” sbottai, rivolta a quello stronzo di Dean, a quel vecchio pazzo che aveva generato mio padre, a quelle stupide lacrime, a quei bambini indemoniati, ai miei genitori, a George e mio fratello, ma soprattutto a me stessa.
Uscii di casa, sbattendo forte la porta, senza scarpe.
Scesi i gradini di corsa, senza sapere esattamente perché né dove la mia rabbia avesse intenzione di portarmi. Sentendo gli irregolari sassi dell’aia attraverso il sottile tessuto dei calzini, marciai lungo la strada sterrata che portava in paese, singhiozzando come una bambina. Ed era ciò che mi sentivo, in fondo. Una bambina smarritasi al parco, dove tutti ridevano e giocavano felici, incuranti del suo dolore o anche semplicemente della sua presenza. Una bambina che sapeva di essere fuori posto, sapeva di essere sola. Che aveva paura e voleva tornare a casa, al sicuro. Con la differenza che io non avevo intenzione di tornarci, a casa. Non sapevo nemmeno dove fosse la mia. Non dove abitavano i miei genitori, sicuramente. E forse nemmeno dove mi avevano spedita senza riguardi.
Continuai il mio insensato cammino finché non fece buio, senza sapere dove stessi andando. Non mi interessava. Non mi importava di nulla. Se inizialmente la mia testa era sovraffollata di pensieri furibondi, quando avevo iniziato ad arrancare nel buio della sera estiva si era svuotata completamente. Ma continuavo a piangere, sfogando tutto il nervosismo accumulato non solo negli ultimi giorni a Sperdutolandia, ma anche nelle settimane trascorse in città dopo che mi era stato comunicato che me ne sarei dovuta andare. Continuavo a singhiozzare, lasciando che le lacrime bagnassero le guance, il collo, la maglietta sporca di pasta e fagioli. Lacrima dopo lacrime, però, non mi sentivo meglio. Era ancora troppo presto. Il percorso, non tanto quello a piedi quando quello di sfogo, era solo all’inizio. C’era tanto da sfogare: la consapevolezza di aver deluso mio padre, le lacrime di Emily, le risate di mio fratello, i ‘te l’avevo detto’ di George, la freddezza del nonno, le taglienti frasi di Dean, i tiri mancini dei ragazzini di Hayley, le ramanzine, l’umiliazione dell’aver pianto davanti a qualcuno. Questo e molto altri, compreso il dolore causato dagli irregolari ciottoli su cui aveva a lungo camminato, scalza.
Era ormai scesa la notte vera e propria, avevo superato diverse case, alcune con le finestre illuminate e fatto abbaiare alcuni cani che mi sentivano passare, chiudi nei loro recinti, quando mi fermai e invertii la rotta. Cominciai a tornare sui miei passi, esausta ma ancora scossa dai singhiozzi, col freddo che iniziava a farsi pungente.
Non so quanto tempo impiegai e non ricordo nemmeno cosa avesse frullato nella mia testa per tutta quella notte. Ricordo solo che quando varcai il cancello perennemente aperto e entrai nell’aia della fattoria, le luci della casa erano già tutte spente e l’unica cosa che mi permetteva di intravedere da che parte stessi andando era la luna, che, incurante di tutto, se ne stava in cielo, di profilo, a farsi i fatti suoi.
In silenzio, ma senza smettere di dare sfogo alle mie ghiandole lacrimali, andai ad accoccolarmi sulla panca di legno tarlato sotto il portico, accanto alla porta. Seduta, le gambe strette al petto, posai la testa sulle ginocchia e chiusi gli occhi, esausta, senza dar tregua a quella continua pioggia di emozioni represse.
 
La mattina dopo mi svegliai sulla sedia a dondolo dall’altra parte del porticato, nascosta al mondo di fuori da una coperta di lana. Non sapevo come ci fossi finita e non ero sicura di volerlo sapere. Cacciati via tutti i rancori e i dispiaceri accumulati nelle ultime settimane, mi pareva di non aver nulla a cui pensare. Mi sentivo più leggera. E tanto, anche. 
Quella mattina rientrai in casa e filai nel bagno di servizio al primo piano, per sciacquarmi la faccia impastata di lacrime e polvere. Avevo i piedi distrutti dopo la folle camminata, quindi passai una buona mezzora a lavarli e medicarli. Sgattaiolai in camera che Dean ancora dormiva e rimasi lì a ripensare alla scenata della sera precedente, vergognandomene terribilmente. Pensai di andare al lavoro in anticipo, senza così incontrare nessuno, ma mi sembrava una stupida e inutile dimostrazione di viltà, quindi pensai di bene di far finta di nulla e comportarmi come una persona civile.
La colazione, quella mattina, fu più la più imbarazzante che riesca a ricordare. Non ero l’unica a sentirmi a disagio, probabilmente, poiché anche Abe pareva un pesce fuor d’acqua. Se solitamente si parlava poco, in quella casa, quella mattina il silenzio fu tale che sembrava quasi di essere in un televisore a cui qualcuno aveva tolto l’audio dal telecomando.
Quando la macchina di Abraham frenò davanti a casa di Hayley, addirittura mi sorpresi a sentirmi sollevata. Ovviamente la giornata lavorativa non fu migliore delle precedenti. Oserei dire che fu identica se non per il fatto che nessuno si affacciò alla finestra all’ora di pranzo per recapitarmi messaggi e al momento di tornare a casa non rimasi a piedi.
Il viaggio di ritorno con il nonno non fu nemmeno lontanamente paragonabile a quello della mattina. Entrambi sembravamo esserci distratti durante il giorno, e aver deciso di far finta che la sera prima non fosse successo nulla. Dal canto mio, me lo auguravo. Ancora mi vergognavo di aver strillato a quel modo e di aver pianto come bambina, non volevo nemmeno pensarci. Forse il nonno la pensava come me, perché persino lui aveva abbandonato il solito impaccio e sembrava più rilassato. Mi ritrovai a raccontargli di quanto fosse complicato aver a che fare con quei cinque marmocchi. Non erano ancora confidenze, no. Si trattava solo di qualche chiacchiera scambiata per cortesia, ma era comunque un notevole passo avanti rispetto ai freddi e impacciati tentativi di conversazione dei giorni precedenti. “Sì, sono pestiferi” asserì Abraham, annuendo, senza distogliere lo sguardo dalla strada sterrata. “Se non ce la fai, con loro, puoi sempre cambiare lavoro”.
“No. È una questione di principio, ormai” ammisi, sincera. Non li avrei abbandonati tanto facilmente, non tanto perché mi fossi affezionata o che altro. Soprattutto per una questione di orgoglio.
Quella sera, Abraham, prima di rientrare in casa, mi chiese di seguirlo nel capanno dove parcheggiava la macchina ogni sera. Non ci ero mai entrata: nei pochi giorni trascorsi lì, il nonno mi aveva sempre fatto salire e scendere nell’aia. Nonostante la stanchezza, ero vagamente affascinata anche dalla rimessa. Tra vecchi attrezzi polverosi, fiaschi vuoti, bacinelle e bottiglie di diserbante, secchi di vernice e chissà quante altre cose nascoste alla vista, Abe mi guidò in un angolo dove accanto ad un paio di ruote di bicicletta, se ne stava appoggiato al muro vecchio ciao arrugginito e un po’ malandato. “La motoretta” mi rivelò, abbozzando un sorriso. Mi avvicinai, affascinata, per osservarlo da vicino. “è della Piaggio. Era rosso, un tempo. Tuo padre ce l’aveva sempre attaccato al ...” si schiarì la voce, guardando altrove, imbarazzato. “Sì, insomma, era sempre in giro con quello”.
Risi, serena. “Sai, culo non è considerata una parolaccia, al giorno d’oggi” gli comunicai, divertita. 
Il nonno ridacchiò, e si sedette sul cofano della macchina, goffo. “Be’, ai miei tempi non si usavano certi termini davanti alle donne.” Spiegò.
“Ad ogni modo, ...se vuoi è tua. Tanto non la usa nessuno, e suppongo che per tuo padre non sia un problema, visto che l’ha scaricata qua dentro e non si è mai degnato di venirla a prendere” bofonchiò la seconda parte della frase amaramente, poi continuò, notando la mia espressione evidentemente divertita. “Così potrai spostarti autonomamente. Finché Hayley non ti paga, ti presterò io i soldi per la benzina”.
Rimasi in silenzio per un po’, piacevolmente sorpresa. Poi, in tutta spontaneità, mi rivolsi al vecchio, riconoscente: “Grazie, nonno” sorrisi.
Quella fu la prima volta che lo chiamai in quel modo, da quando mi ero trasferita a casa sua. Solitamente tendevo a rivolgermi a lui dandogli del ‘tu’, senza usare alcun particolare appellativo. Non sapevo se Abraham avesse notato questo particolare nella mia frase, quella sera, ma per me era qualcosa di importante. Avevo sempre fatto una particolare attenzione a come chiamare le persone. Per fare un esempio significativo, da quando i miei si erano separati, mia madre per non era mai più stata ‘mamma’, se non quando avvertivo il particolare bisogno di sentirla vicina. Ed era invece un segno di affetto che continuassi a chiamare mio padre ‘papà’. George non si era mai sentito rivolgere quel nome da me, e mai sarebbe accaduto. Non so dirvi se, col tempo, Abe abbia mai notato che quando sono arrabbiata mi rivolgo a lui appellandolo per nome, mentre quando ritengo importante dimostrargli il mio affetto, la mia riconoscenza o qualunque altro sentimento positivo uso ‘nonno’. Fatto sta, che per me questa distinzione era molto significativa.
A partire dalla mattina seguente, quindi non ebbi più bisogno di passaggi da parte di Abe. Quando avviai per la prima volta il motore del vecchio ciao di mio padre, sentii un forte moto di orgoglio invadermi il petto. In parte, sicuramente, per la consapevolezza che quel mezzo di trasporto era -appunto- appartenuto a papà; sia perché era un simbolo dell’affetto che probabilmente Abe provava nei miei confronti, ma soprattutto perché con quello avrei dimostrato di non dover dipendere totalmente dagli altri. Avrei dimostrato di non essere un’ incapace principessa a quel polemico di Dean.
Passarono i giorni.
Con la mia nuova –relativamente- motoretta, i nervi più saldi, una riacquisita determinazione a dimostrare a Sperdutolandia quanto valessi, trascorsi un paio di settimane in modo tanto simile a quei primi giorni, quanto diverso. Le giornate a casa di Hayley rimanevano difficili e esasperanti, ma riuscivo ad affrontarle grazie alla consapevolezza che prima o poi sarei riuscita a cambiare le cose e che –comunque- qualche ora dopo sarei tornata alla fattoria di Abe, dove quantomeno nessuno mi avrebbe lanciato addosso il cibo. Ogni sera, prima di rincasare, montavo in sella al ciao e andavo in paese a telefonare ai miei genitori. Tendenzialmente preferivo parlare con mio padre, ma due volte a settimana facevo, anziché il suo, il numero di mia madre. Discutevamo, nonostante la distanza. Continuava a rimproverarmi per il mio comportamento durante la nostra prima conversazione, ma imparai presto quanto fosse semplice allontanare l’attenzione dalle sue ramanzine e concentrarla sui discorsi dei clienti del bar di Ginger. Lì, dopo aver riagganciato la cornetta, regolarmente incontravo per caso Kameron Towell con cui mi fermavo a fare due chiacchiere prima di montare in sella al mio piccolo, scrostato e arrugginito bolide e prendere la strada del ritorno. Qualche volta avevo incontrato anche Agatha, la ragazza che al mio arrivo mi aveva scortata assieme al ragazzo fino alla fattoria di Abe. La sorella di Dean. Era un tipo piuttosto schivo: nonostante Kameron le si rivolgesse con familiarità e confidenza, lei rimaneva sempre rigidamente distaccata e gli riservava a stento qualche battuta -che spesso rasentava l’offensivo. Proprio come suo fratello, in effetti, tendeva a non rivolgermi la parola più dello stretto indispensabile, limitandosi ad ascoltare ciò di cui parlavo con gli altri e facendo di tanto in tanto qualche smorfia o qualche commento.
Avevo scoperto, che il metodo più semplice per comunicare con le persone lontane dal paese, senza urgenza, era la posta. Proprio per questo motivo, ogni sera prima di andare a dormire, esausta, mi sedevo alla scrivania e scrivevo qualche annotazione sulla giornata appena trascorso su un quaderno che avevo comprato in una bottega di Sperdutolandia, il giorno stesso in cui mi era venuta la grande illuminazione di scrivere un diario. Prima che possiate stupirvi o darmi della cretina, ci tengo a specificare le mie intenzioni. Sarebbe stato costoso e complicato spedire una lettera al giorno ad Emily, la quale si sarebbe trovata la cassetta della posta piena di buste provenienti da un paesino che non aveva mai sentito nominare. Per quanto potesse essere efficiente il servizio postale, era praticamente impossibile potersi tenere in contatto regolarmente ogni giorno senza che le consegne delle lettere si accavallassero e confondessero i nostri –già caotici- dialoghi. Per questo, avevo deciso di tenere un diario. Un diario in cui, sera dopo sera, scrivevo ad Emily tutto ciò che di interessante accadeva, più i miei pensieri, gli sfoghi e tutto ciò che le avrei raccontato di persona. Una volta riempita l’ultima pagina di un quaderno, gliel’avrei spedita, e lei avrebbe fatto lo stesso. Devo ammetterlo, era un’ idea troppo astuta per poter essere farina del mio sacco. Di fatti, era stata proprio Emily a suggerirmi quella soluzione, quando una domenica pomeriggio, dopo la Messa, ne avevo approfittato per telefonarle.
Raccontato in questo modo, sembra quasi che la sera della mia crisi di nervi, tutto fosse stato rose e fiori. A dirla tutta, quasi niente era andato particolarmente bene. Le mie giornate lavorative continuavano ad essere frustranti e un paio di volte, la motoretta aveva dato forfait e mi era toccato pedalare lungo quell’odiosa strada accidentata –l’unica esistente, in effetti.
Sarebbe curioso raccontarvi la mia reazione quando il primo venerdì mi ero svegliata come sempre all’alca, avevo guidato fino a casa di Hayley, per poi scoprire che quel giorno, in paese, nessuno lavorava. Lo chiamavano ‘ il giorno del recupero ’, giornata che la gente sfruttava per mettersi in pari con i lavori domestici, passare del tempo in famiglia, pulire e rifornire i negozi, e chissà quante altre cose. Nessuno me l’aveva detto, ovviamente. Al mio ritorno, Dean mi aveva riso in faccia. Ma so che non è se mi fossi messa a sbraitare -oppure avessi estratto una buona dose di autoironia e mi fossi unita alle risate- che vi state chiedendo, o sbaglio? La domanda a cui volete una risposta è: e con Dean?
Bene, non è che le cose fossero cambiate più di tanto. Anche dopo esserci insultati a vicenda, le uniche parole che ci rivolgevamo erano cariche di sarcasmo e ironia. Eravamo una sorta di epica coppia di 'bisticciatori'  folli.
Un po’ come Harry Potter e Draco Malfoy.



In der Ecke - Nell'angolo:
Ed eccomi qua, più in fretta del solito, ma con un capitolo un po' più... bè, che mi piace decisamente meno degli altri.
Devo dire che è stata una specie di parto la sclerata di Pan. Non tanto per i contenuti, ma perchè dopo averla scritta e poi sistemata tutta, mi s'è bloccato il computer e ho dovuto riavviare senza la possibilità di salvare. D: Tuttavia era ispirata e l'ho riscritta quasi uguale -per miracolo. xD
Quando Pan vaga scalza e senza meta per la campagna dice che la luna sta di profilo. Forse non ha senso, ma è una perifrasi per dire che non era piena, mi sembrava carina. Questo l'ho specificato in caso non si capisse. ^^"
Bene, ora passiamo al capitolo... Pan è scoppiata e ha mandato a quel paese tutto e tutti. Ha pianto tutta la notte e poi ha passato il giorno successivo a vergognarsi per il suo comportamento. C'è da dire però che questa volta Abraham ha fatto la cosa giusta, fingendo che l'esplosione della nipote non fosse avvenuta e rendendole le cose più facili.
Inoltre -tadann!- spunta fuori la motoretta. xD http://www.agafish.it/images/Varie/La%20mia%20moto/Ciao_50.jpg <-- Sarebbe quella. Anche se quella di Pan è un po' più malandata, considerato tutto il tempo che è rimasta ferma in un capanno. °-°
Poi... uhm... che altro c'è da dire?
Oh, sì, questo non so se può interessarvi, ma mi pare una cosa simpatica. Una mia amica dopo aver letto tutti i capitoli fino a qui (anche perchè non ce ne sono altri, ancora) mi ha chiesto chi sarà la futura fiamma di Pan. Chiaramente non le ho risposto. xD Ma mi ha sorpreso chiedendomi "Miiiiccch! Chi è? Kameron, Dean o Terrence?" . Secondo voi? Cioè, non risponderò mai si o no alle vostre opzioni, anche perchè non sono in grado di mentire e mi fregherei. xD Però... voi cosa ne pensate? Su chi siete indecise voi? Se siete indecise.
Via, ho finito! Vi lascio in pace! :D
Quasi dimenticavo: dedico questa storia (tutta) alle mie bbbionde -chi dentro e chi fuori-, che mi aiutano a continuare a scrivere, consapevolmente o meno.
A Fe, i cui pestiferi cuginetti ispirano i figli di Hayley;
a Lu, che ha ispirato tutta la vicenda della motoretta -e altro che al momento non ricordo XD-;
a Lily, che mi ascolta quando ciarlo a proposito di ciò che scrivo senza mandarmi a quel paese anche se so che vorrebbe;
a Mery, che mi ha fatto la domanda sopracitata, insistendo per avere una risposta che non ha ricevuto, e che mi legge e mi sostiene sempre;
a Vale, che mi legge durante le lezioni di italiano invece di dormire, mi corregge gli errori, prevede il mio futuro, bisticcia con me sui personaggi, ma soprattutto a cui sono molto vicina in questo momento particolare.

Un saluto,
Yvaine0

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Capitolo 11
*** 11 ***


Cows and jeans
 
11

 

 

 

Le bestiole gridavano. Bestiole era un sottogruppo dei mostruosi figlioletti di Hayley. Immaginatevi un grande insieme con dentro cinque indemoniati ragazzini dall'età compresa fra i sei e i tredici anni. Poi racchiudete il più grande nell'insieme J, il capo branco. Robin, nel secondo, R, il braccio destro. Inserite entrambi in un più grande cerchio che chiameremo D, come Demoni. Poi recintiamo i tre marmocchi rimasti nell'insieme B, le bestiole, ovvero i piccoli esserini influenzabili. E in quanto tali, corruttibili da quei demoni dei fratelli maggiori, ma anche coinvolgibili da me in giochi più tranquilli e costruttivi dello strillare continuamente.
"Ok, cantiamo una canzone, eh?" trillai, battendo le mani con entusiasmo, nel tentativo di sovrastare gli schiamazzi dei bambini. Non sapevo se fosse vero o falso, ma comunque ero sollevata all'idea che Robin e Johnny se ne stressero buoni buoni sul divano, uno a leggere e l'altro con un videogioco tra le mani. Per una volta, forse, sarei riuscita a fare la baby-sitter -cosa per cui ero pagata- anzichè l'esorcista. "Nella vecchia fattoria..."
Robin voltò la testa dalla mia parte. "Vecchia? La nostra fattoria non è vecchia."
Sbuffai e ricominciai da capo. Non avevano tutti i torti. In città nessuno si preoccupava di quel particolare, nessuno aveva una fattoria, in effetti. "Nella nostra fattoria, ja-ja-ooh, quante ..."
"Nostra?" Johnny scattò in ginocchio sul divano e mi guardò male. "Nostra di chi? Hai una fattoria, tu? Noi ne abbiamo una, non tu." 
A quel punto avrei potuto tranquillamente intonare "Nella vostra fattoria", ma capii che quei due demonietti -probabilmente imparentati con Pixie- non mi avrebbero lasciato cantare alcuna canzone, impedendomi così di plagiare i loro fratellini. Senza contare che "nella vostra fattoria quante bestie ha zio Tobia" non avrebbe avuto alcun senso. Loro non avevano uno zio con quel nome, il che sarebbe stato spunto per un altro irritante rimprovero.
Non mi sarei lasciata fregare così, però. Sarebbe bastato ignorarli e coinvolgere in qualche gioco i piccoli prima che iniziassero a trovare divertenti le mie espressioni frustrate alle continue interruzioni degli altri due.
Non risposi, quindi, ma sorrisi nuovamente ai bambini. "Allora, qual'è il vostro cartone preferito?"
"I Gormiti!" esclamarono in coro. Da dove venivo io era praticamente impossibile che due bambine si accontentassero di guardare cartoni animati per maschietti. Ma evidentemente, crescendo tra i fratelli, Terry e Beth non potevano non essersi adattate. Tuttavia, non conoscevo il cartone e sarebbe stato complicato inventarsi la sigla. I bambini odiavano chi sbagliava le sigle dei loro cartoni preferiti. O almeno io non lo avevo mai sopportato.
"Mai visto" ammisi. "Conoscete qualche altro cartone? Manny Tuttofare?"
"Quello è per bambini" si indignò Thom, incrociando le braccia. 
"Noi siamo grandi!"
Trattenni una risata, erano tremendamente buffi. Annuii, fingendomi convinta. "Avete ragione. Phineas e Ferb?"
La risata di Johnny trasudava scherno, ma decisi di ignorarla. Non mi sarei fatta prendere in giro da un ragazzino.
I bambini annuirono.
“Bene, quale canzone vi piace?”
E così, come se nulla fosse, ricominciarono a strillare. Questa volta, almeno, non era senza motivo: apparentemente si stavano litigando la canzone più bella. Cantandone stralci a squarciagola e intimandosi il silenzio a vicenda, con grida disumane.
“Ok, ok, ok!” iniziai ad agitare le braccia, per attirare la loro canzone. “Scelgo io, perchè sono la più grande”.
Le bambine si imbronciarono. “Non fate quelle facce, crescerete anche voi” aggiunsi, frettolosa. Non fosse mai che le avessi offese! Ci mancava solo quello.
“Allora, fatemi pensare” presi tempo, mentre Johnny tornava al suo libro, scuotendo il capo. Mi trattenni dal fargli una linguaccia non tanto per la mia maturità, quanto per la consapevolezza di quanto le bestioline amassero fare la spia per cacciare nei guai gli altri.
Tornai con la mente al cartone animato, pensando ad una delle canzoni. Erano frequenti, anzi ce n' era una ogni episodio, più la sigla. Ma ovviamente non le sapevo tutte a memoria. Avevo solo un vago ricordo di...
“Bau chica bau bau
ecco l' amore mio,
mau mau mau
il mio cuore batte
cicchi cicchi ciuai
non si ferma mai
gitchi gitchi goo
manchi solo tu!”
 
“Ciao, Hayley!” 
Quando la donna tornò a casa, quella sera, la accolsi con un sorriso. “Ciao, Pan, cara. Com’è andata oggi? Ti hanno fatto impazzire?”
Sospirai. Sarebbe stato bello poter dire ‘no, assolutamente, oggi ci siamo divertiti’ ma sarebbe stata un’ immensa sciocchezza.
Certo, ero riuscita a tenerli buoni per quasi tutta la mattina. Ma questo solo perchè Johnny e Robin avevano deciso di farsi gli affari loro ed ero riuscita a coinvolgere i bambini in qualcosa di meno fastidioso degli strilli immotivati. I due fratelli più grandi si erano anche scompisciati dal ridere vedendomi cantare le sigle imitando i personaggi di tutti i cartoni animati che mi venivano in mente. Ma all’ora ti pranzo si era tornati a giocare con le posate-catapulta e al pomeriggio a dispetti, grida, insulti, oggetti lanciati e fughe improvvise. Sì, perchè Johnny aveva trovato divertente insegnare un nuovo gioco ai fratelli: chi esce di casa e scappa più lontano prima che Pan lo becchi, vince. Persino loro si erano accorti di quanto potessi effettivamente essere svampita –per usare un eufemismo-, spesso.
“Al solito. Hai bisogno di qualcos’altro o posso andare?”
“No, vai pure, ora ci sono io”.
Sorrisi, grata. “Grazie. A sabato, allora!”
“A sabato!” mi salutò.
Mi avviai, ma non feci in tempo a mettere in moto l’incespicante motoretta, che mi venne un’ idea e tornai a bussare alla porta di Hayley.
Fu Johnny ad aprire, e dopo avermi visto e sbuffato, mi sbattè la porta in faccia. “Hey!” protestai, indignata. Bussai nuovamente alla porta, sentendo solo i bambini ridere e la madre che dalla cucina chiedeva cosa stesse succedendo.
Io ero svampita, sì, ma quella donna lo era quasi più di me.
Con un sospiro, girai attorno alla casa e bussai alla finestra che i ragazzini dovevano aver chiuso proprio per tenermi lontana. 
La donna dai cespugliosi capelli castani corse ad aprire i vetri, sorridente. “Pan! Hai bisogno?”
Forse in quella casa era regolamentare parlare con le persone attraverso le finestre, anzichè lasciarle entrare in casa dalla porta d’ingresso. Kameron mi avrebbe detto qualcosa tipo ‘ti ci abituerai, tranquilla’, se avesse sentito quel pensiero. Continuavo a credere che, no, non mi sarei mai abituata alle abitudini di Sperdutolandia.
Cacciai il pensiero e sorrisi alla donna. “Sì, veramente. Volevo chiederti se per caso i ragazzi hanno qualche interesse particolare. Giusto per inventarmi qualcosa per passare il tempo”.
E tenerli a bada senza rischiare che mi sbranino viva.
“Bè, che io sappia...”
“Sì?” la incalzai. Era troppo bello per essere vero. Forse stavo per trovare la musica di Fufi! Ehm, cioè, il tallone d’Achille dei demonietti.
Sorrise. “Che io sappia, Johnny ama le lingue e Robin gli indiani, i cow boy, eccetera. Thom e le bambine... a dire il vero loro si adattano a tutto. Basta che i fratelli dicano qualcosa e loro obbediscono. Peccato non facciano così anche con me!” ridacchiò, imbarazzata.
Nemmeno con me erano obbedienti, a dire il vero. Ma non lo sottolineai.
La ringraziai e me ne tornai alla motoretta, pensando a come sfruttare quelle informazioni a mio vantaggio. Il maggiore amava le lingue, il medio il far west. Che ci fosse bisogno di chiamarlo ‘far west’ in un posto come quello era il colmo. Praticamente era il ‘contemporaneo west’, anche se a ovest di cosa esattamente non lo avrei saputo dire.
Persa nei miei pensieri mi ritrovai in paese, con un vuoto nella memoria riguardante tutte le –monotone-  azioni svolte durante il tragitto. Ritornai al pianeta terra solo quando misi a dura prova i freni di quel vecchio trabiccolo inchiodando per non investire in pieno Kameron. Non so grazie a quale divinità, spirito, demone o grande Mago del passato, questi non fecero cilecca, evitando così un bell’ incidente nel paese. Ipotetico scontro che avrebbe sicuramente fatto scalpore tra le trenta, quaranta persone che vi abitavano: mai niente di così pericoloso poteva essere accaduto lungo quelle stradine al groviera.

“Cavolo! Scusami, Kam!”
Lui rise, tranquillo. “Fortuna che il vecchio Abe ha controllato i freni!” commentò, grattandosi il capo.
Una figura dalla alta coda di cavallo color paglia fece una smorfia. “Sfortuna, vorrai dire.”
“Ciao, Agatha” salutai, smontando dalla sella e mettendo la quasi arma del delitto sul cavalletto. Effettivamente dubito che lo avrei ucciso investendolo con quella sottospecie di bicicletta malandata, ma non sarebbe stata comunque una bella esperienza. Non per me almeno. Sono sicura che Joshua al posto mio si sarebbe divertito un mondo a raccontare a tutti di aver investito un ragazzo, specie se ne erano entrambi usciti indenni. Probabilmente anche Kameron ci avrebbe riso su, sembrava essere in grado di ridere su ogni cosa, quel tipo. Sarebbero stati una bella coppia di amici, lui e mio fratello.
“Ciao, Pan” la bionda abbozzò un sorriso. “Stavi per guadagnarti tutta la mia simpatia”.
“Mi dispiace, non sono brava a bowling. La prossima volta cercherò di travolgere i birilli” risposi, con un’alzata di spalle e molta più nonchalance di quanto non ne avessi. Quella ragazza mi metteva leggermente in soggezione, così severa e versata in ogni genere di battuta tagliente.
Sorrise, divertita, senza però scomporsi. “Domani hai da fare?”
Mi accigliai, spaesata. “Come?”
Accennò una smorfia, stringendo le labbra sottili. “Domani. È venerdì. Hai da fare?”
La guardai, sorpresa. Mi stava chiedendo di passare del tempo insieme? E dire che avevo l’impressione di starle altamente sulle scatole. Alla nuova assenza di una risposta da parte mia, evidentemente, pensò che fossi così stupida da non aver capito la domanda, perchè fece per aprir bocca e dir qualcosa, ma Kameron la precedette. “Io e Aggie volevamo fare un giro. Ti unisci a noi?”
La bionda inarcò un sopracciglio, affondò le mani nelle tasche e ruotò appena il busto verso il ragazzo. “Ti correggo: tu vuoi fare un giro. Io devo portare della roba a Dean e ho la sfortuna che mio padre riponga la sua fiducia in un gorilla come te” fece una smorfia contrariata. “Non ho ancora l’età per guidare”.
Stavo per obiettare che in ogni caso dubitavo qualcuno potesse fermarla e farle una multa, in quel posto, ma preferii rimangiarmi quel pensiero. “Autista personale, eh?” ironizzai, sorridendole. “No, non ho da fare. Vi farò compagnia se non vi dispiace” risposi, allegra. Effettivamente avevo trascorso tutti i venerdì passati con gli auricolari nelle orecchie scrivendo sul diario per Emily e rassettando la casa. Perchè, sì, sebbene ci vivessero (solo e ben !) altre due persone –e da molto più tempo di me-, se avessi lasciato far tutto a loro, avrei potuto letteralmente nuotare tra polvere e panni sporchi in meno di due settimane.

 
Quando la mattina seguente mi alzai e scesi a far colazione, Abraham mi invitò a seguirlo nel porcile, per farmi conoscere i porci. Sicuramente non era stato il primo dei miei pensieri, quando avevo ipotizzato qualche bel momento nonno-nipote, ma ovviamente non era il caso di protestare. In quel posto avevano un modo di vedere le cose estremamente diverso da quello dei cittadini –veri e propri- e anche dai miei. Così lo seguii nel porcile, dove c’era Dean, intento a nutrirli. Lanciava loro parte dei rifiuti organici che venivano prodotti in casa, cucinando. Gli stessi scarti che spesso divenivano cibo anche per gli amati polli di Abe. Com’era possibile che tre sole persone producessero tanta immondizia? Non ne avevo idea.
Ad ogni modo, tra i grugniti allegri dei maiali, il biondissimo antipatico mi salutò con un “Buongiorno, principessa!” talmente carico di sarcasmo che non fu possibile alla mia mente bacata fare alcun collegamento con l’allegro e affettuoso saluto di Benigni nel film La Vita è Bella. (*) Non che ce ne fosse motivo, ad ogni modo.
Abraham si appoggiò con gli avambracci al cancelletto di legno che teneva gli animali chiusi dentro, accanto a Dean. Io, lievemente a disagio –l’odore non era dei migliori, e l’idea di avvicinarmi tanto a quegli affari non mi allettava particolarmente-, rimasi in piedi al suo fianco, dall’altro lato rispetto al ragazzo, ma ad una debita distanza dal legno che ci separava. Mi alzai in punta dei piedi, sbilanciandomi lievemente in avanti per vedere gli animali al di là del cancelletto, incerta.
“Principessa, mi dispiace che a corte tu non abbia mai visto un maiale, ma dubito che questi possano essere interessati a te. Non lo sarebbero normalmente, adesso che stan mangiando ancor meno”.
Gli lanciai un’ occhiataccia, trattenendomi dall’ insultarlo. “Oh, giovine porcilaio, mi duole venire a conoscenza del vostro mancato incontro con la grazia di Sorella Intelligenza, ma ormai il messere che la accompagnava se ne è dipartito. Se vi aggrada, potete  sollevare i vostri regali tacchi, abbandonare codesto luogo e...” ...andartene a quel paese! “tentare di raggiungerlo”.
Avevo paura, sì. Insomma, non ne avevo mai visti dal vero. Non c’erano porcili dietro ogni angolo, da dove venivo io. Non ero abituata a bestie così grandi. Ok, le mucche che tanto adoravo lo erano molto di più, ma era un cosa diversa. Avevo bei ricordi legati a loro, e mi erano sempre piaciute, fin da piccola. Avevano un non so che di dolce, inoltre. Quei maiali, invece... sembravano fin troppo irrequieti e rumorosi mentre col grugno si scansavano la testa a vicenda avidamente per ingurgitare più cibo possibile.
Ok, non so dire perchè, ma ero piuttosto intimorita da quei bestioni. 
Dean mi lanciò un’ occhiata di sottecchi, senza nemmeno smettere di lanciare rifiuti ai maiali. “Uno pari, principessa” commentò, sarcastico.
“Sai, Dean, se fossi meno arrogante potremmo anche andare d’accordo” me ne uscii. E in parte era vero, non solo una battuta. Pensavo veramente che se quel tipo avesse messo da parte un po’ del suo immotivato astio nei miei confronti saremmo potuti anche diventare amici. Certo era, però, che non avrei mai fatto io il primo passo. Non potevo farlo. Mi trattava male.
Occhio per occhio, dente per dente.
“Sai, Pan, se fossi meno principessina potremmo andare d’accordo. Ah, no, aspetta: non credo proprio” rise.
Strinsi i denti, irritata. Evidentemente non sapeva come fosse una ‘principessina’, altrimenti non avrebbe detto niente di simile. L’avrei volentieri spedito da dove venivo io, ad aver a che fare con le mie compagne di classe. Al ritorno mi avrebbe chiesto scusa in ginocchio.
“Ma davvero, come sei simpatico” sbuffai, spostando lo sguardo sui maiali pur di non guardarlo. “Come si chiamano, Abe?” chiesi, per cambiare argomento. In fondo era per farmi conoscere i rosei suini che mi aveva condotta lì, no?
“Oh” Abraham si schiarì la voce e raddrizzò le spalle. Allungò un braccio e mi indicò gli animali. “Quello grosso è Bartholomew, la scrofa si chiama Penelope”.
“Wow” commentai, senza sarcasmo. “Date agli animali nomi di persone?” mi uscì detto, senza averci pensato. Effettivamente non c’era nulla di male, ma da dove venivo io...
Dean rise, sprezzante. “A corte gli animali si chiamano Micio, Pallina e Briciola, giusto? Penso che anche un maiale si sentirebbe umiliato da una schifezza simile”.
Effettivamente sì. “Hai ragione. Solo, stavo pensando... Abe, secondo me a quella povera bestia si adatta di più il nome Dean, sai?”
Abraham sospirò, mentre il ragazzo partiva nuovamente all’attacco. “Poco male: del maiale non si butta via niente”.
“Sì, proprio per questo dovremmo chiamarlo Dean. Magari con l’associazione ad un animale utile compensi un po’ la tua pessima personalità”.
“Ha parlato la piccola e dolce principessa!”
“Oh, smettila, così mi fai arrossire!” sputai.
“Così forse somiglierai meno alla staccionata del cortile”.
“Questa non ha senso”.
“Oh, sì che ce l’ha! Ma non è colpa mia se sei lenta, oltre che pallida e piatta come una tavola!”
Trattenni il fiato e arrossii, indignata. A parte il fatto che non era vero, come si permetteva! “Sei un dannato cafone!” strillai, sembrando molto probabilmente –se non sicuramente- un’ isterica.
Vidi mio nonno piuttosto esasperato, mentre uscivo di corsa dal capanno, riempiendo Dean di epiteti poco carini ma mai scurrili –mio fratello era l’unico a cui riservavo quelli appartenenti a tale categoria. 
Dean se la rideva, mentre mi indignavo sempre di più, insulto dopo insulto.
“C’è accesa una radio?” bofonchiò una voce femminile, subito seguita da una risata fragorosa che avevo imparato a riconoscere.
Coi pugni stretti e le braccia a mezz’aria, a metà di un’ esibizione gesticolata di ‘se anche i Troll avessero un cervello tu rimarresti meno intelligente ed educato di loro!’, mi bloccai e posai lo sguardo su due nuovi venuto che non avevo ancora notato, sebbene dessero l’impressione di essere lì, appoggiati al pick up, da un bel po’.
“No, Aggie, ho acceso solo la principessina degli gnomi”.
Lanciai un’ occhiata in tralice a Dean, e arrossii per l’imbarazzo. Quanto poteva una persona, che, gesticolando, urlava frasi completamente senza senso per qualunque persone normale e con pochissimo anche per i Potteriani, risultare ridicola? Non ero un asso in matematica –non ero un asso in niente, a dirla tutta-, ma anche senza prendere una calcolatrice supponevo che la risposta sarebbe stata gravemente dolorosa per il mio bistrattato orgoglio.
“Ah, meno male” ridacchiò.
Ma come ‘meno male’?!
Gli si avvicinò, una sportina piena di quelli che sembravano vestiti in mano. “Tieni” bofonchiò, con una smorfia. “Sia chiaro che non sono il tuo postino”.
“Come no?” rise lui. “Kam, amico, non si saluta?”
Avrei voluto obiettare che effettivamente lui era il primo ad avere una certa consuetudine a non salutare, ma appena volsi lo sguardo verso i due biondi qualcosa nel mio cervello fece contatto causando un momentaneo corto circuito. Erano praticamente identici. Stessi capelli, sebbene quelli dell’uno fossero spettinati mentre quelli dell’altra stretti nella solita alta coda di cavallo. Anche i lineamenti erano praticamente identici, eccezion fatta per la totale assenza di lentiggini sullo strafottente volto di Dean. A pensarci meglio, persino il loro catattere era molto simile.
La cosa mi lasciò basita, mentre il mio cervello cercava di spiegarsi tali somiglianze. 
Kameron nel frattempo rise della frasi di Dean. “Ciao, fratello” salutò, allegro come sempre. “Ciao, Pan”.
Fratello. Aaahh! Nel mio cervello si palesò la realtà, che tra l’altro sapevo già.Sono fratelli! Pensando ciò, alzai un dito e misi su un’ espressione sorpresa –modello Archimede Pitagorico-, che diede vita la stessa espressione di sufficienza sopra i simili volti dei fratelli McDonnel.
“Ciao, Kameron” risposi, abbozzando un sorriso.
“La principessa degli gnomi è rimasta scandalizzata dall’incontro coi maiali” buttò lì, Dean, irrisorio.
Ripresi tutta l’indignazione di poco prima, momentaneamente messa da parte per lasciare spazio alla riflessione sul perchè Agatha e Dean si somigliassero tanto. “Non è vero niente!” nonappena lo dissi, mi sentii tanto infantile, ma feci finta di nulla.
“Ma se eri sul punto di fuggire!”
“Non è vero! Stavo solo a debita distanza.”
“Ti fanno paura” rincarò.
Avrei potuto continuare a far ciò che mi diceva l’orgoglio, ovvero negare spudoratamente come una bambina testarda, ma invece sorrisi, sfacciata. “Sì. Allora?”
Ero convinta di averlo messo nel sacco, ma lui diede un’alzata di spalle. “L’ allora dovresti spiegarmelo tu. Eri tu a non volerlo ammettere”.
Aveva vinto lui. Di nuovo.
Chiusi gli occhi e respirai a fondo. “Sei irritante” soffiai, infine, cercando di calmarmi. Avevo dato abbastanza spettacolo, per quel giorno.
“Lo so. Senti, porta in casa questa roba, ok?” disse, restituendo la sportina alla sorella. Poi si rivolse all’ altro ragazzo. “Kam, vieni, ho un’ idea.”  Lo chiamò, afferrando una tanica di benziina e dirigendosi nel capanno, seguito fedelmente da un allegro Kameron.
Dopo un verso di frustrazione nei confronti del biondo, accompagnai Agatha in casa e la scortai nella stanza di suo fratello, dove si limitò a lanciare sul letto ciò che gli aveva portato.



DubbiDomandeDelucidazioni:
(*) Ringrazio infinitamente marypao per questo riferimento, fatto in una recensione ad uno dei primi capitoli. Ti ringrazio, perchè altrimenti –scema come sono- non avrei fatto il collegamento da sola. xD

- Questa è la canzone che Pan canta con i bambini, ad inizio capitolo. Nel cartone non è esattamente così -questa è la versione estesa-, ma non ho trovato quella tratta direttamente da lì –o comunque non con un audio almeno lontanamente decente.

http://www.youtube.com/watch?v=n1B0M0ve-ao&feature=related

- E questo è Archimede Pitagorico, per chi non lo sapesse o avesse un momentaneo vuoto di memoria: 
http://iltafano.typepad.com/.a/6a00d83451654569e20133f1dca4f0970b-200wi

 

In der Ecke - Nell'angolo
Salveeee! ^W^
Non uccidetemi D: non uccidetemi perchè se c'è qualcuno da incolpare per questo enorme ritardo, quel qualcuno è gmail, che mi ha perso la mail con il capitolo inviato. Io ho praticamente aspettato un sacco di tempo, per poi accorgermi che alla mia povera beta il capitolo non era nemmeno arrivato. u.u Sì, lo so, tecnicamente la colpa è la mia, ma praticamente della casella di posta. u.u
Oh, il 'dubbi, domande, delucidazioni' che trovate qui sopra è il nome che ho dato all'angolo 'chiarimenti'. Il nome viene da una frase ricorrentemente ripetuta dalla mia prof di lettere. 
FINALMENTE sono iniziate le vacanze. Ora non ho più scuse in caso di enormi ritardi, e penso proprio di riuscire a non farli: ho tanto tempo per dormire e dedicarmi a Pan.
Se avete avuto la pazienza di attendermi tutto questo tempo vi ringrazio enormemente. 
Penso di non aver nulla da dire. Spero che il capitolo non faccia troppo schifo.^^
Buone vacanze!

 

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Capitolo 12
*** 12 ***


Cows and jeans

12

 
Il mio suggerimento di inseguire la carrozza di Madama Intelligenza era stato bellamente ignorato da Dean, a quanto pareva.
Agatha rideva mentre il pick-up incespicava per le stradine sterrate. Rideva perchè la sottoscritta veniva comicamente sbalzata a destra e a sinistra ad ogni tre per due con in volto l’espressione corrucciata e imbarazzata di Ron Weasley alla sua prima lezione di Volo ad Hogwarts (*). E lei rideva di me, come Kameron nell’abitacolo, che sembrava divertirsi come un matto centrando tutte le buche che trovava, sotto il sadico consiglio di Dean. Tralasciando l’industriale quantità di frustrazione mixata alla piccola di dose di sana autoironia –mediocremente palesata dal tirato sorriso che mi stavo costringendo a stamparmi in volto- cercavo di imitare l’annoiata naturalezza con cui Aggie se ne stava tranquillamente seduta in un angolo, le braccia adagiate sulle pareti del cassone, appena scossa dai continui scrolloni causati dalle buche e dalle pessime sospensioni del trabiccolo. Nel frattempo, una parte di me –chissà quale e quanto importante, ma a pensarci bene chi se ne frega- malediceva la testardaggine del biondo accomodato sul sedile del passeggero. Aveva insistito tanto, come uno stupido bambinetto, per salire davanti con il suo amichetto del cuore. Ma accidenti a lui e alla sua stupida tendenza a farmi saltare i nervi! Al suo stupido nuovo hobby, per meglio dire.
“Tutto a posto?” domandò Agatha, divertita.
Le lanciai un’ occhiata. “Mi sento un uovo sbattuto, ma sì” ammisi, sconsolata. La figura della cretina già l’avevo fatta tante volte. Una più o una meno, ormai non faceva differenza. Avevo inoltre deciso che non mi importava particolarmente dell’idea che lei si era fatta di me. Insomma, era solo una ragazza come le altre, nonostante sembrasse così matura e giudiziosa. Giudiziosa e versata nei giudizi, in effetti. Ok, era una persona che già allora ammiravo, nonostante la sorta di riverenziale timore che riusciva ad incutermi. Ma io ero io, con i miei pregi e i miei difetti. Sarebbe stato da idioti fingersi un’altra persona, magari matura e seria, per accaparrarsi la simpatia di qualcuno. Sarebbe stato come mentire, forse anche peggio. 
“Dove stiamo andando, precisamente?” domandai, mentre mi esibivo nell’ennesima smorfia frustrata.
Aggie sorrise. “A casa di Kameron. Preparati, penso che mio fratello stia per giocarti un tiro mancino”.
Lanciai un’ occhiataccia all’abitacolo e alzai le braccia per poi farle ricadere in un gesto di rassegnazione. Questo ovviamente, proprio nel momento in cui il pick-up prendeva una buca più profonda delle altre, facendomi finire letteralmente gambe all’aria nel cassone. Agatha se la rideva della grossa, mentre mi rialzavo e mi massaggiavo la testa nel punto in cui avevo picchiato contro le pareti di lamiera.
Sbuffai sonoramente, strizzando gli occhi. Senza rendermene conto iniziai a imprecare a bassa voce, augurando a non so chi precisamente di incontrare un branco di Acromantule a digiuno da almeno due secoli. 
Nemmeno feci caso all’espressione sconcertata ma divertita che si era allargata sul volto severo di Agatha, non feci caso nemmeno alla risata che seguì la mia ennesima e colorita imprecazione, troppo impegnata a chiedermi cosa avessi fatto di male per meritarmi tutta quella stupidità. Mia e di chi mi circondava.

Arrivammo alla fattoria Towell nel giro di pochi minuti. Come ormai avrei dovuto imparare, passandoci davanti ogni mattina sulla mia sgangherata motoretta, questa era proprio lungo la strada che separava la casa del nonno dal paese. Nel complesso la casa era leggermente più piccola, ma molto simile a quella di Abraham. Eccezion fatta per la vernice di pareti, persiane, ringhiere e staccionate. Se da noi era rovinata, scolorita ed erosa dal tempo, l’abitazione dei Towell riluceva di sgargianti tinte appena passate –o almeno così pareva.
Dean e Kameron scesero dalla vettura ridendo, spensierati. Come due ragazzi normali, si sarebbe detto. Peccato che uno e mezzo su due fosse un idiota patentato.
“Preparati al peggio, principessa” mi avvisò Dean, mentre cercavo di imitare Agatha, la quale era balzata giù dal cassone con disinvoltura. Mi bastò mezzo secondo, tuttavia, per capire che non ero abbastanza agile per farlo, quindi rotolai goffamente fino a mettere i piedi per terra. Lanciai un’occhiataccia a Dean, combattuta tra l’idea di mandarlo a quel paese o ignorarlo. Avrei volentieri optato per la seconda scelta, ma fu più forte di me fargli una smorfia e ribattere: “Vivo già con te. Cosa può accadermi di peggio?”
Lui fece una smorfia. “Sei sempre più simpatica, vedo” commentò, disinteressato, per poi lanciare un’ occhiata d’intesa a Kameron che annuì. Sorridente, il moro si incamminò attraverso l’aia, in cui razzolavano beate alcune galline. “Venite da questa parte” intimò, girando attorno alla casa.
Passando accanto ai pennuti starnazzanti, non potei trattenere una leggera smorfia. Non che non mi piacessero le galline, le trovavo carine, in effetti. In realtà, la mia espressione era dovuta al dubbio: cosa avevano in mente quei due? Sentendo ridere il mio amato coinquilino mi agitai ancora di più.
Fu quando però mi trovai di fronte alla stalla che capii quale fosse il geniale piano di Dean. E, diciamocelo, di geniale aveva ben poco. Quel pallone gonfiato pensava che avessi paura degli animali. Sbuffai. Davvero maturo da parte sua. “Non avrai delle pecore, mi auguro” bofonchiai, tra me e me. Ovviamente però Dean mi usì benissimo. Sogghignò. “Che hanno di male, principessa? Non sono all’altezza di produrre lana per i tuoi regali abiti?” 
Lanciai un’ occhiata esasperata a sua sorella, che rideva sotto i baffi, poi incrociai le braccia. “Semplicemente non mi piacciono” dargli corda e rispondergli a tono non sembrava il miglior modo per affrontarlo, a giudicare dalle esperienze avute fino a quel momento.
“Come mai, di grazia?”
Lo guardai di sottecchi. Capivo che si divertisse a darmi fastidio, ma ora cosa pretendeva che gli rispondessi? Stavo ancora pensando a cosa rispondere, quando Kameron si esibì un inchino e invitò me e Agatha a precederlo nella stalla.
Ciò che vidi mi lasciò impalata in mezzo al passaggio con gli occhi sgranati. “Oh santo cielo” pigolai, convincendomi ad avanzare lentamente guardandomi attorni come un bambino in un negozio di giocattoli. Chiuse a coppie in vari box ci saranno state una decina di meravigliose mucche da latte. Mi portai una mano alla bocca, meravigliata. Con tutte le cose che avevo avuto ultimamente per la testa, gli animali erano stati il mio ultimo pensiero. Tuttavia la mia assurda passione si era completamente risvegliata in quel momento. Vi sembrerà assurdo, ma mi sentivo veramente al settimo cielo. Il mio cuore aveva persino accellerato i battiti. Sorrisi timidamente. Allungai l’altra mano verso l’animale più vicino, poi mi rivolsi a Kameron. “Posso?” chiesi, incerta. Dubitavo che, nonostante la mia immensa sfortuna, potessi beccarmi un morso da una mucca, ma mi sembrò educato chiedere.
Kameron rise, spensierato. “Certo, non ti fa niente!” mi incoraggiò, lanciando un’ occhiata divertita a Dean. 
Ero così contenta che riuscii persino ad evitare di rispondere con sarcasmo a quell’affermazione ovvia.
Mentre mi giravo nuovamente verso la bestia, scorsi con la coda dell’occhio l’espressione sorpresa e scontenta di Dean, non troppo abilmente nascosta dietro la solita indifferenza. Questo mi riempì di soddisfazione più di qualcunque altra cosa. Eccezion fatta per il poter finalmente accarezzare il grosso muso di quell’adorabile animale dopo tanto tempo. “Come si chiama?”
“Agatha” ghignò Kameron, soddisfatto.
La biondina si voltò come una furia verso di lui, aggredendolo con uno sguardo scandalizzato. “Come, scusa?!”
Il ragazzo rise, sotto lo sguardo sornione del biondo. “Che c’è? Ho dato il tuo nome alla vacca”.
Mi indignai, contemporaneamente alla crescita della furia di Aggie. “Hey!” lo rimproverai. “Non essere offensivo con Agatha!” E, sì, ovviamente mi riferivo alla mucca che era appena stata chiamata ‘vacca’, termine che, se in campagna era di uso comune, in città era considerato notevolmente dispregiativo.
La ragazza rivolse un’occhiataccia anche a me e non potei fare a meno di ridacchiare. “Ok, scusa” alzai le mani in segno di resa. “Come non detto, io sono dalla tua parte!” misi in chiaro, tornando subito a concentrarmi sul muso roseo dell’animale.
Agatha tornò quindi a concentrarsi sui due ragazzi, in particolare sul fratello. “E tu non hai nulla da dire?!” lo aggredì, agitando i pugni.
Mi morsi il labbro inferiore per non ridere, mentre Dean non si prese nemmeno il disturbo di trattenersi. “Ma che centro io? Se il tuo nome ricorda a Kam una vacca, è così e basta!”
La bionda contrasse la mascella e continuò la sua sfuriata verso Kameron. “Sei uno stupido troglodita!” sbottò. “Come ti è saltato in mente? Ah, dimenticavo che bisognerebbe averla, una mente, perchè ci possa saltare qualcosa dentro!”
“Hey, hey, hey, calmati!” rise lui, sereno.
“SONO CALMISSIMA!” strillò, ma prima che qualcuno potesse obiettare iniziò ad imprecare furiosamente, apostrofando con una serie di epiteti poco carini il povero Kameron, che dal canto suo non faceva che ridersela lanciando occhiate divertite a me o a Dean. Per quanto mi riguardava non potevo credere che qualcuno potesse prendersela tanto per una cosa del genere, ma avevo il dubbio che Agatha si arrabbiasse per ogni cosa che riguardasse Kameron. Sorrisi tra me, mentre continuavo ad importunare la mucca il cui nome aveva causato tutto quel putiferio, ascoltando ciò che mi accadeva intorno. Allo stesso tempo, però, una parte della mia contorta mente era tornata a molti –anche se non poi così tanti- anni prima. Avevo un vago ricordo della nonna che mi prendeva per mano e mi aiutava ad avvicinarmi ad un grosso animale a chiazze bianche e marroni, per poterlo accarezzare. ‘Non c’è bisogno di avere paura, Pan. Le mucche sono animali docili’ mi aveva detto. A quel punto mi ero accigliata, ribattendo innocentemente ‘pensavo che fossero buoni, nonna. Non voglio che mi morda!’. Sorrisi al ricordo, nostalgica e divertita. Era tutto così semplice e naturale, allora. Era tutto semplice e naturale in quel posto, in realtà. Il problema di base ero io, con la mia incapacità di integrarmi in un qualunque luogo del mondo.
 


Era tanto che non mi capitava di tornare a casa con il sorriso sulle labbra. Anzi, era la prima volta da quando mi ero trasferita a casa di Abraham. Tuttavia, quella mattinata trascorsa con Kameron e Agatha era stata piuttosto divertente. Per qualche momento avevo anche dimenticato di averli conosciuti solo poche settimane prima. Kameron era una persona così limpida e amichevole, che era impossibile considerarlo uno sconosciuto, o solo un conoscente. Era lampante che fosse una persona diversa dalle altre, una persona che mi aveva considerata sua amica fin dal primo momento. Non era semplice trovare persone che concedessero così facilmente la loro fiducia al prossimo. 
Agatha invece rimaneva pur sempre la fredda e sarcastica ragazza che tanto somigliava caratterialmente al fratello maggiore. Aveva tuttavia un modo di porsi migliore di quello di Dean. Nonostante fosse tagliente nei giudizi e facilmente infiammabile, benchè i suoi commenti potessero spesso essere offensivi, sembrava rispettare il prossimo –sempre che questo non fosse Kam- ed essere in grado di mettersi completamente a sua disposizione in caso di bisogno. Discretamente, ovvio. Non era il tipo da uscirsene con un frizzante ‘penso a tutto io, non preoccuparti!’. Piuttosto agiva in silenzio. Pensava molto, parlava poco e faceva ciò che riteneva giusto senza troppi commenti. Altro punto a suo favore. Senza contare che probabilmente era una sorta di solidarietà femminile ad averci legate dal primo momento. Partendo dal presupposto che io non avevo mai creduto nella solidarietà femminile, mi auguro sia chiaro quanto la cosa sorprendesse anche me. Insomma, non sapevo esattamente cos’avesse di buono, Aggie. Sapevo solo che per qualche strano motivo, al contrario di suo fratello, non mi odiava, e per questo le ero grata.
“Togliti dalla faccia quell’espressione da ebete” sibilò Dean, superandomi lungo il vialetto. Balzò sulle scalette, spalancò la porta di casa, si tolse la maglia e la lanciò nello sgabuzzino, per poi correre su per le scale. “Il bagno è mio!” proclamò, per poi sparire al piano superiore.
Sbuffai, irritata. “Evviva la cavalleria” bofonchiai, entrando a mia volta e chiudendomi la porta alle spalle. Proprio come lui avevo passato la mattina sotto il sole, in una stalla con dei bovini e in seguito seduta in mezzo ad un campo. Sarebbe stato ovviamente troppo gentile da parte sua lasciarmi fare una doccia per prima. Dovevo avere un profumino niente male.
“Abe, ci sei?” domandai, affacciandomi alla cucina. Non c’era. Passai al salotto e lo trovai addormentato su una poltrona con un libro aperto sulle gambe. Sorrisi, mentre andavo a lavarmi le mani nel bagno di servizio al pian terreno. Avrei cucinato io, visto che il nonno dormiva.
Mentre armeggiavo in cucina con padelle, pentole e pentolini che un tempo erano appartenuti alla nonna, mi chiesi come si sentisse Abe. La nonna era morta ormai tanti anni prima, lasciandolo da solo a gestire la fattoria e il proprio dolore. Doveva essere stata dura per lui. Con una stretta allo stomaco mi resi conto che non avevo ricordi di quella casa senza la nonna, ad eccezione delle ultime settimane. Non riuscivo a crederci, quindi passai tutto il tempo della preparazione del pranzo ripercorrendo tutte le avventure e le situazioni che potevo ricordare. Nessuna. Nessuna che contemplasse esclusivamente il nonno. Non nel senso che non fosse presente lui da solo. Nel senso che, dopo la morte di mia nonna, non avevo più alcun ricordo che lo riguardasse. Quando lo vidi entrare in cucina, goffo e insonnolito mi sforzai di cacciar via quei pensieri. Temevo quasi che riuscisse a coglierli solo guardandomi, nonostante non fosse possibile. C’erano tantissime cose a cui avrei potuto pensare, sarebbe stato un ottimo Legilimens se avesse indovinato i pensieri tristi che mi frullavano per la mente. E per quanto il mio umorismo fosse basato in gran parte sulla cultura potteriana, dovevo ammettere che i Maghi, e di conseguenza quelli versati in Legilimanzia, non esistevano.
“Oh Merlino” sbuffai, rimproverandomi sottovoce per i miei contorti ragionamenti a proposito della Saga, senza nemmeno accorgermi che persino le mie imprecazioni, spesso, si basavano su di essa.
Abraham mi osservò in silenzio qualche istante, poi si avvicinò al mobile dove stava la tovaglia e iniziò ad apparecchiare, senza dire nulla.
Probabilmente quall’atmosfera imbarazzata veniva percepita solo da me.  Lo speravo. Mi vergognavo delle conclusioni a cui ero giunta cercando di ripescare vecchi ricordi del nonno da vedovo senza alcun risultato.
Affogando nel mio cronico ed egoistico vittimismo non mi ero accorta di quanto effettivamente il nonno potesse aver sofferto durante gli anni. Alla morte di sua moglie, a quanto ricordavo, non eravamo più andati a trovarlo.
All’arrivo di Dean mi sforzai a cacciare nuovamente quei pensieri, rimandando le mie riflessioni a dopo pranzo.
Il pasto fu accompagnato dai soliti battibecchi e dai sospiri di mio nonno, i quali tuttavia mi premevano in quel momento molto più della cura con cui sceglievo le rispostacce da riservare al mio rivale. Fatto stava che il nonno mi pareva improvvisamente un uomo infinitamente stanco. Stanco di lavorare, stanco di soffrire, stanco di sopportare i nostri litigi da bambinetti. Stanco  di rimanere solo, stanco di essere preso in giro. Perchè, sì, come si può definire se non un’ ingrata presa in giro l’essere abbandonato a se stesso da un figlio, dopo aver perduto persino la donna che si amava? 
“...ma c’è una cavolo di volta che riesci a seguire un discorso per intero?” sbottò Dean, battendo una mano sul tavolo, irritato.
“Eh?”
“Senti, principessa, capisco che ti manchi il mondo delle nuvolette rosa, ma ...”
Sbuffai, stizzita. “Puoi rispondere senza dire sciocchezze, per favore?” sbottai a mia volta, incrociando le braccia. “Una volta tanto!” rincarai la dose, mi alzai in piedi e iniziai a raccogliere i piatti vuoti, ignorando lo sguardo freddo del ragazzo. No, non avevo idea di quale fosse la conversazione a cui evidentemente stavo partecipando senza accorgermene. Però ero stufa del continuo intromettersi prepotentemente nei miei pensieri di Dean. Tanto più che, una volta tanto, non stavo facendo assurdi ragionamenti a proposito di inesistenti creature magiche.
Abraham ci osservava in silenzio, poi sospirò e scosse il capo. “Vedi, stava ascoltando” osservò pazientemente, appoggiandosi pigramente allo schienale della sedia.
“Certo. Non sono mica stupida” confermai, senza avere la minima idea di cosa stesse parlando. In realtà non era importante, non quanto il fatto di aver smentito le ipotesi di Dean e aver così riportato una piccola vittoria su di lui. “Oh, e ti consiglio di non fare battute in proposito, risulteresti piuttosto banale” premisi, rivolta ad un eventuale risposta.
“Oh, certo. Perchè tu non ti sei messa a sparecchiare solo per dimostrare la tua presunta maturità, vero? In realtà, mentre correvi mentalmente tra le nuvole rosa che hai nella zucca, stavi ascoltando la discussione sui turni per i lavori domestici. Giustamente, da brava e matura principessa quale sei, hai deciso di interrompere questi scontri per portare la pace in questo regno non tuo. Molto gentile da parte tua, sacrificarti in questo modo”.
Beccata. Mi aveva beccata in pieno. Non potei evitare di arrossire, ma per nasconderlo mi voltai verso il lavandino, dove iniziai a insaponare i piatti sporchi.
Il lato più fastidioso della situazione, non era tanto l’essere stata scoperta, quanto l’essere stata capita. Mi aveva già inquadrata; nonostante le dosi esponenziali di feroce sarcasmo che riponeva in ogni frase rivolta a me, aveva inteso più che bene che razza di persona fossi. Non che il sarcastico sproloquio a proposito del mio regale operato avesse alcun senso, ma senz’altro aveva compreso i miei comportamenti. Aveva saputo subito smascherare il mio –pietoso ed orgoglioso- tentativo di riparare alla mia distrazione. Ma in fondo, forse, in quel che aveva detto c’era qualcosa di vero. Sì, mi ero alzata e mi ero messa a sparecchiare essenzialmente per dimostrare quanto fossi matura, per far vedere al nonno e anche a lui che non mi curavo delle continue frecciatine, che in realtà sapevo fare il mio lavoro senza farmelo ripetere infinite volte. E non ero nemmeno sicura che ciò che volevo dimostrare mi descrivesse realmente.
Dean prese il mio silenzio come una vittoria, e sentii Abe ridere. Lo guardai e lo vidi scrollare il capo, divertito. “Parola mia, siete incredibili” commentò, alzandosi senza alcuna fatica dalla fatica. “Vado a dar da mangiare alle galline” comunicò, uscendo. Ero vagamente sorpresa della sua agilità. Improvvisamente, mi aspettavo di notare in lui mille acciacchi, che prima, considerandolo un burbero ed insensibile vecchio, non avevo notato, e forse non mi era interessato trovare.
Involontariamente mi ritrovai a sorridere. Non stava poi così male, allora, se rideva del nostro improvvisato e astioso dal spettacolo, realizzai con un modo di sollievo.

 
Passai le ore del pomeriggio a imbrattarmi di vernice bianca, mentre tentavo di riverniciare la staccionata. Non mi era stato chiesto esplicitamente, ma vedendo la cura con cui era stata ridipinta di fresco la casa di Kameron, avevo deciso di risistemare –con il permesso del nonno, ovviamente- anche la nostra. Così, mentre Dean se ne era andato in paese a godersi il suo giorno libero –dove non si sa, visto che era tutto chiuso-, mi destreggiavo con epico pressappochismo con un grosso pennello e un secchio di vernice bianca. Abe, dal canto suo, aveva deciso di aggiustare le assi più disastrate del porticato e quindi stava armeggiando con delle tavole e alcuni attrezzi nel capanno.
Non so che collegamento fece la mia mente, perchè mentre, inginocchiata a terra, mi chiedevo se dovessi verniciare anche il minuscolo spazio tra un’asse e l’altra, mi balenò in mente ciò che mi aveva detto Hayley il giorno prima. “Nonno!” saltai su, alzandomi faticosamente in piedi. Effettivamente sì, ero decisamente più goffa a malandata di mio nonno, nonostante avessi almeno cinquant’anni in meno di lui. Dovevo iniziare a preoccuparmi? “Non è che hai dei libri sul far west?” me ne uscii.
Ci volle un po’ prima che Abraham, confuso e sospettoso, si affacciasse alla porta del capanno e mi guardasse cercando di capire dove volessi arrivare. Era così strano chiedere un libro sul far west? Ok, forse non era poi così frequente averne, ma avevo passato gli ultimi anni assieme a George, che aveva un armadio-guardaroba stipato di DVD di vecchi film western, quindi mi pareva una cosa più che normale. Era anche più probabile che un uomo dell’età di mio nonno ne avesse. Insomma, non era poi una cosa così insolita, no?
“Può darsi. Cosa devi farci?”
“Un falò!” ribattei, con un sorriso impertinente. Alla sua occhiata esasperata risi. “Hayley mi ha detto che Robin ama quel genere di cose e pensavo che, forse, con qualche libro sarei riuscita ad ingraziarmi almeno lui.” Il che sarebbe significato molto, visto che i piccoli erano molto più malleabili degli altri e i problemi maggiori erano lui e Johnny. Avendo dalla mia parte quattro marmocchi su cinque, sarebbe stato molto meno faticoso trascorrere le mie giornate come loro baby-sitter.
“Vedrò dopo cena, penso di avere qualcosa” brontolò, prima di tornare al suo lavoro.



DubbiDomandeDelucidazioni:
(*) In quest’occasione ron si impegna per far volare la scopa fino alla sua mano, insieme al resto della classe. I primi a riuscirci sono Harry Potter e Draco Malfoy, poi Ron si stizzisce e grida alla scopa ‘SU!’ e questa scatta dandogli una storica botta in mezzo alla fronte.

Aggiungerei una cosa che probabilmente è inutile scrivere, ma potrebbe rispondere ad alcuni eventuali dubbi. Essendo la focalizzazione interna, la storia è scritta dal punto di vista di un personaggio, con proprie idee, pensieri, sentimenti e momenti ironici. Tutto ciò che è descritto è visto attraverso i suoi occhi e di conseguenza deve essere filtrato. Nel senso che se in quel momento Pan è arrabbiata è probabile che un uccellino che canta su un ramo, piò essere tradotto come un pennuto che strilla come un dannato e cerca di trapanarle un timpano. Per esempio. Di conseguenza anche le varie azioni degli altri personaggi vengono da lei interpretate in un certo modo, che può essere quello reale come può non esserlo. In fondo tutte le persone vedono le cose dal proprio punto di vista e non sempre si mettono nei panni degli altri. Sicuramente scrivendo un diario non lo fanno, ad esempio. Inoltre alcune cose possono essere fermamente credute da lei, ma non essere vere.
Per dirne una: fino a poco fa era convinta che Agatha la detestasse proprio come suo fratello. Quando invece non è così. 
Essendo la focalizzazione interna, quindi, noi seguiamo la storia assieme a Pan, e scopriamo le cose esattamente nello stesso momento -o anche prima, se siamo più intuitivi- in cui le scopre lei. 
Ci tenevo a sottolineare questo aspetto. Anche perchè è lo stesso aspetto che un po' mi infastidisce dello scrivere dal punto di vista di un personaggio. Spiegare i pensieri o le reazioni degli altri personaggi, per esempio, non è possibile. O durante una telefonata non posso raccontarvi ciò che sta facendo la persona dall'altra parte della cornetta, le sue espressioni. E' una cosa che un po' mi irrita, la stessa per cui se dovessi riscrivere la storia lo farei in terza persona. Anche se forse così rende di più il lato introspettivo... va be', ho finito. :3

In der Ecke - Nell' angolo:
Alla fine non è che io abbia molto altro da dire. xD
Come la mia beta si è subito accorta, ad un certo punto c'è una citazione da twilight. xD  Questo perchè l'ho letto -molte volte, anche- e ho scritto il capitolo il giorno dopo aver rivisto l'omonimo film -commentandolo aspramente assieme alle amiche. xD 
Nonostante io sia una di quelle che, se ci fosse uno scontro Meyer/Rowling, si schiererebbe con la Rowling, non mi piace particolarmente questa rivalità che sta nascendo. Sono due cose diverse e per quanto Twilight e co non mi piacciano più come prima -non solo per la commercializzazione, gente, è da notare anche il lato ossessivo della relazione tra Edward e Bella, è da notare il fatto che lui la pedini come un maniaco e lei trovi questa cosa estremamente romantica- mi pare stupido dire che l'uno è da bimbiminchia e l'altro no. Anche perchè ora come ora... niente, sto divagando quindi mi fermo. Se a qualcuno interessa la conversazione può contattarmi, ma ne dubito. xD 
Dicevo? Ah, sì, c'è una citazione da twilight perchè sul momento mi sembrava carino mettercela. (...devo ammettere che una dose di acidità c'era, però, mentre la scrivevo.) Anche perchè Pan dovrebbe essere una grande lettrice e non è plausibile che nei suoi pensieri ci siano esclusivamente riferimenti a Harry Potter. ._. Motivo per cui cercherò di ampliare i suoi orizzonti.
Beme, penso di aver finito. :D

 

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Capitolo 13
*** 13 ***


Cows and jeans
13
 
 

 Passavo pigramente in rassegna i volumi nella libreria di nonno Abraham, dopo cena. Era dal primo giorno che avevo voglia di farlo, e finalmente si era presentata l’occasione per studiare da vicino quegli splendidi volumi. Così iniziai a leggere tutti i titoli, estraendo i libri il cui nome mi incuriosiva particolarmente per poi sfogliarli. Avrei probabilmente perso tutta la sera in quel modo se avessi potuto, e la velocità delle mie operazioni non aumentò quando riconobbi la copertina verde scuro di un libro illustrato di fiabe. Lo presi, meccanicamente e con il sorriso sulle labbra iniziai a osservare i disegni. Il lupo, cappuccetto rosso, il bosco. La piccola fiammiferaia, la tavola imbandita, la scatola di fiammiferi. Narciso, l’acqua. Immagine dopo immagine nella mia mente si formava il ricordo di tutte le volte che ero stata seduta sulle ginocchia della nonna, in quella stessa stanza, mentre lei mi leggeva le fiabe, e il nonno ascoltava rapito quanto me, fingendo di leggere il giornale.
Con un incredibile nodo alla gola ritornai con la mente ai pensieri del pomeriggio. Mi sentivo immensamente in colpa per non essere stata accanto ad Abraham quando si era probabilmente sentito più solo e devastato. Avei voluto tornare indietro nel tempo e recarmi in quella fattoria ogni settimana almeno. Ma per quanto potessi rimpiangere il mio mancato supporto, sapevo che non sarei mai potuta tornare indietro e rimediare. Non nel passato almeno. Sarei però potuta rimanere al suo fianco nel presente, facendogli capire di non essere solo.
Per la prima volta mi chiesi se Dean non abitasse con lui a causa della sua incapacità di stare solo. Non sembrava avere bisogno di una badante, ma magari... di compagnia? Improvvisamente mi sentii vagamente meglio disposta nei confronti del biondo ed indisponente ragazzo.

Rimasi a pensare a lungo, con quel libro tra le mani, immobile. Avevo anche smesso di sfogliarlo, motivo per cui il mio irritante coinquilino avrebbe potuto comparire da un momento all’altro mandando in frantumi la mia momentanea simpatia nei suoi confronti. Simpatia che, specifico, era dovuta soprattutto alla sua assenza in quel mentre.

Quando mi riscossi, il sole era sul punto di iniziare i preparativi per coricarsi. Aveva appena iniziato a indossare il suo comodo pigiama arancione. Intuendo che il nonno non avesse in realtà alcun libro su tale argomento, mi ricordai di George e pensai che forse, una volta tanto, avrei potuto gradire il suo intervento nella mia vita. Salutando di gran fretta Abraham, uscii di corsa e inforcai la motoretta, diretta in paese.
Ginger, nonostante il venerdì fosse il giorno del recupero, o come diavolo lo chiamavano, non chiudeva il bar. Essendo quel luogo l’unico in cui vi era un telefono non privato, non poteva evitare di rimanere aperto anche il venerdì. Non faceva attività come saloon, tuttavia. Era agibile solo per le comunicazioni. Ginger stessa non trascorreva che qualche minuto dietro al bancone. Abitava in un appartamento sopra il locale e non si prendeva nemmeno la briga di sorvegliarlo, rimanendo comodamente in casa a riposare o a occuparsi dei lavori domestici.
Non mi stupii, quindi, di trovare la porta aperta e nessuno all’interno quando entrai. Misi i soldi per pagare la telefonata nell’apposita scatola di cartone accanto all’apparecchio telefonico e dopo aver chiesto se ci fosse qualcuno senza ottenere risposta composi il numero.
Pronto?”
“Ma non esci mai, tu?”
“Chi è?” Nemmeno riconosceva la mia voce, quell’imbecille?
Sospirai. “Joshua, sono tua sorella”.
“Hey! Il sole è quasi calato, non sei ancora in branda, Maganò?” mi sbeffeggiò. Eh, sì, la fama delle ferree regole di casa Fletcher edizione Sperdutolandia era presto giunta anche in città, in particolare alle orecchie di quel cretino di mio fratello, il quale non perdeva occasione per prendersi gioco di me anche riguardo a quelle.
“Maganò a chi?!” soffiai, fingendomi indignata. Fingendo, sì. Anche se il fatto che scambiasse il termine Magonò al posto di Babbano un po’ mi infastidiva seriamente.
“No, cadetto, oggi abbiamo la giornata libera, ergo chiudi il forno e passami George”.

“Come?”
Sbuffai. “… per favore?” tentai, incerta. A volte si puntava su certe cose in maniera assurda. Pretendeva che usassi educazione e cortesia quando lui passava metà del tempo a darmi ordini e a prendersi gioco di me. Mi chiesi per quale motivo l’avessi sempre lasciato fare e non seppi darmi risposta. Sì, insomma, mi ribellavo. Ma sebbene fosse più piccolo di me era un ragazzo di diciassette anni alto e robusto. Cosa poteva una nana col fisico da lanciatore professionista di coriandoli contro di lui, che oltre tutto era un ragazzo? (Femminista convinta pure io, sì, ma ammettiamolo: fisicamente non c’è paragone e lo sappiamo bene).

“Oh, no. Cioè, non è quello … va bè'. GEORGEEEEEE AL TELEFONOOOO!” strillò dopo aver farfugliato qualche stralcio sconnesso di frase. Mai una volta che allontanasse la cornetta prima di gridare, osservai riparandomi –troppo tardi- l’orecchio lesionato con la mano.

Ci volle quasi un intero minuto perché l’uomo alzasse il ricevitore. Probabilmente era troppo impegnato a spolverare i suoi dannati dvd western per poter rispondere, ma alla fine aveva fatto uno sforzo. Che anima pia! Almeno, una volta tanto, lucidare quegli inutili involucri per i suoi squallidi vecchi film non sarebbe stato totalmente inutile. Avrei potuto evitare di farlo io, così.

“Pronto, parla George St-…?”
“Ciao, George” lo interruppi. “Sono Pan.”
Rimase in attonito silenzio per qualche attimo, poi parve aver acceso il cervello e capito chi fossi. Non che non lo sapesse, questa colpa devo proprio abbonargliela. Il punto ero io. Non avevo mai voluto parlare con lui al telefono. Mai, da quando era sposato con mamma avevo sentito la necessità di telefonargli. Se avevo bisogno di un uomo con cui parlare avevo un padre, no? Il nuovo marito di mia madre era effettivamente solo un conoscente, nonostante ci vivessi assieme fino a poco tempo prima. Questo era forse uno dei motivi per cui George tendeva a preferire Joshua a me. E di conseguenza mia madre, convinta di potersi permettere di atteggiarsi a giovane mogliettina totalmente e pazzamente innamorata che pende dalle labbra del suo sposo, non solo assecondava ma si aggregava, persino, al Joshua fan club. “Wow, che sorpresa, princ-…”
Quasi mi strozzai udendo quella parola. “Oh, no ti prego. Non chiamarmi in quel modo.” Implorai. “Sei sul punto di guadagnare qualche punto sulla scala della mia stima, quindi, ti scongiuro, chiamami come vuoi ma non principessa.”
Rimase in silenzio qualche attimo, ti nuovo.
Sì, solitamente era così che procedevano tutte le nostre conversazioni. Lui iniziava, io lo interrompevo e lui rimaneva in attesa per un po’. Poi ricominciava il ciclo. La sua falsa pazienza era data solo dal voler sembrare un buon genitore, immagino. Io mi sarei presa a ceffoni molto prima. Quella era tuttavia la mia reazione alla sua comparsa nella mia vita: indisposizione. Ce l’avevo più con mia madre che con lui. In fondo era stata lei a volergli dare le chiavi per entrare. C’era da dire che nutrivo però una totale e reale antipatia per George.
“Come vuoi” disse, in tono piatto. “ Penso che potresti lasciarmi concludere una frase ogni tanto, ma, come mi ha molte volte ripetuto, non sono tuo padre e di conseguenza non mi è consentito desiderare rispetto da parte tua”.
Ecco, vedi che impari in fretta?!
Ingoiai a fatica la risposta e sospirai. “Non dirò che ne hai appena conclusa una perché forse, e dico forse, potresti avere ragione” Dovevo riconoscerlo: ero piuttosto impertinente nei suoi confronti. “Quindi ti...” indugiai, “...ti chiedo scusa.” Mi morsi il labbro inferiore. Sembravo assurdamente una stupida lecchina. “George, ascolta, devo chiederti un favore”.
Mi sembrò di poter udire il ‘ecco perché sei così docile’ che certamente pensò. O almeno ne ero convinta.
Gli raccontai dei bambini. E non con qualche breve e sbrigativo accenno al fatto che lavorassi presso una donna i cui figli erano incontenibili. Senza rendermene conto inizia a sfogare le mie frustrazioni in un dettagliato racconto di tutti gli episodi principali accaduti con quei marmocchi indemoniati. Prima che potessi giungere a metà della lunga serie, tuttavia, mi resi conto di ciò che stavo facendo e di chi ci fosse dall’altra parte della cornetta. Mi chiusi per qualche istante in un imbarazzato silenzio, senza sapere nemmeno io perché avessi raccontato tutto ciò nei dettagli. Forse arrossii, anche.
Anche George parve sorpreso, non disse nulla e attese che ricominciassi a parlare.

“Sì, ehm... bè, la madre mi ha detto che uno dei ragazzi ha una sorta di ossessione per il vecchio west. E, beh, mi chiedevo se potessi prestarmi qualche DVD a cui non tieni particolarmente, ecco.” Conclusi imbarazzata.

Cadde il silenzio. Rimase a lungo, incombendo pesantemente su di me, paralizzata dall’imbarazzo e dall’insicura attesa di una risposta. Per quanto riguardava lui... bè, forse era svenuto al solo pensiero di affidarmi uno dei suoi preziosissimi attira polvere. Cioè, DVD.
In quel momento, come un fulmine a ciel sereno  -o come un perfetto idiota in un bar vuoto, a scelta- un ragazzo entrò aprendo la porta di scatto, con un gran fragore. Mi voltai, stupita. Lo ammetto, mi aveva addirittura spaventata. Prima di chiudere la porta gridò qualcosa a qualcuno di fuori, ridendo. Qualcosa che non capii perché non avevo ancora ben metabolizzato il suo arrivo.
Poi si voltò, si guardò attorno, puntò lo sguardo su di me e borbottò “Non c’è nessuno, qua”.
Feci una smorfia. “Sì, bè, è venerdì, Terrence” risposi, con ovvietà. Se non lo aveva imparato lui, che probabilmente abitava in paese da diciotto anni, forse non doveva spaventarmi il fatto che puntualmente, ogni venerdì, mi svegliassi con l’ansia di dover correre da Hayley, prima di ricordarmi che non dovevo lavorare.
“Oh, hai ragione.” Abbozzò un sorriso divertito. “E tu cosa ci fai qui?”
Ma si era rincretinito?
Aprii la bocca per rifilargli una rispostaccia intrisa di Distillato della Morte Vivente, poi però la richiusi e sospirai. Mi sforzai di abbozzare un sorriso, indicando il telefono.
Ovunque nel mondo i ragazzi rendevano assolutamente lampante il fatto che l’uomo si fosse evoluto dalla scimmia. In città, in campagna, al mare, in montagna e su Marte. E spesso non sembrava essere migliorato poi molto.
Lui sgranò gli occhi, capì e sorrise. “Oh, sei al telefono … scusa!” detto ciò uscì, e ricominciò a ridere fragorosamente con il compagno che lo aspettava fuori.
Non lo identificai, non lo vidi, e non mi interessava farlo.
Quell’entrata a sorpresa mi aveva disarmata. Ma mi aveva anche scossa e riportata al mondo reale. Luogo in cui non stavo ad aspettare ansiosamente la risposta del nuovo marito di mia madre, dove la mia irriverenza nei suoi confronti era perfettamente giustificata dal solo fatto che volesse –e potesse, per quanto riguardava Josh e mia madre- rimpiazzare mio padre. “George, che c’è? Un cactus troppo affettuoso di ha abbracciato la lingua?”
Rise. Una risata totalmente ed esplicitamente falsa. “Spiritosa come sempre. E dire che per un attimo ho creduto che quel posto ti avesse fatta maturare”.

Ma perché doveva fare sempre questi commenti poco opportuni? Mi risultava difficile contenere l’acidità, così di certo non mi facilitava le cose. “Allora? Che ne dici?” insistetti.
Trattenni il fiato, in attesa.
… Silenzio.
Silenzio.
Ancora silenzio.
Rischiavo l’asfissia, ormai.
“E sia. Te ne spedisco un paio il prima possibile”.
Ripresi a respirare, a bocca aperta. In parte perché se avessi continuato un altro po’ avrei rischiato di morire, in parte per la sorpresa. “Davvero?” cercai di contenere l’improvviso entusiasmo.
“Sì. Ma non lo meriteresti”.
“Già. Per fortuna sei un uomo magnanimo, però” commentai, scettica. “Grazie, comunque” aggiunsi, poi. “Salutami …”
“Tua madre, sì”.

“Hey! Non interrompermi!” lo canzonai, divertita.

“Impertinente” mi apostrofò, con uno sbuffo d’esasperazione. “Dovresti smettere di comportarti da bambina”.
E tu dovresti smettere di fare il papino moralista! Sospirai. “Ciao, George. E grazie” riagganciai.
E, per la miseria, fu tremendamente irritante, sulla strada del ritorno, rendersi conto che Dean aveva perfettamente ragione: mi sforzavo di essere gentile con certe persone solo per dimostrare di essere matura e migliore di loro.
Dannazione a me!


In der Ecke - Nell'angolo
Saaalve :3
Premetto che il caldo fa male! A me particolarmente, il mio cervello soffre in maniera incredibile le alte t
emperature.
In più lo stomaco dell'autrice ha iniziato a sfarfallare, cosa a cui non è più abituata. ._.
Coooomunque! Il capitolo è molto corto, lo so. E' stato anche difficile da scrivere e non ho idea del perchè.
Ho eliminato un pezzo finale perchè sembrava essere messo lì giusto per allungare il capitolo e non ci stava bene, ma lo inserirò all'inizio del prossimo. Bene, penso di aver detto tutto. ^^
Penso di aver finito, per oggi. 
Buona giornata e buona vacanze, torno il prima possibile! :D (Con un capitolo migliore, spero).
PS: tutti gli HTML sgaffi non so a cosa siano dovuti. o_o Spero non disturbino troppo la lettura.

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Capitolo 14
*** 14 ***


Cows and jeans

14
 

 
A partire dal lunedì seguente, ogni mattina partii venti minuti prima del solito per andare a controllare all’ufficio postale del paese se fosse arrivato qualcosa per me. Avevo ormai imparato a conoscere Tina, una ragazza sulla trentina dai cortissimi capelli neri, che accompagnava ogni mia espressione, frase o movimento con una battuta o un commento. E quando non parlava mi scoppiava letteralmente a ridere in faccia. Era irritante, sì, ma una volta che ci si ricordava che il mondo è bello perché è vario e che di gente strana ne era pieno, ci si faceva l’abitudine.
Dal terzo giorno, anche lei sembrava aver imparato a conoscermi. Già, aveva capito che ero il soggetto perfetto da prendere in giro. Era estremamente esilarante ridere della mia espressione quando scoprivo che il pacco di George non era ancora arrivato. Davvero moooolto divertente.
Quel giovedì mattina, entrai nell’ufficio postale con una calma studiata –affinchè quella donna non trovasse nulla per cui prendermi in giro- facendo suonare il campanello sopra la porta.
“Heylà! Buongiorno Pan!”
“’giorno, Tina!” sorrisi, cortese, mentre era chiaro che lei stesse già cercando qualcosa per cui mettersi a sghignazzare come la iena che era. No, così esageravo. Non era cattiva, in fondo, solo molto … ehm, spiritosa. O così credeva lei. Divertente lo era solo per sé stessa, l’unica a ridere delle sue continue e irritanti battute. Dispettosa, sì. Ma cattiva no. Il problema era che a trent’anni suonati, lavorando in un ufficio pubblico, fare il pagliaccio irriverente non era esattamente ciò che le veniva richiesto.
“Hey, Pan” ghignò. “Ora che ci penso: che nome strano hai!” osservò.
Quella affermazione mi ricordava pazzamente Cappuccetto Rosso col lupo cattivo vestito da nonnina. Solo che continuavo a pensare –nonostante la correzione fatta sopra- di avere davanti una iena travestita da trentenne con la sindrome di Peter Pan. Oh cielo, troppe fiabe in una volta sola!
“E’ per farti sghignazzare meglio!” risposi, infatti, facendo la voce grossa.
Lei scoppiò a ridere, poggiando gli avambracci alla scrivania dietro cui era seduta. “Sei forte, ragazza!”
“Sono in quasi ritardo, più che altro, Tina. Non è che è arrivato qualcosa per me, oggi?” ripetei la battuta di tutte le mattine.
Lei stessa si doveva essere accorta che ogni volta recitavo la stessa formula, perché ricominciò a ridare, nascondendo il volto sul tavolo e battendo un pugno sul piano di legno.
Sospirai, sconsolata. “Per la barba di Merlino!” soffiai, con una smorfia frustrata. “Oh, Tina, andiamo!” ma la mia imprecazione l’aveva fatta ridere anche più di prima. Rischiava di andare in apnea.
Sbuffai sonoramente e decisi di andarmene. Sarei passata alla sera, quando la mia dose quotidiana di ira sarebbe stata consumata e la mia voglia di arrabbiarmi sparita con essa. Per cui girai sui tacchi e mi avvicinai alla porta, ma quando aprendola feci suonare il campanello, Tina alzò la testa e si accorse di ciò che stavo facendo. “No, aspetta!” singhiozzò, cercando di reprimere le risate, con scarsi risultati.
“Cosa?” domandai, irritata, voltandomi.
La vidi alzarsi e mettersi a controllare i vari cassetti con i cognomi degli abitanti del paese. Non che fossero tantissimi a dire il vero. “Fletcher, giusto?”
Perché me lo chiedeva se erano quattro giorni di fila che mi presentavo dicendo il mio nome e chiedendole la stessa cosa? “Già”.
Aprì il cassetto di Abraham e si voltò, raggiante. “C’è questo” annunciò, porgendomi un pacchetto rivestito di carta da imballaggio gialla.
“Grazie!” esultai, lasciando che ogni traccia di irritazione svanisse nel nulla. “Grazie, Tina, grazie!” canticchiai, afferrando il pacco. Non potei trattenermi dal saltellare sul posto come una bambina a cui era stata regalata una nuova bambola, poi però, mentre la ragazza si piegava in due dalle risate, mi ricomposi. Ancora raggiante la salutai e corsi fuori.
Finalmente!
Finalmente avevo trovato la melodia che avrebbe fatto addormentare Fufi!
…o almeno una delle sue teste.
 
“¡Hola!” Fu il mio allegro saluto quando, puntuale come un orologio svizzero, entrai in casa di Hayley. La donna era appena uscita, l’avevo incontrata nel vialetto. Il mio pacchetto stretto tra le braccia, trotterellai dentro, sorridente e pronta a dar inizio al mio piano di ‘raddolcimento demoni’. “Buongiorno, ragazzi! Guardate un po’ cosa mi hanno mandato da casa!” gioii, andando in cucina.
Udendo quelle parole, i bambini lasciarono i loro giocattoli e mi seguirono di corsa. Thom inciampò sui propri piedi un paio di volte, prima di raggiungermi. “Non l’ho ancora aperto, lo facciamo assieme?” domandai, cercando di renderli partecipi il più possibile.
Sembrarono approvare l’idea, quindi li sistemai sulle sedie e posai il pacco al centro del tavolo. “Robin, Johnny, a voi non interessa?” chiesi, non vedendoli arrivare.
“No” fu la secca e contraiata risposta del maggiore, subito seguito da un grugnito poco convinto dell’altro. Robin non pareva un ragazzino tanto irriverente, in fin dei conti. Solo, tendeva a farsi guidare dal fratello maggiore anche quando i loro voleri discordavano. Si lasciava sottomettere.
Sospirai, chiedendomi se sarebbero serviti a qualcosa, i DVD, in mancanza di Robin. “Bene, lo apriamo insieme, ok? Ecco, levate lo scotch” suggerii, porgendolo ai bambini. I tre si sporsero gli uni verso gli altri, allungando le mani per operare per primi e garantirsi il primato di questo nuovo entusiasmante gioco. Sorrisi, vedendoli. Se nessuno li avesse abituati a farmi dispetti, sarebbero potuti essere davvero adorabili, in fondo. Nel giro di un minuto la carta fu lanciata brutalmente sul pavimento, senza pietà alcuna. Mentre mi rendevo conto di averla sotto gli occhi finemente suddivisa in un centinaio di inquietanti brandelli, mi ricordai che il contenuto nella scatola di cartone che i bambini stavano assalendo era comunque di proprietà di George. “Hey, hey, hey! Calmatevi un attimo!” intervenni, tuffandomi sulla tavola per recuperarla. Come il mio ventre entrò in contatto col legno, per un attimo trattenni il fiato in attesa di finire per terra. Mi ci volle qualche istante per ricordarmi che non tutti i tavoli erano stupidamente fragile come quello nella cucina di mia madre, che avevo tante volte schiantato gettandomi in quel modo per salvare qualcosa dalle mani di Joshua. 
Tornai a sedere sulla sedia, sotto lo sguardo imbronciato delle bambine e quello –sempre e comunque- entusiasta di Thom. “Ora, guardiamo cosa c’è qui” comunicai, con un mezzo sorriso. Per quanto non volessi fare arrabbiare i tre gemellini, non avevo alcuna intenzione di gettare nel gabinetto i DVD di George, e con essi una possibilità di catturare l’interesse di Robin e la fiducia che il nuovo compagno di mia madre aveva posto in me. Aprii cauta la scatola, sbirciando, movimento dopo movimento, le reazioni dei bambini. Ora tutti e tre si sporgevano sul tavolo verso di me, per vedere cosa contenesse il misterioso pacco. Con un sorriso soddisfatto estrassi le quattro custodie e iniziai a osservarne le copertine. Ridacchiai scorgendo ‘Fievel alla conquista del west’-l’unico che riconobbi, tra l’altro. Non per nulla avevo detto a George che più della metà dei demonietti non erano che bambini, no? “Oh, ma guardate un po’! Fievel! Lo conoscete?”
Le bambine si lanciarono un’occhiata e annuirono. “Sì” confermò Thom.
Ovviamente lo conoscevano. In città nessun bambino avrebbe riconosciuto il nome Fievel. Ma evidentemente a Sperdutolandia i  buoni e vecchi cartoni animati erano ancora di moda. Un punto a favore della campagna!
Passai loro il DVD, che presero a strapparselo di mano a vicenda, protestando sottovoce. “Io!”, ”No, dai, io!” bisticciavano piano. Sorrisi. Quello era nuovo, ne ero certa. Un’ infinità di volte Joshua si era infiltrato nello studio di George alla ricerca di qualche cartone animato, riemergendone ogni volta con un’espressione scontenta e lo stesso responso: “Ha tantissimi film! Perché non ha nessun cartone?!”.
George doveva averlo acquistato per l’occasione. Mi venne il dubbio che anche gli altri quattro non fossero stati presi dalla sua collezione, ma appena estratti dalla busta del BlockBuster del centro.
“Gli altri?”si informò Beth, alla quale era stato tolto di mano nuovamente il DVD.
Le sorrisi, ma diedi un’alzata di spalle. “Questi sono film per persone grandi. Neanche io li ho mai visti. Guarda come sono brutti, Betty” sottolineai, mostrandole le copertine. In tutte e tre spiccava un primo piano pauroso di un ceffo che non vedeva un rasoio dal mesozoico, con uno stetson calcato in testa, mentre mostrava infantilmente allo spettatore la propria pistola. “Ce l’ho anche io la stopila!” si entusiasmò Thom, indicando uno dei temibili cow boy dei DVD. Con quella frase mi balzò alla mente un libro che avevo letto qualche giorno prima: Mio fratello Simple. Lo avevo infilato a fatica nella valigia prima di partire, ne era uscito un po’ spiegazzato, ma non avrei mai potuto rischiare di lasciarlo a casa nelle mani di Joshua e del suo estremo menefreghismo per tutto ciò che era mio. Non prima di averlo letto. “Hai anche un coniglietto, suppongo!” sghignazzai, ricordando l’adorato pupazzo del protagonista.
“No. I conigli sono per i bambini piccoli”.
Ovviamente. Che sciocca che ero.
“Oh, già. Hai perfettamente ragione. Allora, andiamo a guardare Fievel, che ne dite?” proposi, alzandomi dal tavolo.
“Sìììì!” i bambini saltarono giù dalle sedie e mi precedettero di corsa in salotto, dove spodestarono senza troppi complimenti Robin, fino a qualche secondo prima comodamente adagiato sul divano.
Lui imprecò volgarmente, sotto lo sguardo di sufficienza del fratello maggiore. “Sedetevi per terra, bestie!” li rimproverò, assicurando fuori dalla loro portata il proprio videogioco.
Ignorai la sua scortesia, conscia che sarebbe stato estremamente controproducente rimproverarlo. Posai le custodie dei film sul tavolino e preso ‘Fievel’ dalle mani di Thom mi avvicinai al televisore.
“Cosa hai intenzione di fare?”
La voce irritata ed irritante di Johnny mi giunse alle orecchie come un ringhio sommesso. Cosa avevo fatto quella volta? “… Metto  su un film?”
Lui inarcò un sopracciglio, chiudendo il libro che stava leggendo, usando un dito per tenere il segno. “Sei un robot? Te lo metti in bocca e lo proietti dagli occhi?”
Sbuffai. “Johnny, qual è il problema?”
“Non abbiamo il lettore dvd” rispose Robin, che ora era inginocchiato davanti al tavolino. Scoprii con piacere che maneggiava con cura e malcelato interesse le custodie dei film. “purtroppo” aggiunse, poi, in un sospiro.
Sorrisi. Forse avrei davvero ottenuto la sua simpatia con … COSA?! “Non avete il lettore dvd!?” ripetei, sconvolta, puntando lo sguardo su Johnny. Ok, era sempre crudelmente ironico, ma pareva aver già capito che il modo migliore per ferire era la verità e non la menzogna, motivo per cui raramente mentiva.
“Ma ne hai mai visto uno in questa casa?” osservò con ovvietà.
Sbuffai. “Ma che vuol dire? Al giorno d’oggi stanno dentro ai televisori, mica si comprano separati! Come la tv satellitare!” replicai, allargando le braccia in segno di sconfitta. Bandiera bianca, avevo perso. Sperdutolandia finiva sempre per sconfiggermi.
Johnny ridacchiò, guardando Robin. “Ricorda di raccontarla a Dean, questa”.
E quelle parole saettarono nella mia mente come un filmina a ciel sereno. Cosa c’entrava Dean in quel discorso? Perché…
Ma bastarono pochi attimi perché la mia mente metabolizzasse quell’informazione e capisse l’evidente realtà. “Stai dicendo che voi, razza di canaglie, andate a raccontare a Dean tutte le carognate che mi rifilate?!” sbottai, portando le mani sui fianchi. “Come diavolo vi salta in mente?! Nessuno vi ha insegnato che…” …che cosa? Che non si raccontano le gaffes degli altri e non ci si ride su? A livello morale, forse, era sensato come ragionamento, ma a livello effettivo chi non aveva mai riso di una cretinata come quelle che io combinavo un giorno e sì e l’altro pure?
Johnny in tutta risposta scoppiò a ridere, spassionatamente imitato da Robin, troppo impegnato a leggere le trame dei film per poter rispondere.
Dal canto mio ero troppo irritata per poter notare ciò che lui stava facendo, quindi mi limitai a emettere un grugnito di frustrazione. “Canaglie” li apostrofai.
Beth saltò giù dal divano e si aggrappò all’orlo della mia maglietta. “Guardiamo il film?” chiese, supplichevole.
La guardai, senza sapere cosa rispondere. “Betty, non si può, non c’è l lettore dvd…”dissi.
Terry e Thom si guardarono, poi raggiunsero la sorella. Ero ufficialmente circondata da marmocchi. “Ma tu hai detto che lo guardiamo!” si lamentò Terry.
Johnny ghignò. “Ora voglio proprio vedere come te la cavi”.
“Non ci sono tanti modi in cui cavarsela, a dire il vero. Oggi non si può vedere, bambini. Sabato vi porto il mio computer e lo guardiamo con quello, ma og-“
“Oggi! Tu hai detto che lo guardiamo!”
“Non si dicono le bugie!”
“Tu sei cattiva!”
Prima che potessi concludere la frase le bambine si erano rituffate sul divano, lagnandosi rumorosamente con il volto sprofondato sui cuscini. Thom si lasciò cadere a terra accanto ai miei piedi, e iniziò a piangere. “Però tu avevi detto…”biascicò, mentre dei lacrimoni da coccodrillo iniziavano a correre giù dai suoi occhioni innocenti.
Aprii bocca per dire qualcosa, ma non ci riuscii. A quella vista mi si era stretto il cuore. Mi sentivo in colpa, terribilmente in colpa. Mi inginocchiai accanto al bambino e gli accarezzai il capo. “Dai, Thommy, non piangere… lo guardiamo sabato. Oggi non ce l’ho, non sapevo che non aveste il…”
“SEI CATTIVA!” strillarono le bambine, una dopo l’altra, per poi gettarsi a loro a volta a terra, stese e cominciare a singhiozzare platealmente.
Per quanto continuassero a intenerirmi, in quel modo, ormai avevo imparato a conoscere le bambine e la loro inclinazione a lagnarsi e a fare i capricci. Quello che in quel momento mi faceva stringere maggiormente il cuore e Thom, che solamente aveva l’aria di quello ottimista e pacifico, quello che non si arrabbiava mai e si limitava a ridere di tutto ciò che gli capitava. Già a quell’età sembrava prendere la vita con filosofia, e vederlo mentre singhiozzava silenziosamente seduto ai miei piedi mi stava distruggendo dentro.
La mia mente lavorava frenetica alla ricerca di una soluzione.
Mentre mi guardavo attorno in cerca dell’ispirazione incrociai lo sguardo scettico e vagamente divertito di Johnny. Sbuffai. “Senti, io capisco che tu mi detesti, ma … “
“Dean se la riderà della grossa quando gli racconteremo questo” sogghignò.
Strinsi i denti. “Piccolo stupido … hey! Dean!” mi illuminai. “Johnny, vai a raccontarglielo ora, così torni a casa con il mio portatile e vivremo tutti per sempre felice e contenti, con la cicatrice che non fa più male!” sputai, tutto d’un fiato, evidentemente sollevata. Ora che avevo trovato un modo per risolvere il problema della grande tragedia greca che era in scena in quel momento nella stanza, mi sentivo meglio. Meno sensi di colpa, sicuramente.
“Te lo scordi!”
E tanti saluti al mio piano geniale!
“Johnny!”sospirai.
“Non sono il tuo servo!”
Sbuffai, incrociando le braccia. “Questo lo so. Ti sto chiedendo un favore. Non posso lasciare i tuoi fratelli qui! Tu sei il più grande, puoi anche andare da solo!”
Lui si alzò, e in quel momento pensai seriamente che avrebbe accettato di aiutarmi. Lui però si limitò ad avvicinarsi al tavolino del salotto e a buttare a terra i dvd che Robin stava osservando. “Hey!”
“Hey, un cavolo! Pensi sia un caso che si sia presentata con questi cosi?! Sta cercando di incastrarci!” sbottò, togliendo di mano al fratello anche l’ultima custodia. “Sei un cretino, Rob!”
L’altro lo guardò da sotto in su e non rispose. Dopo aver scrutato per qualche secondo lo sguardo furioso del fratello, abbassò il capo.
Si sottometteva, cavolo! L’unico fratello minore al mondo che si lasciava sottomettere!
“Senti un po’, Sherlock, … incastrarvi? Pensi forse che io stia cercando di … di far cosa, di grazia?!” intervenni, nascondendo dietro l’incredulità quella piccola ferita che, comunque, quelle parole mi avevano scavato dentro.
Johnny mi lanciò un’ occhiata in tralice. “Vuoi che noi ti accettiamo. Ma noi non ti vogliamo, e lo sai. Non abbiamo bisogno di te, quindi levatelo dalla testa!”
“Ma cosa?” gemetti, esasperata.
“Non sarai mai una di noi!” gridò, per poi correre su per le scale, nella sua stanza.
L’uscita di scena del ragazzino ci lasciò in uno stato di silenziosa spossatezza. I bambini continuavano a singhiozzare, Robin si fissava le mani, seduto sul pavimento. Io ero in uno stato di trance. Mentalmente ero attiva, fisicamente molto meno. In piedi accanto a Thom, lo sguardo perso nel vuoto, mi chiedevo cos’avesse contro di me Johnny. Che si sentisse minacciato nel suo ruolo di ‘fratello maggiore’ e quindi di ‘più grande’ era strano, e sciocco, anche. Che semplicemente non mi volesse lì non aveva senso. Potevo stargli antipatica a pelle, ma perché mi detestava così tanto? Nemmeno mi conosceva. Per quale motivo si comportava in quel modo?
“E il fiiiilm?” si lagnò nuovamente una delle bambine.
Con un sospiro, mi riattivai e presi una decisione in mezzo secondo. “Ora sistemiamo anche questo. Allora, voi tre, correte in camera a vestirvi. Anche tu, Robin. Andiamo a cercare qualcuno che abbia voglia di aiutarci e, costi quel che costi, troveremo un lettore dvd”.
 
Venti minuti più tardi, dopo un’assurda sfaticata per riuscire a far cambiare i gemelli e cercare di convincere Johnny a fare lo stesso, ero fuori in strada, in marcia. Una marcia piuttosto lenta, considerate le continue lamentele dei bambini sulla mia andatura troppe spedita, le scarpe che facevano loro male e il fiato corto.  Povere anime.
Johnny si era categoricamente rifiutato si venire con noi in paese, quindi eravamo senza di lui. Forse non è carino da dire o pensare, ma fu una fortuna. Robin mi stava aiutando a recuperare periodicamente il gemello dei tre che, siccome non avevo abbastanza arti per tenerli tutti e tre per mano, decidere che essendo libero poteva correre dove diavolo gli pareva. Senza il suo aiuto probabilmente ne avrei persi almeno due lungo la strada.
Fui piacevolmente colpita nel vedere quanto Robin potesse fornire una buona compagnia, lontano dalle influenze del fratello maggiore. Era intelligente e pacato, ma tranquillo.
“Dove andiamo?” mi chiese rimettendo a terra Beth, che fino a poco prima teneva in braccio per evitare la fuga.
“Non so. Quel che ci serve è qualcuno che arrivi fino a casa di Abe e ci porti il mio portatile. Qualche idea?” domandai, stringendomi nelle spalle.
Robin ci pensò su mezzo secondo, poi annuì e indicò la porta del saloon. “Per queste cose c’è Terrence” disse con semplicità.
Quel nome evocò nella mia mente l’immagine del ragazzo bruno che il venerdì precedente era entrato nel saloon mentre ero al telefono, aveva fatto la sua bella figura da  perfetto idiota e poi se ne era andato lasciandomi con un palmo di naso. “Dici che è in grado di portare il computer senza distruggerlo?” mi lasciai sfuggire, evidentemente dubbiosa.
Il ragazzino diede un’alzata di spalle. “Non lo so, però quando papà ha bisogno di dire qualcosa a qualcuno che è lontano manda sempre lui”.
“Dev’essere un tipo affidabile, allora” osservai, un po’ scettica. Non tanto del metro di giudizio del signor Lucas, quanto dell’effettiva affidabilità di Terrence. Non aveva esattamente la faccia della persona sveglia, anche se forse ero l’ultima persona che poteva permettersi di giudicare questo punto.
Tuttavia quando entrando nel saloon lo trovammo in tempo a festeggiare una vittoria a carte contro un anziano signore improvvisando una bizzarra danza rituale indigena abbandonai ogni minimo senso di colpa per ciò che avevo pensato. E anche ogni speranza di riavere il mio computer sano e salvo.
“Pan, cosa ci fai tu qui?” Una voce burbera che ben conoscevo mi sottrasse al mio rassegnato stupore.
“Hey, nonno!” lo salutai allegramente. Solo in quel momento ricordai che il bar di Ginger e il luogo in cui passava la maggior parte del suo tempo. A giocare a burraco e poker con un gruppo di uomini all’incirca della sua età. “A dire il vero avrei bisogno di un favore e non sapevo a chi chiedere, poi Robin mi ha detto di chiedere di Terrence e quindi eccoci qua” ammisi, sottolineando però il fatto che l’idea fosse stata del ragazzino e non mia.
Abraham fece una smorfia e annuì, tornando alle sue carte, mentre il diretto interessato sentendosi tirato in causa interruppe la sua comica esibizione e si presentò a rapporto da bravo soldatino. Con tanto di saluto militare, che mio malgrado mi strappò un sorriso divertito. “Agli ordini signorina!”
Indugiai un attimo, chiedendomi se fosse la scelta giusta affidarmi a lui, poi mi dissi che ormai era troppo tardi per tirarsi indietro. O la va o la spacca! “Sì, ehm… mi chiedevo se potessi arrivare a casa di Abraham e portarmi il pc portatile alla fattoria dei Lucas. Credimi, non te lo chiederei se non fosse urgente” specificai. Anche perché vedere il mio adorato magazzino di musica, film e fotografie distrutto non è esattamente il primo punto nella lista delle mie priorità. E va bene che magari sono da riordinare, ma credo che in tal caso eliminerei l’opzione del tutto.
Lui annuì. “Devo andarci subito?”
“Be’…” stavo per dire di no, la sguardo implorante che mi rivolsero i bambini mi convinse a fare la cosa giusta. Anche se temevo avrei sofferto. “…il prima possibile”.
“Capito” disse. “Potrai pagarmi a consegna effettuata”.
“Certo. Anche perché ora non ho la borsa” … ero stata troppo occupata a non dimenticarmi nessun bambino per ricordarmene, “E se questo può facilitarti ti presto il mio ciao” rilanciai, Ricordavo bene quando per la prima volta l’avevo visto comparire alla finestra di casa Lucas, spompato. Pensai che se avesse avuto un mezzo di trasporto lo avrebbe utilizzato, anziché rischiare l’infarto ogni volta che gli veniva affidato un compito.
“Mi sarà utile, grazie: il mio scooter è senza benzina da almeno due mesi!” rise.
Come non detto. Era semplicemente troppo pigro per mettere la benzina nel motorino. Quindi correva come un cane esaltato avanti e indietro. Giustamente.
“Ah” commentai, interrogandomi sulla sua sanità mentale. Cercai di sorridere, ma non so quanto fossi convincente. “Ci vediamo più tardi, allora. Ciao a tutti! Forza ragazzi, dietro front!” conclusi, trascinando fuori l’allegra comitiva.
Ero piuttosto sconcertata. Mi chiesi quanto mi sarebbe costato procurarmi un nuovo portatile e se Emily avesse salvato tutte quelle foto che sarebbero sicuramente andate perse, presto. Quale ragazza al mondo avrebbe mai affidato il suo computer a quell’enorme sprovveduto apparentemente privo anche solo dell’ombra di un cervello?! IO! Io e basta!
“Sembra un po’ stupido” convenne Robin, intuendo la mia battaglia interiore, o forse semplicemente pensando la stessa cosa. “ma non lo è così tanto”.
Feci una smorfia. “Ah, quindi non è solo una mia impressione” commentai. “Ha mai distrutto niente?”
Robin ci pensò su, poi iniziò a sghignazzare. “No. No, aspetta, una volta sì: si è schiantato con lo scooter contro il muro della chiesa. Portava delle uova ed erano tutte sparse per la piazza, rotte! Solo che sua mamma era sul veterinario e ha visto la scena, è uscita e l’ha rincorso per tutto il paese! Voleva picchiarlo con un ombrello!”
Risi di gusto. E tanti saluti al mio primato quasi assicurato per il più teatrale incidente stradale in paese!

In der Ecke - Nell'angolo
E' un caaaaldoooo che si creeeeepaaaaaa! D;
Il mio cervello ne sta risentendo PARECCHIO.
Il mio umore anche di più ._.
Torno il prima possibile con un altro capitoo :3 
State passando delle buone vacanze? ^^
Avete già visto HP? *u* Io no. Il cinema mi aspetta per Lunedì *W* ! Ora sto combattendo contro gli spoiler o_ò . E' chiaro, so già la storia, ma è una questione di principio.
+w+
Vaaa beeeene. Qui c'è qualcuno che sclera e quel qualcuno sono io, quindi meglio che vada! ^^

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Capitolo 15
*** 15 ***


Cows and jeans

15

 

Quando tornammo a casa Lucas, ovviamente, la trovammo dannatamente, totalmente vuota.
Preferisco glissare sullo stato d’animo che mi pervase quando scoprii dell’assenza di Johnny. Quella stupida, piccola canaglia era sparita.
Avrei dovuto aspettarmelo, conoscendolo, ma ero così stupida che continuavo a dare fiducia a tutti –una volta presa confidenza-, lui compreso. Avrei dovuto prendere ripetizioni di diffidenza. Intanto però la cosa che mi premeva di più era ritrovare quello stupido ragazzino, contenere l’imminente attacco di panico e riprendere il controllo della situazione. O meglio conquistarlo, perché effettivamente non l’avevo mai avuto.
“Okay, bambini, Johnny vuole giocare a nascondino!” esclamai, in una terribile imitazione di entusiasmo. “Vediamo chi lo trova per primo?” proposi, battendo le mani. 
I gemelli gridarono la loro approvazione e corsero verso la porta. In qualche modo riuscii a raggiungerla prima di loro ed evitare che uscissero. “In casa, però!” sottolineai. “Se qualcuno esce non guarda il film, e starà in castigo tutto il pomeriggio”. I bambini protestarono, ma poi annuirono, sconfitti dal mio temibile sguardo severo alla Minerva McGrannit. “Il primo che lo trova, strilli!”
E fu così che iniziò la caccia al Poltergeist.
Setacciammo la casa da cima a fondo, mentre l’ansia causata dalla perdita di uno dei bambini cresceva sempre di più.
Avevamo controllato almeno tre volte ogni stanza, per essere sicuri di aver guardato in tutti i posti in cui avrebbe potuto nascondersi. E anche perché era probabile che ai gemelli qualche stanza non fosse piaciuta e quindi fossero passati oltre senza nemmeno entrare. Alla fine ci ritrovammo tutti e cinque davanti alla porta dello scantinato. Come tutti i bambini che si rispettavano, anche quei quattro avevano il terrore di quell’ambiente umido e tendenzialmente buio.
“Dite che è là sotto?” domandò Robin, preoccupato come se stessimo parlando della tana di un orso appena uscito dal letargo e quindi a digiuno da mesi. Dondolava sui talloni, fissando la scala che scendeva al buio. 
I gemelli si erano nascosti dietro di lui, per stare fuori dalla portata dell’oscurità. Oscurità non poi così oscura, visto che era quasi mezzogiorno, ma dovevo ammettere che inquietava anche me l’idea di scendere là sotto.
“Può essere, sì” confermai. Era probabile, anzi. Quale nascondiglio migliore che l’unico posto cui tutti i suoi fratelli non si azzardavano ad avvicinarsi? “Bene, andiamo” li spronai, facendo un passo avanti. La mia speranza era schizzata alle stelle quando avevo realizzato che quasi sicuramente Johnny era là sotto.
“No!” guairono ad una sola voce. 
Mi voltai a guardarli. “Sentite, non posso andarci da sola: non so nemmeno dov’è l’interruttore della luce!”
“In fondo alle scale a destra, sul muro”.
Molto simpatico, Rob. …Codardo!  “Oh, avanti! Di che avete paura?” 
Non potevano mandarmi da sola. Sì, avevo paura anche io, dall’alto dei miei diciotto anni, lo ammetto. Ma io ci sarei andata in cantina. Costi quel che costie voi verrete con me!.
“Ci sono i mostri” spiegò semplicemente Beth.
Oh, giusto. I mostri. Bè, loro almeno avevano un valido motivo per avere paura.
“Sono sicura che non ci sia nulla di cui avere paura, là sotto” tentai di convincerli.
“Come lo sai?”
Ci pensai su qualche istante, e decisi che una volta tanto la mia anima potteriana sarebbe forse servita a qualcosa. “Hey, ho letto tutti i libri di Harry Potter almeno tre volte, più ‘Animali Fantastici – Dove trovarli’! Se non sono esperta io, di mostri, chi lo è?”
A quella risposta i gemelli parvero molto convinti. Se avevo letto il libro di Harry Potter sui mostri sicuramente sapevo tutto di loro, no? Lui era un mago! Robin invece era ancora piuttosto diffidente. A quel punto non potei non domandarmi come potesse credere nell’esistenza dei mostri e non nella mia esperienza in materia.
“E se c’è un vampiro?” domandò, chiarendo i miei dubbi su quali fossero i suoi.
Risi. “Ho letto anche Dracula, tranquillo. Ora andiamo? Non possiamo perdere questa partita a nascondino!” e per incoraggiarli iniziai a scendere i gradini.
Sentii presto i passi incerti dei bambini che mi seguivano, spaventati. “Pan…” sussurrò una delle bambine, attaccandosi alla mia maglia.
Non potevo terrorizzarli a quel modo. Dovevo fare qualcosa. “Andrà tutto bene, te l’assicuro. Ecco” allungai la mano a tastare la parete, alla ricerca dell’interruttore. Trovatolo spinsi il pulsante e attivai l’unica lampadina, che si accese di una luce fioca e intermittente. “così vedrete che non c’è nulla di cui avere paura”.
Quella cantina dava i brividi, effettivamente. Ma probabilmente la colpa era della luce che proiettava ombre evanescenti e sinistre lungo le pareti e sul pavimento. 
Sentii qualcosa camminare in mezzo agli scatoloni pieni di chissà cosa e mi trattenni dal gridare solo per non spaventare i bambini, al contrario loro che scoppiarono all’unisono in uno strillo raccapricciante che mi fece accapponare la pelle. Rabbrividii, cercando di non darlo a vedere e attesi che smettessero di urlare. “Avete visto qualche mostro?” mi informai, lievemente stizzita.
Robin scosse il capo, mentre gli altri tre annuirono. “Ne è passato uno là sotto, l’ho sentito” mi rivelò Thom.
Io annuii, cercando di essere comprensiva. Poi improvvisamente mi venne in mente una scena della mia infanzia e seppi cosa fare. “Ora, mentre cerchiamo Johnny, vi racconto una cosa. Quando ero piccolo avevo una gran paura del capanno degli attrezzi di nonno Abe.”
“Nonno Abe? Il nonno non si chiama Abe, si chiama Thom, …come Thommy!” ridacchiò Betty, ancora strettamente aggrappata alla mia maglietta. Sorrisi, divertita. “Sì, ma il mio nonno si chiama Abe” spiegai. “Dicevo: Abe mi mandava sempre nel capanno a prendere i suoi attrezzi e io avevo una gran paura. Quindi mi facevo accompagnare mia nonna. Poi lei, un giorno, mi svelò il modo migliore per sconfiggere la paura e i mostri. Anche meglio degli incantesimi, funziona sempre” confidai loro, sorridendo nostalgica. I ricordi legati a mia nonna erano sempre dolci. Poteva una donna lasciare ai posteri solo ricordi positivi? Era meravigliosa, non poteva essere altrimenti.
“E qual è?”
“Cantare”.
“Cantare?” ripeterono, poco convinti.
“Cantare! Proviamo? Scommetto che funziona!”
Questa volta anziché sciocche sigle di cartoni animati intonai la più comune e rassicurante ‘Bella stella dimmi tu’. Loro mi guardavano, in silenzio. “Dovete cantare con me, o non funziona” suggerii, ricominciando. Questa volta i bambini si affrettarono ad imitarmi e ben presto anche Robin si unì allo sgangherato coro.
Con questa nuova magia in atto, setacciammo tutto lo scantinato senza trovare la minima traccia di quel perfido ragazzino chiamato Johnny. Quando tornammo in superficie decisi che era il caso di cercare nel giardino, ma ovviamente nemmeno lì lo trovammo. Ero arrivata ad un punto tale che mi pulsavano le tempie e rischiavo di scoppiare a piangere da un momento all’altro. Per il dolore fisico e per l’agitazione che rischiava di farmi capitolare da un momento all’altro. Non dovevo gettarmi nello sconforto sarebbe stato inutile. 
Mentre i bambini controllavano per la quarta volta il porcile –avevano una sorta di ossessione per Piper, la scrofa- ripassai il Manuale di sopravvivenza. Mi fermai, respirai a fondo e mi sforzai di calmarmi. Poi iniziai a pensare ad eventuali lati positivi nella situazione. Fu un parto trovarli mentre la mia mente ripeteva in continuazione ‘ti licenziano, ti licenziano, ti licenziano’. Il primo che riuscii a scovare sotto quella coltre di pessimismo fu che, per lo meno, i bambini stavano collaborando tra loro e soprattutto con me. Il secondo, forse, si poteva considerare il fatto che questa sottospecie di partita a nascondino aveva occupato i pensieri dei bambini abbastanza da far sì che non si lagnassero per l’eternità di tempo che ci stava mettendo Terrence ad arrivare. Il terzo era che …
‘Ti licenziano, ti licenziano, ti licenziano!’
Forse era che…
‘Ti licenziano, ti licenziano, ti licenziano!’
Oh, ce ne doveva pur essere un terzo!
‘Ti licenziano, ti licenziano, ti licenziano!’
E va bene, dannazione, mi licenziano!
Il terzo era che mi avrebbero licenziata e se non altro non avrei più dovuto avere nulla a che fare quella carogna di Johnny, che mi stava rendendo la vita uno schifosissimo inferno!
Era giunto il momento di mettere in moto il cervello e trovare una soluzione, ma i lati positivi non erano positivi manco per niente e … stavo impazzendo.
Avevo perso un bambino! Ne avevo altri quattro a cui dar da mangiare e da badare e allo stesso tempo avrei dovuto cercare Johnny in giro per Sperdutolandia!
Odiavo quel posto, odiavo quel ragazzino, odiavo la mia propensione a cacciarmi nei guai!
“Che cosa faccio, ora?” sbuffai, nel panico. “Cosa, cosa, COSA?!” mi lasciai cadere seduta per terra, nella ghiaia. Decisi che il modo migliore di comportarmi sarebbe stato sprofondare nello sconforto. Tanto che potevo fare? Nulla. Ancora non ero in grado di replicarmi e poter fare tutto da sola!
Sì, okay, potevo chiedere aiuto a qualcuno. Ma come? Avrei dovuto portarmi dietro tutta la banda, che tra l’altro si sarebbe accorta da un momento del concerto degli stomaci affamati sicuramente già in atto.
Inoltre, secondo dopo secondo, perdevo tempo. Quello scemo di un ragazzino irriverente poteva essersi cacciato in un mare di guai, poteva essersi fatto male, poteva essere stato morso da un serpente, punto da una vespa o da uno scorpione o …
“Pan, ti sei fatta male?” domandò la voce incerta di Robin, appena uscito dal porcile.
Lo guardai e abbozzai un sorriso tirato. “No, sto bene. Ho solo paura”.
“Di cosa?”
Sospirai, sforzandomi di alzarmi in piedi. Lo raggiunsi e mi affacciai alla porta del porcile per controllare che i bambini non combinassero altri guai. “Di tante cose. Johnny non ha fatto un bello scherzo. E’ scappato ed è una cosa che non si deve mai fare, è pericoloso. Potrebbe essersi fatto male e non riuscire più a tornare a casa”.
“Johnny è forte”.
“Può darsi. Ma ha fatto una cosa molto sciocca. Se si fosse perso?”
“Non si perde mai, lui conosce tutti i posti”.
In un altro momento avrei sorriso della stima che provava verso il fratello, ma ero troppo tesa per riuscirci. “Ho paura che mi licenzieranno” ammisi con un sospiro.  Era egoistico da parte mia pensare al lavoro, quando quel ragazzino avrebbe anche potuto essere immerso nei guai fino al collo, ma effettivamente se l’era meritato comportandosi in quel modo sconsiderato. Se una volta tanto mi avesse dato retta non sarebbe successo nulla. Ed ero troppo arrabbiato con lui per rendermi conto che comunque ero terrorizzata all’idea che potesse essergli successo qualcosa.
“Canta, allora”.
Guardai Robin, sorpresa. “Come?”
“Canta. Avevi ragione, noi non avevamo più paura in cantina” rispose, semplicemente.
Lo osservai per un po’ e sorrisi. Poi il sorriso si trasformò in un vero e proprio riso. E allora risi come una matta, tanto che piansi. Lacrime dovute alle risate, lacrime dovute alla tensione e al nervosismo. Una risata isterica, si potrebbe pensare, ma non lo era. Era spontanea, liberatoria,vera. Ridere di cuore più di così era impossibile.
Fu grazie a quella risata che trovai la forza di trascinare i bambini in cucina e preparare loro da mangiare. Mentre attraversammo l’aia notai l’assenza della motoretta e mi allarmai. Poi però mi ricordai di una delle abitudini di Sperdutolandia che non riuscivo proprio a metabolizzare: la totale e cieca fiducia nel prossimo. Nell’entusiasmo per l’arrivo del pacco di George, avevo dimenticato di togliere le chiavi dal ciao. Evidentemente Terrence era passato e l’aveva preso su senza chiedere. Sperdutolandia voleva insegnarmi a donare fiducia al prossimo, okay, ma questo comportamento era un po’ esagerato. Avvisare, almeno.
E se … ODDIO! E se invece l’aveva presa Johnny?!
Per poco non mi venne un malore a quel pensiero. E se aveva preso il motore e aveva avuto un incidente? Quel ragazzino l’avrebbe pagata, dannazione! Mi doveva uno stomaco nuovo, perché il mio si stava sfondando a forza di colpi di ansia e preoccupazione!

Quella fu sicuramente una delle giornate peggiori della mia vita. O per lo meno fino a quel punto della mia vita. Seconda solo a quando mi era stato presentato George come ‘il mio futuro papà’. (Sì, non era stata una grande idea usare quelle parole, considerato che già a quel tempo ero terribilmente arrabbiata con mia madre per aver lasciato mio padre).
“Sei una catastrofe, lasciatelo dire!”
Mi voltai a lanciare a Dean un’occhiataccia. “Anche se non te lo lasciassi dire lo diresti comunque” commentai, per poi lanciare le scarpe in un angolo del corridoio e iniziare a salire lentamente le scale.
“Hai passato ogni limite questa volta!”
Lo ignorai, troppo affrante per poter dire qualcosa. La verità era che mi sentivo uno schifo. Mi avevano licenziata, ovviamente. Come avrebbero potuto non farlo? Hayley era stata anche troppo gentile ad inventarsi la scusa della cugina che tornava dall’estero e avrebbe potuto occuparsi dei ragazzini.
Alla fine Johnny aveva vinto. Mi auguravo che almeno lui fosse soddisfatto. Aveva vinto lui: mi avevano cacciato.
Dean però sembrava non capire la mia voglia di pace e autocommiserazione. Mi seguì su per le scale, forse più arrabbiato di me. “Hai perso uno dei ragazzi!”
“Non l’ho mica fatto di proposito! È scappato mentre non c’ero!” cercai di scusarmi, rivolgendogli un’ occhiataccia. “E per inciso, avresti anche potuto riaccompagnarlo a casa, anzichè cacciarlo!” Perchè sì, quel ragazzino era scappato con la mia motoretta ed era arrivato fino alla fattoria Fletcher, da Dean. Era furbo, indubbiamente. Quale miglior modo di fregarmi se non fare come gli avevo chiesto?
“Io dovevo lavorare, non posso mica badare a tutti i mocciosi che ti fai scappare!” abbaiò, gettandosi a sedere sul letto.
Questa volta non stava semplicemente cercando di farmi saltare i nervi, era palesemente incazzato nero. Come se fosse stato lui ad essere stato licenziato per colpa mia e non il contrario. Voleva impartirmi una lezione, voleva farmi pentire del pasticcio che avevo combinato -come se il mio licenziamento lo riguardasse in qualche modo- e ci stava anche riuscendo. Ogni sua parola era un giro di quel coltello ancora infilato nella piaga.
“Secondo te cosa avrei dovuto fare? Quegli altri si lagnavano come dannati, lui si era impuntato e non voleva venire con noi a cercare Terrence!”
“C’è una cosa che devi capire, principessa” e quella voltà c’era più disgusto del solito in quell’appellativo. “quando fai un casino, la colpa è la tua, non degni altri, okay? Devi prenderti le tue responsabilità e basta! Come ti è saltato in mente di lasciare le chiavi nel Ciao?!” sbottò, appoggiandosi allo stipite della porta della mia stanza.
Mi gettai a sedere sul letto, sperando che quella paternale finisse presto. Anche perchè non aveva alcun diritto di trattarmi come la bambina di turno. Non dopo che per uno stupido puntiglio personale aveva contribuito al mio licenziamento. “Me le sono dimenticate. Non è che io mi diverta cercando di farmi licenziare, di solito. Ho altri hobby.”
“Già, combinare casini!” commentò, freddo.
“Senti, è colpa mia, ora sono stata licenziata e mi sta bene. Okay? Felice? Mi troverò un altro lavoro, in qualche modo! Ora puoi lasciarmi in pace?!” soffiai, lasciandomi cadere all’indietro, stesa. Afferrai il cuscino e me lo premetti sulla faccia. Dopo un po’ lo tolsi e lanciai un’ occhiata alla porta, sperando che Dean se ne fosse andato. Lui tuttavia era ancora lì, a guardarmi in cagnesco, la mandibola contratta. Sbuffò e assestò un pugno al muro. “Sai qual’è il tuo problema? Non capisci niente! E non capisci niente perchè nella tua testa ci sei solo tu!”
Lo fissai per qualche secondo, sentendo la rabbia salire. Mi tirai su a sedere. “Sai qual’è il mio problema, Dean? Che se a me stessa non ci penso io, non lo fa nessuno!” gli gridai, furiosa, poi distolsi lo sguardo, stringendo i denti. “Adesso vattene e lasciami in pace!” conclusi con uno sbuffo, stendendomi a pancia di sotto con la faccia affondata nel cuscino.
Non so se rimase lì o se ne andò subito. Non mi voltai a controllare, troppo immersa nella mia autocommiserazione e nel distruttivo ricordo di quella giornata. Avrei voluto scrivere subito a Emily. Avrei voluto telefonarle e sfogarmi con lei. Ma non potevo. Non potevo scrivere perchè era inutile, lo avrebbe letto chissà quanto tempo dopo. E non potevo chiamarla perchè quello stupido ragazzino mi aveva finito la benzina nel ciao –e non solo- con quella sua dannata fuga.
Quando Terrence, dopo pranzo, era finalmente giunto a casa Lucas, gli avevo spiegato, nel panico, la situazione e lui era andato a cercare Hayley al lavoro, cosa che avevo convenuto fosse la soluzione migliore. Hayley avrebbe saputo cosa fare. Di fatti lei era tornata il prima possibile, dopo meno di un’ora e aveva portato i suoi figli nel saloon, dove li aveva affidati a Ginger. Poi io, lei, Terrence e un paio di quindicenni disoccupati di cui non avevo afferrato il nome avevamo iniziato le ricerche. Fu uno dei due ragazzini a trovarlo che spingeva motoretta lungo la strada verso casa. Aveva finito la benzina, e aveva anche bucato una gomma, motivo per cui non stava pedalando. Il ragazzino aveva accompagnato Johnny al saloon e poi era corso a cercare Hayley e noi altri. Giunti tutti al bar, Hayley aveva severamente rimproverato suo figlio e poi si era voltata verso di me, licenziandomi con l’attenuante della cugina di ritorno dall’estero e disposta a prendersi cura dei bambini.
Mi aveva licenziata davanti ai bambini, davanti a Abraham.
Era stato umiliante, oltre che estremamente avvilente.
Non so come mi sentissi esattamente, in quel momento, stesa nel letto col cuscino a separarmi dal mondo esterno. Ero troppo confusa e soprattutto provata per rendermi conto pienamente di ciò che era successo. Sapevo solo di non volere avere a che fare con nessuno. Motivo per cui quando Abe mi urlò che la cena era pronta risposi di non aver fame.
Mi alzai a fatica e andai a chiudere la porta. Afferrai l’mp3 3 inforcai le cuffie, tuffandomi di nuovo sul letto con la faccia nel cuscino.
Nelle mie orecchie la voce di Vasco Rossi annunciava la sua voglia di trovare un senso alla vita, quando realizzai che forse quello della mia era rovinare puntualmente ogni cosa con la mia totale incapacità di stare al mondo.

In der Ecke - Nell'angolo
Rieccomi qua. Ci ho messo un secolo, lo so, ma è stato di nuovo a causa di problemi di posta, suppongo. 
Oh, è passato così tanto tempo! Io però non vi ho ancora chiesto di Harry Potter. L'avete visto, vero? Vi è piaciuto? A me tanto. :3
Swip, swep, swap. Basta, non so che dire. Sono ancora in alto mare coi compiti delle vacanze, devo leggere ancora un libro che non ho nemmeno comprato e fare tre temi di cui uno sul viaggio che probabilmente non farò, mi mancano sedici versioni di latino e più di metà libro di tedesco. ._. Oddio. Mi viene male.
...perchè farsi del male così? D:
Cooomunque; parlando di Pan, per chi aspettava il suo riappacificarsi con Johnny... bè, ci avevo pensato ma poi questo è ciò che è accaduto -indipendentemente dalla mia volontà. 
Vaaaabbbbeeeene. Via, vi lascio e me ne vado! :D
A presto!,
Miki

 

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Capitolo 16
*** 16 ***


Cows and jeans

16

 
Quella mattina si stava scatenando l’inferno, di fuori. Il cielo era continuamente squarciato da lampi che sbottavano la loro potenza, mentre tutte le lacrime versate dagli uomini sulla terra e poi salite in cielo si rituffavano al suolo con una violenza inaudita. Tutto ciò poteva anche dirsi comune temporale estivo, ma la versione coniata da nonna Margareth era molto più bella e cupa, si adattava quindi meglio al mio nero umore.
Era stato un tuono a svegliarmi. Maledizione a lui!

Con uno sbadiglio mascherato da sbuffo, mi strappai i muti auricolari dalle orecchie, rendendomi conto con stizza che l’mp3 si era scaricato. Pessima, pessima cosa. Mi alzai e arrancando nel buio cercai a tastoni il caricatore sulla scrivania e tornai al letto per attaccarlo alla presa dietro il comodino. Dopodiché diedi un’ occhiata al cellulare per controllare l’ora e notai che era scarico anche quello. Sbuffai e mi gettai nuovamente sul letto, sconsolata. Non c’erano abbastanza prese in quella casa per ricaricare tutto. Perchè non era solo il telefono, nè l’mp3, quanto più la mia autostima, la mia voglia di fare qualunque cosa, il mio entusiasmo e semplicemente me stessa ad essere a corto di energia.
Rimasi a poltrire –in piedi in mezzo alla stanza come uno zombie- commiserandomi per un po’ di tempo, poi un tuono mi risvegliò dal mio torbido non pensare e mi decisi ad andare ad attaccare anche il cellulare ad una presa per controllare l’ora. Decidendo che non era poi così tardi e che il nonno e Dean si sarebbero svegliati da un momento all’altro, mi trascinai fino al piano di sotto a preparare stancamente la colazione.
Continuai a rimuginare a lungo, afflitta da un totale senso di ineguatezza. Sembrava ogni momento di più che Dean avesse ragione; che fossi una principessina egoista e piena di sé. Tutto ciò che facevo aveva un unico complemento di termine: me stessa. Cucinavo per mangiare, pulivo per non abitare in un porcile, lavoravo perchè davo del mio meglio per non sentirmi una fallita. Anche se di fatti lo ero. Tutto ciò che facevo sembrava destinato a venir distrutto, tutto ciò che dicevo a non aver senso, tutto ciò che pensavo ad essere frutto del vittimismo di una ragazzina adulta solo davanti alla legge. E per quanto quel futile diciotto potesse essere ufficiale, non era che uno stupido numero che mi sbeffeggiava ogni volta che mi veniva in mente.
Cosa avrei fatto ora?
Cosa mi avrebbe detto Abraham? Non avevo nemmeno avuto il coraggio di affrontarlo, ancora.
Come avrei spiegato la mia stupidità?
Come avrei fatto a scontare la delusione che gli avevo arrecato?
Ero un pasticcio, ecco. Un particcio di idee, caduto a terra e rimesso nel contenitore nella speranza che nessuno si accorgesse del danno fatto. Bruciato, per di più. Come il latte che preparai a colazione. Era evidente che avessi lo strano e indesiderato potere di perdermi nei miei pensieri nel momento meno opportuno. In quel caso, mentre scaldavo il latte. Ma soprattutto avevo la capacità paranormale di bruciare il latte! Come si poteva essere così idioti?!
“Buongiorno”. Velata presa in giro di Dean –che aveva un dannato tempismo per beccarmi nei momenti peggiori!- alla vista di un’idiota che gettava nel lavandino il contenuto di una brocchetta di metallo.
“ ’Giorno”. Il bofonchiato saluto di Abraham.
Dean annusò l’aria assomigliando vagamente ad un cane. “Che cosa hai combinato?” Sogghignò.
Stava già gongolando. Che razza di...
Non avevo voglia di rispondergli, quindi rimasi in silenzio mentre sciacquavo il contenitore e vi versavo altro latte.
“Allora?”
“Non chiedermelo”.
“L’ho già fatto. Pensi che risponderai?”
“No”.
Sbuffò. “Senti, principessa...” incominciò.
“Ho bruciato il latte, ok?!” sputai, stizzita. Attesi poi che giungessero le velenose parole che seguivano ogni mio errore, conscia che tutto ciò che avrebbe potuto insinuare sarebbe molto probabilmente risultato veritiero.
Ma la cascata di acidità non arrivò.
Lo guardai, cauta, chiedendomi il perché e lo vidi abbozzare un sorrisetto che non prometteva niente di buono, lanciando un’occhiata di sottecchi a mio nonno.
Abraham si era paralizzato in mezzo alla cucina nell’atto di sedersi, la mano sulla sedia e lo sguardo perso nel vuoto. Si ricompose subito sotto i miei occhi e si sedette. Poi mi guardò severo.
“Quanto?”
“Una tazza, più o meno” risposi, senza capire.
Lui annuì, paziente e posò gli avambracci sul tavolo. “Niente latte per te, questa mattina”.
Lo stomaco manifestò il suo scontento con un doloroso crampo. Annuii, sconfitta, abbassando il capo.
Il nonno per qualche motivo non parve soddisfatto di ciò che aveva già detto, quindi continuò. “Qui tutto quello che hai costa sforzo. Devi imparare che c’è sacrificio dietro a tutto ciò che possiedi, per questo non bisogna sprecare nulla. Ti punisco per questo, sia chiaro. Il fatto che tu sia appena stata licenziata non c’entra nulla”.
Se prima non mi era nemmeno passata per la mente quell’eventualità, con quella frase ebbi la certezza che il vero motivo di quella piccola privazione era proprio quello. Con un rinnovato senso di sconforto annuii e afferrai due mele dal cesto al centro del tavolo e uscii di casa. Mi sedetti al tavolo sotto il porticato, dove rimasi immobile a pensare a tutto e niente. Pioveva che Dio la mandava. C’era davvero poco da dire, fare o pensare. Era tutti inutile. Tutto ciò in cui mi impegnavo finiva per andare in fumo. Ormai tutti si erano accorti di quanto fossi impedita. Persino quello stupido manuale di sopravvivenza era inutile, il quale fra tutte le idiozie che la mia mente avesse mai partorito era forse la ciofeca più grande mai nata! Serviva solo a rimandare la crisi di nervi, dannazione!
Quel tempaccio si adattava schifosamente bene al mio umore.
I tuoni e i fulmini si erano stufati di movimentare la situazione e tutto ciò che era rimasto a quel punto era solo un demotivante diluvio. Il quale poi se ne sarebbe presto andato, al contrario del mio desolante e desolato umore nero.
Prometteva di essere una di quelle tristi e noiose giornate in cui non facevo che mugugnare monosillabi ogni qual volta mi si rivolgeva la parola. Giornate in cui non volevo far altro che sguazzare nel mio pessimismo in perfetta solitudine. Giornate in cui non cercavo niente e nessuno, da cui però puntualmente Emily mi salvava –era solo in quelle occasioni che non sentiva il campanello nè il telefono squillare, non poteva non insospettirsi. Ma questa volta non mi avrebbe lanciato alcun salvagente. Volevo affogare nel mio fallimento, non avevo voglia di essere aiutata.
Rimasi lì da sola finchè non smise di piovere. Poi iniziai a sgranocchiare le mele e una volta sazia –relativamente-, decisi che perdere tempo a far nulla non avrebbe migliorato la mia situazione, ma anzi mi avrebbe fatto guadagnare altri rimproveri. Ci volle poco perchè il nonno e Dean uscissero a dar da mangiare agli animali, ma per quel momento mi feci trovare armata di pennello, vernice e malumore a finire di dare la prima mano alla staccionata.
Dopo pranzo ci riunimmo in salotto per fare l’elenco della spesa, momento drammatico che avevo visto solo nei reality show in tv, situazione che ogni volta in onda mi aveva fatto ringraziare il cielo di non essere mai stata chiamata in causa quando toccava a mia madre e mio fratello decidere cosa comprare quando mi mandavano al supermercato accompagnata da George in versione autista. Non feci alcun intervento durante la placida discussione tra i due, mi limitai ad ascoltare qualche frase in silenzio. Poi, quando mi parve il momento opportuno, menzionai il ciao e le riparazioni che occorrevano.
“Domani vado a ritirare la tua paga dal signor Lucas. Con quei soldi pagherai i danni alla motoretta. Nel frattempo nel capanno c’è una bicicletta che puoi usare”.
Normalmente mi sarebbe venuto un colpo al pensiero dei quindici chilometri di strada ghiaiosa e irregolare che mi separavano dal paese, ma non avevo voglia nemmeno di pensarci in quel momento. “Fra poco parto, allora. Ho paura di non riuscire a tornare entro sera altrimenti”. Anche perchè la telefonata a casa era d’obbligo ogni giorno. Papà e Felicity –mia madre- erano stati chiari: avrei dovuti chiamarli senza possibilità di obiezione. Non era importante chi dei due, ma uno doveva avere mie notizie quotidianamente.
Abraham annuì, poi chiese a Dean di passare l’aspirapolvere. Mentre lui si alzava con uno sbuffo, io tornai in cortile e camminando tra le pozzanghere con le infradito entrai nel capanno per cercare la bicicletta.
Ci misi almeno un quarto d’ora a capire come toglierla dalle cianfrusaglie sotto cui era rimasta sepolta per chissà quanto tempo e cercare un pompa per gonfiarne le ruote. Quando ebbi finito con quest’ultimo compito, la osservai sconsolata, tenendola in piedi con le mani perché non aveva nemmeno il cavalletto. Era desolante. Vecchia, grigia, sporca, un po’ arrugginita, impolverata, coi freni talmente duri che non avevo idea di come avrei fatto a frenare in caso di bisogno immediato. Era evidentemente da uomo e aveva anche il cannone, e con la mia statura da Minimeo non sapevo come avrei fatto a salirci.
Tornando in casa a prendere uno straccio per –quantomeno- spolverare quel catorcio, notai l’ormai familiare pick-up di Kameron nel vialetto. Di fatti il suo possessore era in piedi in corridoio ad aspettare pazientemente che il suo amico smettesse di fare il casalingo. Anche perché in quel suolo era decisamente poco credibile.
“Hey, ciao!” mi salutò, solare come sempre, cercando di farsi sentire sopra il rumore dell’aspirapolvere nel salotto.
“Ciao” mi sforzai di abbozzare un sorriso e feci una corsa veloce in bagno a prendere uno straccio e inumidirlo.
“Hai bisogno di una mano?” si informò, gentile come sempre.
Pareva assurdo che potessero esistere persone così altruiste e allo stesso tempo persone così stupidamente egoiste -come me- e che le prime offrissero il proprio aiuto proprio agli egoisti peggiori.
“No, no grazie. Devo andare in paese a telefonare ai miei. In bici” specificai, stancamente. Probabilmente avrei bucato a metà streda, perchè al peggio non c’era limite. Specialmente a Sperdutolandia.
Kameron scosse il capo, sorpreso, poi annuì risoluto. “Ti accompagno”.
Sgranai gli occhi. “Cosa? No, non ce n’è bisogno. E poi al ritorno dovrei tornare a piedi. Non preoccuparti, grazie comunque!” Abbozzai un sorriso di ringraziamente e tornai nel cortile con lo straccio umido per spolverare almeno un po’ quella bicicletta.
Kameron tuttavia mi seguì. “Devo andare da un amico, poi ti riporto a casa. Dai, tanto oggi è venerdì, non c’è nulla da fare! Non disturbi affatto, sappilo”.
Mi voltai a guardarlo negli occhi, chiedendomi se parlasse sul serio. Tutti questi favori! Non che mi dessero fastidio, per carità, ma non era giusto scroccare un passaggio ogni volta senza poter mai ricambiare in alcun modo. “Kameron, seriamente non penso sia il caso...” risposi. “E poi sei venuto per Dean, no? Non è giusto che...”.
“Ma Dean sta lavorando e lo distrarrei e basta, restando qui”.
“Lavora sempre, se non passa l’aspirapolvere la passo io, non è un grosso problema”.
“No, non lo farai, perchè starai ancora cercando di tornare a casa arrancando su quella bici. Salta su e non fare storie, nana!”
“Se mi ringrazi un’altra volta al ritorno di lascio a piedi” mi avvisò Kameron, parcheggiando nella piazzetta davanti alla chiesa del paese. Quel giorno i negozi erano tutti chiusi, e non si sentivano che gli schiamazzi di alcuni bambini provenire dalle case. C’era un silenzio innaturalmente tranquillo. In città non c’era nemmeno di notte una quiete come quella.
“Mi piacerebbe non essere considerata un’ingrata, sai?”
“Scommetto che con tutte le volte che mi hai ringraziato ultimamente, nemmeno i nipoti dei pronipoti dei posteri potranno pensare che tu sia un’ingrata!”
Risi. “E va bene, hai vinto: smetto! Però ricomincerò prima che tu mi abbia riaccompagnato a casa!”
Kameron sospirò. “Morirò affogando nei tuoi biglietti di ringraziamento un giorno, me lo sento”.
Risi di nuovo, di cuore.
Se quella mattina mi avessero detto che entro qualche ora sarei tornata tranquilla quasi come se non fossi stata licenziata sarei scoppiata in una risata isterica da far venire i brividi anche a Bellatrix Lestrange. (Ecco, nel caso qualcuno non credesse al mio ritorno ad un umore quasi allegro, la citazione potteriana ne è la prova.) “Ok, mi regolerò. Magari ti manderò anche dei fiori, allora!” dissi, scendendo dall'auto.
Lui fece altrettanto. “...cambio di programma: morirò asfissiata dalla puzza dei fiori”.
“Hey, King Kong, i fiori profumano, non puzzano!”
Lui sorrise sornione. “Non quando ne hai la casa piena zeppa, nana”.
“Continua a chiamarmi così e ti troverai i fiori pieni zeppi di vespe, Kameron” replicai, acida come sempre. La compagnia di Kameron mi aveva distratta molto, come forse avrebbe fatto quella di Emily. Ero tornata quantomeno tranquilla e tutta quella grigia nebbia che mi offuscava la vista e i pensieri se ne era andata. Come mi aveva ripetuto Kameron almeno tre volte, durante il tragitto: la bacheca del saloon era piena di richieste di lavoro, ne avrei trovato un altro. Magari anche più vicino a casa di Abraham.
Iniziavo anche a vedere il lato ridicolo di tutto ciò che era capitato il giorno prima. Quanta sfortuna ci voleva perché tutti quegli imprevisti –le chiavi dimenticate nella motoretta, l’assenza di un lettore cd, dei bambini capricciosi, un ragazzino ribelle- si condensassero in un solo grandissimo inconveniente? La cosa era quasi comica.
“La cosa potrebbe essere preoccupante, in effetti” acconsentì Kameron, alzando le mani in segno di sconfitta. “Be’, ci vediamo fra poco. Aspettami qui, se fai prima di me!”
“Certo. A dopo!” lo salutai, voltandomi. Mi incamminai verso il saloon facendo lo slalom tra le pozzanghere. Poi aprii la porta ed entrai nel bar, deserto come sempre. Ripetei la solita routine –pagamento, numero, chiamata- e portai la cornetta all'orecchio.
Avevo quasi sempre telefonato a mia madre, perchè papà era al lavoro all’orario in cui telefonavo di solito. Una volta tanto però ero arrivata di primo pomeriggio, quando lui sarebbe dovuto essere a casa –conoscevo i suoi orari e le sue abitudini, nonostante vivessi con Felicity e non con lui. Per cui fu il suo numero quello che digitai.
Il telefono fece solo pochi squilli, prima che lui rispondesse.
“Pronto? Qui Harvey Fletcher”
Sorrisi. Aveva la stessa voce di Joshua, solo più bassa e rilassata. Aveva un tono che infondeva serenità, lo aveva sempre avuto. E quando da piccola mi leggeva qualcosa per farmi addormentare, la sua voce era la ninna nanna perfetta: mi cullava fino alla tanto desiderata e dolce perdita di sensi. A dire il vero quando dormivo a casa sua a volte gli chiedevo ancora di farlo. Non perché ancora non riuscissi ad addormentarmi da sola, ma perché ne sentivo la nostalgia. “Ciao, papà”.
“Hey, anatroccolo!”
Risi. “Ciao, papà” ripetei. “Come stai?”
“Bene, c’è tanto da lavorare come sempre. Ma bisogna pur farlo, no?”
Ridacchiai imbarazzata. “Ecco appunto” commentai sottovoce.
“Ecco appunto, cosa, Pan?” domandò.
Sospirai. “Sorpresona, papà! Mi hanno licenziata proprio ieri!” Mi persi in un racconto dettagliato e altamente auto-ironico di ciò che era successo il giorno prima, più qualche aneddoto passato che non ero ancora riuscita a raccontargli. Come quello della pasta e fagioli e la seguente comparsa di Terrence dalla finestra della cucina. Tutte cose che vi verranno risparmiate, conoscendole voi già.
Quando finii, mio madre aveva riso fin troppo, fino alle lacrime conoscendolo, e stava faticando non poco a ricomporsi. Trattandosi di lui, però, non me la presi e attesi pazientemente.
“Deve essere dura, là, eh Pan?”
“Come se non lo sapessi già. Tu ci sei cresciuto qui”.
“In effetti sì. So cosa significa e come ci si sente. Combinavo un guaio dietro l’altro! Ma lasciamo i vecchi tempi nel dimenticatoio. Ho anche io una sorpresa per te!”
Sgranai gli occhi, sorpresa. “Davvero? Quale?”
“E’ una sorpresa, non si può sapere”.
“Papà, se doveva essere un segreto non avresti dovuto dirmi nulla” gli feci notare.
Lui rise. “Hai ragione. Be’, immagino che tu abbia bisogno di un po’ di riposo. Ecco perchè proprio questa mattina ho imbucato una busta con i biglietti del treno per tornare a casa. Che ne dici?”
Vi parrà una scena da film, fin troppo ridicola, forse. Ma in quel momento, quella notizia era la più bella che avessi ricevuto da non so più quanto tempo. Qundi strillai. Nel telefono, come se non ci fosse nessuno dall’altro campo. Urlai di gioia ed entusiasmo, felice al solo pensiero che sarei potuta tornare a casa per un po’ di tempo! Cosa avrei potuto chiedere di meglio?
“Graziegraziegraziegraziegraziegrazie!” 


In der Ecke - Nell'angolo
Buongiorno, buon compleanno a chi compie gli anni e buon non-compleanno a tutti gli altri!
(Buon Noncompleanno a me! A me!)
Allora, vediamo. Cosa dire del capitolo? Qui Pan si lascia prendere dallo sconforto più totale, arrivando anche ad abbandonare momentaneamente la sua filosofia 'occhio per occhio, dente per dente', limitandosi a subire passiva i rimproveri e le frecciatine di Dean. (Cosa che accade tra questo e il finale del capitolo scorso.)
Pan inizia però a scoprire un amico vero e proprio in Kameron, che le ha fatto da salvagente al posto di Emily durante quella che pareva una giornata nera in tutto e per tutto (col diluvio, anche o_o).
E in più, nel finale, ecco a voi una grande notizia! *paraparapappààà!*
Chi di voi se lo aspettava?
Cosa vi aspettate da questo futuro ritorno a casa? :D 
Ci tengo a sottolineare che la nostra protagonista s'è fatta prendere dall'entusiasmo, ma c'è ancora tempo prima che torni a casa. Devono succedere altre cose, ancora. ^^ 
Se questo capitolo è un po' troppo corto per i vostri gusti, mi punirò da sola, ma vi avviso che il prossimo sarà anche un pelo più corto e un pelo più inutile *pausa duranta la quale Yvaine0 si picchia con una lampada seguendo l'esempio di Dobby*, ma un pelo più 'affettuoso' e allegro. 
Okay, penso di aver finito. :3
Vi saluto, vi ringrazio per le belle parole che sempre spendete per me, quando mi sento sempre più sciocca e noiosa. Devo dire che mi tirate SEMPRE su il morale, anche e soprattutto nei momenti no. Quindi un grazie di cuore a voi, mie care recensitrici! 
:D
(E per usare questo termine ho dovuto controllarne l'esistenza su internet, sparatemi pure!XD)

PS: spero sinceramente non ci siano errori di battitura o di distrazione. ><" *incrocia le dita* 


 

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Capitolo 17
*** 17 ***


Cows and jeans

17

 

Quello del viaggio di ritorno fu un tragitto accompagnato da risate e spensieratezza. Ogni preoccupazione per il lavoro perduto e quello da cercare era svanita, sostituita dall’immensa e rincuorante voglia di tornare finalmente a casa, almeno per qualche giorno. A Settembre sarei tornata in città –da papà, da Emily!- per una settimana, e i biglietti del treno erano già in viaggio per Sperdutolandia, per raggiungermi. Era solo Luglio, la metà del mese era passata da pochissimo, ma ero disposta ad aspettare pazientemente, purché Settembre si sbrigasse ad arrivare!

Ridevo e scherzavo con Kameron, raccontandogli una manciata di aneddoti di cui ero venuta a conoscenza grazie alle voci di corridoio, o che io o Emily avevamo vissuto di persona.

“...poi lei è entrata nel negozio di dischi e l’ha visto che abbracciava la sagoma di cartone di Amy Winehouse!”

Ridemmo fino alle lacrime, quasi, poi Kameron cercò di ricomporsi. “E’ molto fornito quel negozio di musica?” se ne uscì.

Diedi una scrollata di spalle. “Non è mai mancato ciò che stavo cercando” risposi.

Lui annuì. “Mi faresti una commissione quando torni in città, allora?”

“Direi che è il minimo, Kam, con tutti i passaggi che mi stai dando! Spara!” lo incoraggiai.

“Bang!” mimò una pistola con le dita.

Risi, presa di sorpresa da quel gesto. “Era pessima!” specificai, poi.

“Era geniale” obiettò Kameron. “E’ da un po’ che cerco il CD A Day At The Race dei...”.

“Queen!” completai, sorpresa.

“Esatto! Li conosci?”

Gli lanciai un’occhiata di sottecchi, sorridendo soddisfatta. Erano in pochi a condividere la mia passione per tale gruppo musicale, in città. Tutti erano fissati con l’heavy metal, l’hard rock, oppure l’house o qualcosa di tragicamente commerciale. Non che io fossi un’esperta di musica, ma non avevo mai sostenuto che vera musica fosse quella che ascoltavo io. Nonostante fosse buona musica. “E chi non li conosce? Non esiste nessuno che non conosca Somebody to love o I want it all!”

“Vogliamo parlare di We are the champion?”

“O di We will rock you?”

I want to beak free?”

Bohemian Rhapsody!” concludemmo in coro, sorridendo soddisfatti.

Avrei potuto citare mezza discografia ed era evidente che per lui valeva lo stesso –dalla sua espressione da esperto, almeno, era questo che si deduceva. “A day at the race, e sia” acconsentii, annuendo. “Sarà un regalo di ringraziamento”.

Kameron sbuffò, poi però mise su un’espressione colpevole. “Penso che questa volta accetterò senza fare molte storie. Mio padre non vuole che io spenda soldi in queste cose. In cambio, però, ti farò da tassista a vita!”.

Lo guardai di sottecchi. A Sperdutolandia non si potevano nemmeno spendere i propri soldi come si voleva? Non che i CD –CD di buona musica- fossero poi un modo per buttarli nel gabinetto, poi. Dovevo rassegnarmi: non mi sarei mai abituata agli usi di quel posto, checché continuassero a ripetermi. “Ma non diciamo sciocchezze, Kam. È così che hai iniziato con Agatha?” domandai, scherzosa.

Lui sorrise. “No, per lei è stato diverso. Fino all’anno scorso era sempre a casa di Dean a studiare. Più o meno, insomma. Ci provava a farmi studiare, almeno, ma non è servito a molto. I suoi ormai mi conoscevano, ero sempre da loro, quindi, vista la mia tendenza ad andare a zonzo in macchina anziché lavorare. A dire la verità preferisco fare qualunque cosa pur di non lavorare!”

“Ti capisco!”

Rise e continuò. “E così mi hanno chiesto di fare da autista ad Aggie, ogni tanto!” lo disse con un entusiasmo quasi immotivato. Sembrava estremamente orgoglioso di questo suo compito, come se finalmente avesse trovato il suo scopo nella vita. E, come avrei scoperto presto, era così. Come poco tempo dopo avrei saputo da Ginger, Kameron era sempre stato considerato uno scansafatiche, solo perché un po’ pigro. Era sempre stato per tutti un fannullone, quando in fondo bastava accostargli una persona che lo spronasse debitamente e un po’ più spesso per fargli fare tutto il suo dovere. Ecco perché era sempre con Agatha, che con la sua severa autorità non si lasciava mettere i piedi in testa nè coinvolgere dalle trovate di Kameron per distrarsi dal lavoro.

“Dean ce l’ha con il mondo intero o solo con me?” me ne uscii, con solo una punta di interesse nella voce. Se ce l’aveva con tutti non mi interessava particolarmente –problemi suoi!-, ma se il suo problema ero io un po’ mi scocciava. Insomma, non gli avevo mai fatto nulla di male!

Lui diede una scrollata di spalle. “E’ così con tutti. Ha un carattere un po’ particolare...”

“Da dove vengo io si dice pessimo, non particolare!”

Kameron scoppiò a ridere, anche se dall’espressione che prese dopo averlo fatto, si notò che avrebbe preferito essersi trattenuto. Per rispetto dell’amico, forse. “E’ un bravo ragazzo. E’ stato il mio unico amico per tanto tempo, e io il suo...”

Sgranai gli occhi.

Ok, che Dean fosse un cretino scorbutico  era lampante, e che non avesse altri amici oltre Kameron non mi stupiva più ti tanto. Ma Kameron? Come poteva avere solo un amico? Insomma, era un tipo a posto! Divertente, ottimista, disponibile e gentile.

“Non hai altri amici oltre Dean?!” me ne uscii, con davvero poca delicatezza. Subito dopo me ne resi conto, e abbassai il capo. La solita similitudine dell’elefante nel negozio di porcellane ci sarebbe stata da Dio. “Scusa, non volevo. Fingi che non abbia detto niente”.

Ma come al solito Kameron ignorò le mie scuse. “Be’, sì. Non sono molto popolare quaggiù, specie a scuola. Mi ritengono... strano, immagino”.

Lo guardai confusa. “Strano? Tu?! Ma se sei la persona meno stramba che io abbia incontrato qua!”

Lui rise. “Non devi aver incontrato tanta gente, allora!”

“No, in effetti no” ammisi. “Ma vivo con Dean e ho visto Terrence entrare nel bar di venerdì pomeriggio, chiedermi cosa stessi facendo mentre parlavo al telefono e perché non ci fosse nessuno, per poi uscire subito dopo! Ora dimmi che lui è normale, e quando comparirà sul cofano dell’auto lo Stregatto non mi sorprenderò più di tanto!” esclamai, indicando il posto citato.

Non ci capivo più nulla. Se Kameron era strano di sicuro sarei stata considerata una pazza isterica! Il che forse era anche corretto, ma insomma! Kameron strano?!

Scoppiò a ridere come un matto e continuò per cinque minuti d’orologio, senza fermarsi un secondo. Ad un tratto pensai di fargli male così che smettesse ed evitasse l’arresto cardiaco, ma sembrava così stare bene anche senza respirare, che alla fine la sua risata mi contagiò.

Quando smettemmo eravamo già arrivati a casa di Abraham e Kameron parcherggiò nell’aia. Mentre scendevamo Dean si alzò da inginocchiato accanto alla staccionata che era, appoggiò il pennello con cui stava dando la seconda mano di vernice al legno e venne verso di noi. “Ah, pensavo mi avessi dato buca!” esclamò rivolto a Kameron. Poi si voltò verso di me. “Non fargli perdere tempo, ok? È già uno scansafatiche per sua natura!”

Incrociai le braccia, decisa a rispondere senza perdere le staffe. “Cos’è, hai paura che io sia un’amica migliore di te?”

“Ne dubito, principessina. Che ne dici di farti qualche altro amico e imparare quel’è il tuo posto?”

“Nààh, credo che usurperò il tuo” ribattei con nonchalance. Ero di ottimo umore dopo la notizia datami da mio padre ed ero decisa a non farmi rovinare quel momento di allegria da niente e soprattutto da nessuno. “Dov’è Abe?” domandai. Volevo dargli la notizia.

Dean fece una smorfia. “Dove passa tutto il suo tempo di Venerdì” rispose.

Ovvero nel pollaio. Nonno Abraham era sempre stato molto legato alle sue galline, da che ricordassi. Infatti, come Dean mi aveva detto il primo giorno, non si fidava di lui a tal punto da lasciarlo prendersi cura dei polli. I suoi adorati pennuti! Ridacchiai, mentre correvo verso il pollaio. Entrai spalancando rumorosamente la porta e facendo agitare tutte le galline. Facendolo, mi tornò alla mente una scena di tanti anni prima.

Una piccola me stava correndo nel cortile. “Nonnoooo! È pronto da mangiareeee!” stava gridando.

La bambina era entrata nel pollaio sbattendo la porta, ridendo e gridando con entusiasmo, terrorizzando in questo modo i pennuti starnazzanti.

“Nonno è pronto!”  aveva gridato la piccola me.

“Pan, non urlare, fai paura ai polli”.

La piccola aveva riso. “Ma è divertente, nonno! Guarda, nonno, scappano!” continuava a strillare, divertita.

Abraham aveva sorriso appena e le aveva tappato la bocca con una mano. “Sai cosa succede, quando le galline si prendono molta paura?”

La piccola me aveva scosso il capo e il nonno aveva continuato: “Non fanno più le uova”. La bambina aveva sgranato gli occhi e abbassato tristemente il capo. Si era sentita in colpa, tutto d’un tratto.

“Oh, non c’è motivo di essere tristi, ora. Adesso lo sai, quindi non corriamo più alcun rischio! Forza, andiamo a mangiare!”

Quel ricordo mi fece sentire dannatamente in colpa e richiusi la porta dolcemente, come per rimediare al baccano fatto aprendola. “Scusa, non volevo spaventarle” sussurrai, senza muovermi dalla soglia.

Forse era fin da quel momento che avevo iniziato a guardare con diffidenza e rispetto i pennuti. Erano evidentemente più fragili di quel che si pensava, ma nonostante ciò mi parevano piuttosto infide. Non mi piacevano: era quasi un ricatto quel ‘fammi paura e non ti dò più uova!’.

“Non preoccuparti. Lascia pure la porta aperta, possono uscire in cortile. No, aspetta” si interruppe. “il ragazzo dei Towell c’è ancora?” domandò.

Annuii. “Sì, sta parlando con Dean.” Confermai.

Abraham scosse il capo. “Be’, allora usciranno più tardi. Non voglio che quello zuccone ne investa qualcuna, andandosene” brontolò, scortandomi fuori.

Una venerazione. Aveva una vera e propria venerazione per quei pennuti. Io ero l’ultima a poterlo biasimare per questo, vista la mia devozione per quella meravigliosa bestia che è la mucca, ma non approvavo. Insomma, come ho già detto non mi piacevano molto le galline. Era una questione di pelle, proprio. Capita che qualcuno ci stia antipatico a prescindere  da tutto, no? Per me e le galline era la stessa cosa. Anche per le pecore a dirla tutta. Non era normale che ci fossero certi animali che mi dessero così sui nervi, probabilmente, ma, ammettiamolo, cosa avevo io di normale?

“Hey, nonno” iniziai, mentre camminavo al suo fianco verso la casa. “ho parlato con papà, al telefono”.

“Sì?” Sembrava davvero poco interessato, ma non lo biasimavo. Dopotutto lo aveva abbandonato a se stesso nel momento del bisogno, quel trattamento era il minimo.

“Sì. Mi ha detto che lui e mamma hanno spedito due biglietti del treno per farmi tornare a casa qualche giorno, a inizio Settembre” dissi, sorridendo allegra.

Lui fece una smorfia, spalancando la porta ed entrando in casa.

Lanciai un’occhiata a Dean e Kameron che chiacchieravano nello stesso punto di prima, poi lo seguii dentro.

“C’è la scuola a Settembre” disse, vedendomi raggiungerlo in salotto. Si sedette sulla sua poltrona.

Battei le palpebre, confusa. “Inizia l’1?” chiesi. Ok, avrei dovuto essere esaltata per la somglianza con Hogwarts, ma decisamente non mi pareva il caso di esserne felici, se ne andava del mio limitato ritorno a casa.

Abraham sbuffò. “Cosa ne so, chiedi a quei due zoticoni là fuori” brontolò, afferrando un libro e aprendolo.

Feci una smorfia e andai ad affacciarmi alla finestra. “Kameron, quando inizia la scuola?” strillai.

Dean disse qualcosa ed entrambi risero. Se gli pareva il momento adatto per fare battutine idiote si sbagliava di grosso.

Sbuffai, poi l’interpellato mimò con le mani un dieci e un due. Sarebbe iniziata il dodici, quindi? “Grazie!” urlai in risposta e rientrai. Probabilmente sarebbe iniziata il dodici, il che significava che avrei avuto tutto il tempo di tornare a casa e poi godermi gli ultimi giorni di vacanza a Sperdutolandia. Sì, bè, ‘godermi’ e ‘giorni di vacanza’ erano paroloni, visto che avrei dovuto lavorare, ma comunque non c’era scuola.

“Abe, le lezioni iniziano il 12 a detta di Kameron” comunicai, sorridendo sollevata.

Lui sbuffò di nuovo, come a manifestare la sua disapprovazione per essere stato disturbato mentre cercava di leggere. Avrei voluto protestare: in fondo io stavo cercando di avere una conversazione da prima che lui aprisse il libro, avevo la precedenza!

Abraham non rispose e io rimasi ad osservarlo in attesa per quelli che sembrarono minuti interi.

“Mi hai sentito?” sbottai infine, scocciata.

“Sì, la scuola inizia il 12. Bene, avrai tutto il tempo per tornartene a casa. Ma qual’è poi il problema, se c’è scuola?” bofonchiò, scocciato.

Sorrisi, rendendomi conto di quale fosse probabilmente il problema. “Nonno, starò via una settimana e tornerò qui” lo informai, parlando lentamente, ma senza sillabare come se stessi parlando ad un ritardato –cosa che sapevo non sarebbe stata apprezzata per niente. “Non rimarrò in città”. Che temesse di essere abbandonato nuovamente a se stesso? Potevo capirlo e non volevo che accadesse. Non aveva idea di quanto io mi sentissi già in colpa per l’abbandono –indipendente dalla mia volontà- degli anni passati. Pensai che forse avrei dovuto parlarne con mio padre, una volta incontratolo di persone. Mi dispiaceva enormemente per ciò che lui aveva deciso dopo la morte della nonna e avrei voluto che recuperasse quell’assenza con almeno qualche visita ogni tanto. Sia a lui che a me. Perché in fondo era ormai chiaro che sarei rimasta a vivere a Sperdutolandia per molto tempo. Probabilmente sarei stata autorizzata ad andarmene solo quando avrei imparato a cavarmela da sola, senza l’aiuto di nessuno. Quando avrei imparato a lavorare, guadagnarmi il pane quotidiano e chissà cos’altro. Giorno tuttavia tristemente lontano, ahimè, visto come stavano andando le cose.

Abraham non rispose, fingendosi nuovamente immerso nella lettura. O forse vi era immerso realmente, ma mi pareva strano che potesse riuscire così facile ignorare una persona. Insomma, quando volevo ignorare Joshua in uno dei suoi attacchi di irritante vitalità –che duravano intorno alle ventiquattro ore ed erano quotidiani- non riuscivo a far finta che lui non ci fosse e a concentrarmi sulla lettura, per quanto mi impegnassi. Lui era molto più esuberante della mia capacità di concentrazione.

Sospirai e decisi di provare a parlargli in modo gentile. “Nonno?”

Lui grugnì, in tutta risposta. Probabilmente voleva dirmi che mi stava ascoltando.

“Non ho intenzione di andarmene tanto presto. Non per sempre, almeno”. Non che io ne abbia la facoltà, comunque. Ma anche avendola avuta dubitavo che me ne sarei andata e l’avrei mollato lì da solo. Mi stavo affezionando –di nuovo- a lui, nonostante tutto.

Lui rimase in silenzio ancora un po’, periodo durante il quale io rimase immobile a fissarlo, in attesa. Alla fine Abraham sbuffò. “E va bene, ho capito! Evviva, vai a casa una settimana! Guarda come sono felice per te. Contenta ora? Fila fuori di qui e lasciami in pace, adesso!” sbottò, burbero, tutto d’un fiato.

La sua reazione mi fece scoppiare a ridere, ma decidendo saggiamente di non giocare troppo col fuoco, corsi in camera mia a scrivere qualche pagina del diario da spedire ad Emily.


In der Ecke - Nell'angolo:
Ed eccomi qua! :D Come ci avevo preannunciato questo capitolo è breve e insulto. o_o In compenso, però, il prossimo promette di essere -almeno!- più lungo dei soliti. Sempre che io non finisca per tagliarlo xD .
Non penso che ci sia molto da dire a proposito del capitolo. L'affetto che vi avevo promesso consiste per lo più in questa ultima parte in cui Pan pensa che il nonno sia restio a lasciarla tornare a casa - dal mio punto di vista questa è una forma di affetto, sì. xD E poi c'è anche il flashback, il ritorno momentaneo all'infanzia di Pan, dove troviamo un nonno Abe sempre serio e burbero, ma comunque meno... meno? Più gentile, ecco. xD
Poi...mmm... bè, qui viene a galla una delle cose che Kameron e Pan hanno in comune. Sso che molte di voi non amano questo personaggio, quindi non oso immaginare cosa pensiate di lui ora che si sta avvicinando a Pan sempre di più.
Cielo, non capisco perché proprio non vi piaccia! xD
Mmm... oh, bè, sebbene paia un po' sciocco, Pan continua sempre ad avere bisogno del supporto di Emily -che è la sua migliore amica, per chi non si ricorda-, a cui scrive come se fosse un diario segreto. In pratica, infatti, lei scrive proprio un diario che poi spedisce alla sua amica. Ha bisogno di saperla lì, accanto a lei,per poter sostenere questa situazione che ormai non è più nuova ma continua a sorprenderla e a metterla in difficoltà.
Che dire, poi? Finalmente me ne vado in vacanza! Quattro giorni, niente di che. Oggi vi posto questo capitolo, domani faccio le valigie e mercoledì parto! Torno domenica :D . Nel frattempo però cercherò di lasciare almeno un capitolo da correggere alla mia amica che si è presa questo fardello -povera lei! 
Sto scrivendo un papiro, quindi basta -ho una versione ad aspettarmi, tra l'altro.
Un saluto a tutti!:D

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Capitolo 18
*** 18 ***


Cows and jeans

18

 

Il sabato mattina ero nel saloon, immersa in un’esilarante sensazione di dejavou, accanto a Ginger, con davanti la stessa bacheca di qualche tempo prima, pulullante di post it su cui erano scribacchiate le richieste dei paesani.

“Bene, vediamo cosa c’è di buono” commentò Ginger, mentre trattenevo le risate. Perché, ok, la sensazione di dejavou poteva essere anche vagamente divertente ma di certo non sarebbe stato opportuno scoppiare a ridere quando ero appena stata licenziata. Dubitavo che qualcuno potesse pensare a me come ad una persona anche solo vagamente intelligente, ma un minimo di contegno dovevo comunque tenerlo, giusto per non degenerare del tutto.

“C’è un posto dal veterinario” disse.

Ridacchiai, immaginando si trattasse di uno scherzo, e attesi che mi proponesse qualcosa di sensato.

Passò quasi un minuto, durante il quale lei continuò ad osservarmi paziente, ma la seconda proposta non arrivò quindi alzai lo sguardo su di lei, sgranando gli occhi. “Ma io non sono in grado! Cioè, bisogna essere laureati, io vado ancora al liceo!” esclamai, spaventata.

La donna aggrottò le sopracciglia poi scoppiò a ridere. Qualcosa non quadrava.

“Penso che tu non abbia capito. Intendevo come assistente, non come veterinaria!”

Mi balenò nella mente un’immagine di una sala operatoria in cui i muri erano tutti schizzati di sangue e un pazzo medico –che per qualche motivo mi apparve con la faccia di mio fratello- strillava i nomi degli assurdi strumenti di tortura che avrei dovuto passargli, mentre operava a cuore aperto un elefante.

“In che senso?”

Ginger mi sorrise, con un sorriso che sembrava intimarmi alla tranquillità. E di fatti mi calmai.

“Dovrai solo gestire la sala di attesa.”

Fu con quelle parole che il secondo capitolo di quello che assomigliava sempre più ad un assurdo videogioco – di quelli in cui si ricominciava dallo stesso punto ogni volta che si perdeva una vita – ebbe inizio.

 

“Di solito l’ambulatorio è tranquillo, ma capitano giorni in cui è sovraffollato e allora non c’è modo di lavorare senza che mi scoppi un mal di testa allucinante” stava spiegando Mr. Sorrow grattandosi distrattamente una guancia sotto la barba folta e bruna.

Annuii distrattamente, mentre osservavo l’ambulatorio veterinario. La sala d’aspetto era effettivamente minuscola, non dubitavo che affollata fosse  un qualcosa di insopportabilmente rumoroso. Specie se ogni persona aveva con sé un animale lamentoso.

Abraham mi lanciò un’occhiataccia, accorgendosi che stavo prestando attenzione solo in parte lo sconclusionato discorso del veterinario. In realtà avevo ascoltato le spiegazioni più utili – l’elenco dei miei compiti, gli orari di lavoro e le istruzioni sul lavoro – ma tutti i commenti sul mal di testa e le noiose notazioni scientifiche sull’anatomia animale – o qualcos’altro, non ne ero sicura – non mi importavano molto. Così ignorai anche l’occhiataccia del nonno, certa che nemmeno lui fosse interessate ai due terzi di quello che il veterinario vomitava allegramente.

“Quando posso iniziare?” domandai, quando Mr.Sorrow parve aver finito di parlare a vanvera.

L’uomo si grattò di nuovo la barba, osservandomi pensieroso. Che ci fosse tanto da pensare? Eppure non mi pareva una domanda tanto complicata. Sarei dovuta stare più attenta a ciò che chiedevo, forse.

“Anche subito!” se ne uscì, con un’alzata di spalle.

 Sorrisi, cordiale, e annuii. “E sia!”

Un quarto d’ora dopo era seduta dietro la minuscola scrivania della sala d’aspetto del veterinario, a guardarmi intorno confusa. La stanza era microscopica e anche essenzialmente vuota. Persino ad una persona pigra come me sembrava assurdo non-lavorare in quel modo. C’erano quattro sedie di legno di fronte a me e un porta ombrelli. Stanza vuota, sedie vuote, portaombrelli vuoto. Ambulatorio dannatamente silenzioso. Che il signor Sorrow si fosse addormentato? Lo invidiavo.

L’unica cosa pericolosamente rumorosa era la mia mente, che ciarlava, ciarlava, ciarlava e ciarlava –un po’ come aveva fatto il veterinario poco prima – mentre la mia mano scarabocchiava con una bic nera su un post it. E quando dico che scarabocchiava non si tratta di falsa modestia volta a celare il mio idilliaco talento nell’arte del disegno. Intendo dire proprio che scarabocchiavo: spirali, righe – storte–, cerchietti –ondeggianti-, croci, quadrati anneriti e sbilenche faccine di ogni tipo. Oh, e ovviamente anche gli epici mascheroni neri che sovvenivano quando la noia prendeva totalmente il sopravvento su qualunque mia capacità di autocontrollo e devastavo con quella sorta di nera maledizione tutto il post it appena riempito. Dopodiché lo buttavo nel cestino e ricominciavo da capo con un altro.

Noia.

Noia con la N maiuscola.

N – o – i – a.

Che lavoro era, se non dovevo fare altro che imbrattare foglietti e contenere la mia insofferenza? Perché sì, ero un tipo pigro, ma non soffrivo la noia. (Come tutti, effettivamente). Non mi annoiavo facilmente, fedele com’ero al dolce far nulla, ma quando capitava ero insopportabile.

Sbuffai, iniziando a dondolare sulle gambe posteriori della sedia, una mano a farmi da appoggio sul piano del tavolo.

La porta dell’ambulatorio si aprì di scatto proprio in quel momento seguito un’assordante belare. Inutile dire che caddi sulle quattro gambe della sedia per lo spavento, con un’espressione sciccata in volto.

“Signorina, c’è Mr. Sorrow?” gridò nel panico una donna dai ricci capelli bianchi. Sembrava stremata, poverina.

“Sì, certo” mi alzai in piedi e scattai verso la porta che separava la sala d’aspetto dall’ambulatorio vero e prorpio. “Signore, c’è bisogno di lei, qui. È arrivata una signora con una pecora e stanno strillando entrambe. Ma dormiva?!”

L’uomo, seduto alla sua scrivania con la testa posata sulle braccia, a loro volta adagiate sul piano del tavolo, mi lanciò un’occhiata truce. “Certo che no!” si alzò in piedi. “Falle entrare, presto!”

Lo guardai scettica per un istante, mentre spalancavo la porta e invitavo la donna ad entrare con la sua pecora. Poi la richiusi e tornai alla mia scrivania, domandandomi quale fosse il problema di quello stupido animale.

Certo che non la invidio, mi ritrovai a pensare dopo poco. Oltre alla malattia, quella povera bestia aveva dovuto sopportare la gigantesca umiliazione di farsi trascinare al guizaglio per tutto il paese, partendo da chissà dove, poi. Se non la ucciderà la malattia –qualunque essa sia-, lo farà la vergogna, pensai.

Persino i condannati all’impiccagione, che come lei avevano una corda legata al collo, avevano più dignità di quella pecora. Almeno loro avevano un motivo per opporre resistenza, almeno i condannati avevano anni vissuti e da vivere a cui pensare e qualcosa per cui struggersi. Lei invece era inerme e impotente e non poteva nemmeno decidere della sua sorte. Che sventurato ovino. Anche se era un animale stupidamente indisponente mi dispiaceva per lei. Che poi probabilmente era un lui, non lo sapevo. Come si distinguevano le pecore femmina dalle pecore maschio? A parte una sbirciatina nelle parti intime, ok. Ma mi sembrava una cosa tanto barbara andare nella sala medica e guardare sotto ad un qualunque animale. Sì, avevo sempre pensato che fosse una mossa profondamente maleducata. Un po’ di pudore, insomma, non guastava. Se avessero riservato lo stesso trattamento agli uomini, per capire se si trattava di maschi o di femmine?

Avrei dovuto chiedere a qualcuno indicazioni su come distinguere il sesso di un ovino. Al veterinario, magari, così avrebbe potuto vomitare fiumi di parole un pelo interessanti, una volta tanto. La giornata infatti non proetteve di voler vivacizzarsi particolarmente, anche i gemiti scontenti della pecora non si udivano più attraverso la porta –che l’avessero soppressa? Quale terribile barbarie!

Meno di mezzora dopo, tuttavia, la vecchia signora, ora molto meno isterica, fu spinta in sala d’aspetto assieme alla sua povera pecora dalla zampa fasciata. Il dottore le seguì, ciarlando ovviamente: “Non si preoccupi, presto il suo animale starà bene. Dovrà solo evitare di costringerla a fare lunghe passeggiate almeno per un po’, altrimenti quella slogatura non guarirà mai” stava rassicurando l’anziana. “Ora vi troviamo un passaggio per tornare a casa. Pan, vai al saloon e manda Terrence a chiamare il signor Gilbert. Abbiamo bisogno del suo furgone o la signora non potrà tornare a casa assieme alla pecora.”

Mi alzai in piedi, annuendo, sollevata di poter finalmente fare qualcosa. “Subito!” confermai schizzando fuori dall’ambulatorio. Qualunque cosa pur di abbandonare quel noioso luogo infestato dalla puzza della noia. (Non so esattamente che tipo di odore abbia la noia, ma quando lo si respira lo si riconosce. È un po’ lo stesso fetore che riempie l’aria quando sei chino sui libri mentre fuori c’è un sole che spacca le pietre, l’estate è alle porte e sotto la tua finestra ci sono mandrie di bambini urlanti che giocano beati senza la minima preoccupazione per la tua interrogazione di chimica del giorno seguente). Senza contare che comunque quello era il mio compito: dare una mano al veterinario.

Quindi, chiedendomi per quale motivo la vecchia avesse portato in paese la pecora al guinzaglio quando la poveretta aveva una zampa dolorante, corsi per le stradine di Sperdutolandia Town ed entrai al bar, dove con un fiatone da inespertissima maratoneta –quale ero- biascicai a Terrence le istruzioni datemi da Mr.Sorrow.

Fu presto evidente, però, che avessi omesso qualcosa, poiché il dato signor Gilbert si presentò tre quarti d’ora dopo davanti alla sede veterinaria con la sua tremolante alfa romeo di un’altra epoca, talmente piccola da non avere nemmeno i sedili posteriori e quindi totalmente inabilitata al trasporto di una vecchia con la sua bestia.

La strigliata che mi beccati dopo che la belante coppia se ne fu andata a bordo del furgone –che il signor Gilbert aveva avuto il buon senso di tornare indietro a prendere- fu la più noiosa e petulante che io avessi mai udito in diciotto anni e quasi quattro mesi di vita. Quel posto di lavoro era la sede della noia e probabilmente io ero stata assunta per tenere compagnia proprio a questa che si stava stancando di essere ignorata e di ascoltare le chiacchiere di quel barbuto oratore da strapazzo. Ma quel lavoro mi serviva. Non potevo perderlo e fui immensamente grata al veterinario di non avermi buttato fuori,  che rimasi sveglia fino a tardi a scrivere sul diario un riassunto dettagliato della giornata (per Emily) e a organizzare una tabella di marcia mentale per dare del mio meglio e non sbagliare più. La quale suonava un po’ come un continuo incitamento alla concentrazione.

Ma ovviamente il giorno seguente ne combinai una delle mie. Stanca com’ero per essere andata a letto tardi, mi feci accompagnare da nonno Abe al lavoro in anticipo, temendo di arrivare tardi, e fu così che attesi più di venti minuti l’arrivo di Mr.Sorrow, impalata davanti alla porta. Anche quel giorno l’inattività fu assolutamente snervante, tanto che, giusto per far qualcosa, mi addormentai con la faccia appoggiata su uno dei post it che stavo imbrattando. Quando un ragazzino, che doveva vaccinare il suo cane, entrò sbattendo la porta, mi svegliò. Inutile dire che quando mi alzai di scatto a guardarlo come se fosse stato un’Acromantula, sfoggiando una riproduzione di una montagna di smile scocciati (-.-, per intenderci) sulla guancia. Inutile dire che rise fino alle lacrime, inutile dire che mi sfregai la faccia per un’ora per fare andare via quei segni neri. Utile, invece, segnalare che rimasi intontita tutto il pomeriggio per colpa di quel sonnellino fuori orario e quando mi venne chiesto di far qualcosa –visto che mi pagavano- usai l’AnitraWC per lavare i vetri delle finestre e la vetrina, lasciando tutte le superfici riflettenti ricoperte da comici quanto demoralizzanti aloni bianchi.

Questo fu ovviamente uno solo dei tanti errori che commisi durante quella settimana. Non a caso, quando al mio secondo lunedì di lavoro arrivai all’ambulatorio –in ritardo, questa volta-, trovai un’anziana signora seduta al mio posto e quando chiesi spiegazioni, Mr. Sorrow attaccò con una sorta di opera di ciceroniana di infinita lunghezza che, una volta tanto, mi ritrovai ad ascoltare dall’inizio alla fine, esterrefatta. Il succo del discorso era che aveva assunto nuovamente la sua precedente assistente. Non capivo per quale assurdo motivo dovesse continuare a girare attorno ad una cavolo di rotonda immaginaria a suon di metafore, aneddoti e intercalari, quando poteva andare dritto al punto. “Devi ammettere, inoltre, che non è normale finire tre blocchi di post-it e continuare a dimenticarsi tutte quelle cose” mi disse. Non feci una piega, pensando invece che avrei dovuto usarne molti di più, solo per dispetto. “Quella vecchia è un decisamente noiosa, devo ammetterlo, ma almeno sa fare il suo lavoro senza fare disastri. Senza rancore, eh?”

Misi su un sorrisetto strafottente, che probabilmente gli sembrò solo forzato. “Non si preoccupi, la capisco: so cosa voglia dire lavorare con vecchi noiosi! Arrivederci” lo salutai, lasciandolo lì a grattarsi la barba come al solito.  

E fu con (mia) stizza che venni licenziata per la seconda volta. Questa volta, più che demoralizzata, ero furiosa. Con me stessa, con quel soporifero lavoro, con quel decerebrato di un veterinario e con quello schifo di Sperdutolandia.

Quel posto mi detestava, era lampante e in parte anche reciproco. Ma io non avevo intenzione di cedere. Anche solo per dispetto, a quel punto non avrei mollato.

Di fatti varcai la soglia del saloon con un sorriso colpevole in volto e, dondolando sui talloni, un po’ in imbarazzo, chiesi a Ginger se avesse qualche minuto per me.

Lei, sorridente e disponibile come sempre, posò sul bancone lo strofinaccio con cui stava asciugando e mi seguì fuori dal locale.

Le spiegai timidamente la situazione, evitando lo sguardo di Abraham che mi scrutava attraverso la porta di vetro e mi scusai ripetutamente per il disturbo che le stavo arrecando.

“Non preoccuparti, Pan, devi trovare il lavoro giusto per te. È normale fare un po’ di fatica, all’inizio”.

Non le credetti per niente, ma mi limitai a sorriderle grata. Era sempre così gentile che non riuscivo ad essere acida con lei. Senza contare che non avrei avuto nè motivo nè diritto. “Grazie, Ginger, sul serio, non saprei cosa fare senza di te” dissi, a mezza voce, mentre questa volta consultavamo la bacheca direttamente fuori dal locale, senza nemmeno portarla dentro.

“E’ giusto così: bisogna aiutarsi a vicenda per vivere bene in paese. Sembra che tu fatichi a trovare il lavoro adatto a te, ma non ci diamo per vinte, giusto?”
Sorrisi, ammirata. “Giusto”, confermai, mentre la donna scartava qualche foglio alla ricerca di quello adatto. Per caso mi cadde l’occhio su un’annuncio, diceva che si stava cercando una commessa al negozio di articoli da giardinaggio –da lavoro, trattandosi di Sperdutolandia, dove gli hobby non esistevano! “E questo?” proposi, con scarso entusiasmo.

“Da Cassie? Sì, si può fare. Solo...”

“Solo?”

“Dovrai lavorare sodo per ottenere la sua fiducia. Non si fida facilmente delle persone, ci ha messo molto per adattarsi qui in paese. I primi tempi pedinava tutti i clienti che entravano nel suo negozio, temendo che le rubassero qualcosa. È molto meticolosa nel suo lavoro, quindi dovrai darti da fare. Pensi di farcela?”

“Parla tanto quanto Mr. Sorrow?” domandai.

“No, è un tipo taciturno”.

“Penso che andremo d’accordo, allora” risposi, speranzosa. Bastava non dover sopportare tanta noia come la settimana passata!

Ero pronta a tutto.

Senza contare che le parole tutto sommato buone che Ginger aveva speso per descrivere questa Cassie, mi davano speranza.

 

Furono tre giorni impegnativi, durante i quali mi resi conto di tante cose. Per prima cosa, ero certa che mi sarebbe venuta un’ernia, prima o poi, a forza di trascinare avanti e indietro sacchi di terra e concime –con un profumino che potete immaginarvi. Secondo, Dean adorava letteralmente vedermi in preda ad una crisi di nervi –motivo per cui mi aveva sfottuta fino all’esasperazione, per essermi fatta licenziare di nuovo. Terzo, Ginger era fin troppo gentile e ottimista: Cassie era la persona più sfiduciosa, sospettosa e burbera che avessi mai incontrato nel mondo reale! Perchè, se proprio dovessi paragonarlo ad un personaggio della letteratura, direi che i Centauri che abitano la Foresta Proibita sono dei gran simpaticoni.

“Muoviti, ragazza, ci sono ancora un sacco di cose da scaricare!” mi esortò la donna. Non poteva avere più di cinquant’anni, quella megera. Doveva essere in menopausa, a giudicare dai picchi di acidità che raggiungeva a intervalli di venti minuti.

“Sì, sto lavorando!” mi lagnai, mentre le passavo di fronte trascinando un sacco da dieci chili di concime.

“Non strisciarlo a terra, si rovina!”

“Cassie, c’è del letame dentro! Non so nemmeno perché tu lo faccia arrivare confezionato, quando qui ci sono mucche dietro ogni angolo! E ne fanno tanta, le mucche!”

La donna mi lanciò una truce occhiata con quei suoi raggelanti occhi azzurri. Insomma, erano raggelanti sul serio. Non avevo mai visto uno sguardo così freddo nascosto dietro iridi di quel colore: solitamente avevano un che di dolce e spensierato, ma in lei non c’era nulla di dolce nè di spensierato. Passava le giornate a rimproverarmi, standomi continuamente col fiato sul collo, attenta ad ogni mio sgarro. Mi metteva tanta pressione, che finivo per far cadere tutto ciò che mi capitava tra le mani. In compenso però, non riuscivo a dimenticare nessun incarico, né a fare grossi errori.

“Tu non capisci.”

No, in effetti non ne capivo il senso, sempre che uno ce ne fosse. Trascinai il sacco dal retro fino all’espositore in negozio. Che poi, a cosa serviva un espositore di concimi? Insomma, era... sterco!

Nonostante ciò, ricominciai a spostare i sacchi, questa volta con il suo aiuto, visto che non voleva strisciassero a terra e si rovinassero. Poi passammo ai vasi e ai vari attrezzi da giardinaggio, fino a svuotare quasi tutto il magazzino. Era già pomeriggio, poiché la mattina la avevamo trascorsa scaricando dal camioncino dei rifornimenti tutti i nuovi arrivi.

Era strano, perché nonostante Cassie fosse un’arpia e sgobbassi come un cammello tutto il giorno, quando tornavo a casa – e grazie al cielo gli orari di lavoro coincidevano più o meno con quelli del nonno e di Kameron, per cui il primo mi accompagnava in paese al mattino e il secondo a casa alla sera, perché ero ancora rigorosamente senza motore – ero tranquilla. Stanca, sì, ma tranquilla. Con il caratteraccio che quella donna si ritrovava, non mi facevo scrupoli a risponderle per le rime, quindi il mio stress veniva in gran parte scaricato in quel modo. Motivo per cui, quando Dean iniziava il suo momento di relax quotidiano e mi rivolgeva le sue frecciatine, ne dicevo quattro anche a lui e mi sfogavo del tutto, o quasi. Inoltre, non appena toccavo il materasso esausta com’ero, mi addormentavo subito e dormivo della grossa fino a quando qualcuno –la sveglia, Abe o Dean- non mi buttavano giù dal letto a pedate.

La mattina seguente, fu sorprendente trovare davanti al negozio di Cassie una piccola folla di persone. C’erano Kameron, il signor Gilbert, Ginger e suo marito, Mr. Sorrow, il signor Lucas con Robin, e una manciata di altre persone che avevo incontrato qualche volta, ma non avrei saputo nominare.

“Che succede?” chiesi, scendendo dalla macchina.

Mio nonno mi lanciò un’occhiataccia. “Non ne ho idea. Sarà una delle solite trovate di Cassie per disseminare panico in paese” borbottò, irritato, dirigendosi come al solito al bar, senza curarsene più di tanto.

Lo guardai entrare, poi mi avvicinai alla folla.

Fui subito accolta da un “E’ lei!”.

Sgranai gli occhi, mentre il mio capo mi indicava, furiosa, e guidava gli sguardi stupiti di tutti i presenti su di me.

Arrossii per l’imbarazzo. “Ciao, Cassie. È successo qualcosa?” domandai, in parte sorpresa, ma soprattutto chiedendomi cosa significasse questo ‘è lei!’. Sì, insomma, ero già stata presentata a gran parte di quelle persone e le altre avevano sentito parlare di me per tutti i danni che avevo combinato ultimamente. Dubito ci fosse qualcuno, comunque, in un paese così piccolo a non sapere chi fossi. Era un po’ inutile fare questa ulteriore presentazione in mezzo alla strada.

“E me lo chiedi pure!?” strillò, furiosa, facendo un passo avanti, verso di me. “Hai anche il coraggio di chiedermelo?!”

“Ehm... sì.” sospirai, mentre capivo quale era stato forse il mio errore. “Ho rotto un sacco di letame, vero? Deve essere caduto dallo scaffale. Lo so, era in bilico, non ci stava, ma tu avevi detto di spostarli tutti... pulisco subito, non preoccuparti!” In fondo ne combinavo una dietro l’altra, era strano che in quei tre  giorni non fosse successo ancora nulla.

Cassie rise, vagamente isterica. “Non mi freghi, signorinella!”

“Scusa?” cheisi, senza capire.

Fece un’altro passo verso di me e questa volta, involontariamente, indietreggiai. Sembrava che quella grossa vena orribilmente gonfia e visibile sulla fronte potesse esplodere da un momento all’altro, e la cosa era tanto buffa e comica da risultare inquietante. Insomma, erano cose che succedevano nei cartoni, non nella vita reale!

“Smettila! Smettila subito di fare finta di niente! Vai subito a prenderla! Sei stata tu, ne sono sicura! Non c’è più!”

“Ma cosa?”

Iniziavo terribilmente a sentirmi accusata e non capivo di cosa. Avevo forse perso qualche sacco di merd- ... di concime?

“Quella zappa! Lo so che l’hai presa tu, stupida ragazzina! Non so cosa ti abbiamo insegnato, ma qui non si fanno queste cose! Ora, prima che chiami l’agente Watson, riportami quella zappa!”

E come un fulmine a ciel sereno capii. “Stai insinuando che io abbia rubato qualcosa?!”

“Una zappa! Non lo sto insinuando, lo so per certo!”

“Lo sai per certo?!” Il mio tono aveva giunto il livello dell’isteria. Ero indignata e assolutamente fuori di me. “Che diavolo sai per certo, scusami?!”

Se Cassie era furiosa come una belva feroce a cui è stato sottratto un cucciolo, io rischiavo di non diventare meno iraconda di lei.

“Lo hai preso tu!” continuava a strillare. “E’ inutile che continui a fare la finta innocente, ragazzina, lo sappiamo tutti che se la colpa di qualcuno è la tua. Ginger ci ha messo secoli per insegnarmi ad aver fiducia di questi zoticoni di campagna e non ho mai avuto ragione di pentirmene! Poi arrivi tu, compari dal tuo treno e butti all’aria la nostra tranquillità con la tua totale incapacità! Chi, ora?! dimmi, chi può avermi sottratto quella zappa, se non una viziata e impertinente ragazzina di città?”

“Mi stai dando della ladra! Sei impazzita? UNA ZAPPA, POI! Ma dove diavolo me la metto una zappa, secondo te?! La incornicio in camera?! O la mando a casa come souvenir!? Dio, Cassie, ma ti hanno detto di berti una dannata camomilla e startene tranquilla, una buona volta?!”

La donna divenne livida di rabbia, e a quel punto iniziò a fare veramente paura. Se non fosse stato che ero così arrabbiata da fregarmene totalmente, forse a quel punto avrei capito che era il caso di chiudere il becco prima che...

“SEI LICENZIATA! LICENZIATA, LICENZIATA, LICENZIATA! Qualuno chiami il signor Watson, questa stupida ladra non deve passarla liscia!”

“Cassie, ma vaffanculo!” sbottai, girando sui tacchi e andandomene a piedi da qualche parte, senza nemmeno sapere dove. Mi limitai ad attraversare la piazza, gesticolando come una stupida, camminando spedita e parlando ad alta voce, da sola.


In der Ecke - Nell'angolo
Aaaallora. Questo doveva essere il capitolo 'lunghissimo', ma non so se lo giudicherete tale. Diciamo che dovevo metterci un sacco di cose e quindi mi pareva immenso, non so dirvi se effettivamente lo sia, lascio giudicare voi. :D Mi scuso nel caso in cui l'ultima parte sia un po' tirata via. Ho concluso questo capitolo martedì sera alle dieci e quaranta, mentre in chat avevo almeno tre persone che non stavano zitte un secondo e mi era venuta l'ansia di non riuscire a concluderlo prima di partire. Quindi: chiedo perdono :) !
Oh, poi qui succedono tante cose o_o Pan viene licenziata due volte e la seconda direi che è quella più grave -e immeritata. Che ne pensate? Come reagireste al suo posto? Io credo che non vorrei avere più niente a che fare con Cassie per tutta la mia vita. .-. Insomma, come può incolpare lei?
In realtà Cassie non è così mostruosa: insomma, Ginger aveva avvisato Pan della difficoltà con cui la donna si fida delle persone. E' una delle ultime arrivate in paese e Ginger si è impegnata tanto per riuscire a farle capire che tra i compaesani poteva fidarsi di tutti, e se c'era qualche problema era dovuto alla 'tontaggine' e non di certo alle cattive intenzioni. Ci ha impiegato anni. E' piuttosto normale che invece non si fidi di Pan, poiché oltre a non conoscerla, la ragazza è anche proveniente dalla città, un posto pieno di delinquenti -non tutti, ovvio, ma ce ne sono a bizzeffe. Diciamo che le raccomandazioni di Ginger per una dalla città non valgono, secondo lei. 
Bè, direi che ho finito. A voi la parola, se avete voglia di lasciarmene qualcuna!:D

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Capitolo 19
*** 19 ***


Cows and jeans

19

 

“Dove vuol che me la metta una scopa?!  Basta, è definitivo: detesto questo posto! Cosa ci faccio qui? Combino guai e quando non ho fatto niente, arriva una stupida vecchia bigotta a darmi della ladra! A me! Cristo Santo!”

Furiosa. Ero a dir poco furiosa.

Che fossi un’incapace era ormai risaputo, ma ladra mai! Con che faccia tosta quella donna mi incolpava?! Nemmeno mi conosceva!

“Pan!” mi chiamò qualcuno.

“Muori!” risposi, stizzita, senza nemmeno voltarmi o chiedermi chi ci fosse.

Solo allora mi accorsi vagamente dei passi nello sterrato, dunque di qualcuno che correva dietro di me.

“Non è carino da parte tua!”

Kameron comparve al mio fianco, ma non accennai a fermarmi. Carino? Carino??! Cosa me ne fregava di ciò che era carino o non lo era, in quel momento?! Tanto ero una schifosa ladra, no?! Non mi curavo di ciò che era carino! “Non me ne frega niente” risposi, senza nemmeno accorgermi che non era stato lui a parlare.

“Fermati, dai! Non sei stata tu!” intervenne la stessa voce dello stupido commento sulla mia cortesia.

“Oh, questo lo so, Robin!” dissi, brusca. “Che cosa ci fai tu qui, poi?! Fila a casa, tua cugina ti starà cercando!”

Entrambi si fermarono, forse, perché sparirono per qualche istante dal mio campo visivo; poi però tornarono a trottarmi attorno come stupidi cani troppo allegri, ignorando l’insegna luminosa che svettava sulla mia testa: Sono una cavolo di ladra, lasciatemi in pace o vi fregherò le mutande!

Tutto ciò era assurdamente indecente. Se qualcuno aveva ancora una buona opinione di me, ora sicuramente non l’aveva più. Mi sentivo furiosamente frustrata, ma anche umiliata. E impotente. Non avrei potuto più decidere del mio destino, non avrei potuto scegliere come comportarmi, che impressione dare agli altri di me stessa. No, aveva scelto Cassie, sbagliando per giunta, e ora non potevo più cambiare le cose, se non con un’immane fatica. Presto tutti avrebbero parlato di me come di una poco di buono e considerate le dimensioni del paese forse lo stavano già facendo.

Tutto ciò solo perché una nevrotica vipera non aveva esitato a puntare il dito contro di me quando aveva perso la sua stramaledetta zappa!

“Pan, calmati!”

“No, Kameron, non mi calmo proprio per niente! Odio che mi si diano colpe che non ho! E ne ho tante, per la misera, perché inventarsene altre!?”

“Neanche a me piace …” convenne Robin a mezza voce.

“A nessuno piace!” tagliò corto l’altro. “Ma noi non pensiamo che sia stata tu!”

“No, no!” lo appoggiò il ragazzino.

“Oh, grazie, ma le cose non cambiano! Quella schizzata avrà già chiamato la polizia!” sbottai, non molto rincuorata. “Il punto è, Kameron, che non me ne sta andando una giusta! Anzi, le cose peggiorano sempre di più!” sbuffai di nuovo. “Robin, adesso basta, vai a casa! Tua cugina si caccerà in un mare di guai se non ti trova!” Sapevo bene come ci si sentiva, e non avrei augurato a nessuno –neanche alla ragazza che aveva preso il mio posto- di patire quell’angoscia che si prova nel sapere di aver perso un bambino e nel preoccuparsi per lui fino quasi a farsi venire l’ulcera.

“Il signor Lucas sa che Rob  è con me, non preoccuparti” spiegò Kameron.

“Senti, so di essere egoista, ma non è per lui che mi sto preoccupando. Sono un tantino impegnata ad autocommiserarmi e a mandare accidenti, in questo momento! Ma l’hai sentita quella? Secondo lei ho rubato una zappa! Ma, dico, che diavolo ci faccio io con una zappa?! Magari adesso pensa anche che…”

“Nessuno pensa che sia stata tu!”

“Cassie sì!”

“Ma non ha prove!”

“Oh, bè, questo cambia molte cose. È la sua parola contro la mia, chissà  di chi si fiderà la gente! Della piccola e viziata principessa combina guai – che sembra il titolo di un cartone animato, porca miseria! - o della vecchia Cassie che vive qui da anni e tutti conoscono?” continuai, decisamente scettica.

Kameron mi si parò davanti, facendomi inchiodare sul posto per non schiantarmi contro di lui. “Stai zitta un secondo?!”

Lo guardai, esterrefatta. Non potevo nemmeno sfogarmi? Che diritto aveva lui di seguirmi e poi anche intimarmi al silenzio? Incrociai le braccia con stizza, per manifestare la mia posizione di protesta ininterrotta nonostante l’obbedienza.

Robin rise della mia espressione e Kameron sorpirò. “Non c’è motivo per imbestialirsi così, va bene?”
No, non andava bene proprio per niente! Ma non mi diede il tempo di strillarglielo in faccia.

“Cassie non si fida di nessuno e una volta al mese esce in piazza a sbraitare contro una congiura ai suoi danni! Ormai non le crede più nessuno!”

Sbuffai. Convincente, ma troppo poco per calmarmi. “Ammesso e non concesso che tu abbia ragione, “sibilai, “questa situazione rimane comunque avvilente e degradante!”

Robin lanciò un’occhiata confusa a Kameron, che doveva avere più o meno la sua stessa età cerebrale. Avrei dovuto procurarmi un ‘Brain Training’ e un NintendoDS per verificarlo, mi dissi con un’imponente e giustificata dose di acidità.

“Cosa vuol dire?”

“Significa che è arrabbiata lo stesso” tradusse l’altro, con un sospiro. “E dai, Pan!”

Dai, Pan? Dai, Pan, COSA??!

Mi avevano fatto passare da ladra davanti a mezzo paese e, secondo lui, non avrei dovuto prendermela? Santo cielo. Santo cielo! Buono quanto volete, ma Kameron sfiorava dei picchi di deficienza che pochi esseri umani avevano mai raggiunto!

Mi limitai a lanciargli un’occhiata in tutta risposta, per non dover mandare a quel paese l’unica persona che potevo considerare amica in quel posto.

Respirai a fondo un paio di volte, cercando di calmarmi.

Robin rise e sentendolo non potei evitare di sorridere.

“Come mai siete qua?” Me ne uscii, infine, riuscendo a soffocare almeno un po’ la rabbia.

Kameron sorrise, dimostrando di apprezzare il mio enorme sforzo. “È nato un vitello da una delle vacche” intercettò la mia occhiataccia. “Ehm, scusa, mucche- e volevo portare Robbie a vederlo”.

No, un attimo un... “Un vitellino?” Ebbene sì, mi ero appena illuminata più di quanto sicuramente non avesse fatto il suddetto ragazzino alla stessa notizia, nonostante tutto.

“Già!”

“Posso venire anche io?” domandai, arrossendo leggermente per l’imbarazzo. Era ridicolo, lo sapevo, avanzare una proposta simile e cambiare totalmente atteggiamento dopo una sfuriata come quella. Ero così infantile alle volte...

“Sì, dai, tanto non ha nient’altro da fare, Kam: è disoccupata!” approvò Robbie, con aria allegramente esperta.

Gli lanciai un’occhiata. “Grazie, per un istante me ne ero quasi dimenticata...” commentai con amarezza.

I due stupidi risero e Kameron mi diede una pacca di incoraggiamento sulla spalla, a cui risposi con un sorriso tirato.

“Forza, andiamo a prendere il pick-up, allora!”

Mi irrigidii. L’ultima cosa di cui avevo bisogno era tornare in paese e affrontare Cassie e tutti gli altri. Magari anche il nonno. Mai sarei riuscita a sopportare sguardi di biasimo e rimprovero camminando tra la gente. Sapendo di non meritarli, per giunta.

Sentii gli occhi iniziare a pizzicare e voltai loro le spalle. “Ho bisogno di stare un po’ da sola, andate voi, io vado un po’ avanti a piedi...”

“No, dai! Vieni!” protestò Robin.

“Va bene, a dopo” lo contraddisse Kameron, con molto tatto.

Mi voltai a guardarli solo quando sentii i loro passi abbastanza lontani.

Il ragazzo gesticolava, mentre spiegava qualcosa al bambino, il quale si voltò a guardarmi. Certa che da quella distanza non potesse vedere le lacrime, mi sforzai di sorridere e lo salutai con la mano.  Poi ricominciai la mia pigra marcia senza meta.

Continuavo ad asciugarmi le lacrime dicendomi che non avrei dovuto piangere, che non avrei dovuto farmi trovare così da Kameron e Robin al loro ritorno, che poteva avvenire da un momento all’altro. Ma era difficile; ero stata licenziata tre volte nel giro di due settimane scarse e l’ultima mi avevano anche dato della ladra. Come se io avessi mai potuto fare una cosa del genere! Non prendevo nemmeno più di un tovagliolino in gelateria per non approfittarne! E mi incolpavano di rubare una zappa – che oltre a non servirmi e a non sapere come avrei potuto portarla via senza farmi scoprire, non sapevo nemmeno esattamente come si usasse!

Alzai lo sguardo dai ciottoli della strada sterrata e mi guardai attorno.

Rabbrividii.

Mi sentivo assurdamente insignificante nel bel mezzo della vastità dei campi.

C’era un punto –quello- nel sentiero che portava alla fattoria del nonno da cui il paese pareva incredibilmente piccolo, lontano e sperduto; dalla parte opposta le strade erano particolarmente rade e lontane dalla strada. Tutto ciò che c’era lì intorno erano campi. Vaste distese di piante il cui frutto era stato ormai del tutto raccolto.  Lì mi sentivo sempre particolarmente insignificante.

Mi fermai,gustandomi quella sensazione che normalmente avrei fuggito, ma in quel momento non riuscivo a voler abbandonare.

Se ero sono piccola ogni mio errore non è poi così enorme, no?

Di solito cercavo di distrarmi. Non era piacevole quel senso di impotenza, mi aveva sempre spaventato.

Ma questa volta era diverso. Mi inquietava, sì, ma quella situazione mi rappresentava: non solo mi sentivo, ma ero realmente piccola e impotente. Quasi irrilevante. Una bambina nel mondo dei grandi, come Pin**, un bambino vecchio e fuori luogo in un mondo troppo adulto e brutale. Piccoli e insignificanti, ci muovevamo entrambi tra le campagne trovando un posto adatto a noi. Un luogo che forse non c’era.

Il suono di un clacson mi riscosse dai miei pensieri, spaventandomi.

Sobbalzai e vedendo Robin e Kameron ridere attraverso il finestrino mi ritrovai a fare lo stesso.

Il pick-up si fermò e, prima che potessi aprire la portiera, la testa bionda di Agatha si sporse dal cassone. “Qua dietro, principessa! Lasciamo ai bambini i comodi sedili!”

E così mi ritrovai di nuovo a farla ridere nel tentativo di rimanere seduta più o meno stabilmente, sulla strada per casa Towell dove mi aspettavano dei meravigliosi bovini.

“Io nemmeno volevo venire” mi disse Aggie mentre mi aiutava a scendere, una volta arrivati. “poi però Kam… …eron ha detto che c’eri anche tu e ho pensato che sarebbe stato divertente”.

Sorrisi, colpita da quella frase. “Grazie!” esclamai, con spontaneità.

Lei rise. “Intendevo che sarebbe stato divertente perché ti comporti come una bambina quando vedi le vacche, ma …prego!”

“Sei… tremenda!” boccheggiai, scoppiando poi a ridere per l’imbarazzo. “Proprio come tuo fratello.” Aggiunsi, in un borbottio. Con orrore mi ricordai che al mio ritorno a casa, Dean sarebbe stato lì a prendersi gioco di me. Non sapevo come lo avrei sopportato, ma per quel momento decisi di non pensarci. Mi bastava sapere che almeno Kameron, Agatha e Robin si fidavano di me. Questo mi dava coraggio. Un bel po’.

“Muovetevi!” strillò Robin correndo avanti a tutti.

Aggie mi lanciò un’occhiata e allungò il passo, sorridendo.

La seguii e quando fummo davanti alla porta della stalla mi fermai un istante per respirare a fondo. C’era un contrasto emotivo pauroso, dentro di me. In parte non stavo nella pelle all’idea di poter finalmente vedere il vitellino di cui mi avevano parlato; ma soprattutto ero travagliata da pensieri negativi su colpe non mie, umiliazione, rabbia e incertezza. Non sapevo cosa avrei potuto fare l’indomani e avevo un folle timore di ciò che avrebbe pensato mio nonno una volta udite le voci che certamente erano già giunte nel saloon. Chiusi gli occhi cercando di calmarmi prima di farmi prendere del tutto dal panico.

“Pan!”

“Arrivo!” sospirai e varcai la soglia.

Venni investita dall’odore della stalla, che se prima notavo appena, ora era impossibile da ignorare. Mi lasciai pervadere da una sensazione improvvisa di calma. Prendetemi per pazza, non lo negherò –e come potrei farlo? -, per me quella puzza era profumo di serenità e infanzia. Era legato a pensieri e ricordi positivi che quell’odore risvegliava nel mio inconscio infondendomi pace e un pizzico di nostalgia. Ma di nostalgia buona, quella che fa sorridere.

Avanzai lentamente verso l’ultimo box, quello più grande, salutando prima la cara e vecchia Agatha e poi sfiorando il naso di tutte le altre mentre passavo.

“Ma guardala” ridacchiò Aggie, prendendomi in giro. “sembra un bambino in un negozio di caramelle”.

Kameron mi lanciò un’occhiata divertita e io feci loro una linguaccia per ripicca.

Quando vidi il cucciolo, mi venne naturale scoppiare a ridere. Era estremamente buffo: goffo, allampanato e rossiccio.

“È un maschio?” domandai.

Kameron alzò bruscamente la coda della povera bestia e annuì. “Proprio così!”

“Spudorato!” lo rimproverai, vagamente divertita.

Robin rise, senza tuttavia aver capito la parola –ne ero sicura.

“Che c’è?” Agatha parlò per Kameron che mi guardava confuso.

“Nessuno ti tira giù le mutande per vedere se sei maschio o femmina, Kameron!” replicai, con ovvietà.

“Ah, fate pure! Per me non c’è problema!” scoppiò a ridere sguaiatamente.

La neo-madre muggì infastidita dal fracasso.

“Tanto non c’è nulla da vedere” Agatha lo freddò con un sopracciglio inarcato e la sfida negli occhi.

Robin e io ridemmo, mentre Kameron lanciò un’occhiata truce all’amica, severo.

Questo mi fece ridere ancora di più. Come c’era da aspettarsi, Kam non poteva essere sempre sereno e spensierato, non poteva trovare tutto divertente, doveva pur averlo un punto debole! E di fatti ora lo conoscevo: odiava essere colpito nel suo orgoglio di uomo. Dietro quel volto da bambino allegro si nascondeva un grande e grosso ragazzo orgoglioso della sua virilità. Prevedibile, ma inaspettato. Oh, quanto mi sarei divertita a stuzzicarlo!

Tornai presto a concentrarmi sul vitello, che ora veniva allattato dalla madre. Li osservai a lungo, talmente assorta che mi accorgevo appena dei due che continuavano a battibeccare a mezza voce e delle risate di Robin.

“Come si chiama?” me ne uscii, interrompendo la sfida verbale – senza contare che tanto avrebbe vinto Agatha, non c’era storia.

Kameron mi guardò per qualche istante, prima di uscire dalla fase devo-avere-io-l’ultima-parola-perché-sono-un-uomo-e-sono-più-forte e metabolizzare la domanda. E la mia, diciamocelo, era complicata, come richiesta.

“Non ha un nome, ancora, Molly l’ha partorito da pochi giorni e nessuno si è preso la briga di…”

Scoppiai a ridere come una scema, interrompendolo e attirando i loro sguardi interrogativi.

Non ero impazzita del tutto, no. Il punto era questo: goffo, allampanato, rossiccio, la madre Molly. Ormai mi conoscete, fate i vostri conti!

“Non si può che chiamarlo Ron, allora!” sghignazzai.

Dopo qualche istante di confuso silenzio, Agatha e Kameron risero, presto imitati da Robin, che, come tutti i bambini, se c’era da ridere rideva, anche se a volte non ne capiva il motivo.

Fu in quella intensa giornata che il mio umorismo potteriano ebbe il suo debutto in società, e risultò persino simpatico a tutte le persone che contavano. Perché era così, a parte mio nonno, le uniche persone che per me significavano qualcosa per me, erano Kameron, Agatha e, sì, anche Robin. A partire da quel momento mi fu sempre estremamente chiaro.

 
 

Quando circa un’ora dopo Kameron riaccompagnò Robbie a casa, prima di andare a raccogliere i frutti alla fattoria dei Thompson, mi feci accompagnare e scesi con il ragazzino. Mi fermai a salutare brevemente i bambini e a fare una linguaccia liberatoria a Johnny -ora che finalmente potevo fare ciò che mi pareva senza che ne andasse del mio lavoro-, poi camminai sovrappensiero fino al saloon.

Una volta capito che per la maggior parte delle persona che per me contavano io ero innocente, avevo deciso che era inutile piangersi addosso. Dovevo andare avanti, sopportare, e migliorare la mia posizione più che potevo. Senza contare che non avrei potuto fare molto altro: prima o poi avrei dovuto affrontare mio nonno, Dean e tutto il resto del paese. Inoltre non potevo rimanere con le mani in mano, disoccupata. Anche volendo, non mi sarebbe stato permesso. Ma non lo volevo, poiché i miei genitori, delineando i patti, erano stati chiari: sarei rimasta a Sperdutolandia –yuppie!- almeno finché non avrei imparato a cavarmela da sola, con le mie forze, con i miei soldi. E questa equazione era facile persino per me, che ero una cretina con la C maiuscola: niente lavoro, niente soldi; niente soldi, niente ritorno permanente a casa.

Entrai meccanicamente nel saloon,  senza sapere cosa aspettarmi o non aspettarmi, tenni lo sguardo ostinatamente basso, vergognandomi al solo pensiero di ciò che si era sicuramente detto di me, quel giorno. Mi pareva di sentire i commenti meschini che ognuno dei presenti pensava.

Sedendomi al bancone evitai accuratamente di guardare verso il solito posto in cui sedeva Abe, non volevo incontrare i suoi occhi e leggervi delusione.

Presi coraggio e salutai timidamente la donna dietro al bancone. “Ciao, Ginger”. Feci un enorme sforzo per guardarla in faccia, ma fu una fortuna che io l’avessi fatto. Il suo sorriso –lei sorrideva sempre- era sincera, non nascondeva rimprovero né disprezzo, solo compassione e soprattutto solidarietà.

Che nemmeno lei mi considerasse una ladra? Che ci fossero speranze di vivere ancora in pace, e magari trovare persino un lavoro senza doversi inginocchiare, implorare e giurare fedeltà eterna?

“Ciao, Pan. Capitano tutte a te, eh?” mi salutò, cercando di tirarmi su il morale. “Vuoi qualcosa da bere? Una coca-cola?” domandò, gentilmente.

Sospirai, abbozzando un sorriso per metà amaro. “Sì, grazie” risposi. Estrassi dalla tasca qualche moneta che mi ero portata al lavoro, per poter comprare il pranzo proprio lì, nel bar. “Non lo so, Ginger, me ne capita una dietro l’altra. Poi, andiamo!, anche a rigor di logica, per quale motivo dovrei rubare una zappa se faccio la commessa? A cosa mi serve? Anzi, no, il punto è proprio questo: perché dovrei rubare qualcosa?? Non sono una ladra! Non ho mai nemmeno usato i bagnoschiuma nei bagni degli alberghi perché non erano miei!” Le parole mi fluirono dalla bocca da sole, sgorgando come lava dal cratere di un vulcano che non aveva ancora finito di eruttare e non aveva intenzione di acquietarsi troppo presto. “Sono solo enormemente sfigata. No, anzi, non è nemmeno questione di fortuna o di una dannata sorte o chissà che. Il problema è che sono un’idiota. Sono una piccola e stupida incapace. Ho fatto un sacco di errori che avrei dovuto evitare e Dio solo sa quanti altri ne combinerò!”

“Ehi, ehi, ehi, per favore calmati, va bene?” mi frenò Ginger, ridendo. “Non dire certe cose. Capita a tutti di sbagliare, l’importante è impegnarsi per rimediare”.

Sospirai, scontenta. Certo, la faceva facile! Non era lei ad essere stata accusata di furto davanti a mezzo paese, non era stata lei ad aver mandato a quel paese il suo capo –con ragione, tornando indietro l’avrei rifatto mille volte!-, non era stata lei ad essere stata licenziata. “Come si rimedia a una zappa rubata, ad un’accusa di furto e ad un licenziamento?”chiesi, imbronciata.

Ginger aprì una lattina di coca, ci mise una cannuccia gialla e la posò sul bancone. “Si cerca un nuovo lavoro e ci si mette tutti insieme alla ricerca della zappa”.

Azzardai un’occhiata verso Abe che ci osservava da sopra il giornale. Mi voltai di nuovo verso Ginger, mettendomi a giocherellare con la cannuccia, gli occhi sgranati e lo scetticismo nello sguardo. “E chi assume una presunta ladra?”

“Chi non pensa che lo sia”.

La guardai, interrogativa. “Chi non pensa che io abbia rubato quel coso? Insomma, voi vi fidate tutti gli uni degli altri, io spunto dal nulla, faccio danni e se qualcosa sparisce è chiaro che la colpa venga data a me. Sono esterna a questo mondo di fiducia reciproca, non mi conoscete!”

Nella foga di parlare tolsi la cannuccia dalla lattina schizzandomi e facendo piovere goccioline di coca-cola sul bancone. “Ecco” brontolai, scontenta di me stessa.

Ginger sorrise comprensiva, prese un tovagliolino di carta e asciugò rapidamente la superficie. “Con te ci vorrebbe qualcuno di paziente”.

“Immagino di sì: sono un disastro dalla lingua biforcuta!”

La donna rise, lanciando un’occhiata a qualcuno alle mie spalle. “La lingua biforcuta dev’essere una caratteristica di famiglia”.

Abbozzai un sorriso, immaginando Abe che sicuramente si stava esibendo in una delle sue solite smorfie che dicevano tanto ‘bah, chiudi il becco’. “Già”.

“Io, Pan”.

Cosa? Lei aveva la lingua biforcuta? A meno che non si trattasse di una menomazione fisica, la faccenda era preoccupante se pensava di essere acida quanto me. Solo nonna Margareth era stata più paziente di lei! “Come?”

“Oh, è facile, ne ho già parlato con mio marito, immaginavo che sarebbe stato l’ideale. Anche lui lo crede”.

Erano in due a essersi rimbambiti, allora! Ginger acida? Va bene che prendersi in giro in una coppia rende le cose più divertenti, ogni tanto, ma qui qualcuno iniziava a crederci sul serio!

“Che ne dici, ci stai?” continuò.

Un momento.

Dovevo essermi persa qualche passaggio. “Non sono sicura di aver capito di cosa parliamo”ammisi, mordicchiando la cannuccia, di nuovo immersa nel liquido dentro la lattina.

La donna scosse il capo, divertita, e sorrise. “Vuoi lavorare qui con noi, Pan?”

Sgranai gli occhi per la sorpresa. Diceva … “Davvero?!”

“Perché no?”

“Non mi stai prendendo in giro, Ginger?”

Mi alzai in piedi, senza sapere il perché. Era vero? Era forse troppo facile, era … ma chi se ne frega se era facile o no! Non avrei potuto chiedere di meglio, non avrei nemmeno saputo cosa chiedere di meglio! Ginger era la persona più gentile e paziente che avessi mai conosciuto –eccetto la nonna-, sembrava essere in grado di comprendermi più di quanto non facesse mia madre da anni, ormai. Era fantastico!

Rise. “Ti brillano gli occhi. Anche se avessi avuto intenzione di scherzare, a questo punto non avrei proprio il cuore di negarti questo posto di lavoro!”

“Oddio, grazie!”  mi tuffai in avanti per abbracciarla da sopra il bancone e, così facendo, rovesciai la lattina, che Ginger rimise in piedi prima che l’intero contenuto si versasse.

Mi ritrassi, costernata. “Sono un disastro!” soffiai a mo’ di scusa.

Sentii Abe bofonchiare la sua esasperata approvazione e mi incupii di più. Forse non meritavo quel lavoro. Non meritavo che qualcuno fosse così gentile con me, non con tutto il mio egoismo e tutta la mia stupidità. Avrei fatto qualche danno anche quella volta, me lo sentivo.

“Oh, non fare quella faccia. Migliorerai. Iniziamo subito col pulire questi schizzi, ok? Tu che dici, Abe?”

Mi voltai a guardarlo, senza sapere cosa aspettarmi. Il nonno abbassò nuovamente il quotidiano con un sospiro. “Siete maggiorenni e vaccinate, dovete saperlo voi quel che volete fare!”

Vecchio burbero balordo! Mi raccomando, non incoraggiarmi troppo!

Gli feci la lingua, per manifestare il mio disappunto dovuto al suo disinteresse, nonostante sapessi che dietro quelle parole si nascondeva un’approvazione. Abraham aggrottò le sopracciglia in un modo che mi ricordò terribilmente papà quando io e Joshua cercavamo di convincerlo che nella dispensa ci fosse un mostro –lo facevamo per divertimento, di tanto in tanto, convinti che lui potesse crederci.

“Sono d’accordo. Quindi ci vediamo qui tutti i giorni alle otto, tranne il venerdì e il sabato”.

Sul mio volto si era allargato un sorriso così ampio che probabilmente mi si vedevano anche i denti del giudizio –non ancora cresciutimi, per altro. Volevo comunicarle con quel sorriso tutto l’entusiasmo, la gratitudine e la speranza che mi stavano scoppiando dentro, senza dover mettermi a strillare come una di quelle galline che nei film strillano di entusiasmo per qualunque cosa.

“Rischi una paralisi, così” bofonchiò Abe, tornando a nascondersi dietro il suo giornale.

Questa volta scoppiai a ridere di gusto, trovando nelle risa il modo più bello ed efficace per sfogare la mia esplosione emotiva.

Ginger fece lo stesso, contagiata dalla mia risata, e mi strinse a sé in una abbraccio decisamente materno, di quelli che non ricevevo dalle medie, cosa che aumentò la mia voglia di ridere e di ricominciare tutto da capo, senza inutili errori, questa volta.


In der Ecke - Nell'angolo:
*Nella prima riga Pan parla di una scopa. È sempre la zappa del capitolo precedente, ma nella foga ha sparato un nome a caso, senza curarsene troppo. Tanto, ricordiamolo, sta parlando da sola –o come si suol dire, sta farneticando.
**Pin: è il protagonista di Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino. Libro che ho adorato, ve lo consiglio. :3 Parla della guerra partigiana.

Signore e signorineeee, rieccomi. :3 Sarò breve, perdonatemi, ma il mio umore non è alle stelle (un'amica che nonostante tutti gli sforzi che ho fatto per aiutarla a recuperare un'amicizia ha deciso che non ne vale la pensa. Solo che di quell'amicizia a cui rinuncia faccio parte anche io.). Non ho nemmeno risposto alla recensione di qualcuno (MP! D:), vogliate scusarmi, ma veramente, sono già esaurita. .-.
Allora, torniamo a noi.
Qualcuno l'aveva previsto, e di fatti ecco qua la soluzione ai problemi lavorativi di Pan: Ginger le ha offerto un lavoro al saloon. Questo capitolo è piuttosto segnato dagli sbalzi d'umore e dal dissidium (oh, dannato Petrarca!) interno di Pan. Penso sia comprensibile, è in un momento difficile ed è spaesata, non sa più in cosa credere e contro cosa inveire, in pratica.
Mmmh... per il resto penso che il capitolo parli da solo. Se avete bisogno di chiarimenti, per qualche motivo, chiedete pure.^^
Il prossimo capitolo è praticamente ancora inesistente, quindi abbiate pazienza, ma prima o poi arriverà.:D Scuola permettendo, perché, lo devo ammettere, oggi è stato il settimo giorno di scuola e io ne ho già le scatole piene. Non mi è mai capitata una cosa simile. .-.
Bene, dicevo? Oh, sì, dovevo salutarvi. Grazie a tutti, penso che sia giunto il momento di ringraziarvi tutti, perché, veramente, non mi sarei aspettata numeri del genere per questa storia: 
57 recensioni,
32 preferiti, 
11 ricordate e
71 seguite. 
Wow. Wow, davvero, grazie mille a tutti coloro che fanno parte di questi numeri. (E ho dei problemi a capire come funziona il contatore delle visite, altrimenti menzionerei anche quelle cifre. xD E' chiaro che anche tutti questi altri che sono solo passati vanno ringraziati :D).
Sono del parere che, essendo questo il mio hobby, anche solo leggendo voi mi facciate un enorme favore. Quindi vi ringrazio tutti doppiamente. :3
Alla prossima!

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Capitolo 20
*** 20 ***


Cows and jeans

20


 
"Ehi, ragazza?  Ti sei dimenticata la mia birra?"
Trasalii leggermente a quelle parole. Sorrisi all'uomo seduto al bancone, mentre il marito di Ginger sospirava, intento a riparare la macchina del caffè. "Certo che no! Eccola che arriva!" esclamai, prendendo un boccale da riempire alla spina. 
Ok, sì, me ne ero dimenticata, ma il problema non sussisteva, no? La sorte stava girando dalla parte giusta da un po' di tempo a quella parte e quel giorno ero così allegra che nessun errore avrebbe potuto scoraggiarmi. Inoltre avevo superato danni ben più grossi di una birra quasi non servita. 
Questa volta potevo giustificare la mia distrazione incolpando il caldo. Era il 31 Agosto e il clima afoso che ci aveva accompagnato per l'ultimo mese trascorso non se ne era ancora andato. Le alte temperature, quando era così umido, erano tra le tante cose che mi ingolfavano il cervello più di quanto non fosse mai capitato al motore del mio bistrattato ciao. 
Avrei volentieri trascorso il weekend precedente alla ricerca di refrigerio stesa sull'amaca in giardino (da me scovata nel capanno e montata dal nonno), totalmente KO. Tuttavia la mia ricerca di pace e fresco era stata bruscamente interrotta quando il gentilissimo Dean era uscito per nutrire i maiali e aveva ben pensato di ribaltare l'amaca (con me sopra, sì) e requisirmi l'mp3, quel venerdì mattina. "Solo perché sei riuscita a tenerti stretta un lavoro per un mese, non vuol dire che puoi startene con le mani in mano!" aveva detto, per poi stilare un elenco di tutte le faccende domestiche che aspettavano di essere svolte niente po' po' di meno che dalla sottoscritta. In fondo era giusto così, lo sapevo, ma una mia rispostaccia non gliel'aveva tolta nessuno.
Erano passate settimane da quando ero stata assunta al saloon e non avevo ancora combinato grossi guai. Potevo quasi ritenermi orgogliosa di me stessa! E, a proposito di orgoglio, erano passate settimane anche da quando il proprietario del furgone dei trasporti aveva telefonato a Cassie per informarla che all'ordinazione consegnata il giorno prima mancava un articolo da giardino: una zappa, che era rimasta nel magazzino dell'azienda a causa di un errore di chi aveva caricato tutto sul mezzo di trasporto.
Forse è inutile dire che quando Agatha fu mandata, accompagnata da Kameron, a comprare concime, mi offrii di accompagnarli per far loro compagnia e soprattutto rinfacciare quella storia alla diffidente e nevrotica Cassie, la quale mi cacciò fuori gridando che nonostante tutto non meritavo le sue scuse, meschina com'ero. Ero uscita dal negozio ridendomela della grossa e avevo aspettato fuori Aggie e Kam per aiutarli a caricare quegli stramaledetti sacchi puzzolenti sul cassone del pick-up. Avevo finalmente avuto la mia bella soddisfazione, dopotutto: avevo visto Cassie arrossire per la vergogna fino a sembrare sul punto di auto-tagliarsi a fette e gettarsi nell'insalata; l'avevo fatta infuriare come una bestia con i miei continui commenti impertinenti al punto giusto. Senza dimenticare, poi, la cosa più importante: tutto il paese sapeva della telefonata da parte dell'azienda da cui Cassie comprava il materiale. Una volta tanto la velocità con cui le si diffondevano in un paesino - rapidità inversamente proporzionale alle sue dimensioni - aveva fatto proprio al caso mio. 
"Senti, Pan", la voce del marito di Ginger mi richiamò alla realtà, al presente. 
"Sì?"
"Sono le tre e un quarto, puoi anche andare a casa".
Gli sorrisi grata e andai a stringergli la mano, per salutarlo. Non era una cosa che facevo abitualmente: questa volta era diverso. "Grazie mille. Non so come farei se non ci foste tu e Ginger con la vostra pazienza! Ci vediamo mercoledì prossimo!"
A partire dal giorno seguente non mi sarei presentata al lavoro per una settimana. Stavo per partire le vacanze in città, finalmente! Dovevo solo fare la valigia, salutare tutti e prendere il treno per la città, la mattina dopo. 
"Figurati. Alla fine sei una brava ragazza" mi sorrise.
Ricambiai il sorriso, mentre un assurdo pensiero -in assoluta autonomia- si faceva strada nella mia mente: E all'inizio no? 
Salutai tutti e uscii, mentre riflettevo sulla reputazione da assassina che probabilmente avevo. Come si poteva pensare che fossi una brava ragazza solo alla fine? A prima vista mi scambiavano per una psicopatica? E dire che pensavo di risultare veramente idiota solo a conoscermi bene.
La mia motoretta, pensai mentre vi montavo in sella, mi era mancata da morire durante il periodo in cui era stata dal meccanico per colpa di Johnny Lucas, nonostante avessi scroccato passaggi a destra e a manca per tutto quel periodo pur di non usare la bicicletta del nonno.
Faticavo ancora a credere che mancasse davvero così poco alla mia partenza. Inizialmente pensavo che quel percorso fino al mio temporaneo ritorno a casa sarebbe stato duro e difficile. Non potevo negare che in un primo momento fosse stato davvero difficoltoso, ma poi, presto, tutto aveva iniziato a correre liscio, fino a che quel giorno non era arrivato con una velocità sorprendente. 

 
Oddio.
Oddio, oddio, oddio.
Ero in treno.
Treno, treno, treno, casa. Città.
Stavo decisamente impazzendo.
Compra un verbo, Pan.
Ero in treno e stavo tornando in città. Nella realtà, non stavo sognando, no.
Non era come la notte precedente, quando, dormendo, avevo immaginato di essere sul treno che mi avrebbe portata in città. Era stato traumatico svegliarsi e trovarsi arrotolata nel lenzuolo umidiccio e sudaticcio sul punto di cadere dal letto. Avrei dovuto essere su un treno, e invece ero rovinata sul pavimento cercando di districarmi dalla stoffa leggera.
Effettivamente, pensai, avrei dovuto immaginarlo che non si trattava della realtà. Quale treno in partenza da un paesino -privo di una vera stazione- poteva essere popolato da studenti avvolti in sciarpe rosso-oro o in mantelli neri con ricamati gli stemmi delle Case di Hogwarts?
Non era importante, però. Ero lì, stavo partendo. Anzi, ero già in viaggio. Avevo contato già tre fermate dopo quella a cui ero salita, e ogni volta che il treno si fermava mi trovavo sempre più agitata ed entusiasta. Non ricordavo nemmeno perché avessi sempre odiato quella città e la gente che ci viveva, in quel momento.
Ogni campo che mi lasciavo alle spalle era una manna dal cielo. In realtà piovigginava, ed era acqua quella che cadeva dal cielo, ma lasciatemi pensare che fosse un miracolo.
Mi entusiasmavo sempre di più ogni secondo che passava, tanto che avevo iniziato a ridacchiare da sola per la gioia, attirando gli sguardi curiosi di alcuni passeggeri. Non che mi importasse molto di quegli sguardi, in fondo anche all’andata tutti mi avevano guardata (e male), ma se avessi continuato così, presto mi sarei fatta venire un infarto. Siccome non volevo morire prima di arrivare in città, né spaventare a morte i poveri pendolari che mi stavano fissando come fossi una folle psicopatica, causando così una strage, decisi, mentre il treno si fermava di nuovo, di fare un respiro profondo e calmarmi.
Avevo spesso letto di persone in grado di sembrare impassibile di fronte a tutto, ma diavolo se era difficile! La facevano facile quegli autori!
Un ragazzo biondo salì sul treno, lanciò uno zaino su di un sedile vuoto e si sedette in quello accanto. Si portò una sigaretta spenta alla bocca e prese a guardare dal finestrino con aria incurante di tutto e tutti.
Quell’atteggiamento così arrogante –che mi sembrava arrogante solo perché lui riusciva a rimanere tranquillo ed io no- mi ricordò Dean. Sì, la chioma bionda mi aiutò molto nell’associazione.
Con uno sbuffo infastidito mi misi a pensare a come le cose erano andate il giorno prima, giusto per smorzare l'entusiasmo.
Avevo passato il pomeriggio correndo per tutta la casa alla ricerca dei vestiti da portare con me in città. Qualcosa avrei dovuto indossare in città, ma dovevo anche riempire tutto il riempibile con gli indumenti invernali da portare a Sperdutolandia, o mi sarei congelata prima di poter arrivare a Natale, sospettavo. Non che quell'afa potesse in alcun modo ricordarmi che prima o poi sarebbe tornato il freddo, in realtà era stato il nonno a suggerirmi di portare a Sperdutolandia un po' di roba se non volevo camminare in mezzo metro neve con le scarpette da ginnastica, qualche mese dopo. Strano ma vero, a lui avevo dato ascolto, ecco perché avevo forzato dentro la tracolla di jeans i vestiti per una settimana e avevo lasciato vuoto il trolley. Quando avevo dovuto chiudere la zip, la borsa era talmente piena, che avevo ritenuto necessario pregare in tutte le lingue del mondo (o almeno tutte quelle che conoscevo e riuscivo ad inventare) che il cursore non saltasse via, poiché in quel caso avrebbe certamente cavato un occhio a qualche povero pinguino di passaggio in Antartide. Ecco perchè quando trovai la mia T-shirt preferita appesa ad asciugare sui fili del giardino l'avevo mandata al diavolo, decisamente offesa e le avevo annunciato che sarebbe rimasta a casa. Sì, quando sono entusiasta parlavo con gli oggetti. Avrei parlato con qualsiasi essere vivente o meno, quando ero di ottimo umore. Persino con mia madre. 
Quella era stata tuttavia la mia giornata fortunata, forse, visto e considerato che era andato tutto liscio e Dean non mi aveva riempito di insulti, nemmeno dopo tutte le volte che avevo rischiato sbattergli una porta addosso.  
Quella sera avevo preparato da mangiare, per farmi perdonare l'improduttività di quel giorno feriale, poi avevo lavato e asciugato i piatti rifiutando ogni aiuto -non che qualcuno avesse insistito per darmi una mano, precisiamolo.
Prima di andare finalmente a dormire avevo pensato che sarebbe stato carino salutare Dean, visto che non avrei visto nemmeno lui per i sette giorni seguenti. Magari sarebbe stata la buona volta buona per mettere da parte l'immotivato astio che nutriva nei miei confronti. 
In piedi sulla soglia della mia camera, mentre lui se ne stava steso sul proprio letto a fissare il soffitto, le braccia dietro la testa e la pretesa che spegnessi la luce e lo lasciassi dormire, avevo tentato quell'assurda impresa: la gentilezza nei confronti di un ragazzo indisponente. "Be', immagino che domani mattina non ci vedremo, per cui..." Dean mi aveva lanciato un'occhiata interrogativa e io mi ero messa a dondolare sui talloni, impacciata. "quindi ti saluto".
Lui era tornato al suo studio certosino della vernice sul soffitto. "Ciao" aveva risposto, disinteressato.
Era irritante, sempre e comunque. Quel comportamento mi aveva quasi fatto perdere le staffe, ma ero decisa ad essere gentile a far vedere che ero in grado di avere una conversazione civile anche con lui.  "Vuoi che ti porti qualcosa dalla città?" avevo proposto.
"Niente elemosina, grazie".
"Non è elemosina, è gentilezza. Ti ho chiesto se vuoi che ti compri qualcosa, non ti ho gettato degli spiccioli in un cappello!"
"Non cambia molto".
Al diavolo! "Bene, signor Niente-gentilezza-sono-allergico! Eviterò di spendere i miei soldi per te!" Ero andata in camera e avevo sbattuto la porta con stizza. 
Non sono in grado di avere una conversazione civile con lui, e va bene, lo ammetto! Al diavolo lui e la sua arroganza!
Profondamente irritata e nervosa per l'imminente viaggio, avevo scritto qualche riga sul diario e lo avevo riposto al sicuro nello zaino, poi mi ero infilata sotto il lenzuolo. Sentendo mio nonno dare la buonanotte a quell'arrogante, avevo bisbigliato una serie di coloriti epiteti potteriani poco carini a lui rivolti e mi ero chiesta per quale assurdo motivo si comportasse così. Si trattava ovviamente di una di quelle complicate domande sul senso della vita a cui non si riesce a dar risposta a meno che non si sia un tale Aristotele o Platone, ecco perché a metà ragionamento mi ero addormentata come uno Snorlax dopo una scorpacciata di bacche. 
Quella notte avevo sognato mio nonno che giocava al tiro a segno col fucile, usando Dean come bersaglio. Mi ero lamentata tanto, nel sonno, per quella barbarie, ma quando quell'irritante ragazzo era venuto a darmi il buongiorno -a modo suo- mi sarei volentieri mangiata le mani. Tornando indietro mi sarei limitata a correggere la mira del nonno.
“Alza il regale fondoschiena, principessa, è ora che lei se ne vada!”
“Ti hanno mai detto che la tua voce è anche più irritante del suono di una sveglia?”
 
Non che quei pensieri mi stessero calmando particolarmente. Avrei dovuto a pensare a qualcosa come canto di uccellini, soffio del vento e scrosciare dell’acqua di un fiume, ma optai per una più semplice e abbordabile risorsa. Inforcai gli auricolari e mi isolai dal mondo, concentrata sulle parole delle canzoni che scorrevano.
 
When I was younger 
I saw my daddy cry 
And cursed at the wind 
He broke his own heart 
And i watched 
As he tried to re-assemble it 

And my momma swore 
that she would never let herself forget 
And that was the day that I promised 
I'd never sing of love 
If it does not exist
 (*)
 
Mi stava per uscire il cuore dalle orecchie. No, dagli occhi.
Il freno stava rallentando, ero arrivata. Ero arrivata. In città. Da Emily, da papà. Dalla mia famiglia. Ero… tornata.
Non riuscivo a crederci ero tornata!
Il mezzo si fermò, presi tutte le mie cose e corsi verso le porte. Il cuore mi pulsava nelle orecchie nemmeno stessi per dare l’esame più importante della mia vita.
Respirai a fondo, cercando di darmi un contegno. Era difficile, avevo migliaia di pensieri per la testa, migliaia di immagini che si affollavano le une sulle altre senza lasciare che nessuna prevalesse sull’altra. Finché non la vidi.
Una ragazza dal viso grazioso, alta e sorridente, con un cappellino da baseball marrone sul capo. Mi guardava, sorrideva.
Esplosi.
“Emily!” strillai.
Le corsi incontro, trascinandomi dietro i bagagli e li gettai tutti a terra un attimo prima di abbracciarla, con tanto slancio che si sbilanciò indietro facendo cadere il cappello.
“Oh, mi sei mancata da impazzire!” le confidai, stringendola forte, ad occhi chiusi.
Ero a casa, a casa!, finalmente!
“Anche tu” ricambiò l’abbraccio.
 
 

 

In der Ecke - Nell'angolo:
(*) Paramore – The only exception

Ciao a tutte! Eccomi che torno, accolgo con piacere i vari ortaggi in faccia!
Anche questa volta vi ho fatto attendere un mese (sempre che ci sia ancora qualcuno ad attendere), ma è inutile dirvi che la colpa è della scuola. I professori spiegano decine e decine di pagine ogni giorno, con la scusa che quest'anno abbiamo un trimestre e un pentamestre, e quindi per la prima parte dell'anno meno tempo per dare/ricevere voti. Vabbè, vabbè, vabbè.
Questa volta mi sono corretta il capitolo da sola, spero di non aver fatto troppi disastri (la mia beta ora ha una vita sociale °A° ).
Va beeeeene. Allora. Questo capitolo è tutto un flashback, più o meno. Non è il massimo, ma l'ho riscritto due volte, perché non mi soddisfaceva. Questa seconda versione mi soddisfa un po' di più, è un po' più densa della precedente. Sto già lavorando al prossimo, sperando di riuscire a postarlo entro un secolo, zigzagando tra tutte le verifiche e interrogazioni varie. 
Grazie a tutte voi che mi seguite! :D
Spero di riuscire a farmi viva presto!

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Capitolo 21
*** 21 ***


 

Cows and jeans

21


 
"Mi sei mancata da impazzire!"

Emily mi strinse a sè. "Anche tu mi sei mancata" rispose, serena e pacata come sempre. 

"Ho un sacco di cose da raccontarti!"

"Anche io". La sentii ridacchiare. "Iniziavo a pensare che non saresti più tornata".

"E secondo te come sarei resistita laggiù?" Feci un passo indietro per guardarla in faccia e rimasi spiazzata.

"Che hai fatto ai capelli?" rantolai, sorpresa.

Emily scoppiò a ridere, passandosi una mano tra i cortissimi capelli azzurro cielo. "Ecco perché avevo messo il cappello, temevo non mi avresti riconosciuta" mi confidò, raccogliendo la mia tracolla. "Ma la getti a terra così?"

Diedi un'alzata di spalle, senza riuscire a smettere di fissarla. Cosa diavolo aveva combinato? Dov'era finito i suoi lunghi, lisci, bruni e rassicuranti capelli? "Ci sono solo i vestiti lì dentro".

"Le cose importanti?" mi sorrise, sapendo già la risposta. 

"Nello zaino".

Ridemmo.

In prima liceo avevamo fatto una gita scolastica all'estero. Avevo portato una valigia piena di vestiti e cose oggettivamente utili, mentre nello stesso zaino che avevo in quel momento avevo riposto l'mp3, il cellulare, un libro -immancabile anche in gita- e una carrellata di barrette di cioccolata da sbattere -metaforicamente parlando- in faccia a chi si rifiutava di donarmi un pezzetto del panino che non avevo puntualmente voglia di comprare. Ero stata pronta a tutto, all'epoca. Avevo la musica per evitare di avere a che fare coi cretini, e un libro per non doverli nemmeno vedere. Persino quando sapevo di essere nel torto, mi preparavo uno stratagemma per vendicarmi dell'antipatia altrui. Già a quel tempo Emily aveva ribattezzato il mio zainetto come "ripostiglio delle cose importanti", l'unico bagaglio che non trascinassi in giro con goffaggine lasciando che urtasse ogni spigolo o che non gettassi a terra con incuranza una volta giunti in albergo.

Sbattere in faccia ai compagni che io avessi la cioccolata e loro no, era stato decisamente importante, allora. Ero stata troppo pigra per fare la fila al negozio e prendere un panino. Avevo rasentato lo stato di pigrizia-seriamente-preoccupante, ne ero consapevole. Era stata Emily a trascinarmi con sè a fare la fila ad ogni pasto, intrattenendomi con le sue gentili chiacchiere prima che mi causassi uno scompenso intestinale.

Avrei dovuto sbattere in faccia la cioccolata anche a lei, ora? Era cambiata tanto quanto sembrava? Era forse diventata 'una delle tante', una degli 'idioti'?

"Hai cercato di scroccare il pranzo a qualcuno in treno?"

Questa volta risi solo io, riconoscendo che dopotutto la mia amica era sempre lì, anche se sul capo aveva una sorta di ispida scopetta azzurra.

"A quanto ricordo mi devi una pizza, dai tempi dell'ultima scommessa, quindi..." lasciai la frase in sospeso, sicura che avrebbe capito. Infatti mi sorrise e fece cenno di andare. "Facciamo tappa da Antonio's, ho capito!"

"Così si ragiona!" approvai, afferrando il manico del trolley e incamminandomi con la mia migliore amica. Quanto mi piacevano quelle parole. Migliore amica. Miglioreamicamiglioreamica. Sorella, sarebbe stato più opportuno. Emily era la sorella che non avevo, era la persona che mi era sempre stata vicino, un'amica che, conoscendo la mia pigrizia, quando si ammalava mi chiamava a tenerle compagnia, sapendo che avrei pagato pur di ottenere un po' di germi influenzali. 

"Forza, raccontami qualcosa. Come procede la vita in città?" domandai, curiosa.

Emily ridacchiò. "Be', ho provato a girare con i ragazzi della bilioteca, te li ricordi?"

"Certo". Eccome se me li ricordavo. Quando mettevamo piede nella biblioteca pubblica c'erano immancabilmente anche loro quattro: due ragazzi e due ragazze. Attaccavano bottone ogni volta e non smettevano di parlare con noi finché non ce ne andavamo per la disperazione. Insomma, sapevamo anche noi che in una città come la nostra le persone che mettevano piede tra quegli scaffali erano ben poche -eccezion fatta per gli universitari-, anche a noi faceva piacere ogni tanto parlare con qualcuno a conoscenza del fatto che Anne Hathaway non era solo un'attrice famosa (*), ma ci sarebbe piaciuto anche poter respirare senza che nessuno ci chiedesse quanta anidride carbonica avessimo appena espirato. Tra l'altro non eravamo topi di biblioteca con una cultura mastodontica, al contrario loro:  a noi piaceva semplicemente leggere senza spendere ingenti capitali in libreria.

"Si sono rivelati molto più stupidi di quanto sembrassero" mi confidò. "Hannah e Amber stanno insieme, lo sapevi?"

"Sono sempre state molto affiatate" risposti con un'alzata di spalle. "ma in effetti non avrei pensato. Stanno insieme anche gli altri due?"

"No, anzi, ci hanno provato spudoratamente per tutto il tempo. Dopo una serata mi avevano già fatto pentire di aver accettato di uscire con tutti loro".

Ridemmo. 

"Poi ho passato un po' di tempo con Sarah Harrison".

"Del corso di spagnolo?"

"Proprio lei".

Annuii. Sarah Harrison era una ragazza minuta e silenziosa, che parlava poco e solo con alcuni compagni di scuola. Ogni tanto la si vedeva passare giorni e giorni in compagnia di qualcuno per poi ritornare nel suo banco in fondo a destra nell'aula di spagnolo, chiusa in se stessa come di consueto. 

"E' mostruosamente appiccicosa!" esclamò Emily, guardandomi con gli occhi sgranati. Ancora non riuscita a crederci, era evidente.

Risi. "Te l'ho sempre detto! Secondo te perché finiva sempre col tornare a star da sola?"

Emily si strinse nelle spalle. "Pensavo che le sue compagnie la sfruttassero opportunisticamente, non che lei non lasciasse respirare chiunque le abbia rivolto la parola più di due volte in un giorno!" si giustificò.

Tipico da parte sua, vedere del buono in tutti.

"Pan ha sempre ragione!" le ricordai, con falsa sicurezza di me.

"Ah, ma davvero?"

"Assolutamente!" confermai.

Questi suoi racconti mi stavano facendo provare un'egoistico sentimento di soddisfazione. Almeno due dei suoi tentativi di socializzare erano falliti, non perché qualcuno avesse rifiutato la sua presenza (sfido che qualcuno potesse farlo!), ma poiché nessuno era stato adatto a lei. Io invece lo ero. Mi sentivo importante, molto.

"Be', se lo dici tu!" Emily alzò gli occhi al cielo. "In questo caso non posso darti torto, l'ho rivalutata completamente" mi accontentò. 

Ridacchiai, più concentrata sulla sensazione di essere necessaria che mi aveva pervasa che non sulle sue parole. Era così strano che fossi veramente importante per qualcuno. O forse non era strano, tutti sono importanti per qualcuno, ma io non me ne capacitavo. Ero sempre stata quella che si faceva i fatti suoi, affogando nei propri libri e nella propria musica. Non ero una persona carismatica, non ero troppo simpatica, ero saccente e scontrosa. Non ero nemmeno in grado di scegliere cosa fare della mia vita. Avevo iniziato canto, per esempio, solo perché mia madre pensava fosse giusto che facessi qualcosa di buono nella vita anziché sprecare tutto il mio tempo a nascondermi dietro blocchi di carta e inchiostro. Persino una delle cose più importanti nella mia vita mi erano state insegnate per obbligo: la musica, appunto. Come potevo risultare una persona indispensabile per qualcuno? Avevo sempre considerato Emily una persona indispensabile per me, avevo spesso pensato che forse avrei dovuto lasciarla stare con chi preferiva, io non ero certo la compagnia ideale.

"Il treno per Hogwarts è in partenza dal binario nove e trequarti!"

Cosa?

Quelle parole mi risvegliarono di colpo, riportandomi alla vita reale. "Come dici?"

Emily rise. "Sapevo che non mi stavi ascoltando".

"Stavo fantasticando, scusa" sussurrai, con un mezzo sorriso imbarazzato. "Dicevi?"

Lei sorrise, comprensiva. "Che oltre a Sarah ho rivalutato anche Mariah del corso di matematica. Giro con lei, ultimamente. Ah, te lo dico subito: venerdì c'è l'ultima festa prima della scuola in un locale del centro, tu sei ufficialmente invitata, ti faccio entrare io!"

Ci misi quasi un minuto intero per metabolizzare ciò che mi aveva detto. Provavo una sensazione strana, orribile. Non era delusione perché non avevo nemmeno capito bene cosa volessero dire quelle parole. Era più un brutto presentimento che altro. "Mariah chi?"

"Mariah Thompson, la conosci di sicuro".

Ci pensai su. Il cognome mi era familiare, ma c'era qualcosa che mi suonava strano nell'udirlo. Come se conoscessi un nome simile, ma non uguale. "Mariah... Thompson... mora e riccia?"

"Precisamente" confermò.

Sgranai gli occhi fermandomi sul posto. Era preoccupazione, quella sensazione. Preoccupazione mista a delusione e -in quel momento- un pizzico d'ansia. "Giri con Marijuana Thompson?!" 

Emily si volse verso di me, dopo qualche altro passo. "Non chiamarla così, non è carino da parte tua".

"Lily, se la chiamano tutti così, un motivo c'è!" esclamai, sconvolta.

Marijuana Thompson era conosciuta in tutta la scuola come una ragazza festaiola e sregolata. Non una sgualdrina, no -ci mancava solo quello!-, la sua colpa era perlopiù passare quasi tutto il suo tempo in un alternativo mondo di sballo e fegati usurati dagli alcolici. C'erano più probabilità, infatti, di trovarla a farsi trascinare da qualche parte, ubriaca fradicia, dalle sghignazzanti amiche, piuttosto che sobria. Era una a cui piaceva divertirsi, o almeno così lei si giustificava con chiunque le chiedesse cosa avesse al posto del cervello -una bottiglia di rum, per inciso. Non era certo una persona con cui i genitori speravano che i figli si accompagnassero.

Si divertiva. Passata metà delle sue serate a vomitare, ma diceva di divertirsi.

Le piaceva sperimentare, anche. Era a modo suo avventurosa, diceva. Qualunque tipo di droga ci fosse in circolazione, lei l'aveva provata. Proprio questa sua sete di avventure le era valso il soprannome di Marijuana. Non c'era persona, eccezion fatta per le sue amiche, che non la chiamasse a quel modo e, per la miseria, il motivo era chiaro.

"Tu non la conosci, è simpatica".

Sbuffai, incredula. "Certo, anche io sono simpatica quando mi scolo una botte di vino e mi metto a cantare l'inno di Hogwarts a squarciagola in mezzo alla strada! Farei ridere chiunque!" osservai, sarcastica, stendendo un velo pietoso sul fatto che la scena da me descritta sarebbe stata più ridicola che divertente. La differenza tra queste due parole era sostanzialmente segnata dallo stesso confine che separa 'ridere con te' e 'ridere di te'.

Dubitavo, inoltre, che Emily potesse esserle amica perché trovava divertente ridere della Thompson. Non sarebbe stato da lei, non era in grado di essere meschina, ormai la conoscevo troppo bene per non saperlo. Questo non faceva che allarmarmi di più, tuttavia: che si fosse bevuta il cervello, oltre che tagliata i capelli?

"Pan!" esclamò, esterrefatta. Scrollò il capo e sospirò pazientemente. "Chiudiamo qui il discorso, non ho intenzione di fare questa discussione con te. Conoscendola ti rimangerai tutto".

"Come no" commentai poco convinta, riprendendo a camminare lentamente.  

"Per favore, smettila di essere sarcastica".

Sbuffai, ricacciando indietro tutta l'acidità che mi era nata dentro. Non potevo credere che proprio Emily mi dicesse certe cose. Ci eravamo sempre trovate d'accordo sulla necessita di evitare certe compagnie, certe 'avventure' nocive sia alla nostra salute che alla nostra dignità. Eppure ora girava con Marijuana Thompson. Qualcosa non quadrava.

"Okay" approvai infine, sforzandomi di sorridere. "Discorso chiuso, ne riparleremo quando capiterà. Ora mi devi una pizza!"

Quando lei ricambiò, non mi ci volle nessuno sforzo per iniziare a sorridere veramente.


 

Dopo tre ore di chiacchiere, risate e bagagli trascinati pigramente, la macchina di Emily partì lasciandomi proprio di fronte al cancello aperto di casa mia. Lo richiusi alle mie spalle. Non ero di certo a Sperdutolandia: in città la cautela non era mai troppa. 

Abbandonate senza alcuna cura le varie borse in mezzo al giardino, mi avvicinai alla prima traccia di presenza umana che ebbi modo di udire: qualcuno che inveiva a mezza voce nel garage. Con un mezzo sorriso mi avvicinai al portone del capanno prefabbricato accanto alla casa. "E' permesso?" domandai allegra, bussando. 

"Sì, un attimo e vado a prendere i soldi!" prese tempo una voce a me familiare. Proveniva da sotto l'auto di mamma. 

"Che diavolo stai facendo?" chiesi, sospettosa. Entrai nel capanno e mi appoggiai al muro, attendendo che quel grosso cretino emergesse da sotto la macchina rossa.

Uno sbuffo, un'imprecazione. "Che vuoi? Niente mancia, te la sei giocata!"

Risi. Non mi aveva riconosciuta lo squilibrato. "E quando mai tu mi hai dato dei soldi? Nemmeno quando sei in debito!"

"Come osi? Stai dicendo che non ti pago? Diamine, mi hai preso per uno straccione?" si lamentò Joshua strisciando a fatica sul pavimento ruvido. "Sai con chi stai parlando?"

Inarcai un sopracciglio, osservandolo mentre si alzava goffamente in piedi, dandomi le spalle. "Oh, sì. Con un grandissimo idiota di nome Joshua Fletcher, diciassette anni, del segno dei pesci, mi pare. No, forse acquario. Ma sei sicuramente un idiota, tanto da non ricordarsi del ritorno a casa della sua dolce sorellina".

Joshua si voltò a fulminarmi con lo sguardo, ma rimase spiazzato nel vedere niente po' po' di meno che me. "Oh, sei tu!"

"Chi pensavi che fossi, Josh? La fattorina della pizza?" lo stuzzicai, inarcando le sopracciglia.

Lui tossicchiò e arrossì. "No, certo che no". Aveva sempre avuto una cotta per la ragazza delle pizze, fin da quando era venuta a portare la consegna per la prima volta. A detta sua -e anche di mamma e George, in realtà- avevamo la stessa voce. Sinceramente non pensavo di avere una voce così insopportabile, ma ho sentito dire (e l'ho sperimentato) che tutti rimangono traumatizzati sentendo la propria voce registrata, per cui...

"No, certo che no" ripetei, ridendo sotto i baffi. "E' routine, in fondo" commentai, divertita. "Se la tratti così non avrai alcuna speranza con lei, comunque. Dovresti essere più educato".

"Già rompi? E dire che non sei neppure entrata, ancora!" sbottò mio fratello, uscendo a grandi passi dal garage.

"Anche tu mi sei mancato!" gli gridai dietro. 

"Ah, vedo che hai sistemato tutte le tue cose!" osservò, vedendo le valigie sparse per il prato. 

"Già!" ridacchiai, seguendolo. "No, sul serio, che stavi facendo?"

"Mi hanno fatto una multa. Io non lo farei, comunque" mi confidò con naturalezza, armeggiando con la serratura per aprire la porta di ingresso.

Gli lanciai un'occhiataccia e raccolsi le mie cose. "Di cosa parli?" Glissai sul fatto che stesse nascondendo una contravvenzione sotto l'auto di nostra madre, tanto era inutile lamentarsi, alla fine l'avrebbe spuntata ad ogni modo. Non sarebbe stato più semplice limitarsi a cestinarlo o, chessò, pagarla? Certo che lo sarebbe stato, ma non sarebbe stata una soluzione abbastanza trasgressiva da suscitare l'entusiasmo dei suoi amici.

"Buttare le cose nel prato".

"Perché no? Non abbiamo mica un..."

"Sì, invece".

"Non sai neanche cosa stavo per dire!" protestai.

"Un cane."

Sbuffai, infastidita. Non era giusto. Perché doveva vincere sempre lui? "Okay, lo sai" brontolai, raggiungendolo sulla soglia. "Ma rimane il fatto che non ce l'abbiamo".

Joshua rise e spalancò la porta. Una sorta di mostro a quattro zampe color crema corse verso di noi e, lasciandomi di stucco, spiccò un salto proprio di fronte a mio fratello, finendo per piazzargli poco delicatamente le zampe anteriori in mezzo al petto. "Ehi, bello!" lo salutò lui, accarezzandolo, una volta ripreso l'equilibrio.

"E quello che diavolo è?"

"Un cane".

"Un cane?!"

"Sai cos'è un cane?" mi prese in giro.

Gli diedi un pugno. "Certo che so cos'è un cane, idiota! Che diavolo ci fa qui?!"

"E' nostro, l'abbiamo preso poco dopo che sei partita" rispose con semplicità, riportando la bestia con le zampe per terra. 

"E'... vostro?"

Bè, ovviamente. Cosa mi aspettavo? Dovevano pur rimpiazzarmi in qualche modo!

"Pan, parlano cinese laggiù? Hai bisogno di riabituarti alla nostra lingua?"

Lo fulminai con lo sguardo, per poi puntare lo sguardo sospettoso sul grosso cane che mi stava annusando le ginocchia. Mi faceva il solletico. "Sei simpatico quasi quanto il nonno, te l'ha mai detto nessuno?"

"No, in effetti sei la prima. Considerato il tuo senso dell'umorismo il vecchio dev'essere un specie di comico".

"Ah, certo, senz'altro!" risposi, sarcastica. "Senti, puoi farlo smettere? Mi sta sbavando su tutta la gamba!" protestai, frapponendo la valigia tra me e la bestia. Non che non mi piacesse, era un bel cane, ma mi stava antipatico a priori, solo per il fatto che fosse stato acquistato appositamente per rimpiazzarmi. Nessuno me lo aveva detto esplicitamente, va bene, ma era palese! 

Joshua rise e spinse fuori il bestione con naturalezza. Questi corse in mezzo al prato e si mise tranquillamente a fare i bisognini davanti a noi. "CHE SCHIFO!" Scioccata, realizzai cosa avesse cercato di dirmi mio fratello poco prima, in un modo così chiaro che solo la Sfinge avrebbe potuto fare di meglio. "Ho lasciato la mia roba nel ...!" non riuscii nemmeno a concludere la frase, orripilata.

"Nel cesso del cane!" completà Josh, scoppiando a ridere come un perfetto idiota. 

Sbuffai sonoramente, scocciata, trascinando dentro le mie cose. "Felice di vederti, comunque" sibilai, irritata, mentre trascinavo i bagagli in direzione della mia camera. 

Erano bastati un paio di minuti con mio fratello a farmi saltare i nervi. Casa dolce casa!

Non mi ero ancora resa conto di essere di nuovo tra le mura tra cui ero cresciuta e mi sentivo già catapultata in un mondo che non era il mio. Sperdutolandia non era casa mia, quella da cui ero partita a inizio estate neppure. Il luogo in cui ero approdata questa volta sembrava addirittura più assurdo di quello che mi ero lasciata alle spalle prima di far saltare i nervi ai miei genitori, nonostante ad un primo sguardo paresse lo stesso. Qual'è il posto giusto per me?

Trascinai i bagagli su per le scale, senza che mio fratello si degnasse di darmi una mano, e entrai in camera mia.

La osservai a lungo: la scrivania ingombra, il letto fatto, gli scaffali pullulanti di libri. Il comodino era praticamente vuoto, vi era solo la lampada. Tutto quello che lo aveva occupato prima dell'estate era accuratamente riposto nel mio zainetto. Poi volsi lo sguardo verso la finestra e mi sentii come se mi mancasse l'aria. Ho le sbarre alle finestre, fu il mio primo stupido pensiero. Superato quell'attimo di confusione mi accorsi che non erano sbarre, ma un'impalcatura. "Josh" gridai, affacciandomi alla porta. "perché c'è l'impalcatura?"

"Stanno verniciando!" rispose, scocciato, nemmeno gli avessi appena chiesto di espormi chissà quale assurda legge fisica.

Ignorai la sua scortesia. "Oh" commentai, sentendomi stupida. Stavano verniciando la casa. Non me ne ero accorta prima solo perché avevano iniziato dal retro, dove la mia stanza di affacciava.

Mi sentivo soffocare, ancora. Forse era colpa delle sbarre di ferro che si frapponevano fra l'interno e l'esterno, mi dissi. Andai ad aprire la finestra, ma la situazione non migliorò. Mi sentivo ancora in trappola. Intrappolata tra i palazzi che circondavano casa mia, soffocata da quell'aria pesante, umida e inquinata che non ero più abitata a respirare.

"Be', non è iniziata benissimo, ma questa vacanza promette ancora bene" mi dissi, sottovoce. In realtà lo dicevo solo per autoconvincermi: era chiaramente iniziata da schifo e avevo la netta sensazione che non sarebbe migliorata presto. 

 

DubbiDomandeDelucidazioni:
(*)http://en.wikipedia.org/wiki/Anne_Hathaway_(Shakespeare) l'ho trovato solo su Wikipedia Inglese. Insomma, non è una notizia particolarmente importante, è lecito non saperlo. Io stessa l'ho scoperto solo il mese scorso, studiando Shakespeare. In sintesi 'Anne Hathaway' è la moglie di Shakespeare.

In der Ecke - Nell'angolo: 
Ciao a tutti! Sono tornata :D sempre in ritardo, ma meno della scorsa volta. ^^" Mi sono tolta quasi tutte le interrogazioni, ora dovrei essere piuttosto libera per un po'.^^
Non ho molto da dire se non che Pan è solo all'inizio della sua riscoperta del 'mondo da cui proviene'. 
Se avete domande da fare, come sempre potete rivolgermele tranquillamente. Inoltre, vi segnalo un paio di cose, giusto per rompere un po' le scatole, visto che è un po' che non lo facevo! xD
Allora, nella mia pagina su facebook ( 
https://www.facebook.com/pages/Yvaine0/201269919939034 ) c'è un album con le immagini -create con un sito opportunamente creditato nella descrizione dell'album- rappresentanti i volti di alcuni personaggi femminili. Per esempio ci sono Aggie e Pan, appartenenti a questa storia. In seguito ne aggiungerò altre, se ad alcuni di voi fa piacere seguirmi potrete farlo lì oppure aggiungendomi come YvaineZero Efp. :D 
Ok, ora basta perché inizio a sentirmi una operatrice telefonica. °-°
Vi ringrazio per essere giunti fino a qui, se avete voglia fatemi sapere cosa pensate del capitolo. ^^

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Capitolo 22
*** 22 ***


Cows and jeans  
22




Lo stereo era acceso e le note dell'ultimo tormentone estivo rimbombavano nella stanza. Il caldo era insopportabile, l'aria irrespirabile e rischiavo di collassare da un momento all'altro. Ero stesa sul letto da due ore e non facevo che leggere e rileggere le stesse due righe. Oltre a star morendo di caldo, ero vagamente in ansia. Il motivo era l'imminente ritorno a casa di mia madre.
Sarebbe rincasata nel giro di pochi minuti. I primi momenti  con lei sarebbero stati... tranquilli, ecco. Magari perfino piacevoli. Ci saremmo salutate, avremmo scambiato qualche chiacchiera e poi sarebbe iniziato il momento delle frecciatine più o meno velate. O forse no.
A volte capitavano periodi di 'pace', in cui la consideravo quasi un'amica. Poi però una delle due diceva qualche parola fuori posto e la continua lotta ricominciava, capitanata da una sorta di viscerale astio reciproco che si era ormai annidato nel nostro sangue.
Non mi piaceva avere un rapporto del genere con mia madre. Detestavo litigare con lei, almeno quanto lei odiava farlo con me. Eppure eravamo così diverse e allo stesso tempo così uguali -specie negli aspetti negativi del carattere- che andare d'accordo pareva impossibile.
Non era sempre stato così. Quando ero piccola tutto era molto meglio. Certo, si litigava. Mi sgridava e io mettevo su pantomime melodrammatiche degne dei migliori -o peggiori- attori per difendermi e farla sentire in colpa, ma non più di quanto non capitasse in ogni altra famiglia al mondo. Infine qualcosa era cambiato e niente era stato più lo stesso.
Alcuni dicono che sia una fase critica che nell'adolescenza passano molte ragazze. Le madri non ne accettano la crescita e loro, per un contorto processo naturale, sentono comunque il bisogno di slacciarsi dai legami familiari e diventare autosufficienti. La maggior parte delle ragazze ha un rapporto negativo con i genitori per questo motivo. Tutte sciocchezze! I rapporti umani si basano sulle scelte delle persone e a casa mia c'era qualcuno che ne aveva fatte di sciocche ed egoistiche. Era naturale che io avessi poi reagito di conseguenza prendendo posizioni ostili nei suoi confronti. Insomma, ne avevo tutti i diritti. Quale figlia sarebbe stata felice di vedere il proprio padre cacciato di casa e trovarsi a convivere con un avvocato pignolo con plateali preferenze per suo fratello minore? L'adolescenza non c'entrava un bel niente.
Suonarono al campanello.
Balzai a sedere sul letto, stringendo le dita attorno al lenzuolo verde-acqua. Era arrivata. Spensi immediatamente la radio, attendendo il momento del confronto.
"Non ti scomodare, mi raccomando!" brontolò Joshua dal salotto al piano inferiore.
Non gli risposi. Chiusi gli occhi e respirai a fondo. Il cuore mi martellava nel petto come se fossi sul punto di dare il primo esame all'università. Che senso aveva farsi venire un infarto prima di vedere mia madre? Dovevo calmarmi. Assolutamente.
"Ciao, tesoro! Come sto? E' arrivata?"
Giusto, prima i capelli.
Mi ero quasi dimenticata dell'ossessione di Felicity per i propri capelli. Ogni mercoledì, dopo il lavoro, si recava dal parrucchiere a farsi tinta e permanente, senza nemmeno prima mangiare. Una cosa del genere ce la si aspetterebbe da una signora di una certa età che, nonostante non ci sia più molto da fare, vuol far vedere di tenere ancora al proprio aspetto fisico. Di certo non da una donna ancora sotto i cinquanta.
"E' di sopra" si limitò a rispondere lui, svogliato.
"Metti dentro il cane, tesoro" suggerì nostra madre. La sentii sistemare le scarpe nel ripostiglio -toc, toc- e poi correre su per le scale come una bambina impaziente la mattina di Natale.
"Ehi" si annunciò, allegra, un attimo prima di affacciarsi alla porta della mia stanza. "Ciao!" sussurrò, raggiante.
Mi scappò uno sbuffo divertito: sembrava davvero una bambina esaltata. "Ciao mamma" risposi, abbozzando un sorriso.
Attenzione, attenzione! E' in arrivo l'uragano Felicity, correte ai rifugi!
Mi abbracciò di slancio, ridendo. "Oh, tesoro! Mi sei mancata! Non avrei dovuto spedirti laggiù, deve essere stata dura!"
Okay, questo sì che era strano. Per cosa si stava incolpando? "Ma è stato papà a mandarmi là" la corressi, rispondendo pacatamente all'abbraccio. Non riuscivo ad abbattere le barriere che avevo costruito per separarla da me, nemmeno in quei momenti di affetto. Ci eravamo ferite a vicenda, sapevo che spesso avevo detto cose che non avrei dovuto dire e l'avevo fatta soffrire. Lei aveva tradito la mia fiducia a sua volta e non ero sicura che sarei mai riuscita a perdonarla per aver lasciato mio padre. Che si fosse risposata mi urtava fino ad un certo punto, una volta sola aveva tutto il diritto di farlo. Aveva scelto un uomo super noioso e pignolo, ma questo era affar suo. L'aver piantato in asso Harvey Fletcher, però, aveva fatto crollare ogni mia fiducia nei suoi confronti. Aveva abbattuto metà delle mie sicurezze.
Prima della sua geniale idea di mandare al diavolo mio padre eravamo una famiglia normale e non uno schifo di insieme in cui le persone si appioppavano controvoglia e a fatica le une alle altre. Okay, ero io quella che stava mal volentieri con tutti gli altri, ma non era piacevole il clima che si respirava quando ogni domenica andavamo tutti a pranzo assieme -papà e George compresi-, e questo era un dato di fatto.
"Oh, sì". Mi strinse forte un'ultima volta, prima di allontanarsi e sedersi sul letto accanto a me. "Harvey è molto nervoso ultimamente, non farci caso".
Ultimamente? Sapevamo entrambe che era nervoso da quando lei gli aveva presentato la lettera dell'avvocato.
"Non è un problema" la tranquillizzai. "Come è andata al lavoro?" domandai, giusto per cambiare argomento prima che mi scappasse qualche commento poco carino. Non volevo scatenare un litigio così presto.
Mia madre si illuminò. "Oh, sì, benissimo". Era entusiasta e non tanto perché le piacesse il suo lavoro, quanto più perché adorava parlare -in particolare di se stessa. "Questa devo proprio raccontartela! Ti ricordi di Kelley Addams? Be', allora ascolta..."



Dopo tre quarti d'ora di racconti sui flirt in atto nell'ufficio di mia madre, ero stata finalmente libera di disfare le valigie e ricordarmi perché avevo tanto mal sopportato quella casa per tutta la mia vita, oltre gli ovvi motivi sopra citati. La mia camera era la più calda della casa. In estate, si intende, perché in inverno invece era la più fredda, manco a farlo apposta.
Alle sette era tornato George e mamma aveva preparato la cena. Ovviamente non senza aver prima rischiato di fare esplodere il suo nuovo forno a microonde mettendoci dentro una scatoletta di torno. Aveva poi optato per cuocere -minuscole- bistecche come tutte le brave madri nei giorni importanti. Il mio ritorno a casa era uno di quelli, che onore!
Avevo buttato via la mia prima giornata a casa a far nulla, ma in fondo l'ozio era il mio hobby preferito.
"Buon appetito!" trillò mia madre con entusiasmo prendendo in mano la forchetta.
"A voi", rispose George con professionale galanteria.
"Appetito..." biascicai punzecchiando la fettina di carne che avevo nel piatto con la forchetta. Si sarebbe potuta alzare da un momento all'altro, ne ero certa. Era cruda, dannazione! Okay che io bruciavo tutto, ma bastava grattar via la parte annerita, no?
"Sì, ciao" borbottò Josh, senza scollare gli occhi dalla playstation.
Eh, sì, casa dolce casa.
"Allora, Pan" se ne uscì George, sorridendo da sotto i baffoni bruni, mentre tagliava la bistecca. "come è andata coi miei film? Avrai fatto faville!"
Oh, certo. "Sì, be', ti ringrazio per avermeli spediti, ma non sono serviti a molto. Mi hanno licenziata perché uno dei bambini è scappato mentre cercavo di trovare un lettore DVD".
Joshua scoppiò a ridere sguaiatamente. "Ti sei fatta scappare un marmocchio?"
Gli lanciai un'occhiataccia. "Io non riderei, testa di rapa. Quando è stata l'ultima volta che hai lavorato? Oh, la vita scorsa!"
Mio fratello mi fece un gestaccio e George batté forte le mani per attirare la nostra attenzione. "Su, non fate così. Pan, Josh lavorerà quando ce ne sarà bisogno".
Risi. "Oh, sì, certo" commentai sarcastica. "Ci metterei la mano sul fuoco". Lo avrebbero mantenuto a vita, ne ero certa.
"Hai trovato un secondo lavoro, poi?" si informò mia madre, premurosa.
"Sì, ma mi hanno licenziato perché mi dimenticavo cosa fare. Era una noia mortale. Poi ne ho trovato un terzo, in un negozio di articoli da giardino. La proprietaria mi ha cacciato via accusandomi di avere rubato una zappa che il fattorino aveva dimenticato nel magazzino".
Joshua aveva addirittura messo in pausa il suo videogioco e si stava sbellicando dalle risate ai miei sbrigativi racconti. Al contrario di Emily lui era capacissimo di ridere delle persone e non si poneva alcun problema nel farglielo in faccia. "Ma va? Che sfigata!"
"Scusa ma tu che hai fatto di produttivo questa estate? Hai finito un livello di Crash Bandicoot?"
"Ho recuperato il debito in fisica. Ho l'esame la prossima settimana".
Alzai le mani come disarmata. "Ah, be', se hai preso ripetizioni di fisica devo proprio stare zitta! Non posso competere!"
Lui sbuffò e riprese a giocare per protesta.
"Non hai fatto che farti licenziare per tutti questi mesi?" si informò George, con fare spiritoso.
"No, alla fine ho trovato un lavoro al bar del paese" spiegai, mettendo in bocca il primo boccone.
"Che brava ragazza" commentò, chiudendo il discorso.
"E ti sei fatta qualche amico? Un ragazzo magari?" se ne uscì mia madre, esaltata.
Sbuffai. "Un paio di amici, sì" risposi, vaga.
"Mi passi il sale, cara?"
"Sì, ecco, amore".
Ingoiai a fatica. Perché dovevano sempre comportarsi da piccioncini? Era ridicolo alla loro età. "Mi accompagnate da papà dopo cena? Vorrei passare a salutarlo".
George e mamma si lanciarono un'occhiata eloquente che non mi piacque per niente. "No" rispose il primo, con un tono che mi parve fin troppo deciso.
"Come, scusa?" Stava scherzando? Che diritto aveva di... Pan, calmati. Ero stanca, molto stanca, e per questo irascibile. Dovevo rimanere calma e non arrabbiarmi. Forse avevo capito male.
"George vuole dire che tuo padre lavora, questa sera. Ha cambiato i turni" intervenne mia madre, cercando di prevenire la mia ira. "Inoltre vorrai riposare, no? Ti accompagneremo noi domani mattina, così avrai il pomeriggio libero per uscire con Emily".
"Okay" risposi, accontentandomi di quella spiegazione.
"Ti devono venire?" si informò Joshua, sorridendo sornione.
"Vai al diavolo".




Doccia calda. Quanto possono risultare magiche queste due parole in estate? Poco, se non si è abitualmente costretti a quella fredda.
Dopo una dormita di dodici ore suonate -un sogno!-, una doccia calda era quanto di più meraviglioso potessi sognare. Okay, il bagno era ridotto ad una sauna, ma perlomeno tutta la tensione che avevo accumulato si era sciolta ed era finita nello scarico.
Mi strinsi nel solito accappatoio arancione e mi diressi canticchiando in camera. Forse avevo sottovalutato la mia breve vacanza, forse non sarebbe stata poi così male. Mia madre sembrava molto più paziente del solito e Josh se ne infischiava bellamente di me, cosa che non poteva che farmi felice, visto e considerato che le sue attenzioni erano -se possibile- meno piacevoli di quelle di Dean. George era sempre il solito noioso moralista, ma in fondo non era fastidioso. Inoltre mi aspettava una giornata trascorsa con papà ed Emily, cosa potevo desiderare di più? Una pioggia di banconote e la mia lettera per Hogwarts, forse, ma non sarebbero opzioni realizzabili, purtroppo.
Varcai la porta della mia stanza, respirando a pieni polmoni. L'aria sembrava addirittura fresca a confronto con le quantità esponenziali di vapore inalate in bagno. Andai alla scrivania per prendere l'asciugacapelli e così facendo lanciai un'occhiata dalla finestra. Quasi non notai la figura che, arrampicatasi sull'impalcatura, stava entrando in camera mia. Ci misi qualche istante per rendermi conto che un ragazzo si stava infiltrando in casa mia. Strillai, spaventandolo.
Gridò di sorpresa a sua volta, rischiando di cadere. Si aggrappò al davanzale per riprendere l'equilibrio e, prima che potessi lanciargli l'asciugacapelli e farlo cadere di sotto, lo riconobbi come un amico di mio fratello.
"Che hai da urlare?!"
Ah, certo. Come mi permettevo di fare certe cose?  Era più che normale che un tizio cercasse di entrare in casa mia passando dalla finestra. Che maleducazione!
"Malcom!" esclamai, scioccata. La mia voce era così acuta che avrei potuto fargli saltare un timpano.
"Ah, sei tornata. Mi hai fatto prendere un colpo!"
IO?? Espirai bruscamente, mettendo su un'espressione scettica. "Oh, scusami tanto! Vieni, fa' pure come se fosse una cosa normale quella che stai facendo!" sputai con sarcasmo.
"Quante storie! Josh non mi aveva detto che saresti tornata così presto".
"E questo cosa significa? Ehi, non intendevo darti il permesso di entrare sul serio!" lo fermai, alzando una mano.
"Ho trascorso qui le ultime due settimane, sono scappato di casa".
"Sei scappato di casa e ti sei nascosto in camera mia?" ripetei, incredula. Stava scherzando? Quel tizio aveva alloggiato nella mia camera per due settimane mentre non c'ero? Senza il mio permesso? "JOSHUA!" strillai, uscendo in corridoio. "TI DISPIACE VENIRE UN MOMENTO QUA? E quando chiedo se ti dispiace, intendo 'VIENI SUBITO QUI!'"
E tanti cari saluti al rilassamento post doccia.
Malcom nel frattempo era entrato e stava seduto sulla mia scrivania con aria scocciata.
"Ehi, cosa fai qui dentro? Esci, non ti ho detto che potevi entrare!"
"Sì invece!" protestò.
Alzai gli occhi al soffitto. "Ero sarcastica!"
"Non ho intenzione di uscire dalla finestra. Se i vicini mi vedessero?"
Sgranai gli occhi. "Non ti preoccupa il fatto che ti abbiano visto entrare, piuttosto?" Idiota.
I-D-I-O-T-A.
"Lo faccio sempre".
"Oh, cavolo" sbuffai, esasperata, stringendomi di più nell'accappatoio. Mai, mai avrei finito di stupirmi della stupidità della gente. "Come ti è saltato in testa di... JOSH!" esclamai, vedendo entrare mio fratello nella stanza. "Non mi devi qualche spiegazione?"
"Di cosa stai... Ehi, Malcom!"
"Josh".
"Ehi, Malcom!" gli feci il verso, sembrando vagamente isterica. "Che cavolo ci fa lui qui?"
"Aveva bisogno di un posto in cui stare" rispose lui con semplicità, scrollando le spalle.
"E tu hai pensato subito alla mia camera, no? Complimenti, ottima idea!"
"Tua sorella ha il ciclo?"
"Glielo ho chiesto anche io ieri sera" ridacchiò Joshua come se non fossi a due passi da lui.
"Giuro che ti prendo a schiaffi, Josh!" sbottai, stizzita.
"Senti, non è che puoi vestirti? Sono debole di stomaco e..."
"...sta' zitto, idiota. A me non dispiace lo spettacolo!"
Risero.
Incrociai le braccia al petto, ufficialmente indignata. "Fuori di qui. Tutti e due. Subito" sillabai, stringendo i pugni. "Idioti".
Joshua fece un cenno all'amico e uscirono ridendo dalla mia stanza, probabilmente diretti a quella di mio fratello.
Era incredibile! Quel tizio aveva dormito nella mia camera per le ultime due settimane e sicuramente mia madre non se ne era nemmeno accorta. Roba da non credere! Chiusi la porta e mi rivestii in fretta, indispettita. Dovevo ricordarmi di cambiare le lenzuola prima di tornare a dormire in quel letto.
Un quarto d'ora dopo, mentre scendevo le scale, mio fratello mi raggiunse di corsa. "Non dirlo alla mamma".
"Di cosa stai parlando?" feci, scettica.
"Che Malcom è stato qui. E' il mio migliore amico, glielo dovevo".
"Certo. Certo, come vuoi. Insegnagli a passare dalla porta, in cambio" commentai, sorpassandolo.
Era chiaro che non lo avrei detto a nostra madre, non avrei sopportato che lui l'avesse vinta per l'ennesima volta. Aveva un'assurda capacità di inventare scuse improbabili per ogni sciocchezza che combinava e mia madre aveva l'incredibile abilità di crederci ogni volta. George pendeva dalle labbra di lei, quindi non c'era verso di confidare nemmeno in lui.
"Andiamo?" chiesi, affacciandomi alla cucina. "Mamma?"
Lei posò la rivista che stava leggendo e annuì. "Sì. Vai a chiamare George, è nello studio".
Certo, vai a chiamare George. Abbiamo bisogno di tutta la squadra per portati da tuo padre, potrebbe essere pericoloso! 
Attraversai il corridoio e bussai alla porta dello studio, dove George passava gran parte della giornata quando non era in ufficio. Lavorava continuamente. Non attesi che mi dicesse di entrare, mi limitai a parlargli attraverso la superficie di legno. "Andiamo? Mamma ti aspetta in cucina!"
La porta si spalancò dopo una manciata di secondi. "Perfetto, muoviamoci!" approvò, sorridente.
Cos'aveva da sorridere così? Ieri sera non voleva portarmi da lui, ora sembra non vedere l'ora! Si sono tutti rincitrulliti?
Percorremmo il corridoio insieme e finché non raggiungemmo Felicity continuai a guardarlo di sottecchi, sospettosa. Qualcosa non quadrava.
Mia madre gli fece l'occhiolino. L'occhiolino! Ok, era ufficiale, stavano tramando qualcosa.
Mi fermai davanti alla porta d'ingresso. Ridacchiarono e iniziai a pensare che forse sarei dovuta tornare in camera. Mi stavano giocando uno scherzo? Mi attendeva una secchiata d'acqua gelida non appena uscita? Oppure mi stavano semplicemente disorientando facendomi credere che qualcosa non andava? Si trattava di una tortura psicologica?
Stavo impazzendo. Aprii la porta e mi fiondai di fuori, pronta ad affrontare qualunque cosa ci fosse.
Le auto sfrecciavano nella strada, io ero ancora asciutta e c'era un caldo della miseria. Fin qui nulla di strano. Forse ero solo paranoica.
Scesi le scalette e iniziai a camminare nel prato, diretta al garage, senza nemmeno guardarmi attorno.
"Non si saluta più?" mi richiamò una voce familiare.
Alzai le testa e mi guardai intorno finché non posai lo sguardo sulla figura di un uomo intorno ai cinquanta, mollemente seduto sul cofano di un'auto blu, nel mezzo del giardino. E come cavolo avevo fatto a non vederlo? "Papà!" esclamai, raggiante. Gli corsi incontro e lo abbracciai di slancio. "Papà!" ripetei, felice.
"Mostriciattolo!"
Gentile come sempre.
Lo strinsi più forte. "Mi sei mancato". Se c'era qualcuno a cui non mi vergognavo di dire niente, quello era mio padre. Era forse l'unico con cui riuscissi a esprimere ad alta voce i miei sentimenti positivi.
"Anche tu, anche tu. Non mi strangolare però! Pan, così non respiro!"
"Sì che respiri!" protestai, sciogliendo l'abbraccio e facendo due passi indietro. 
Alzò gli occhi al cielo. "Vedo che stai bene!"
"Sì, abbastanza. Tu? Come stai?" domandai, realmente interessata. Inconsciamente cercai nel suo volto i segni distintivi della sua rassegnazione. Era dimagrito, i capelli si erano ingrigiti e lo sguardo era contornato da sottili linee che solcavano la pelle. Era invecchiato. Non durante l'estate, ma durante il divorzio.
"Sto bene, come sempre. Sei allegra sta mattina".
"Due minuti fa non lo era" lo corresse Felicity, divertita. "Si stava lamentando perché non l'avevamo ancora portata da te".
"Gnè, gnè, gnè" borbottai, decisa a non lasciarmi rovinare da lei nemmeno un momento con mio padre. 
Harvey rise. "Sei sempre la solita insofferente!" mi apostrofò.
Aveva ragione. 
"Non noti nulla di strano, Pan?" chiese infine. 
Guardai mio padre stranita, poi, incontrato il suo sorriso, abbassai lo sguardo sulla macchina. "Oh, hai preso la macchina nuova?" domandai, interrogandomi intimamente sul perché l'avesse parcheggiata in mezzo al prato. Tra l'altro quello era il gabinetto del cane, non avremmo dovuto camminarci sopra, poteva essere, ehm... pericoloso. A proposito, dov'era il...?
"E' tua".
"Eh?" chiesi. 
"E' tua" ripeté mio padre.
Eh? Mia? "Cosa??"
"La macchina, Pan, è tua".
"Mia?!" esclamai, sorpresa. "Mi stai prendendo in giro!"
"Oh, sarebbe decisamente da me, ma no, non ti sto prend..."
"ED E' BLU!"
Ero sempre stata ossessionata dalle macchina blu. Le adoravo. Un po' come le mucche, non c'era un motivo. Era simpatia a pelle. Per quanto potessero essere provviste di pelle le automobili.
"Ed è blu" confermò.
"OH MERLINO!" gridai, entusiasta, per poi gettarmi di nuovo tra le braccia di mio padre. 



In der Ecke – Nell’angolo:
Salve signore! E con il solito ritardo... eccomi ad aggiornare!:D
Come sono andate le feste? Spero siano state piacevolissime. ^^ Per Natale? Vi hanno regalato qualche bel libro? Oh, questo devo proprio dirvelo: alcune delle mie migliori amiche hanno fatto rilegare i primi 21 capitoli di C&J e ne hanno disegnato una copertina. ** Potete trovare le foto sulla mia pagina di facebook, e magari appena capisco come si fa le metto anche sul blog, così forse è più agibile.^^
Oh, e a proposito di disegni, c’è una ragazza tra voi lettori (per la miseria, c’è davvero qualcuno che mi legge, ogni volta che realizzo questa cosa rimango sconvolta!) che ha fatto un meraviglioso disegno di Aggie! ** Se mi dà il permesso (e qui mi rivolgo praticamente a te, non ti cito esplicitamente in caso tu non abbia piacere^^) posterò il link con il prossimo capitolo. :3
E a proposito di postare link, se vi interessa ho messo ul mio blog una scena che ho tagliato via dal capitolo 23 di questa stessa storia. Si potrebbe definirlo uno spoiler, tecnicamente, ma in pratica non dice assolutamente nulla della trama (è infatti per questo che l’ho tagliato: è inutile). Ad ogni modo, se a qualcuno facesse piacere leggerlo, lo trovate qui: http://yvaine0mich.blogspot.com/2012/01/scena-tagliata-da-cows-and-jeans.html
A questo punto vi saluto, o rischio di rendere l’Angolo più lungo del capitolo. XD
Vi auguro una buona seconda metà delle vacanze e delle rimanenti feste!^^

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Capitolo 23
*** 23 ***



Cows and jeans
 
23


 
Camminavo pigramente per la strada.
La caotica città in cui ero cresciuta si manifestava in tutto il suo prepotente potere disorientante quel pomeriggio. 
Un terzo della popolazione si era riversata nelle strade e l'aria era così densa di smog che sarei volentieri scesa nelle fogne per respirarne un po' più fresca. Cose simili accadevano solo nei giorni prefestivi e quando c'erano i saldi, quando si inaugurava un nuovo negozio -da qualche parte nel mondo-, quando c'era il sole, quando pioveva, quando nevicava e quando la gente respirava.
Ero abituata alla vita in quella città, ma non ricordavo quanto fosse fastidioso dover chiedere "permesso" più e più volte, prima di riuscire a concludere una frase, a causa della gente che si ammassava davanti alle vetrine dei negozi.
"Permesso. Permesso! PERMESSO!" strillai, cercando di far spostare un gruppo di ragazzine che stavano ostruendo il passaggio di fronte alla vetrina di un negozio di abiti da sposa. 
Nessuna di loro mi calcolò e così optai per passare con la forza, spintonandole senza alcun ritegno, seguita da una ridacchiante Emily.
"E poi perché guardano quei cosi? Avranno tredici anni, miseriaccia!"
La mia amica rise. "Il fascino immortale dell'abito bianco..." spiegò, divertita.
Alzai gli occhi al cielo. "Vorrà dire che, quando e se accadrà, mi sposerò in blu" sentenziai, seria. Lo dicevo per puro e semplice puntiglio, spinta dall'irritazione causata dall'afa e dal poco spazio a disposizione per respirare in mezzo a tutta quella gente. Tuttavia in quel momento ero decisamente convinta di ciò che avevo detto.
Questo non impedì ad Emily di scoppiare a ridere di gusto. "Non dire sciocchezze: il vestito da sposa deve essere bianco, altrimenti che tradizione sarebbe?"
Soffiai una risatina sarcastica. "È la ragazza dai turchini capelli a spazzola che mi parla di tradizione?" domandai, guardandola di sottecchi.
"Touché".
"Cosa stavo dicendo?" chiesi, cercando di mascherare la somma soddisfazione che mi aveva pervasa.
Lei tuttavia la colse e scrollò il capo divertita. "Parlavi dei tuoi genitori e dell'avvocato. Cosa devi comprare?"
"Un CD" risposi, facendo mente locale. "Ah, sì, ci sono. Okay, forse mi prenderai per scema. Anzi, senza forse. Mi hanno regalato, ehm, ...una cosa. Non che io non sia contenta, però mi sento come se mi ... mi stai ascoltando?" chiesi, accigliata.
Emily distolse a fatica lo sguardo da una vetrina e mi sorrise imbarazzata. "Scusa, mi ero distratta. Ma hai visto quella gonna?"
Espirai bruscamente dal naso, indispettita. "No, stavo cercando di comunicarti la mia somma preoccupazione per l'improvvisa ondata di affetto proveniente dagli adulti di casa mia, in effetti" replicai. Ok, il caldo mi rendeva irritabile, ma da quando in qua una gonna è più importante di un'amica che sta confessando le proprie perplessità?
"L'affetto ti preoccupa?" domandò, fingendo di non aver notato il mio disappunto.
Sbuffai, conscia del fatto che stesse cercando di farsi perdonare. "Sì, visto e considerato che non ho fatto niente per meritarlo" ripresi. 
Non meritavo un'auto nuova. Non c'era stato motivo per regalarmela, non avevo fatto proprio nulla di buono per guadagnarmela e non avevo mai implorato nessuno affinché me ne comprasse una -al contrario della stragrande maggioranza degli adolescenti della mia città. 
Avevo la sgradevolissima sensazione che tutti -eccezion fatta per mio fratello- stessero cercando di farsi perdonare il soggiorno forzato a Sperdutolandia. Era uno sforzo apprezzabile, tecnicamente parlando, ma il pensiero che cercassero di comprarsi il mio perdono regalandomi un'auto mi faceva sentire una strana sensazione alla bocca dello stomaco. Delusione? Forse. O forse la temperatura maledettamente alta stava cercando di farmi venire un esaurimento nervoso.
"L'affetto lo si dà e lo si riceve. Non è necessario accorgersi del perché, non sempre è dato saperlo" spiegò Emily distrattamente.
"Ma io lo so il motivo".
"Qual è?"
"Si sentono in colpa per avermi spedito laggiù". O lassù, forse. In geografia ero sempre stata una frana, non sapevo se Sperdutolandia fosse a nord o a sud rispetto alla mia città. In fondo, però, cosa importava? Avevano installato persino il navigatore satellitare nella macchina nuova, per evitare che mi perdessi. Avevano pensato proprio a tutto! Tranne forse al capitale che avrei spesso in benzina per arrivarci.
Una parte di me si sentiva in colpa per la mia reazione sospettosa a quel dono. In fondo poteva essere solo un regalo di compleanno in anticipo -e che anticipo, diavolo, mancavano più di sei mesi!- come lo avevano giustificato loro. La cosa continuava a puzzarmi, però.
Notando che alla mia adorata migliore amica non fregava nulla di ciò che avevo da dire, lasciai cadere il discorso e la trascinai dentro ad un negozio di dischi prima che si mettesse a sbavare e ad abbracciare una vetrina o l'altra.
Da quando è così frivola?
Cacciai il pensiero, decisa a farmi meno problemi possibile. Ero indubbiamente di cattivo umore, ma continuando a prendermela per ogni sciocchezza non sarei certo stata più felice.
L'aria nel negozio era pigramente mossa da un vecchio ventilatore.
Sospirai di sollievo quando l'aria venne soffiata verso di me, rinfrescandomi appena.
Un punto a favore per il ragazzo dietro al bancone. "Ehilà!" ci salutò al nostro ingresso.
"Ehi, Matt! Faccio un giro!" lo salutai, iniziando a passeggiare tra gli scaffali stipati di CD, DVD e dischi in vinile.
"Ciao, Matt!" cinguettò Emily, trotterellando fino alla cassa.
La guardai sorpresa, con le sopracciglia inarcate, e ridacchiai sotto i baffi.
"Lily" le sorrise cortese, sporgendosi in avanti con gli avambracci premuti sul bancone.
Oh, ma quanta confidenza, signori! 
"Abbiamo fatto progressi, vedo" ridacchiai sottovoce, voltando loro le spalle. 
Da quando eravamo entrate per la prima volta, per caso, in quel negozio, due anni prima, e Matt ci aveva accolto con un'infinità di cortesi chiacchiere e pregevoli citazioni musicali, Emily era rimasta affascinata -come aveva detto?- dalla luminosità di quei meravigliosi occhi verdi. Aveva giurato di averli visti brillare ogni volta che aveva citato uno dei suoi idoli musicali. O meglio, dei loro idoli, perché ne avevano davvero tanti in comune.
"Cosa posso fare per te?" chiese gentilmente il commesso alla mia amica.
"È arrivato il CD che ho ordinato?"
Ringraziai il cielo che i piccioncini stessero conversando tra loro, facendo sì che la mia ricerca passasse inosservata. Per quanto Matt potesse essere gentile, divertente e persino piuttosto intelligente, sapeva svolgere bene il suo lavoro e dunque, come tutti i commessi che si rispettino, quando fiutava un possibile acquirente diventava dannatamente insistente. Ecco perché preferivo sempre non chiedere, anche quando mi serviva qualcosa in particolare. L'unica volta che ero entrata e mi ero subito rivolta a lui in cerca di aiuto, ero tornata a casa con non meno di quattro CD, due dei quali acquistati solo ed esclusivamente per sfinimento.
Proseguii la mia ricerca, ascoltando distrattamente la conversazione in atto.
"Green Day?"
"Esatto".
"Sì, è arrivato, ora lo prendo" proclamò, uscendo da dietro la cassa e dirigendosi deciso verso un determinato scaffale. "Scusa" sussurrò, scansandomi, per poi procedere verso il suo obiettivo.
"Niente" risposi. Non che mi avesse ascoltato, sia chiaro.
"Non avevi detto che non ti piacevano?" le chiese mentre prendeva il CD richiesto.
Annuii tra me. Ottima domanda. In effetti non le piacevano, potevo confermarlo.
"È per il compleanno di un'amica" rispose lei. Matt evidentemente si voltò verso di me, perché Emily si affrettò a continuare: "Non lei, no. E' per Mary Thompson" spiegò.
"Ah, sì, penso di conoscerla" fece lui, con un'alzata di spalle.
Mentre mi chiedevo se ci fosse anche solo una persona in tutta la città a non aver mai sentito parlare di Marijuana Thompson, una strana idea mi passò per la mente. "Non sarà mica il suo compleanno, la super festa a cui mi trascinerai?" domandai sospettosa, agguantando finalmente il CD per Kameron. Abbozzai un sorriso di circostanza, per non sembrare troppo scettica al pensiero.
Emily rise. "Indovinato!" esclamò, divertita.
Il sorriso mi si congelò sulle labbra e lasciai cadere le braccia lungo il corpo. "Lily!" Il mio tono lamentoso suonò vagamente simile ad un guaito.
Non potevo credere che mi avrebbe trascinato alla festa di compleanno di Marijuana Thompson. Lei nemmeno mi conosceva!
"Oh, avanti Pan! Ti prometto che ti divertirai, sarà uno spasso!" mi incoraggiò sorridente.
Sbuffai. Mi incamminai verso la cassa per pagare, con passo strascicato. "Yuppie" feci, senza enfasi.
Matt rise, tornando alla cassa per farci pagare. "Ti vedo molto entusiasta" commentò divertito.
Lo guardai di sottecchi. "Già, non riesco a contenere l'entusiasmo" replicai sarcastica, con in volto l'espressione di una delle adolescenti dark dei film.
Emily mi diede una gomitata, ridendo. "Ma smettila! Ti divertirai!" mi assicurò lei, puntando poi gli occhi sul mio nuovo acquisto adagiato sul bancone, mentre io estraevo i soldi dalla borsa. "A day at the races?" domandò. "Ma non l'hai comprato lo scorso Natale?"
La guardai sorpresa, interrompendo momentaneamente la mia ricerca del portafogli. 
Ecco una delle qualità che più le invidiavo: la memoria. Emily ricordava ogni singolo dettaglio di... di tutto, cavolo. Era un mostro, da quel punto di vista.
"In effetti sì" confermai, dopo aver fatto mente locale. In realtà la mia perlustrazione mentale del Natale precedente aveva fornito pochissimi risultati e l'acquisto di un CD da auto-regalarmi non presenziava tra questi. Tuttavia ero certa di avere già quell'album nella mia collezione e mi fidavo ciecamente dell'ottima memoria della mia compare. "Questo però non è mio, è per un amico" risposi.
Me ne pentii all'istante.
Sul volto di Emily era comparso un sorriso malandrino e malizioso degno di Sirius Black ai tempi d'oro. "Un amico, eh?"
Dannazione. "Sì, è chiaro" risposi all'erta. In realtà ero fin troppo sulla difensiva, tanto che chiunque avrebbe pensato che stessi mentendo. Il punto era che non avevo mai sopportato l'assurda tendenza delle persone a udire la parola 'amico' e capire 'fidanzato'.
Emily si scambiò un'occhiata di intesa con Matt, che scoppiò a ridere.
"Ceeerto".
Inveii mentalmente, scuotendo il capo.
"Oh, dai, non c'è niente di cui vergognarsi nell'avere un ragazzo" mi rassicurò il commesso pacatoìamente.
"Ma non ce l'ho!"
Assunse l'aria di chi la sapeva lunga e mi guardò con le sopracciglia inarcate.
Al diavolo! Lo fulminai con lo sguardo, indicando il CD. "Chiudi il becco o vado a comprarlo da un'altra parte" lo minacciai, estraendo finalmente il portafogli dalla borsa.
I due risero di gusto.
Sbuffai e consegnai i soldi a quel tipo, desiderosa di lasciarmi alle spalle quel discorso. "Vogliamo smetterla?" sibilai infastidita, notando che non smettevano di lanciarmi occhiate divertite.
Per tutta risposta loro scoppiarono a ridere una seconda -o forse terza- volta.
 
Anche il secondo giorno di vacanza era trascorso nel più completo ozio. Avevo pranzato a casa mia con la mia migliore amica, mostrandole le mie nuove -anche se ancora scarse- capacità culinarie. Chiaramente avevo cotto troppo la pasta, tanto che mangiarla fu un'impressa degna di Bear Grylls, ma ne ero stata comunque decisamente soddisfatta.
Durante il pomeriggio eravamo rimaste in salotto a guardare un film, cercando di ignorare le proteste di Joshua e Malcom a ogni mio commento. Avevo anche rischiato di sbafarmi un'intera vaschetta di gelato davanti al televisore. Pericolo da cui ero stata coraggiosamente salvata dal prode cavaliere Joshua, il quale aveva deciso di sottrarmi il contenitore dopo la quarta cucchiaiata per dividere il bottino con il suo caro amichetto. Farabutto! E' inutile dire che avevo augurato a entrambi -fissandoli intensamente e senza battere le palpebre(*)- di congelarsi il cervello mangiandolo.
In quel momento, invece, ero stesa supina sul mio letto con la testa pendeva da un lato del materasso. Fissavo la scrivania come se fosse la mia unica ancora di salvezza. Come se potesse animarsi da un momento all'altro e mettersi a farmi aria sventolando due enormi foglie di palma.
Fuori pioveva. 
Pioveva a dirotto e questo lasciava ben prevedere l'imminente aumento della già soffocante percentuale di umidità nell'aria. Ero talmente stravolta dai fastidiosi valori climatici da non riuscire nemmeno ad interpretare il mal tempo con un presagio di morte in stile Cooman.
Emily era seduta per terra, la schiena e la testa contro la porta, stravolta quanto me. Tuttavia, nonostante il caldo soffocante stesse rischiando di ucciderci entrambe, lei non faceva che pensare alla festa di quella sera. La festa di compleanno di Marijuana Thompson. Tuoni e lampi.
"Non so cosa mettermi stasera" mi confessò con un sospiro.
"Che disdetta" commentai atona, continuando a fissare il tavolo. La mia voce suonava un po' gutturale per via della scomoda posizione che mi ostinavo a tenere.
"Potrei mettere il vestito azzurro che ho comprato la scorsa settimana" continuò assorta. "O potrei farmi prestare quello nero da Jasmine..."
"Jasmine?" 
Una delle calamità naturali che quella sera avrebbero minato la mia esistenza con i loro sciocchi punti interrogativi? Perché, lo sapevo, una volta scoperto che ero quella esiliata in campagna, le domande sarebbero piovute come l'acqua di fuori in quel momento.
A completare la scenetta, mio fratello, dall’altra stanza, alzò al massimo il volume del computer, tutto preso dalla canzone che stava ascoltando.
 
Oh shit, caught that nigga alone
Ain't that a bitch
Hey, uh, this one here is, uhh
for them niggaz that be Johnny Dangerous when they be fuckin fifty deep
But they be fuckin cowards when they by theyselves
You know who I'm talkin about
(You know who I'm talkin about) that's right
You ain't shit without your homeboys
You ain't shit without your homeboys
You ain't shit without your homeboys 
(**)
 
Meraviglioso. Ci mancava proprio il rap per coronare quel momento si smaronamento assoluto. 
"Oh, è una delle ragazze che ho conosciuto girando con Mary".
"Ah, capisco" brontolai scontenta. Arricciai il naso e voltai il capo verso la finestra.
"Non so se è peggio questo schifo di umidità, il rumore delle gocce sull'impalcatura o quella roba che ascolta tuo  fratello" osservò Emily, stiracchiandosi pigramente.
“L’umidità” risposi prontamente. Ero terribilmente insofferente, molto più del solito. Detestavo quel clima con tutta me stessa. “Lily, è così che caldo che anche il mio letto sta sudando!” piagnucolai lamentosa. 
Odio, odio profondo per il caldo e l’umidità! 
Lei rise. “Non sarai tu a sudare?” suggerì divertita.
Scossi meccanicamente il capo. Anche quel semplice gesto era frutto di un’enorme sforzo di volontà. “Assolutamente no. Sono troppo stravolta per sudare, è il lenzuolo che suda!”
Rise di nuovo. “Se lo dici tu! Penso che ti stia andando il sangue alla testa, però”.
Probabile, constatai. Stavo sragionando.
Mi trascinai un po’ più in su in modo da evitare che il capo ciondolasse.
Fu in quel momento che arrivò un SMS al suo cellulare. Emily gattonò fino alla scrivania, recuperò il telefonino e tornò a spalmarsi sul pavimento alla ricerca di refrigerio. “È Mariah” mi comunicò, sorridendo tra sé. “Chiede se stasera porterò qualcuno alla sua festa”.
Era un modo come un altro per chiedere conferma della mia partecipazione.
Sbuffai. Era l’ultima cosa a cui avevo voglia di pensare in quel momento. No, non volevo andarci. “Devo proprio venire?” chiesi, spostando lo sguardo sul soffitto.
La intravidi alzare il capo per guardarmi. “Mi farebbe molto piacere. E poi sono certa che ti divertiresti”.
Sospirai nuovamente. Sapevo che aveva ragione. La pigrizia –notevolmente acuita dal caldo- mi impediva di provare entusiasmo per qualunque cosa comprendesse lasciare il letto -o eventualmente divano o pavimento- e muovermi fino ad un altro posto. In fondo però sapevo che, come tutte le altre volte, Emily non avrebbe lasciato che mi annoiassi. In sua compagnia ero sempre stata in una botte di ferro, nulla poteva urtarmi davvero. Infastidirmi sì, ma in fondo erano davvero poche le cose che non mi davano fastidio.
“E va bene” le concessi, infine, con poco entusiasmo.
Lei batté le mani con entusiasmo. “Fantastico! Oh, non vedo l’ora che sia stasera! Ti presenterò Mary, Jasmine, Chanel e ...”
“Oh, sono proprio curiosa di conoscere quella di nome Chanel!” commentai sarcastica. Già me la vedevo: una biondona alta e formosa, vestita di tutto punto, di cui persino la tinta per capelli era firmata. Talmente ricca da prendere appunti sulla carta moneta. Sempre che non pagasse qualcuno affinché prendesse appunti per lei. “Chanel: un nome, una garanzia” recitai divertita, mimando con una mano una scritta a caratteri cubitali su un cartellone pubblicitario. Roba da far sentire Paris Hilton una stracciona, insomma.
Emily sospirò, esasperata. “Sei impossibile, Pan!” mi rimproverò leggermente stizzita.
Ok, sì, forse avevo troppi pregiudizi. Ma, insomma... Chanel?! Mi serviva battute acide e pensieri maligni su un piatto d’argento, maledizione!
La udii respirare a fondo e posare il telefono per terra. “Promettimi che stasera non sarai così scortese”.
Sarebbe stato decisamente poco carino da parte mia essere così acida con le amiche della festeggiata, quando la mia presenza era dovuta solo ed esclusivamente alla disponibilità di quest’ultima. Non che fosse mio desiderio andarci, ma dovevo ammettere che sarei risultata parecchio maleducata. Avrei potuto fare uno sforzo, una volta tanto, no? “Prometto che, se non mi sentirò offesa da nessuno, non sarò affatto scortese” snocciolai, mettendomi una mano sul cuore e chiudendo gli occhi. Rotolai sulla pancia per guardarla negli occhi. “Farò del mio meglio” le assicurai.
Emily mi sorrise. “Sei sempre la migliore”.
Giusto per non smentirmi mai, abbozzai un sorriso malandrino. “Non mi hai fatto giurare” le ricordai.
Lei alzò gli occhi al cielo. “Vai, avanti” acconsentì divertita.
Giuro solennemente di non avere buone intenzioni!” recitai profondamente soddisfatta. Rotolai nuovamente sulla schiena, ridendo di gusto.
“Anche se devi ammettere che questa formula non si adatta molto ai tuoi buoni propositi” osservò, stendendosi nuovamente sul pavimento. 
Il momento di serietà era finito, ora potevamo tornare alle nostre solite occupazioni, ovvero delirare beatamente.
Ridemmo. Entrambe, insieme. Come una volta, come avevamo sempre fatto. 
Ridemmo di cuore, ridemmo come due migliori amiche che potevano contare l’una sull’altra.
 
 
DubbiDomandeDelucidazioni:
*è così che si dice si faccia il malocchio. Questa è una citazione potteriana solo a metà. In realtà, cercando su internet le parole esatte che Hermione dice nella Pietra filosofale durante la famosa partita di Quidditch, ho capito che non è una 'tecnica' che si è inventata la Rowling. Anche se non ho voluto approfondire, perché, ecco, non amo questo genere di cose (magia nera, sedute spiritiche, ... *rabbrividisce*). Che l'occulto stia dov'è, io sto dove sono; io non do fastidio a lui, lui non ne dia a me. (E, che ci crediate o meno, questa volta sono seria^^").
** è l’inizio della canzone Homeboyz di 2pac. Canzone per la quale ringrazio MT, che me l'ha suggerita (perché io di rap non capisco un Botubero), anche se dubito leggerà mai queste righe. Qui trovate il video: http://www.youtube.com/watch?v=rw1bPCrht_Y


In der Ecke - Nell'angolo:
SO che questo capitolo è cortissimo e SO che è orribilmente di passaggio. E anche orribile e basta. Perdonatemi, cercherò di postare al più presto il seguente. 
Spero che si noti quando Pan tenga al rapporto con l'amica e anche che, comunque, qualcosa tra loro è cambiato. 
In compenso, ci tenevo a farvi vedere i disegni di Mary_ di cui ho parlato la scorsa volta nell'Angolo: qui trovate Aggie e invece QUI c'è la sua Pan. Devo ammettere che sono davvero molto somiglianti a quelle che avevo immaginato, motivo per cui posso essere doppiamente felice!
Ne approfitto per ringraziarti pubblicamente, Mary_!:D Alzo -di nuovo- un calice in tuo onore! ^^
Sperando di non avervi deluso troppo con questo capitolo, vado a lavorare sul prossimo. Cercherò di postarlo presto, perché ve lo devo e perché ve lo meritate. :D
Nel prossimo Pan andrà alla festa di Marijuana Thompson, sperando di riuscire a renderla come la immagino. 
Alla prossima!:D



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Capitolo 24
*** 24 ***



Cows and jeans
 
24


 
Quella sera, alle otto, Emily se ne stava in piedi accanto alla porta della mia stanza, le braccia incrociate, un piede che batteva ritmicamente contro il pavimento, e un sorriso scettico in volto. “Scordatelo”.
“Ma da quando hai deciso che dobbiamo girare nude?” domandai, a mia volta scettica.
Indossava un abito nero, così corto da essere riuscita a far arrossire Joshua, quando le aveva aperto la porta –e questo è tutto dire!- e impallidire me, quando era entrata.
“Ma sotto ho il costume, non fare la lagna!” spiegò lei, sbrigativa.
Ah, be’, se sotto aveva il costume, allora... 
“Ok, anche io ho il costume. Mi hai avvisata e io l’ho messo. Evviva le piscine, yuppie!” ciarlai, senza pensare troppo a ciò che stavo dicendo.
“Ma dai, Pan! Andiamo a una festa, non puoi vestirti così!” continuò Emily. Alzò un braccio per indicarmi, poi lo lasciò cadere lungo il suo fianco.
“Sì che posso!” Almeno io non ero in mutande! Ah, pardon, in costume. Indossavo un paio di shorts di jeans, un t-shirt bianca –su cui l’estate passata avevo disegnato il simbolo dei Doni della Morte- e delle scarpette da ginnastica. Va bene, non ero Miss Eleganza, ma non pensavo nemmeno totalmente fuori luogo. Era un caldo assurdo e stavamo per andare ad una festa in piscina. Ok, era in un locale piuttosto rinomato, ma non avevo alcuna intenzione di cambiarmi. (Anche perché il mio guardaroba era sprovvisto di vestitini inguinali o gonnelline varie).
“Cambiati la maglia, almeno!”
“Fa così schifo?” la gaurdai, tirandone in avanti l’orlo. “No, senti, vado benissimo vestita in questo modo” decisi, poi, lasciando che tornasse alla sua forma originale. “Io sono così, starò attenta a non essere troppo acida, ma non mi cambierò d’abito!”
“Abito? Sei vestita da spiaggia!” mi corresse, vagamente esasperata.
Non obiettai che in spiaggia avrei indossato le infradito e non le scarpette, mi limitai a sorriderle, facendo segno di diniego con il dito indice. “Prendere o lasciare!”
Emily sbuffò. “Posso lasciare la tua maglietta e prendere te?” tentò un’ultima volta, mettendo su un broncio fatto apposta ad intenerirmi.
Ssssì, aspetta e spera!  Cuore-Di-Pietra-Fletcher in azione!
Il mio sorriso si allargò. “No!” risposi dopo qualche istante con voce limpida e allegra. Poi afferrai la tracolla e trotterellai al piano inferiore, seguita da una migliore amica dall’aria afflitta.
Mia madre si alzò dal divano vedendoci arrivare. Si avvicinò per salutarci, raggiante come tutte le sue amiche che volevano dimostrare di essere buone mamme. “Andate di già? Non tornate tardi, mi raccomando!”
“No, certo che no” le assicurò Emily, sorridendole gentilmente.
“Ma vai alla festa vestita così, tesoro?” si informò mia madre, squadrandomi. Sembrava che mi avesse vista in cosplay da orso Yoghi. No, non avevo mai avuto la costanza necessaria a mettere insieme un buon cosplay, nè la voglia di procurarmi un costume da orso, ma il paragone rende bene l’idea. “Sembri...”
Alzai gli occhi al soffitto. “Cosa?” domandai, paziente, attendendomi già il peggio.
Felicity mi osservò per qualche secondo, poi scosse il capo. “Non importa. Sono sicura, però, che a Emily non dispiacerebbe prestarti uno dei suoi abiti per una sera” suggerì, suscitando l’approvazione della mia migliore amica.
Inarcai le sopracciglia. “Ne sono certa anche io, ma se volevo indossare un vestito l’avrei fatto” replicai, piccata. Non ero proprio riuscita a mantenere del tutto la calma. Giuro che, però, ci avevo provato. Era più forte di me: per quanto mia madre potesse cercare di darmi consigli e suggerimenti, ogni volta che la udivo pronunciarne uno, ero spinta da una misteriosa e stizzita forza interiore a fare esattamente il contrario. Ora, una madre astuta –o quantomeno normale-, dopo un po’ avrebbe fatto due più due e avrebbe sfruttato la psicologia inversa a proprio favore. Felicity invece no. Se il motivo fosse la sua scarsa furbizia o il suo disinteresse non lo sapevo. Chiaramente, però, non era nei miei interessi sedermi accanto a lei, un giorno o l’altro, e dirle ‘Ehi, ma’! Sai che potresti fregarmi ben benino utilizzando la psicologia inversa? Perché non lo fai?”. Sarebbe stato un tantino controproducente.

Ventisette minuti dopo Emily stava parcheggiando in doppia fila esattamente di fronte all’entrata del locale chiamato “Equilibrio Instabile” (*). Anche il nome era tutto un programma. Immaginavo già Marijuana Thompson capitombolare ogni tre passi, ubriaca fradicia, e cadere nella piscina. Calzava a pennello.
“Pan, seriamente, avresti dovuto metterti qualcosa di più...”
Sospirai e scesi dalla macchina prima di ascoltare il resto della frase.
Avrebbe dovuto apprezzare il fatto che fossi andata lì con lei, quando per tutto il pomeriggio la mia testa non aveva fatto che strillare di non accompagnarla. Il pensiero di andare alla festa di compleanno di qualcuno che non conoscevo, senza regalo e senza che la festeggiata mi avesse mai rivolto la parola non mi entusiasmava. Sapere, poi, che la data persona era quella che mi stava sostituendo nella vita della mia migliore amica non migliorava la situazione.
Visto e considerato che non ascoltavo quasi mai il mio saggio cervellino, però, ci ero andata. Entrando, Emily disse i nostri nomi ad una ragazza, la quale scorse la lista degli invitati e ci lasciò passare.
Anche se la musica si sentiva fino a dove eravamo noi, l’interno era praticamente vuoto, cosa che mi mise in agitazione. Sembrava essere a tutti gli effetti una festa per pochi. Che cavolo ci facevo io lì? “Lily, senti...” iniziai, guardandomi attorno, incerta. “Domani ti do metà dei soldi del regalo. Mi sento una scroccona” le comunicai. Emily rise, attraversando un corridoio dopo l’altro con naturalezza, come se fosse a casa propria. “A Mariah non dispiacerebbe sapere che non le hai portato niente, ma se può farti sentire meglio... ok” mi rassicurò, prendendomi a braccetto. Gliene fui grata, avevo bisogno di supporto in quel momento. Mi sentivo un pesce fuor d’acqua. Era un’imbucata ad una festa privata a cui ero stata trascinata con la forza. Oh, magari non proprio brutalmente, ma rimaneva il fatto che non avrei voluto andarci. Non sarei dovuta andarci.
Entrammo in una stanza dove lasciammo le borse, chiuse in un armadietto con tanto di lucchetto e continuammo il nostro percorso.
“Quanto è grande questo posto?” domandai, dopo che avemmo oltrepassato una terza porta. Se avessi dovuto uscirne da sola, non credo sarei stata in grado. “È labirintico”.
Lei rise di nuovo, indicandomi l’ennesima porta che ci sbarrava la strada. “Abbiamo attraversato tutto il palazzo dall’interno. A destra dello spogliatoio in cui abbiamo messo le borse c’erano anche le docce. Queste altre stanze e i corriodoi sono pullulanti di persone, di solito, è una festa continua. Oggi però la famiglia di Mariah si è riservata tutto il locale di modo da non avere troppa gente tra i piedi. Hanno pagato loro l’entrata per tutti i presenti” recitò come una guida turistica. Quell’ultima frase mi fece sentire un vero e proprio verme. Se avevo imparato qualcosa stando a Sperdutolandia, quello era dare il giusto valore al denaro, che era pur sempre frutto del lavoro e della fatica di qualcuno. Come potevo spendere i soldi di qualcuno che neanche conoscevo? Mi sentivo tremendamente in colpa.
Quando Emily spalancò la porta, offrendomi così la visuale della piscina all’aperto e del giardino del locale, ma sopratutto dell’infinità di persone che si davano alla pazza gioia nei paraggi, capii di essermi preoccupata per niente. Almeno la metà dei presenti sono imbucati, constatai vagamente sorpresa. Avrei dovuto saperlo. Come avevo potuto credere che al compleanno di Marijuana Thompson non si fosse autoinvitata mezza città –o almeno mezza scuola? Le feste di quella ragazza erano leggendarie, in fin dei conti. Le voci di corridoio su ogni sua santissima sbornia erano giunte alle orecchie di tutti, avrei dovuto immaginare che la notizia della festa non sarebbe stata da meno.
“Per la Barba di Merlino!”
Emily rise e mi diede una gomitata, trascinandomi poi in mezzo alla gente. “Non ti chiederò di parlare come mangi, perché so che mangi pane e Potter da quando sei nata!”
Ridacchiai a mia volta, pensando che non vietarmi di invocare il nome dei grandi maghi del passato ogni volta che ne sentivo il bisogno era il minimo che potesse fare. Anche perché non ero sicura che sarei stata in grado di trattenermi, se me lo avesse chiesto. “Pane, cioccolata e Potter! Non posso abbreviarlo P.P.P., ma così è la vita” bofonchiai, saltellando a destra e a manca per non essere urtata da qualche invitato troppo scatenato per accorgersi della mia presenza. In fin dei conti mi ero preoccupata per niente, la gente che aveva usufruito della disponibilità economica dei signori Thompson era parecchia, non sarei stata di certo io a mandarli in rovina.
“Ma che cosa stai dicendo?”
Ridemmo, poi mi invitò a seguirla nella sua ricerca di Mariju-... Mariah Thompson. Dovevo comportarmi bene quella sera, glielo dovevo, quindi tanto valeva che iniziassi a chiamarla con il suo nome.
Quando  io ed Emily uscimmo dalla folla e lei si diresse verso l’angolo bar, notai subito la figura  slanciata della festeggiata ondeggiare sul posto, scossa dalle risate, mentre chiacchierava con un gruppetto di ragazze. E ondeggiava nel vero senso della parola, segno che probabilmente aveva ben pensato di iniziare a bere fin da subito, nonostante ormai fosse chiaro a tutti che non reggeva l’alcool. Come inaugurare il diciannovesimo anno di vita? Ma scolandosi fiumi e fiumi di liquidi trafora-organi-interni, ovviamente!
“Emy!” esclamò, vedendoci arrivare. Si tuffò verso la mia migliore amica e i suoi lunghissimi capelli neri mi frustarono la faccia. Iniziamo bene, osservai strizzando gli occhi infastidita.
“Ciao!” salutarono anche le altre, allegramente.
“Ciao!” Emily abbracciò la festeggiata. “Tanti auguri, bellissima!”
Oh, sì, una meraviglia di ragazza. Con quella faccia da pesce lesso che si ritrovava dava davvero l’idea di essere intelligente. La perfezione in persona. Ok, io non ero uno splendore, ma ne ero consapevole e nessuno era mai stato così meschino da mentirmi spudoratamente in proposito.
“Grazie, tesoro!” trillò l’altra, allontandosi di un passo da lei.
“Ti presento Pan Fletcher, Mary”.
Cavolo, non credevo mi avrebbe presentato ufficialmente. Mi irrigidii e mi sforzai di sorridere, quando gli occhioni svampiti di Mariah si spostarono su di me. “Piacere di conoscerti, ho tanto sentito parlare di te!” mi porse un mano, sorridendo gentilmente. Al contrario delle altre simpatiche signorine, lei non mi aveva squadrata da capo a piedi con disgusto. Non mi aveva squadrata per niente, in realtà, si era limitata a guardarmi negli occhi.
“Oh, anche io” le assicurai, pensando che effettivamente non avevo sentito che cose positive su di lei -da Emily per lo meno, e potevo fidarmi del suo parere- quindi forse avrei dovuto smettere di giudicarla in base ai diffusi pettegolezzi su di lei.
Notai con sorpresa che il suo sguardo era lucido. Svagato, sì, ma non aveva l’aria di aver alzato troppo il gomito.
“Piacere”.
“Sei in classe con me a matematica, giusto?” si informò, strizzando gli occhi nello sforzo di ricordarsi di me.
Mi grattai un braccio imbarazzata. “Sì, sì. Lo ero” la corressi.
“Ah, giusto, perché ora abiti a... dov’è, che abiti?”
Sospirai, consapevole del fatto che il momento delle domande era giunto. “Oh, ehm... è un paesino sperduto nel nulla, decisamente troppo lontano da qui” mi limitai a rispondere, stringendomi nelle spalle.
Le tre ragazze con cui stava chiacchierando Mariah poco prima si alzarono dai loro sgabelli e si schierarono accanto a noi. “Bella maglietta” commentò una di loro, divertita.
Oh, meraviglioso. Ci mancavano solo le super star all’attacco.
Quella che aveva parlato era alta, snella e schifosamente prosperosa. Tutta invidia, dite? Sì, cavolo, perché Dean aveva ragione quando diceva che ero piatta come una tavola!
Le scoccai un’occhiata in tralice. “Grazie. Chanel, giusto?” azzardai.
Lei si accigliò sorpresa. “Esatto. Ci conosciamo?”
“No, non ancora” ...e sia ringraziato Merlino per questo.
“Ah, quindi tu sei la Sfrattata!” Se ne uscì un’altra, guadagnandosi un’occhiataccia da parte mia.
“Come, scusa?”
Sgranò gli occhi azzurri pesantemente truccati. “Sì, insomma, quella che hanno cacciato di casa. Non si dice così?” si informò, interrogando con lo sguardo l’ultima delle ragazze.
“Certo, Asja” le assicurò Chanel con superiorità.
“Sì, può essere corretto” confermai, rendendomi conto di quanto quell’affermazione potesse farmi passare da secchiona. “Però non credevo di essermi guadagnata questo appellativo” conclusi, sforzandomi di sorridere educatamente, sotto lo sguardo severo di Emily. “Nessuno ti chiama così” mi rassicurò quest’ultima.
Se anche fosse stato me lo avrebbe mai detto? Le riservai un’occhiata scettica, poi ricordai i miei buoni propositi e cercai di mantenere la calma.
“Oh, credevo di aver cannato di brutto!” ridacchiò la bruna rispondente al nome di Asja.
“È per quello che ti vesti così?” domandò l’ultima, con una buona dose di cattiveria nella voce. La guardai e, se solo mi fosse interessato qualcosa di ciò che pensava, quel suo sguardo di ghiaccio mi avrebbe fatto sentire una sciocca nullità al cospetto di una potente regina. Grazie al cielo la mia autostima era già bassa normalmente e non mi importava più di tanto di risultare un grandissimo cesso accanto a lei.
Quella doveva essere Jasmine Meaddows, di cui avevo sentito tanto parlare durante quel pomeriggio. Ora capivo perché Emily volesse chiedere consiglio a lei su come vestirsi: vedendo come si atteggiava doveva essere l’esperta di moda del gruppo. 
“Perché, come mi vesto?” domandai, inarcando le sopracciglia. Ok, mi vestivo male, lo sapevo e non mi importava, ma la prima Principessa Disney di passaggio non poteva credere che io mi sarei lasciata insultare senza battere ciglio: nel caso non l’avesse notato, io non ero una principessa della Disney nè tantomeno degli gnomi (**). Senza contare che non avevo capito il collegamento tra Sperdutolandia e i miei vestiti.
“Di denim” rispose, annoiata, indicando il giubbotto che mi ero portata dietro in caso iniziasse a far freddo –in realtà lo speravo.
“Continuo a non capire” obiettai, sempre più curiosa di sapere dove sarebbe andata a parare.
Nel frattempo la musica era stata alzata di volume e il cantante dei Good Charlotte si chiedeva per quale motivo la gente gli rivolgesse la parola.

I'm paranoid of all the people I meet 
Why are they talking to me? 
And why can’t anyone see 
I just wanna live 
Don’t really care about the things that they say 
Don’t really care about what happens to me 
I just wanna live 
(***)

Era quello che mi stavo chiedendo anche io: che diavolo voleva da me quella ragazza? Non poteva semplicemente farsi gli affari suoi e ignorarmi, come aveva sempre fatto quando per caso mi aveva incrociata nei corridoi della scuola?
Mariah esplose in un grido di gioia, riconoscendo la canzone e io trasalii per la sorpresa.
“Troppo bella! Just wanna live, just wanna live, just wanna live, just wanna live!” cantò a squarcia gola, per poi afferrare Emily per le mani e trascinarla con sè in mezzo a tutta la gente che –invitata o imbucata che fosse- si stava dimenando lì intorno.
In preda ad un moto di rabbia serrai i denti con stizza. Che diritto aveva Marijuana Thompson di strapparmi in quel modo la mia migliore amica proprio quando avevo bisogno del suo appoggio? Era per lei che ero a quella festa, era per lei che stavo cercando di non sfoderare la mia solita acidità per tenere il mondo lontano da me. Ma Marijuana Thompson era più importante, evidentemente.
Jasmine sogghignò, divertita dalla mia espressione. “Di jeans” specificò come se fossi troppo stupida per sapere cosa fosse il denim. In realtà mi ero quasi passata di mente la conversazione, presa com’ero dalla mia gelos-... rabbia.
“So cosa significa” sottolineai, dimentica del mio proposito di comportarmi bene. Anche se, in fondo, avevo detto che sarei stata gentile solo se non mi fossi sentita offesa in alcun modo. “ma non capisco cosa c’entri con il posto in cui vivo”. Certamente non mi sarei mai aspettata di prendere le difese di Sperdutolandia. Eppure in quel momento era tra le mie preoccupazioni primarie evitare che venisse insultato quel posto, che decisamente non aveva nulla da invidiare alla città. Specie per quanto riguardava le persone.
La ragazza ridacchiò e aggrottò le fini sopracciglia, in attesa di qualcosa che sembrava convinta stesse per accadere. Si scambiò un’occhiata di intesa con Chanel, che iniziò a ridacchiare pregustando quel qualcosa.
Non risposi, continuai a guardare entrambe in attesa di una risposta che si potesse ritenere tale.
Fu Asja a prendere parola e da un lato non mi stupii di sentire una frase così sciocca uscire dalle sue labbra. “Ma scusa, non lo sai? In campagna tutti si vestono solo di jeans.”
Aprii la bocca per ribattere, ma non avevo le parole necessarie a farlo.
Boccheggiai stranita.
Per un attimo mi chiesi se fossi io la stupida della situazione –forse mi ero persa qualcosa?-, poi vidi Jasmine e Chanel ridere della loro amica e capii che, no, non ero l’unica a credere che quella fosse una delle più grosse scempiaggini mai proferite da un essere umano.
“Ah. No, non lo sapevo” ammisi sconcertata, stringendomi il giubbotto tra le braccia.
Asja rise ignara dello sguardo sprezzante di Jasmine fisso su di lei. Sentii una stretta allo stomaco e non potei evitare di fulminare la seconda con lo sguardo. “Come è possibile? Forse non ti sei ancora abituata. Non hai mai visto un film ambientato in campagna, però? Là tutti indossano jeans e camice a quadrettoni rossi”.
Fulmine a ciel sereno! Non potevo crederci.
Soffocai una risata. “E scommetto che non fanno che spostare mandrie di bovini!” esagerai, pensando a quante volte delle stupide pecore si erano piazzate in mezzo alla strada impedendomi il passaggio verso il paese. Magari ci fossero state solo mucche a Sperdutolandia!
“Che...?”
Vacche” suggerì Jasmine con aria di superiorità.
“Oh, !” confermò Asja annuendo. “Hai fatto mente locale, vedo!”
Risi apertamente, senza riuscire ad  evitarlo.
Che assurdità!
Avevo dimenticato quanto la gente di città potesse essere ridicola e quanto sciocche potessero essere le loro convinzioni su come andavano le cose in campagna.
“È una vita tutta mucche e jeans, eh?” continuavo a ridere senza riuscire a fermarmi, avevo le lacrime agli occhi e il respiro corto.
Fu solo quando Emily tornò e Jasmine la intortò con stupide chiacchiere a proposito del suo magnifico vestito, che capii: la domanda retorica con cui aveva esordito –e che aveva causato tutta la conversazione- era stato un puro e semplice insulto, piuttosto esplicito nei miei riguardi, ma infinitamente subdulo nei confronti di Asja. Il secondo fine era, infatti, ridere assieme a Chanel di Asja, che tra le quattro era evidentemente la più sciocca.  Come si poteva prendersi gioco in quel modo di un’amica? Quanto si poteva essere meschini?
“Ehilà! Vedo che avete fatto amicizia!” esclamò Emily, tornando tra noi insieme a Mariah. Sembravano divertirsi un mondo.
Le rivolsi un’occhiata scettica e divertita allo stesso tempo, ma non feci in tempo a rispondere che la voce bassa e musicale di Jasmine intervenne con entusiasmo. “Oh, sì! La tua amica è proprio simpatica, Ems!” si complimentò, come se il mio carattere fosse merito suo.
La guardai, incredula. Mi ero di nuovo persa qualcosa o sua maestà era un tantino lunatica?
Emily mi sorrise di cuore, ringraziandomi con lo sguardo per la mia buona volontà. Sorrisi di rimando, incapace di non essere influenzata dal suo buon umore.
Dopotutto avrei trascorso con quelle ragazze solamente qualche ora e sarebbe bastato portare pazienza per un po’, poi in macchina avrei riversato tutta la mia acidità in mille commenti poco carini. Sì, dovevo solo attendere fino al momento del ritorno a casa.
Prima che potessi dire qualunque cosa a Emily, Jasmine aveva già preso a monopolizzare la sua attenzione con discorsi apparentemente intelligenti. In realtà non ne ero del tutto certa poiché la musica era alta, lei parlava a bassa voce e io non riuscivo a sentire niente di ciò che stava dicendo.
Stavo ancora cercando di intercettare qualche parola quando la mia migliore amica si allontanò una seconda volta da me, questa volta accompagnata da Miss Simpatia.
Un secondo moto di rabbia mise a dura prova i miei nervi, mentre seguivo con lo sguardo la coppia che si allontanava. Quella Jasmine stava giocando col fuoco e ne era consapevole. Aveva intenzione di rovinarmi la serata? Buon divertimento a lei! Non avrebbe avuto problemi a vincere quella sfida.
Quando si volse a lanciarmi un’occhiata di pura irrisione, prima di sparire tra la folla, ebbi la netta sensazione che Jasmine ce l’avesse con me -ero acuta, eh?-, che stesse cercando di allontanarmi da Emily. Non fisicamente, quanto più moralmente. Era sciocco da parte sua, visto che abitavo ad un numero incalcolabile di chilometri da lei e una settimana dopo sarei tornata a Sperdutolandia, senza avere più la possibilità di vedere la mia migliore amica per mesi. Proprio per questo mi diedi da sola della sciocca paranoica e decisi di farmi un giro. Non mi aspettavo di incontrare qualcuno che mi andasse particolarmente a genio, in fondo non avevo molti amici a parte Emily. In realtà ero mossa esclusivamente dal desiderio di potermi fare gli affari miei, il più lontano possibile dall’irritante presenza della ridacchiante Asja e dalla formosa Chanel. Ma soprattutto dall’aria svagata e un po’ da Luna Lovegood di Mariah Thompson, che continuava a guardarmi allegramente come se fosse certa che avremmo potuto essere grandi amiche.
Approfittando del fatto che le tre ragazze stavano chiacchierando tra loro, iniziai a passeggiare pigramente tra la gente, schivando ogni sguardo curioso o interessato e cercando di evitare di cozzare contro i ballerini più scatenati.
Mentre costeggiavo la piscina, notai con sorpresa che persino Matt si era imbucato alla festa. Aveva i folti ricci fermati da una fascetta, che dava alla sua chioma ribelle la curiosa forma di un fungo. Quando gli passai accanto stava gettando nell’acqua un amico, interamente vestito, tra gli strilli di alcune ragazzine indignate per via degli schizzi.
Optai per non disturbare la sua serata, così continuai a camminare senza fermarmi a salutarlo. Caso volle, però, che Matt si girasse e mi vedesse, proprio mentre cercavo di sgattaiolare via senza essere notata.
“Ehilà, Pan!”
Arrossii per la vergogna e ridacchiai, grattandomi un braccio. Temevo pensasse che lo stessi evitando e non ci tenevo a fare la figura della snob, visto che a quella feste ce n’erano fin troppe. 
“Ciao, Matt...”
“Stavi cercando di fuggire?” domandò ironico, facendo qualche passo verso di me.
“No. Ok, in realtà sì: temevo di finire come lui” risposi, indicando il ragazzo che nel frattempo era riemerso e stava gridando sproloqui davvero poco carini nei confronti dell’amico.
“No, tranquilla, sono un cavaliere, non maltratto le ragazze!” scherzò, ignorando gli insulti dell’altro, che si sedette a bordo vasca cercando nelle tasche i resti di portafoglio e cellulare.
“Potrei darti del maschilista, lo sai?”
Matt alzò gli occhi al cielo ancora in parte illuminato. “C’è qualcosa che a voi donne vada bene?” commentò divertito.
Risi. “Dipende dai punti di vista. Conosco una persona, per esempio, che adora i cavalieri” risposi, riferendomi chiaramente ad Emily.
Lui sorrise, grattandosi la testa. “A proposito, sei da sola alla festa?” domandò.
Ridacchiai nuovamente. “No, no. C’è Lily da qualche parte con Jasmine” sottolineai il nome con un certo disprezzo.
Questa volta fu lui a ridere. “La quale non ti va molto a genio”.
“No, infatti” ammisi, consapevole del fatto che non fossero molte le persone che mi piacevano.”Ma non è una novità, in effetti” spiegai, stringendomi meglio i capelli nella coda di cavallo in cui li avevo legati.
Matt mi osservò qualche istante, poi sogghignò con aria malandrina. “Hai il telefono in tasca, per caso?” si informò, divertito.
Stranamente capii al volo le sue intenzioni e feci un passo indietro, allarmata. “Certo:  cellulare, mp3, portafogli e un documento segretissimo ed importantissimo che, in caso venisse bagnato e cancellato, potrebbe compromettere le sorti  dell’intera popolazione mondiale. Insomma, non puoi proprio lanciarmi nell’acqua, no” sciorinai con disinvoltura, sperando di essere convincente.
Per quanto sparassi enormi sciocchezze con la naturalezza di una professionista, Matt non era così stupido come speravo. Scoppiò a ridere, per nulla toccato dal mio discorso da Oscar –che ingrato!- e, senza smettere di sghignazzare come una iena, mi afferrò per un braccio per trascinarmi fino alla piscina.
“Ehi, no! MATT, NON PROVARCI NEANCHE!” sbottai in un ultimo, patetico tentativo di rimanere asciutta.
Un istante dopo stavo cadendo goffamente in acqua, saldamente avvinghiata al braccio di Matt: aveva vinto lo scontro, sì, ma non ne sarebbe uscito indenne. Quale poteva essere la miglior vendetta se non sfruttare la sua stessa forza per trascinarlo in acqua? 
Stavo gongolando, mentre cercavo di tornare a galla, quando mi trovai il ginocchio di Matt piantato in mezzo alla schiena. Note per me stessa: ricordarsi di non essere travolta dal troglodita, quando lo si trascina in piscina  per vendetta.
Riemersi sputacchiando acqua e cloro a destra e a manca e Matt comparve al mio fianco un istante dopo.
“Ah, carogna!” esclamò, strofinandosi gli occhi.
“Io, eh? Tu non eri il cavaliere senza macchia e senza paura che non malmenava le donne?”
“Credevo di risultare un maschilista!”
Diedi una manata alla superficie dell’acqua, indispettita: me l’ero cercata. “Per la barba di Merlino, ma tu ancora mi dai retta, Kameron?!” esclamai, nuotando fino al bordo vasca.
“Per... per che cosa?!” domandò, confuso, raggiungendomi. 
Mi issai a sedere sul bordo. Sbuffai, togliendomi la maglietta fradicia e decisamente trasparente. “Oh, non cambiare discorso!”
Avevo avuto la mezza idea di non mettere il costume, quella sera. Avevo già deciso che non avrei fatto il bagno, ma poi mi ero detta che non mi costava nulla non comportarmi da prevenuta, una volta tanto. Grazie al cielo!
“Sì, be’, ascolto quando le persone parlano e tendo ad accontentarle quando esprimono i loro desideri. Non volevi forse non essere trattata da femminuccia? ...Non dire una parola, Steve” aggiunse poi, rivolto all’amico a cui poco prima era stato riservato lo stesso trattamento. “Battuto da una donna” bofonchiò, contrariato.
Gli lanciai un’occhiataccia, strizzando la maglietta nel tentativo di liberarla almeno un po’ dall’acqua. “Rettifico: sei un maschilista a tutti gli effetti!”
Il ragazzo che rispondeva al nome di Steve scoppiò a ridere di nuovo e, per ripicca, Matt mi spintonò facendomi cadere di nuovo in acqua. Quando riemersi ridevano entrambi e io mi impegnai per sputacchiare l’acqua che avevo ingerito addosso a loro. Con scarsi risultati. “Sei l’incoerenza fatta persona, lasciatelo dire!” proclamai, issandomi a sedere sul bordo della piscina per la seconda volta.
“Ma va’! Sto solo cercando di essere amichevole, ma non ti va bene nulla!” obiettò, divertito. “A proposito, chi sarebbe Kameron?”
Gli lanciai un’occhiata stranita. Si era bevuto il cervello? “Cosa c’entra Kameron?”
Matt sorrise sornione, togliendosi i capelli dalla faccia. “Mi hai chiamato così poco fa”.
“Non è vero!”
“Sì, che è vero”.
“No che n-“
“Sì e io sono testimone” confermò Steve.
Incrociai le braccia con stizza e lo guardai in tralice. “Scusa, ma chi ti conosce?!”
Lui sgranò gli occhi e ridendo finse di cucirsi la bocca.
“Non cambiare discorso” mi citò Matt, guadagnandosi un’altra occhiataccia.
Oh, insomma, non era niente di grave, no? Si trattava solo di un...
“Lapsus Freudiano?”
Strinsi le labbra con disappunto, trucidando Matt con lo sguardo per avermi preceduta. Sbuffai, ricordandomi che non avevo cinque anni e non tutto era uno stupido gioco da vincere. “Be’, sì” ammisi con un’incurante alzata di spalle.
“Chi è?”
“Un mio amico” risposi, gelida. Sapevo dove voleva arrivare. Sarebbe giunto a battere nuovamente sullo stesso chiodo dell’ultima volta che avevamo parlato, ne ero certa.
“L’amico del CD, eh?” ammiccò, con in volto l’aria di chi la sapeva lunga.
Bingo. Sospirai scocciata, stringendo i capelli nei pugni per far sgocciolare l’acqua. “Esatto” annuii, in attesa di assistere al momento in cui, di nuovo, si sarebbe improvvisato grande consigliere di corte e mi avrebbe dato qualche dritta per conquistare il ragazzo del mio cuore. Peccato che Kameron fosse realmente e a tutti gli effetti solo un amico, quindi delle sue stupide trovate non me ne facevo niente.
“Ah! Un piccolo grande amore che non è ancora sbocciato!” gioì, dandomi di gomito, mentre quello Steve si scuciva quella cacchio di ciabatta che aveva al posto della bocca e tornava a ridersela di cuore.
“Oh, certoElementare, Watson” borbottai, sarcastica. “Uno dice ‘amico’ e il genio di turno si fa più vaggi di Cristoforo Colombo! Naturale!”
Matt ridacchiò e ammiccò verso l’amico. “Guarda come si scalda, Steve! Ci abbiamo visto giusto!”
Incrociai le braccia e gli rivolsi un’occhiata densa di scetticismo. I miei occhi stavano lanciando fulmini e saette quella sera, e dire che erano normalissimi occhi castani! “Complimenti Piton, ancora una volta la tua mente acuta e penetrante ti ha condotto alla soluzione sbagliata (****)” brontolai con stizza.
“Come mi hai chiamato?”
“Oh, chiudi il becco, Babbano!” sputai, decidendo che forse era il caso di piantarla con certe citazioni, almeno quando parlavo con persone che non conoscevano la mia mente malata. “Pensa piuttosto a ripagarmi per i danni subiti” consigliai, alzandomi in piedi.
“Ma quali danni?”
“Mi hai dato una ginocchiata mentre affogavi!” gli ricordai, indecisa se ridere o essere indignata.
“Ah, be’, allora credo proprio che ti offrirò da bere”.
“Ora sì che ragioniamo!”

Mezzora dopo ero seduta al bancone dell’angolo bar con Matt e il suo amico impiccione. Avevamo fatto tappa negli spogliatoi per tentare di asciugarci, ma poi eravamo tornati a schizzarci a colpi di bottigliette d’acqua e tutto si era dimostrato inutile.
“Ma conosci la festeggiata?” me ne uscii ad un tratto, sorseggiando una birra ghiacciata.
Matt si grattò i capelli ormai tristemente afflosciati sulla sua testa –sembrava un barboncino bagnato. “L’ho sentita nominare...”
“Anche tu sei imbucato, quindi?”
“Non propriamente. Il signorino qui presente era un invitato e mi ha costretto a venire. Ha una stratosferica cotta per la sign- ahia!” Steve gli aveva rifilato una poderosa gomitata, mentre con naturalezza continuava ad osservare il barista preparare un cocktail. “Eh? Hai detto qualcosa Matt?”
“Ma dico, sei scemo? Mi rompi una costola!”
“Ossa di pasta frolla, amico?” suggerì, inarcando le sopracciglia.
Scoppiai a ridere come un’idiota bella e buona, come se non avessi mai visto una scena più divertente. Sentivo un gran bisogno di ridere e Steve e Matt avevano esaudito questo mio inespresso desiderio con estrema tranquillità, senza che io chiedessi loro nulla. Dopo l’inquitudine trasmessami da Jasmine, con la propria subdola irrisione nei confronti di chi la considerava un’amica, quello che mi ci voleva era proprio un po’ di sano divertimento in compagnia di chi non aveva altra aspirazione se non quella di farsi due risate in compagnia.
Poi accadde una cosa che mi lasciò di stucco e, devo ammettere, non compresi in un primo momento. Sentii Emily chiamare il mio nome, quindi mi voltai verso di lei, ancora raggiante per via delle risate. Fui stupita nel vederla esterrefatta, accanto a Jasmine, che guardava verso di noi. Come mai quell’espressione?
Il suo sguardo si mosse da me a Matt e ritorno, poi si riempì di delusione. E di lacrime.
Saltai giù dallo sgabello, pronta a correrle incontro, a chiederle cosa avesse, ma lei fuggì verso gli spogliatoi coprendosi il viso con le mani. Piangeva.
La seguii con lo sguardo, senza capire cosa stesse esattamente succedendo, poi lanciai un’occhiata a Jasmine che abbozzò un sorrisetto compassionevole e si incamminò rapida per raggiungere Emily.
“Comunque Matt non vedeva l’ora di incontrare quella Lily, checché ne dica” disse Steve in quel momento.
Fu come un fulmine a ciel sereno quando compresi l’enorme equivoco di cui dovevamo essere vittime: Lily credeva forse che tra me e Matt ci fosse del tenero?
“Cavolo!” sussurrai, sconcertata.
“Hai detto qualcosa?”
Non risposi alla domanda di quell’idiota di un commesso –il quale, poverino, non c’entrava poi nulla, ma solo il fatto che mi rivolgesse la parola in quel momento era imputabile- e corsi a mia volta verso gli spogliatoi.
Fu un’impresa piuttosto ardua orientarmi tra tutti quei corridoi, come ci riuscivano gli svalvolati che frequentavano quel posto? Ok, avevo un pessimo senso dell’orientamento, è vero. 
La trovai nei bagni. O meglio, trovai Jasmine, che mi comunicò che Emily si era chiusa  in una delle toilette e non voleva vedermi. Toilette. Doveva proprio essere una persona raffinata. 
“Oh, avanti, che sciocchezze dici?” obiettai, superandola. “Lily?” chiamai, fissando le porte dei gabinetti come se potessi vedervi attraverso.
“È stata chiara in proposito” ripeté con decisione.
“Be’, sii chiara anche tu allora: a che gioco stai giocando?” sputai, stizzita, certa che fosse tutta colpa sua. Come avrebbe potuto Emily pensare che a me interessasse Matt? Aveva sempre avuto fiducia in me, come io ne avevo in lei. Qualcun doveva averle riempito la testa di fesserie.
Normalmente non avrei mai immaginato che qualcuno potesse ingannare Emily a quel modo, ma era cambiata fin troppo da quando me ne ero andata e questo significava che era più fragile di quanto io avessi mai pensato. L’avevano, o meglio: Jasmine l’aveva –potevo dirlo quasi con certezza-, trasformata in una sorta di frivola ed egocentrica imitazione della ragazza che conoscevo. Quanto sarebbe stato difficile per lei, se aveva tanta influenza sulla mia migliore amica, farle credere che tra me e quello zuccone di Matt ci fosse una storia? Magari aveva anche bevuto, quella sciocca, e questo non faceva che destabilizzare la sua razionalità.
Jasmine si limitò a rivolgermi un falissimo sorriso. “Io non sto giocando, lei non vuole vederti”.
La signorina non mi stava rendendo le cose facili, ma forse qualcosa di positivo in tutto quello c’era: sarebbe stato difficile chiarire con una persona momentalmente sconvolta e poco propensa ad ascoltare. Avrei aspettato il giorno seguente, quando io avrei saputo cosa dirle esattamente e lei, forse, avrebbe avuto la mente fredda e lucida.
Sospirai. “Va bene, allora, dille che io vado a casa, ne parleremo domani”.  Non aspettai risposte, perché ero certa che Emily mi avesse udita benissimo.
Mi allontanai e proprio mentre stavo uscendo dal bagno, Jasmine mi salutò con una delle migliori frasi ad effetto che le avessi sentito pronunciare.
“Vai a casa con Matt?”
Le rivolsi uno sguardo truce, stizzito e contemporaneamente esterrefatto. “No, perché dovrei? Chiamo mio padre” specificai.
La serata non era decisamente andata nel migliore dei modi, pensai mentre recuperavo le mie cose nell’armadietto in cui Emily le aveva riposte. Effettivamente, però, sarebbe anche potuto andare peggio. Matt e Steve erano state una boccata d’aria fresca, anche se quell’ultima bella sorpresa fattami da Jasmine aveva sortito l’effetto di una doccia fredda. Avevo un pessimo presentimo, sentivo che il giorno seguente non avrei chiarito proprio nulla con Emily. Ma non era possibile, la nostra amicizia non sarebbe finita per un malinteso, doloso che fosse. La nostra unione era salda. Eravamo cambiate entrambe, forse, ma non sarebbe tutto finito per colpa di Miss Perfezione. Non volevo. Non sarebbe successo. Non poteva succedere.
Eppure avevo un enorme groppo  in gola e mi sentivo uno straccio.

A distanza di tempo seppi con certezza che la supposizione che Jasmine volesse allontanarmi da Emily era corretta: era popolare, bellissima ed intelligente, ma ciò che a quella ragazza mancava davvero erano il sapersi accontentar e la capacità di accettare i difetti altrui.
Nel gruppo con cui girava, Emily pareva essere l’unica veramente degna della sua compagnia, dal suo punto di vista. Mariah era popolare e assurdamente ricca, ma quell’aria stravagante che aveva stampata in faccia si attineva fin troppo al suo essere semplice: tutto quello che le importava era ridere, divertirsi, e fare in modo che gli altri facessero lo stesso; non esitava a mettersi in ridicolo in mezzo alla strada solo per far sorridere qualcuno e questo era decisamente imbarazzante per chi aspirava ad essere vista come perfetta. Senza contare che era anche piuttosto sveglia ed era l’unica in grado di tenerle testa durante una discussione. Non era un genio, ma era determinata e sicura di sé: tanto bastava perché Mariah non crollasse davanti ai subdoli giochetti di Jasmine.
Per quanto riguardava Asja, Jasmine la trovava decisamente stolta e non era riuscita a liverarsi di lei solo perché a Mariah piaceva molto e, in fondo, era divertente osservarla mentre insultava da sola la propria intelligenza.
Chanel era quella che più di tutte poteva sembrarle amica, ma non lo era: a Jasmine non piaceva che lei si credesse alla sua altezza, visto e considerato che la sua intelligenza non era di molto superiore a quella di un canarino.
Emily invece era umile, simpatica e disponibile. Intelligente, ma non secchiona, carina, ma non meravigliosa. Era abbastanza, ma non troppo. La giusta misura per stare a fianco di Miss Perfezione senza farla sfigurare.
Poteva scordarselo, se pensava che io avrei mai mollato l’osso.





DubbiDomandeDelucidazioni:
(*) i credits per il nome vanno a M.F., che durante il pomeriggio in compagnia degli esercizi di fisica se ne è uscita con un “Equilibrio Instabile. Però! Sarebbe un bel nome per un locale”. Detto fatto! :D
(**) Principessa degli gnomi è l’appellativo con cui Dean chiamava Pan nei primi capitoli.
(***) La canzone è I just wanna live dei Good Charlotte. Qui il video!
(****) In realtà non so perché dovrei inserire una nota a questo proposito, comunque: frase tratta dal film Harry Potter e Il prigioniero di Azkaban (ho dato una letta veloce anche nel libro, lì non mi pare ci sia, ma potrei sbagliare), pronunciata da Gary Oldman (Sirius Black!:3).

In der Ecke – Nell’angolo:
In realtà, ci tengo a sottolinearlo, la Jasmine della Disney è una delle mie principesse preferite. u.u Quella che proprio non sopporto è Biancaneve, l’unica principessa più inutile dell’inutilità stessa. Tanto di cappello anche a lei solo ed esclusivamente perché è stata la prima. :3
(Apro e chiudo una parentesi –letteralmente: oh, lo ammetto, ho seriamente pensato alla coppia Matt/Pan. Non so voi, ma io, mentre scrivevo, per un attimo ci ho pensato sul serio. ^^")
Ed è così che, con un ultimo ringraziamento a Bob, la mia beta, che nonostante l'influenza ha corretto questo capitolo.
Ah, come promesso, per tutti i coraggiosi che sono arrivati fino a qui ci sarà un premio -immaginario! Su, su, ragazze, non siate materialiste, è il pensiero che conta! :D
Però, ecco, ci tenevo a mostrarvi un'altra opera d'arte di Mary_. Questa volta è toccato a Emily essere ritratta, se fossi in lei ne sarei onorata -a dire il vero lo sono anche se non sono lei: http://marybleis.deviantart.com/art/Emily-Gregor-282686254
Propongo di brindare a Mary_! ^^ Naturalmente offro io. xD
Bene, gente, credo sia tutto.

Quante di voi sono (state) sommerse dalla neve come me? :O Noi in Romagna siamo ancora a casa da scuola per un paio di giorni. Potreste anche aver visto la mia Cesena al TG, siamo diventati famosi con tutta questa neve. u.u
Sono curiosa di sapere cosa pensate di questo capitolo. È pesante? Noioso? Scontato? (Molto probabile).
A voi la parola! :D

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Capitolo 25
*** 25 ***



Be', direi che questo va a mio fratello. 
L'ultima parte, almeno.
Magari prima o poi saprà che gliel'ho dedicato. :3

Cows and jeans
 
25



Ci sono giorni in cui l’unica cosa che si vorrebbe è essere dimenticati in un angolo come un vecchio giocattolo polveroso e sgangherato, potersi chiudere in un mondo alternativo, lontano da tutto e tutti, dove immergersi liberamente nelle torbide acque dei propri pensieri. E affogarci, magari.
È in questi giorni che un paio di cuffie funge da porta blindata, occludono ogni via di intromissione e isolano da tutto ciò che si vuole rimanga fuori dalla mente. Si cerca di fuggire in universi alternativi, di distrarsi, di trovare soluzioni. Tutto ciò che si vuole è stare soli, non essere disturbati, riflettere in pace, anche a costo di arrendersi totalmente alla malinconia e rimetterci il buon umore per giorni e giorni. Sono momenti di ostinazione a cui solo poche persone possono strapparci. Ci si chiede dove siano, perché non ci stiano lanciando quel dannato salvagente, perché ci lascino affogare come uno stupido sasso incapace di galleggiare e sopravvivere da solo.
Intorno alle undici e mezza di quella mattina la madre di Emily aveva telefonato a casa mia: Emily dormiva, era meglio che non telefonassi o avrei rischiato di svegliarla e non sarebbe stato carino da parte mia.
Perché prendersi il disturbo di strapparmi al mio dolce sonno, riportarmi a forza tra le persone coscienti e chiedermi di non fare lo stesso con la mia migliore amica?
Perché Emily era sveglia, lucida e soprattutto molto arrabbiata, era chiaro.
La giornata non sarebbe potuta iniziare in modo peggiore.
Mi ero sbafata un’intera confezione di biscotti per colazione sotto lo sguardo disgustato di mio fratello e poi ero sprofondata sul divano della sala, dove avevo passivamente assistito a ben due dei programmi sportivi che Josh aveva registrato durante la settimana e deciso di guardare quella mattina. Per metà del tempo, in realtà, avevo fissato -senza davvero vederlo- il meraviglioso pianoforte a coda che mamma e papà avevano comprato a Joshua quando aveva iniziato a prendere lezioni. Aveva sempre odiato quello strumento, nessuno dei suoi amici sapeva che sapeva suonarlo (e piuttosto bene).
Avevo passato tutto il pomeriggio a poltrire, senza nemmeno alzarmi per pranzare con mia madre, George e Joshua –e come avrei potuto, con tutti biscotti che avevo ingoiato?
Lasciai il divano solo per andare a prendere l’mp3 in camera mia, poi tornai alla mia massiccia dose di autocommiserazione, questa volta al riparo tra le note delle più tristi canzoni che l’uomo abbia scritto.
Come poteva Emily credere che io ci stessi provando con Matt? Insomma, stavamo parlando di me, Pan! Io, cavolo, quella che non si nota a meno che non si rischi di caderle addosso perché non sta guardando dove va; quella a cui nessuno sta simpatico e che nessuno vuole tra i piedi. L’asocialità fatta persona, quella decisamente poco interessante o interessata a quasi ogni cosa.
Anche il cane di mio fratello mi guardava con aria triste, accucciato ai piedi del divano. Mi chiesi se essere compatita da un labrador non significasse toccare il fondo.
Ci sono quei momenti, mentre hai le cuffie nelle orecchie, che l’mp3 – l’iPod, la radio o quello che è- ti propone solo canzoni che ti fanno saltare i nervi. Allora cambi, ma la successiva è sempre peggiore della precedente. È un circolo da cui sembra impossibile uscire.
In uno di quei momenti, mandai al diavolo mentalmente l’unico amico sempre fedele che avessi – l’mp3, appunto – e mi alzai dal divano. Mio fratello accolse questa mia iniziativa con un’occhiata scettica che diceva tanto “Ma dove vuoi andare, che tanto fra tre secondi torni qua a poltrire?”.
Aveva perfettamente ragione e ne ero consapevole, ma questo non mi impedì di andare a prendere il telefono e comporre il numero di Emily.
Ero ipertesa. Cosa mi avrebbe detto? Come aveva potuto credere alle menzogne che sicuramente Jasmine le aveva rifilato? Come mi sarei giustificata? Perché avrei dovuto giustificarmi se non avevo fatto nulla di male?
Il tuuu-tuuu-tuuu del telefono mi irritava terribilmente. Ogni tuuu che risuonava mi faceva venir voglia di riagganciare.
Non risponderà.
Allora perché telefoni?
Perché non potevo credere che lei mi ritenesse così meschina.  
Diavolo! Perché non risponde, si può sapere?
Come poteva pensare che l’avrei tradita in quel modo? Non aveva senso. Non era possibile, non era credibile. Non era da me! Come non era da lei credere a certe idiozie.
Controllai il display del telefono: stava suonando da un minuto e dieci secondi.
Riagganciai.
Non c’era nessuno a casa. O quantomeno nessuno che volesse parlarmi.
Ottimo.
Tornai in salotto e mi gettai di nuovo sul divano, la faccia in giù tra i cuscini.
“Se vuoi soffocare dimmelo, ti do una mano” si offrì Joshua.
Voltai il capo verso la spalliera, così da non poterlo vedere né essere vista.
Non mi degnai nemmeno di rispondergli, mentre la mia mente immaginava le possibili reazioni di Emily la prima volta che ci saremmo finalmente parlate.
Ero così impegnata ad autocommiserarmi – insomma, ogni tanto fa bene, no? Non si può mica credersi sempre grandi e indistruttibili! – che non mi accorsi delle quattordici incursioni di mia madre in salotto per richiamarci all’ordine. Quasi.
Ogni presenza al di fuori di me era avvertita dalla mia testa bacata come qualcosa di fatiscente. Nulla mi tangeva né veniva percepito chiaramente.
Quando però qualcuno bussò alla mia spalla, non potei proprio evitare di voltarmi con un’espressione da morto vivente. “Sì?” bofonchiai, incrociando lo sguardo accigliato –e truccato – di mia madre.
“Sbrigati o faremo tardi!”
“Cosa?”

“Non cosa, ma dove!”
Strizzai gli occhi, infastidita, e lanciai un’occhiata truce. “...Eh?”
Quale madre può pretendere che, dopo mezza giornata di ripetuti tentativi di suicidio mentale, sua figlia sia in grado di ragionare a mente lucida? Magari quella di Jasmine-come-diavolo-si-chiama, ma la mia poteva anche scordarselo!
“Corri a cambiarti, su!”
Lanciai un’occhiata esasperata a mio fratello che, steso sull’altro divano in giacca e cravatta, rispose al mio sguardo stringendosi nelle spalle. “Perché?” protestai un’ultima volta, cercando di farle capire che non avevo alcuna intenzione di alzarmi da lì.
“Perché sono le sette, Pan, dobbiamo andare a cena dai Meaddows”.
Cosa mi importava se lei doveva andare a mangiare da... “DA CHI?” gridai con voce strozzata, tirandomi su a sedere. Dovevo sembrare particolarmente folle, con l’aria da zombie e gli occhi sgranati come se mi avessero appena annunciato la resurrezione di Freddie Mercury.
Mia madre cercò l’appoggio di Joshua con lo sguardo, preoccupata per la mia salute mentale. “Dagli Hortus, tesoro. I genitori di Malcom. Qualcosa non va?”
Oh. Avevo capito male. Arrossii per la vergogna: ero una vera idiota. Mi stavo facendo condizionare dalla paura della reazione di Emily a una colpa che non avevo, quando avrei dovuto mantenere la calma. Avevo reagito piuttosto bene la sera precedente, quella giornata di paturnie mentali aveva mandato all’aria tutti i miei buoni propositi. La Pan di un tempo sarebbe scattata in piedi, sarebbe corsa a casa di Emily per chiarire e avrebbe minacciato i suoi fratelli per rintracciarla, in caso non fosse stata in casa. Ma dov’era quella Pan? Forse in fondo eravamo cambiate entrambe. Qualcosa mi diceva che la nuova Emily non era più la mia migliore amica di sempre, non ero sicura che si sarebbe fidata di me.
Basta, dovevo smettere di pensarci. Sarebbe andata come era destino andasse.
Sbuffai. “Perché devo venirci anche io?” continuai, a voce decisamente più bassa di prima. Non potevo rimanere a casa senza dar fastidio a nessuno? Avevo un’amicizia da ricostruire, dovevo decidere come farlo  e non ero mai stata molto brava nel risolvere i problemi.
“Perché hanno invitato a cena l’intera famiglia”. Si stava spazientendo, odiava quando facevo i capricci. Peccato che lei non sapesse la differenza tra ‘fare i capricci’ e ‘voler stare da sola’. Avevo esigenze diverse dalle sue, avrebbe dovuto farsene una ragione. Odiavo quando faceva la madre vissuta e consapevole: non lo era, praticamente non mi conosceva.
“Ah, quindi ci sarà papà?” sputai, acida.
Felicity rimase a bocca aperta, come se l’avessi schiaffeggiata, poi sospirò e distolse lo sguardo.
Mi sentii in colpa, vedendola così. Abbassai a mia volta gli occhi e mi alzai in piedi per andare a cambiarmi, rassegnata all’idea che a quel punto come minimo le dovevo un minimo di obbedienza.
“Ti ho comprato un vestito questa mattina. Mettilo, se ti va” mi suggerì, un attimo prima di andarsene in un’altra stanza.
Io sbuffai, conscia del fatto che mi sarei dovuta mettere quell’abito, o mi sarei sentita colpa a vita.

Ero fin troppo malleabile quando ero di umore così cupo. Maledizione.

“...E così Charles ha dovuto licenziarlo. Non è stato un bell’affare, proprio no” cinguettò la padrona di casa con aria teatralmente dispiaciuta. A stento la sentii, impegnata com’ero nel silenzioso tentativo di una Smaterializzazione senza bacchetta.
Prima di arrivare lì non avrei mai creduto che il mio morale potesse sprofondare più di così, ma ovviamente mi sbagliavo.
Mi stavo annoiando a morte e questo non faceva che aumentare la mia insofferenza. Questa volta, almeno, il caldo non infieriva sul mio umore, anche se la temperatura in casa era così bassa che avrei volentieri dato fuoco a qualcosa per riscaldarmi. Ero assolutamente a favore dell’aria condizionata, ma così si esagerava!  
Avevamo finito di cenare da più di tre quarti d’ora e i signori Hortus, George e Felicity stavano discorrendo del più e del meno – perché i ricchi non parlano, non discutono e non chiacchierano, bensì discorrono.
La noia era tanta che perfino l’aspirante scassinatore esperto in intrusioni domestiche e il suo degno compare avevano esaurito la scorta di sciocchezze da dire. Joshua e Malcom, di fatto, navigavano in rete sul cellulare, incuranti di tutto e tutti in quella sala. Tanti saluti alla mia speranza di ascoltare una delle loro deliranti conversazioni per ammazzare il tempo.
L’unica mia consolazione era  il gatto degli Hortus, che faceva allegramente le fusa acciambellato sulle mie gambe. Era incredibile il fatto che l’unico essere vivente disposto a farmi compagnia fosse lui.
Per quanto apprezzassi il meraviglioso e solidale persiano, la sua confortante presenza non mi impediva di essere esasperata al pensiero che fossero solo le venti e trenta e che quindi sarei dovuta rimanere in quella casa come minimo altre due ore, senza alcuna possibilità di distrarmi ulteriormente o fuggire.
L’ironia della sorte tornava a farmi visita, notai, ma avevo sempre meno voglia di vederla.
La vita è più facile per te, vero?, pensai, accarezzando il gatto.
Ho sempre avuto la certezza che gli animali siano telepatici e ne sono tutt’ora convinta.
Non devi essere migliore di nessuno, non devi far fronte a stupide perfettine che vogliono strapparti l’unica amicizia che tu sia stato in grado di coltivare negli anni.
Non devi fare altro che dormire e mangiare. Che invidia!
Che ne dici, ci scambiamo di posto? Potrai dire quello che pensi a questi stupidi che ti credono un peluche, così, e io potrò graffiare e ignorare tutto e tutti senza sembrare psicopatica.
Accarezzare un animale è terapeutico, si sa. C’è chi crede che i gatti assorbano le vibrazioni negative emesse dall’uomo.
Per qualche motivo l’affetto di quel gatto mi faceva sentire realmente meglio. Era come se mi comprendesse, se mi stesse vicino per evitare che io sprofondassi nel mio mal umore. Era assurdo, ma l’idea mi rasserenava un po’.
Poi, ovviamente, gli umani mi strapparono alla mia bolla di apparente quiete.
“Oh, per l’amor del cielo!”
L’esclamazione della padrona di casa suonò così mortificata che tutta la popolazione della casa sotto i vent’anni spostò la propria attenzione su di lei, sperando in qualcosa di entusiasmante. Un incendio, per esempio.
Sgranai gli occhi, allarmandomi quando notai che il suo sguardo era puntato su di me:  cosa avevo combinato? Controllai di non aver sporcato la tovaglia o la camicia di George –seduto accanto a me.
“Tarquinio, che cosa stai facendo? Scendi subito di lì, la insozzerai tutta!”
 Mi ci vollero diversi secondi per capire che stava parlando al gatto. Quanto può ‘insozzare’ qualcosa un gatto il cui pelo veniva spazzolato ogni due ore?
Gli lanciai un’occhiata che voleva essere compassionevole. Che razza di nome ti hanno dato, povera creatura?
“Tarquinio!” strillò nuovamente la donna, ottenendo il risultato di svegliare l’animale. Lui puntò i grandi occhi verdi verso la padrona, con uno sguardo così sprezzante e intelligente che sembrò riderle in faccia.
Sentii un nuovo moto di affetto per quel gatto.
“Non importa, non mi dà fastidio” lo difesi, sorridendo cortese, carezzandogli il capo. In realtà non era esattamente cortesia, quanto più stima nei confronti dell’animale.
“Sì che importa, Tarquinio sa che non deve fare dare noia agli ospiti. Ti avrà riempito il vestito di peli!”
Oh, mi creda, questo poveraccio è l’unico che non mi annoia! “No, davvero, non...” Ma ogni mia possibile obiezione fu interrotta dall’estremamente tempestivo intervento di Malcom, che scattò bruscamente verso di me per spaventare il gatto, facendo sobbalzare anche – solo – me. Tarquinio balzò in piedi e scese dalle mie ginocchia. Si stiracchiò, agitò e drizzò la coda con aria di superiorità, poi lasciò la stanza, offeso, sotto il mio sguardo implorante. Traditore!
Sospirai, rassegnata all’idea di trascorrere la serata più noiosa di tutta la mia vita in completa solitudine. Non mi rimaneva che rimuginare su quanto miserabile fosse la mia vita. Mai nulla – nulla! – poteva andarmi bene, evidentemente. Dovevo essere nata sotto il segno zodiacale della Sfiga! (*)
“Vieni, cara, ora ti diamo una ripulita!” si offrì la signora Hortus. E quando dico ‘si offrì’, intendo ‘mi obbligò’, incurante del fatto che qualche ciuffo di peli sul vestito non era la fine del mondo per me. Si fiondò nella stanza accanto e tornò con un’apposita spazzola. Mi fece alzare e prese a spazzolarmi l’abito, borbottando qualcosa sulla somma maleducazione di Tarquinio: non aveva proprio imparato nulla, quello zoticone! Evidentemente la signora non conosceva bene i felini, o avrebbe saputo che i gatti non si possono addomesticare, ma sono loro a decidere quando, se e con chi essere affabili.
“Oh!” esclamò la mia gongolante madre, quando la padrona di casa fu finalmente soddisfatta della sua  -mia – pulizia. “Pan, tesoro, non ti vedevo così femminile dall’ultimo saggio di canto!”
Joshua scoppiò a ridere sentendomi definire in quel modo. Come biasimarlo?
Feci una smorfia accuratamente poco femminile e le lanciai un’occhiata truce. Cos’aveva in mente? Perché se ne usciva con certe esclamazioni? Non poteva semplicemente lasciarmi in pace? 
Ero paranoica? Un po’, ma odiavo essere infiocchettata come una bomboniera, odiavo essere al centro dell’attenzione e odiavo che qualcuno mi squadrasse falsamente ammirata come stava facendo la signora Hortus.

“Oh, cara, davvero tu canti?”
Per quanto mi sarebbe piaciuto bofonchiare che no, non cantavo, semplicemente mia madre era una scema a cui piaceva dar aria alla bocca, pensai che non sarebbe stato carino. Mi limitai a stringermi nelle spalle. Mi stavo per risedere, quando la donna batté le mani con entusiasmo. “Oh, allora vogliamo proprio sentirti cantare!”

“Oh, – iniziavo ad odiare quella semplice esclamazione – no che non vuole, glielo assicuro” sorrisi, gettandomi sulla sedia. Io non volevo, non volevo assolutamente. 
George mi diede una pacca di incoraggiamento sulla spalla, che ottenne l’unico risultato di infastidirmi ancora di più. “Avanti, Pan!”
“No, non è il caso, davvero” mi schermii.

“A pensarci bene è un sacco di tempo che non ti sento cantare...” sospirò Felicity.
Forse è perché mi hai spedito a chilometri da casa? Hai vinto fin troppe battaglie questa sera, strega! Mi hai fatto indossare questo coso ridicolo, non otterrai altro da me, per quanto di malumore io possa essere! E, ah, tra parentesi, così facendo non aiuti, mamma.
“Su, fallo per tua madre!” continuò George, che evidentemente non poteva evitare di perorare le cause altrui nemmeno al di fuori del lavoro.
“Ne saremmo davvero felici, cara, sul serio” bofonchiò il signor Hortus, l’unico che fino a quel momento non avevo ritenuto fastidioso.
Tutti mi guardavano, tutti mi parlavano, tutti cercavano di farmi fare qualcosa che non volevo e tutti avrebbero presto riso di me e della mia pessima esibizione. Non si poteva cantare con quello schifoso nodo alla gola, cavolo, non potevano limitarsi a ignorarmi come avevano fatto fino a quel momento?
“E va bene” sputai infine, desiderosa di togliermi da quella situazione il prima possibile.
Prima avrei cantato, prima avrei finito, prima sarei tornata a farmi gli affari miei.
“Oh, meraviglioso!” esclamò felice la padrona di casa. “Mettiti lì, accanto al piano!”
“Cosa ci canti, cara?”
Nella vecchia fattoria. No, meglio qualcosa di più corto: Tanti auguri a te! No, un attimo... “Macosì? A cappella? Niente musica?” domandai, allarmata.
“Sì, perché no?” 
Perché no? George, dannazione, perché non canti tu!?

“Let it be!” squittì mia madre con entusiasmo, ignorando del tutto la mia domanda.
Ah, certo, doveva decidere lei! “Non credo, no”.
“Ma dai, Pan! Hey Jude, allora!”
“Ah, no, non posso, non so le parole”. Bugia. Non volevo cantare ciò che voleva mia madre, se dovevo farlo e per di più a cappella, volevo scegliere io una canzone. Sarebbe stata un’impresa epica cantare con quel groppo in gola che mi permetteva a stento di parlare, come minimo il brano volevo conoscerlo bene, giusto per non risultare del tutto ridicola.
“Candle in the wind?”
“Nemmeno”.“Oh, lo so io!” intervenne la signora Hortus.

Furono tre minuti di inferno. Non sapevo dire chi tra le donne presenti mi proponesse testi più assurdi. Fino a che azzardavano titoli famosi, forse, potevo capire cosa stessero cercando di farmi fare, ma non conoscevo di certo tutti i gruppi di musica leggera dei loro tempi.
Per quanto mi riguardava potevano trascorrere il tempo rimasto a discutere quale canzone scegliere, senza che io dovessi cantare, ma mi sentivo sempre più stupida, minuto dopo minuto.
Alla fine fu il rumore di una sedia che veniva spostata rumorosamente a riportare il silenzio. Joshua aveva messo in tasca il telefono. Si alzò in piedi. “È accordato il piano?” bofonchiò accennando al pianoforte addossato alla parete lì accanto.  
Sgranai gli occhi, chiedendomi se fosse impazzito, mentre andava a sedersi sullo sgabello. Malcom lo osservava incredulo, tanto quanto mia madre. Io, se possibile, ero quella più esterrefatta. Cosa lo spingeva a fare una cosa del genere? Aveva sempre odiato suonare. O meglio, aveva sempre odiato l’idea che si sapesse in giro.

“Oh, certo che sì. Lo suono personalmente ogni giorno, ne sono certa”.
Joshua premette qualche tasto e dalla sua smorfia contrariata capii che non era come la signora Hortus sosteneva.
“Josh...?” azzardai, incerta. Era sicuro di ciò che stava per fare? Poteva ancora tirarsi indietro.
Non rispose, limitandosi a far scivolare le dita sui tasti.
“Meraviglioso!” squittì mia madre, sul punto di scoppiare in lacrime. “Erano anni che non facevate qualcosa del genere! Mi suoneresti quella canzone che mi piace tanto, Josh? Quella di...” Ma Joshua non lasciò che Felicity esprimesse la propria preferenza.
Le prime note di una canzone nota ad entrambi portarono nella stanza un silenzio colmo di stupore, riempito solo dalle vibrazioni sonore del pianoforte.
La riconobbi subito, ma le mie corde vocali sembravano paralizzate. Cantò lui la prima strofa, con voce ruvida e un po’ incerta, come per ricordarmi le parole del testo. Hey Lucy, I remember your name, I left a dozen roses on your grave today, I'm in the grass on my knees, wipe the leaves away, I just came to talk for a while, I got some things I need to say”. (**)
È assurdo come una canzone possa far venire le lacrime agli occhi in una sola strofa. Probabilmente fu a causa del malumore di quel giorno e della tristezza di cui il testo era intriso, ma ingoiare l’enorme groppo che avevo in gola fu un’ardua impresa, paragonabile all’inghiottire uno dei biscotti pietrosi di Hagrid. 
Puntai lo sguardo in un punto indefinito del soffitto, per concentrarmi e allo stesso tempo per fermare le lacrime che minacciavano di uscire, dopodiché mi schiarii la voce e feci l’inevitabile: 
“Now that it's over
I just wanna hold her
I'd give up all the world to see that little piece of heaven looking
back at me”.


Come l’ultima nota terminò di risuonare nella stanza, Joshua si alzò dallo sgabello e tornò al suo posto a tavola, senza degnare nessuno di uno sguardo. Si vergognava da impazzire e questo mi fece sentire tremendamente in colpa.
Mia madre e la signora Hortus si esibirono in un milione di complimenti, che nemmeno ascoltai. Proclamai a mezza voce di aver bisogno del bagno e corsi fuori dalla stanza, senza riuscire più a controllare le mie emozioni. Sgattaiolai fuori dalla porta della casa e andai a sedermi sulle scalette d’ingresso, dove lasciai che quelle dannate lacrime sgorgassero, visto che ci tenevano tanto, quella sera.
Non sapevo nemmeno perché stessi piangendo, esattamente. Era tutto così strano, così confuso. Il mondo si era capovolto!  La mia migliore amica perdeva la fiducia in me e mio fratello suonava di fronte al suo migliore amico pur di evitarmi l’impaccio di affrontare da sola il pubblico peggiore che i miei nervi potessero sopportare. Emily non si fidava più di me e Joshua mi sosteneva come mai aveva fatto prima. Si era sacrificato per me. Sarei mai riuscita a fare lo stesso per lui?
Mi sentivo piccola e inutile; insignificante, infantile e schifosamente lagnosa. Me ne stavo lì a piangere senza motivo, quando in casa mio fratello si stava sorbendo da solo tutte le domande e le esclamazioni che quella gente non avrebbe potuto fare a meno di sputare fuori. Sarei dovuta essere al suo fianco e invece... Invece ero sempre la solita egoista, che in testa aveva solo se stessa e una montagna di sciocchezze potteriane su cui arrampicarsi.


DubbiDomandeDelucidazioni: (*) questa frase mi è stata ispirata dalla fanfiction “La Bottega dei Desideri” di Lirin Lawliet, quindi praticamente tutti i diritti per questa esclamazione vanno a lei. Da quando ho letto quel primo capitolo de La Bottega mi sono innamorata dell’immensa sfiga della sua protagonista e dell'oroscopo che la accompagna! :3
(**) Lucy – Skillett. Oltre a mettermi i brividi, ho scelto questa canzone perché è stata fregata proprio dal “patrimonio” musicale di mio fratello. ^^ Personalmente mi sono di recente innamorata di questa canzone suonata esclusivamente sul piano, quindi ve la propongo qui:
http://www.youtube.com/watch?v=elGTi3JvuEc&feature=fvsr
Questa invece è la versione originale col testo, in caso vi interessi: http://www.youtube.com/watch?v=Z8UB3VMN20Q 


In der Ecke - Nell’angolo:
Ed ero così dannatamente esaltata all’idea di postare finalmente il capitolo 24, che la volta scorsa mi sono dimenticata di comunicarvi che, con l’immensa boiata di Asja sui jeans (unico capo d’abbigliamento diffuso in campagna, a quanto pare), è stato svelato –come se fosse stato un segreto- il perché della seconda metà del titolo “Cows and jeans”. Come Pan stessa dice nell’ottica cittadina quella di campagna è una vita “tutta mucche e jeans”. Lo so che è stupido, ma la mia mente non può fare di meglio. :3
Be', salve a tutte! Sono tornata dopo un secolo. Questo capitolo è stato difficile da scrivere. Ultimamente fatico a scrivere tutto, in realtà, ma non mi do per vinta.
Innanzitutto ringrazio Flamel_ , che ha betato questo capitolo ieri pomeriggio, permettendomi così di postare prima della mia imminente partenza. In realtà starò via solo una settimana, ma ho pensato che vi stavo facendo aspettare già da troppo tempo. 
So che questo capitolo non è un granché, ultimamente non mi riesce bene quasi nulla. In compenso posso anticiparvi che nel prossimo capitolo succederanno un sacco di cose e, se tutto va bene, sarà l'ultimo riguardante la città. 
In secondo luogo, ci tenevo a mostrarvi un'altro dei meravigliosi disegni di Mary_, che mi sta decisamente viziando. :3 http://marybleis.deviantart.com/gallery/#/d4s72sb Credo che dovrei erigerle un monumento. Chi mi aiuta? **
Be', io credo di avere finito. Sperando che la gita mi porti un po' di ispirazione, ho preparato un blocco per gli appunti da fanwriter. ^^
Grazie a tutte voi che mi avete scritto una recensione fino ad oggi, grazie a tutte voi che avete inserito la storia tra seguite, preferite e ricordate. Grazie a chi è passato anche solo per sbaglio e ha dato uno sguardo alle prime righe. Grazie a qualche eventuale maschietto, visto che finora ho parlato al femminile. Grazie a tutti, se siamo arrivati a questo punto della storia è anche grazie a voi, che mi avete incoraggiata.^^
  


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Capitolo 26
*** 26 ***



Cows and jeans
 
26


 
A tutto c’è un limite, eccezion fatta per la stupidità e qualche altro difettuccio che l’umanità sfoggia da ormai decine e decine di secoli.
Quella sera decisi di mettere un freno alla mia imminente crisi isterica e, con quella, anche al mio infantilismo.
Che diritto avevo di frignare? Avevo diciotto anni, era giunto il momento di comportarsi da persona adulta. Non bastava cacciare indietro le lacrime ogni volta che tentavano di uscire ed evitare ossessivamente qualunque avversità, per risolvere e, soprattutto, superare i problemi.
Non so come questa illuminazione giunse alla  mia mente imbottita da nuvoloni neri gonfi di tempesta, so solo che da quel momento mi impedii di piangere ancora. Mi imposi di non singhiozzare o lasciarmi prendere dallo sconforto. Per cosa mi stavo struggendo? Per paurache la mia migliore amica ce l’avesse con me a causa di qualcosa che non avevo fatto? Perpaura che mio fratello fosse maturato molto più di quanto non avessi fatto io, riuscendo per primo ad abbattere il muro di rivalità che ci aveva sempre impedito di essere amici e non solo fratelli?
A cosa sarebbe servito piangere, se davvero Emily non mi avesse perdonato? A cosa, se Joshua si era dimostrato un fratello migliore di me?
A niente, proprio come era stato inutile battere i piedi e fare il muso a mia madre per anni dopo che aveva preso la decisione di farsi una nuova vita. A un cavolo di niente!
L’unica volta, forse, che nella mia vita avevo reagito in maniera opportuna, era stato quando mi era stato ordinato di trasferirmi. Avevo preso la situazione in mano, per quanto la mia voglia di lagnarsi non fosse stata arginata da niente e nessuno, l’avevo affrontata e avevo combattuto per adeguarmi ad essa.
Le sfide della vita andavano affrontate, fuggire non serviva a nulla, lo sapevano tutti. Tante volte avevo pronunciato quelle parole con un’aria saggia che non potevo permettermi. Solo una, però, avevo seguito quel consiglio che tanto mi piaceva.
A metà farneticavo e a metà cercavo di convincermi ad essere forte.
Filosofeggiando mentalmente, trascorsi i seguenti dieci minuti cercando di ricompormi e trovare un buon motivo per andarmene senza destare sospetti. Era giusto, non dovevo fuggire dalle avversità, ma qui si trattava di noia con la ‘N’ maiuscola, e quella era tutto un altro discorso.
Tornai nella sala solo dopo aver fatto un salto in bagno a lavarmi la faccia. Malcom puntò subito lo sguardo su di me e mi chiesi cosa gli avesse detto mio fratello per giustificare il suo ‘talento segreto’. Mi avvicinai a loro, mentre gli adulti ciarlav-... discorrevano amabilmente tra loro. Si erano accorti che ero sparita per almeno un quarto d’ora? Non importava.
“Ehi, avete voglia di farvi un giro?” proposi, cercando di risultare serena e decisa. In realtà ero ancora un po’ scossa, come probabilmente si notava.
Joshua lanciò un’occhiata speranzosa all’amico, che dal canto suo si drizzò sulla sedia, decisamente interessato. “Conosci una via di fuga?” domandò.
Malgrado il mio umore praticamente a terra, mi lasciai sfuggire una risatina sarcastica. “Ah, sì, dimenticavo che tu non sai usarle: esistono misteriosi passaggio segreti chiamati ‘porte’! Sconcertante, vero?” blaterai, causando lo sbuffo di mio fratello. “Risolto questo problema, mi accompagnate in un posto?”
“Sarò il tuo tassista personale!” esclamò Malcom, balzando in piedi.
Joshua lo imitò, desideroso quanto me di lasciare quel posto. Intascò il telefonino e comunicò a Felicity che ce ne stavamo andando.
Mamma Felicity aveva intenzione di essere premurosa, tuttavia. “Come sarebbe a dire che ve ne andare? Dove? Perché?”
Abbiamo organizzato una rapina, stiamo andando in banca, auguraci buona fortuna.
La cosa migliore, quando si aveva Josh dalla propria parte, era lasciare parlare lui; gli avrebbero lasciato fare qualunque cosa, meglio non rischiare di mandare tutto all’aria con qualche parola di troppo.
Lui si scompigliò i capelli castani con aria pensierosa, guardando il soffitto. “Vogliamo fare un giro” disse, accompagnando la frase con un sospiro annoiato.
Era così teatrale, a volte, che non capivo come facesse mia madre a non perdere le staffe parlando con lui. A me capitava praticamente sempre!
“Non tornate tardi” acconsentì George, pacifico.
Un punto per l’avvocato!
Felicity stava ancora soppesando la risposta di Josh. Perchè fingeva di pensarci su? Tanto sapevamo tutti che alla fine avrebbe approvato anche la più assurda delle proposte di mio fratello. “Oh, e va bene!” sospirò, come volevasi dimostrare. “Fate i bravi!”
Joshua roteò gli occhi, mentre il signor Hortus autorizzava Malcom a uscire con un pacato cenno del capo. “Be’, allora buona notte!” salutai.
 “’Notte, tesoro!”
“Oh, buona notte, cara!”
In quel momento giurai a me stessa che, dopo quella sera, non avrei mai più detto ‘oh!’. In tutta la mia vita, ne avevo davvero avuto abbastanza.
Cinque minuti dopo, Malcom stava guidando la sua auto verso casa di Emily. Non sapevo cosa le avrei detto, come sarei tornata a casa dopo, se avrebbe accettato di vedermi, come avrebbe reagito. Non volevo pensarci, temendo di ricadere nel prematuro sconforto di poco prima.
Quando la macchina si fermò davanti al familiare cancello, afferrai la giacca e scesi, ringraziando entrambi. Sarebbe stato molto ‘da me’ congedarmi con una battutina sarcastica, ma in quel momento la mia testa era completamente vuota. Suonai il campanello meccanicamente e, quando la porta si aprì mostrando il pigiama giallo canarino e i capelli azzurri di Emily, scoppiai a piangere di nuovo, senza poter far nulla per impedirlo.
“Pan!” esclamò lei, sorpresa nel vedermi così. Corse attraverso il vialetto, scalza, aprì il cancello e mi abbracciò di slacio, come avrebbe fatto un tempo. “Che ti è successo, perché piangi? È di nuovo colpa del tuo manuale di sopravvivenza, vero?”
Aveva sempre odiato le crisi di pianto in cui scoppiavo di tanto in tanto. Mi aveva ripetuto tantissime volte che avrei dovuto abbandonare le mie regole di comportamento in situazioni critiche, non le usavo mai nel modo giusto, secondo lei. Non l’avevo mai ascoltata, preferendo fare di testa mia, preferendo piangere per ore una volta ogni tanto, piuttosto che ad ogni ostacolo.
Cominciai a farfugliare frasi sconnesse, scossa. Non riuscivo a smettere di singhiozzare, per quanto lo volessi. “Io... io, scusami, Lily, davvero, non... non ho fatto niente, non so cosa quellati abbia detto, ma ti giuro che si sbaglia!” respirai a fondo diverse volte, cercando di calmarmi, ma senza riuscirci.
“Non pensarci neanche, smettila” mi tranquillizzò, stringendomi più forte. “Non dire sciocchezze”.
“Non volevo, davvero”.
“Non volevi cosa?” domandò. “È colpa mia. Ero così... ero così spaventata all’idea di vederti cambiata che... insomma, ho pensato che... sono io che dovrei scusarmi”.
Risi, tra le lacrime. “Ma che cosa stai dicendo?”
Lei si strinse nelle spalle e sorrise mestamente. “Sono sciocca, eh?”
 “No” mi asciugai le guance con il dorso di una mano. “Io lo sono. Insomma, guardami!”
Emily mi guardò, poi sogghignò. “Effettivamente sei esageratamente sciocca, Pan Fletcher. Avevi quel vestito nell’armadio e sei venuta alla festa con la maglia di Harry Potter?”
Scoppiai in una risata lacrimosa che suonò vagamente isterica a causa dei singhiozzi che, comunque, non riuscivo a fermare. Anche lei rise, poi chiuse il cancello e mi guidò verso l’amaca sul retro della casa. Era buio pesto, ma conoscevo il giardino di Emily come se fosse casa mia. Avevamo passato tanti pomeriggi raggomitolate sull’amaca a raccontarci mille situazioni e pensieri. Quella sera, dopo tanto tempo, ritrovammo finalmente le Pan ed Emily di un tempo, quelle che non avevano paura di dirsi nulla e che potevano fidarsi ciecamente l’una dell’altra. Mi raccontò di essersi davvero arrabbiata, la sera prima. Era andata su tutte le furie e poi se ne era andata a casa, senza parlare con nessuno. Aveva trascorso la mattinata con Mariah Thompson ed era stata proprio lei a farla ragionare. Mi disse che non avrebbe dovuto prendersela tanto, era stato stupido da parte sua. Io non riuscii ad accusarla, l’unica cosa a cui pensavo era che avrei proprio dovuto ringraziare Mariah.
Poi fu il mio turno. Le raccontai di ciò che aveva fatto Joshua quella sera e di quanto fosse cresciuto. Erano cambiate un sacco di cose da quando me ne ero andata ed era difficile tornare lì e trovarsi un mondo totalmente differente da quello di un tempo. Mi lasciò parlare a lungo di tutto ciò che era successo a Sperdutolandia e che, in fondo, già sapeva grazie ai diari che le spedivo periodicamente. Le raccontai del nonno, di Dean, Kameron, Aggie, Terrence. E di Ginger, Tina, del vecchio veterinario e dei Lucas, quelle piccole pesti. Le parlai delle regole di casa, del giorno del recupero, della scioccante realtà di doversi fare la doccia fredda e svegliarsi assurdamente presto. Un fiume di parole che si riversò fuori senza che io potessi nè volessi arginarlo.
Rimase al mio fianco assurdamente a lungo, finché uno dei suoi fratelli non uscì a vedere dove lei fosse sparita.  A quel punto Emily rientrò con lui qualche minuto, poi tornò a farmi compagnia portando con sé una coperta e il proprio iPod. Disse che avevano telefonato i miei genitori e che aveva detto loro che sarei rimasta a dormire da lei. Inforcammo un auricolare a testa e notai con piacere che la sua playlist era sempre la stessa, il che significava che la mia migliore amica non poteva essere cambiata poi molto.
Cantammo a squarciagola le nostre canzoni preferite, finché uno dei vicini di casa non spalancò la finestra, sbraitando e minacciando di chiamare la polizia. Era tutto così bizzarro e allo stesso tempo normale, che non potevo che sentirmi finalmente a mio agio, finalmente al posto giusto per me.
Poi Emily se ne uscì con una domanda che mi fece quasi cadere dall’amaca. “Quindi, questo bel fusto?”
“Chi?!”
“Il ragazzo per cui hai una cotta” continuò, ammiccante.
Sbuffai. “Ah, smettila! Io in testa ho solo Harry!” Notando un guizzo allegro nei suoi occhi, decisi di specificare meglio: “Harry Potter.”
“Oh, Pan! Ma si vede lontano un miglio che hai una...”
“Non ho nessuna cotta per Kameron!” esclamai convinta. Mi sembrava di aver ripetuto quella frase milioni di volte. L’avevo fatto? Forse l’avevo solo pensata ogni volta che lei o Matt avevano fatto un riferimento a quella stupida storia. “Siamo solo amici, davvero”. Ripensai a quanto avevo chiamato ‘Kameron’ Matt. Era stato un lapsus freudiano in un momento in cui mi ero sentita serena e spensierata. Lui mi era sembrato un  amico, nonostante non fossimo che conoscenti, e probabilmente questo aveva risvegliato nella mia testa il pensiero di Kameron –che in fondo non potevo non considerare un amico sincero, sarebbe stata un’eresia.-
“Ma io parlavo di Dean”.
Mi strozzai con la saliva. “Cosa?!” Delirava? “Hai la febbre, Lily?” chiesi, in parte seriamente.
“Sto benissimo e lo sai!”
“No, sinceramente io ho seri dubbi sulla tua salute, in questo momento” replicai, sistemandomi meglio sotto la coperta. Nonostante durante il giorno il clima fosse afoso, di notte le temperature non consentivano di stare a mezze maniche all’aria aperta.
Alzò gli occhi al cielo e rimase così ad osservare le stelle. “Come no!”
La imitai e mi resi conto che ciò che avevo fatto con il naso all’insù per diciotto anni di vita non si poteva definire ‘guardare le stelle’. In confronto a quello che si poteva ammirare a Sperdutolandia, il cielo in città era una coperta di plaid blu scuro, su cui qualcuno aveva lasciato cadere le briciole di un biscotto. In campagna era tutta un’altra cosa: era una metropoli vista dall’alto, un brulicare di lucette che, se correttamente lette, svelavano mille misteri. “A volte mi pento di non conoscere le stelle”.
“Credi nell’oroscopo, ora? Sarà l’amore!”
“Ma smettila! No, mi riferivo proprio alle costellazioni. A Sperdutolandia se ne vedono un sacco, sarebbe bellissimo saperle riconoscere”.
Rimase in silenzio qualche istante, mentre tornavo a chiedermi come le fosse venuta in mente l’idea che mi piacesse Dean. Insomma, no! Non era possibile! Non mi aveva mai nemmeno sfiorata un simile pensiero. Va bene, avevo pensato che avesse un bel fisico, il primo giorno, ma tutto era finito lì. E va bene, l’avevo pensato qualche altra volta, lo ammetto, ma niente di più. Erano osservazioni oggettive, niente di particolare.
“Stai pensando a lui?”
“Cosa? No!” mi affrettai a rispondere. Arrossii.
Emily notò la troppa urgenza nella mia voce. “Ah! Sì invece!”
Dannazione. “E va bene, stavo pensando a ciò che hai detto, ma questo non significa che...”
“Che cosa romantica, non trovi? Sei stesa in giardino, guardi il cielo stellato e pensi a lui... Ah, l’amore!”
Sgranai gli occhi, incredula. Ma di cosa stava parlando? Era decisamente il momento di smetterla. “Lily, giuro che se continui a dire fesserie ti butto giù dall’amaca” la ammonii.
Lei rise. “Come s-...”
“No, davvero, ti butto giù se continui con queste sciocchezze” le garantii, cercando di suonare il più seria possibile. Insomma, non ero una persona violenta, ma quei discorsi assurdi erano davvero improponibili.
“Sei buffissima! Erano secoli che non ti vedevo innamorata!” esclamò, ridacchiando.
 “Questo è perché non lo sono!” Sbuffai.
“È una cosa così tenera... sei innamorata e...”
“Lily, per l’ennesima volta, io non sono...”
“...e nemmeno lo sai!”
“Ma stai scherzando? Ti prego, dimmi che ti sei drogata!”
Emily rise forte, come se non avesse mai assistito ad una scena più divertente. Non sapevo che pensare: era impazzita del tutto? E io che ero felice di aver finalmente riacquistato la mia migliore amica di sempre!
A me Dean non piaceva proprio per niente. A dirla tutta, non solo non lo sopportavo, ma ero quasi certa di non aver mai conosciuto un individuo più arrogante e scorbutico. Certo, peggio di lui c’erano sempre persone come Jasmine o la cara, vecchia, Cassie, ma lui poteva vantare un’impareggiabile capacità di farmi saltare i nervi con un solo sguardo. Mica poco!
Concluse le proprie grasse risate, Emily iniziò a canzonarmi allegramente: “Pan è innamorata, Pan è innamorata, Pan è inn- “
“Io ti ho avvisato, continua e finisci per terra” la ammonii di nuovo, con incuranza.
Chiaramente lei non si fece intimidire dalla mia minaccia e meno di un minuto dopo, entrambe ci trovammo col sedere sul prato, chiedendoci a voce alta che livelli avrebbe potuto raggiungere la mia stupidità.

Ci sono cose che, lo si voglia o meno, appartengono alle nostre vite e sono destinate a ripetersi periodicamente. Un po’ come l’influenza: ci si può vaccinare, ma prima o poi la si prende; è odiosa, non la si vuole, ma, inesorabilmente, quella torna a farci visita.
E così, puntualmente, il giorno dopo mi ritrovavo seduta a capotavola, nella sala per non fumatori del solito ristorante della domenica. Felicity e George occupavano i posti alla mia destra, Josh e papà quelli a sinistra.  Mamma cinguettava amabilmente, raccontando la sua settimana; George la ascoltava fingendosi interessato alle sue avventure con il nuovo microonde, mentre la sua mente correva probabilmente al suo ultimo processo; mio padre si era accorto dei sorrisi di circostanza e della mancata attenzione e borbottava tra sé, stizzito. Joshua, dal canto suo, semplicemente se ne infischiava platealmente di tutto e tutti, con la sua PSP stretta tra le mani e la testa proiettata chissà dove.
Osservavo il tutto in silenzio, cercando in tutti i modi di distrarmi da quell’atmosfera densa di tensione. Le cose stavano prendendo una piega strana. Quella mattina mi ero alzata raccontando a Emily una delle tante esperienze vissute a Sperdutolandia e, fino a quel momento, non ero più riuscita a togliermi dalla testa quel luogo e le persone che vi abitavano. In parte era sicuramente colpa del discorso – non – affrontato la sera prima con Lily, ma in quel momento, mentre intorno a me la mia famiglia cercava di convivere pacificamente per almeno un paio d’ore, non riuscivo a non pensare al nonno e Dean. A quell’ora stavano certamente tornando a casa dalla chiesa, dopo poco avrebbero pranzato, dato da mangiare agli animali e si sarebbero messi al lavoro. Per quanto paresse assurdo, alla fattoria c�era sempre qualcosa da fare e nessuno si sarebbe mai tirato indietro di fronte ad un lavoretto da svolgere. Sembravo essere l’unica che, svegliatasi la mattina, non avrebbe fatto volentieri altro che attendere la sera per riaddormentarsi.
In mia assenza le cose in città erano cambiate molto; era quasi assurdo che l’unico elemento rimasto uguale a prima fosse la tradizione del pranzo di famiglia della domenica.
Quando una famiglia è unita, situazioni come quella costituiscono indubbiamente momenti felici. Quando si trattava di noi Fletcher, invece, si dimostravano immancabilmente un disastro. Apparentemente tutto sembrava normale, ma, sotto sotto, nessuno avrebbe realmente voluto essere lì in compagnia degli altri. Le conversazioni erano forzate, l’allegria era di seconda mano e il senso di familiarità era stato rattoppato così tante volte che ormai era inutile cercare di ricucire gli strappi. La nostra si poteva considerare una vera famiglia? A me sembrava piuttosto una Barbie: carina, apparentemente ben fatta, ma vuota e superficiale. Finta.
“Come va al liceo, Josh?” domandai, per far scoppiare la bolla di amarezza che si stava formando attorno a me.
Mio fratello mi guardò con aria stranita, poi tornò a concentrarsi sul proprio gioco. “Bene. Non ti presto la PSP, la sto usando io”.
Tutta la maturità della sera prima dov’era finita? Sospirai. “Perché credi ci sia un secondo fine in tutto ciò che faccio?”
Diede un’alzata di spalle. “Perché è così”.
Ottimo. Avevo un fratello che tentava di sventare la congiura di Catilina e lo avevo scoperto solo in quel momento. Tra l’altro, Catilina sembravo essere io.
Era tornato il Josh di sempre. Forse la sera precedente avevano tutti alzato un po' il gomito mentre non guardavo – probabilmente quando chiacchieravo con il gatto degli Hortus.
Pensando che, forse, Joshua non era la persona datta con cui fare conversazione, decisi di tentare con qualcun altro. “Papà?”
Non mi rispose, nemmeno mi udì, ma non mi diedi per vinta. Alzai la voce: “Papà?”, ripetei.
Si guardò attorno, agitandosi sulla sedia proprio come facevo io quando non capivo chi mi stesse parlando. Poi si volse verso di me. “Dimmi, tesoro”.
“Ehm...” Cosa avrei potuto dirgli? “Mmm... cosa avete fatto mentre non c’ero?”
“Ah, niente, davvero” abbozzò un sorriso rassicurante.
Certo. Erano stati tutta l’estate a dormire e mangiare, senza mai  fare assolutamente nulla.
Mi sentivo come quello stupido tappeto nell’ingresso di casa di mia madre: nessuno lo guardava mai, nessuno lo notava e finivano tutti immancabilmente per inciamparci su.
“Già” sbuffai, contrariata. Che senso aveva rispondermi in quel modo? Forse a nessuno era capitato nulla di sensazionale, ma, cavolo, ero stata lontana da casa per mesi! Non avevano nulla da raccontarmi? L’unica che si divertiva da matti a elencare tutte le pietanze che aveva bruciato era Felicity, con la sola eccezione che quello non importava a nessuno.
Mio padre si accorse della mia espressione infastidita e sospirò. “Forse non avremmo dovuto spedirti dal vecchio Abe. Deve essere stato difficile laggiù”.
“Ah, tu dici?” sibilai con una risatina amara. “Sono stata via tre mesi e al mio ritorno nessuno sembra avere nulla da dirmi. Siamo alle solite: tutti seduti attorno alla stessa tavola, ma ognuno a farsi gli affari propri. È cambiato tutto e vogliamo far finta che non sia successo.Questo è difficile papà, non vivere là!”
Il caro Harvey strizzò gli occhi con aria confusa. Si portò una mano all’orecchio e si sporse verso di me sul tavolo. “Scusa, non ho sentito”, confessò e mi sorrise incoraggiante, chiedendomi implicitamente di ripetere il discorso.
Sospirai stancamente. “Non importa”.
“...ma tanto io brucio quasi tutto!” gridò mia madre a conclusione del suo lungo discorso a proposito del microonde. Dopodiché scoppiò a ridere così fragorosamente che alcune persone dai tavolo vicini si voltarono a guardarla. Tuffai la testa sotto il tavolo fingendo di cercare qualcosa nella borsa, nel più completo imbarazzo. Bastarono pochi secondi perché mi vergognassi del mio comportamento. Mi rialzai e risi con lei e George, nonostante il rossorre che si era diffuso su tutta la mia faccia. Anche papà rise, per non essere da meno di George, e persino Joshua accennò una risatina solidale, seppure non avesse idea di cosa stesse succedendo.
L’ipocrisia della mia famiglia si palesò mano a mano che le risate aumentavano. Mia madrefingeva che andasse tutto bene, che fossimo tutti uniti e felici come un tempo. George fingevadi essere un giovane e innamorato sposino e si sforzava di pendere dalle labbra di Felicity. Mio padre fingeva di non amare più mia madre, di aver superato la faccenda del divorzio e accettato l’entrata del nuovo marito in famiglia. Joshua fingeva di essere interessato a ciò che facevamo e pensavamo, mentre io fingevo di non voler tornare al più presto da mio nonno.
Mi sembrava ormai sempre più chiaro che non avevo nulla in comune, se non biologicamente e legalmente, con la mia famiglia. L’unico a cui fossi realmente simile, mio padre, era follemente e ostinatamente innamorato della donna che aveva sposato, nonostante il divorzio e il nuovo matrimonio. Era deciso a riprendersi Felicity, lottando per dimostrarle quanto lui potesse essere un buon marito e padre. Era disposto a sacrificare la propria personalità per riconquistarla. Ma io no. Io non ero Harvey Fletcher, io ero  – sono – Pan. A Sperdutolandia avevo combattuto per tornare a quello che credevo essere il mio mondo, la città, ma una volta giuntaci mi ero resa conto che tutto ciò per cui avevo pensato valesse la pena tornare, non era poi così  fondamentale. Emily era e sarebbe sempre stata la mia migliore amica, ma aveva una nuova vita; mio padre aveva le proprie battaglie da vincere ed ero abbastanza grande per combattere da sola le mie, ormai. Avrei dovuto esserlo, almeno.
Felicity era nel bel mezzo di un riepilogo di tutte le sue avventure con il microonde. Era assurdo: la famiglia si riuniva al completo dopo tre mesi e tutto ciò di cui sapeva parlare era il suo stupido fornetto nuovo.
Un’idea mi balenò nella mente. Non seppi mai da dove fosse arrivata, né perché proprio in quel momento, ma per qualche motivo decisi di seguirla.
Attesi che il cameriere portasse il caffè e che tutti lo bevessero, poi mi alzai in piedi e risposi con un sorriso agli sguardi interrogativi che si erano posati su di me. “Ho bisogno di fare una cosa. Posso andare?”
“Se devi andare alla toilette, tesoro, non c’è bisogno che tu chieda il permesso”, mi suggerì Felicity.
Aprii la bocca per rispondere, ma non sapevo se ridere o no. Era destino, non ci saremmo mai capite. “No, non ho bisogno del bagno, mamma” risposi. “Devo andare a ringraziare una persona. Ci vediamo dopo a casa, ok?”
“Se prendi la macchina, noi come torniamo a casa?” si informò George, sospettoso.
Sbuffai . Ma qual era il loro problema? “Non ho le chiavi della macchina, ci vado in tram. E, sì, ho i soldi per il biglietto”.
Mio padre prese le mie difese, notando gli sguardi sospettosi che si stavano scambiando Felicity e il suo nuovo marito. “Oh, avanti! Ha diciotto anni suonati, sa cavarsela da sola, non fate quelle facce! Nessuno torna da Sperdutolandia senza saper badare a se stesso!”
Questo è il mio papà! Se poteva contraddire George, si poteva stare certi che lo avrebbe fatto. Anche in caso lui non avesse ancora detto nulla.
No, un attimo che…  “Come hai detto, scusa?” domandai, sgranando gli occhi per la sorpresa.
“Cosa?”
“Sperdutolandia?” Pronunciando quella parola ad alta voce mi venne da ridere.
Mio padre si strinse nelle spalle. “Un tempo, tra ragazzi, quel luogo si chiamava così. Insomma, pur essendoci cresciuti, ci rendevamo conto di quanto quel posto fosse immerso nel  nulla.Lasciate ogni speranza, voi che entrate”.
Scoppiai a ridere di gusto a quella notizia. Allora non era un’impressione mia!
Una domanda mi sorse spontanea. “Ma papà, chi erano i tuoi amici, quando stavi là?” domandai, curiosa.
“Oh, i ragazzi!”rise al ricordo. “Andrew Towell, Karl Stevenson e io eravamo inseparabili. Sai quanta frutta rubata ai vicini? Il vecchio Abe mi inseguiva con la scopa per tutta l’aia quando il signor Benjamin andava a lamentarsi dei nostri furti, ma la nonna interveniva sempre prima che mi raggiungesse.  
“Il signor Towell, hai detto? Davvero era tua amico?”
“Puoi scommetterci! Andrew era una testa calda e un pigrone di prima categoria, quasi quanto me. La mente di tutte le nostre scorribande era lui, chiaramente. Anche il buon vecchio Karl aveva le sue uscite geniali, però. Ma tu non dovevi andare via, Pan?”
“Be’, credo che potrò andarci più tardi” risposi, risedendomi. “Stavi dicendo?”

 In der Ecke – Nell’angolo:
Oddio, uh, credo fossero secoli che non scrivevo un capitolo senza 'DubbiDomandeDelucidazioni' in fondo. xD
Be', salve a tutti, gente!
Vi informo che Mary_, oltre che deliziarci con i suoi disegni, si è anche offerta per betare la storia, per ora almeno, finché non si stuferà. XD Questo capitolo è stato betato proprio da lei. Per questo la ringrazio! :3
Ecco, vi informo che siamo quasi giunti al ritorno a Sperdutolandia, è previsto per la seconda metà del prossimo capitolo, se tutto va secondi i piani. E lo specifico perché ultimamente Pan si sta prendendo un sacco di libertà e la storia va un po' per conto suo, senza sottostare alle mie regole  é_____è
Ma veniamo al dunque, signorine (e signorini, sempre che ci sia qualche ragazzo tra noi u.u), che ne pensate? Come di cosa?! Dell'insinuazione di Emily! u.u
E dove dovrà andare Pan? Con chi deve parlare? Ho idea che lo sappiate già, ma lasciate che mi illuda. xD
Credo di non avere null'altro da dire se non che... be', che io e altre ragazze presenti qui nei paraggi (Flamel_, Mary_ e marypao) abbiamo aperto un blog di recensioni. Per ora ce n'è solo una, ma ne abbiamo un paio in elaborazione. Se volete darci un'occhiata lo trovate qui:  http://trauncapitoloelaltro.blogspot.it/  . Siete libere di ignorarci, fare una visita o richiedere una recensione -ricordatevi però che il tutto sarà svolto 'tra un capitolo e l'altro', quando ci sarà tempo. :3
Grazie a tutti coloro che sono arrivati fino a qui. :D



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Capitolo 27
*** 27 ***



E so che non accade nulla di particolare,
e che non è una sorpresa perché l'ha già letto e magari si aspetta anche che io lo faccia,
ma questo capitolo lo dedico a Mary_.
Perché? 
Perché mi offre sempre la cioccolata virtualmente quando ne ho più bisogno,
 prima di tutto.
Perché si è offerta di betare questa storia. 
Perché mi fa compagnia praticamente ogni giorno e mi 
distrae da tutto ciò a cui  sarebbe bene non pensare.
Perché  fa disegni bellissimi, crea fanart riguardanti questa storia
e illustra le nostre avventure a Hogwarts.
Perché è impossibile condividere certe avventure senza finire col fare amicizia, 
e fondare una Casa di Hogwarts, mettere su una Squadra 
di Quidditch per spaventare Baston e 
prendere costantemente in giro Blaise Zabini sono tra quelle.
(Erano secoli che volevo scriverlo!)
 
È tutto tuo, Mary! :3


 
 
Cows and jeans
 
27


 
Arrivare in quel posto era stata un’impresa, ma alla fine c’ero riuscita.
La casa era grande, a metà di una schiera di tante villette identiche. Non avrei saputo spiegare esattamente cosa mi avesse spinta ad andare fino a lì, ma mi ero detta che era una cosa che andava fatta.
Ero impalata di fronte al cancello, cercando il coraggio necessario a premere il pulsante e suonare il campanello. Cosa avrei detto? Come mi sarei presentata? Come avrei spiegato la mia intrusione?
Sbuffai. Ormai ero lì, indugiare a quel punto era inutile. Tanto più che probabilmente qualcuno mi aveva già vista – le tende di una delle finestre erano state spostate già due volte.
Trattenni il respiro e premetti il pulsante. Panico, tentazione di fuggire, sensazione di somma stupidità.
Non dovetti attendere molto prima che qualcuno mi aprisse. Una ragazza alta con lunghissimi capelli corvini sgranò i già enormi occhi azzurri alla mia vista. “Ciao!” esclamò, sorpresa. “Sei Pan, giusto?” Attraversò il vialetto e si avvicinò per aprirmi il cancello, scalza.
Abbozzai un sorriso. “Ciao. Sì, sono io. Spero di non disturbare, volevo solo ringraziarti. Ah, e naturalmente darti questa. Non so se ti piacerà, non me ne intendo molto di moda, come è evidente...” ridacchiai, in imbarazzo, porgendole un pacchetto.
“Oh, ma non ce n’era alcun bisogno, nemmeno mi conosci!” esclamò Mariah Thompson, sgranando di più i grandi occhi azzurri. “Grazie mille! Dai, entra”.
Luna Lovegood. LunaLovegoodLunaLovegood. Avrei dovuto smetterla di paragonarla a quel personaggio, ne ero consapevole, ma non riuscivo a farne a meno. Era così eccentrica! O meglio, era spontanea, qualità quasi inimmaginabile nell’ambiente in cui eravamo cresciute. A Sperdutolandia era tutta un’altra cosa, ma in città quasi tutti studiavano i propri comportamenti affinché piacessero o no agli altri, lì tutto era strettamente connesso all’opinione pubblica. Era raro che qualcuno fosse se stesso e basta.
Mi guidò in casa e mi fece accomodare al tavolo della cucina. “Scusa per il disordine” disse, raccogliendo i piatti. “Ero da sola e nessuno mi ha obbligato a sparecchiare, per cui...”
Risi. “Non preoccuparti, io avrei fatto lo stesso. Vuoi una mano?” Mi alzai in piedi e presi in mano un bicchiere prima che lei potesse perdersi in convenevoli.
Mi osservò mentre lo riponevo nel lavello e sorrise. “Grazie”.
Le sorrisi a mia volta, stringendomi nelle spalle. “Li lavi a mano o nella lavastoviglie?”
“A mano, non so usare quell’affare” ammise ridacchiando.
“Siamo in due, allora! Io lavo e tu asciughi?”
“Oh, sì, grazie! I guanti sono dentro il lavabo”.
Non sapevo da dove provenisse tutta quella confidenza, visto e considerato che fino a due giorni prima la consideravo una stupida ragazzina esibizionista. In realtà mi sentivo un po’ a disagio: era un comportamento ipocrita il mio?
Mariah fu la prima a interrompere il silenzio calato tra di noi. “A cosa devo la tua visita? Non fraintendere, non mi dispiace affatto. Anzi, mi incuriosisce”.
Per qualche istante l’unico suono udibile fu lo scorrere dell’acqua. Strofinavo un piatto con la spugna, mentre Mariah metteva nel lavandino una pentola e le posate. Ero schifosamente impacciata. “Be’, ehm...”
“Sì?”
Presi un respiro profondo. “Volevo ringraziarti per ciò che hai fatto”.
“Ah.” Fissò il vuoto per un momento, sorpresa. “No, non capisco”.
Ridacchiai. “Mi hai difesa e hai aggiustato la mia amicizia con Emily senza neanche conoscermi. È stato carino da parte tua”, spiegai. E mi hai lasciata entrare in casa come se fossimo vecchie amiche, nemmeno fossimo a Sperdutolandia.
Sorrise, amichevole. “Sei una buona amica per lei, non potevo lasciare che il vostro rapporto si guastasse per i capricci di... di qualcuno, no? Mi sono sentita in dovere, non era giusto che soffriste a causa di insinuazioni decisamente improbabili”.
La osservai di sottecchi per un po', chiedendomi fino a che punto potesse essere sorprendente quella ragazza. Nonostante criticasse il comportamento errato di Jasmine, non si azzardava a tradire l’amica incolpandola apertamente. Era corretta, corretta a livelli invidiabili. “Grazie”, ripetei, realmente grata.
Lei mi rivolse un sorriso stiracchiato e si abbandonò ad un sospiro silenzioso.
Mi schiarii la voce, in imbarazzo, notando che quello aveva tutta l’aria di essere un sintomo di somma tristezza domenicale - solo perché quel giorno era domenica e non perché quello fosse il reale motivo. “Ehm, è tutto a posto?” Mi sentivo stupida a porle quella domanda. In fondo a malapena ci conoscevamo, sarebbe stato assurdo che si confidasse con me. Eppure mi era sembrato giusto farle capire che, nel caso fosse stata così folle, per me non sarebbe stato un disturbo. Senza dubbio glielo dovevo.
Mariah fece una smorfia, osservando attentamente il piatto che in quel momento stava asciugando. “Ho fatto una cosa molto stupida e ora mi sento in colpa”.
Soffiai una risatina. “Ehi, stai parlando con la regina delle sciocchezze!” esclamai, a voce improvvisamente più alta. Forse sembravo pazza, ma non importava. “Cosa puoi aver combinato che io non abbia già fatto? Ho perso un ragazzino a cui stavo facendo da baby sitter, direi che sono imbattibile”.
Mariah rise, incredula. “Davvero? Oddio, chissà che spavento!”
Mi strofinai una guancia col dorso di una mano, sorridendo mesta e intimamente soddisfatta. Forse non ero nessuno con cui lei potesse confidarsi, ma ero sicuramente una delle persone più sfigate del pianeta, farla ridere raccontando le mie disavventure sarebbe stato un gioco da ragazzi. “Abbastanza. Quel demonio era fuggito di proposito per farmi un dispetto e, indovina un po’?, mi aveva rubato la motoretta e se n'era andato a casa mia. Insomma, con tutti i posti in cui poteva nascondersi, proprio a casa mia!”
“Cos’è una...?”
“Cosa?”
“Una motoretta”.
“Ah. Uno scooter”.
“Oh, che stupida!”, rise. “Era semplice, come ho fatto a non capirlo?” Non era affatto sarcastica, credeva davvero di aver fatto una gaffe.
Mi venne da ridere. “Non preoccuparti, nemmeno io sapevo cosa fosse quando l’ho sentito dire la prima volta. In compenso, poi, è diventato di uso comune anche per me e ora parlo come se fossi uscita da un episodio di Hannah Montana!”
Mariah rise di nuovo, a lungo, di gusto. Mi sentivo soddisfatta di me stessa. Qualcosa di buono, forse, ero in grado di farlo. 
La aiutai a ripulire la cucina e poi tolsi il disturbo. Prima che me ne andassi, disse una cosa che mi colpì, per quanto elementare fosse.
“Sai, penso che a volte tutti facciano delle sciocchezze. Ma, una volta fatte, non si può più tornare indietro, no? Tanto vale rimboccarsi le maniche e fare in modo che i nostri errori non si ripetano”.
Rimasi in silenzio per qualche istante, riflettendoci su, poi sorrisi. “Sì, lo penso anche io”. Ed era vero, lo avevo sempre pensato, ma il fatto che lo avesse detto un’altra persona, una persona estremamente carismatica e spontanea e che, soprattutto, non era Pan Fletcher, lo rendeva incredibilmente più credibile. Non ero molto fiduciosa in me stessa, allora, e forse non lo sono nemmeno oggi. Ma il pensiero di Mariah mi accompagnò per tutto il tempo che rimasi in città.
Durante i tre giorni che seguirono mi comportai da brava figlia. O ci provai, almeno, riuscendoci solo entro i limiti della stupidità mia e di mia madre. Per quanto provassimo ad andare d’accordo, alla fine una delle due diceva sempre qualcosa di sbagliato e l’altra rispondeva a tono. Forse era semplicemente una caratteristica del nostro rapporto madre-figlia. Mi convinsi che fosse soltanto inutile cercare di evitare i litigi.
Durante i tre giorni che seguirono imparai la fondamentale differenza tra un uomo che pulisce il proprio bagno e uno che non sa nemmeno quale detersivo andrebbe usato.
Durante i tre giorni che seguirono bruciai due volte il pranzo e servii della pasta talmente dura che avrei potuto lasciarci un dente. In compenso, però, dimostrai alla mia famiglia di cosa ero capace: sapevo accendere i fornelli, fare le pulizie ed ero anche riuscita a fare amicizia col cane.
L’ultimo giorno, prima di partire, mi resi conto che in una settimana non mi ero degnata di chiedere a qualcuno come si chiamasse quella povera bestia. Prendendo il coraggio a quattro mani e preparandomi al peggio (se il povero gatto degli Hortus si chiamava Tarquinio, chissà cosa aveva ideato mio fratello), lo domandai a Joshua.
Lui alzò gli occhi dalla consolle e mi rivolse un’occhiata scocciata. “È un cane, come vuoi che si chiami?”.
“Questo significa che lo hai chiamato ‘Cane’?”
Josh sbuffò. “Ma ti sembra?!”
Alzai gli occhi al soffitto. “Non fai prima a rispondermi e basta?”
“Roastbeef”.
 
“Be’, allora io vado...”
Il momento dei saluti fu qualcosa di estremamente imbarazzante. Mamma e papà mi guardavano con espressioni da cane bastonato, lei addirittura con le lacrime agli occhi. Per quanto fossi meschina, non pensai nemmeno per un istante che fossero lacrime false. Era evidente che le dispiaceva per la mia partenza e l’incredibile dolcezza con cui mi aveva trattata tutto il giorno precedente ne era la prova.
George mi osservava con aria grave e un sorriso di incoraggiamente stampato sotto i baffi scuri, mentre Joshua se ne stava appoggiato alla porta d’ingresso e osservava la scena con aria annoiata.
“Oh, tesoro, mi mancherai!”, trillò mia madre, correndo ad abbracciarmi.
“Felicity, avevi promesso...” la riprese George.
La sua stretta mi fece salire un enorme groppo alla gola. Non era il caso di piangere, non facevo che ripetermelo. Erano tre giorni che non aspettavo altro che salire in macchina e andarmene, cavolo, sarei stata enormemente incoerente!
Ma poi intervenne mio padre.
“Lascia che pianga, avvocato, è sua figlia!”
Quelle parole e l’occhiataccia che George gli rivolse, mi ricordarono istantaneamente i motivi per cui avevo scoperto di preferire Sperdutolandia alla città.
“Bene, è decisamente ora di partire” dichiarai, dando una leggera pacca sulla spalla di mia madre perché mi lasciasse andare.
Lei fece qualche passo indietro e affiancò George. “Chiamaci quando arrivi”, si raccomandò.
“Certo”.
“E anche se ti perdi!”
Non gufare, mamma! “Di questo puoi essere certa”.
“Del fatto che ti perderai?” intervenne Joshua, divertito.
Risi. “Sì, anche di quello. Fammi sapere come va con la ragazza della pizza, se mai riuscirai a conquistarla, siamo intesi?”
“Va’ a quel paese, fammi il favore” sbuffò lui.
Risi ancora. “Ci sto andando, dammi il tempo di partire!”
“Tornerai per Natale, vero?”, continuò mia madre.
“Certo”. Salii in macchina, decisa ad andarmene. Quella scena stava durando anche troppo e se fossi rimasta lì ancora, sarei arrivata a Sperdutolandia in piena notte.
Misi in moto e allungai un braccio fuori dal finestrino per salutare. “Ciao a tutti!”
“Buon viaggio!”
Finalmente. Si parte!
 
Le sospensioni erano state pericolosamente messe a dura prova durante gli ultimi venti chilometri percorsi ma, nonostante ciò, potevo dire con soddisfazione che la mia macchinina blu nuova di zecca stava facendo il suo ingresso dell’aia della fattoria Fletcher.
Il sole era già calato da un po’ e le luci della cucina erano già spente. Per qualche motivo, però, non tutti dormivano. Mentre parcheggiavo vicino al capanno, la porta d’entrata si aprì e ne uscì una figura. Ero convinta che fosse il nonno, prima di notare che era a torso nudo.
Immediatamente le parole di Emily mi tornarono in mente e arrossii come una cretina. Gli costava tanto vestirsi? Era la seconda volta che al mio arrivo a Sperdutolandia lo trovavo mezzo nudo.
Spensi il motore e scesi dall’auto, desiderosa di sgranchirmi le gambe. Mi ero fermata almeno otto volte da quando ero partita, ma non ero abituata a guidare per tragitti così lunghi. Anzi, non ero proprio abituata a guidare, considerato che erano come minimo tre mesi che non lo facevo. Non osavo chiedermi quante regole stradali avessi infranto né quanti accidenti mi avessero mandato durante le ultime ore, ma in fondo ero arrivata. Era quello a contare.
“Ehi, Abe!” esclamai, con la mia miglior faccia di bronzo, agitando un braccio in direzione di Dean.
“Ah, sei tornata” brontolò questi con aria scocciata.
“Ah, sei tu” ripetei, fingendomi più sorpresa di quanto non fossi. Perché, poi? La città mi aveva fatto male, decisamente. “Sono felice di vederti quanto lo sei tu, ma un minimo di cortesia potresti mostrarla”, blaterai, mentre aprivo la portiera posteriore per recuperare qualche bagaglio.
 “E tu potresti fingerti meno viziata, una volta tanto”.
“Sì, come vuoi” tagliai corto. Mi stava già facendo saltare i nervi. Perché non poteva semplicemente far finta di essere gentile, una volta tanto? “Mi dai una mano a portare in casa la mia roba?”
“Non credo” rispose con un sorriso impertinente. “Buonanotte principessa”.
Ecco, appunto. Gentilezza, dicevo?
Rimasi a fissare basita la porta di ingresso anche dopo averlo visto rientrare. Non credevo mi avrebbe abbandonata davvero lì fuori con tutta la mia roba da portare in casa e, invece, l’aveva fatto. “Simpatico come sempre, eh!” gli gridai dietro, una volta resami conto che non sarebbe tornato ad aiutarmi.
Poco male, per lo meno avevo tutto il tempo per godermi il ritorno a Sperdutolandia senza elementi disturbatori.
Mi guardai attorno, osservando i campi illuminati fiocamente dalla luna e dalle fiammelle intermittenti delle lucciole. Non avrei mai pensato di provare piacere in mezzo a quell’immensità. Ricordavo bene come mi sentissi smarrita i primi giorni, piccola e fuori luogo in mezzo a uno sterminato nulla.
Allora, invece, era tutto diverso.
Il familiare scricchiolio provocato dal camminare sulla ghiaia del cortile mi era mancato.
Respirare quell’aria pulita era estremamente piacevole dopo una settimana di smog e caos.
Alzai lo sguardo al cielo e rimasi rapita da ciò che vidi. Avrei voluto che Emily fosse lì a godersi quello spettacolo, che potesse capire cosa avevo cercato di dire quella sera a casa sua. Quei puntini luminosi non erano le briciole sparse da Josh e Malcom sul divano, erano... semplicemente indescrivibili.
Non sapevo se considerare Sperdutolandia la mia casa o meno – era un termine con cui andavo poco d’accordo, a quanto pareva -, ma una cosa era certa: ero contenta di esserci tornata.
Scaricai tutti i bagagli dall’auto lasciandoli in mezzo all’aia, tentata di lasciarli tutti lì fino alla mattina successiva. Poi pensai che, se per qualche motivo fosse arrivato Kameron prima che mi ricordassi di aver lasciato le mie cose in mezzo al passaggio,  ci sarebbe passato sopra con il pickup senza nemmeno farci caso. Quindi optai per una leggera vendetta all’ingente gentilezza del mio coinquilino.
Afferrai lo zaino e corsi in casa. Feci le scale di corsa, accesi la luce nella stanza di Dean (*) – guadagnandomi un’occhiataccia truce – e lo portai in camera.
“Che diavolo fai?” sbottò lui, strizzando gli occhi.
“Oh, stavi cercando di dormire? Mi dispiace tanto, ma devo portare in camera i bagagli” spiegai tranquillamente.
“Se è un patetico tentativo di farti aiutare, sappi che...” sbuffò. “che è patetico”.
“Ah, ti sei ripetuto!” esultai allegramente. “Stai perdendo colpi!”
Dean mi mandò a quel paese senza troppi giri di parole, mentre tornavo al piano di sotto per recuperare una seconda borsa. Visto che questa volta avrei viaggiato in auto e non avevo problemi di spazio, essendo sola, avevo portato con me un sacco di cose. Quasi tutti i miei vestiti invernali, tanto per cominciare, e un lettore dvd portatile, qualcuno dei miei film preferiti e un phon per evitare di girare con la testa bagnata in pieno inverno. In parole povere, avevo portato il necessario per trasferirmi stabilmente a Sperdutolandia.
Questo significava, però, avere un sacco di bagagli da portare al piano di sopra e la possibilità di fare un sacco di confusione per dare fastidio a Dean.
Un sogno che si avvera!
Furono necessari all’incirca quattro viaggi per portare tutto in camera, più un quinto per assicurarmi di aver chiuso la macchina. In totale avrò infastidito gli abitanti della casa per un quarto d’ora, ad esagerare, ma ogni volta che riaccendevo la luce le proteste di Dean diventavano più rumorose. Mi divertivo da morire.
Quando finalmente l’ultima delle mie cose fu posata sul pavimento, tornai nella stanza di Dean per spegnere la luce, ma la sua ultima imprecazione fece da sveglia al buon vecchio nonno Abe.
La porta della sua camera di spalancò e Abraham ne uscì in tutta la sua buffa aria da Brontolo: “Cosa sta succedendo qui? McDonnel, cos’è questo baccano?”
Dean sbuffò, alzandosi a sedere. “Non è colpa mia!”
“Ehi, ciao nonno!” esclamai, allegra. “Da quanto tempo!”
Abe fece scorrere lo sguardo su di me e mi osservò in silenzio per un po’.
Mi schiarii la voce, imbarazzata. Quell’aria severa non era certo l’accoglienza che mi ero aspettata. D’altra parte non potevo attendermi che saltasse dalla gioia dopo che avevo volontariamente fatto confusione mentre lui e Dean cercavano di dormire. Speravo solo che non ricominciasse con la storia del ‘quante volte ti ho detto di non portare le tue amichette a casa, McDonnel’, sarebbe stato degradante. Di nuovo.
“Ah, sei tu”.
Dean sbuffò di nuovo. “Sì, è tornata. È finita la quiete”, borbottò.
“Ah, chiudi il becco tu!” bofonchiò Abraham. “Non ho mai sentito nessuno dire tante porcherie in tutta la mia vita! Dovresti vergognarti a dire certe cose davanti a una donna” lo rimproverò.
Sgranai gli occhi per la sorpresa e trattenni a stento le risate. “Ecco, chiedimi scusa!” infierii, visibilmente divertita.
“Certo, principessa, agli ordini. Perdoni il mio turpiloquio causato dal suo indisponente casino!”
“Stai migliorando. Se solo ti impegnassi un po’ di più potresti quasi...”
“Chiudi quella fogna e lasciami dormire!”
“Ecco, sei tornato al punto di partenza. Secondo me basta un po’ di olio di gomito e...”
“Ah, ora basta!” intervenne Abe, burbero come sempre. “Filate a letto, tutti e due. Non voglio sentir volare una mosca per tutta la notte! Non so a che ora ti sia svegliata ‘sta mattina, Pan, ma domani ci si alza alle cinque e mezza e non si accettano ritardi. Buonanotte!”
Ridacchiai con aria colpevole. “Buonanotte, nonno!” lo salutai, mentre si richiudeva la porta alle spalle.
“Buonanotte, Dean!”
“Sì, buonanotte. Non credere di passarla liscia, principessa” rispose lui, stendendosi di nuovo.
Ridacchiai, impudente. “È una minaccia? E sappi che se mi rispondessi ‘è una promessa’ risulteresti ban—“
“SILENZIO!” fu l’imprevisto urlo di Abraham, che precedette un istantaneo spegnimento di luce e il mio ritiro in camera. Mi cambiai in fretta, rimandando la doccia di cui sentivo un impellente bisogno alla mattina seguente: non era il caso di fare altro rumore, per quella sera.
Il ritorno a Sperdutolandia era stato molto più divertente del previsto. Speravo solo che il mio buon umore non si Smaterializzasse in quattro e quattr’otto com'era solito fare.
Mi gettai sul letto vestita, lanciando le scarpe in un angolo della camera. Il giorno dopo avrei avuto tanto da fare, ma non era ancora giunto il momento di pensarci. Improvvisamente sentivo la stanchezza cercare di mandarmi KO e la voglia di combattere e rispondere per le rime sparire.
 
Quella notte, ovviamente, sognai Dean.
Maledizione.
 
 
 
DubbiDomandeDelucidazioni  (vi era mancato questo angolino, eh?):
(*) Se ricordate – o meglio ‘se l’ho scritto’ – Dean dorme su un divano letto in quello che potrebbe essere un corridoio. Quando Pan sale le scale, si trova direttamente nella ‘stanza’ di Dean, mentre le camere di Pan e Abe sono sulla destra. A sinistra invece c’è il bagno. Quindi, per forza di cose, Dean dorme in ‘un porto di mare’, come si dice da noi, visto che chiunque voglia andare da qualche parte deve passare dalla sua stanza. D’altra parte non è colpa di nessuno se lui dorme a casa di altra gente, bisogna che si accontenti. u.u
 
In der Ecke - Nell'angolo: 
Buonasera! Allora, allora, allora, prima di tutto voglio mostrarvi un'altro dei disegni di Mary_: http://marybleis.deviantart.com/gallery/#/d4vw3ro , è un simpatico schizzo di Pan in attesa di Sperdutolandia. Ah, e vi consiglio tutta la sua galleria. :3
Per il nome di quel povero cane, ringrazio di nuovo Lirin Lawliet, che ha risposto al mio appello su facebook. :D 

Nel mio profilo potete trovare Peldicarota Steve, ovvero un missing moment della serata del compleanno di Mariah. Lì è spiegato il motivo della sua malinconia all'inizio di questo capitolo. ^^ 

Ed ecco, finalmente, il ritorno a Sperdutolandia. Spero che, visto di quanto l'ho rimandato, per lo meno non sia malaccio. La situazione del ritorno verrà meglio affrontata nel prossimo capitolo. E, ah, soprattutto sono curiosa di vedere le vostre reazioni alle ultime due righe.

Buona notte a tutte e alla prossima! :D

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Capitolo 28
*** 28 ***



Cows and jeans

28



Era normalissimo, d’accordo? Non c’era assolutamente nulla di strano nell’aver sognato Dean.
Era successo per via della suggestione dovuta alla stanchezza del lunghissimo viaggio e al ricominciare dei nostri battibecchi. E no, non si trattava per niente di scuse. Altrimenti quella notte avrei sognato qualcosa di sentimentale e non un interminabile viaggio in macchina con Dean che, seduto sul sedile del passeggero, non faceva che lamentarsi e lanciare frecciatine facendomi sbagliare strada.
Assolutamente lecito, assolutamente normale, ma soprattutto assolutamente frustrante. Quel sogno da solo sarebbe bastato a farmi svegliare col piede sbagliato, ma si dà il caso che non fosse l’unico intervento di Dean che avrebbe influito sul mio umore.
 “Alzati!” gridò, donandomi un risveglio non esattamente tranquillo.
Affondai la faccia nel cuscino emettendo lamenti più animali che umani. Non mi degnai nemmeno di aprire gli occhi o rispondere, la mia mente riusciva a formulare solo una serie infinita di ‘Col cavolo che mi alzo!’. Era bastata una settimana affinché riprendessi la buona abitudine di dormire fino a mezzogiorno e il solo pensiero di vedere il mondo a un orario precedente mi sembrava una follia - il mondo neanche esisteva prima di mezzogiorno! Tanto più che mancava poco all’inizio della scuola e avevo tutta l’intenzione di godermi le mattine libere, finché ne avevo.
Il punto era che, nonostante l’anno scolastico non fosse ancora iniziato, le mie mattinate non erano affatto libere, ma questo era difficile da ricordare a quell’ora.
“Sarò buono e ti darò un’ultima possibilità. Farai bene a obbedire, principessa: al – za – ti!” continuò Dean, con un tono che non garantiva nulla di buono. Eppure non riuscii a trattenere un grugnito denso di scetticismo.
“Come vuoi tu, ma non dire che non ti avevo avvertito”.
La cosa mi allarmò parecchio. Stavo per alzare la testa e iniziare a stropicciarmi gli occhi per prendere coscienza del mondo, quando sentii il rumore della porta che si chiudeva. In quel momento decisi che, se Dean se ne era andato lasciandomi in pace, non c'era nulla che potesse impedirmi di dormire ancora cinque minuti. Poi la serratura scattò e io con lei. “Ehi!” strillai, contrariata. “Apri subito quella porta!” Per quale motivo la chiave era fuori, poi? Era sempre stata all'interno, sempre! Era anche normale che dovessi essere io a decidere quando volevo che eventuali intrusi rimanessero fuori e non i potenziali infiltrati a chiudermi dentro per dispetto.
“Perché? Eri tu a voler rimanere lì dentro, o sbaglio?”
Enorme ammasso di cacca di Troll! “Sbagli! Che diritto hai di chiudermi qua, scusa? Apri subito!” Mi alzai sgraziatamente dal letto, inciampai in tutti i miei bagagli – uno per uno, senza alcuna eccezione – e infine giunsi a prendere a pugni la superficie lignea che mi teneva intrappolata nella stanza.
“Vedila in questo modo, principessa: mi sono chiuso in camera mia”.
Peccato che lui dormisse in corridoio e questo significasse rinchiudermi in una stanza di tre metri per tre in cui l'unica via di uscita era la finestra. “Certo, ora sì che mi sento meglio. Apri!”
“Perché dovrei? Chi è che ieri sera ha fatto la stronza facendo casino fino a tardi?”
“Ehi, non rigirare la frittata!” protestai. “Se tu fossi stato un tantino più gentile, lo sarei stata anche io! Si chiama legge della reciprocità!” obiettai, guardando in cagnesco la porta. “Apri!”
Quando invece del suono della chiave che girava nuovamente nella toppa, sentii i passi di Dean scendere le scale, sbuffai sonoramente. “Simpatico come uno Schiopodo Sparacoda affamato” commentai a mezza voce, spostando lo sguardo verso la finestra. Non avevo alcuna intenzione di rimanere lì dentro tutta la mattina e fare tardi al lavoro – sì, mi ero finalmente ricordata di averne uno-. Rischiavo di impazzire, se pensavo di non poter uscire. Non ero claustrofobica, non particolarmente, ma il fatto di essere senza vie di fuga mi metteva un po’ d’ansia.  Per di più avevo bisogno del bagno. Registrata quest'informazione, decisi di avere una certa urgenza di uscire da lì. Ero ufficialmente una ragazza disperata, per cui ero autorizzata a rischiare l'osso del collo.
Scavalcai di nuovo tutti i bagagli e mi affacciai alla finestra.
Abe non era in vista e il sole era quasi sorto del tutto.
Sarei dovuta scendere da lì? L'idea di rischiare di uccidermi non mi allettava particolarmente. Mi sporsi per cercare eventuali appigli per potermi calare in giardino da lassù: la grondaia non ispirava molta sicurezza, ma non c'era nient'altro a cui aggrapparsi.
No, aspetta un attimo, ci dev'essere un'altra soluzione, Pan. Era commovente la tempestività con cui il mio cervello decideva di ricordarmi la propria esistenza. Ovviamente c'erano modi migliori per uscire, ma in quel momento non me ne sovvenivano di brillanti. Avrei potuto prendere a pugni la porta e strillare finché qualcuno non avesse risposto o limitarmi ad attendere che Dean si impietosisse. Temevo, però, che, almeno per quanto riguardava la seconda opzione, prima che si verificasse mi sarebbe stata recapitata la lettera di ammissione ad Hogwarts.
La vescica pulsava pericolosamente e più ci pensavo, più rischiavo di farmela sotto.
C'era un solo modo per evitare di allagare la camera da letto e uscirne al più presto: ricorrere al manuale di sopravvivenza.
Mi gettai a sedere sul letto e presi un respiro profondo, domandandomi se una volta tanto avrebbe funzionato. Mi guardai attorno in cerca di tre elementi positivi in quella situazione.
Be', quanto meno Dean non è nei paraggi. Fuori uno.
Iniziai a battere un piede a terra con impazienza, mentre cercavo di farmi venire in mente il secondo. Cosa c'era di buono in quella situazione? Ero stata chiusa a chiave in camera mia, mi scappava la pipì e non potevo nemmeno riaddormentarmi perché, ormai, sarebbe stata un'impresa impossibile.
Almeno, mi dissi, non ti aspettano Cassie né i Lucas, una volta uscita di qui. Ginger avrebbe compreso il mio ritardo, probabilmente, senza punirmi troppo pazientemente. Ma si poteva considerare un lato positivo, quello?
Sbuffai sonoramente. Era ormai da un po' di tempo che il Manuale di Sopravvivenza si dimostrava assolutamente inutile. Forse Lily aveva ragione, era sempre stata un'immensa fregatura.
Al diavolo! La fortuna aiuta gli audaci, mi dissi, improvvisamente determinata a tentare l'impossibile. Senza ragionare più del necessario – o meglio, per nulla – infilai un paio di scarpette da ginnastica infangate, rimaste in un angolo della stanza da prima che partissi, e mi sedetti a cavalcioni sul davanzale della finestra, decisa a scavalcarlo da un momento all'altro. Dovevo solo capire dove poggiare i piedi per calarmi giù.
Sto per rompermi l'osso del collo, magnifico.
Avevo appena puntellato un piede su di un'asse di legno un po’ sporgente rispetto alle altre, quando una voce tuonò il proprio disappunto: “CHE COSA STAI FACENDO, RAGAZZINA!?”
Per poco non caddi per lo spavento.  “Ehi, nonno!”
“Cosa hai intenzione di fare?” continuò, decisamente arrabbiato.
Su due conversazioni sostenute con il nonno da quando ero tornata, entrambe le volte lui era piuttosto stizzito. Doveva essere un record. Avevo vinto qualcosa?
Non sapendo come spiegare la mia situazione, mi limitai a ridacchiare. “Ehm. Mi scappa la pipì”.
“Per questo stai cercando di ucciderti? Rientra subito in camera” sbottò, perentorio.  “Quella pazza è proprio una disgraziata, guarda come ha ridotto la figlia. Lo avevo detto io che non mi piaceva!” aggiunse a mezza voce, parlando tra sé. Adoravo i commenti di nonno Abe riguardo a mamma.
Trattenendo le risate, mi affrettai a obbedire e, una volta coi piedi a terra, mi affacciai nuovamente. “C’è un problema, però”.
“La cosa non mi stupisce”.
“Eh, lo so. Dean mi ha chiusa dentro”.
Abraham strizzò gli occhi e si esibì in una smorfia contrariata. “Che significa?”
“Che se nessuno mi apre la porta, finirò per forza di cose per far pipì a letto” risposi, tamburellando le dita sul davanzale. “E ho una certa urgenza” ribadii.
Abe sbuffò e se ne andò verso l’aia senza dire una parola. Espirai bruscamente, sconcertata: e adesso?
Ovviamente il nonno non era simpatico come Dean –grazie a Merlino–  e, tempo di rientrare e fare le scale, sentii il rassicurante suono della chiave che girava nella toppa. Sgusciai fuori a una velocità considerevole – senza inciampare nei bagagli – e corsi di filato in bagno, gridando un “Grazie!”.
Una volta recuperata la chiave, mi chiusi nel bagno e sacrificai il tempo destinato alla colazione per fare una doccia risanatrice. Lavoravo in un bar, avrei trovato il tempo per mangiare qualcosa, no?
 
Rientrare nel saloon dopo una settimana fu come sedersi su un divano dopo una gita scolastica, durante la quale il sedere di chiunque ha preso la forma del sedile. Non è una delle immagini più sublimi del mondo, ne sono consapevole, ma rende bene l’idea.
“Buongiorno!” esclamai allegramente. La doccia mi aveva permesso di riacquistare tutto il buon umore e, per di più, non ero arrivata al lavoro in ritardo. Apparentemente nulla poteva andare meglio di così.
“Pan, bentornata!” mi accolse Ginger, con quel suo sorriso dolce. Era un sorriso  magnifico, il più espressivo che avessi mai visto. Le bastava incurvare le labbra perché chiunque comprendesse all’istante ciò che voleva dire, senza possibilità di fraintendere. Era un sorriso parlante. Roba da far impallidire persino il gatto del Cheshire. (*) “Ti sei riposata?”
Salutai i soliti signori che occupavano i tavoli del bar – erano sempre lì, ormai ero autorizzata a chiamarli per nome – e agitai una mano in direzione di Terrence per salutarlo. “Ho dormito molto, se è quello che intendi. Psicologicamente invece sono più stanca di prima” ammisi, con un sorriso.
Schivai per un pelo Terrence che, dopo aver risposto al mio saluto, si fiondò verso la porta come se si fosse appena ricordato di non aver detonato una bomba sul punto di esplodere. Cose che capitano tutti i giorni, insomma. Tuttavia non ci prestai molta attenzione, in fondo era chiaro, ormai, che lui fosse l’incarnazione della bizzarria. 
“Per forza, con la donna che si è sposato Harvey...” bofonchiò il nonno, andatosi a sedere al solito tavolo, con le solite persone, sulla solita sedia. La vita era estremamente consuetudinaria a Sperdutolandia, eppure la cosa non mi disturbava, non quella mattina. Era come godersi il silenzio dopo che George aveva finito di distruggere il prato con la falciatrice rossa fiammante comprata a Natale. (Un spreco di soldi estremo, per come la vedevo io, visto che mamma pagava un giardiniere perché si occupasse del giardino una volta al mese.)
Ginger soffocò, al contrario mio, una risata e gli rivolse un’occhiata severa. “Abe! Come puoi dire una cosa simile?”
Il nonno si strinse nelle spelle. “Ha rovinato quel cretino di mio figlio” spiegò semplicemente, ottenendo l’appoggio degli altri vecchietti. Ultimamente parlava molto più del solito e sembrava divertirsi a criticare mia madre. Non che mi dispiacesse, intendiamoci. “Ehi!” protestai, divertita. Avevo imparato a non prendere troppo sul serio ciò che diceva Abraham, la metà delle volte si lamentava per non dire ciò che pensava davvero.
“Ah, smettila, lo sai anche tu” mi zittì, agitando una mano con noncuranza.
Ginger sospirò. “Oh, Abe, non dire così”.
“Lo sappiamo tutti che Harvey era un testone fin da ragazzo” continuò Abe,  brontolando come solo lui erano in grado di fare. “quella là lo ha rintronato del tutto. Sarebbe stato meglio se non l’avesse mai incontrata”.
“Ah, ehm, posso approvare?” azzardai, lanciando occhiate interrogative ad entrambi.
Ginger scosse il capo. “Certo che no” mi rispose, sbrigativa. “Abe, dovresti lavarti la bocca prima di dire certe cose”.
“E perché mai?”
Incrociò le braccia con aria severa, senza tuttavia abbandonare quell’aria dolce che la contraddistingueva. “Senza quella donna, non avresti nipoti!”
Sgranai gli occhi, sospresa. Oh, giusto. Non ci avevo pensato.
Lo stesso pensiero si leggeva chiaramente sulla faccia del nonno, che esibiva un’espressione stordita che avevo già visto diverse volte addosso a mio padre e anche a Joshua. L’unico pensiero che riuscii a formulare fu: ma ce l’ho anche io, quell’espressione ebete? E, ovviamente, ce l’avevo.
Abe grugnì sonoramente. “Non travisare le mie parole” brontolò un’ultima volta, per poi afferrare un giornale e nascondercisi dietro. Quella frase mi lasciò interdetta per qualche istante, poi compresi che quella reazione celava qualcosa di vagamente positivo, che il nonno si sarebbe vergognato di riferire a voce alta. Qualcosa come ‘non ci avevo pensato’ e ‘non lo direi mai in quel senso’.
Scoppiai a ridere, passandomi una mano sul collo. “Oh, be’, ormai è andata, in ogni caso: papà è irrecuperabile!” commentai, raggiungendo Ginger dietro al bancone. In effetti lo era davvero; era innamorato perdutamente, aveva già sofferto molto, ma nessuno sembrava avere una Giratempo, nei paraggi, per cui cambiare le cose sarebbe stato impossibile. “Allora, da dove comincio?” domandai, con entusiasmo.
Se Emily mi avesse sentito pronunciare quella frase, sarebbe scoppiata in una grassissima risata.  Da quando in qua mostravo interesse per qualcosa di costruttivo e utile? Sperdutolandia sarebbe stata indagata per omicidio: chi altri poteva aver ucciso la mia pigrizia passando inosservato? Ma il paese dell’innocenza, era ovvio!
Stavo servendo un caffè a uno degli amici di Abe, poco dopo, quando la porta di entrata si spalancò fragorosamente. “PAN!” Ci mancò tanto così perché facessi cadere la tazzina per lo spavento. Stavo migliorando, il mese precedente quel ‘tanto così’ non sarebbe mancato.
Sorrisi tra me, riconoscendo la voce. “A rapporto!” esclamai, lanciando un’occhiata verso la porta. “Ehi, ma che...?” ebbi giusto il tempo di pronunciare quelle parole che il mio cervello si disattivò.
Ci sono momenti in cui vedi tutta la vita passarti davanti agli occhi. Quello era esattamente uno di quei momenti, ovvero quando Kameron Towell,  un metro e ottanta di altezza e settantacinque chili di muscoli – ma sempre e comunque settantacinque chili, miseriaccia! –  mi corse incontro come un cavallo imbizzarrito senza accennare a fermarsi. Chiusi gli occhi, allarmata, attendendo l’impatto che arrivò due secondi e mezzo dopo.
Fu un perfetto placcaggio in stile football americano.
Il mio sedere si schiantò sul pavimento con un inquietante fragore che, ne ero certa, non avrei mai dimenticato. Per un istante sentii il cuore balzare tra il naso e la bocca, per inerzia, per poi tornare al suo posto.
“Sei tornata!” constatò Kameron con sommo entusiasmo, come se non mi avesse appena fatto volare per terra in mezzo al saloon.
“Sei un cretino!” osservai in risposta a denti stretti, per evitare che le grida di dolore del mio osso sacro uscissero dalla mia bocca.
“Ahia!” si lamentò Kameron, con aria sorpresa, ignorando la mia constatazione - forse talmente ovvia anche per lui da non meritare considerazione. “Mi hai fatto male”.
“Ah, io?” Ero sul punto di sbattergli la tazzina da caffè in testa, quando mi cadde lo sguardo sulla sua schiena: “Oddio, ma sanguini!”, trasalii, notando una macchia scura sulla maglietta.
Il dolore era sparito, improvvisamente sostituito dal panico: Kameron si era fatto male. Non che non gli stesse bene, ma, oddio, e ora? Che avrei fatto? Dovevo chiamare il pronto soccorso! “Levati dalle mie gambe, devo alzarmi!” esclamai, allarmata.  “Levati, Kam, avanti! Qualcuno chiami un’ambulanza!”
Kameron rise, vedendomi così agitata. “Sanguino? Ma che dici?” si contorse per tastarsi la maglietta sulla schiena e, subito dopo,  ritrasse la mano con un’espressione leggermente disgustata. “Mi hai versato qualcosa addosso. E – ahi! –  scotta!” constatò, senza accennare ad alzarsi.
“Di cosa stai parlando? Stai delirando, è più grave di quanto sembra, io...”
“Ah, ma smettila!” intervenne Abe, contrariato. “Gli hai versato addosso il caffè, non vedi?” sbuffò, lanciandomi un’occhiata severa. “Sei proprio la figlia di tuo padre”.
Cosa? “Eh?” Solo quando mi resi conto di avere ancora la tazzina – miracolosamente intatta – in mano, capii che non c’era alcun motivo per morire di paura. Alla fine non era servito a molto averla salvata dalla caduta, se poi ne avevo rovesciato il contenuto. “Sei un cretino!” ribadii, attonita, guardando il ragazzo negli occhi. Ero estremamente sollevata, ma anche un po’ stordita dall’accaduto. “Un grande, grosso e pesantissimo diavolo di cretino!” constatai, facendolo ridere.
Un solo pensiero si fece strada nella mia mente, una volta cacciata la confusione: mi era mancato, durante la settimana passata. La sua risata contagiosa stava già invitando la mia a raggiungerla, ma non volevo dargliela vinta così presto. Così decisi di continuare la mia delirante protesta finché potevo: “Ma che diavolo ridi? Mi hai distrutto l’osso sacro e hai rischiato di farmi venire un colpo! Ti sembra che... ah, ma vuoi toglierti di qui? Miseriaccia! Le mie gambe implorano pietà! Altro che Ossofast, qui ci vorrebbe un barile di Felix Felicis per evitare di essere uccisa! Sei un... un... un imbecille!” Come c’era da aspettarsi, il mio autocontrollo non durò a lungo: alla parola ‘Ossofast’, la mia voce aveva iniziato a suonare stridula e singhiozzante per via delle risate. Nel giro di una manciata di secondi, ovvero quando una figura dalla coda di cavallo bionda entrò nel saloon accompagnata da Terrence, la casa stava offrendo lo spettacolo di due cretini in preda a un potente attacco di ridarella, stesi l’uno accanto all’altro tra tavoli e clienti.
Persino Ginger, che osservava la scena da dietro il bancone, se la rideva allegramente.
“Sei tornata!” osservò Aggie con aria sorpresa.
“È tornata!” confermò Terrence, sorridendo allegramente.
Agatha gli rivolse un’occhiata meravigliata. “Terrence aveva ragione. È incredibile.”
“Ehi, e con questo che intendi dire?” protestò lui, accigliandosi. Lei rise sotto i baffi e fece un paio di passi verso di noi. Kameron si tirò su a sedere, senza smettere di ridere. “Ehi, Aggie, hai visto? È tornata!”
Iniziavo a chiedermi – per quanto potessi essere lucida in preda alla ridarella – per quale motivo tutti sembravano credere che non sarei tornata. “Sempre questo tono sorpreso!” (**) esclamai, per poi ricominciare inevitabilmente a ridere seguita dal mio degno compare.
Mi ci volle qualche minuto per recuperare un minimo di contegno. Ogni volta che smettevo di ridere, Kameron ricominciava più fragorosamente, trascinandomi nuovamente in quel delirio. Fu difficile, ma alla fine ci riuscii.
“È tornata” concluse Agatha, con un mezzo sorriso. “Ciao, Pan!”
“Ciao Aggie!” risposi, sorridendole a mia volta. “C’è un motivo preciso per cui tutti sembrano credere che non l’avrei fatto?”
Lei si strinse nelle spalle, stringendo le labbra in un’espressione incerta. “Non so, sembrava una cosa logica”.
Logica? Cosa c’è di logico?
“Non ti è mai piaciuto stare qui” spiegò Kameron, senza abbandonare la solita allegria. “Eppure sei tornata” ripetè per l’ennessima volta. Il suo sorriso esprimeva sollievo e orgoglio e questo non potè che riempirmi di goia: erano felici di rivedermi.
Un sorriso si allargò spontaneamente sul mio volto. Improvvisamente ero incapace di contenere la mia gioia.
Al ritorno in città ero stata accolta da una montagna di cambiamenti e novità, a partire dal nuovo taglio di capelli di Emily per finire con Roastbeef – povera creatura. Vedere che la vita era andata avanti senza di me, come se nulla di importante mancasse, era stato inconsciamente doloroso, seppur fosse sempre stato ovvio che le cose sarebbero andate così. L’ovvietà, tuttavia, non rendeva la situazione meno dolorosa o più semplice da accettare; era solo chiaro che dovevo abituarmi all’idea senza poter cambiare le cose.
A Sperdutolandia, invece, non era cambiato nulla. Il nonno era sempre il solito brontolone, le strade al groviera, Ginger sorrideva nello stesso identico modo e quelli che potevo considerare amici mi avevano aspettata per tutto il tempo. A pensarci ora, effettivamente, in una settimana non potevano essere avvenuti tanti cambiamenti quanti in un’intera estate, ma qualcosa mi diceva che, anche dopo anni, Sperdutolandia non avrebbe dimenticato nessuno.
“Credo che questo posto sia quello giusto per me, non ho potuto fare a meno di tornarci”.
 
 
DubbiDomandeDelucidazioni:
(*) Il gatto del Cheshire, è quello comunemente chiamato Stregatto per via della Disney. Se non l’avete ancora letto, leggete entrambi gli ‘Alice’, ne vale la pena. ^^ Il riferimento è al fatto che il gatto del Cheshire parla e sorride, mentre Ginger ha un sorriso che parla. È una cretinata, lo so, ma non guardate me: è stata Pan a pensarlo!
(**) È davvero necessario specificarlo? Citazione da ‘Harry Potter e i Doni della Morte’, Ron a Hermione e Hermione a Ron. Nei film la frase è stata pronunciata sicuramente, non sono sicura che sia presente anche nel libro.

In der Ecke - Nell'angolo:
Salve! Ecco qui il nuovo capitolo, spero che via piaccia/vi sia piaciuto. Mi ero dimenticata di dire, la volta scorsa, che ho creato un gruppo su facebook: Per la barba di Merlino, Pan!, se vi va potete iscrivervi, accetterò la vostra richiesta il prima possibile. :3 È un'idea che ho rubato in giro, mi sembrava una cosa carina per rimanere informati sugli aggiornamenti a magari fare due chiacchiere. :3
Vi auguro un buon periodo di fine scuola, che faccia presto a finire, soprattutto. Spero di poter aggiornare presto, comunque.^^
Se avete domande, chiedete pure, momentaneamente non mi viene in mente nulla da specificare. 
Grazie se siete arrivati fino a qui. :3

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Capitolo 29
*** 29 ***


Cows and jeans

29

 

Ci sono certe invasioni di campo totalmente inaccettabili – quelle dei Dissennatori durante una partita di Quidditch, per esempio – e altre che, invece, sono tutto fuorché spiacevoli. Come l'entrata in scena di un nuovo amico, la nascita di un nuovo essere umano o il ritorno di qualcuno che non si vedeva da tempo. Quella che stava per avvenire era un'invasione di campo a metà tra la prima e la seconda tipologia. Era come i tentativi di Dobby di salvare la vita di Harry: decisamente disorientanti e allo stesso tempo rassicuranti. Qualcosa di davvero difficile da esprimere – positivamente – a parole.

Quella mattina decisi di andare al lavoro con la mia auto. Un po' perché la adoravo e un po' per far vedere al nonno che non ero totalmente inutile. Ora ero in grado di essere più autosufficiente di prima e ritenni più che giusto iniziare subito ad esserlo.

Le sospensioni della mia povera automobile venivano gravemente compromesse dagli sterrati di Sperdutolandia, ma, visto che erano le uniche strade percorribili, non potevo evitare che accadesse. D'altra parte sarebbe stato inutile lasciarla in mezzo all'aia come gazebo per le galline. Perché, sì, quei geniali pennuti, non appena l'avevano vista ci si erano nascosti sotto. I polli erano stati entusiasti del loro nuovo rifugio, tanto è vero che era stato piuttosto difficile quella stessa mattina cacciarle tutte da lì sotto e mettere in moto la macchina. Anche perchéovviamente non le si poteva spaventare - o al nonno sarebbe venuto un col-... ehm, avrebbero smesso di fare le uova - e quindi la mia idea di attaccarsi al clacson era stata miseramente bocciata.

E così sai guidare” bofonchiò il nonno, seduto sul sedile del passeggero.

Avevo come l'impressione che stare a guardare mentre conduceva qualcun altro non gli piacesse affatto. Fissava la strada davanti a sé con aria attenta e si teneva forte alle maniglie di sicurezza.

Vuoi che rallenti? Non sto andando forte” azzardai, incerta.

Mi lanciò un'occhiata di sottecchi e si schiarì la voce. “Stai insinuando che ho paura?”

Precisamente. “No, affatto. Pensavo che, forse, la mia guida potrebbe disturbare il... ehm, il tuo stomaco. Puoi abbassare il finestrino se vuoi”. Era plausibile, in fondo. Non ero abituata a guidare una macchina, me ne ero quasi dimenticata a forza di lasciar che fossero gli altri a portarmi in giro. Ricominciare tutto in una volta con un viaggio lungo come quello per Sperdutolandia, senza che qualcuno potesse mai darmi il cambio alla guida, era stata una terapia d'urto piuttosto efficace. Sapere di aver di fronte a me solamente quindici chilometri mi trasmetteva una certa tranquillità. Non scattavo, non frenavo continuamente e non avevo improvvisi vuoti mentali in cui mi chiedevo come si faceva a curvare – cosa che, lo ammetto, era accaduta un paio di volte durante il viaggio di due giorni prima.

No. Il mio stomaco sta benissimo, grazie” rispose, brusco come sempre.

Sospirai. Avevo tentato di accendere la radio, poco prima, ma era stato inutile. L'unica stazione radiofonica che non gracchiasse come un corvo nella stagione degli amori trasmetteva interminabili pubblicità e notizie sul traffico. Informazioni decisamente inutili a Sperdutolandia, dove le automobili in circolazione non erano più di sei.

Sai, non sembri per nulla a tuo... CAVOLO!” Stavo proprio per far notare ad Abe che il suo disagio non era affatto passato inosservato, quando, dopo una curva, vidi qualcosa che annebbiò totalmente la mia razionalità. Affondai il piede sul freno e il nonno fece giusto in tempo ad aggrapparsi al sedile per non finire spiaccicato contro il parabrezza. “Che diavolo di prende, ragazzina!?” sbottò, esterrefatto, mentre spalancavo la portiera e saltavo giù dall'auto. Ehm, mi ero dimenticata di mettere la cintura di sicurezza, sì.

Il bello delle strade di Sperdutolandia era che si poteva inchiodare da un momento all'altro senza causare un tamponamento a catena lungo chilometri. 
Avevo le allucinazioni, non c'era altra spiegazione. Eppure avrei potuto scommettere che quel ragazzo imbronciato che prendeva a calci un borsone una decina di metri più avanti fosse mio fratello.

Ehi!” gridai, cercando di attirare la sua attenzione, a costo di fare una figuraccia. Se non è lui, mi giurai, andrò di paese in paese finché non troverò uno straccio di ottico che mi venda un paio di occhiali.

Dove stai andando ora?” Abraham stava scendendo dall'auto con aria contrariata. “Sei impazzita del tutto?”

Lo guardai confusa. “Quello è Josh!” esclamai, come se fosse una spiegazione logica per quello che avevo appena fatto.

Chi?”

Mio fratello!”

E che diavolo ci fa qui tuo fratello? Sali in macchina, prima che mi metta al volante e ti investa! Ma, dico, stai forse cercando di uccidermi?”

Risi. “Come sei melodrammatico!” commentai a voce alta, avviandomi poi a passo spedito verso l'individuo che aveva quasi causato la morte di mio nonno – a sua detta, ovviamente.

Stava imprecando a mezza voce con un paio di grosse cuffie a coprire le orecchie ed evitare la percezione di qualunque suono dal mondo esterno. Geniale, davvero. Continuava a calciare un borsone con il logo di una società sportiva, apparentemente troppo stanco e arrabbiato per portarlo in spalla, dove d’altro canto reggeva uno zaino. Mi dava le spalle, quindi non aveva modo di vedermi. Le circostanze dicevano tanto 'ti prego, investimi', ma io ero superiore a queste cose. Ero la sorella maggiore, in fondo. Quando finalmente gli fui abbastanza vicino, provai a chiamare il suo nome e a ottenere la sua attenzione, ma ascoltava musica ad un volume talmente alto che potevo udirla a circa tre o quattro metri di distanza. “Josh!” lo chiamai, realizzando con sorpresa che si trattava davvero di lui. “Sei proprio tu! Che ci fa-... TI TOGLI QUELLE CUFFIE?!” sbottai, sperando che mi sentisse.

Ovviamente, però, non successe, quindi decisi di strappargliele dalle orecchie. “Cosa ci fai qui?” domandai con impazienza, mentre mio fratello sobbalzava e mi guardava come se avessi appena attentato alla sua vita. Mi avevano tutti preso per un'assassina?

Pan!”

Davvero? Mi ero dimenticata il mio nome! Che ci fai qui?”

Joshua sbuffò. “Trascorro l'ultima settimana di vacanze, no?”

Feci una smorfia confusa. “Lo dici come se fosse una cosa ovvia”.

Be', perché lo è”.

Ehm, no che non lo è!” obiettai, piccata. “Ciao, comunque. Come hai fatto ad arrivare fin qua?”

A piedi. O credi forse che mi sia gettato da un elicottero?”

Soffiai una risata sarcastica. “Una passeggiata decisamente lunga, partendo da casa. Perché nessuno mi ha detto che saresti venuto?” Perché era venuto, soprattutto? Non aveva un esame di riparazione di fisica, in quei giorni? Cosa ci faceva a Sperdutolandia?

Ero esterrefatta. Mi alzavo la mattina per andare al lavoro, salivo in macchina e, a metà strada, trovavo mio fratello intento a tirar calci al borsone che gli avevano dato agli allenamenti di tennis.

Era un fulmine a ciel sereno. Se l'intento dei miei familiari era stato farmi una sorpresa potevano ritenersi soddisfatti: ci ero rimasta di sasso. E avevo rischiato di far venire un colpo al nonno.

Nella mia testa regnava il caos, in quel momento. Non sapevo come prendere la notizia – o meglio l'evidenza, ormai – del suo arrivo. Avevo un sacco di domande e lui, mentre mi osservava con quel suo sguardo di superiorità, stava aumentando il mio tasso di delirio cerebrale dandomi sui nervi.

Joshua in campagna era fuori luogo come un unicorno nella stalla delle mucche dei Towell. Lo ero anche io, certo, ma per lo meno ero un Thestral e quasi nessuno poteva vedermi né fare troppo caso alla mia diversità.

Ehi, tu! Vuoi fare tardi?” La voce del nonno mi giunse come lontana chilometri. Mi ero dimenticata della sua presenza, del lavoro, di tutto. L'arrivo di Joshua significava un'inaspettata interferenza nella quotidianità di Sperdutolandia e nella mia nuova vita. Temevo che la sua presenza sarebbe stata per me un continuo ricordo di ciò che mi ero lasciata alle spalle e a cui ero sfuggita.

Quello là è Abe?” mi domandò Joshua, guadagnandosi un'occhiataccia per avermi strappato ai miei pensieri.

Perché, non te lo ricordi, forse?” sputai, come se la colpa dell'interruzione delle visite al nonno fosse stata colpa sua. Sospirai, rendendomi conto di aver esagerato. “Sì, è lui. Prendi il borsone, vieni, ti do un passaggio” proposi.

Lo dici come se mi stessi facendo un favore” commentò Josh, obbedendo.

Risi. “Be', è così, no?”

Non attesi la sua risposta, mi avviai verso la macchina, sorridendo incoraggiante ad Abe. “Ehi, nonno, guarda chi c'è!”

Un altro citrullo di città?” indovinò lui, lanciandogli un'occhiata severa. “Maledizione, è Harvey da ragazzo!”

Mi accigliai, lanciando osservando mio fratello con sguardo critico. “Davvero? Gli somiglia?”

Altroché! Mi sembra di essere tornato indietro nel tempo. Di' un po'” continuò, rivolto a me. “ha anche lo stesso caratteraccio?”

No, è anche peggio. Il carattere di papà l'ho ereditato io” spiegai, divertita.

Smettila di parlare di me come se non ci fossi” mi rimproverò Joshua a mezza voce. “Dove metto la borsa?”

Nel porta bagagli” risposi, precedendolo per aprire lo sportello. “Questo è Joshua, nonno, comunque” comunicai, anche se, dopo la sua affermazione di poco prima, doveva averlo capito.

Il modo in cui Joshua fuggiva il suo sguardo mi intenerì. Fuori dal suo ambiente, di fronte a persone con cui non era in confidenza, sfoggiava tutta la sua reale timidezza. Abbandonava le movenze annoiate da strafigo e dietro quella facciata costruita si scorgeva il ragazzo che davvero era: non così stupido e non così perfetto. La sua timidezza era un fattore disarmante, palesata solo nei momenti in cui più si trovava a disagio, sottoposto al giudizio di nuove persone. Non era abituato a non sapere se sarebbe piaciuto. Dove eravamo cresciuti ogni comportamento corrispondeva a un sì o a un no secchi, ben conosciuti. In un ambiente nuovo non era semplice nemmeno per lui, di solito fin troppo sicuro di sé, indovinare cosa sarebbe stato preso come positivo e cosa come negativo. Quella sua – a me – evidente debolezza mi faceva sentire meglio, per quanto queste parole possano sembrare meschine: ero un passo avanti a lui, per una volta.

Ripartimmo subito. Josh si sedette sui sedili posteriori senza aprir più bocca, fissando ostinatamente fuori dal finestrino, proprio come il nonno. Io, invece, non riuscivo a chiudere bocca. Continuavo a farneticare a proposito di nulla – come sempre – e mi rendevo conto di quanto sembrassi stupida. Non riuscivo a sopportare quel silenzio denso di domande inespresse, rimpianti e ricordi. In quanto tramite tra Abe e Josh mi sentivo in dovere di far qualcosa per cancellare quel disagio e, per qualche motivo, il mio cervello aveva deciso che l'unica soluzione plausibile era rompere il silenzio. Parlando a vanvera senza alcun ritegno.

Appena parcheggiai l'auto in paese, saltai giù e corsi – letteralmente – a rifugiarmi nel saloon prima che quell'insopportabile silenzio mi uccidesse.

Entrare fu come prendere una boccata d'aria fresca, nonostante lì dentro facesse piuttosto caldo. Avvistai subito Kameron e Terrence seduti ad un tavolo. Giocavano a carte, o meglio il secondo stava cercando di insegnare al primo a giocare a poker. Il giorno prima ne avevano discusso per un quarto d'ora buono, dopo quell'interminabile serie di 'È tornata!', e Terrence aveva scommesso con Aggie che sarebbe riuscito a insegnare a quell'altro zuccone a giocare. Agatha aveva scommesso contro questa eventualità, ovviamente, e io mi ero dichiarata neutrale a qualunque disputa – anche se dubitavo sulla riuscita di quell'intervento, visti i livelli di astuzia di maestro e allievo.

Buongiorno a tutti!” salutai, sorridendo in direzione di Ginger. “Ehi, Kam!” esordii, dirigendomi verso il tavolo.

'Giorno!” mi salutarono i due in coro. Terrence nemmeno distolse lo sguardo dalle carte da gioco.

Ciao” ripetei, meccanicamente. “Qual è la cosa più strana che ti sia mai capitato di raccogliere per strada?” domandai, già pronta a introdurre mio fratello in quel modo.

Ehm... te?” rispose lui, ridendo sotto i baffi. Era l'ultima risposta che mi sarei aspettata. Quelle parole sconvolsero il filo logico del discorso che mi ero prefissata.

Mi accigliai, indispettita dal crollo del mio futuro da presentatrice gloriosa. “Perché, scusa, io sono una cosa strana?”

Si strinse nelle spalle. “Be', magari non proprio strana...”

E magari neanche una cosa, mi auguro!” lo interruppi, inarcando le sopracciglia con aria severa.

Lui mi ignorò. “...però devi ammettere che la situazione lo era. Eri seduta su una valigia nel bel mezzo della strada, mezza nuda e...”

Questa volta la mia indignazione non poté essere ignorata. “NON ERO MEZZA NUDA!” sibilai, scandendo bene le parole.

Mezza nuda?” domandò Terrence al cantastorie improvvisato, apparentemente interessato.

No!”

Eri senza maglia” mi corresse Kameron. “Quindi eri mezza nuda” concluse, con aria da intellettualoide.

Dici idiozie. Quindi devi essere un grande e grosso pezzo di idiota! “Ero in canottiera, faceva un caldo bestia!” precisai, con voce così acuta che, se solo i vecchi di Sperdutolandia ne avessero avuti, tutti gli apparecchi acustici dei presenti avrebbero fischiato come Madama Bumb all'inizio di una partita di Quidditch.

La porta si aprì ed entrarono Abe e Josh; il primo andò a sedersi al solito tavolo, mentre mio fratello rimase impalato vicino all'entrata, cercando un posto adatto.

Udii a malapena il “Peccato” borbottato da Terrence, determinata a mandare al diavolo quei due e a far compagnia a mio fratello. La distrazione, fortunatamente, mi impedì di arrossire come una scema agli pseudo-apprezzamenti di quello zoticone. “Al diavolo tutti e due, mi avete rovinato il discorso” brontolai, per poi raggiungere il bancone e far cenno a mio fratello di avvicinarsi: il posto giusto per sedersi erano gli sgabelli lì accanto. “Io devo lavorare” gli comunicai, quando si fu accomodato.

Lavori? Tu?” domandò, incredulo e con una punta di scetticismo che mi offese.

Non ero io quella che si era fatta rimandare in fisica, non ero io a far pipì sulla tavoletta del water e a non degnarsi nemmeno di asciugarla, non ero io a non saper che prodotto usare per pulire e non ero io a non aver alzato un dito per tutta l'estate se non per premere i pulsanti di una consolle. “Te l'ho già detto” sottolineai, piccata. “Questo è per farti capire che, visto che nessuno si aspettava il tuo arrivo, te ne starai qui ad aspettare tutto il giorno, perché nessuno ti accompagnerà a casa. Sempre che tu non voglia esplorare il paese, perché, se è così, ti consiglio caldamente il negozio di Cassie”.

Lui sbuffò e indossò la sua solita espressione annoiata. Roteai gli occhi e mi accinsi a preparare il caffé che il signor Milton avrebbe ordinato da un momento all'altro – lo faceva ogni volta dopo cinque minuti che entravo, spaccava il secondo. Quando tornai a guardarlo, stava fissando il cellulare con aria contrariata. “Non c'è campo” osservò.

Ridacchiai e assunsi l'aria esperta di una persona che ormai si era abituato alla – come definirla? - diversità di Sperdutolandia. “Come no? Non hai visto fuori? Ce ne sono quanti ne vuoi!”

Mi rivolse un'occhiata straripante insofferenza e compassione, dopodiché si illuminò: “Ah, mamma mi aveva detto di avvertirti”.

Di cosa?”

Hai dimenticato la simpatia sul letto”.

Ok, ci sta a pennello. Non riuscii a trattenere le risate, presa in contropiede. “Touche” gli concessi, divertita. Le mie risate avevano attirato l'attenzione di Kameron, notai: aveva posato le carte e guardava nella nostra direzione con aria curiosa. Gli feci una linguaccia, mentre mio fratello domandava come fare a telefonare a casa. “Mamma ha detto di chiamarla una volta arrivato”.

Sì. C'è il telefono pubblico” spiegai, indicandogli il separé. “È lì dietro. Se hai bisogno di spiccioli, credo di averne io”.

Joshua mi osservò per qualche istante, come per capire se dicessi sul serio. In città i telefoni pubblici rimasti erano davvero pochi e caduti in disuso. Una volta avevo usato una cabina telefonica solo per togliermi la curiosità e scoprire come ci si sentiva – avevo telefonato a papà al lavoro –, ma dubitavo che Joshua ne avesse mai utilizzato uno. Compreso che non si trattava di uno scherzo, mi porse una mano con il palmo rivolto all'insù e un'espressione pacata. “Grazie” disse solo.

Strabuzzai gli occhi. “Non ci hai neanche guardato”.

Come siamo spilorci!” esclamò, con aria falsamente offesa. Non avrebbe avuto alcun diritto di esserlo.

Sbuffai, estraendo qualche moneta dalla tasca. “Oh, io non lo so, ma tu lo sei di sicuro!” brontolai.

In quel momento Kameron ci raggiunse, sorridendo sornione. “Ehi, ma siete due!”

Joshua gli rivolse un'occhiata compassionevole e poi mi interrogò con lo sguardo.

Cavolo, Kam, hai imparato a contare! Bravo! Vuoi una caramella?”

Oh, e dai, non te la sarai presa!”

Osservai per qualche istante il suo sorriso sornione, che mi ricordò tanto quello che sfoggiava la prima volta che l'avevo visto. “Sfoderi quell'aria da latin lover ogni volta che incontri una persona nuova?” mi informai. “Non per smontarti, ma io non ne sono rimasta impressionata e credo nemmeno Joshua lo sia” commentai.

Kameron rise, mentre Terrence ci raggiungeva inciampando in un paio di sedie. “Ehi, ma ci sono due Pan!” fu la sua infelice presentazione.

No, non due Pan: una Pan e un Joshua – c’è la sua bella differenza.

L'occhiataccia che gli lanciò mio fratello fu impagabile. Non riuscii ad evitare una risatina, che Terrence, ovviamente, scambiò per una reazione alla propria battuta.

Quello è il famoso Kameron?” mi chiese Josh, aggrottando le sopracciglia.

No, Kameron è l'altr- “

FAMOSO!” trillò Terrence, divertito. “Cavolo, sei famoso, Kam!”

Sospirai esasperata, domandandomi per la prima quanto avrebbe potuto essere devastante per i nervi di un comune mortale la compagnia di quel tizio per un tempo prolungato. Ringraziai il cielo di non doverlo mai sperimentare sulla mia pelle, inconsapevole del fatto che, invece, avrei sopportato qualcosa di molto peggio. Qualcosa come la combinazione vincente ‘Terrence-Kameron-primo giorno di scuola’, ma questa è un'altra storia.

“Ma piantala! Josh, questi sono Terrence e Kameron. E questo è mio fratello”.

“Un altro Fletcher!” esclamò Kam, amichevole, porgendo una mano a Joshua, che la strinse abbozzando un sorriso. “Bingo” rispose.

“Dai, va' a telefonare a mamma” lo spronai, imbarazzata. Presentare il proprio fratello agli amici – o meglio a Kameron, perché Terrence non rientrava nella categoria, almeno fino a quel momento – era come unire il 'se stesso' familiare a quello che emerge in compagnia di coetanei – o quasi. Era strano, era come mettere a contatto i poli positivo e negativo della propria personalità, senza sapere cosa sarebbe potuto accadere a causa di questa unione. Interferenza delle reti telefoniche? Esplosione nucleare?

“E così questo è Joshua!” esclamò Kameron, non appena lui si fu allontanato.

“Già” brontolai, afferrando la tazzina del caffé. Girai attorno al bancone e la portai al signor Milton, che, vedendomi arrivare, mi sorrise grato. “Oh, stavo giusto per chiedertene uno!”

“Sono brava, eh?”, sorrisi, tornando poi dietro al bancone.

“Non sembra così male” commentò  Kameron, cercando lo sguardo di Terrence, il quale annuì risoluto. “Già. Vi somigliate molto”.

Feci una smorfia infastidita. “È questo il suo problema, non sembra male. Anzi, è proprio il contrario: non è affatto male, ma vuole a tutti i costi sembrare un cretino” brontolai, cercando qualcosa da pulire, giusto per occupare il tempo. Ginger era uscita a far rifornimento, ma nonostante la sua assenza non c’era molto da fare.

Kameron rise. “Farò finta di aver capito”.

“Non è cretino come sembra” spiegai con uno sbuffo.

“Perché non ci hai detto che sarebbe arrivato? Sorpresa? Per quanto resterà?”

“Non lo sapevo neanche io, fidati. Ehi, Josh, per quanto resterai?” gli domandai, mentre ritornava a sedersi con aria esasperata.

“Una settimana, penso”.

“Come sarebbe a dire che lo pensi?!” guaii, sconcertata. Come può una persona presentarsi a casa altrui senza preavviso e senza sapere quando se ne andrà? Non avevamo nemmeno una camera in cui metterlo a dormire, per inciso, la mia agitazione era più che lecita.

“La tua accoglienza è sempre impeccabile, sorellina”.

“Vero? Come ti è venuta la grande idea di venire qua?”

Terrence e Kameron assistevano allo scambio di battute con aria palesemente divertita. Non ero sicura che quell’accoppiata mi piacesse, tutto d’un tratto. Sembrava che il loro intelletto sopraffino unito risultasse ancora più deludente di quando li si prendeva singolarmente. “Che hai da ridere tu?” sbottai, lanciando un’occhiataccia a Kameron.

“Pan, ti devono venire?” mi stuzzicò Josh, sempre più divertito. L’idea di prendermi in giro e farmi delirare davanti alla gente di Sperdutolandia sembrava entusiasmarlo un sacco.

“Sì!” ammisi in un sibilo, dando un pugno sul bancone. “Felice, ora?”

Le conseguenti risate collettive furono una chiara manifestazione del fatto che, sì, erano tutti e tre molto felici di quella notizia. Evviva, a Pan devono venire  le mestruazioni, yahoo!
Kameron diede una pacca sulla spalla a Joshua. “Sei forte!”, si complimentò.

Alzai gli occhi al cielo e sbuffai, mentre mio fratello si stringeva nelle spalle per incassare meglio il complimento.

Fantastico, ci mancava solo la coalizione stipulata tramite il prendersi gioco di me. Incrociai le braccia con aria stizzita. “Fortissimo! Una specie di Ercole!” commentai, sarcastica. “Ora perché non tornate a giocare a carte, visto che c’è una scommessa in atto? Oh, anzi, visto che tanto non avete speranze di vincere” Sì, vai così! Al diavolo la neutralità! “perché non ve ne andate tutti e tre a farvi un giro?”

“Perché no!”

Ecco, perché no? Via, fuori dai piedi!

Avevo ufficialmente un mal di pancia premestruale e una pessima sensazione a proposito di ciò che la presenza di Joshua avrebbe rappresentato. Sarebbe stata un’esperienza... curiosa



In der Ecke - Nell'angolo: 
Buona sera e buon 2 Giugno, anche se la giornata è ormai finita! ^^
Risponderò stasera stessa alle recensioni, che, lo giuro, mi hanno riempito di soddisfazione. Sono stata contenta di vedere tante di voi richiedere l'iscrizione al gruppo, spero che continuerete a frequentarlo (anche se lo intaso con un po' di tutto xD) e ad iscrivervi. :D Se a qualcuno interessa, è questo: 
https://www.facebook.com/groups/410264445669928/ 
Pooooi. Tadannn! Joshua che spunta come un fungo in mezzo alla strada! Ve lo aspettavate? :D Cosa ne pensate?
Probabilmente mi sono dimenticata di nuovo di dir- AH!  Volete vedere un altro Pantastico (termine preso in prestito da Daffy!:3) disegno della meravigliosa Mary? Eccolo qua: 
http://marybleis.deviantart.com/gallery/#/d50bdfk 
Anzi due, eccone un altro: 
http://marybleis.deviantart.com/gallery/#/d515is1 
PS: Nel gruppo ce n'è qualcuno in più :3


Be', gente, io credo di aver detto tutto. Spero che il capitolo vi piaccia e che l'ultima settimana di scuola sia per tutti leggera come una piuma!:D




 

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Capitolo 30
*** 30 ***



 
Questo capitolo è dedicato a tutti voi, perché è anche merito vostro se la storia
è giunta fino a questo punto.
Grazie a chi legge, a chi recensisce (116 recensioni!**),
a chi segue (117), preferisce (48) e ricorda (19). :3
Certe volte, davvero, non c’è nulla che mi faccia sentir bene quanto vedere quanti siete e leggere cosa pensate. 
Mi restituite puntualmente il buon umore quando serve. 
Grazie.


Cows and jeans
30
 
(Trenta! Oh misericordia! Come ci siete arrivati fin qua senza collassare?
...perché non siete collassati, vero?)

Per quanto l’idea di sapere mio fratello in giro per Sperdutolandia assieme a Kameron e Terrence senza la mia supervisione mi agitasse, c’era qualcosa che mi preoccupava anche di più. Questa era chiaramente la convivenza con Joshua e Dean. Come se il solo irritante e arrogante Trenino Thomas non fosse abbastanza, a partire da quel giorno ci sarebbe stato anche il mio meraviglioso fratello minore con cui condividere gli spazi domestici. Mister Perfezione – o almeno così lo riteneva implicitamente mia madre – sarebbe stato un ottimo candidato per rendere la mia quotidianità sensibilmente più complicata. No, forse era meglio sostituire quel ‘sensibilmente’ con un ‘decisamente’.
Non che la sua presenza mi desse particolarmente fastidio – sì, invece! Perché doveva sempre intromettersi? Sperdutolandia non era un posto adatto a lui, il suo habitat era la città! -, per lo più mi preoccupava il cambiamento nella mia routine che essa avrebbe comportato. I cambiamenti erano sinonimo d'incertezza e questo mi turbava. Sarebbe rimasto a Sperdutolandia solo temporaneamente, ma temevo che potesse dire o fare qualcosa che avrebbe modificato l’idea che le persone del luogo si erano fatte di me. Non volevo che pensassero fossi una sfigata o magari una bambina viziata. Avevo paura che Agatha e Kameron potessero cambiare opinione di me e, in parte, anche il pensiero che Dean potesse ricevere una conferma a tutti i suoi pregiudizi nei miei confronti mi allarmava. Sì, ero egoista, pasticciona, pigra e decisamente irascibile, ma non ero una stupida principessina, non ero viziata e non pretendevo che gli altri rimediassero ai miei errori. Sarebbe bastato davvero poco, temevo, perché il mio caratteraccio risultasse ancora peggiore, specie se messo in confronto con la personalità brillante e divertente che mio fratello sapeva sfoderare.
Quando all’ora di pranzo Terrence rientrò con Joshua nel saloon, ridendo a crepapelle, mi ricordarono assurdamente Saetta McQueen e Cricchetto. Quando poi Terrence raccontò con un certo orgoglio di aver convinto mio fratello e Kameron a nascondere i vestiti di Agatha, che la signora McDonnel aveva appeso ad asciugare al sole, il paragone mi parve ancora più azzeccato. Il loro comportamento era stato lo stesso – circa - di Cricchetto e McQueen quando suonavano il clacson per spaventare e far ribaltare le ruspe addormentate. O erano trattori?  A ogni modo le conseguenze sarebbero state piuttosto disastrose. Anche in "Cars" alla fine la mandria era corsa in città combinando qualche danno, no? No, ripensandoci quello doveva essere Tarzan con gli elefanti.
Non fu quindi troppo sorprendente veder spuntare un’inviperita Aggie dalla porta d'ingresso appena mezz'ora dopo. Aveva tutta l’aria di voler prendere a schiaffi qualcuno. Sbraitò contro Terrence un numero esorbitante di improperi, assicurando che, nonostante la sua momentanea assenza, Kameron non si sarebbe salvato da una ramanzina coi fiocchi. Non che questo potesse spaventarlo, a quanto ne sapevo. Anzi, avrei osato dire che si divertiva un sacco quando Aggie sfogava tutta la sua rabbia su di lui, soprattutto se riusciva a irritarla ancora di più con il suo indelebile sorriso allegro.
“E si può sapere tu chi cavolo sei?!” fu l’arguta conclusione dell’iracondo monologo di Agatha. Ovviamente si riferiva a Joshua, che aveva tutta l’aria di divertirsi un mondo. Quanto ci aveva messo per ambientarsi, mezzo secondo? Magnifico.
Sbuffai. “Lui è mio fratello Josh” spiegai, mentre preparavo un panino per pranzo a Terrence – ottima scelta, con le pietanze da non cuocere me la cavavo molto meglio.
“Grande. Un altro idiota di città” commentò contrariata.
Come sarebbe a dire ‘un altro’? Alzai la testa di scatto. Mi stava forse dando dell’idiota? La presenza di Joshua stava già dando i suoi frutti, evidentemente. Si meritava proprio un bel regalo di Natale. Magari lo avrei comprato da Cassie...
“Dici? Per te posso anche esserlo, dolcezza”.
Cosacosacosa? Per poco non mi cadde il barattolo della maionese dalle maniIl suddetto idiota aveva davvero detto quel che mi sembrava avesse detto?
Sgranai gli occhi, incredula, e mi lasciai sfuggire un “Ma che diavolo dici?”. Contemporaneamente Agatha espresse lo stesso pensiero – sostituendo ‘diavolo’ con ‘cavolo’ – sfoggiando un’espressione meravigliosamente orripilata.
“Questa me la scrivo!” proclamò Terrence, profondamente divertito.
“Scherzavo!” si affrettò a rispondere Joshua con una smorfia scettica. “Pensate che cada così in basso per rimorchiare? Non ho bisogno di frasi così squallide”.
Agatha gli rivolse un’occhiata ironica e sprezzante, che diceva tanto ‘temo di sì’. “Sì, bravo, scrivitela in fronte, Terrence”.
Joshua rise. “Però il tuo numero potresti darmelo” sogghignò.
Agatha sgranò gli occhi e io emisi un profondissimo sospiro. Presi a spalmare la maionese sul panino, chiedendomi perché mi toccasse assistere a certe cretinate. “Ma ti prego!” sibilai, profondamente colpita da quel comportamento assurdo. Era ridicolo, ridicolo per una lunga serie di motivi: tanto per cominciare non sapeva nemmeno come Aggie si chiamasse, quanti anni avesse e non ci aveva mai parlato. Inoltre...
“Certo: trentotto” fu la risposta sconcertata di Agatha.
Joshua strabuzzò gli occhi, preso in contropiede da quella risposta. “Eh?”
... inolte Agatha non aveva un cellulare. A malapena avevano il telefono di casa a Sperdutolandia, insomma! Improvvisamente mi stavo divertendo da morire. Ero tornata un passo avanti a lui. Presi a sghignazzare senza alcun ritegno, mentre Josh guardava Agatha confuso. “Ma è il tuo numero di scarpe?” chiese, grattandosi stupidamente la testa.
Aggie sbuffò, evidentemente stufa di quella scenata ridicola, e ignorò bellamente la domanda di mio fratello. “Terrence, ora vai a recuperare tutti i miei vestiti, vero?” suggerì, severa.
“Ah, ma dai! Che gusto c’è se li prendo io? Devi cercarli!” protestò il ragazzo, battendo un pugno sul bancone. Decisi che quello era il momento adatto per intervenire, mossa da un’ondata di solidarietà femminile. “Ehi, vuoi o non vuoi questo dannato panino? Aiuta Aggie e lo avrai” promisi.
“Ne fai uno anche a me?” chese Joshua tranquillamente.
Gli sorrisi dolcemente. “Certo, fratellino, ma prima...”
“Prima rivoglio i miei vestiti!” sbottò Agatha, stizzita. “Quindi muovetevi o...”
In quel momento la porta si riaprì e Kameron fece la sua entrata trionfale, ridendo beatamente. Teneva in spalla quello che sembrava un panno blu, o un paio di jeans. “Ehi, Pan! Mi fai un panino?”
Alzai gli occhi al soffitto e sospirai. “Ma per chi mi avete preso, scusate?” brontolai, un attimo prima di ricordarmi che effettivamente ero...
“La cameriera”, come tempestivamente suggerì Joshua, guardandomi compassionevole.
Prima che potessi decidere se ammettere le mie colpe o ribattere qualcosa a caso, giusto per avere l’ultima parola, l’ira funesta dell’uragano Agatha si scatenò su Kameron-town. “È LA MIA SALOPETTE QUELLA?!” strillò, indignata.
“Oh, ehi, ciao Aggie!” fu l’arguta risposta di Kameron. “Non so, li ho trovati sul cassone del pick-up” continuò, e dalla sua espressione gioconda era chiaro come il sole che fosse colpevole di qualche misfatto. Di quel misfatto. 
“Razza di idiota!” ringhiò Agatha, stringendo i pugni. “Avrei dovuto immaginare che ci fossi tu di mezzo. E chi altri, sennò? Io... io...” sbuffò sonoramente. “Io ti buco le gomme, ecco!” proclamò, furiosa.
“Ah, ma che dici?” rise Kameron. “È solo uno scherzo, non te la prendere, Aggie!”
Agatha si esibì in una buffa smorfia, che voleva essere un sorriso tirato. “Certo, anche il mio è uno scherzo” gli assicurò con un’esponenziale dose di sarcasmo nella voce.  In un attimo mi rubò da sotto il naso il coltello per il pane, sorpassò il ragazzo che reggeva la sua salopette e uscì di gran carriera dal saloon, borbottando tra sé come una pentola di fagioli.
“AGGIE!” esclamò Kameron, allarmandosi. Mi lanciò un’occhiata stracolma di panico e la rincorse. “Stai scherzando, vero?” lo sentimmo urlare con voce supplichevole, mentre la porta si richiudeva.
Accusai una risata, incredula. Non avevo ben capito se le intenzioni di Agatha fossero serie, ma l’espressione terrorizzata di Kameron sarebbe rimasta impressa nella mia mente per tutta la vita. Un esilarante concentrato di panico.
“Ma fa sul serio?” domandò Joshua, incerto.
Terrence scoppiò a ridere rumorosamente. Gli lanciai un’occhiata divertita e risi a mia volta. “Non ne ho la più pallida idea” ammisi. Molto probabilmente no, Aggie non avrebbe mai fatto una cosa simile, era troppo assennata. L’idea di terrorizzare Kameron a quel modo per vendicarsi dello scherzo ricevuto, tuttavia, era assolutamente magnifica. Il mio orgoglio fece una capriola: potere alle donne!
“Ehi, Terrence” dissi, “hai voglia di andare a recuperare il coltello? Quando Aggie ha finito di spaventare Kam mi servirebbe per fargli il panino”.
Lui saltò in piedi, si esibì in un saluto militare e corse fuori, ridendo.
“Certo che quel tizio è strano” osservò Joshua, appoggiandosi al bancone e scompigliandosi i capelli con aria da strafigo.
Ladies and gentlemen, ecco a voi James Potter Due, la vendetta!
Inarcai le sopracciglia. “Sei così disperato che ci provi anche con me?” lo presi in giro. 
Lui sbuffò. “Sto cercando di convincerti a farmi un panino”.
Ridacchiai. “Ehi, basta pagare, Sherlock!”
“Terrence non ha pagato!” obiettò lui. “E sei mia sorella!”
“Terrence non paga mai e il saloon non è mio!”
“Perché lui non paga?”
Ecco, quella era una bellissima domanda. Perché Terrence non pagava mai quando consumava qualcosa? Per un attimo credetti di aver regalato vivande a quel tipo per tutto il tempo a causa di un mio errore, poi ricordai che era stata proprio Ginger a dirmi di farlo. Perché? Non lo sapevo. Forse semplicemente perché Terrence era una sorta di tuttofare ed era solito dare una mano a tutti, lì in paese. Quando c’era bisogno di qualcosa, era il primo ad essere chiamato. Forse non era molto sveglio e aveva una passione per gli scherzi idioti, ma era in gamba quando si trattava di aiutare gli altri. “Non lo so” ammisi infine, dopo averci pensato per un po’. “Mi hanno detto che funziona così”.
“E tu fai tutto quello che ti dicono?” mi stuzzicò.
Ma che diavolo c’entrava? Odiavo quando cercava di battermi in uno scontro verbale. Anche perché ogni volta era una gara combattuta e non ero mai sicura di vincere. “Certo che no!”
“E allora puoi fare uno strappo alla regola per il tuo fratellone” concluse, come se non ci fosse nulla di più logico.
Gli rivolsi un’occhiata scettica. “Puoi scordartelo”.
“E dai!”
“Joshua, hai il braccino corto, te l’hanno mai detto? Sei tirchio!”
“Ma dai, sono il tuo fratellone!”
Fratellino, Josh: sono più grande io”.
“Ma io sono più alto”.
Colpo basso. “E questo non c’entra un tubo!”
“Sì che c’entra! Sono più grande fisicamente”.
“In compenso hai il cervello di uno Schiopodo Sparacoda”.
“Se fingo di sapere cos’è uno stopodo mi fai un panino?”
“No, Josh, se mi paghi ti faccio un panino”.
“Babbana!”
Carogna! “Ah! Infame!”
“Ma sono tuo fratello!”
“Ma davvero? Non si direbbe”.
“Non sei gentile”.
“No, infatti sono Pan”.
“...”
“...Che c’è?”
“Questa battuta è sempre pessima”.
 
Una volta recuperato il coltello da pane e convinto Joshua a pagare per le proprie consumazioni, la giornata era filata liscia come l’olio. Mio fratello si era unito ai tentativi di Terrence di insegnare il poker a Kameron, mentre Agatha, dopo averli scherniti per una buona mezz'ora, si era dileguata, ricordando di avere un bel po’ di panni da cercare e mettere a lavare di nuovo.
Nonostante mio fratello fosse una sorta di bomba a orologeria, sul punto di far saltare in aria l’equilibrio di Sperdutolandia con qualche sciocchezza delle sue, la sua presenza non mi aveva infastidito particolarmente. Almeno fino a quel momento.
Non appena eravamo risaliti in macchina per tornare alla fattoria, l’atmosfera tesa e impacciata era tornata a farsi viva. Quella volta non avevo alcuna intenzione di parlare a vanvera per tutto il tragitto – mi ero già sentita abbastanza stupida durante il viaggio precedente– quindi decisi di obbligare qualcuno di loro a parlare assieme a me. Avevamo così discusso a proposito della sistemazione di Joshua. Io avevo prontamente proposto il divano per lui, visto che non c’erano letti liberi, ma Abe aveva obiettato che non sarebbe stato giusto che una nipote avesse un letto e l’altro no. Perché poi non fosse giusto, lo sapeva soltanto lui: la nipote che voleva dormire in un letto vero e proprio lavorava e, per di più, abitava in quella casa! Tuttavia era nonno Abe a portare i pantaloni in casa, per cui era stato ben presto chiaro che io e Joshua avremmo dovuto condividere la vecchia stanza di papà. La cosa che mi parve più assurda in tutto ciò fu la totale assenza di obiezioni da parte di mio fratello. Ero talmente sorpresa che cominciai a pensare che non avesse seguito la discussione.
Una volta arrivati alla fattoria, fui io stessa ad aiutare Josh nel trasporto dei bagagli. Non che ne avesse molti, ma immaginavo che fosse stanco e, come me, avrebbe voluto che qualcuno lo aiutasse. “Quindi dovremo dividere la stanza” bofonchiai, trascinando il suo borsone su per le scale. Ovviamente lui si era riservato lo zaino, la roba pesante dovevo trasportarla io.
“Penso di averlo capito” sbuffò lui.
“Sei stanco? Qui si va a letto presto, mangeremo entro pochi minuti. Anzi, credo che il nonno stia già...”
La voce del buon vecchio Abe interruppe la mia frase: “PAN! APPARECCHIA!” gridò dalla cucina.
“...ecco, infatti. Sì, un minuto!” presi tempo, giungendo finalmente in cima alla scala.
Dean, seduto sul letto abbracciato a una chitarra – e quella da dove spuntava? -, mi lanciò un’occhiataccia. “Parli da sola, adesso?” sputò a mo’ di saluto.
“Suoni?” domandai, così sorpresa che a malapena notai la sua solita dolcezza. Quale ragazza non si sarebbe innamorata di un tipo così? Lily ha preso un granchio grande come Roastbeef, questa volta.
“No, principessa, abbraccio la chitarra. Si sentiva sola, sai”.
Feci una smorfia contrariata. Era davvero una persona incantevole. “Non è che abbia molto buon gusto, quella chitarra” commentai, trascinando poi il borsone verso la mia stanza.
Joshua fece il suo silenzioso ingresso nella camera di Dean e si affrettò a seguirmi. “Principessa?” domandò, divertito.
Sbuffai, sperando che non si fosse anche lui fatto qualche strana idea. Ne dubitavo, comunque, perché l’amaro sarcasmo e la travolgente simpatia di Dean erano impossibili da fraintendere. “Ringrazia il cielo che non ti chiami principino e sta’ zitto” risposi.
“Io sono Joshua, comunque” si presentò mio fratello, andando a stringere la mano al mio – nostro – coinquilino. “Piacere”. Oh, com’era educato. Una visione quasi commovente.
“Dean” rispose l’altro semplicemente.
Li osservai stringersi la mano e studiarsi con sguardo attento, sperando che non stessero sancendo un patto di non-belligeranza, o la mia permanenza alla fattoria, in presenza di Josh, sarebbe stata davvero e a tutti gli effetti disastrosa. Forse ero un tantino paranoica, lo ammetto, ma provate a immaginare come sarebbe stato se quei due si fossero alleati contro di me. Rabbrividii al solo pensiero e, persa nei miei pensieri, non captai lo scambio di battute seguente, senza quindi capire se i due fossero appena diventati alleati.
Panico!
Joshua tornò subito nella mia stanza e mi aiutò a sportare un po’ della mia roba per fare spazio alla sua. C’era un silenzio inquietante e innaturale, o forse ero solo diventata tremendamente paranoica. Va bene, avete ragione, lo sono sempre stata, ma evitiamo di infierire, d’accordo?
Quando mi defilai al piano inferiore per apparecchiare la tavola e Joshua rimase di sopra con Dean, un milione di domande iniziarono ad affollarsi nella mia mente. Si stavano simpatici? Stavano silenziosamente studiando un piano per uccidersi a vicenda nel sonno? O peggio, avevano appena fondato una società segreta con l’obiettivo di distruggermi definitivamente? Stavo delirando, ma ero anche seriamente preoccupata di come le cose sarebbero potute andare. Di colpo tutte le supposizioni negative che mi erano passate per la mente avevano deciso di annebbiare la mia razionalità. Non per nulla, infatti, riempii la tavola di forchette senza nessun coltello – che il mio subconscio avesse deciso di evitare oggetti taglienti, vista la probabile congiura ai miei danni?  
Panicopanicopanico.
“Stai per svenire?” bofonchiò Abe aggrottando le sopracciglia, dopo che per la terza volta mi caddero in terra i tovaglioli.
“No, affatto. Sto benissimo. Sono solo stanca” E preoccupata, terrorizzata, impanicata. È la mia fine, nonno, salvami! 
Abraham fece una smorfia e continuò a rimestare con la forchetta nella pentola per strapazzare le uova. Chissà quante ne aveva sottratte alle galline per farne abbastanza per tutti. Chissà se Joshua aveva mai mangiato una frittata non bruciata, soprattutto. Felicity non era in grado di cucinare decentemente nemmeno quella e io, mi resi conto, avevo tristemente ereditato da lei il talento culinario.
Dean entrò in cucina e si gettò su una sedia, al suo solito posto. “Quante forchette hai messo? Al castello non si usano i coltelli?”
Sbuffai, rendendomi conto solo in quel momento del mio errore. “Dov’è Josh?” domandai, raccogliendo le posate di troppo per sostituirle.
“Al gabinetto. In effetti la cosa mi ha sorpreso: voi gente di città non siete creature poi così eteree, in fondo”.
Sbuffai di nuovo. “Quando la finirai con questa storia?”
“Quando smetterai di sentirti superiore a tutto e tutti” ribatté lui, posando tranquillamente le braccia sul tavolo e fissandomi con sfida.
Sentirmi superiore a tutto e tutti? Non ero io quella che sputava sarcasmo senza alcun motivo non appena gli si rivolgeva la parola, non ero io a voler insegnare alla gente come vivere, non ero io a permettermi di giudicare quale fosse o non fosse la casa altrui.
Mi provocava? Voleva avere la soddisfazione di farmi saltare i nervi? Be', era fortunato: ero una preda facile e il mio attuale stato biologico era perfetto per una scenata coi fiocchi. “Il punto è che” cominciai, dandogli le spalle per cercare i coltelli nel cassetto apposito. “il confronto con la tua indisponente personalità mi fa sentire davvero una persona meravigliosa. Ora che ci penso, forse, dovrei ringraziarti: non ho mai avuto un’autostima così alta” gli rivolsi un sorriso sarcastico.
Dean rise, decisamente poco colpito. “È un insulto?” Lo odiavo, davvero. Era sempre un maledettissimo passo avanti a me, non sarei mai riuscita ad averla vinta. Questo però non mi avrebbe impedito di provarci.
“Molto probabilmente”.
“Troppo contorto, non fa effetto. Dovresti lavorare di più sull’efficacia delle tue perle di saggezza” mi consigliò spassionatamente. Si stava divertendo un mondo a prendermi in giro e, per quanto quella sera fossi dotata di una grande fonte di acidità per motivi biologici, non riuscivo a ragionare razionalmente né a formulare frasi decentemente sarcastiche.
“Vuoi un insulto migliore?” sbottai, estraendo con stizza le posate dal cassetto. Le sistemai sulla tavola e gli sorrisi apertamente. “Sei un patetico pallone gonfiato con manie di grandezza e l’arroganza di tutta la famiglia Malfoy messa assieme” decretai. “Va meglio ora?”
Fece una smorfia. “Continui a sembrare ridicola”.
“E tu continui ad esserlo!”
“Volete smetterla?” ci interruppe il nonno, brandendo la padella con le uova. “Se avete gli ormoni in subbuglio vi congilio di farvi una doccia fredda e andarvene a dormire presto. Pan, chiama tuo fratello: è ora di cena”.
Non ne ebbi bisogno. Mentre stavo ancora fissando in cagnesco Dean, Joshua entrò timidamente in cucina. La sua improvvisa titubanza mi dava sui nervi: era sempre così baldanzoso, si poteva sapere per quale motivo non potesse comportarsi normalmente anche davanti al nonno? Chiaramente la mia insofferenza era dovuta alla presenza e alle frecciate del Trenino Thomas. Era così irritante che da quel momento per me si sarebbe sempre chiamato così, decisi in preda alla stizza.
Come ebbi modo di notare durante il pasto, non era stata stretta alcuna alleanza tra Dean e Joshua. Anzi, tra Joshua e il Trenino Thomas. Al contrario, i due sembravano non nutrire alcun interesse l’uno per l’altro. Non si rivolsero la parola una sola volta per tutta la cena, tanto che ad un certo punto iniziai a pensare che la presenza di mio fratello fosse un toccasana: De-... il Trenino Thomas non mi aveva bersagliato con occhiatacce né frasi pungenti per tutto il tempo.
Chiaramente le mie speranze furono infrante non appena fu il momento di sparecchiare. Per errore lasciai cadere a terra una forchetta e Mr Locomotiva se ne uscì con una frase che mi fece saltare i nervi: “Riesci a connettere il cervello alle mani? Sei a casa da un’ora e hai già combinato più danni di un uragano!”
Di per sé non era una frase particolarmente offensiva né tantomeno arguta, ma il solo fatto che fosse uscita da quella fogna che Dean si trovava al posto della bocca mi mandava in bestia.
“No, mi dispiace, s’è bruciata l’ADSL” sbottai in risposta, posando sul tavolo tutti i piatti e le posate che avevo raccolto. “Perché non ti arrangi, visto che io non ci riesco?”
“Non ho intenzione di lavorare anche per te, principessa”.
“Be’, allora domani mangerai nei piatti sporchi” proclamai, decisa. Prima che il nonno potesse fermarmi o dire qualcosa per placare l’ennesima diatriba, girai sui tacchi e corsi al piano di sopra.
“È pazza se crede che...” sentii brontolare Dean, mentre salivo le scale.
Abe sbuffò sonoramente. “Mi avete stufato. Imparate a convivere o vi sbatto fuori tutti e due” proclamò, lasciando a sua volta la stanza.
Fantastico, ci manca solo che anche Abe mi cacci di casa!
Mi rifugiai in camera e ne approfittai per mettere il pigiama, intanto che Joshua era al piano di sotto, probabilmente costretto a svolgere le faccende da me lasciate incompiute. Non che ripulire la cucina gli facesse male, intendiamoci.
Ero estremamente amareggiata. Fin troppo, in effetti.
Mi gettai di peso sul letto e inforcai gli auricolari.
Qualcosa mi diceva che la mia insofferenza non era affatto normale. Una parte del mio cervello le rispondeva con prontezza che era colpa della crisi premestruale,  un’altra invece, infida e infame, continuava a ripensare alle insinuazioni di Emily.
Come poteva una persona che mi conosceva così bene e da così tanto tempo aver preso un granchio così grosso?
Be’, c’è sempre una prima volta!
Sapevo che pensare in quello stato biologico non era conveniente. Non lo era mai stato, quando poi si parlava di cose di quel genere lo era anche di meno. E, sì, con ‘cose di quel genere’ si intendevano i sentimenti. Non ero mai stata un genio per quanto riguardava le emozioni; ne capivo poco quando si parlava di altri, quando si trattava di me stessa brancolavo letteralmente nel buio. Iniziava a essere chiaro anche a me, però, che tutti i pensieri che mi avevano assillata da quando ero tornata a casa non potevano essere causati solamente dagli ormoni in subbuglio. O meglio, lo erano, ma potevano esserci diverse motivazioni per la loro agitazione. Motivazioni non cicliche, ecco.
Perché me la prendevo tanto ogni volta che De- ...il Trenino Thomas diceva qualcosa di offensivo?
Pronto? Perché è meschino e arrogante!
Perché, oltre tutto, mi ostinavo a chiamarlo Trenino Thomas? Era una cosa stupida.
Ok, questo è vero, ma non significa niente.
 Perché mi preoccupavo tanto di come Joshua si sarebbe rapportato a lui?
Perché alleati ti renderebbero la vita impossibile!
Era solo questione di qualche giorno, in fondo, sarei riuscita a sopportarli anche a costo di trasferirmi nel pollario.
È questione di orgoglio.
Perché era così importante avere sempre l’ultima parola?
Orgoglio, orgoglio, orgoglio!
Ero una cretina.
Oh, sì, anche quello.
Quella che aveva preso un granchio grosso come Fierobecco ero io, non Emily. E, per di più, quello stupido granchio era stato riposto al sicuro dentro quell’idiota di un cuoricino che, diavolo, in quel momento batteva come la batteria di Roger Taylor durante l’esibizione di Headlong.
Ah, meraviglioso!
Sbuffai, cercando di cacciare quei fastidiosi pensieri. Era tutta colpa del ciclo. Doveva esserlo.
Mi accorsi solo in quel momento di non aver ancora acceso l’mp3. Premetti il tasto di accensione e sospirai, afflitta.
Non era possibile. Solo una cretina di sarebbe presa una cotta per Dean – Tornatenedadoveseivenuta – McDonnel!
Come se la consapevolezza non fosse già abbastanza dolorosa per il mio suddetto orgoglio, il mio caro mp3 volle dirmi la sua in proposito:
 
Non c'è logica spiegazione
ad una tal disturbazione
niente ti disgretola
ti scombuzzola
ti scompiffera
ti rimestola
ti scompisciola
ti scombuzza di più!  (*)
 
... e salutai quella burlona della sorte come una vecchia amica. (**)
 
 
DubbiDomandeDelucidazioni:
(*)  La cosa più inebriante – La Spada nella Roccia. La citazione del testo è stata presa da quihttp://canzonidisney.blogspot.it/2010/05/la-spada-nella-roccia.html (ode al grande Axel! :D) Se la citazione da una canzone Disney non vi piace, mi dispiace, ma temo che ce ne saranno altre nel corso della storia. ^^’ (**) Semi-citazione dalla storia dei tre fratelli (Harry Potter e i Doni della Morte / Le Fiabe di Beda il Bardo) di JKRowling. 
 
 
In der Ecke – Nell’angolo:
Ed è con questo trentesimo capitolo che Pan si rende conto che, in fondo, Emily non ha poi tutti i torti. Non è un granché il modo in cui se ne rende conto, né tanto meno lo sono i suoi pensieri. Niente di eclatante o particolarmente originale, ma non credo che sia un modo sbagliato, non per lei.
Insomma, con il solito tocco d’ironia della sorte, Pan si rende conto che la fantomatica cotta per Dean se l’è presa eccome. Da questo punto in poi credo che, se qualcuno ancora ne aveva, tutti i dubbi su quale fosse la coppia centrale della storia siano svaniti. (Anche perché con i sondaggi degli ultimi giorni credo di essere riuscita a rovinare tutto l'effetto sorpresa XD) Be’, sempre che la sottoscritta non stia giocando un tiro mancino dei suoi. Sapete, scrivendo questa storia mi sono scoperta una guastafeste incallita! (Quante volte l'ho ripetuto?) È una sensazione meravigliosa, dovreste provarci anche voi! *__*
Il motivo principale per cui, a suo tempo, spostai la storia nella sezione Commedia è proprio il fatto che la parte sentimentale sarebbe emersa solo alla "fine", o comunque dopo un sacco di capitoli. In fondo non è la storia d’amore (che poi, vabbè, "amore!" La lascerò commentare a voi che è meglio XD) a essere il fulcro della trama, quando più le avventure di Pan, i suoi cambiamenti e il lieto fine che sicuramente arriverà.
Come ultimo appunto, ci tengo a sottolineare che in alto sono state inserite le cifre di tutte le persone che mi fanno felici con la loro presenza, non sicuramente per tirarmela – anche perché, ehm, dubito di potermelo permettere – ma per ringraziarvi ulteriormente. Perché siete tanti e io non avrei mai creduto che sarei arrivata a raggiungere tante persone. Grazie! :3 
 
Grazie soprattutto a Mary_ che ha dovuto betare questo capitolo ben due volte, per problemi di forza maggiore (da leggersi: Torquato Tasso ci ha messo lo zampino! u.u) .

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Capitolo 31
*** 31 ***


Cows and jeans
31


 
Se la – spicciola – saggezza di Mago Merlino non mi ingannava, mi ero fregata con le mie stesse mani.
Bene, anzi benissimo. Fantastico.
Dopo una manciata di minuti di totale, disperato sconforto e pittoresche imprecazioni, decisi di darmi un contegno. E va bene, ora lo sapevo. Non sarei mai riuscita ad ammettere esplicitamente di avere una cotta per... di averla, insomma, ma a quel punto ne ero consapevole. Questo non avrebbe cambiato un bel niente. Secondo Merlino “non c’è logica spiegazione”, ma non era necessario che ci fosse, visto che nella mia vita non sarebbe cambiato assolutamente nulla. Tutt’al più avrei smesso di ascoltare musica in riproduzione casuale in momenti di dubbio amletico – usus docet. Nulla più.
Ero decisa a dimenticarmi di tutta quella faccenda. Mi ero presa una cotta per... insomma, me l’ero presa? Bene, come me l’ero presa, me ne sarei sbarazzata. Avevo inconsapevolmente scelto di ospitarla, ora avevo il diritto di congedarla. Come? Ignorandola. Se ne sarebbe andata sicuramente. Era matematico. Forse un po’ stupido, ma anche estremamente logico. Quale ospite non se ne andrebbe se ostinatamente ignorato dal padrone di casa? Nessuno! E la mia cotta non avrebbe fatto eccezione.
Per di più distrarmi sarebbe stato non solo facile ma inevitabile: quel lunedì sarebbe iniziata la scuola e... ed evviva la scuola, per le mutande di quell’infame di Merlino!
Quando mio fratello mise piede in camera e accese la luce, mi ricordai di un altro dettaglio che avrebbe contribuito a distrarmi: lui. Evviva Joshua!
Strizzai gli occhi cercando di abituarmi alla luce. “Josh, spegni?” sbuffai infine, mentre lui vagava per la stanza alla ricerca del suo pigiama.
“Dove hai messo il mio pigiama?” brontolò lui, spostando malamente oggetti qua e là.
“Lo hai lasciato in valigia, testa vuota! Spegni la luce!”
“Non c’è in valigia!”
Sbuffai e mi alzai a sedere. “Questo è perché stai guardando nella valigia sbagl... oh, eccolo qua!” esclamai, accorgendomi di essermici stesa sopra. “È un po’ sgualcito, ma...”
“Sei sempre la solita”.
“E lo rimarrò” puntualizzai, riferita ai miei pensieri di poco prima.
Joshua mi rivolse un’occhiata in tralice. “Che stai dicendo?”
“Nulla!” Mi gettai di nuovo stesa sul letto, affondando la faccia nel cuscino.
Numerosi sbuffi dopo la luce si spense, avvertii le molle protestare sotto il peso di Joshua, poi il suo insopportabile calore corporeo provenire da sinistra. “Ah! Levati, Josh!” mi lamentai, spingendolo da parte.
“Non mi sono neanche steso!” protestò lui, seduto sul bordo del letto.
“Sì, ma mi fai caldo!”
“Fatti in là tu!” ribatté, mentre si stendeva dandomi le spalle.
Sbuffai e gli voltai le spalle a mia volta. Spensi l’mp3,  lo riposi sotto il cuscino, pronto per essere tirato fuori in caso di insonnia. Mi aspettavo di dormire poco, in effetti. Solitamente mi rigiravo sotto le coperte per un sacco di tempo prima di riuscire a trovare una posizione comoda e addormentarmi. La presenza di Joshua rendeva decisamente difficoltose le mie acrobazie pre-sonno.
Mi rifugiai nell’angolo più estremo del letto, il più lontano possibile da quella stufa ambulante, e chiusi gli occhi nel tentativo di svuotare completamente la mente. La cosa più importante era evitare di pensare a Dean. L’ultima cosa che volevo era fare sogni strani e arrossire rovinosamente di fronte a lui il giorno seguente. No, proprio non era conveniente.
“Lui ti piace, Pan?”
“Cosa!?” Se la mia voce era davvero stridula quanto mi era sembrato che fosse, forse ero riuscita a rendere sordo per la vita mio fratello. CRETINA!
Sentii Joshua sbuffare. “Devo prenderlo per un sì?”
A quel punto potevo buttarmi dalla finestra e morire in pace. Ci mancava solo che la voce si diffondesse! Se era così evidente come avevo fatto a non accorgemene prima? Dannazione a Merlino! Dannazione a me! Dannazione a Dean!
Ok, ok, forse non tutto era perduto. Dovevo stare calma ed evitare di farlo insospettire. “Di chi stai parlando?” domandai, cercando di assumere il mio solito tono vagamente ironico.
“Del biondo mestruato” rispose tranquillamente.
Non riuscii a trattenermi dal ridere per quell’epiteto, benché quel traditore del muscolo più importante dell’organismo umano stesse pompando sangue a manetta in quel momento. Probabilmente ero arrossita. Grazie al cielo era di nuovo buio nella stanza. “E questa da dove ti è venuta?”
“Perché è un gran pezzo di merda e tu sei una stupida, ecco perché”.
“Ehi!” protestai. “Se il tuo intento era fin dall’inizio insultarmi, potevi risparmiarti la fatica di inventare un pretesto così idiota, sai?”  
Joshua rise. “E va bene, forse non sei così stupida” osservò.
“Grazie della gentile concessione, eh” brontolai, allungando un braccio per assestargli un pugno.
In tutta risposta Joshua mi spinse giù dal letto.
“IMBECILLE, POTEVI FARMI MALE!”
“Tu mi hai preso a pugni!”
“Ah, povero piccolo bimbo fragile!”
“Sei tu che hai cominciato!”
“Vuoi chiamare la mamma?!”
“Non sono mica piagnone come te!”
“Cocco di mamma!”
“Figlia di papà!”
“Ma che dici?”
“CHIUDETE QUELLE BOCCHE!” Per la seconda sera di fila, fu il provvidenziale intervento di Abraham a ristabilire l’ordine e rimettere in riga gli abitanti della fattoria Fletcher. Incredibile ma vero, anche quel posto stava diventando una gabbia di matti. Che la mia influenza fosse contagiosa?
 
“Vostre maestà, alzate i regali deretani!”
Sgranai gli occhi udendo quella voce. O meglio: ci provai, perché qualcosa me lo impediva. Quel qualcosa era una mano formato padella, calda e sudaticcia, beatamente posata sulla mia faccia: la mano di mio fratello, che aveva la fastidiosa abitudine di dormire in posizione a stella, invadendo così i miei spazi vitali e surriscaldandoli con la sua temperatura da stufa a legna. Spostai il braccio di Joshua con scarsa delicatezza. “Spostati, zuccone!” berciai.
Una cosa era certa: non mi ero mai svegliata tanto in fretta.
Joshua mugugnò qualcosa, scontento, e gli pizzicai forte un braccio. “Devi alzarti!”
“Che quadretto felice” commentò Dean, sarcastico.
Gli lanciai un’occhiataccia. Con mia sorpresa quel gesto di puro odio mi risultò facilissimo: la consapevolezza di essermi presa una cotta per... di essermela presa, insomma, non faceva che aumentare la mia rabbia nei suoi confronti. Che diritto aveva di farmi una cosa simile, in fondo?
“Non hai del letame da spalare, tu?”
“Sì, ma dopo la Messa. Muovetevi o ve la vedrete voi col vecchio” disse, dirigendosi verso le scale. Non aveva nemmeno richiuso la porta. Maleducato!
“Il vecchio ha un nome!” gli gridai dietro.
“Ma davvero?” lo sentii borbottare in risposta.
Joshua grugnì, infastidito dai toni poco pacati della discussione, e mi diede una spinta, rischiando di farmi cadere di nuovo. Stava diventando un vizio.
“Vattene!” si lagnò.
Inarcai le sopracciglia. “Come no. Alzati, Josh, è domenica!”
“Appunto: è domenica!” si lamentò lui, girandosi per affondare il volto nel cuscino.
“Qui non funziona come a casa, purtroppo: la domenica è un giorno come gli altri. Tutti i giorni sono giorni come gli altri. Forza, alzati!” lo incitai nuovamente, mentre saltavo sgraziatamente giù dal letto e mi muovevo fiaccamente per la stanza. Non ero riuscita a formulare una frase troppo sensata molto probabilmente, ma non poteva aspettarsi niente di particolare a quell’ora della mattina. Avrei dovuto essere abituata ai ritmi di Sperdutolandia, ma svegliarsi presto ogni domenica rimaneva uno shock. Confidavo nel fatto che nemmeno Joshua riuscisse a ragionare lucidamente, nello stato di trance in cui sembrava caduto.
Raccattai i miei vestiti sulla sedia e iniziai a cambiarmi.
Il silenzio prolungato da parte di mio fratello mi fece intuire che si stava riaddormentando, per cui afferrai il cellulare, lo accesi e avviai la riproduzione casuale di tutta la playlist a volume massimo.
“Smettilaaa...” si lagnò lui.
“Joshua, ti assicuro che non vuoi fare tardi a Messa. Hai mai visto il nonno quando si arrabbia? È un’esperienza che è meglio non vivere. Dai, muoviti!”
Io l’avevo provata sulla mia pelle. Era stata una delle prime domeniche a Sperdutolandia e avevo deciso di darmi malata e rimanere a leggere sotto le coperte per un paio d’ore, da sola. Non c’era tempo nemmeno per dormire in quel posto, figurarsi per leggere; ero in crisi d’astinenza. Abe mi aveva sgamata in quattro secondi netti. Mi aveva squadrato attentamente e aveva aggrottato le sopracciglia. “E tu staresti male?”
“Ehm... sì?” avevo azzardato, stringendomi al petto un libro, il pigiama ancora in dosso.
Abraham aveva incrociato le braccia e mi aveva ordinato di muovere il sedere e correre a vestirmi: se davvero fossi stata male il Signore avrebbe doppiamente apprezzato il mio sforzo.
“Ma sono ammalata!” avevo protestato. “Non hai un termometro? Te lo dimostro!”
“Non dire sciocchezze. Va’ a vestirti e andiamo, non ho intenzione di far tardi”. Ma ovviamente avevo continuato a protestare, nel disperato tentativo di convincere Abe a lasciarmi in casa. Dean ci aveva messo lo zampino e alla fine avevano vinto loro. Caso aveva voluto che facessimo tardi. Quando eravamo entrati nella chiesetta del paese la Messa era già iniziata da un pezzo. La furia di Abe si abbatté su di me sulla via del ritorno, in auto. La sua filippica era stata un qualcosa di tremendamente convincente, mi aveva colpita profondamente e mi ero sentita in colpa tutto il giorno. La domenica successiva mi ero fatta trovare in piedi, vestita di tutto punto – be’, quasi – pronta per salire in macchina. Non ricordo esattamente quali carte avesse giocato Abe, so solo che mi sentii uno schifo pet tutto il giorno per averlo fatto tardare. Il succo era che, anche se avevo intenzione di diventare una scansafatiche senza alcuna ambizione né valore morale, non avevo alcun diritto di trascinare nel baratro con me qualcun altro.
A pensarci a distanza di tempo la cosa mi offendeva. Come sarebbe a dire scansafatiche senza alcun valore morale?  A malapena mi conosceva allora!
Naturalmente quel giorno non successe nulla di simile. Joshua rimase a letto per un’altra mezz'ora, nonostante i miei tentativi di buttarlo giù dal materasso e, alla fine, quando stava diventando ormai troppo tardi, Abe era salito in macchina e io e Dean con lui.
Josh era rimasto a casa a dormire.
 
“Ma che simpatico il fratellino, eh?” mi prese in giro il Trenino Thomas, appollaiato su uno sgabello al bar accanto a Kameron.
“Mai quanto quello di Aggie” bofonchiai stizzita, facendo ridere Kam.
Dean fece una smorfia e si rivolse all’amico: “Che si fa oggi?”
“Si lavora” gli ricordai. Una delle cose che mi era stata chiara fin da subito, giunta a Sperdutolandia, era che la domenica era un giorno esattamente come gli altri. Si andava a Messa, per cui bisognava alzarsi presto, e poi si lavorava tutto il giorno. Come sempre. L’unico giorno da considerarsi un po’ più leggero era il venerdì, il cosiddeto giorno del riposo, ma naturalmente non significava che ci si potesse rilassare in pace. No, assolutamente. Ma perché sprecare il tempo facendo cose inutili come... che ne so, dormire? Il venerdì si recuperavano i lavori arretrati durante la settimana. Quali fossero esattamente non mi era dato saperlo, l’unica cosa di cui ero a conoscenza era che quel giorno dovevo occuparmi della casa. La domanda mi sorse spontanea: che cavolo faceva Dean tutti i giorni se poi il venerdì io dovevo pulire tutto di nuovo? Ero sul punto di domandarglielo, ma Kameron mi precedette con la sua proposta: “Potremmo andare in città!”
Città? C’era una città? Con dei negozi e una biblioteca, intendeva dire?
Smisi di asciugare uno dei bicchieri appena lavati e concentrai tutta la mia attenzione su quella conversazione.
“A far che?” commentò Dean. Il parafanghi della mia motoretta avrebbe dimostrato molto più entusiasmo.
“Be’, noi domani...”
“Oddio, la scuola!” realizzai improvvisamente, sbarrando gli occhi.
Solo in quel momento mi ero resa conto che avrei davvero dovuto frequentare il liceo a Spedutolandia. L’idea mi aveva sfiorata mentre pensavo a come liberarmi della mia cotta per... – arrossii, inevitabilmente, e mi maledissi per averlo fatto – sì, insomma, avete capito. Mi aveva sfiorata, ma non ci avevo mai pensato seriamente. A Sperdutolandia Town nemmeno c’era una scuola!
“Esatto. Sei pronta al grande inizio?” mi domandò Kameron sorridente.
Gli rivolsi un’occhiata di puro panico. “No!” guaii, ancora scossa da quella rivelazione.
Dean sbuffò sonoramente. “Senti l’impellente necessità di essere sempre al centro dell’attenzione, principessa?”
E tu senti l’impellente necessità di essere sempre così bello anche mentre mi insulti? Oh, merda. Per i più consunti slip di quell’infame di Merlino, non potevo averlo pensato davvero. Che schifo, che schifo, che schifo. Come potevo aver pensato una frase così stupida? Che vergogna.
Ringraziai sentitamente il cielo per non averlo detto ad alta voce.
“Scusami tanto, non era mia intenzione mettere in ombra il tuo spropositato ego!” replicai lanciandogli un’occhiata truce. Ogni volta che riuscivo a rispondergli male – cosa che continuava a riuscirmi discretamente bene – mi sentivo soddisfatta di me stessa. Era un ulteriore passo avanti sul sentiero del congedo alla mia cotta.
Dean inarcò un sopracciglio. “Ma pensa un po’! Il mio ego è enorme ma il tuo riesce ad oscurarlo. Io mi farei un paio di domande...”
Abraham alzò gli occhi dal giornale che stava leggendo e mi lanciò un’occhiata di rimprovero, che diceva tanto ‘non ricominciate’. Non era giusto, però! Perchè le occhiatacce dovevano essere sempre destinate a me? Be’, per lo meno non avevo bisogno di trovare la frase giusta per rispondergli a tono – ebbene sì, aveva di nuovo vinto lui lo scontro verbale.
“Hai già i libri di testo?”
Mi schiarii la gola, guardando Kameron con aria smarrita. “Ehm...”
“Oh, ma dai!” rispose Dean al posto mio, inarcando di nuovo lo stesso sopracciglio. Come riusciva a farlo con tanta naturalezza? “Pensi forse che si sia presa la briga di andare a comprarli? La principessina si aspettava che qualcuno glieli portasse a casa, come è giusto che sia”.
Arrossii ancora di più, per la vergogna quella volta. Ripensandoci: non me ne fregava niente di come riuscire a inarcare un solo sopracciglio. La sua acidità lacerava qualunque mia curiosità – perché non funzionava anche con la cotta? Il suo sarcasmo era sempre una secchiata d’acqua fredda. Quel ragazzo era corrosivo!
In realtà non mi aveva minimamente sfiorata l’idea di dover acquistare dei libri. Era assurdo, lo so, ma avevo avuto così tante cose su cui riflettere durante l’estate che i volumi su cui studiare erano passati all’ultimo posto sulla scala delle mie priorità.
“In realtà me ne ero dimenticata” ammisi, riprendendo a strofinare il bicchiere con lo straccio che tenevo in mano.
Kameron rise. “Non fare quella faccia. Pensa che io me lo ricordavo benissimo, ma non li ho comprati comunque!” mi confidò. Sembrava estremamente orgoglioso della sua trovata.
Ero sempre più convinta che io e lui saremmo diventati grandi amici: eravamo fatti della stessa pasta.
Gli sorrisi, ignorando la smorfia contrariata di Dean. “Cosa ho fatto di male per meritarmi una... coinquilina come la principessa?” soffiò rivolto a Kameron.
Lui indugiò, lanciandomi un’occhiata incerta. Non sapeva cosa rispondere, era evidente. Mi chiedevo se si stesse trattenendo solo perché ero presente o se l’avrebbe fatto anche in mia assenza.
“Io un’idea ce l’avrei...” bofonchiai a mezza voce.
“Nessuno ha chiesto il tuo parere” disse Dean lapidario.
“Non ho intenzione di riferirtela, in ogni caso” risposi. Gli voltai le spalle per riporre il bicchiere ormai asciutto su un vassoio e prenderne un altro. Asciugare i bicchieri mi ricordò le mansioni domestiche a cui non avevo adempito la sera precedente e di conseguenza a Josh. Terrence era andato a prenderlo a casa, per evitare che rimanesse da solo tutto il giorno. Continuavo a non capire perché lui fosse stato autorizzato a rimanere a letto e io invece costretta ad andare a Messa. Era tutto così ingiusto quel giorno!
“Ora ce n’è pure un altro” continuò Dean, incurante del fatto che potessi sentirlo. Si riferiva ancora allo squallore dei suoi coinquilini, ovvero me e Joshua. Per quanto ce l’avessi con mio fratello in quel momento, non avevo intenzione di rimanere ad ascoltare mentre quell’arrogante lo insultava. Mi preparai quindi a rispondere per le rime, incoraggiata dal pensiero che, molto probabilmente, neanche Joshua piaceva molto a Dean. Per lo meno il suo astio non era una mia esclusiva.
“È simpatico” commentò Kameron, sempre più impacciato. Era chiaro che la sua posizione era molto scomoda: in piedi tra due diverse armate in guerra aperta, nel tentativo di portare la pace per mezzo di sorrisi e battute. Era una battaglia persa in partenza, ma non se ne curava; il suo carattere allegro e spensierato lo portava a essere sempre ottimista. Incredibile quanto già lo conoscessi, nonostante lo avessi incontrato solo pochi mesi prima. 
“È viziato” lo corresse Dean con superiorità.
Strinsi i denti e gli rivolsi un’occhiataccia. Ma che diavolo voleva saperne lui? Va bene, era sicuramente la verità, ma non doveva permettersi di dare giudizi su persone che non conosceva. Non su mio fratello, in ogni caso. Nessuno poteva insultare mio fratello in mia presenza. Eccezion fatta per papà e, be’, me stessa.
“Ma dai, Dean, a malapena lo conosci!” obiettò Kameron con ovvietà, allargando le braccia. 
“E non ci tengo”.
Meglio così. Ci mancava solo che quei due finissero col fare amicizia. Molto meglio così.
Kameron sbuffò e mi lanciò un’occhiata interrogativa, probabilmente per sondare il mio stato d’animo. Era sconnesso il mio stato d’animo, ecco com’era. Un momento mi incantavo ad osservare Dean, quello dopo mi maledicevo per averlo fatto e il seguente desideravo ficcargli in bocca lo straccio bagnato che avevo in mano per farlo tacere. Mi sentivo un mix tra un’adolescente alla sua prima cotta e una zitella acida pronta a sputar cattiverie su ogni essere vivente apparentemente felice. Una combinazione vincente, non è vero?
“Che ne dici, Pan?”
Ed ecco che capitava di nuovo. Dovevo smettere di perdermi nei miei pensieri mentre la gente parlava con me. Cercai una frase utile a salvarmi in corner. “Non ne dico niente, non vorrei scavalcare il signor Siete-tutti-esseri-insignificanti-e-indisponenti”.
Dean soffiò una risatina di scherno. “Guarda che io ho già detto la mia. È bello Kam, eh? Potrebbe essere la volta buona che ti trovi una ragazza, amico. Certo, non è un granché, ma suppongo tu debba accontentarti”.
Arrossii per l’ennesima volta, senza tralasciare le consuete auto-maledizioni. Proprio come il primo giorno, mi ero persa nei miei pensieri fissando Kameron e qualcuno aveva creduto che mi fossi incantata ad osservarlo. Era schifosamente imbarazzante.
“Suppongo che invece le ragazze facciano la fila per te, vero?” sputai, lanciandogli una delle peggiori occhiatacce che avevo in repertorio. Non ero particolarmente espressiva, quindi forse era identica a tutte le altre, ma l’intento era di rendere quell’occhiata particolarmente cattiva.
Proprio in quel momento Joshua e Terrence entrarono scherzando allegramente nel saloon, interrompendo così sul nascere la vera e propria lite che stava per scoppiare. Qualunque fosse stata la domanda di Kameron, a quel punto non importava più. Indovinate perché? Perché era arrivato Josh.
Lui e Kameron si salutarono dandosi il cinque e iniziarono a parlare tra loro come se nulla fosse, accompagnati da Terrence.
Ricordai immediatamente il motivo per cui il soggiorno di mio fratello a Sperdutolandia mi avesse spaventato tanto il giorno precedente. Lui non aveva alcun problema a socializzare. Rideva e scherzava come se niente fosse con chiunque e nessuno era in grado di sfuggire al suo carisma. Affascinava tutti e non ero mai riuscita a spiegarmi il perchè. Non che lo invidiassi, per lo più lo ammiravo. Joshua piaceva a tutti, nessuno gli era totalmente indifferente. Poteva anche semplicemente starsene in silenzio in piedi in un angolo, che riusciva ad attirare la simpatia di qualcuno – se non di tutti quanti.
Mi concentrai sul mio lavoro, decisa  a cuocermi nel mio brodo di pensieri pessimistici e frustrazioni, a cui si era appena aggiunta la prospettiva di iniziare la scuola a Sperdutolandia. Il primo giorno di scuola è sempre, per tutti, un mix destabilizzante di eccitazione e timore. Per quanto mi riguardava, quel giorno non provavo alcun tipo di eccitazione. Ero sconsolata e acida e indispettita perché quella mattina mio fratello era rimasto a dormire senza subire conseguenze mentre quando avevo chiesto io di fare lo stesso ero stata rimproverata. Sapevo che lamentarmi di qualcosa del genere era molto infantile, ma la trovavo una situazione ingiusta. Abraham e Joshua a stento si erano scambiati qualche parola da quando il secondo era arrivato alla fattoria, ma sembrava essere sempre e comunque il favorito. Anche lì, anche a Sperdutolandia.   

In der Ecke - Nell'angolo:
E ho di nuovo cambiato font, sì, perché non avevo voglia di fare i soliti passaggi word/blogger/EFP. Il caldo mi rende estremamente svogliata e qua ci si mettere pure il signor "Caronte"! D:
Avevo un sacco di cosa da scrivere, ma le ho dimenticate tutto. Andiamo bene...
Cooomunque. Non vado particolarmente fiera di questo capitolo, ma mi serviva per precisare il rapporto tra Joshua e Pan.
È vero che in città litigavano continuamente, tanto che hanno mandato fuori di testa George e i genitori. È vero che Pan si sente estremamente inferiore a lui e un po' lo invidia per essere in grado di trovarsi sempre a proprio agio (anche se magari a volte finge solo di riuscirci). È vero anche che ha paura che riesca a scavarsi un posto a Sperdutolandia prima di lei e che magari si prenda proprio il suo. Ma è anche vero che sono fratelli e bene o male hanno vissuto più o meno le stesse esperienze. Hanno quasi la stessa età e questo li rende estremamente simili, oltre che estremamente volenterosi di avere ragione. Sono "grandi" tutti e due, dal loro punto di vista, e quindi non vogliono lasciare l'ultima parola all'altro. Sono comunque affezionati. Sono cresciuti insieme e, che vogliano ammetterlo o meno, sono legati. La lontananza, inoltre, non può che averli avvicinati ulteriormente. Non sono un'esperta in psicologia, perché ho appena finito la quarta superiore e non ho mai studiato questa materia, ma credo che se mi togliessero mio fratello mi mancherebbe da morire. Credo che appena avrei la possibilità di rivederlo, anche se litighiamo regolarmente, sarei estremamente felice e mi scoprirei molto più legata di prima a lui. Ho immaginato come sarebbe stato per me, in pratica, e ho pensato che per Joshua e Pan non sarebbe stato molto diverso. 
Pan è gelosa di lui e del suo carisma e quando ha lasciato la città la prima volta era estremamente offesa per essere stata cacciata di casa. Le ci è voluto molto tempo per perdonare la famiglia, ha dovuto rendersi conto che Sperdutolandia è un posto migliore per lei e che suo fratello sta maturando. Rivederlo dopo tanto tempo, in fondo, ha rafforzato il loro legame.
Questa è la mia spiegazione, per chi si stava interrogando sulle incongruenze tra i pensieri di Pan all'inizio della scuola e ciò che succede ora. 
Ora credo di aver finito. Grazie di essere arrivati fin qui, nel prossimo capitolo finalmente Pan andrà a scuola. ^^

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Capitolo 32
*** 32 ***


Cows and jeans
32

 
 
"Buongiorno, Pan! Il sole splende, il gallo ha cantato da un po’ e noi dobbiamo andare!”
Qual è l’unica cosa che può rendere un risveglio peggiore rispetto a quando è una sveglia scorbutica a buttarti giù dal letto? Una sveglia schifosamente entusiasta.
Feci una smorfia e mi voltai a pancia in sotto nel letto. Emisi un ringhio decisamente poco femminile, che palesò tutto il mio disappunto. Perché qualcuno sarebbe dovuto entrare in camera mia e strillare in preda all’entusiasmo mentre dormivo? Chi poteva essere quel cretino?
“Non si muove” disse il cretino in questione, spingendomi a grugnire di nuovo per dimostrare di essere viva e vegeta. Be’, viva e bisognosa di dormire.
Sperai che bastasse come congedo.
Avevo la vaga impressione di avere un motivo valido per non volermi alzare dal letto, ma non mi ero ancora ricordata quale fosse. Ad ogni modo ce l’avevo e tanto bastava.
“Ti ha appena mandato a quel paese” osservò la voce familiare di mio fratello con una nota di divertimento.
Il cretino non meglio identificato rise. “Gentile! Così non va. Idee?”
Joshua sghignazzò e la cosa non mi piacque per niente. Quella risatina aveva un amaro retrogusto di vendetta.
“Cosa vuoi fare?”
“Niente di pericoloso”.
Perché quelle parole non mi convincevano per niente? Fui tentata di aprire un occhio per controllare che non avesse intenzione di utilizzare oggetti in modo improprio, ma poi pensai che non ne valeva la pena. Se c’era ancora una minima speranza di riaddormentarmi, volevo sfruttarla.
Affondai meglio la faccia nel cuscino e pensai di stendermi per bene e occupare tutto il letto, visto che Joshua era già in piedi.
Joshua. Mmm. Che il cretino in questione fosse Malcom? No, non poteva essere Malcom: perché avrebbe dovuto essere anche lui a Sperutolandia? Ma sì, insomma, non importava: stavo per riuscire a riprendere sonno.
Il forse-Malcom ridacchiò con entusiasmo e, prima che riuscissi a preoccuparmi, le prime note di Sweet child o’ mine rischiarono di disintegrarmi un timpano, esplodendo a tutto volume ad una distanza millimetrica dal mio orecchio sinistro.
“Joshua!” sbottai, puntellandomi sui gomiti. “Sei un emerito idiota!” lo accusai, profondamente indignata.
“Buongiorno, Pan! Il sole splende, il gallo ha cantato da un po’ e noi dobbiamo andare!”
Di nuovo? Credeva forse che ora la mia reazione sarebbe stata migliore, questa volta?
“Senti un po’, cretino” cominciai, infiammandomi. Avevo già in testa una lunga sfilza di epiteti pittoreschi con cui apostrofarlo. Mi voltai a guardarlo, pronta a disintegrarlo a suon di improperi, ma, nel momento stesso in cui lo riconobbi, la mia rabbia si spense come la fiammella della candelina su una torta di compleanno. Sospirai. “Kameron, che diavolo ci fai qui?” muggii esasperata, lasciandomi cadere di nuovo sul letto. Rotolai a pancia in su con aria stravolta. Insultare Kameron sarebbe stato come tenere il broncio ad un cagnolino scodinzolante solo perché mi aveva leccato. Improponibile, no?
“Sono venuto a prenderti” rispose lui con semplicità, sedendosi sulla mia scrivania.
“Oh, molto gentile, davvero” bofonchiai senza capire. Questo non rispondeva per niente alla mia domanda. “Non ho bisogno di essere portata da nessuna parte, però. Come vedi, stavo dormendo”.
“Sì, ti piacerebbe dormire!” mi prese in giro, divertito.
Mi stiracchiai in tutta tranquillità. “Molto” gli garantii. “Che ci fate qui voi due? E perché tu sei già in piedi?”  mi rivolsi a mio fratello. Udii il suono di un clacson decisamente vicino. “E chi è questo cretino che si attacca al clacson alla mattina presto?” sputai. Cretino era la parola del giorno. Cretino, cretino, cretino. Ero circondata da cretini. Avrei dovuto ribattezzarla ‘Cretinolandia’.
“Terrence. Rischiamo di fare tardi, in effetti” puntualizzò Kameron, lanciando un’occhiata alla finestra.
“È una grandissima soddisfazione, sai?” disse Joshua. Sorrideva sornione e la cosa mi insospettì.
“Cosa?” Forse era giunto il momento di uscire dalla fase dei deliri cretinocentrici e concentrarmi su ciò che stava accadento attorno a me.
“Che tu debba andare a scuola e io no”.
Cosa? No! Non era possibile, io non dovevo andare a scuola. Io lavoravo. O si lavora o si studia, non si possono fare tutte e due le cose, giusto? Giusto?? La mia pigrizia rischiava di rimetterci le penne, non potevano farci questo! Piagnucolai un prolungato “No”, battendo i piedi sul materasso. Cercai anche di soffocarmi col cuscino, ma fu tutto inutile. Avrei potuto implorare tutti i santi, darmi malata, inginocchiarmi di fronte a nonno Abe e pestare i piedi quanto volevo, ma alla fine sarei andata a scuola.
Kameron continuò a ridere e Joshua a punzecchiarmi finché non mi arresi alla mia sorte. A quel punto mi alzai in piedi e con la mia andatura da morta vivente cacciai i due grandi amiconi dalla stanza per cambiarmi e prepararmi.
Joshua non si era alleato con Dean, forse, ma aveva fatto comunella con Kameron, il che mi spaventava anche di più. Kameron era l’unica che persona che potevo definire veramente amica a Sperdutolandia. L’ultima cosa che volevo era che si facesse un’idea sbagliata di me a causa di mio fratello. Cosa che, in effetti, mi ripetevo continuamente da quando aveva messo piede alla fattoria, ma, di fatti, non riuscivo a non pensarci.
Quando raggiunsi la cucina, qualche minuto dopo, Kameron stava raccontando un aneddoto sulla propria vita scolastica che non riuscii ad ascoltare per intero. Mi bastò però captarne la conclusione per comprendere di cosa si trattasse: “...E quindi quest’anno mi tocca ripetere”. Di nuovo il racconto della sua bocciatura. Aveva trascorso tutto l’anno scolastico precedente a lavorare e trascurare gli studi, cercando di convincere i suoi a lasciare la scuola e, alla fine, era stato bocciato. Tra tutti gli impegni che aveva, studiare era quello che gli dava più problemi. Era un ragazzo poco riflessivo e fondamentalmente sempliciotto. Era più un tipo da pratica, che non da teoria. Stare seduto ad un tavolo a studiare era una delle cosa al mondo che lo annoiavano di più, secondo solo – a detta sua – al lavoro a maglia. Mi aveva però assicurato che, se solo gli avessero permesso di lasciare la scuola, sarebbe stato disposto a imparare a lavorare ai ferri.
“Quindi sei ripetente, eh!” esclamò mio fratello con ammirazione. “Be’, non è poi così grave”.
“Lo dici perché credi di non passare l’esame di riparazione di fisica?” mi intromisi, divertita.
Joshua fece una smorfia. “Non si sa mai nella vita” rispose. Lo presi come un ‘sì’.
Kameron cercò di assumere un’espressione grave, con risultati molto scarsi. “Stai insinuando che sia un idiota?”
Misi su la smorfia più sconcertata che riuscii. “Chi, io?” domandai, ostentando ingenuità.
“Non ti permettere, sai? Sono più grande di te e merito rispetto” continuò lui, cercando di non ridere. Non ci riuscì e, infatti, si abbandonò ben presto ad un violento attacco di risate, che immancabilmente mi contagiò.
Improvvisamente la sveglia ricevuta non sembrava poi tanto male, anzi, avevo un buon presentimento per la giornata che mi attendeva. Il che, solitamente, non porta nulla di buono, ma quella volta decisi di non pensarci.
Prima di uscire, successe una cosa che mi colpì in modo molto positivo. Joshua mi fermò sulla porta: “Buona fortuna, Pan” mi disse con un sorriso incoraggiante.
Lo osservai con incredulità per qualche istante e poi gli sorrisi a mia volta, sinceramente grata. “Grazie. Buona fortuna anche a te, a casa con questi simpaticoni!”
Josh rise. “Abe è un tipo ok. E l’altro me lo rigiro come voglio”.
Fu il mio turno per ridere, e risi di cuore. “Grazie, Josh”.
 
Il pick up di Kameron aveva proceduto a lungo, arrancando sulle solite stradine al groviera, ma già da qualche chilometro lo sterrato aveva lasciato posto all’asfalto. Non era una super strada, ma per lo meno le ruote non generavano cortine di polvere mentre l’auto procedeva verso la città.
Agatha era come sempre seduta in un angolo del cassone, con naturalezza, come se non ci fosse nulla di più comodo. Io invece mi reggevo nervosamente alle pareti di metallo, felice che almeno non fossero roventi come in agosto.
Il sole si era già alzato nel cielo e mancava solo un quarto d’ora alle otto.  La scuola si avvicinava sempre di più. Molto più precisamente, stavamo per entrare in Sperdutolandia City.
 “A che ora iniziano le lezioni?” domandai, mentre il pick-up prendeva una buca. Dicevo, le strade non erano più al groviera, ma l’asfalto su cui procedevamo in quel momento era decisamente malmesso.
“Otto e un quarto” rispose lei, sporgendosi indietro per lanciare un’occhiata alla strada di fronte a noi. “Ormai ci siamo” mi comunicò.
Sospirai. Il momento del giudizio era vicino. “È molto grande la città?” mi informai, cercando di non pensare a ciò che mi aspettava.
Ebbene sì, avevo paura. Paura di come mi avrebbero giudicato i compagni, di chi mi sarei trovata come compagno di banco. Sarei stata in classe con Kameron? Mi sarei fatta degli amici? Ero terrorizzata al pensiero di risultare fuori luogo in quel posto come lo ero stata al liceo di casa mia. Il mio stomaco si stava accartocciando come la malacopia di un compito in classe subito dopo la consegna della buona.
“Più del paese. Ci sarà qualche migliaio di abitanti”.
“E la scuola?”
“È spaziosa, ma non è un granché. Si sa sempre tutto di tutti, le voci corrono”.
Quelle parole nella mia mente si tradussero in ‘Tutti sanno che stai arrivando, che sei la nuova. Sarai l’attrazione del momento’. Non che in paese le cose fossero tanto diverse, ma qui si trattava di adolescenti. E gli adolescenti, si sa, amano parlare degli altri quasi più delle vecchie comari.Oh Merlino.
Emisi un gemito soffocato e mi strinsi mestamente nelle spalle. Era inevitabile, non sarebbe potuto essere diverso, no? Avrei affrontato anche quella situazione. Ce l’avrei fatta. Per forza: non c’erano possibilità di non farcela, era solo questione di abituarsi al nuovo ambiente. Mi chiesi se sarei mai riuscita ad abituarmi del tutto a Sperdutolandia, visto che spuntavano continuamente novità a cui adattarsi.
Entrammo in città una manciata di minuti dopo.
Era molto più piccola di quello che credevo. Con il termine ‘città’ mi ero aspettata qualcosa di grande e popoloso - forse avrei dovuto prestare più attenzione alle parole di Agatha. Molto stupidamente, tra parentesi: quando mai avevo visto grandi città mentre passavo in macchina? Solo una o due, molti chilometri più indietro sul percorso Casa-Sperdutolandia.
Sperdutolandia City era una sorta di Sperdutolandia Town, solo più grande. Entrando non si poteva vedere il confine opposto solo per via dell’ostacolo costituito dagli edifici, ma copriva davvero poco territorio. Come avrei scoperto con delle ricerche successive: contava non più di quattromila abitanti.
Metro dopo metro, curva dopo curva, la scuola era sempre più vicina e Agatha sembrava sempre più rassegnata. Avrei voluto chiederle quale fosse il problema, ma per qualche motivo non credevo di essere una delle persone con cui avrebbe voluto parlarne. Non sapevo chi potesse essere una persona di cui fidasse, non l’avevo mai vista chiacchierare amabilmente con nessuno. L’avevo sempre vista in compagnia di Kameron o Terrence, intenta a lanciare occhiatacce o rimproverare qualcosa a qualcuno. Era una ragazza molto severa. Aveva altri amici?
“Ci siamo” disse con un sospiro, mentre il liceo faceva la propria entrata in scena.
Era una struttura discretamente grande. Non quanto la scuola superiore che avevo frequentato in città, ma mi ero aspettata qualcosa di molto più piccolo e cadente. Non era un edificio nuovo, né particolarmente curato, ma sembrava solido, tanto per cominciare. Era una buon inizio, no?
Respirai a fondo. Era quasi giunto il momento di entrare in scena a nostra volta. Lanciai un’occhiata ad Agatha, che non sembrava molto più felice di me di fronte a quel nuovo inizio.
Gruppetti di studenti avanzavano pigramente verso la scuola, chiacchierando tra loro, chi più allegramente e chi solo per gruniti.
Il pick-up puntò proprio verso di essi e vi passò in mezzo, diretto probabilmente al parcheggio.
“Sono venuti tutti a piedi?” mi informai, notando che stavano tutti camminando e noi eravamo gli unici in auto.
Agatha scosse il capo. “Le persone normali vengono qua col treno e poi a piedi fino alla scuola. Noi in macchina, perché Kameron è troppo pigro per alzarsi presto”.
Sorrisi, improvvisamente molto grata a Kameron. “Be’, in auto è molto meglio” proclamai, sicura. Ero sempre più certa che quel ragazzo fosse un fenomeno. Mi aveva svegliata strillando in preda all’entusiasmo, ma a quanto pareva in quel modo mi aveva evitato un’alzataccia all’alba. 
Proprio quando un briciolo di ottimismo stava germogliando dentro di me, successe il fattaccio.
Il fattaccio, già. Perché deve sempre esserci un fattaccio?
Terrence si sporse dal finestrino e, con un sorriso a trentadue denti, riempì i polmoni per poi dar  fiato alle trombe: “Signore e signori, ecco che arriviamo noi!” gridò. Il che non sarebbe stato molto problematico, se solo non avesse continuato. “E vi portiamo la ragazza nuova! Date un’occhiata a Pan Fletcher, la ragazza di città!”
Fu uno schiaffo in pieno volto. La cosa più imbarazzante che potesse capitarmi. Sentii tutti gli sguardi su di me, ma non ebbi il coraggio di alzare lo sguardo per controllare se mi stessero davvero fissando tutti.
Ero sbiancata. “Aggie, ti prego, dimmi che non l’ha fatto sul serio” la implorai, cercando di farmi piccola piccola sul cassone del pick-up. Avrei voluto sprofondare nella lamiera e diventare tutt’uno con la macchina.
Terrence guardava raggiante i gruppetti di studenti voltarsi al nostro passaggio. Cercai di convincermi che si stavano voltando solo per capire chi fosse il cretino che gridava e che nessuno stava guardando me. Non avevo il coraggio di controllare.
“Mi spiace, l’ha fatto” mi confermò Agatha, con un sorriso stiracchiato. “Benvenuta al liceo!”
Sospirai e strinsi le ginocchia al petto, sprofondandovi poi il capo per nascondermi dagli sguardi indiscreti e nascondere loro alla mia vista.
Forse era il momento buono per recuperare il buon vecchio manuale di sopravvivenza made in Pan Fletcher. Era decisamente troppo tempo che non ricorrevo più al manuale, magari mi sarebbe stato utile.
Regola numero uno: non piangere.
Non ne avevo nessuna intenzione, in effetti.
Regola numero due: respirare a fondo e tranquillizzarsi.
Presi un respiro profondo, poi un altro, nel vano tentativo di tenere i nervi saldi e chiarificare la mente. Non funzionò molto.
Regola numero tre: cercare tre aspetti positivi nella situazione.
Ah, quella era la mia parte preferita. La regola chiave per far funzionare il tutto.
Alzai la testa e scrutai il cielo, in cerca di trovare quel briciolo di lucidità necessaria per rimettere in fila i neuroni e metterli al lavoro. Non aveva alcun senso farsi prendere da un attacco di panico solo perché qualcuno aveva gridato davanti a mezza scuola che ero ‘quella nuova’. Lo sapevano già, no? Annotai mentalmente quel pensiero come primo elemento positivo.
Inoltre, forse, sarei apparsa strana e fuori luogo anche se Terrence non ci avesse messo lo zampino. E, sì, magari questo aspetto era parte di quello precedente, ma era il secondo punto della mia lista.
E il terzo? Lanciai un’occhiata ad Aggie e la prima cosa che mi venne in mente fu che non mi ero mai accorta di quanto somigliasse a Dean. Anche caratterialmente, in fondo, ma per lo meno a lei andavo abbastanza a genio. Se ci fosse stato anche lui a scuola, invece, sarebbe stato un incubo. Non avevo elementi per argomentare questa mia teoria, ma sentivo che era giusta. E l’assenza di Dean diventò così il mio terzo elemento positivo: niente imbarazzo, niente rossori sconvenienti, più possibilità di congedare la mia cotta. Forse la situazione non era poi così male.
Quando il pick-up si fermò nel parcheggio, Aggie si affrettò a saltar giù dal cassone, con lo zaino stretto a sé, e io la imitai. Notai che quella di Kameron non era l’unica automobile nel parcheggio, ma in totale ce n’erano meno dieci. Considerato che qualcuno degli studenti abitava nei paraggi e che qualche auto doveva necessariamente appartenere agli insegnanti, i ragazzi arrivati in macchina dovevano essere davvero pochi. Era un’osservazione sciocca, forse, ma come avrei potuto dimenticare le automobili nuove di pacca che sfrecciavano attorno alla scuola per accaparrarsi i parcheggi migliori? Come non ricordare tutte le volte che avevo rischiato di essere tirata sotto solo perché non guardavo dove stavo andando? Era strano pensare che lì non sarebbe successo, era sempre stato parte della mia routine.
Recuperai lo zaino e affiancai Agatha, mentre anche Kameron e Terrence scendevano dal pick-up. “Piaciuta la sorpresa, eh?” rise l’ultimo.
Gli lanciai un’occhiataccia. “Da morire” replicai sarcastica.”E ora?” domandai, senza molta originalità né arguzia.
Agatha si strinse nelle spalle. “Ora io vado a cercare le mie amiche, mentre voi andate in classe”mi comunicò. “Ricorda di passare in segreteria per prendere gli orari, Kameron se ne dimentica ogni anno!” si raccomandò, un attimo prima di allontanarsi a passo deciso, facendo ondeggiare la coda di cavallo. Per qualche motivo mi ricordò quella di un gatto, che se ne andava fiero e impettito, senza preoccuparsi del giudizio altrui.
“Fuori una!” se ne uscì Terrence. “Ora vediamo di toglierci di mezzo la seconda nanerottola!”
Gli lanciai un’occhiata truce - la seconda nel giro di pochi secondi. “Sempre molto simpatico, eh!” mi complimentai.
Kameron rise, incamminandosi a sua volta. “Su, su, non litigate, bambini. Dobbiamo andare in classe!”
Lo seguimmo.
“Non le mostriamo la scuola?” propose Terrence.
“C’è tempo?” si informò l’altro.
Estrassi il cellulare dalla tasca per controllare l’ora. “Se è vero che le lezioni iniziano alle otto e un quarto, allora no. Ma... ma c’è campo!” realizzai incredula.
“Come?”
Guardai Kameron meravigliara. “C’è campo! Funziona il cellulare!” esclamai entusiasta.
“Suppongo che sia una buona cosa” commentò Terrence, disinteressato. “Ma c’è Phil!” realizzò poi, additando qualcuno tra la folla di persone che entravano nell’istituto.
“Suppongo sia una buona cosa” lo citai, aggrottando le sopracciglia.
“Io vado a salutare Phil, ci si vede in classe!” ci congedò, correndo poi via con quell’aria da bambino sovraccarico di zuccheri che lo accompagnava ovunque.
Sospirai. Era evidente che a scuola non sarebbe stato come in paese. Qui c’era un sacco di gente in più, qui tutti sembravano avere amici con cui condividere il proprio tempo. Qualcuna tra le persone che mi avevano tenuto compagnia fin dal mio arrivo a Sperdutolandia avrebbe avuto tempo per me?
“Oh, magnifico: fuori due. Scapperai anche tu da un momento all’altro lasciandomi da sola ad affrontare il primo giorno di scuola?” domandai a Kameron, guardandolo di sottecchi. Mi stavo preparando ad incassare con più contegno possibile il suo ‘sì’, ma la sua espressione scettica frenò il mio pessimismo.
“Non credo, no” rispose divertito. “Bene, ora ficchiamoci in mezzo a quella massa di gente e facciamo a gomitate per arrivare per primi in segreteria. Ci stai?” propose, indicando i ragazzi ammassati nei pressi delle porte. Tutti si spintonavano a vicenda cercando di passare avanti agli altri ed entrare prima.
Indugiai. “Ehm. Magari per te, che sei grande e grosso, può esser un’idea brillante, Kam, ma ti assicuro che per una persona piccola e gracilina come me questa prospettiva equivale ad un suicidio”.
Kameron rise forte, facendo girare un paio di ragazze dalle espressioni diffidenti. Mi passai una mano sulla nuca, imbarazzata dai loro sguardi, ma quando compresi che erano indirizzati a Kameron e non ‘alla nuova’, mi indignai non poco. “Che avete da guardare?” sibilai tra me e me, sperando contemporaneamente che mi sentissero e che non lo facessero. Avrei voluto rimproverare le loro occhiate di superiorità, ma allo stesso tempo non avevo alcuna intenzione di passare per quella polemica fin dal primo giorno.
“Vieni, passiamo dall’altra porta” mi incoraggiò Kameron, indicando un sentiero che portava sul retro dell’edificio. Facemmo il giro della scuola da fuori, per poi ritrovarci nel cortile. Non erano molte le persone che, come noi, avevano abbandonato l’idea di entrare dalla porta principale.
“Da qui si va in mensa” mi spiegò Kameron, mentre camminavamo. “Carla, la signora della mensa, non approva che si entri da qua, ma basta ignorare i suoi strilli e sbrigarsi a passare. Io e Dean lo facevamo sempre. La folla dell’entrata principale è insopportabile e questa è una sorta di scorciatoia”.
Non mi pareva proprio di aver accorciato la strada, visto che avevamo fatto tutto il giro dell’edificio da fuori, ma sicuramente avremmo fatto prima passando dalla mensa piuttosto che attendendo che gli altri studenti finissero di spintonarsi a vicenda.
“Sembrano pecore” commentai. Kameron trovò quell’osservazione molto divertente e non potei fare a meno di lasciarmi contagiare dalla sua risata. Di nuovo.
Sbirciando la coda che si era formata fuori dalla segreteria, optammo per tornare a prendere i nostri orari scolastici solo all’intervallo.
“Come facciamo a sapere in quale classe andare?” chiesi, mentre cercavo di star dietro a Kameron, che trottava allegramente per i corridoi a me sconosciuti con grandi passi delle sue gambe molto più lunghe delle mie. Avrei dovuto cercare di saltare la prima lezione di educazione fisica che ci fosse capitata: stavo già faticando troppo per i miei gusti.
“Chiediamo!” rispose lui con semplicità, inchiodando all’improvviso di fronte a quello che sembrava uno sgabuzzino. Spalancò la porta, nonostante ci fosse scritto su ‘PRIVATO’ e strillò un saluto nelle orecchie di un ragazzo sui trent’anni che giaceva appisolato su una sedia. Nello sgabuzzino. Tra secchi, scope e bottiglie di detersivo. Con l’uniforme da bidello addosso. Stava dormendo. Nello sgabuzzino.
“Che cavolo vuoi?” abbaiò il ragazzo, spingendo Kameron con un piede, in un chiaro tentativo di allontanarlo da sé. “Possibile che tu sia ancora qui? Ormai hai la mia età!”
Doveva essere pazzo. Ecco, così si spiagava tutto.
Kam ridacchiò della sua reazione esagerata. “Mi hanno bocciato solo una volta” puntualizzò. “Sai mica che lezione abbiamo adesso?”
Il ragazzo si grattò la barba scura che non riusciva a coprire i segni lasciati dall’acne. “Ti sei mai accorto che questa non è la segreteria?”
“E dai, Eric, non fare il difficile!” insistette.
Eric-il-bidello-pazzo sbuffò sonoramente e iniziò a frugare nelle tasche del camice. “Si dà il caso, Towell, che abbia qui il tuo orario” comunicò, consegnandogli un foglio tutto spiegazzato. “E tu che c’hai da guardare, novellina?”
Ce l’aveva con me?
Feci un passo indietro, colta alla sprovvista. La sua scortesia mi fece sentire autorizzata a rispondere a tono: “Da dove vengo i bidelli non dormono negli sgabuzzini”.
Kameron ridacchiò. “Davvero? E cosa fanno tutto il giorno?”
Lo guardai incredula. “Ehm... puliscono?” suggerii.
Eric sbuffò. “Bene, buon per loro. Io non ho la capacità di sollevare banchi e sedie con tanto di studenti per spazzare il pavimento, ma se da dove vieni tu ci riescono, lo trovo... ammirevole”.
Ammirevole!Aveva detto proprio ‘ammirevole’? Risi e con tutta probabilità il bidello credette che fosse per la sua spiritosaggine.
“Be’, buona giornata, Eric! E grazie!” concluse Kameron, sbattendogli poi in faccia la porta dello sgabuzzino, prima che lui potesse rispondere.
Risi più forte, sorpresa da quel gesto, e lui si limitò a scrollare le spalle con un sorriso allegro. “Bene, secondo piano, aula di lettere. Iniziamo col botto!” mi comunicò, per poi trascinarmi su per le scale, zigzagando tra gli studenti.
 

In der Ecke - Nell'angolo:
Prometto che quando avrò il computer nuovo scaricherò quel dannato NVU e imparerò ad usarlo e al diavolo l'editor di EFP che mi obbliga a riformattare tutto ogni volta.
E premetto che questa volta mi sono corretta il capitolo da sola, quindi è molto probabile che, nella foga di riscrivere frasi e autoflagellarmi perché qualcosa non mi convinceva, mi sia persa qualche errore per strada. Spero solo non siano troppi né troppo orribili.
Ecco che è iniziata la scuola (solo per Pan, per fortuna, visto che sono in alto mare con i compiti delle vacanze)! Spero che la situazione non abbia deluso le vostre aspettative. La giornata non è ancora finita, comunque, nel prossimo capitolo continuerà. 
Stavo pensando che la storia sta iniziando ad essere davvero, davvero lunga. Quindi, una volta che Pan si sarà adeguata a/avrà capito come funziona la scuola a Sperdutolandia, accelererò un po' i tempi e farò un salto temporale di un paio di mesi. Se è possibile in al massimo una decina di capitoli vorrei concludere, anche per non uccidervi. Perché, cavolo, sono già trentadue capitoli! Solo pochi in meno de "L'ordine della Fenice" per intenderci! D: E va bene che i miei capitoli sono abbastanza corti, generalmente, ma non ho idea di come abbiate fatto ad essere arrivati fin qui senza prendere a testate lo schermo. Inoltre temo che stiano iniziando a diventare sempre un po' più scadenti.
Di nuovo credo di aver finito (poi ricorderò millemila cose che avrei dovuto scrivere. Dovrei prendere appunti per le cose da scrivere qua sotto). Spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Ricordo che, per chi volesse seguire gli aggiornamenti, leggere i miei delirii quasi quotidiani, fare due chiacchiere con me e le altre splendide persone che, per qualche motivo, mi seguono, potete trovarmi/ci qui: Per la barba di Merlino, Pan!

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Capitolo 33
*** 33 ***



Cows and jeans
33
 
 
Quando entrammo in classe, l’accoglienza non fu delle migliori. Non c’erano molti studenti e i presenti a malapena risposero ai saluti di Kameron.
Trovammo due banchi liberi nella penultima fila e ci sedemmo. Come prima cosa, decisi di osservare i compagni di classe per farmi un’idea di loro.
Nell’aula ce n’erano solo una decina, per ora, ed erano tranquillamente impegnati nel raccontarsi le proprie vacanze estive. Qualcuno si vantava di essere stato al mare, in base a quello che riuscii a cogliere, e io mi ricordai solo in quel momento che per la prima volta avevo trascorso un’intera estate senza vederlo nemmeno da lontano. Non ero mai stata un’amante del mare, quindi la cosa non mi dispiaceva troppo, ma mi aiutò a realizzare che avevo sul serio lavorato per tutto il periodo estivo. Una cosa inaudita, mai accaduta prima. Ma che forse si sarebbe ripetuta per sempre. D’inverno a scuola e d’estate al lavoro. Non era una prospettiva delle migliori, la mia pigrizia si sentiva mancare solo a pensarci, ma non poteva andare diversamente, in fondo.
I miei compagni di classe in città non erano mai stati particolarmente interessati a me. Scambiavamo qualche chiacchiera cortese, ci salutavamo e qualche volte ci passavamo i compiti a vicenda, ma il mio essere troppo-campagnola-per-la-città e il mio carattere non troppo amabile non avevano mai attratto particolarmente gli altri. Ero piuttosto scettica al pensiero della loro sincerità, così come della loro capacità di comprendere gli altri. Come potevo fidarmi di persone talmente superficiali da avere come massima aspirazione comprare un nuovo telefonino e poi, una volta ottenuto quello, un’automobile? Poi, magari, trovarsi anche una ragazza. Alla fine della fiera, però. Non ci piacevamo molto a vicenda, ma non era mai stato un grosso problema. Andava bene così perché non avevamo nulla in comune, dovevamo semplicemente convivere. Un po’ come nella mia famiglia. Non ero mai stata il mio carismatico fratello, ero fondamentalmente diversa. Non so in che modo, da chi o da cosa, esattamente, ma lo ero. Avevo sempre avuto Emily, era lei quella importante; con gli altri avevo scambiato qualche chiacchiera. Mi era sempre andata bene così, alla fine.
Ciò che continuavo a non spiegarmi era come potesse Kameron essere ignorato da tutti. Qualche ragazzo si era sforzato di salutarlo, un paio di ragazze avevano esibito un sorrisetto tirato e poi mi avevano lanciato un’occhiata curiosa. Serve dire che la cosa non mi piacque per niente?
“Vuoi che ti presenti agli altri?” domandò Kameron, interrompendo il flusso dei miei pensieri.
Presi fiato e lo guardai incerta, non sapendo bene come rispondere. In realtà non ne avevo molta voglia. Non era questione di pigrizia, questa volta, quando più di timore. Il momento delle presentazioni era sempre estremamente imbarazzante e fondamentalmente odioso. Avevo sempre paura di dire qualcosa di sbagliato e di far sì che gli altri si facessero un’idea negativa di me. Durante il primo giorno di scuola, in ogni dove, il nuovo studente doveva presentarsi almeno cinque volte, una per ogni ora. E poi magari una sesta volta all’intervallo, per via di qualche ritardatario che si era perso l’esordio del nuovo arrivato o voleva far conversazione senza tuttavia peccare d’originalità. Non era particolarmente piacevole. “Magari... magari più tardi” risposi incerta.
Kameron accennò una risatina e lanciò un’occhiata alla porta proprio mentre entravano Terrence e quello che doveva essere il suo amico Phil. Erano una strana accoppiata: Terrence era il solito iperattivo, iper-entusiasta, iper-burlone, iper-tutto; Phil aveva l’aria di essere un tipo normale, silenzioso e pacato, l’esatto opposto dell’amico.
L’entusiasmo di Terrence fu meglio accolto di quello di Kameron. Lui salutò tutti i ragazzi con pacche sulla spalla e quasi tutti ricambiarono con un sorriso – anche se qualcuno era un po’ frozato. Phil lo seguiva pacatamente salutando con cenni del capo e scrollando le spalle quando Terrence raccontava qualcuna delle sue tristi barzellette, in grado di provocare però grasse risate in quasi tutti. Evviva l’iper-senso-dell’umorismo di Terrence, insomma.
Quando il suo sguardo allegro ricadde su di me, gli lanciai un’occhiata truce, temendo che esordisse nuovamente come poco prima sul pick-up. Questa volta però fu più discreto e dimostrò di aver capito al volo la mia non-volontà di essere notata.
“Come ti pare qui?”
“Per ora non ne ho idea” ammisi, voltandomi nuovamente verso Kameron. “Come funzionano le cose qui?”
Lui si strinse nelle spalle. “Si arriva, si ascolta, si gioca all’impiccato quando ci si annoia e a mezzogiorno e mezza si va a pranzo. All’una e un quarto si ricomincia da capo” spiegò con semplicità.
“Oh, be’, sembra divertente!” Si riusciva a pranzare in quarantacinque minuti? Non c’erano file chilometriche alla mensa?
Kameron si accigliò e tirò indietro la testa come una testuggine. “Stai scherzando?” domandò, sgranando gli occhi incredulo.
La sua espressione mi fece ridere. “Sì!”
Sospirò e finse di asciugarsi il sudore dalla fronte. “Non farmi prendere più un colpo simile, nanerottola!”
Inarcai le sopracciglia. “Come sarebbe a dire ‘nanerottola’?”
“Non so se ci hai mai fatto caso, ma sei alta più o meno come un banco” spiegò con un sorriso a trentadue denti.
Soffiai una risata scettica e mi voltai dall’altra parte, osservandolo di sottecchi: “Mica possono essere tutti trogloditi della stazza di un trattore!” 
“Macché trattore!”
“Giusto: carro armato.” mi corressi. “Ma forse preferisci essere una mietitrebbia!”
Lui rise. “Sei invidiosa, Pollicina?”
“Pollicina? Questa è pesante!” Mi girai di scatto, puntando il dito indice verso di lui. “Ti avviso, sottospecie di gorilla, se...”
“Buongiorno a tutti”.
Salvato in corner.
Il silenzio calò all’improvviso all’interno dell’aula e tutti rimasero immobili per un istante durante il quale compresero chi aveva pronunciato quelle parole, poi tutti gli sguardi saettarono verso la porta per ottenere una conferma. Una donna completamente vestita di nero, con lunghi capelli biondi e un’espressione tranquilla stava in piedi sulla soglia, la borsa tra le mani e un sorriso cortese.
“Buongiorno, professoressa Pierce!” rispose qualcuno, affrettandosi a tornare al posto.
Solo quando tutti furono seduti, la donna allargò il proprio sorriso e prese posto alla cattedra. Estrasse le sue cose dalla borsa – rigorosamente nera –, posò gli avambracci sul tavolo e rivolse alla classe uno sguardo allegro. “Allora, come sono andate e vacanze?” domandò amichevole.
La classe fu percorsa da un mormorio denso di “Come sempre”, “Non male” e “Bene”.
La professoressa Pierce rise. “Avanti, raccontate, non fate i timidoni” cercò di spronarci. L’idea di parlare per prima non passò nemmeno per l’anticamera del cervello. Ero appena arrivata e non conoscevo nessuno, figurarsi se volevo raccontare a tutti le mie vacanze. Cosa avrei dovuto raccontare? I miei mi avevano cacciata di casa, ero stata licenziata un numero incalcolabile di volte e avevo dato un nome al nuovo nato della stalla di Kameron.
Feci scorrere lo sguardo attorno a me, sui banchi disposti a coppie in tre file, e fui sorpresa di notare che i miei nuovi compagni di classe erano davvero pochi. In città avevamo aule con almeno venticinque banchi, alcune raggiungevano i trentatré. In quella classe eravamo...
“Ragazzi, siete diciotto, non c’è nessuno tra voi che ha vissuto qualcosa che valga la pena di essere raccontato?”
Appunto, diciotto. Di cui Kameron, che era stato bocciato, quindi in teoria non avrebbe dovuto esserci. Una classe di diciassette studenti in città non si era mai vista, nemmeno quell’anno in cui bocciarono sei ragazzi della classe parallela alla mia.
Tornai ad osservare la professoressa, chiedendomi se, essendoci poche persone, presentarmi davanti a tutti sarebbe stato più semplice.
Lanciai un’occhiata a Kameron, che si teneva in bilico sulle gambe posteriori della sedia e si guardava attorno in attesa che qualcuno parlasse per primo.
“Io!”
Non dovette attendere molto, perché Terrence aveva sparato il proprio braccio in aria, sorridendo raggiante.
La donna annuì soddisfatta. “Ecco, finalmente. Avanti, Terrence, raccontaci la tua estate”.
Perché era necessario fare una cosa simile all’ultima anno del liceo? I primi anni era comprensibile, si cercava di far sì che i ragazzi si conoscessero meglio, ma dopo anni trascorsi insieme, che bisogno c’era di proseguire quella pratica imbarazzante? Sperai che non lo stesse facendo solo per permettere a me di conoscere gli altri.
“Be’... Ho lavorato in paese” esordì, e nessuno parve sorpreso da quelle parole. “e ho conosciuto delle nuove persone. Pan è la nipote del vecchio Abe Fletcher, lo sa? Anche suo fratello è in paese per qualche giorno”.
Questi racconti da bambino delle elementari iniziarono a preoccuparmi solo troppo tardi, quando ormai il dito indice di Terrence era puntato verso di me, a far da guida agli occhi di tutti i presenti.
Inevitabilmente arrossii e misi su un sorrisetto tirato. “Salve...” sussurrai, abbassando lo sguardo sul mio banco. Era incredibilmente segnato da scritte e incisioni secolari, notai cercando di mantenere la calma. Era un reperto storico! Magari mio padre stesso aveva inciso una di quelle parole. 
Brutta bestia l’imbarazzo, eh, Pan?
 Mi passai una mano dietro la testa e lanciai un’occhiata a Kameron, senza saper bene il perché.
“Sì, mi avevano parlato di una nuova studentessa” confermò la professoressa. “Come ti chiami?”
Mi costrinsi a guardarla negli occhi e a sorridere con cortesia. “Pan Fletcher” risposi, sperando che la mia voce suonasse naturale. 
Il silenzio che era ricaduto nella classe stava schiacciando il mio stomaco come un rullo compressore. Non potevo nemmeno prendermela troppo con Terrence, perché, bene o male, era una sfida che avrei dovuto affrontare, presto o tardi.
“Bene, Pan. Quando Terrence avrà finito, che ne dici di parlarci un po’ di te?”
Ecco, speravo che accadesse più ‘tardi’ che ‘prima’, ma ormai non potevo più tirarmi indietro. “Certo” risposi, incerta. Lanciai un’occhiata a Kameron, che mi sorrise incoraggiante.
Terrence rise. “In realtà ho finito, volevo solo farle notare che c’era anche lei in classe”.
A questo punto gli rivolsi un’occhiata truce. “Che gentile, mi hai fatto proprio un favore” farfugliai tra me e me. Il mio vicino di banco, ovviamente, mi sentì e rise sommessamente.
La donna accusò una risata, alle parole di Terrence, e si spostò i lunghi capelli biondi dietro le orecchie. “In questo caso, ti spiace venire qui davanti e presentarti ai tuoi nuovi compagni, Pan?”
Ah. Era strettamente necessario? Dovevo starmene in piedi di fronte a tutti, ai loro sguardi curiosi e fronteggiarli? Non potevo semplicemente stare dov’ero e parlare a voce alta? No, evidentemente non funzionavano così le cose a Sperdutolandia. Benissimo. Presi un respiro profondo, ignorando il rossore che si impossessava del mio volto e il cuore che saltava con la corda, mi alzai e camminai fino alla cattedra. Accennai un sorriso verso la donna e poi alzai lo sguardo sui miei nuovi compagni di classe.
Le loro espressioni erano tutte differenti. C’era chi mi osservava con aria critica, chi mi sorrideva incoraggiante, chi totalmente indifferente. Terrence si fece raggiante, quando i nostri sguardi si incontrarono, e alzò i pollici. Mi affrettai a guardare da un’altra parte, irritata dalla sua invadenza, notando così la linguaccia di Kameron. Trattenni a stento una risata e presi un secondo respiro profondo.
Bene, Pan, è il momento. O la va o la spacca!
“Be’, ciao” esordii, poco convinta. “Sono Pan Fletcher e...”
...e non ho idea di che diavolo dirvi, né, francamente, del perché dovrebbe interessarvi.
“È vero che vieni dalla città?” mi interruppe una ragazza dai lineamenti affilati dalla prima fila.
Perché, mi hai mai visto nei paraggi, per caso? “Sì, ma mi sono trasferita qui in campagna a inizio estate”.
“Come mai?” continuò lei, curiosa.
Prima che un altro commento sarcastico si facesse strada nella mia mente, mi resi conto che le sue domande mi stava aiutando a raccontare qualcosa. Se avessi dovuto fare da sola, probabilmente non sarebbe uscito nulla dalla mia boccaccia. “È una lunga storia, in realtà. Per qualche motivo i miei genitori hanno pensato bene che allontanarmi da loro potesse aiutarmi a...” ...a non dar più fastidio? “...ehm, crescere”.
Terrence rise. “Non è che abbiano avuto una grande idea, sei ancora alta come un...”
Grazie, dell’aiuto, sei molto carino, Terrence. Credo che ti soprannominerò Dobby. “...uno gnomo, a sentire il mio caro coinquilino” completai con una smorfia, prima che anche Kameron potesse intervenire e ricominciare con la storia di poco prima. Perché glielo si leggeva in faccia che stava per dire la sua in proposito. Quando aveva udito il riferimento a Dean, si mise a sghignazzare tranquillamente tra sé, attirando  occhiate confuse o  scettiche da parte dei compagni.
“Ed è Towell il tuo coinquilino?” se ne uscì un ragazzo mingherlino con un cespuglio di riccioli biondicci in testa e una smorfia di superiorità in volto.
“No, il fratello di una mia...” Conoscente? “...amica” tagliai corto. Ci mancava solo che, iniziando a parlare di Dean arrossissi o ... ci mancava solo che cominciassi a parlare di Dean e basta! Dovevo togliermelo dalla testa, parlarne non era sicuramente il modo migliore per farlo.
Lui sorrise divertito. “Vaccameron” tossicchiò, cercando di mascherare quelle parole. Alcuni ragazzi attorno a lui ridacchiarono e il simpaticone biondo sorrise soddisfatto.
Il mio sguardo saettò verso Kameron, che si era improvvisamente rabbuiato. Il sangue mi pulsava nelle orecchie per la rabbia improvvisa. Non riuscii a frenare la lingua: “C’è un motivo preciso per cui ti sei stampato quel sorrisetto idiota sulla faccia?” sputai, indispettita, cercando di mascherare l’indignazione dietro l’espressione più cortese che riuscii a metter su. Che diritto aveva di trattarlo a quel modo?
Il ragazzo sgranò gli occhi, sorpreso dalla mia reazione. “Io non...” si aspettava di essere udito, a quanto pareva. Peccato che non tutti fossero duri d’orecchi in quell’aula.
“Ah! Suvvia, non iniziamo a bisticciare come bambini!” intervenne la professoressa Pierce, battendo le mani per attirare su di sé l’attenzione della classe.
“Scusi” bofonchiai sottovoce. Presi un ennesimo respiro profondo sperando di schiarirmi le idee e mantenere il controllo. “Dicevo, i miei genitori mi hanno mandata qui perché imparassi a lavorare e a cavarmela da sola. Non che sia facile, ma ci sto provando” conclusi. Poteva bastare, no?
Un’altra ragazza dalla prima file mi sorrise complice. “Tranquilla, so cosa significa essere mandata a lavorare in campagna dai genitori. Sono tornata qui in città qualche giorno fa in vista della scuola e non vedevo l’ora di riabbracciare il mio lettore dvd!” rise.
“Ah!” esclamai con un sorriso di pura cortesia. “Siamo sulla stessa barca, allora” dissi, sicura che fosse ciò che voleva sentirsi dire. Peccato che a me il lettore dvd non mancasse affatto e che quella in cui stava la scuola non si potesse definire esattamente una città. Ad ogni modo non era il caso di fare la schizzinosa e rifiutare la gentilezza dei compagni di classe a causa di certe piccolezze. Nessuno sembrava particolarmente ostile, per ora, meglio non rovinare le cose, finché mi era possibile. “Dove hai lavorato?” buttai lì, cercando di non lasciar cadere la conversazione così presto.
Lei sorrise. “Ho fatto da baby sitter a casa dei miei parenti” spiegò. “I miei cugini hanno fatto licenziare la ragazza che c’era prima di me nel giro di pochi giorni, poverina. Io sono riuscita a resistere un po’ di più solo perché quei mostriciattoli mi conoscono da anni e li ho sempre riempiti di caramelle”.
Rimasi interdetta qualche istante, battendo stupidamente le palpebre. Quella storia mi suonava familiare. Non si trattava di un vero e proprio dejavù, ma... improvvisamente realizzai e il mio sguardo saettò nuovamente verso Kameron, incontrando il suo acceso di divertimento. Senza riuscire ad evitarlo scoppiai a ridere, ben presto imitata da Kam.
La ragazza si accigliò e alternò un paio di volte occhiate a me e a lui, confusa.
“Davvero?” riuscii a singhiozzare, tra una risata e l’altra, cercando di rimediare alla mia sfrontatezza.
“Sì...” rispose lei incerta.
“Bene, Towell, cosa c’è di così divertente?” intervenne la professoressa, aggrottando le sopracciglia.
“Niente, prof!” rispose Kameron, sforzandosi senza grandi risultati di trattenere le risa.
Io mi morsi il labbro inferiore e cercai di ricompormi. “Anche io ho fatto da babysitter per un po’ e Kameron è a conoscenza di un paio di avventure, ecco” spiegai, sperando che bastasse come giustificazione per il nostro comportamento.
Guardai di nuovo verso di lui, ma me ne pentii subito dopo. Nello stesso istante i cui i nostri occhi si incrociarono fu impossibile trattenere nuovamente le risate. Proprio come era successo al nostro primo incontro dopo la mia breve vacanza in città, fummo presi da un incontenibile attacco di ridarella. Kameron si accasciò sul banco, ridendo forte, e io, vedendolo in quelle condizioni, dovetti fare qualche passo indietro e appoggiarmi al muro per non cadere.
Era assurdo. Ero assurda!
Mi sentivo estremamente ridicola in quel momento, sotto gli occhi increduli e confusi dei miei nuovi compagni, ma più ci pensavo e mi imponevo di smettere, più mi accorgevo di non essere in grado di farlo. Era un circolo vizioso: più pensavo, più mi sentivo ridicola e più ridevo. Più ridevo, più pensavo di dover smettere perché stavo combinando un pasticcio dei miei.
Quando la nostra isteria iniziò a contagiare Terrence e un altro paio di ragazzi, la professoressa Pierce decise che ne aveva abbastanza di quella storia. Batté nuovamente le mani e si schiarì la voce, mentre io prendevo respiri profondi per riprendere il controllo delle mie facoltà mentali.
“Bene, vedo che il nervosismo da primo giorno di scuola sta dando i suoi frutti” commentò, rivolgendomi un’occhiata in tralice. “Puoi tornare a posto, tu e i tuoi compagni avrete modo di conoscervi in altri momenti. Oggi, a quanto pare, un sacco di gente ha voglia di ridere.  Per lo meno non piangete” continuò.
Io mantenni lo sguardo basso finché non ripresi posto e mi sforzai di non guardare Kameron nemmeno per errore oppure l’autocontrollo appena ritrovato sarebbe andato a farsi friggere.
“Bene”, riprese. Era la quarta volta che esordiva con ‘bene’ da quando aveva messo piede nell’aula, notai. “Passiamo ad affari più seri, ora. Chi di voi ha letto i libri che vi avevo assegnato per le vacanze?”
 
“Betthany Peterson” ripetei per la quarta volta, mentre Kameron mi scortava in segreteria all’intervallo. Dovevamo ancora recuperare il mio orario. E dico ‘dovevamo’ perché non avevo la più pallida idea di come arrivare in segreteria.
“Betthany Peterson” confermò lui, palesemente divertito.
“Betthany Peterson” soffiai una risatina, ma cercai di trattenermi. “...è in classe con noi”.
“Esatto”.
“Betthany Peterson!” conclusi, scoppiando poi a ridere di gusto.
Kameron mi osservava divertito e sghignazzava tranquillamente. Dovevo sembrare parecchio svitata, ma questa volta l’ironia della sorte sembrava davvero aver superato se stessa.
“Se continui a ripetere quel nome qualcuno finirà per credere che sei una maniaca di qualche genere”. Feci giusto in tempo a sentire quella frase prima di notare Agatha. Ci osservava con la sua solita aria solo vagamente divertita, appoggiata al muro accanto alla porta della segreteria. “Qui c’è il tuo orario” mi comunicò, avvicinandosi e porgendomi un foglio. “Ci avrei giurato che lo zuccone se ne sarebbe dimenticato”.
Mi sentii in dovere di prendere le sue parti, quella volta. “No, non se ne è dimenticato” spiegai. “C’era troppa fila e abbiamo pensato di venire ora a...”
“Idea sua, scommetto” commentò allora, aggrottando le sopracciglia. Spostò lo sguardo su di lui, che si strinse nelle spalle. “Già. Sì, insomma, tanto c’è Eric e non avevo voglia di fare la fila. Saremmo arrivati tardi a lezione”.
Agatha sbuffò. “Non hai mai voglia di far niente, tu, è questo il punto!” esclamò, scostandosi dal muro. Sbuffò e alzò gli occhi al soffitto, mentre Kameron sorrideva in preda ad un moto d’orgoglio.
Noi pigri sappiamo sempre riconoscere un complimento, quando ne sentiamo uno.
“Chi cavolo è Betthany Peterson?” domandò infine Agatha, non riuscendo a trattenere la curiosità.
Molto stupidamente scoppiai di nuovo a ridere. “La cugina dei Lucas!”
Agatha lanciò un’occhiata interrogativa a Kameron, che sogghignò divertito. “È in classe con noi” spiegò con semplicità.
“Davvero divertente” commentò lei sarcastica, ma anche palesemente divertita dal mio comportamento.
No, raccontata così non era per nulla divertente. Risi un’ultima volta, poi presi un respiro profondo, decisa a spiegare il motivo di tanto divertimento: “Il punto è che si è messa a raccontarmi che i suoi genitori l’hanno mandata a lavorare in campagna, proprio come i miei. Tutta contenta se ne è uscita fuori dicendo che ha fatto da baby sitter ai cugini e la ragazza prima di lei è stata licenziata per colpa dei mocciosi. E, insomma, lei sono io!”
Ok, sono proprio una cretina.
Mentre ripetevo tutto, mi resi conto che la situazione era molto meno divertente di quanto non mi fosse sembrato precedentemente.
“Non è molto divertente nemmeno così” mi assicurò Aggie, per poi ridere della mia espressione vacua.
Soffiai una risatina imbarazzata. Mi sentivo un po’ sciocca, per cui, giusto per fare qualcosa, iniziai a leggere l’orario che mi aveva appena consegnato. “Non è un granché, come orario” commentai. “Abbiamo due ore di biologia separate dalla pausa pranzo e poi fisica e trigonometria e ancora lettere. A parte la concentrazione da suicidio di materie scientifiche, passiamo più o meno tutto il giorno con la professoressa Pierce!” realizzai.
“Tu dici? Io ho due ore di inglese, due di ginnastica, poi storia, filosofia e ancora storia. Fa decisamente schifo, ma è solo l’orario provvisorio. Il professore di spagnolo non è ancora arrivato e quindi hanno dovuto arrangiarsi come potevano” spiegò Agatha, stringendosi nelle spalle. “Ovviamente non è ancora arrivato. Deve sempre prendersela comoda lui!” aggiunse, un po’ irritata.
Un classico: chi non ha mai avuto un professore costantemente in ritardo? Era una cosa piuttosto irritante dal punto di vista di chi, come me, era costantemente in orario. Ma forse io facevo parte di una categoria ben diversa, visto che ero puntuale solo grazie alle minacce e agli sforzi altrui.
“Va bene, io vado.” concluse: “Ci vediamo all’uscita”.
“E a pranzo” la corresse Kameron, osservandola.
Agatha distolse lo sguardo e si schiarì la voce. “Forse” rispose, andandosene.
Ma Agatha non si unì a noi per pranzo. Kameron aveva proposto di mangiare in giardino, visto che il clima era ancora piuttosto caldo, e io la vidi seduta ad un tavolo a conversare pacificamente con qualcuna delle suo amiche, mentre compravo il mio pranzo. Mi chiedevo il perché del suo comportamento. Non era possibile che proprio lei si facesse influenzare dagli incomprensibili pregiudizi dei nostri compagni di classe.
Non ero mai stata una persona particolarmente sveglia, ma mi erano bastate quelle prime quattro ore di lezione per intuire che quanto Kameron mi aveva confessato a proposito della propria fama fosse vero. Per qualche assurdo motivo a nessuno piaceva. Il che era davvero strano, visto e considerato che con il suo carattere allegro aveva conquistato la simpatia di un’asociale prevenuta e frustrata come me fin dal primo momento! Ok, magari i suoi momenti di Sono-figo-vero? mi avevano infastidita in un primo momento, ma era bastato davvero poco per capire che era solo il suo orgoglio maschile a parlare. E, insomma, tra me e Aggie era facile e quasi scontato che tale orgoglio maschile se ne tornasse a cuccia con la coda tra le gambe.
“Aggie?” mi domandò Kameron, quando mi sedetti sul prato accanto a lui.
Mi sistemai il vassoio sulle gambe e lo osservai di sottecchi, mentre parlavo: “Sta mangiando con le sue amiche” risposi. “Ti dispiace molto?”
Lui scrollò le spalle con noncuranza. “Non tanto. Pensavo che le cose fossero cambiate quest’estate”.
“Cosa vuoi dire?”
Lui staccò un morso dal proprio panino. “Non le è mai piaciuto tanto stare con me. Sono il migliore amico di suo fratello, alle femmine non piacciono gli amici del fratello”.
No, Kam, alle femmine non piace Dean. Quasi a tutte, almeno. “Sì, be’, non è che tu ti faccia una gran pubblicità con me se parli di lui, sai?” Anche perché stavo cercando di dimenticarlo e durante la mattinata era già stato nominato due volte, anche se una per mezzo di perifrasi lasciate in sospeso.
Kameron rise. “Dean non piace a nessuno”.
Sospirai. Magari avessi ragione!
Il Trenino Thomas non piaceva davvero neanche a me. O meglio sì, ma non come persona. Anzi sì. Insomma, mi stava antipatico, ecco. Per qualche motivo, però, mi piaceva in un altro modo. Cavolo, come poteva piacermi? Che fosse colpa della solita psicologia inversa? Basta, non dovevo pensarci.
“Magari è colpa del fatto che a lui non piace nessuno” suggerii con semplicità. Dean non faceva assolutamente nulla per rendersi almeno un po’ sopportabile, era normale che non riscuotesse tanta popolarità. Intendiamoci, nemmeno io ci tenevo molto a fingermi un’altra persona per risultare simpatica a tutti, ma sicuramente non mi presentavo ad uno sconosciuto dicendo ‘Che diavolo ci fai tu qui, principessa degli gnomi? Tornatene nel tuo mondo di unicorni e fatine, qui non c’è posto per te’. Cose del genere non accadevano nemmeno nei film western tanto cari a George:‘Questa città è troppo piccola per tutti e due’, duello a mezzogiorno, musica incalzante, suona l’ora, bang, bum, uno morto e uno vivo. Dean doveva essere rimasto indietro di qualche centinaio d’anni.
Non poteva certo pretendere di esordire come un cow boy di una scadente pellicola giallognola e pretendere di essere amato da tutti.  
Solo nell’assurda realtà della città gli stronzi potevano essere in gran voga, ma questo era dovuto alle tipiche manie di protagonismo delle ragazze, che si mettevano in testa di essere le uniche con cui la vera natura del falso stronzo sarebbe venuta a galla. Una natura puntualmente dolce e tormentata. Mi resi conto che a volte noi donne eravamo davvero, davvero contorte e un po’ troppo sognatrici.
Kameron drizzò la schiena e sguainò la spada per difendere il suo migliore amico. Cavolo, ne aveva di fegato, visto e considerato che Dean era indifendibile. “Non è che a lui non piaccia nessuno, è che...” lasciò la frase in sospeso, cercando una spiegazione plausibile per il comportamento del suo amico. Inarcai le sopracciglia e lui scoppiò a ridere. “Sì, forse non è molto socievole” mi concesse. “Ma non è che non gli piaccia nessuno. Sua sorella gli piace. Abe gli piace. E anche io e Johnny”.
“Insomma, gli vanno a genio i brontoloni del villaggio e il trattore. Chissà perché la cosa non mi sorprende”. Forse perché anche lui era uno dei brontoloni del villaggio?
“Il trattore sarei io, vero?”
“Certo”, sogghignai. “Strano che non gli vada a genio anche Cassie”.
Kameron rise forte. “Be’, in realtà, dopo che ti ha licenziato...”
...e ti pareva! “Molto carino, sì. Complimenti, sai sceglierti degli amici molto cortesi” commentai sarcastica. Era proprio un tipo indisponente. Credevo che il suo migliore amico avrebbe saputo illuminarmi sugli aspetti migliori del suo carattere, ma evidentemente non ce n’erano. Dean non si smentiva mai.
Ma in fondo cosa importava? Io dovevo smettere di pensare a lui e basta. Nel giro di qualche giorno sarei riuscita a lasciarmi alle spalle quella stupidissima cotta, ne ero certa.



In der Ecke - Nell'angolo:
Buongiorno a tutti!
Tanto per cominciare voglio ringraziare Falling_Thalia che, in assenza di Mary_, ha betato questo capitolo. :D
Poooi. Ecco qua i primi goffi tentativi di Pan di non pensare a Dean. Sicuramente il suo ottimo metodo per farsi passare la cotta riuscì. Già. XD
Anche in questo capitolo Agatha abbandona Kam e Pan. Non perché ce l'abbia in qualche modo con loro, intendiamoci. Semplicemente ha delle altre amiche, che probabilmente non ha mai visto durante l'estate - col lavoro e la distanza non è facile incontrarsi spesso. Inoltre non credo sia poi così verosimile che una quindicenne passi tanto tempo con dei ragazzi più grandi e appartenenti ad altre classi, a scuola. Specie se contiamo che Aggie dice di essere costretta a passare il proprio tempo con Kameron in estate per via del lavoro, per evitare che lui si perda nel proprio dolce far nulla. xD
Ultimamente stavo riflettendo sulla somiglianza tra Terrence e Kameron. Mi sembravano molto simili, ma riflettendoci bene mi sono resa conto che non lo sono poi così tanto: Terrence è iperattivo, sempre entusiasta, burlone, non troppo sveglio, ma è un gran lavoratore. Anche Kameron ama scherzare, ride sempre ed è una persona estremamente ottimista, disponibile e allegra, ma è fondamentalmente un graaan pigrone. Un po' come Pan. :3 Niente, questa era una mia riflessione che ci tenevo a farvi conoscere.
A questo punto credo di aver finito.
Vi ringrazio tanto per esservi aggiunte in numerose al gruppo, è un piacere parlare con voi! :D 
Spero che il capitolo vi piaccia.

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Capitolo 34
*** 34 ***


34

 

In paradiso. Dovevo essere in paradiso. O magari stavo sognando, non c’era altra spiegazione. Altrimenti come sarebbe stato possibile che fossi stesa sul divano del salotto a leggere un libro in santa pace? Leggere! Un miraggio.
Joshua era andato al saloon con il nonno – evidentemente, a dispetto delle sue aspettative, non era riuscito a ‘rigirarsi il biondo mestruato come voleva’ – e Dean era fuori a lavorare da bravo garzone qual era.
Era una sensazione incredibile. Poter finalmente oziare in santa pace e sprecare il mio tempo come più mi pareva. La mia pigrizia era così felice che si era addormentata.
Immergersi in un mondo alternativo, tra le pagine di un libro. A Betthany Peterson era mancato molto il suo forno a microonde, a me, invece, mancava da morire la sensazione di lasciarsi tutto il mondo alle spalle, dimenticare tutto e tutti e vivere le avventure che qualcunoaveva scritto con passione per evadere, proprio come me, da una realtà che gli stava troppo stretta. Mi mancava dimenticarmi di me stessa e vivere attraverso qualcun altro, mi mancava chiudere il libro e interrogarmi su cosa stava per succedere tra quelle righe fino al momento in cui non potevo riprendere la lettura.
Sfogliavo beatamente le pagine di Mio fratello Simple (*) per ritrovare il punto in cui mi ero fermata l’ultima volta – ovvero svariate settimane prima – , così rilassata da non udire la porta d’ingresso che si apriva e il mio momento di ozio che veniva interrotto.
“Che cavolo stai facendo?”
La mia adorabile cotta era in piedi sulla porta con i capelli biondi spettinati e un’espressione orripilata in volto. Forse avrei dovuto tener d’occhio la mia cara amica Sorte, che sembrava non aver perso l’abitudine di divertirsi alle mie spalle.
“Immagino che tu non abbia molta familiarità con questi strani oggetti, quindi cercherò di aiutarti: questo è un libro e io lo sto leggendo” sillabai, osservandolo di sottecchi, le sopracciglia aggrottate.
Rise sprezzante. “Ah, fammi indovinare, principessa!” Ed ecco che ricominciava... “Per qualche motivo hai pensato che la scuola ti esenti dai lavori domestici?”
Perché, le cose stavano diversamente? Il mio momento di smarrimento durò solo un istante. “Certo che no!” risposi, cercando di suonare convincente. O per lo meno convinta.
“Illuminami, allora: cosa stai facendo?” chiese, profondamente restio a credere alle mie parole. Non sia mai!
“Sto...” Cosa stavo facendo? Dovevo inventarmi qualcosa. “Stavo cercando ispirazione per cucinare qualcosa per cena”.
Dean mi fissò impassibile, mentre lo osservavo per capire se se la fosse bevuta. “Già.”Ovviamente no.
Chiusi di scatto il libro e mi alzai in piedi. “Puoi non crederci, se vuoi”. E, be’ ecco, se non ci credi non è un problema, visto che è una bugia bella e buona.  “Tu che ci fai in casa? Non devi lavorare?”
Mi diressi di filato in cucina dove, dopo aver nascosto il mio libro sulla mensola, fingendo che fosse uno dei ricettari della nonna, ne afferrai un altro e lo aprii su di una pagina a caso.
“Dovevo bere” rispose, seguendomi. Avevo la netta impressione che stesse studiando i miei movimenti. Era chiaro come il sole che non avesse creduto alla mia bugia a proposito della cena.
“Lasagne!” proclamai ad alta voce, leggendo il primo titolo che trovai. Ero decisa a far ciò che avevo detto di star facendo, giusto per non passare per nullafacente o bugiarda. Dal momento in cui presi quella decisione, mi dissi che non potevo essere considerata né l’una né l’altra cosa.
“Sono proprio curioso” commentò con scetticismo, dopo aver bevuto due bicchieri d’acqua del rubinetto.
Lo guardai male. “Non è vero, sei solo ansioso di vedere che casino combinerò” lo contraddissi, sicura.  E in cuor mio, dovevo ammetterlo, anche un po’ offesa. Perché non poteva semplicemente essere gentile, una volta tanto?
Dean scoppiò a ridere fragorosamente. “Bingo! Ma è pur sempre curiosità, no?” concluse, uscendo di nuovo.
“Sei pur sempre uno stronzo!” gli gridai dietro, indispettita.
Ma è pur sempre così carin-... no! No, basta, Pan!
Dovevo concentrarmi. Era necessario smettere di pensare a Dean. Anche se, cavolo, eravamo a casa da soli! La cosa sarebbe stata romantica, se solo io fossi stata il tipo da romanticume e lui non fosse stato l’ottava piaga d’Egitto.
Dovevo concentrarmi perché ero letteralmente negata in cucina e volevo dimostrare a Dean che, al contrario di tutte le aspettative – comprese le mie – , sarei riuscita a fare un buon lavoro con quelle maledette lasagne. E poi, magari, mentre erano in forno sarei riuscita a leggere qualche pagina...
 
Quando aprii il forno il fumo riempì la cucina e i miei polmoni. Tossendo, estrassi la teglia e la posai sui fornelli spenti. Come diavolo ci ero riuscita? Le lasagne erano ridotte ad un mattone color corteccia di pino con spiacevoli sfumature nere. “Ops” sussurrai tra me e me, sventolando il guanto da forno per allontanare il fumo. Ringraziai il cielo che alla fattoria non ci fosse l’allarme anticendio automatico come a casa mia, o sarei stata innaffiata dalla reazione dei sensori di sicurezza. Certo, non era una cosa esattamente sicura, visto che se mai fosse scoppiato un incendio – e sicuramente la colpa sarebbe stata mia – , l’intera casa si sarebbe ridotta come le mie lasagne. Con noi dentro, magari.
“Che puzza!” esordì Joshua, entrando in cucina.
Sobbalzai. “Ah, sei tornato” lo salutai, mesta. Avevo di nuovo fatto un pasticcio. Un pasticcio carbonizzato, per giunta.
“Sì, giusto ora. Cos’hai combinato?”
Osservai la teglia con sommo rammarico. “Lasagne” risposi.
“Stai scherzando?” si avvicinò per vederle meglio. “Sembra uno sformato di...”
“Ehi, lo vedo che fanno schifo!” lo rimproverai con un’occhiataccia, senza riuscire a sentirmi superiore, una volta tanto. “Non l’ho fatto apposta!”
Tornai a osservare sconsolata la mia ultima opera d’arte gastronomica. Avrei potuto comunque farla da mangiare a Dean: chissà, magari si sarebbe beccato un’intossicazione alimentare!
Joshua rise della mia espressione affranta. “Il talento culinario l’hai preso da mamma, non c’è dubbio” commentò.
Ah, fantastico. Grazie mille, Josh. Hai voglia di ficcarmi un coltello nella schiena, già che ci siamo?
Feci una smorfia, costringendomi a distogliere lo sguardo da quel pasticcio. “E tu hai la sua capacità di dire sempre la cosa sbagliata. È un talento anche quello, non c’è che dire” risposi, acida.
Lanciai un’ennessima occhiata a quello schifo informe nella teglia. Nessuno aveva il potere di renderlo commestibile? Oltre ad aver distrutto la mia autostima, avevo sprecato un sacco di ingredienti.
“Hai anche il senso dell’umorismo di papà”. Ecco, bravo, dammi un contentino.
Sospirai. “Non è colpa mia, io ho seguito la ricetta della nonna alla lettera!” ripetei. Mi ero impallata: i miei occhi si erano incollati alle pseudo-lasagne e la mia mente non faceva che ripetere che non era colpa mia. Era la cucina ad avercela con me!
“Non direi” mi prese in giro Joshua. “Guarda che schifo! Io non la mangio quella roba, piuttosto rubo del fieno ai vicini”.
“Bene, fai così: quando avrai trovato dei vicini a cui rubare il fieno trasferisciti a casa loro” sbottai, incrociando le braccia stizzita. “Oh!” realizzai improvvisamente, osservando l’orologio del forno. “Ok, forse ho capito quel è il problema...”
“Ovvero?” domandò, aggrottando le sopracciglia, curioso.
Mi guardai attorno, sperando di trovare qualcosa per distogliere l’attenzione dal mio disastro. Ma ovviamente la cucina non era il posto migliore per trovare distrazioni. “Ho allungato un pochino i tempi di cottura per finir di leggere...” ammisi infine.
Joshua soffiò una risatina e si sedette al tavolo, da dove prese a osservarmi con superiorità. Pensai che probabilmente non lo faceva apposta, ma metteva continuamente su quell’espressione da ‘Ehi, fai schifo, lo sai?’ che mi faceva saltare i nervi.  Sapevo di essere un’incapace, non c’era bisogno che ci si mettesse anche lui a farmelo pesare.
“Come è andata oggi?” gli chiesi, cercando di cambiare argomento e togliergli quell’espressione dalla faccia. La odiavo. Era la stessa espressione che sfoggiava Felicity quando mi rimproverava, la stessa che si stampava in faccia Dean ogni volta che incrociavo il suo sguardo. La stessa che mi faceva venire una gran voglia di prendere a schiaffi qualcuno e dimostrare che, no, non ero un’incapace totale, erano loro a fare schifo dal momento in cui mi facevano sentire tale.
Ma ora volevo sentire come se l’era cavata il principino, già. Era riuscito a reggere i ritmi di Sperdutolandia?
“Mi sono rimesso a letto e ho dormito fino all’ora di pranzo, dopo che sei uscita”.
Lui cosa?! Perché?!
Lo guardai in cagnesco. “Senti, va’ a quel paese”. Anche se ci sei già.
“Tu me l’hai chiesto!” obiettò lui, improvvisamente divertito. Ora indossava la sua solita maschera da ragazzo divertente e divertito.
“Dovevi mentire!”
Mio fratello rise. “Fa male la verità, eh? Tu vai a scuola e io no!” esclamò entusiasta.
Incrociai le braccia. “Vuoi metterti a canticchiare e condire il tutto con un ‘gnègnègnè’?” lo sfidai.
Sogghignò e, ci avrei messo la mano sul fuoco, stava per farlo davvero, quando il nonno irruppe nella cucina. “Che diavolo è successo qui?” chiese, sconvolto. “È di nuovo esploso il forno?”
Io e Joshua ci scambiammo un’occhiata e notai nel luccichio divertito dei suoi occhi la volontà di dire e vedere che succedeva dopo. Mi tornò in mente la volta che avevo quasi investito Kameron, pensando che se fosse successo a mio fratello si sarebbe divertito un sacco. In quel momento ne ebbi la certezza. “No, ho... ho sbagliato la cottura della cena”.
“Di nuovo?” chiese Abe sconcertato. “Ma come diavolo fai?”
“È l’anti-chef” ridacchiò Joshua tra sé.
“Ehi, è successo solo una volta! Con il latte era tutta un’altra storia...”
“Sì, come vuoi” sbuffò il nonno. “Se non sei capace di cucinare, forse dovresti lasciare che siano gli altri a farlo” mi consigliò, sforzandosi di mantenere un tono pacato. Gli fui grato per quel tentativo, anche se non troppo efficace.
“Mi dispiace” sussurrai. “Forse se grattiamo via la parte nera non sarà così male”.
Abraham prese un respiro profondo e rimase in silenzio per qualche istante, durante il quale io e Joshua si scambiammo di nuovo qualche occhiata: le mie dicevano tanto ‘e ora?’, le sue ‘ti sta bene’. Cavolo, non aveva diritto di ritenersi superiore! A lui non era mai successo solo perché non si era mai avvicinato al forno se non per nasconderci dentro i miei libri di Harry Potter.
Brutta storia, quella. Avevamo appena litigato di brutto e lui per vendicarsi aveva nascosto i suddetti libri nel microonde. Solo che in quel periodo avevo l’abitudine di segnalare con delle graffette le pagine delle mie scene preferite. Ed erano tante. Motivo per cui, quando mia madre lo aveva acceso per farlo riscaldare... be’, potete immaginare. Quel giorno era morto  il primo fornetto a microonde di mia madre e con lui i miei adorati libri. Si salvò solo l’Ordine della Fenice, perché era troppo grosso e, a detta di Joshua, non ci era entrato. Mio fratello rischiò di fare la stessa fine del forno, ovviamente, e non gli parlai più finché non ebbi raccimolato abbastanza soldi per ricomprarmeli tutti. Allora lo perdonai, ma solo perché ero riuscita a trovarli tutti nella stessa edizione di cui li avevo comprati la prima volta.
“Forse” Abe mi strappò ai miei pensieri. “se grattassimo via la parte nera non sarebbe così male per i maiali, forse”.
“Mi dispiace”.
“Va’ a passare l’aspirapolvere, mentre io preparo la cena. E tu dalle una mano” bofonchiò, rivolto a mio fratello.
Così, decisamente affranta, mi misi a fare le pulizie assieme alla mia nuova balia mentre il nonno rimediava ai miei danni.
Non fu poi così male. Mentre spolveravo ero così triste che optai per mettermi le cuffie e concentrarmi sulle parole di qualche canzone energica, di quelle in grado di dare la carica giusta in ogni circostanza – o quasi. Joshua si annoiava, per cui ben presto me lo rubò per poi usarlo a sua volta. Come era giusto che fosse, cercai di difendere la proprietà del mio migliore amico in assoluto, nonostante la resistenza di mio fratello. Mi prese in giro tenendolo in alto, sopra la sua testa e fuori dalla mia portata. Finii per saltargli sulla schiena per prenderlo e, com’era ovvio che accadesse, cademmo ben presto stesi per terra a insultarci come ogni santa volta che ne avevamo l’opportunità. Ma quelli non erano insulti volti a offendere, erano quelli più pittoreschi che ci fossero mai venuti in menti, quelli che tenevamo da parte per prenderci in giro reciprocamente, combattuti tra la voglia di ridere e rispondere per le rime.
Era in quei momenti che riconoscevo il fratello con cui giocavo da piccola, lo stesso che mi aveva aiutato a casa degli Hortus e che quella mattina mi aveva augurato buona fortuna prima di andare a scuola. Mi domandai se, forse, non fosse colpa dell’atmosfera di casa nostra se non eravamo mai riusciti ad andare davvero d’accordo. Avevamo sofferto entrambi per la separazione dei nostri genitori. Sebbene io l’avessi dimostrato opponendomi fermamente alla nuova unione di Felicity con George e dichiarando guerra ad una madre con cui non ero mai andata del tutto d’accordo, forse Joshua aveva sofferto più di me per la lontananza della figura paterna. Si era schierato dalla parte degli adulti per paura di venire abbandonato di nuovo? Per paura di essere cacciato a sua volte, com’era successo a papà? Pensai per la prima volta che forse, il fatto che mi avessero mandata a vivere a casa del nonno, lo avesse scosso davvero. Sembrava quasi che a casa mia si cacciassero le persone che non andavano d’accordo con mi madre. Joshua non era più un bambino da un pezzo, anche se, proprio come me, finiva spesso per fare delle sciocchezze. Era troppo grande per pensare che avrebbero buttato fuori chiunque non andasse a genio alla padrona di casa. Pensai che, però, forse, anche lui aveva avuto la stessa impressione, prima di me. Che forse aveva fatto qualche passo di lato e, un po’, ora stava dalla mia parte.
Sarebbe stato molto meglio che non ci fosse stata nessuna parte. Sarebbe stato meglio che mia madre avesse pensato bene a ciò che voleva prima di accettare di sposare papà, che ci avesse pensato un po’ di più prima di chiedere il divorzio. Però forse così sarebbe stato più facile solo per me. Forse per Felicity e Harvey, sarebbe stato molto difficile convivere. Forse. Ma ragionare per ‘se’ e per ‘forse’ non serviva proprio a niente.
“Chi lo dice prima lo è!”
“Joshua!”
“Che ho detto?”
 
La mattina seguente, cercai di convincere Kameron e gli altri ad andare a scuola con la mia auto. La proposta fu accolta con positività, almeno finché i ragazzi non capirono che avevo intenzione di guidare io.
“Cosa? No, non se ne parla nemmeno!” saltò su Kameron con aria decisamente spaventata.
“Donna al volante, pericolo costante” lo appoggiò Terrence, incrociando le braccia e appoggiandosi al pick-up con cui erano arrivati fino alla fattoria.
“Specie quando si tratta di te” li appoggiò Joshua, profondamente divertito dalla situazione. Quando c’era da darmi contro era sempre in prima fila. Alla faccia di quello che stava dalla mia parte!
Agatha fece lo stesso e lo guardò con sufficienza. “Tu cosa c’entri, misogino ragazzo di città?” lo zittì con superiorità.
Mio fratello rise e alzò le mani in segno di resa. “Come non detto!”
Perché lei riusciva a tappargli la bocca e io no? Doveva insegnarmi!
“Non ho intenzione di attentare alla mia vita. Ti sembro un suicida?” domandò Kameron, indeciso se ridere o farsi prendere dal panico.
Incrociai le braccia a mia volta ed ora sembravamo una tribù d’indiani d’america. “Francamente, ora come ora, sembra proprio che tu voglia un bel pugno sui denti” risposi combattiva. La mia macchina aveva l’aria condizionata e non bruciava il sedere e se anche beccavo una buca nessuno rischiava di caderci fuori. Ero decisa a difendere i miei diritti.
Kameron si lasciò sfuggira una risatina. “Ci tengo alla pellaccia io! Se non vuoi lasciarmela guidare, andiamo col pick-up e basta”.
Questa volta fu Agatha ad intervenire. “Siete una banda di misogini palloni confiati! Stupidi maschilisti. Ci siamo fatte tutta l’estate sul cassone di dietro del tuo stupido pickup. Hai una vaga idea di quanto scotti la lamiera in agosto?”
“Non che in luglio sia molto meglio” aggiunsi. “E io ho ancora i lividi di tutte quelle stupide buche che hai preso, Towell. Quindi, se non vuoi che andiamo con due macchine, dovrai proprio adeguarti alle nostre condizioni”.
“Ovvero: io e lei stiamo seduta davanti e voi dietro” concluse Agatha con convinzione.
“Non se ne parla! Da quando gli uomini si fanno scarrozzare dalle donne?” intervenne Terrence, scandalizzato.
“Ehi, tu” gli puntai un dito contro. “esiste una cosa chiamata emancipazione! È giunto il momento che tu apra un maledetto dizionario e scopra il significato di questa bellissima parola!” 
“Quanto sei saccente!” mi prese in giro Joshua, apoggiandosi alla mia macchina. Con quegli stupidi jeans pieni di inutili bottoncini di metallo che sembravano fatti apposta per rigare la vernice delle automobili altrui.
“Chiudi il becco e leva il sedere da lì!” E non sono saccente, sono determinata e ho una cultura alle spalle. Mica per nulla ieri ho ridotto le lasagne ad una teglia di corteccia di albero abbrustolita! Sono cose che capitano. Mai sentito parlare di quel famoso filosofo che cadde nel pozzo mentre osservava il cielo?
“Costringimi” mi sfidò.
Voleva la guerra? L’avrebbe avuta, parola di donna intenta a combattere per i proprio diritti. “Il nonno sarà felice di sapere che ti sei offerto volontario per ripulire il pollaio questa mattina. Vado subito a dirglielo” proclamai con un sorriso a trentadue denti.
“Non oseresti”.
“EHI, NONNO!” strillai, avviandomi a grandi passi verso il pollaio. “Joshua ha avuto una grande idea, sai? Vuole che...” ma la fuorisciuta di parole dalla mia bocca fu arginata da una mano formato padella che la tappò. Quella di Joshua.
“Ricattatrice!”
Scoppiai a ridere, mentre mi lasciava andare e, da brava sorella quale ero, tornavo alle macchine senza portare a termine la mia minaccia. “Alla fine il sedere dalla macchina l’hai tolto, eh?” lo presi in giro.
Kameron e Agatha stavano ancora bisticciando a proposito di misoginia, previdenza, orgoglio e diritti.
“Perché non facciamo a votazioni?” propose infine Kameron, stufo di discutere. Anche perché era matematicamente impossibile che qualcuno potesse vincere uno scontro verbale contro Agatha McDonnel, lei aveva quasi sempre un’ottima argomentazione a portata di mano. Ma anche quando non ne aveva, ne inventava e continuava a difendere le proprie opinioni con tanta convinzione – o meglio testardaggine – che non c’erano speranza di farla franca. Specie quando trovava un coltello da pane e minacciava di tagliare le gomme dell’auto di qualcuno. Kameron era rimasto talmente scioccato da quel tentativo, che aveva optato per le votazioni proprio per evitare di provocare una simile dimostrazione violenta.
“Ottima idea. Chi vota perché le ragazze occupino i sedili davanti?” domandai. La mia mano e quella di Agatha vennero prontamente sparate verso il cielo, in un’orgogliosa dimostrazione femminista. Era ovvio, però, che anche se mio fratello non aveva alcun diritto di rientrare nelle votazioni, saremmo rimasti due contro due e non avremmo risolto nulla. Per cui c’era bisogno di un piccolo aiutino. “Ehi, Terrence, ti ricordo che mi devi un favore, dopo le figuracce che mi hai fatto fare ieri” gli ricordai.
Lui rise con aria colpevole e alla fine alzò il pugno a sua volta. “Scusa, amico, ma sono un uomo d’onore”.
Kameron sbuffò e alzò la mano quando chiesi chi fosse a favore della guida di Kameron, quel giorno. Joshua fu ben felice di fare altrettanto, giusto per essere di conforto al nuovo compagno di giochi. “Io sono con te, fratello” gli assicurò, facendolo ridere.
“Perfetto, tre contro uno” contò Agatha.
“Come uno? E io?”
“Tu non conti” lo freddò lei, senza degnarlo di uno sguardo.
Sogghignai, soddisfatta di aver vinto quella piccola disputa. “Forza, trattore, i sedili posteriori ti aspettano!”
Kameron si sentiva ferito nell’orgoglio, evidentemente, quello stesso orgoglio che gli faceva dire enormi cretinate di tanto in tanto, giusto per farsi grosso agli occhi altrui. Di fatti rise: “Prima o poi mi farai compagnia su quei sedili, se capisci cosa intendo”.
Mi fermai con la mano che stava per aprire la portiera dell’auto e gli rivolsi un’occhiata incredula e un po’ scettica. Sì, ogni tanto la sua sete di virilità diveniva insopportabile e allora lui si beveva il cervello. Complimenti alla sua astuzia!
Per gli altri esemplari maschili quella frase fu il degno riscatto per la sconfitta ricevuta, perché si scambiarono pacche sulle spalle e sorrisi complici. Idioti.
Per qualche assurdo motivo, però, il mio cervello non riuscì ad elaborare una risposta adeguata a quell’insinuazione, per cui mi limitai a ridere forte, scrollando il capo. Forse ero anche arrossita, dannazione. Forse. Ma mi aveva colta di sorpresa, cavolo, non me l’aspettavo una frase del genere proprio da lui! Potevo aspettarmela da Terrence, al limite anche da mio fratello, ma Kameron...! Mi era crollato un mito. E il mio orgoglio con lui. “Come no!” bofonchiai, mentre Agatha borbottava qualche insulto tra i denti e saliva in macchina sbattendo la portiera.
“E si ascolta la musica che decido io” conclusi, salendo a mia volta, giusto per avere l’ultima parola.
 
Eravamo riusciti a non far tardi nonostante la lunga discussione a proposito di chi avrebbe dovuto guidare quella mattina. Io e Kameron stavamo accompagnando Agatha in classe, visto che sembravamo avere abbastanza tempo e che i due si erano immersi in una nuova discussione che durava più o meno da quando anche i ragazzi si erano decisi a salire in macchina. Non c’era un argomento preciso, si stavano più che altro stuzzicando a vicenda, più o meno come facevamo regolarmente io e mio fratello, ma con uno sprint in più. Kameron se la rideva e, ad ogni risposta, Agatha si faceva sempre più acida. Ovviamente non c’era stato modo di ascoltare musica in auto, con tutta la confusione che facevano e le stentate indicazioni di Terrence erano stati necessari tutta la mia concentrazione e un miracolo per non perderci.
In quel momento tenevo il mio fidato mp3 in mano e avevo tutta l’intenzione di ficcarmi gli auricolari nelle orecchie per isolarmi e non dover più sentire quel perenne battibecco, ma, proprio mentre stavo per farlo, Kameron me lo tolse di mano. “Che musica ascolta la gnoma femminista?” domandò, accendendolo.
Rimasi con un palmo di naso per un istante, poi incrociai le braccia con stizza. “Scusa, non stavi avendo una conversazione civile e rispettosa con Agatha tu?” A quel punto lui aveva già inforcato i miei auricolari e stava scorrendo la playlist.
Scambiai un’occhiata esasperata con Aggie, poi bussai col pugno alla sua spalla. “Kam...” lo chiamai, temendo che la campanella sarebbe suonata da un momento all’altro. Non sapevo orientarmi da sola nella scuola e sicuramente non avrei lasciato il mio mp3 nelle mani di quello che, da quella mattina, era regredito da ’amico’ a ‘troglodita’.
“Bleah! Pensavo avessi gusti migliori!”

 

Era appena regredito ulteriormente a ‘stupido troglodita privo di buon gusto’. “Ah, be’, mi dispiace se la mietitrebbia bocciata non ha i miei stessi gusti musicali!” commentai, incrociando le braccia.
Lui rise della mia espressione, mentre anche Agatha si era fermata a qualche passo di distanza per osservare la scena.
“Oh, questa! Questa non è male!” esclamò lui in quel momento, entusiasta.
Lo vidi alzare al massimo il volume e scatenarsi muovendosi al ritmo della musica che sono lui sentiva.
“Sembra un bisonte col morbo di Parkinson” commentò Agatha, inarcando le sopracciglia, divertita.
Kameron le fece l’occhiolino, pur non avendo udito il commento per il quale io stavo invece ridendo. Non aveva tutti i torti, dovevo ammetterlo. Non si poteva definire un grande ballerino... ma chi se ne importava? Si stava divertendo e tanto bastava. E, dovevo ammetterlo, la cosa divertiva molto anche me.
Prima che Aggie potesse lasciarsi andare a qualche altro commento velenoso, lui l’afferrò per i polsi e la coinvolse in una sorta di scoordinato ballo anni ’70 nel bel mezzo del corridoio della scuola.
“Che cavolo fai?” gemette lei, cercando di sottrarsi alla sua presa.
Qualcuno degli altri studenti diretti in classe, passando, osservava la scena e se la rideva. Qualcuno si prese persino il disturbo di dispensare commenti poco carini, proprio del genere che mandavano Aggie – e chiunque, d’altro canto – su tutte le furie.
Mentre lei diventava rossa di rabbia e vergogna, Kameron cantò a squarciagola il titolo della canzone: “CRAZY LITTLE THING CALLED LOVE!”
Agatha riuscì a quel punto a spingerlo via e si allontanò svelta da lui, temendo di venir trascinata di nuovo in quella pazzia. “Towell! Smettila subito!” lo ammonì, ora che non era più nelle sue mani né in preda al panico. Glielo si leggeva in faccia: detestava attirare l’attenzione, specie in quella maniera imbarazzante. Peccato che a Kameron la cosa non desse alcun fastidio e non aveva idea del perché qualcuno avrebbe dovuto vergognarsi di divertirsi in pubblico. Come si poteva non volergli bene?
Me la ridevo sotto i baffi in tutta tranquillità.
“Pan, fallo smettere, ti prego!” mi implorò lei, mentre il ragazzo trotterellava per il corridoio imitando Freddie Mercury e ammiccava alle ragazze di passaggio, che lo liquidavano con un sorriso compassionevole e se ne andavano a passo svelto.
Tornai a bussagli sulla spalla, cercando di farlo ragionare. Anche perché a quel punto doveva mancare davvero poco al suono della campanella. “Avanti, Kam, ridammi quell’affare, da bravo” lo spronai, nonostante fosse chiaro che non sentisse una parola di ciò che stavo dicendo.
Lui ovviamente mi sorrise divertito e trotterellò via.
“Kam!”
Agatha gli rivolse un’occhiata carica di imbarazzo. “Lasciamolo qui e andiamocene, ti prego!” suggerì.
Ridacchiai. Sarebbe stato piuttosto divertente, nel caso lui si fosse voltato e avesse trovato il corridoio completamente vuoto. Tuttavia non potevo abbandonarlo, non l’avrei fatto nemmeno se avessi saputo come tornare in classe. “Tu vai pure, io lo aspetto”.
Lei sospirò, poi mi affiancò e si fermò ad attendere assieme a me che Kameron si ricordasse di non essere Freddie Mercury e di avere delle lezioni da seguire.
Mentre si dimenava senza alcuna vergogna tra gli sconcertati passanti, pensai che potevo capire il suo entusiasmo. Crazy little thing called love era una di quelle canzoni che, non appena uditi i primi accordi, rendevano impossibile premere il pulsante per passare alla traccia successiva. Era ipnotica, magnetica, era piena di vita e metteva energia ogni volta che la si ascoltava. E poi era dei Queen, il che la rendeva una gran canzone.
Agatha batteva insistemente un piede sul pavimento, osservandolo con le braccia incrociate e un’espressione severa che non lasciava presagire nulla di buono. Per lui. Con quell’aria minacciosa mi ricordava un sacco suo fratello Dean. Avevano gli stessi lineamenti un po’ spigolosi e anche caratterialmente un po’ si somigliavano. Ma quello era un pensiero off-limits. Tabù. Non avevo intenzione di entrare in un campo minato.
Mi obbligai a concentrarmi su Kameron giusto in tempo per vedere la sua espressione raggiante smontarsi. Il che annunciava la fine della canzone. Ne approfittai per accorrere e strappargli il mio mp3 dalle mani ed evitare che quella pantomima – poco mima –  ricominciasse. “Ora basta, che ne dici? Hai dato abbastanza spettacolo, trattore” dissi, divertita, mentre arrotolavo i fili degli auricolari.
Kameron rise. “Che è quella faccia, Aggie? Non ti sei divertita?”
Lei gli rispose con un’occhiataccia che avrebbe fatto impallidire persino suo fratello, ma, prima che potesse parlare, qualcuno si intromise ed evitò che quei due ricominciassero a bisticciare come avevano fatto fino a poco prima.
“Avrei dovuto immaginarlo. Chi poteva dare spettacolo al terzo piano se non Towell e company?” se ne uscì una ragazzina di qualche anno più piccola di me, ma che, era evidente, credeva di essere una specie di Jasmine Meaddows in succursale a Sperdutolandia.
Agatha si sistemò lo zaino sulle spalle, con l’aria di chi avrebbe preferito essere interrogata in tutte le materie piuttosto che trovarsi in quel luogo, di fronte a quelle persone.
Kameron le lanciò un’occhiata di scuse, poi lanciò la prima vera occhiataccia che gli avessi mai visto fare alla nuova arrivata, che lo osservava con sufficienza.
Signore e signori, ero di fronte a niente po’ po’ di meno che una pseudo bulletta, in diretta dalla scuola superiore di Sperdutolandia. Incredibile, eh? Trattenni a stento le risate, nel momento in cui lo compresi. Sembrava una brutta coppia della classica cheerleader strafiga dei film americani. Ma, per l’appunto, ne era una brutta copia sbiadita.
“E tu devi essere la nuova!” la ragazzina si esibì in un sorrisone falsissimo, posando lo sguardo su di me.
La nuova. Nessuno mi aveva mai chiamato in quel modo. Ero lì da solo un giorno e pochi minuti, era vero, ma era proprio in quel periodo che, di solito, ci si riferiva ai nuovi arrivati in quel modo. Era un termine così freddo che quasi riusciva a farmi sentire un pezzo di mobilio. “Già. Pan, mi chiamo Pan” sottolineai, leggermente infastidita da quell’appellativo. Mi sforzai di sfoderare un sorriso di circostanza, senza tuttavia porgerle una mano.
“Pam, vuoi dire”.
“No. Pan, con la enne finale”.
“Fai sul serio?”
Se facevo sul serio, diceva? Ma lei, piuttosto, faceva sul serio? Quell’orribile sorriso che ero riuscita a stamparmi in faccia si congelò. Voleva insegnarmi a scrivere il mio nome?Credo proprio che andrò all’anagrafe per farmi cambiare l’ultima lettera, ora.
Lanciai un’occhiata interrogativa ad Agatha, che per tutta risposta, che scosse leggermente il capo e mi fece cenno di andar via. Si lasciava mettere i piedi in testa da quella tizia in minigonna? Non era possibile, non proprio Agatha McDonnel!
Kameron si strinse nelle spalle e sospirò esasperato.
“Sì che faccio sul serio. Mio padre è un appassionato di mitologia greca” spiegai con freddezza. Non che il mio nome mi fosse mai sembrato un’opera d’arte, anzi, ero consapevole che fosse insolito. Sicuramente, però, nessuno aveva mai avuto la faccia tosta di farmelo notare. Anche perché non era per nulla male, per quanto mi riguardava. Harvey aveva ben pensato che ‘Pan’ fosse un nome molto più originale e rispettabile di ‘Pam’. Non avevo mai avuto nulla da obiettare con quel suo pensiero. Era un nome leggermente fuori dal comune, ma andava bene così. Insomma, era il mio nome, ormai!
Lei rise. “Tipo il dio Pan?” Era evidente quanto la cosa le suonasse ridicola.
No, tipo Zeus. Non noti la somiglianza? “Già”.
Inarcò un sopracciglio. “Ma è un nome da maschio, no?”
Va bene, a quel punto era davvero troppo. “Davvero? Cavolo, non lo sapevo. Be’, è un bel problema, ora che me lo fai notare” risposi cercando di essere convincente, nonostante la quantità di sarcasmo che misi in quelle parole. 
Lei sorrise compensiva. “Sta per suonare la campanella. Credi che ti vedrò a mensa?” mi chiese, cambiando prontamente argomento.
Credeva forse che sarebbe venuto a prendermi un elicottero per portarmi a Parigi durante la pausa pranzo? “Ci sono altre possibilità?”
“Sì. Non sei obbligata a sederti con certa gente, tanto per cominciare. Le persone di città non devono necessariamente confondersi con quella di campagna”.
Ah. Ah, quindi lei non era una ragazza di campagna. Lei veniva dalla cittàOvvio
Agatha era livida di rabbia e per un momento pensai che l’avrebbe presa a schiaffi. Tuttavia si limitò a mordersi il labbro inferiore e distogliere lo sguardo.
“No, sta’ tranquilla: eviterò gli sfigati come la peste!” le assicurai, profondamente divertita.
“Spero che tu faccia la scelta giusta”. Dopo quell'ultima frase, girò sui tacchi e si affrettò verso un’aula poco distante.
Scoprirai, Potter, che certe famiglie sono migliori di altre. Mi abbandonai ad una risatina sarcastica. “È una cosa normale?” domandai, incredula. Avevo tutta l’impressione di essere vittima di uno scherzo. Cose del genere non succedevano veramente.
“No, è una ‘cosa’ da murare viva” rispose Agatha, dando finalmente sfogo alla rabbia accumulata durante quei pochi minuti di assurda conversazione.
“Di nome Christine Johnson” aggiunse Kameron, mentre la campanella suonava. “Non è simpatica?”
“Adorabile” commentai.
Agatha sbuffò, avviandosi verso la stessa aula in cui era entrata la suddetta ‘cosa’. “Io vado! Ci vediamo più tardi!” ci salutò.
“Ciao, Aggie” rispondemmo in coro.
“È una stronza” continuò Kameron con un sospiro. “Si crede superiore a tutti noi solo perché abita qui in città. È la figlia della professoressa Pierce”.
“Oh. Sì, Kam, ma questa non è una città. È un buco! Quanti alunni ha questa scuola? Duecento? Quella dove ho studiato io finora ne conta quasi un migliaio!”
“Dillo a lei!”
“E, no, aspetta, hai appena detto una parolaccia?”
“Sì, perché?”
“Cacchio è un mirac-... KAM!” fu in quel momento che realizzai la nostra situazione. Fu un flash: eravamo fermi a chiacchierare nel bel mezzo di un corridoio vuoto, la campanella era appena suonata e l’aula in cui avremmo dovuto già essere si trovava dall’altra parte della scuola. “Siamo in ritardo!”
Lui mi osservò con un sorriso idiota per qualche istante, poi capì il significato delle mie parola. “Ops!” Mi afferrò per un braccio e partì di corsa.
In tutta franchezza, credo che nessuno in tutta la scuola, quella mattina, possa non aver udito il fragore di due bisonti imbufaliti che correvano goffamente attraverso tutta la scuola, inciampando e sbattendo un po’ ovunque. Se qualcuno di voi li ha sentiti e può testimoniare, posso assicurarvi che, sì, erano l’esemplare inspiegabilmente ritenuto sfigato e quello con il nome da maschio proveniente dalla città. Era pur sempre un modo per farsi conoscere da tutta la scuola, no?

DubbiDomandeDelucidazioni:
Mio fratello Simple di Marie-Aude Murail. Un gran bel libro, davvero. Ve lo consiglio. Parla di un ragazzino che si occupa del fratello maggiore ritardato. È estremamente dolce. La Murail è un genio nell’aggiungere tratti comici in quelle che, se non affrontate col sorriso sulle labbra e tanta speranza, sarebbero tragedie. Il tutto senza peccare di superficialità. Vi consiglio anche “Oh, boy!”, sempre della stessa autrice.
Avevo già citato questo libro facendo dire ad uno dei demon- ... dei piccoli Lucas la parola “stopila” (=pistola), mi pare. 

 
In der Ecke – Nell’angolo:
Prima di tutto voglio ringraziare Ginny_99, che si è gentilmente offerta per betare questo capitolo. Grazie, Ginny! :D
Ma andiamo oltre. ^^ 
Chi di voi aveva preso in considerazione la coppia Joshua/Agatha? Scrivendo questo capitolo ci ho fatto un pensierino, sappiatelo. Sarebbe ...curioso. XD
In questo capitolo fa la sua entrata in scena un personaggio discretamente spiacevole - ma dipende dai punti di vista - Christine Johnson. Viene anche introdotta una tematica che aiuta a spiegare, in parte, il motivo per cui Kameron viene mal visto. I ragazzi del paesino di Sperdutolandia, non sono molto apprezzati da quelli della "città". Incredibile ma vero, tra la cittadina e il paese ci sono discriminazioni tra campagnoli e cittadini. Pan è piuttosto scettica a riguardo, visto che, in pratica, quelli del liceo sono tutti campagnoli in confronto a lei. 
Viene anche data una spiegazione al perché del nome di Pan. Perché io ho preso i nomi dei fratelli Fletcher da due diversi anime, ma non era plausibile che Harvey e Felicity avessero fatto lo stesso. XD Tra l'altro, mentre provavo a leggere "Le Metamorfosi" avevo intuito qualcosa che poi oggi, grazie a wikipedia, ho scoperto essere curiosamente azzeccato:
"Il nome Πάν deriva dal greco paein, cioè "pascolare", e infatti Pan era il dio pastore, il dio della campagna, delle selve e deipascoli". Poi naturalmente continua con altre informazioni, ma quelle che ci interessano sono queste. ^^ È probabile che alcuni, se tra voi ci sono dei classicisti, lo sapessero già, ma io da povera linguista ne sono rimasta piacevolmente sorpresa. :D
Be', penso di aver finito per oggi.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto! 

PS: Il progetto del "non più di dieci capitoli" purtroppo credo che salterà. Non voglio tirar via il finale di questa storia, cosa che, concentrandolo in un prefissato numero di capitoli, invece rischierei di fare. Non saranno comunque ancora moltissimi, lo prometto.

 
 

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Capitolo 35
*** 35 ***


Cows and jeans
 
35
 
 
“McDonnel, salutami tuo fratello!” era una frase ricorrente alla Sperdutolandia-high-school. Veniva gridata, sussurrata o semplicemente detta nei corridoi, nelle aule e anche a mensa da ogni genere di studente ad Agatha. Ecco, c’era qualcosa in quella frase che stonava terribilmente e avevo la netta sensazione che fosse quel ‘salutami’ associato al fratello. In base alle informazioni fornitemi da Kameron e a quelle che io stessa avevo raccolto negli ultimi due giorni, Dean McDonnel non aveva mai riscosso molto successo all’interno della scuola, senza contare che aveva finito di frequentare il liceo da ormai due anni, quindi pochi dei suoi ex compagni dovevano essere ancora tra quelle mura. Se il mio senso logico non mi ingannava, chiedere a qualcuno di riportare i propri saluti a qualcun altro è un gesto di apprezzamento o comunque di interesse. Perché allora metà della popolazione scolastica era così ansiosa di far sì che Dean McDonnel ricevesse i propri saluti? La cosa mi metteva a disagio. Non era assolutamente questione di gelosia – e come sarebbe stato possibile? Io stavo congedando la mia cotta! –, ero per lo più confusa. I conti non tornavano, per niente. Il suo lato peggiore veniva a galla solo con me? Eppure Kameron aveva detto che era così antipatico con tutti – e sì, antipatico è solo per essere carini, servirebbero parole molto più scurrili per definirlo come si conviene.
Fu solo quando una ragazza della mia classe aggiunse “Matthew, mi raccomando, non Dean” che la mia lotta interiore si placò. Matthew, non Dean! Non avevo la più pallida idea di chi fosse questo Matthew, ma sicuramente non era Dean e tanto bastava a tranquillizzarmi. Quindi il trenino Thomas non era stronzo solo con me, lo era con tutti. Per un momento l’idea mi riempì di gioia, poi di malinconia e anche un po’ di sensi di colpa: perché essere felice se una persona era odiata da tutti? La verità era che, anche se non l’avrei mai ammesso a nessuno e tantomeno a me stessa, ero estremamente felice di sapere che il suo carattere non fosse terribile solo in relazione a me, era così e basta. A prescindere dalla persona con cui era, Dean McDonnel si comportava allo stesso modo. Era stronzo di natura, non per colpa mia. Quindi, di riflesso, mi rallegravo del fatto che non odiasse me in quanto Pan Fletcher, ma il mondo intero e me solo in quanto essere umano. Non aveva nulla contro di me, in sostanza. Il che forse non faceva alcuna differenza, ma era una consapevolezza che mi rallegrava e intristiva al tempo stesso.
 “Chi è Matthew, Aggie?” le domandai mentre eravamo in fila per riempire il vassoio della mensa.
Lei si voltò all’indietro per un istante e mi rivolse un’occhiata sorpresa. “Non sai chi è Matt?”
Certo che sapevo chi fosse Matt: era la cotta della mia migliore amica, nonché il mio personale spacciatore di musica. Va be’, non proprio personale, ma... “Ehm, no” risposi. “Dovrei?”
Lei si strinse nelle spalle. “È strano, perché qui intorno non c’è una sola persona che non l’abbia mai sentito nominare. È mio fratello maggiore. Maggiore anche di Dean, intendo” spiegò con semplicità, mentre la signora Carla le riempiva un piatto di una decisamente poco invitante poltiglia biancastra. Si sarebbe abbinata perfettamente con le mie lasagne carbonizzate.
“Ah. Hai due fratelli?” Quanti fratelli McDonnel c’erano in circolazione? E di quanti non conoscevo l’esistenza?
“Due. Dean e Matthew. Tipico di Dean non averti parlato di lui, in effetti” sospirò, leggermente contrariata.
È tipico di Dean non parlarmi affatto, in realtà. “Sì, be’, non è che le nostre conversazioni siano troppo civili, solitamente...” commentai. Un po’ mi dispiaceva. No, fermi tutti, non per il motivo a cui state pensando voi. Perché io non avevo più nessuna cotta, no. O non l’avrei avuta più molto presto, comunque. Mi dispiaceva semplicemente perché eravamo coinquilini, costretti a vivere assieme per un sacco di tempo e... Diavolo, ma come si fa a convivere con una persona del genere a tempo indeterminato!
“Giusto” sogghignò. “Ma anche se andaste d’accordo dubito fortemente che te ne avrebbe parlato”.
Neanche io parlavo troppo spesso di mio fratello, in effetti. Non che in quel momento ce ne fosse bisogno, visto che si trovava alla fattoria di Abe e tutti avevano avuto modo di conoscerlo, ma non lo facevo nemmeno prima che venisse a farci visita. “Fammi indovinare, un’altra persona che non gli va a genio?”
Chissà per quale motivo non faticavo a credere che Dean non andasse d’amore e d’accordo neanche con il suo fratellone.
Aggie ringraziò la signora Carla per la poltiglia non ben identificata e le polpette annesse e passò in coda alla fila successiva. “Assolutamente: lo detesta. Ed è l’unico tra paese e dintorni, tra parentesi”.
“Io prendo solo le polpette” dissi con un sorriso tirato. La mia cucina era già abbastanza cancerogena, le poltiglie incolori e inodori altrui potevano tranquillamente rimanere fuori dal mio stomaco. Quando raggiunsi Aggie nella fila per i dolci, ripresi il discorso: “Pensa che questo tizio mi sta già simpatico!” risposi ironica. Quando mi si presentava qualcuno dicendo che piaceva a tutti, era matematico che a me stesse già un po’ antipatico. Non si può piacere a tutti, e, quando qualcuno piace a tutti, i casi sono due: è una persona davvero favolosa oppure se la tira da morire proprio perché piace a tutti e si crede il Signore in terra.
Agatha abbozzò un sorriso. Non doveva essere semplice avere due fratelli che non si sopportavano a vicenda. Probabilmente non era diverso dalle mie domeniche al ristorante in famiglia. Mi dispiaceva davvero per lei. Non è mai facile trovarsi in mezzo quando gli altri si creano problemi a vicenda. Il che mi fece pensare a Kameron, che si ritrovava in mezzo tra me e Dean e la nostra continua lotta immotivata.
 “Avrai modo di conoscerlo molto presto, fidati”.
“Ah, bene!” commentai, incerta. Avevo impiegato due mesi per entrare in confidenza con Aggie, mentre tre mesi sotto lo stesso tetto con Dean non erano bastati nemmeno per intraprendere una conversazione priva di insulti. Quanto sarebbe stato difficile rapportarsi al maggiore dei McDonnel?
Prendemmo una fetta di torta e una bottiglietta d’acqua dal distributore, poi le nostre strade si divisero proprio come il giorno precedente; Agatha raggiunse le sue amiche in mensa, mentre io andai a cercare Kameron nel cortile.
Lo trovai seduto sotto un albero, da solo. Quando mi sedetti accanto a lui, mi sorrise e iniziò a scartare il proprio panino. “Ti aspettavo”.
“Grazie, Messer Mietitrebbia. A volte la vostra civiltà mi stupisce!” scherzai, sistemandomi il vassoio sulle ginocchia.
Kameron rise e mi diede una gomitata, addentando poi il suo panino.
Gli feci una linguaccia e, senza accorgermene, mi ritrovai a torturare una delle polpette con la forchetta, riflettendo su ciò che mi aveva detto Aggie e su come si sentisse lei a riguardo.
“Sei pensierosa oggi. Stai pensando alla proposta di Christine Johnson di sederti con lei?”
Sorrisi, divertita e grata a Kameron per l’interessamento. “Ah, no, a quella ho già pensato abbastanza e sono giunta alla conclusione che non merito tale onore. No, stavo pensando... insomma, Aggie mi ha detto che ha un altro fratello” buttai lì.
“Oh, sì, Matthew. È un tipo a posto, a Dean però non piace molto”.
Ecco, appunto. “Come mai?”
Kameron non era Agatha e su questo non ci pioveva. Non erano persone simili, erano quasi l’uno l’opposto dell’altra, ma contemporaneamente avevano qualcosa in comune. Erano cresciuti insieme, essendo Kameron il migliore amico di Dean, e, bene o male, erano diventati amici. Nonostante per certi versi potessero somigliarsi, io non riuscivo – e molto probabilmente non ci sarei mai riuscita – a parlare con Aggie come facevo con Kameron. La consideravo un’amica e la pensavamo alla stessa maniera su diversi argomenti, ma lei era sempre così severa e distaccata che non potevo non aspettarmi un commento ‘alla Dean’ ogni volta che parlavamo. Anche perché era più che evidente quanto, fondamentalmente, i due fratelli si somigliassero. Con Kameron era tutta un’altra storia. Sapevo di poterlo considerare un amico, un amico vero. Non lo conoscevo da molto, ma fin da subito c’era stata confidenza. C’era un’intesa tra noi che non riusciva a eguagliare quella che mi legava a Emily, ma ci si avvicinava molto. Forse, in mezzo a tanti problemi tra fratelli, dire che per me Kameron era come un secondo fratello sarebbe stato strano, ma difatti era così.
“Be’...”indugiò qualche istante, pensandoci su, poi scosse il capo. “Non mi va di dirti che non lo so, Pan” ammise con un sorriso. “Dean non vorrebbe che te ne parlassi, dovresti chiedere a lui”.
Inarcai le sopracciglia e gli rivolsi un’occhiata eloquente.
Rise. “Ok, non te lo direbbe. Puoi sempre provare a chiederlo a Aggie, però”.
“Sì, forse potrei. Ma sarebbe meglio se smettessi di ficcanasare, in effetti” conclusi, addentando finalmente una polpetta. “Ah! È pure buona!”
“Sì, non è male. Carla se la cava in cucina, ma sono troppo pigro per fare la fila”.
Questa volta fui io a ridere. “Ma fa da mangiare per tutti?” domandai sconcertata. Magari la scuola non era particolarmente popolosa, ma si rimaneva a mangiare in mensa ogni santissimo giorno, eccetto sabato e domenica. Come faceva una persona sola a star dietro a tutti?
“No, in effetti no” convenne Kameron. “Ma la tua espressione quando scopri qualcosa di nuovo che ti pare assurdo è impagabile, non potevo proprio perdermela”.
Lo guardai incredula per qualche istante, poi gli rifilai un pugno sulla spalla. “Sei un cretino!” costatai.
“Sai quante volte mi hai chiamato così oggi?”
“Sì: non abbastanza!”
Quando tornai a casa, quel giorno, fui parecchio sorpresa nel trovare un’altra automobile nell’aia. Accanto a quella di Kameron, si metteva in gran mostra una sconosciuta Audi grigia metallizzata.
“Ah!” fu l’esclamazione stupita di Agatha che, prima ancora che tirassi il freno a mano, si era già fiondata fuori dall’abitacolo ed era corsa in casa. Evidentemente l’auto non era sconosciuta a tutti.
Fu anche più sorprendente vederla ridere come una bambina, praticamente in braccio a un ragazzo sconosciuto nella cucina di casa mia, mentre Joshua osservava la scena appoggiato al frigorifero. Prima che potessi chiedergli cosa stesse succedendo, Agatha era tornata coi piedi per terra e si era voltata, raggiante, verso di noi, mostrandoci il nuovo arrivato. Ovvero un ancor più scioccante Agatha al maschile, castano e coi capelli lunghi fino al mento.
“Matthew!” esclamò Terrence, palesando la propria sorpresa. “Ciao, amico!” gridò entusiasta, andando a riempirlo di pacche sulle spalle.
“Ciao, Matt” si unì ai saluti anche Kameron con un sorriso allegro.
“Salve, ragazzi!” rispose lui, con una voce paurosamente simile a quella di Dean, ma un tono totalmente diverso, decisamente più cortese e disteso. “Ciao!” completò, salutando anche me.
Mi schiarii la voce, abbozzando un sorriso. “Ciao” risposi.
“Da quanto sei qui?” trillò Agatha con un entusiasmo che si addiceva molto più a Terrence che non a lei.
Il ragazzo sorrise. “Non molto”.
“È arrivato poco prima di voi” specificò Joshua, lanciandomi un’occhiata. “Non l’ha ancora visto nessuno”.
“Ahia” fu il soffocato commento di Kameron, che tuttavia io udii perfettamente, poiché era rimasto in piedi accanto a me, vicino alla porta.
 
“Ah, fantastico” sbottò a quel punto Agatha, perdendo tutto il suo entusiasmo. “Dean non sa che sei qui?”
Matthew si strinse nelle spalle. “No, ero giusto venuto per salutarlo e...”
Agatha sbuffò di nuovo. “Grandioso. Davvero.”
“Aggie, non fare così ora. Dean si abituerà all’idea di avermi tra i piedi. Non può non farlo, ormai ho trovato lavoro qui”.
“Sì, come ti pare” bofonchiò lei incrociando le braccia e fissando ostinatamente il pavimento. “Be’, allora andiamocene. Non voglio essere qui quando si incontreranno, non...”
Non seppi come aveva intenzione di concludere quella frase, perché la porta di ingresso si spalancò rumorosamente e le parole le morirono in gola.
Dean era appena entrato, probabilmente incuriosito dalla quantità fuori norma di auto nell’aia. Camminò a grandi passi fino alla cucina, si fermò proprio dietro di me e Kameron, sulla porta, e trattenne il fiato alla vista del fratello. “Che cosa ci fa lui qui?” sibilò, adirato. Poi mi spinse di lato, mandandomi a sbattere contro Kameron. “Levati!”
“Buongiorno anche a te” brontolai sarcastica, mentre lui mi superava.
“Vaffanculo!” ricambiò il saluto, lanciandomi un’occhiataccia.
“Evvai...” borbottai piano. Mi mancava proprio la sua benedizione quotidiana. Fu una fortuna che quel giorno fossi sorprendentemente tranquilla, perché ciò mi permise di mantenere la calma e non farmi tangere dalle sue dolci parole.
“Ciao fratellino” lo salutò Matthew con un sorriso di cortesia.
“Già, come ti pare” lo freddò lui. “Che diavolo ci fai qui?”
Lui respirò a fondo e lo guardò dritto negli occhi, con una serietà impressionante. “Non diamo spettacolo, Dean. Sono venuto per... ”
“Dare spettacolo? Sei sempre il solito megalomane. Non gliene frega a nessuno delle nostre discussioni, ormai mi conoscono tutti”.
Eh già. Lo sanno tutti che sei un rarissimo esemplare di biondo mestruato.
“No, non tutti” rispose lui, pacato, accennando a me e Joshua.
Sì invece, fidati.
Dean soffiò una risata. “Non preoccuparti, nessuno ti prenderà per una persona maleducata, sei perfettamente cavalleresco anche così. Lui non si scandalizza per poco e lei... lei è troppo impegnata a pensare a se stessa per farci caso”.
Saltai sull’attenti a quelle parole. Ma perché doveva sempre lanciarmi frecciatine? Una volta che non c’entravo niente! “Grazie, eh!”
“Smettila di prendertela con lei!” intervenne in quel momento Agatha, arrabbiata come non l’avevo mai vista. Non si trattava del nervosismo causato dai dispetti dei ragazzi o dalle discussioni con Kameron, era davvero, davvero arrabbiata. Aveva le guance arrossate e gli occhi lucidi. Una ragazzina inviperita di fronte all’infantilismo del fratello. O dei fratelli – non conoscevo Matthew e non avrei saputo dire se lo fosse anche lui.
Nonostante sapessi che la sua indignazione non era motivata dalle offese rivolte a me, le fui immensamente grata per avermi difesa.
“Tu sei il primo a pensare sempre a se stesso!” lo accusò.
“Io, Agatha?” abbaiò Dean, perdendo le staffe. “Io? Non sono io che ho piantato tutti e me ne sono andato a farmi i cavoli miei lontano da tutti!”
Lei strinse i pugni. “Ma sei tu quello che…”
“Avanti, smettetela” intervenne Matthew a voce alta. “Aggie, va’ a casa. Io devo parlare con Dean”.
Dean annuì con stizza. “Sì, vattene, è meglio” approvò abbassando il tono, ma senza abbandonare l’amarezza che accompagnava ogni sua frase. “E smettila di frignare, per favore” sottolineò, seccato.
Fu come ricevere una gomitata in mezzo allo stomaco. E forse la ricevetti davvero, ma fu più la vista di Aggie che si asciugava le lacrime con stizza e usciva a grandi passi dalla stanza a farmi male. Io non mi ero mai ritenuta una persona forte. Dovevo sforzarmi come una matta per non piangere ogni volta che qualcosa non andava e questo non mi rendeva tale. Ma Agatha McDonnel, per come la conoscevo io, non solo era forte, era una forza della natura. Non si lasciava sopraffare dagli avvenimenti, dalle circostanze; rimaneva sempre se stessa, rigida e imparziale, spietata nei propri giudizi e coerente con ciò che pensava. Vedere una persona come lei, apparentemente intangibile e intaccabile, piangere era estremamente triste. Devastante era una parola troppo grossa, forse, ma vederla soffrire in quel modo, mi fece venire i lucciconi agli occhi. Fu in quel momento che feci un cenno del capo a Joshua e uscii dalla stanza. Era il momento di lasciare i fratelli McDonnel per i fatti propri, a discutere di ciò che volevano, senza ficcare il naso dove non ci riguardava.
Kameron e Terrence fecero lo stesso e uscimmo in cortile. Agatha era già risalita sul retro del pick-up quando la raggiungemmo. Fissava la lamiera, assorta, con un’espressione corrucciata in volto.
“Tutto a posto?” le chiesi.
Si limitò a lanciarmi un’occhiataccia. Un chiaro ‘no’.
“Aggie...”
Lei mi guardò interrogativa, ma improvvisamente non sapevo più cosa dire. Avevo bisogno di parlare con lei. C’erano un sacco di cose che avrei voluto dirle, ma non era sicura che le avrebbe fatto piacere sentirle proprio da me. C’era confidenza tra noi, ma non eravamo amiche intime, non sapevo come l’avrebbe presa. Fortunatamente – o magari no – non ci fu bisogno di attendere la sua reazione alle mie eventuali parole.
“Bene, noi andiamo” mi interruppe Kameron, come sempre nel momento opportuno. Era incredibile il sesto senso di quel ragazzo. Riusciva sempre – sempre! – a salvarmi da situazioni spinose come quella. “Più tardi torno in città a comprare i libri, venite con me?”
“Puoi contarci!” rispose Joshua per primo.
Gli rivolsi un’occhiata incerta, troppo scossa da ciò che era accaduto per esibirmi in una delle mie solite esclamazioni sarcastiche. “Va bene, quando vuoi”.
“Io lavoro da mia zia” disse Terrence a mo’ di giustificazione.
“Zia?” chiesi senza nemmeno rendermene conto.
Lui annuì con naturalezza. “Zia Ginger!”
Oh. Ginger era sua zia. Si spiegavamo molto cose. Come, per esempio, il perché lui non pagasse mai al saloon. “Ah. Be’, a domani allora” salutai. “Portate una monetina: faremo testa o croce per decidere chi guida!” scherzai, rivolgendo un sorriso che voleva essere incoraggiante ad Agatha.
Lei abbozzò un sorrisetto, poi distolse lo sguardo.
Quando l’auto uscì dall’aia, io e Joshua tornammo in casa, ma non ci fermammo ad ascoltare la discussione in cui Matthew e Dean erano immersi, nonostante fossimo entrambi estremamente curiosi. Come se ci fossimo messi d’accordo, ci rifugiammo al piano superiore, dove iniziammo a darci da fare: rifacemmo i letti, ritrovammo il pavimento sotto tutti i vestiti lasciati in giro da Dean, spazzammo e ci mettemmo di buona lena per ripulire il bagno. Il tutto con il mio portatile che mandava musica ad alto volume, per lasciare un po’ di privacy ai fratelli litiganti, e cantando forte tutte le canzoni che conoscevamo entrambi o quelle che sapevamo non piacessero all’altro – per dispetto, perché eravamo pur sempre Joshua e Pan Fletcher. Anzi: Pan e Joshua Fletcher, mica ero più grande per nulla.
La mattina seguente all’intervallo, io e Kameron stavamo attraversando la scuola per raggiungere in tempo l’aula di spagnolo, sbocconcellando le nostre merendine per recuperare un po’ di tempo. I nostri zaini erano insolitamente pesanti, riempiti con i libri di testo comprati il pomeriggio precedente. Strano ma vero, lo spagnolo era una lingua che mi piaceva molto. Forse perché l’unico insegnante in grado di farmi piacere lo studio, nella scuola di prima, era stato proprio quello di spagnolo. Una volta tanto mi ritrovavo ad essere io a far pressione a qualcuno per non arrivare in ritardo e quel qualcuno era proprio il mio pigro e perdigiorno compagno di banco.
“Litigano spesso in quel modo?” domandai a Kameron.
“Abbastanza” fu la sua laconica risposta. “La mangi tutta, quella?” domandò, indicando la mia merendina.
Assottigliai lo sguardo con fare sospettoso. “Perché, il tuo serbatoio è senza fondo, mietitrebbia? Non ti bastano i litri e litri di roba che...”
“Come mai sei così logorroica oggi?”
“Non sono logorroica!”
“Me ne sono accorta, non hai detto una parola per mezza giornata.”
“Ma non dire sciocchezze!” lo interruppi. “Sono solo di buon umore oggi”.
Kameron aggrottò le sopracciglia. “Quindi quando sei di buon umore ti chiudi a riccio? Ha senso” annuì compiaciuto e ironico.
Risi. “No, non ha senso” lo contraddissi. “Quando sono nervosa parlo poco. Oppure molto, a seconda delle volte”.
“E questo che c’entra? Hai detto di essere di buon umore!”
Sghignazzai di nuovo. “Questo non mi impedisce di essere nervosa” osservai, divertita.
“Sì, invece!”
 “Oh, quindi la mietitrebbia vuole sindacare sul mio stato d’animo!”
Lui alzò gli occhi al soffitto e mi rubò la merendina dalle mani. “Ma smettila, gnomo! E poi tu sei una ragazza, come mai non sei sempre a dieta? Non devi mangiare schifezze”.
“Be’, è semplice” risposi, senza tuttavia avere la minima idea di come continuare la frase.
“Davvero?”
Ehm. “Certo.”
“Allora?”
“Allora... allora io non sono a dieta perché...” perché? Be’, se è vero che la miglior difesa è l’attacco... “Andiamo, stai dicendo che dovrei mettermi a dieta?” sbottai, ostentando rabbia. Incrociai le braccia per dare maggior enfasi alla cosa.
Kameron fu sorpreso dalla mia reazione; mi osservò stranito qualche istante, poi cedetti e scoppiai a ridere.
“Mi hai fatto prendere un colpo!” esclamò, dandomi una ‘leggera’ spintarella e poi afferrandomi per un braccio prima che finissi addosso al tizio con cui avevo bisticciato il primo giorno a causa sua.
“’Giorno!” lo salutò Kameron, mentre lui gli lanciava un’occhiataccia a causa di ciò che era quasi successo.
“Ciao” gli feci eco io con un sorriso di scuse.
Lui ci fece un cenno col capo e ci precedette in classe con l’aria di chi aveva appena incrociato due poco di buono per strada e aveva tutta l’intenzione di starci alla larga.
Rimanemmo fuori dall’aula ad aspettare che finisse l’intervallo, giusto per non essere troppo puntuali. “Ah, che tipo simpatico!” commentai sottovoce.
Kameron ridacchiò. “Mark non è molto propenso a perdonare”.
“E che gli hai fatto di tanto male, scusa?”
“Io? Niente! Sei tu che l’hai insultato davanti a tutti in classe”.
No, un attimo, come? Quindi era colpa mia! Dovevo immaginarlo. Eppure non ero stata io a chiamarlo ‘Vaccameron’ e il motivo di quell’appellativo non potevo di certo essere io. I conti non tornavano. “Io non l’ho insultato! Non ho mai detto che i suoi capelli sono ridicoli, tanto per dirne una, né che forse dovrebbe mettere su un po’ di peso, visto che siamo in argomento, altrimenti rischia di essere portato via dal vento. E, per inciso, non gli ho detto che è uno stronzo, anche se l’ho pensato, né tantomeno che...”
“Sì, va bene: lo detesti!” tagliò corto Kameron, prima che, nella foga di elencare tutto ciò che non mi piaceva di Mark, alzassi troppo la voce facendomi così sentire da tutti, lui compreso.
“Non lo detesto” puntualizzai. “Semplicemente si è presentato nel peggiore dei modi”.
“Chiedendoti se fossi il tuo coinquilino?” mi sfidò divertito.
Inarcai le sopracciglia. Voleva scherzare? “Guarda che lo so che ti sei accorto di quando ti ha chiamato ‘Vaccameron’” gli dissi con un’occhiata severa. “Sei grande e grosso come un carrarmato e ti lasci insultare da quel... – ‘Quel’ cosa? Era magrissimo e aveva in testa una massa informe di capelli biondicci. –...quel dente di leone ambulante?!” conclusi in grande stile.
Kameron mi osservò con un misto di rassegnazione e sorpresa, poi, dopo qualche istante, distolse lo sguardo e scosse il capo. “È facile per te, dirlo”.
Come? Mi schiarii la gola. “No, Kameron, è facile anche per te” gli assicurai. “Perché ti fai mettere i piedi in testa?”
“Ma quali piedi...”
Sbuffai. “In senso figurato!”
Ridacchiò. “Lo avevo capito” rispose. “È solo che tu la fai facile, Dean la fa facile, persino Agatha! Ma non è facile per niente”.
Be’, se lo diceva Dean ero quasi tentata di ricredermi. “Ehi, senti, ascoltami un attimo” esordii poi. “Il fatto è che tu sei troppo buono, ma non hai alcun bisogno di farti insultare solo perché non vuoi offendere a tua volta. Ci sono le occhiatacce, tanto per cominciare!” esclamai, iniziando a elencare le possibilità sulla punta delle dita. “Poi le smorfie e, be’, tu sei grosso, potresti dargli un pugno in teste e accartocciarlo come una lattina. Inoltre...”
Fu la campanella a interrompere il mio elenco. Prima di entrare in classe, gli diedi un pizzico su un braccio e gli sorrisi. “E poi nessuno può pretendere il tuo rispetto, se non te ne porta a sua volta” conclusi.
“Sì, mamma” fu la sua risposta, accompagnata da un’alzata di occhi al soffitto. “Entriamo?”
“Entriamo!” gli accordai, precedendolo poi nell’aula, pervasa da una notevole carica positiva.
E poi mi cadde la mascella.
Indovinate chi c’era già seduto sulla cattedra, con un sorriso smagliante e le mille speranze per il nuovo anno scolastico stampato in faccia?
Matthew McDonnel.
Matthew McDonnel era il mio nuovo professore di spagnolo.
 
 
 
In der Ecke - Nell'angolo:
Buongiorno a tutti! Eccoci finalmente al capitolo 35. 
Prima di tutto, ci tengo a ringraziare di cuore Korat, che si è presa la briga di betare questo capitolo (e questa volta posso dire che è stata una fatica, per lei. :)) Ti ringrazio tanto, hai fatto un ottimo lavoro, meticoloso ed efficiente, dandomi tanti consigli e facendomi notare errori di cui non mi sarei mai accorta da sola. Spero di non averti fatto passare la voglia di betare e che non sia stato terribile come penso sia stato. XD
Non sono pienamente soddisfatta di come ho scritto questo capitolo, ultimamente non mi soddisfa quasi niente di questa storia, ma non per questo mollerò. Ho momenti in cui scriverei quindici capitoli in un'ora e altri in cui mi sforzo come una dannata solo per poter buttar giù qualche riga. Mi succede spesso quando mi concentro troppo su una storia sola - e si avvicina Mr. Mestruo, anche.
Cercherò di impegnarmi per non rovinare proprio la fine della storia, ad ogni modo.
A questo proposito... l'avevo già scritto sul gruppo (Per la barba di Merlino, Pan!), ma lo ripeto qui per coloro che non sono iscritti o a cui è sfuggito il post. Ho fatto una botta di conti e in base alle mie bozze, si arriverà per certo al capitolo 39. A quel punto, però, ne mancheranno davverodavverodavverodavvero pochi alla fine. :)
Basta, sto scrivendo un poema. Spero vi sia piaciuto almeno un po'. Non è un granché, ma c'è qualche novità. ^^,

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Capitolo 36
*** 36 ***


Cows and jeans
36

 
Matthew McDonnel era il mio nuovo insegnante di spagnolo. La mia cara amica Sorte non si era dimenticata di me, evidentemente. Anzi, continuava a giocarmi i suoi scherzetti – forse era davvero amica di quel burlone di Terrence. Come avrei potuto dimenticare la mia cotta per Dean, con suo fratello a insegnare la mia materia preferita? Al solo veder quel ragazzo era evidente quanto si somigliassero. Forse, oggettivamente parlando, Matthew era addirittura più bello. Era un peccato che la mia oggettività fosse andata a farsi friggere nel momento stesso in cui mi ero accorta di essermi presa una cotta per il fratello di mezzo. Diavolo!
“Ma guarda chi c’è!” salutò Matthew rivolgendo un sorriso allegro a Kameron. “Il migliore amico di mio fratello. Come mai ancora qui? Non dirmi che ti hanno bocciato!”
Kameron ridacchiò, dondolando sui talloni, in imbarazzo. “Proprio così. Troppi pomeriggi passati a far nulla”.
“Ma Kameron!” lo rimproverò lui, in tono palesemente divertito. “Non puoi permettertelo di nuovo. Quest’anno devi farcela. È l’ultimo anno, devi darti fare e tirarti fuori da questo scandaloso luogo chiamato liceo”.
Aggrottai le sopracciglia, osservandolo di sottecchi. Uh, ma come siamo poetici.
Kameron rise forte. “No, non ci saranno problemi quest’anno. Tanto c’è Pan!”
Cosa? “E io che c’entro?” domandai, realmente sorpresa. Di certo non mi aspettavo di essere tirata in ballo in una conversazione tra gente che si conosceva da sempre e parlava di Dean. Io non dovevo – non potevo – parlare di Dean, no? Meno pensavo a lui, meglio era.
Kam mi diede una pacca incoraggiante sulla spalla. “Mi aiuterai a studiare, no?”
Misi su un’espressione scettica. “Io?”
“E chi altri, altrimenti?”
“Be’, che ne so” presi tempo, guardandomi intorno alla ricerca di una risposta corretta. “Mark, magari” proposi, palesemente divertita. “ha l’aria simpatica e disponibile”.
“Ma smettila con questo Mark!”Kameron mi diede una gomitata, a cui risposi con un’occhiata divertita.
Matthew rise. “Ma guardatevi. Mi sembra di vedere te e mio fratello” commentò allegramente, rivolgendosi a Kameron. “Prima che diventasse insopportabile, intendo. Questo non dite che l’ho detto, però” aggiunse a mezza voce. “Tu sei la nipote di Abe Fletcher, vero? Vi ho sentiti cantare ieri pomeriggio”.
“Oh” arrossii, presa in contropiede. Non mi era nemmeno passato per la testa che dal piano di sotto potessero sentirci, quando il giorno precedente io e Joshua avevamo improvvisato un concerto proprio per lasciare un po’ di privacy ai fratelli McDonnel. Mi schiarii la gola, imbarazzata. “Mi dispiace. Non volevamo disturbare. Anzi, l’intento era proprio l’opposto”. Ottimo modo per presentarsi al nuovo professore, davvero. Avrei dovuto complimentarmi con me stessa, ma ero troppo impegnata a sperare che il pavimento mi inghiottisse.
Avevo studiato canto per anni, era vero. Felicity mi aveva iscritta ad un corso solo ed esclusivamente perché facessi qualcosa di produttivo e socialmente utile. Un po’ come nell’Ottocento, quando insegnavano alle ragazze a suonare il pianoforte per poter intrattenere gli ospiti e ammaliare qualche promettente giovane, no? Nonostante ciò, però, mi ero affezionata a quell’attività. Forse obbligarmi a frequentare quel corso era stata una delle cose migliori che mia madre avesse mai fatto per me. Mi aggrappavo alla musica per entrare in un mondo parallelo e cantando sfogavo tutti i miei sentimenti. Ero gelosa di questa attività. Era mia, non mi piaceva che orecchie indiscrete la profanassero rubando le note delle mie corde vocali. Forse era un po’ egoistico da parte mia ma, a parte che si viveva anche meglio senza sentirmi, non potevo far nulla per evitarlo. Mi sentivo a disagio a cantare di fronte ad altre persone. Avevo odiato dal profondo mia madre quando mi aveva costretta a farlo a casa degli Hortus, avevo adorato mio fratello quando mi aveva aiutata a superare il momento di blocco. Ma era stata comunque un’esperienza un po’ trumatica. Ero il tipo di persona che studia come una dannata per tutto il corso, poi si rifiuta di partecipare al saggio.
Matthew rise. “Non preoccuparti, Pan. Pan, giusto? Mio fratello si è lamentato un po’ per il vostro baccano, ma poi si è ricordato di dover sfogare la sua ira repressa su di me e...”
“Repressa?!” mi lasciai sfuggire in tono incredulo.
Questo zittì Matthew, provocandogli poi un’attacco di spontanee risate. “Vedo che lo conosci bene! E io che cercavo di difenderlo”.
Abbozzai un sorriso. “Si difende abbastanza bene da solo” commentai, lanciando un’occhiata a Kameron, che aveva l’aria leggermente mortificata. “Non è così male” lo giustificò. “È solo un ragazzo un po’ difficile”.
“Sì, certo”. Io ero una ragazza difficile. Dean era un cubo di rubik!
Matthew rise di nuovo. “Bella voce e umorismo pungente” osservò, una volta smesso di ridere. Poi lanciò un’occhiata all’aula ormai piena e sorrise, indossando la veste da insegnante: “Ora andate a posto, su. Non è molto divertente, ma dobbiamo pur sempre far lezione. Oggi si farannno tante chiacchiere” annunciò alla classe. “In spagnolo, ovviamente” aggiunse, divertito, causando qualche leggero brontolio scontento.
La lezione non fu per niente male. Parlava in uno spagnolo fluente e corretto – ovviamente, insomma – e correggeva le scorrettezze altrui in modo paziente e gentile. Faceva battute, spingeva la conversazione verso gli argomenti più disparati e, quando giunse a me, mi chiese di raccontare qualcosa del luogo da cui provenivo. Questo fece calare un po’ la mia stima nei suoi confronti, ma non ebbi modo per tirarmi indietro. Incespicando tra le mie stesse parole, ma sforzandomi di non sfigurare, raccontai a grandi linee di palazzi, negozi, traffico, grandi magazzini, amiche dai capelli azzurri innamorate di commessi simpatici, ragazze sottovalutate e pregiudicate, altre decisamente sopravvalutate e stronze. Evitai accuratamente di parlare della mia famiglia, ma il professor McDonnel era estremamente interessato a questo aspetto. Così mentii. O meglio, non raccontai proprio tutto. Glissai totalmente su George e sul secondo matrimonio di mia madre, parlai del nonno e di nonna Margareth. E di Joshua, ovviamente.
“Finalmente una presentazione decente” fu il gentile commento di Mark. Non fu facile trattenersi dal rispondergli male, fu uno sforzo enorme sporgermi al di là di Kameron, guardarlo negli occhi e sorridere. Il trucco era stato ridere di lui mentalmente, mentre lo facevo. Rendeva il tutto molto più allegro e spontaneo.
 
Ero sul cassone del pick up, al ritorno da scuola, e osservavo di sottecchi Agatha. Quel giorno sembrava particolarmente pensierosa e non potevo fare a meno di pensare che fosse per via del litigio tra i suoi fratelli. Aveva l’aria decisamente mesta e vederla in quel modo mi faceva star male. Dove si era mai vista un’Agatha McDonnel triste e silenziosa? Non parlava molto, è vero, ma sicuramente non mandava a dire ciò che pensava, sapeva usare fin troppo bene la lingua biforcuta di cui sembravano essere forniti tutti i membri della sua famiglia. Agatha non era il tipo da lasciarsi sopraffare dalle persone, tantomeno dalle situazioni. Non poteva buttarsi giù, non lei. Forse non ero la persona con cui lei avrebbe voluto parlarne, ma era altrettanto probabile che io potessi capirla. Almeno un po’. Io, in fondo, c’ero già passata.
Guardai il cielo. Era sempre di quel colore azzurro e allegro, indipendentemente da come noi, là sotto, stessimo. Potevamo piangere tutti, ma lui sarebbe sempre rimasto azzurro e allegro. Poi, magari, quando noi eravamo di ottimo umore, gli venivano i cinque minuti e mandava giù un diluvio universale. Aggie era sempre stata un po’ così, da che la conoscevo: al di sopra di tutto e tutti. Proprio come un gatto, che non si fa tangere da nulla, a meno che non scelga di lasciarsi coinvolgere. Aggie, i gatti e il cielo vivevano sulla stessa lunghezza d’onda. Variabili, irraggiungibili, umorali e puntigliosi.
Presi coraggio. “Ehm... Agatha?”
Lei alzò lo sguardo interrogativo su di me. “Mh?”
“Senti, uhm...io... ehm.” incespicai prima ancora di aver pronunciato una frase di senso compiuto.
“Cosa c’è?” ripeté lei, inarcando le sopracciglia.
Presi un respiro profondo e mi diedi una spinta mentale. “Senti, mi dispiace per quello che è succeso ieri” dissi infine.
Sgranò leggermente gli occhi, poi si rabbuiò. “Ah”.
“So come ci si sente”.
“Non è nulla” si schernì.
Risi amaramente. “Non lo è? Sono anni che ripeto a tutti che non mi importa che i miei abbiano divorziato, Agatha. Non è vero. Puoi continuare a ripeterlo tutte le volte che vuoi, ma non è vero”.
Mi rivolse un’occhiata truce. “I miei non divorzieranno”.
“Solo perché si tratta di fratelli”.
Lanciò un’occhiata verso l’abitacolo, per accertarsi che i ragazzi non la potessero sentire. Non c’era pericolo, ovviamente: stavano ridendo come due disperati di chissà quale battuta squallida di Terrence. “Vuoi forse girare il dito nella piaga? La cosa ti diverte?” mi domandò, irritata.
Forse non avevo iniziato molto bene. “No, al contrario. Mi dispiace vederti così”.
“Così come? Non sono in nessun modo”.
“Triste”.
“Non...”
“Te l’ho detto: so cosa vuol dire quando due persone a cui tieni litigano furiosamente. Per motivi futili, magari. Sai che non potrai mai concepire che si facciano delle sfuriate del genere per qualcosa di così sciocco, ma non ti ascoltano. Puoi urlare, piangere, lanciare loro le tue scarpe, ma non smetteranno”.
Mi guardò intensamente per qualche istante, tanto che mi sentii denudata, scoperta, fragile.
Fui la prima a distogliere lo sguardo.
Agatha era forte. Non aveva bisogno del mio sostegno. Forse ero io ad avere bisogno del suo, dopotutto. Decisi, però, di non fermarmi: forse quella conversazione avrebbe fatto bene ad entrambe.
“Fa schifo, vero?” commentò, gettando indietro la testa per guardare il cielo proprio come avevo fatto io poco prima.
Soffiai una risatina amara, imitando la sua postura. “Tanto. Ma cosa puoi farci? Nulla. Non è una nostra scelta, non è una nostra competenza. Ne soffriamo, ma almeno non è colpa nostra”.
“Chi se ne frega di chi è la colpa!” sbuffò lei. “Sono due imbecilli! Due egoisti...”
“Vedo che la pensiamo allo stesso modo, sorella” approvai.
Se i miei genitori avessero pensato a noi figli, se Dean e Matthew avessero pensato ad Agatha, prima di litigare, avremmo evitato tante sofferenze. Era anche vero che, forse, arriva il momento nella vita in cui non puoi pensare agli altri e devi pensare a te stesso. Forse era questo che aveva fatto mia madre: pensare a se stessa. Non ce la faceva più, aveva avuto bisogno di lasciarsi alle spalle quell’Harvey Fletcher che proprio non riusciva più a sopportare. Era semplice, comprensibile, chiaro, ma non riuscivo comunque a perdonarla.
“Però, vedi, quello è un problema loro, Aggie” continuai, cercando di sorridere. “Se potessimo aiutarli a smettere di litigare sarebbe un conto, ma tutto il resto non conta. Noi non c’entriamo. Il loro rapporto con te non cambierà, se non sarai tu a volerlo”. Pensai a mia madre. Pensai che ero in grado di dare buoni consigli, forse, ma totalmente incapace di metterli in pratica. Lasciai ricadere la testa in avanti, sorridendo della mia stupidità. “Tu sei più intelligente e più forte di me” le assicurai. “non lasciare che la tua rabbia rovini il rapporto tra te e i tuoi fratelli. Non saranno i loro litigi a farlo, solo tu puoi rovinarlo”.
Rimanemmo in silenzio per un po’, guardando una il cielo e l’altra la campagna che ci circondava. Incredibile come, fino a qualche tempo prima, quella visione non mi trasmettesse assolutamente niente, mentre in quel momento, abituatami, la cosa quasi mi rilassasse. Essere così piccola mi avrebbe impedito di fare casini troppo grandi, no? Era rassicurante, in quel senso. Finalmente, inoltre, tutto stava andando per il verso giusto. La presenza di Joshua non aveva dato grossi problemi, non avevo combinato grandi disastri a scuola e probabilmente solamente Mark, in classe, mi detestava. Una buona media, considerato che erano trascorsi solo un paio di giorni.
“Sai, Pan” Agatha prese un respiro profondo e interruppe il silenzio, attirando il mio sguardo curioso. Aveva tutta l’aria di star per dire qualcosa di importante. “qualche anno fa abbiamo avuto un bel po’ di problemi tutti in una volta. Mio padre si ruppe una gamba e mia madre lo costrinse a rimanere a riposo per più di un mese, finché non avesse tolto il gesso. Lui non ne voleva sapere, quindi mamma perdeva un sacco di tempo per controllare che non facesse sforzi eccessivi e aiutarlo quando si stancava troppo. Passava più tempo a controllarlo che non a lavorare. Mamma è una sarta, quindi può lavorare a casa, ma ha bisogno di tempo e concentrazione per essere efficiente. Aveva sempre la testa altrove, perché era preoccupata per papà. Nello stesso periodo, una volpe si intrufolò nel pollaio e fece fuori tutte le galline. Tutte! Non le mangiò, le uccise e basta. Ne portò via una sola. Non è perverso?” domandò, guardandomi negli occhi.
Più che perverso, mi pareva crudele. Gli animali non potevano essere perversi, quella era una caratteristica umana. Ma non era il momento per le riflessioni filosofiche. Annuii, in attesa che continuasse.
“Con quel fatto, non eravamo più autosufficienti per il cibo. Insomma, in un periodo di crisi ci si arrangia come si può e con le uova si possono fare un sacco di cose. Solo che a quel punto dovevamo acquistarle da qualcuno e non potevamo permetterci una spesa continua di quel genere, non mentre papà non poteva lavorare. Inoltre Matthew stava per partire per l’università e quella era un’altra grossa spesa a cui far fronte. Dean si rimoccò le maniche subito, appena capì che le cose si stavano complicando sul serio. Iniziò a lavorare nella fattoria, poi un giorno andò da tuo nonno a comprare dei polli. Ci servivano e lui era l’unico a venderli. Avremmo potuto barattarli con qualcosa, forse, ma Dean non ne volle sapere. Chiese che ci fossero accreditati, gli spiegò la situazione e disse che appena avremmo avuto i soldi, glieli avremmo pagati” a questo punto sorrise sorniona. “Abe rifiutò”.
“COSA?!” sgranai gli occhi, incredula. Tutta quella storia della solidarietà e della fiducia dov’era finita? Valeva solo per me? Era uno scherzo? Vecchio ipocrita!
Agatha riprese. “Rifiutò di accreditarci quel piccolo debito. Assunse Dean a lavorare alla fattoria, tutti i pomeriggi, per poter pagare i polli. Continuò a lavorare lì anche una volta estinto il debito. Quando finì la scuola si trasferì per poter lavorare e far compagnia a Abe. Dean non ha mai perdonato a Matthew il fatto di essere comunque partito per l’università. Gli sarebbe bastato rimandare la partenza di un anno, prendersi un anno sabbatico e lavorare per aiutare la famiglia. Mamma e papà non gli avrebbero mai chiesto una cosa del genere e lui non se l’è sentita di rimanere, questo posto gli è sempre stato stretto. È per questo che Dean non lo sopporta” concluse, distogliendo nuovamente lo sguardo dal mio. Lo rivolse verso il paesaggio alle mie spalle, mentre nella mia testa si agitavano le parole da lei appena pronunciate. Avevo un bel po’ di cose su cui ragione, a quel punto. Avevo appena scoperto che Dean non odiava le persone a caso, bensì, per quanto riguardava suo fratello, aveva un motivo. Un buon motivo, aggiungerei.  Questo non spiegava il suo rancore nei miei confronti, ma era comunque un inizio.
“Tu cosa ne pensi?” chiesi.
Agatha si strinse nelle spalle e lanciò un’occhiata alla fattoria Fletcher, che si stagliava qualche decina di metri avanti a noi. “Dean ha ragione, ma lui avrebbe fatto lo stesso al posto di Matthew”.
 
Nel pomeriggio mio fratello fece le valigie. Riempì il borsone del tennis e si preparò per andarsene. La mattina successiva, più o meno intorno alle nove, avrebbe preso il treno per tornare a casa. Per quanto da un lato fossi sollevata dal non dover più pensare almeno a lui, un po’ mi dispiaceva il fatto che se ne andasse. Specialmente perché non sarei stata lì a salutarlo al momento della partenza.
“Domani mattina ti voglio in piedi quando la mia sveglia suonerà” gli dissi, mentre io apparecchiavo e lui preparava la cena – aveva capito che non era saggio lasciare che fossi io a cucinare.
“Non sarà mica sentimentalismo questo, eh?” mi prese in giro lui, armeggiando con la forchetta nella pentola.
“Guarda che così rischi di rigarla” lo avvisai, sistemando i bicchieri. “E, no, si chiama ‘salutare le persone’, tu l’hai mai fatto? Può essere divertente a volte!”
“Simpaticissima”.
Gli feci una linguaccia e andai a prendere i piatti nella credenza.
In fondo mi sarebbe mancato. Negli ultimi tempi eravamo arrivati ad essere quasi ...complici.  “Josh, ehm... nella città in cui vado a scuola, c’è campo” buttai lì, come se nulla fosse.
Lui mi lanciò un’occhiata di sottecchi, che evitai accuratamente. “Vuoi che lo dica ad Emily in caso volesse chiamarti?”
Be’, non era una cattiva idea. “Sì. Cioè no. Be’, anche”.
“La chiarezza non è il tuo forte, sai?”, rise.
Gli feci una seconda linguaccia e ridacchiai a mia volta. “Se glielo dicessi, mi faresti un piacere. Ma non era questo il mio fine. Voglio dire, l’ho detto a te per un motivo”. Insomma, era eloquente, no? Perché voleva che lo dicessi apertamente? Era già perfettamente chiaro.
“Ovvero?”
Sadico! “Insomma, se avessi bisogno di qualcosa – qualunque cosa – puoi chiamarmi. Possibilmente durante la mia pausa pranzo oppure prima delle lezioni. Va bene?”
Mi guardò per qualche istante, con un’espressione indecifrabile, poi annuì e tornò a studiare la sua padella. “Ricevuto”.
Risi per smorzare l’atmosfera leggermente impacciata che era calata sulla cucina. “Bravo fratellino!”
Lui soffiò una risatina. “Fratellino. Pff! Ma se sono alto molto più di te?”
“Di nuovo con questa storia? Vogliamo confrontare la carte di identità? O la patente? Oh, ops, dimenticavo: tu non ce l’hai!”
Joshua mi lanciò un’occhiataccia. “Guarda che sei stronza a volte!”
“A volte?” si intromise una voce estranea alla nostra famiglia.
Dean fece la sua comparsa in cucina con l’aria di Fred Flinstones a fine giornata, desideroso di papparsi una bistecca e gettarsi sotto le coperte senza che Dino gli leccasse la faccia. In quel momento desiderai un cane che potesse sbavarlo. Joshua avrebbe dovuto portare con sé Roastbeef!
“Wilma, dammi la clava!” gli risposi con un sorriso a trentadue denti, come se fosse la risposta più logica del mondo.
“Si è bevuta il cervello?” domandò a mio fratello, gettandosi a sedere.
Joshua scrollò il capo, si strinse nelle spalle e non rispose.
“No, scusa, stravaccati pure sulla sedia, tanto noi non stiamo lavorando anche per te” lo rimproverai, posizionando i piatti in tavola.
Dean inarcò un sopracciglio. “Credi forse che io non abbia lavorato oggi?”
Aha! Ce l’avevo in pugno questa volta! “Credi forse che io non abbia trascorso la mattina e mezzo pomeriggio a scuola? Eppure eccomi qui a lavorare”.
“Hai finito di dire sciocchezze, principessa?” mi freddò senza nemmeno guardarmi. Si versò anzi un bicchier d’acqua.
Sbuffai. “Sì, signore” brontolai, riprendendo ad apparecchiare.
Poi una domanda mi sovvenne e per qualche motivo non riuscii a trattanermi. Avevo l’assurda sensazione di essere più in confidenza con Dean, dopo ciò che mi aveva raccontato Agatha, e volevo sapere la sua versione dei fatti. Mi sentivo autorizzata a chiedere.
Pessima mossa.
“È vera la storia dei polli?”
“Quali polli?” chiese Joshua, lanciandomi un’occhiata stranita.
Scrollai il capo. “Non dico a te”.
Dean mi lanciò un’occhiata attraverso il fondo del bicchiere, poi lo posò e deglutì. “Ce l’hai con me?”
Alzai gli occhi al soffitto, armeggiando con il cassetto delle posate, che aveva una fastidiosa tendenza ad incepparsi. “C’è altra gente qui dentro?”
“Di cosa diavolo stai parlando, allora?”
“Dei polli che avresti dovuto farti accreditare da Abe, qualche anno fa”. Lo guardai di sottecchi e dal suo sguardo compresi di essere stata un po’ troppo invadente. Avevo appena verificato – per l’ennesima volta – che non bastava essere gentili con Dean McDonnel per ottenere cortesia in cambio.
“Non sono fatti tuoi”.
“Era solo una domanda” mi giustificai.
Si alzò in piedi e si avviò verso la porta. “Chi te l’ha detto?”
Sì, certo, solo tu puoi avere risposte. “Non è importante” risposi.
“Sono fatti miei, principessa, decido io se è importante o no. Chi te l’ha detto?”
Diedi uno scrollone al cassetto, sbloccandolo. La presenza di Joshua mi trasmetteva sicurezza, decisi quindi di fare la cosa giusta e non tradire chi si era confidato con me. “Qualcuno che aveva il diritto di farlo. Non ci vedo nulla di male, comunque”.
“Quel pezzente di Matthew, ovviamente. Non sa tenere la bocca chiusa, ha bisogno di raccontare a cani e porci i fatti nostri” bofonchiò, fermandosi sulla porta.
Cani e porci. Ero parte di ‘cani e porci’. Speravo di essere compresa nella prima categoria, almeno. “Non ho detto che è stato lui, ma dovresti imparare un po’ della sua cortesia, sai? A volte sarebbe carino sentirsi rivolgere la parola con tranquillità, senza che le tue occhiatacce ribadiscano quanto tutti tranne te facciano schifo”.
“Io non sono lui” scandì, guardandomi con aria seria e sicura di sé.
Peccato che uno sguardo feroce non bastasse a farmi paura. Per lo meno non quando il mio caro fratellino era proprio accanto a me. “Su questo non c’è alcun dubbio” ribadii.
 
Quella sera stessa, mentre controllavamo che in giro per la casa non fosse rimasto nulla di appartenente a Joshua, lui si fermò ad osservare il paesaggio fuori dalla finestra del salotto. “La sera qui è silenziosa” disse, lo sguardo perso davanti a sé.
“Già. E le stelle? Le hai viste? Non ne ho mai viste così tante tutte in una volta” osservai, affiancandolo alla finestra. “Sono bellissime”.
Lui sorrise ed espirò dal naso contemporaneamente. “Qui non è poi così male”.
“No. Molto più tranquillo che a casa”.
“Se ti prendi una cotta per quello stronzo ti disconosco!”
Arrossii violentemente a quelle parole. “E questo che c’entra?!”
“Niente, era solo per puntualizzare”.
Incrociai le braccia e lo guardai male. “Sì, be’, smettila con questa storia, Joshua” lo ammonii.
Lui rise. “Dimmi che non è troppo tardi”.
Sbuffai. “Ma quale troppo tardi! Smetti di dire sciocchezze!” replicai a voce leggermente più alta. “Cosa sono tutte queste storie a riguardo?”
“Niente, era per dire”.
“Non sai che dire, quindi dici sciocchezze? Astuto da parte tua” commentai sarcastica.
Rise. “Non si sa mai con te, diventi ogni giorno più stupida!”
“Non così tanto!” sputai, guardandolo in cagnesco. Stupida? Io? Ma si era visto ultimamente? “Non mi faccio dare della stupida da uno che non si taglia i capelli da quando ha iniziato il liceo, grazie” lo presi in giro. “E ti sei mai sentito parlare con Agatha? Come sorella maggiore mi sento in dovere di dirtelo: se parli così a tutte le ragazze, farai meglio a passare dall’altra sponda, perché non abboccheranno mai!”, sghignazzai.
Soffiò una risatina. “Quando avrò bisogno di consigli verrò sicuramente a chiederlo a te, visto che hai tanta esperienza. Ah, ops, è vero, non ne hai!”
“...Poi sono io quella stronza”.
“Indiscutibilmente”.
“È discutibilissimo invece!”
“Ah sì? Provalo”.
“Be’, tanto per cominciare sei tu quello che sbava dietro alla ragazza della pizza, non io. E sei tu quello che ordina una pizza dietro l’altra solo per vederla, ben sapendo che lei non ti si fila per niente. E sei tu quello che... va bene, sto parlando da stronza, uno a zero per te.” Quando non hai buone argomentazioni per provare la tua tesi, la cosa migliore e lasciare la ragione agli altri.
Joshua rise, soddisfatto. “Uno a zero? Quattro come minimo”.
“Non esagerare, ora. Solo perché ti ho dato ragione una volta non significa che tu ce l’abbia sempre”.
“Ma io ce l’ho!”
“Un ego gigantesco, sì, ce l’hai”.
“Stai cercando di offendermi?”
“No, di avere ragione”.
“Non ce l’hai”.
“Forse questa volta, ma la prossima...”.
“Nemmeno la prossima. Non ne hai praticamente mai, in realtà”.
“Non – tirare – troppo – la corda”.
“Come si sta nell’essere dalla parte del torto?”
“Come si sta con una gomitata nello stomaco?”
“Come sei suscettibile!”
“Non sono suscettibile!”
“Sì, invece!”
“Sai che vuol dire, almeno?”
“Sì che lo so! Saccente”.
Risi. “Ricordati quello che ti ho detto prima, Josh. Per qualcunque cosa, chiamami”. Mi sarebbe mancato. Sì. 


In der Ecke - Nell'angolo:
Buongiorno a tutti! :D
Parto con il ringraziare la mia amica Maria, che dopo aver intasato il GRUPPO con dei post a proposito della mia cattiveria e del mio usare il lavandino al posto degli appositi sanitari (???) (usando il mio account, ovviamente), mi ha gentilmente fatto il favore di betare questo capitolo. (Come se non avesse fatto i capricci perché glielo lasciassi fare *coffcoff*).
Ergo, GRAAAAAZIE, MERI-CHAN! :D
Inoltre ringrazio tutte le ragazze che negli ultimi giorni hanno sopportato i miei scleri, sempre sul gruppo (pubblicità occulta? Nàà!), a proposito della mia entrata e uscita nel tunnel delle fanfiction, che mi hanno rubato un sacco di tempo e sensi di colpa. ^^
In particolare Marta, che sto facendo impazzire con dei falsi allarme da ormai mezzora, nonostante lei mi abbia impedito di rituffarmi nella lettura di una fanfiction prima di postare.
Grazie a te, quindi, e grazie a chi mi ha scritto il suo minaccioso "MICH! SMETTI DI LEGGERE STUPIDE FANFICTION E SCRIVI!" quando glielo ho chiesto. :D
Bene, basta, vi lascio o finisco per diventare sentimentale e se divento sentimentale scrivo un papiro e posto il mese prossimo. 
Un grandissimo in bocca al lupo a chi deve affrontare gli esami di riparazione! 
In particolare alla mia Moppi (anche se non credo leggerà questo capitolo) e a Sofia. :)

No, un attimo, prima devo manifestare il mio stupore... dieci recensioni! Dieci recensioni allo scorso capitolo! *_* Siamo a 153 recensioni! *O* Vi adoro, davvero. :)

E BENTORNATA MARY! :D

 

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Capitolo 37
*** 37 ***



Cows and jeans


37



Era uno di quei giorni in cui il buongiorno non si vedeva per niente dal mattino. Il sole splendeva, la colazione era già pronta, Kameron, Agatha e Terrence mi aspettavano chiacchierando allegramente nell’aia, ma il mio umore era nero.
Avevo sognato male. Non ricordavo cosa avessi sognato, ma mi ero svegliata di pessimo umore e la colpa doveva necessariamente essere del sogno. A meno che io non fossi sonnambula e non avessi avuto una brutta avventura notturna a mia insaputa.
Siccome ero piuttosto sicura di non essere sonnambula, il mio malumore doveva essere dovuto al sogno. O all’imminente partenza di mio fratello.
Per qualche motivo, Joshua capì prima di me che il motivo della mia negatività era proprio lui stesso. “E smettila di fare quella faccia” mi disse, mentre passavo per la quarta volta dal bagno alla mia camera, incapace di connettere il cervello e quindi di non dimenticare qualcosa in giro.
Lo guardai senza capire. Era seduto sul nostro – di nuovo mio, da quel momento - letto e mi guardava con quell’espressione arrogante che mi aveva sempre dato sui nervi. Quella volta non fu diverso, ma questo mi aiutò a desiderare che se ne andasse al più presto. “Che faccia?” sbottai, incrociando le braccia.
Sembra che ti sia morto il cane”.
Non ho cani”.
Il gatto, allora”.
Facciamo che ora uccido mio fratello e non ci pensiamo più?” proposi. Ero acida, schifosamente acida. Ma ero di pessimo umore e le due cose andavano a braccetto. Non potevo farci nulla.
Joshua inarcò le sopracciglia. “E ora dimmi che sei di buon umore, dai” mi sfidò.
Sbuffai e iniziai a cercare nell’armadio i miei jeans. “Sono di buon umore” risposi come se niente fosse.
Si nota. Sei di buon umore come Malcom dopo che l’ho stracciato per cinque volte consecutive a Tekken”.
Sì, certo, doveva anche paragonarmi a quel decerebrato del suo amico. “Vedo che sei in vena di complimenti stamattina” brontolai, riemergendo dall’armadio. Lì dentro c’è ancora della tua roba” lo informai.
Joshua si accigliò. “Ma se io non ho tirato fuori nulla dal borsone?” domandò.
...ops.
Avete presente il sangue freddo? Ovvero quando una persona anche in un momento disastroso riesce a mantenere i nervi saldi e a rimanere razionale? Ovviamente io non avevo la minia idea di come ci si sentisse a essere razionali, figurarsi in un momento allarmante come quello. Non potevo definirmi una con il sangre caliente, perché a quel punto cambiava totalmente significato e non mi si addiceva per niente.
No, stavo scherzando!” esclamai, scoppiando in una risata fin troppo rumorosa e vagamente isterica. La verità era che avevo la – secondo lui fastidiosa – abitudine di impadronirmi dei suoi vestiti una volta che gli diventavano piccoli. Lui li dava a Felicity con l’intenzione di buttarli via, lei li infilava in un sacco nero e io rubacchiavo di nascosto quelli che potevano piacermi.
Josh non sopportava che io indossassi i suoi vestiti, eppure io non riuscivo a farne a meno.
Raccontando i fatti in questo modo, sembra quasi che io fossi una barbona. In realtà era tutta questione di affetto. Mi piaceva l’idea di avere qualcosa di suo, inoltre riciclavo dei vestiti che molto probabilmente sarebbero finiti nella spazzatura molto prima che mia madre si ricordasse di portarli a qualche associazione per beneficenza. In fondo si trattava comunque di riciclaggio, no?
Il paio di pantaloni da calcio che lui usava all’inizio del liceo erano diventati i miei preferiti; da quando ero riuscita a impossessarmene li avevo indossati milioni di volte – quando lui non poteva vedermi.

La condizione più importante per il rinnovamento del mio guardaroba tramite quello di Josh era la segretezza. Joshua odiava l’idea che indossassi i suoi vestiti, per cui avevo sempre cercato di tenerlo nascosto. Ed era stato facile, visto che lui non usava curiosare nel mio armadio. Fino a quel momento, almeno, quando proprio io mi ero messa i bastoni tra le ruote. Ero praticamente inciampata nei miei stessi piedi. Cose che nemmeno Bella Swan di Twilight riusciva a fare.
Joshua saltò sull’attenti e mi guardò male. “Pan, che cosa...?”
Risi un po’ più forte e gli gettai affettuosamente le braccia al collo, per evitare che si avvicinasse all’armadio. “Mi mancherai un sacco, fratellino!” trillai con ostentata emozione.
Lui si irrigidì. “Buon Dio! Cosa hai nascosto lì dentro, un cadavere?” domandò, divertito.
Ottime reazioni all’affetto fraterno. Dov’era finito il classico ‘chi sei tu e cosa hai fatto di mia sorella?’?
Ma quale cadavere! Il biondo mestruato è ancora in circolazione... chi altri avrei potuto far fuori, secondo te? No, è semplice affetto fraterno. Non mi credi?”
Per niente” rispose, facendo un passo indietro.
In effetti non ci avrei creduto neanche io. “Uomo di malafede!”
Uomo? Ok, se non c’è un cadavere, almeno devi avere un gatto”.
Un gatto?” domandai, incredula. Cosa c’entravano i gatti?
Lui ridacchiò, scansandomi del tutto. “Sei il tipo di persona che fa cose del genere: adottare un gatto e nasconderlo nell’armadio perché il nonno e lo spaventapasseri non lo vogliono”.
Un momento! Lo spaventapasseri era Dean?
Scoppiai a ridere, spontaneamente questa volta. “No, niente gatti” gli assicurai. “Non c’è proprio nulla da vedere. Joshua, ho detto nulla! Ehi, fermo dove sei!” tentai invano di fermarlo, ma lui era già all’armadio e aveva spalancato le ante.
Chiusi gli occhi e sorrisi con aria colpevole attendendo la sua sfuriata.
Ma questa è la mia felpa del Blues Brother!” esclamò, sconcertato. “Che cosa ci fa nel tuo armadio?”
Aveva l’espressione costernata e un tono di voce da grande uomo maturo che ha beccato la figlioletta in flagrante mentre cercava di pitturare il gatto con la vernice verde, acquistata per ridipingere le persiane. Sì, è successo, ma questa volta dovete rivolgervi a Emily, non era stata una mia trovata.
Ma quale felpa! Il cadavere, ricordi? Stavi cercando un cadavere. Cercalo, su!” delirai nella speranza di distrarlo.
Joshua mi guardò male. “Perché è tra la tua roba?”
Sospirai. La scusa del cadavere non reggeva, dopo essere stata smentita. Avrei dovuto sostenerla prima, diavolo! “L’avevi buttata nel sacco dell’immondizia”.
E lì doveva restare”.
Mi accigliai. “No! Voglio dire, è uno spreco. Non è rovinata e... e poi lo sai quanto mi piace!”
Al punto da rovistare nella spazzatura per riprenderla. Che schifo”.
Era vuoto!” mi indignai. “Considerala un’opera di beneficenza, se vuoi sentirti tanto superiore. Non trovi ridicolo che io debba prendere i tuoi abiti vecchi di nascosto? Egoista!”
Egoista?” espirò bruscamente. “L’ultima volta che ti sei messa una mia maglietta i miei compagni di classe mi hanno preso in giro un mese!”
Mi accigliai, presa in contropiede. “E perché mai?” Che senso aveva prendere in giro qualcuno perché sua sorella indossava i suoi vestiti usati? “Non sarà di nuovo la storia degli straccioni, eh?” C’era stato un periodo, al mio primo anno al liceo, in cui il primo pensiero delle mie compagne di classe, vedendomi così... mmm... sciatta, a detta loro, era stato che fossi povera. Non avevo i soldi per vestirmi ‘bene’, secondo loro. Era così complicato capire che i vestiti firmati erano l’ultimo dei miei interessi? L’ultimo. Perfino i tentativi di Malcom e Joshua di spiegarmi cosa diavolo fosse un fuorigioco, calcisticamente parlando, erano più entusiasmanti. E chi come me non ha idea di cosa diavolo sia un fuorigioco, sempre calcisticamente parlando, sa che non c’è nulla di interessante negli sbuffi, nei sospiri e nei caotici tentativi di un ragazzo di spiegarlo.
La cosa aveva coinvolto anche Joshua, non appena la voce si era sparsa dalle sorelle maggiori alle minori.
Lui sbuffò e incrociò le braccia. “No, che c’entra” bofonchiò, con una smorfia al ricordo. “Se ti metti i miei vestiti sembra che io mi vesta da femmina, no?”
Lo guardai per qualche istante, impassibile. “No” risposi poi, convinta.
Dillo agli altri...”
Risi. “Ah, certo! Fammi capire bene” ricominciai. “I tuoi amici sono dei cretini, io uso i vestiti da maschio e prendono in giro te?”
Strinse le labbra e mi guardò male. ‘Detta così sembra una cosa stupida’. L’
aveva scritto in fronte. Forza, dillo. Dai, avanti, scatena la mia ira, troglodita! Era il giorno giusto. Ero di nuovo di cattivo umore, per cui sarebbe bastato davvero poco per mandarmi fuori di testa. Ed era tutta colpa sua. Anche il mio malumore lo era.
Era la cosa più stupida che avessi mai sentito. E tra Kameron e Terrence ne avevo sentite a palate di cose stupide, da quanto mi ero trasferita. Per non parlare di tutte le fesserie dette da Asja alla festa di Mariah Thompson e, ancora, tutte le enormi idiozie uscite dalla mia boccaccia.
Be’, resta il fatto che è roba mia e non hai il diritto di prenderla” sputò infine, non trovando nulla di meglio da dire.
Il suono insistente di un clacson interruppe la conversazione prima che potesse degenerare. Be’, degenerare troppo.
Ti dai una mossa? Stiamo facendo tardi!” Riconobbi la voce della cara, dolce e paziente Agatha. Non che fosse facile confondere la sua voce con quella dei ragazzi, intendiamoci. Ci sarebbe voluto impegno e un talento innato, che io - fortunatamente- non avevo.
Arrivo!” gridai in risposta, affacciandomi in fretta alla finestra. Tornai a guardare mio fratello. “Ora devo proprio andare” dissi, mentre il mio stomaco si accartocciava un po’ al solo pensiero che al mio ritorno lui non ci sarebbe stato.
Che peccato, eh? Era una così bella conversazione...”
Lo guardai male. “Non è che l’idea di andare a scuola mi entusiasmi, in effetti” replicai, recuperando il mio zaino.
Già” tagliò corto. “Buona giornata, allora”.
Lo guardai di nuovo. Sarebbe stata l’ultima volta che lo avrei per chissà quanto tempo. Era probabile che io sarei tornata a casa per le vacanze di Natale, quindi probabilmente per soli due mesi. E poi? Poi magari ne sarebbero passati di più, prima che lo incontrassi di nuovo. “Josh...” Mi dispiaceva che se ne andasse. Mi ero abituata alla sua presenza a Sperdutolandia e, per qualche motivo, era stata proprio questa a incutermi sicurezza durante quei giorni. Perché, incredibile ma vero, erano passati solamente pochi giorni da quando ero tornata a Sperdutolandia e pochi di meno da quando aveva fatto la sua comparsa mio fratello.
Non sapevo cosa dire. Cosa si dice a un fratello in una situazione del genere? Qualche smanceria, forse, ma né io né lui eravamo tipi da cose del genere, sarebbe stato imbarazzante per entrambi. “Fai... fai buon viaggio”.
Ehm” si grattò il mento, impacciato. “Grazie” rispose.
E salutami tutti. Anche il gatto di Malcom. E Roastbeef”.
Rise. “Lo farò” mi assicurò.
E scrivimi un messaggio quando arrivi” continuai, lasciandomi prendere la mano dai saluti.
Joshua inarcò le sopracciglia. “Sei matta? Non lo faccio con mamma, figurati se scrivo SMS a te!”
In effetti, era probabile che avessi esagerato un pochino. “E va bene, ma ricordati quello che ti ho detto ieri sera” conclusi, puntandogli contro il dito indice. Così sì che ero una persona matura e severa.
Sì, sì, come vuoi” concluse lui. Lanciata la sua ex felpa dei Blues Brothers sul letto, si avviò verso la porta. “Vado a salutare gli altri, tu datti una mossa!”
Sì, signore!”
Quando lo sentii scendere le scale, infilai in fretta quella felpa dentro lo zaino e poi corsi giù a mia volta.

Mentre il pickup si allontanava dalla fattoria, la mia mente ripercorreva quei giorni passati in compagnia di mio fratello a Sperdutolandia, la sera della cena a casa degli Hortus, la sua comparsa sulla strada che portava in paese, i suoi commenti su Dean.
I nostri rapporti erano davvero molto migliorati da quando mi ero trasferita in campagna. Ora ero consapevole di volergli bene e quella mattina ero stata sul punto di dirglielo. Fortunatamente ero troppo emotivamente stitica per farlo e ci eravamo evitati un bel po’ di imbarazzo.
Fui di umore malinconico per tutta la giornata e i tentativi di Kameron di tirarmi su il morale furono utili solo in parte. Ci fu un solo momento – che io ora ricordi – in cui mi sentii un po’ meglio: uscendo da scuola, il mio cellulare vibrò. Avevo un nuovo SMS.

L’aria qui fa molto più schifo.
J.”


Come mi resi conto nei giorni seguenti, durante le lezioni di spagnolo i posti in ultima fila erano sempre incredibilmente liberi. Era quindi semplice per me e Kameron accaparrarci un posto in fondo all’aula e scambiarci bigliettini. Non che Matthew McDonnel fosse un insegnante noioso, ma la tentazione di non far nulla, quando ne avevamo la possibilità, era troppo forte perché noi, poveri e inguaribili pigroni, potessimo resisterle.
Come ebbi modo di verificare, il maggiore dei McDonnel era un ragazzo equilibrato e amichevole, anche abbastanza simpatico in effetti.

Aveva i capelli un po’ troppo lunghi per un insegnante, ma questo non faceva che aumentare il suo fascino da uomo vissuto e consapevole, che colpiva un po’ tutte le ragazze della scuola, insegnanti comprese. Gli piaceva fermarsi a chiacchierare con gli studenti nei corridoi, ma senza mai tardare troppo a lezione, da bravo docente responsabile – che non si era preso la briga di presentarsi fin dal primo giorno, però. Si abbandonava spesso a racconti sulla vita di città, riferendo aneddoti sul posto in cui si era trasferito per studiare e aveva lavorato prima di allora. Era evidente che, comunque, in città lui avesse lasciato il cuore. Sembrava letteralmente innamorato della caotica atmosfera che aveva incontrato in quel luogo, motivo per cui si sentiva in confidenza con me.
Quel venerdì, mentre aspettavo Kameron fuori dal bagno dei ragazzi all’intervallo, Matthew uscì dalla classe di fronte e, dopo avermi quasi uccisa con un “Salve, principessa!” pronunciato dalla sua voce così simile a quella di Dean, si fermò a fare due chiacchiere. Mi raccontò che dopo l’università aveva iniziato a lavorare in una grande città, che probabilmente non era molto distante dalla mia. Era stato assunto come supplente in un liceo e aveva insegnato per un po’, poi però il professore di ruolo era tornato dalla malattia e lui era stato cacciato. Da quel momento aveva avuto un periodo di crisi in cui non riusciva più a trovare lavoro. Era stato a quel punto che aveva ricevuto la chiamata del preside Dewey, il quale gli aveva proposto di tornare al liceo che aveva frequentato da ragazzo in qualità di insegnante.Matthew non aveva proprio potuto rifiutare quell’offerta provvidenziale. Era lampante che la città gli mancasse, ascoltandolo parlare. Mi riempì di domande a proposito della mia esperienza nei due diversi ambienti in cui avevo abitato ed era evidente che la sua preferenza, al contrario della mia, fosse per la caotica e movimentata atmosfera cittadina. Il paese gli stava stretto, il suo sogno sarebbe stato quello di vivere in una metropoli, di poter lavorare e avere successo.
Gli chiesi come faceva a sopportare la falsità della gente di città. Mi rispose che le persone false erano in ogni luogo, non di meno lì in campagna.
Conoscere meglio Matthew mi portò a pensare che, forse, non era poi così male. Mi convinsi addirittura di poter scoraggiare ulteriormente la mia cotta per... la mia cotta, insomma, concentrandomi su tutti i pregi di Matthew che al fratello invece mancavano. La gentilezza, per esempio, l’affabilità, la simpatia e la disponibilità. Era educato e paziente, brillante e indubbiamente era anche molto bello.
Durante una delle sue ore di spagnolo, al di fuori di ogni logica, mi sorpresi a immaginare una scena da cartone animato di serie B. Immaginai una me molto sciocca intenta a civettare spudoratamente – in maniera piuttosto imbarazzante - con Matthew. Qualcosa stonava in quell’immagine, ma mi dissi che doveva necessariamente essere quella strana me stessa con gli occhi vitrei, il sorriso ebete e una ciocca di capelli attorcigliata al dito indice. Sicuramente non era il colore di capelli del McDonnel a cui facevo gli occhi dolci.
Prendermi una cotta per qualcun altro, comunque, sarebbe stato un buon modo per togliersi Dean dalla testa. Trattandosi di suo fratello, visto e considerato quanto si somigliavano esteticamente, sarebbe stato più facile invaghirsi di lui. Lo trovavo un ottimo piano, ignorando totalmente il razionale pensiero che molto probabilmente non avrei fatto altro che cercare in Matthew le somiglianze con Dean.
Matthew era, in ogni caso, una persona decisamente migliore di Dean, su tutti i fronti. Se non fosse stato per i miei pregiudizi a quel punto sarei stata a cavallo.
Ma si può sapere di che cosa stai parlando?” domandò Emily spazientita.
Era la pausa a pranzo e io e Kameron ce ne stavamo spaparanzati nel cortile, sfruttando le ultime giornate di bel tempo, prima che l’autunno venisse a rovinare tutto. Era il periodo migliore, in cui ancora il sole splendeva ma le temperature si abbassavano e le foglie degli alberi iniziavano a sfumare verso il giallo.
Joshua aveva davvero avvisato Emily a proposito della presenza di campo e dei miei orari di ricreazione, motivo per cui quel giorno aveva deciso di chiamarmi. Nel vecchio liceo era molto più semplice eludere la sorveglianza – ai bidelli non interessava molto quel che facevano gli studenti – al contrario della scuola di Sperdutolandia. Qui, Eric, il bidello dello sgabuzzino, sembrava essere a conoscenza di mille passaggi segreti, visto che entrambe le volte che ero uscita durante una lezione per vagabondare nei corridoi, lui mi aveva sorpresa e rispedita in classe nel giro di un minuto e mezzo. A quanto ne sapevo, non era solo per via della sorte che mi giocava i suoi scherzetti, era un problema che avevano tutti gli studenti. Eric era un segugio, non c’era modo di sfuggirgli.
In quel momento Emily si trovava acciambellata sull’amaca del suo giardino e ascoltava i miei deliri al telefono. Molto probabilmente, a partire dal lunedì seguente, avrebbe fatto lo stesso, ma seduta sulla ciambella chiusa del water, nel bagno delle ragazze del liceo.
Dei miei pregiudizi” risposi con naturalezza, mettendo in bocca una forchettata di maccheroni al formaggio.
Ma quali pregiudizi?!” domandò esasperata.
Deglutii. “Come, quali pregiudizi?” chiesi senza capire.
Sono dieci minuti che parli di pregiudizi senza i quali quel professore potrebbe piacerti” spiegò con un sospiro.
Oh, ti riferisci a quello. Lo sai come la penso a proposito delle persone che piacciono a tutti: devono essere necessariamente sopravvalutate. Non si può piacere a tutti!”
Kameron sbuffò e mi lanciò un’occhiata di sottecchi, che intercettai. “Stai dicendo un sacco di cavolate” bofonchiò, mentre masticava il suo panino imbottito.
Taci, tu!” lo rimproverai.
Emily rise. “Io sono d’accordo col tipo mezzo dislessico!”
Non è mezzo dislessico: ha la bocca piena! E comunque vi sarei grata se non vi coalizzaste, grazie” la corressi, brandendo la forchetta a mo’ di spada, in difesa di messer Mietitrebbia e del suo offeso onore.
Un Trenino e una Mietitrebbia. Lui e Dean erano proprio una bella accoppiata. Ma, ripensandoci, a Dean non avrei dovuto proprio pensare. Tracciai una riga su quel pensiero, mentalmente.
Coalizzarci?” si informò Kameron, improvvisamente interessato. “Perché, che ha detto?”
Che sei dislessico”.
Pan!” mi richiamò all’ordine Emily.
Ok, ha detto che sei mezzo dislessico” precisai alzando gli occhi al cielo.
Dislessico?”
Non è questo che voleva sapere!” continuò imperterrita la mia migliore amica. Perché doveva disturbarmi mentre mettevo a cuccia l’ego di Kameron? Non capiva quanto fosse importante la questione?
Ah, e va bene” sbuffai, indicandolo con la forchetta di plastica. “Ha detto che hai ragione, d’accordo? Se volete vi metto in vivavoce così potete conversare liberamente” buttai lì, sarcastica.
Mi sembra un’ottima idea”.
Fico! Conoscerò Emily!”
No, cosa?! “Ehi!” protestai al loro entusiasmo. “Era sarcasmo! Avete presente? Lo uso più spesso del phon!”
Ovvio, quello non ce l’hai” rispose Lily. “Allora, il vivavoce?”
Manipolatori” accusai entrambi, finendo per obbedire e schiacciare quel dannato tasto.
Risero, e udirono l’una le risate dell’altro.
Sai qual è il tuo problema, Pan?” esordì Emily. “Pensi troppo e pensi male”.
In altre parole, sarei una cretina?”
A volte sì”.
Grazie, fa piacere essere stimati”.
Kameron rise. Gli rivolsi un’occhiata divertita e presi un’altra forchettata di pasta.
Sentii Lily sospirare. “Kam, dalle un pugno da parte mia”.
Che?” guardai allucinata Kameron, che stava già alzando una mano sorridendo sornione. “Non ti azzardare, microcefalo!” lo minacciai con la forchetta.
Risero entrambi, mentre mi ficcavo in bocca i maccheroni con una smorfia imbronciata. Si divertivano alle mie spalle? Bravi, che amici! E dire che avevo chiesto loro di non coalizzarsi.
Come sei suscettibile”.
Sì, lo diceva anche Sid dell’Era Glaciale” bofonchiai a denti stretti.
Pan, ascoltami, zuccona”. Era sempre così gentile la mia migliore amica! Pensi troppo e pensi male. Concentrati su questo. Che pensi troppo è un dato di fatto. Che pensi male significa che fai dei ragionamenti contorti e sbagliati. Non puoi scegliere di chi innamorarti, succede e basta”.
Ma quale originalità! Cose dette e ridette, trite e ritrite. Quasi banali. Il discorso mi metteva parecchio a disagio, non mi piaceva la piega che la conversazione stava prendendo. Kameron non sapeva della mia cotta per il suo migliore amico. E non doveva saperlo, visto che io stessa me ne sarei presto dimenticata.
Ma che problema c’è?” farfugliai, masticando. “Io non sono innamorata di nessuno!”
Già” fece Kameron poco convinto.
Lo guardai male, allarmandomi leggermente. “Ma tu cosa ne sai, scusa?” domandai, aggrottando le sopracciglia. Di discorsi sentimentali, con lui, non ne avevo mai presi. Un po’ perché mi faceva comodo, un po’ perché sarebbe stato imbarazzante parlarne con chiunque non fosse Emily. Raccontarlo al migliore amico del colpevole, inoltre, sarebbe stato un suicidio.
Si strinse nelle spalle e rimase sul vago. “Tutte le ragazze sono innamorate”.
Assottigliai gli occhi. “Non io” risposi con convinzione. “E poi è una cretinata bella e buona, questa!”
Non ci giurerei”.
Mi stava sfidando? Da quel momento diventò questione di principio, per me, mantenere il segreto. “Io sì”. Non incrociai le dita, sebbene per un momento avessi davvero pensato di farlo. Io non ero innamorata. Leggermente invaghita, forse, ma si trattava soltanto una cosa passeggera.
Misi in bocca l’ennesima forchettata, per dare un tocco di naturalezza in più alla mia farsa.
Kameron si gonfiò come un pavone, aprì la ruota e rizzò le spalle, ergendosi in tutta la sua grandezza, nonostante fosse seduto. Sorrise sornione, sganciando poi la bomba: “Che mi dici di Dean?”
Il cibo mi andò di traverso. Sgranai gli occhi, cominciai a tossire e, mentre Emily non sapeva se ridere o preoccuparsi, Kameron scattò prontamente e mi prese a manate la schiena, ottenendo l’unico risultato di farmi mancare il fiato per via dei colpi.
Ehi! Devo chiamare qualcuno? Sei viva!”
Lo guardai male tra un colpo di tosse e l’altro. Gli avrei anche risposto male, se solo non stessi rischiando la vita. Per lo meno l'ultima cosa che avrei visto sarebbe stato un volto amico.
Finalmente riuscii a liberare le vie respiratorie e mi gettai lunga e stesa sull’erba, respirando a fondo.
Non la sento più. Sta bene?” udii Lily domandare.
Nel panico da rischio di soffocamento avevo lanciato via il telefono, che ora era da qualche parte in mezzo all’erba, e rovesciato tutto il mio pranzo a terra. Un disastro degno di un uragano, ma niente di particolarmente virtuoso o stupefacente per una che come me aveva la sorte costantemente contraria.
Kameron recuperò il telefono e tornò a sedersi accanto a me. “Sì, ora sta contemplando il paradiso dalla prospettiva terrena. Credo proprio che qualche istante fa l’abbia visto dall’alto”.
Soffiai una risatina esausta. “Puoi giurarci” confermai.
Emily sospirò di sollievo e rise. “A questo punto puoi intuire la risposta alla tua domanda, Kameron”.
Ma perché mi faceva questo? Perché riprendeva il discorso? Avevo – involontariamente – trovato un così bel diversivo!
Lui sogghignò. “È evidente” le rispose lui. “Lo sapevo già”.
Ma sentitelo, il grande veggente ha parlato. Lo sapeva già, lui. ‘Tutte le ragazze sono innamorate, gnè, gnè, gnè’. Cretino!
Lo immagino. Chissà com’è vederli litigare dal vivo!”
A volte è quasi comico” rispose lui, sogghignando.
Sembrava parlassero di una telenovela. La loro amica non aveva appena rischiato di soffocare, non avevano giustamente nulla di cui preoccuparsi. Che insensibili.
Pan è un fenomeno quando si mette a sparare insulti, quindi posso immaginare. A quanto ne so io, lui è particolarmente sagace. È vero?”
Qualunque cosa significhi, se te l’ha detto lei, allora è vero” rise lui, un po’ imbarazzato per la propria ignoranza.
Fai bene! Vergognati! E dopo me la paghi!
Anche Emily ridacchiò allegramente. Sembrava così contenta di poter parlare di me come se non ci fossi.“È evidente che le piaccia, vero? Credo che anche Joshua abbia intuito qualcosa”.
Perché, che ti ha detto?” saltai su, improvvisamente terrorizzata.
Non poteva essersene accorto anche lui. Passava che lo avesse intuito Emily, che essendo la mia migliore amica da sempre, mi conosceva come le sue tasche e anche meglio. Kam poteva aver imparato a interpretarmi, forse, ma in tutta probabilità aveva tirato a caso e il mio principio di soffocamento non aveva fatto che confermare la sua supposizione – quindi era tutta colpa mia se ora lo sapeva. Ma Joshua? Joshua doveva averlo capito dai miei atteggiamenti quando Dean era presente e questo avrebbe potuto significare che persino il diretto interessato... impossibile. Impossibile perché a me non piaceva più. O comunque sarebbe successo presto, ecco.
Non mi ha detto nulla, sei tu ad avermi raccontato di quelle domande” rettificò Emily. “Senti, non credi di essere un po’ troppo paranoica, Pan?”
Guardai Kameron, che annuì appoggiando il pensiero della mia amica. Sospirai. Hai perfettamente ragione”.
Era stata proprio la paranoia a fregarmi con Kam, ma ormai il danno era fatto.

In der Ecke – Nell’angolo:
Buonsalve!
Una sola precisazione – in realtà ne avrei due, ma della seconda mi piacerebbe che vi accorgeste da sole ^^ -, in città, la scuola non è ancora iniziata. A questo punto della storia, quando Kameron scopre la cotta di Pan, è ancora la prima settimana di scuola, più precisamente il venerdì 17. Oh, fico, venerdì 17! *se ne accorge solo ora* Il ‘segreto’ di Pan viene scoperto di Venerdì 17. LOL, l’ho sempre detto che è una data fortunata! ^3^

Passiamo ad una grande novità! (?)
Sul gruppo *click* l'idea è stata accolta positivamente, ne approfitto dunque per pubblicizzare l'iniziativa anche quaggiù in fondo, nella speranza che interessi a qualcun altro:  UN CONTEST!  *click* "MEGALOMANIA MOMENTANEA - Coppie? Quali coppie?"   Si tratta di un contest basato su questa storia, Cows and Jeans. Tutto ciò che dovete fare, se volete partecipare, è cliccare 'partecipa' nell'evento facebook (o farmelo sapere per MP, se non avete facebook), scegliere una coppia (una qualsiasi a vostra scelta!) e scriverci su! :D In palio ci son banner un po' scrausi, perché sono pessima con la grafica - so usare solo paint -, qualche spoiler e delle risposte alle vostre curiosità su trama e personaggi.

Ho pasticciato con NVU per la prima volta, quindi non so che casino io abbia combinato con l'html. XD 

Spero che il capitolo vi sia piaciuto! ^^

PS. Quello che vedete ora è ciò che ho scritto ieri sera, quando EFP non funzionava e non potevo postare. Ora sono le quattro e quaranta e sono tornata a casa da tipo venti minuti dopo essere stata a scuola fino alle due e a scuola guida fino alle quattro. T.T (E questo ve lo dico giusto per lamentarmi un po', in fondo lo sapete che è una cosa che mi diverte. :) 
Vi ricordo che se vi iscrivete al gruppo facebook 'Per la barba di Merlino, Pan!' (non ho voglia di inserire di nuovo il link, per trovarlo basta cliccare du 'gruppo' nei pragrafi sopra o sull'icona con i due omini sul mio profilo) potete essere aggiornati ogni qual volta vogliate sullo stato del capitolo 'seguente', fare quattro chiacchiere con me e il resto del 'popolo di Sperdutolandia' (e non parlo dei personaggi, ma di quelle meravigliose ragazze iscrittesi! :D) e soprattutto vedere tutti i bellissimi disgeni di Mary_ - e credo sia uno dei motivi più validi per iscriversi. :)
Buon proseguimento di giornata! :3

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Capitolo 38
*** 38 ***


Cows and jeans

 

38

 

 

Da quando Kameron era a conoscenza del fattaccio, era iniziato un nuovo gioco. Si chiamava ‘metti in imbarazzo Pan’ e, se Terrence era stato il campione in carica fin dal primo giorno di scuola, l’altro era deciso a prendere il suo posto al più presto. Ora che aveva indovinato la mia cotta, si sentiva più uomo, più forte: aveva il coltello dalla parte del manico, poteva ottenere qualunque favore sotto la minaccia di andare a spifferarlo a Dean – o, peggio ancora, a bocca-larga-Terrence.

Era ormai di fondamentale importanza fargli capire che non era lui a comandare. Ecco perché la mia principale occupazione, in quei giorni, era indagare e trovare il punto debole di Kameron Towell. Il fatto che nessuno a scuola lo considerasse più di tanto, però, non aiutava questa mia ricerca. Quando si dice ‘Non tutti i male vengono per nuocere’...

Sfruttando la sua neo-influenza su di me, Kameron aveva approfittato dei primi compiti a casa assegnatici per fare di me la sua nuova compagna di studi, motivo per cui quel pomeriggio la fattoria Fletcher fu l’ultima fermata del suo pick-up. Quando finalmente l’auto parcheggiò nell’aia, Dean era in agguato, pronto a infamarmi per il mio ingiustificato ritardo – nemmeno fosse mia madre.

Pensavi di rientrare dopo cena, per caso?” mi abbaiò contro non appena mi vide.

Fui sorpresa da questo comportamento, visto che solitamente nulla gli importava di ciò che facevo, finché non combinavo disastri. “Qual è il tuo problema? È colpa del tuo amico se ho fatto tardi”.

Ah, ora è mio amico? Però quando ti scarrozza è anche tuo!”

Era una discussione piuttosto insensata e mi ricordava molto quella tra Mufasa e Sarabi all’inizio de Il Re Leone. Siccome avevo la netta sensazione che si stesse delirando un po’ troppo, mossa dalla certezza che una parola di più avrebbe scatenato le battutine allusive di Kameron per tutto il pomeriggio, mi sistemai lo zaino sulle spalle e lo guardai male. “Dobbiamo studiare” lo congedai, filando in casa.

Non avevo mai pensato a dover fare i compiti lì dentro e non sapevo bene quale fosse la stanza giusta in cui occupare il tavolo. Quello del salotto era spazioso e invitante, ma sarebbe stato utile pulirlo prima. Avrei dovuto tenere a mente quell’idea per un altro giorno. La mia scrivania era ingombra di tutte le mie cianfrusaglie, quindi optai per il tavolo della cucina.

Corsi su e giù per le scale un paio di volte per recuperare tutto l’occorrente, poi mi sedetti e attesi lì Kameron, che era rimasto fuori con Dean.

Tardò. E neanche poco.

Tardò più di mezzora, durante la quale, stufa di aspettare, mi misi a buttar giù una lista delle cose da fare, in ordine, scandendo anche i tempi della tabella di marcia che avremmo dovuto seguire.

Quando finalmente Kameron mi degnò della sua presenza, stavo giusto mettendo il punto al mio piano tattico. “Finito!” esclamai entusiasta.

Lui si gettò a sedere sulla sedia di fronte alla mia e mi guardò scioccato. “Come, hai già finito?”

Ovvio. Si fa presto!”

Ma avevi detto che mi avresti aiutato!”

Cosa? Io non ho detto proprio...” Lo guardai stranita. La sua espressione da cane bastonato mi suggerì che forse non stavamo parlando della stessa cosa. “Kameron, stai parlando della mia lista?” chiesi conferma, assottigliando lo sguardo.

Lui si accigliò. “Di quale lista stai parlando?”

Lo prendo per un no” sorrisi tra me per la mia stupidità e poi gli mostrai il foglio con un certo orgoglio. “Questa è la nostra tabella di marcia!” gli annunciai.

Lui mi guardò confuso, poi mi prese la lista dalle mani e la scorse rapidamente. “In pratica hai ricopiato i compiti su un pezzo di carta” valutò, una volta concluso il suo studio.

Sbuffai sonoramente: come si poteva essere così ottusi? “Non li ho ricopiati! Cioè, anche. Ho scritto tutto quello che faremo oggi pomeriggio. Così saremo organizzati e non faremo casini”.

Kameron mi osservò a lungo, forse per capire se stessi scherzando, e io sostenni il suo sguardo con sicurezza. Quando capì che facevo sul serio, lanciò un’occhiata frettolosa al foglio e lo posò sul tavolo davanti a me: “Non c’è nulla a proposito della merenda” disse, come se avessi dimenticato una cosa ovvia. E, effettivamente, l’avevo fatto, ma c’era un lato positivo in questa piccola dimenticanza: “Vorrà dire che mangeremo una volta finiti i compiti” proclamai.

Mi guardò male. “Finiremo tardissimo!”

Ricambiai lo sguardo truce. “Se perdiamo l’intero pomeriggio oggi, sotto Natale saremo davvero nei guai” replicai sarcastica. La mole di compiti per il giorno successivo era davvero infima – e se lo dicevo io, che sono la pigrizia fatta persona, doveva necessariamente essere vero.

Kameron mi guardò in modo strano, poi riacciuffò il foglio di carta e lo guardò un po’ più attentamente. “Qualche esercizio di matematica, un dialogo di spagnolo e un capitolo di storia da leggere” elencò, contando sulle dite. “Hai intenzione di leggerlo?” mi domandò incredulo.

Mi strinsi i capelli nella coda di cavallo, prendendo tempo. Era imbarazzante. Io avrei dovuto essere la sua tutor, no? Avrei dovuto aiutarlo a studiare, cercare di impedirgli di prendere lezioni di lavoro a maglia anziché studiare, ma... “Non ci penso neanche” risposi, sincera.

Kameron rise forte, sollevato. “Ecco, ora ti riconosco! Perché l’hai messo in lista, allora?”

Per sentirmi più responsabile e poter dire che ci ho provato. O che lo ho inserito nel programma, almeno” ridacchiai.

Lui rise di nuovo, scrollando il capo. “Mi piace questa cosa della lista!”

 

Quando Abe tornò a casa quella sera, trovò me e Kameron in preda all’ennesimo attacco di ridarella sui libri di storia – addirittura aperti sulla pagina giusta.

La sua espressione era la prova lampante che secondo lui qualcosa non quadrava. Questo era probabilmente il fatto che per i due giorni seguenti non ci sarebbe stata scuola: com’era possibile far studiare Towell con la prospettiva di avere due giorni di riposo davanti a sé e nessuna fretta di finire? No, no – continuava a ripetere – lì gatta ci covava. Questo interrogativo lo spinse ad una serie di ragionamenti tutti sbagliati che provocarono una grande quantità di risate e imbarazzo.

In realtà la domanda più intelligente da porsi sarebbe stata la seguente: perché Pan Fletcher dovrebbe portarsi avanti con lo studio se non spinta dall’urgenza di prepararsi per il giorno seguente? La risposta era semplice: spinta da un del tutto nuovo senso di responsabilità, avevo deciso di affrettarmi a svolgere quegli ingrati compiti, prima che sia a me che a Kam passasse del tutto la voglia. Non che ne avessimo molta, ma l’idea di studiare insieme era una novità, che in qualche modo incuriosiva entrambi. Io, tanto per dirne una, non avevo mai fatto da tutor prima di allora – anzi, di solito era Emily a spingermi a lavorare ogni santo pomeriggio.

Forse dipendeva dal fatto che durante la prima settimana di scuola i compiti a casa erano davvero pochi, ma non era stato per nulla male studiare assieme a lui. Molto probabilmente dovevo ringraziare Kameron, che riusciva a trovare qualcosa di divertente anche in un’equazione fratta, per cui ogni esercizio sembrava molto meno noioso.

La nostra inaspettata e del tutto ingenua laboriosità, però, non impedì al nonno di cacciarlo in modo burbero e sbrigativo, chiedendogli se non avesse altro da fare oltre ad importunare le ragazze.

A nulla valsero i nostri tentativi di spiegare che avevamo passato il pomeriggio studiando – il tavolo ingombro di materiale scolastico ne era una prova lampante –, Abe da quel giorno non lo guardò più allo stesso modo.

Se la cosa da un lato mi divertiva a dismisura, dall’altro mi imbarazzava terribilmente. Il momento peggiore, però, fu quando il nonno riprese l’argomento quella sera a cena.

Ai miei tempi” se ne uscì, gli occhi fissi sulla bistecca che stava tagliando e le sopracciglia aggrottate “le ragazze si cercavano dei giovanotti laboriosi”.

Lo guardai allibita, la forchetta infilata nella carne e il coltello ancora a mezz’aria. “Di cosa stai parlando?” domandai, temendo di aver capito a cosa si stesse riferendo.

Dico solo che ci sono partiti migliori di Towell. Non che non sia un bravo ragazzo, ma è così pigro che preferirei affidare un incarico a quel rintronato di Terrence Doyle piuttosto che a lui...”

Sgranai gli occhi. “Ma cosa stai dicendo?”

Un sogghigno. Dean aveva appena sogghignato malignamente – maledetto! Aveva già capito dove il nonno volesse arrivare, cosa che il mio cervello si rifiutava categoricamente di metabolizzare.

Lo guardai male, mentre il nonno masticava un pezzetto di carne. “Ci sono partiti migliori” ripeté.

Ovvio che ce ne sono!” sbottai, stizzita. Ce n’erano anche di peggiori, però. Quello seduto al tavolo con noi, per esempio. L’unico problema era che la mia testa vuota era fin troppo idiota per capirlo.

O magari no. Lanciai una seconda occhiataccia a Dean, che rideva sotto i baffi fissando il proprio piatto, e decisi che quella era la volta buona: la mia testa avrebbe avuto la meglio. Avrei buttato fuori di casa la mia cotta a calci nel didietro.

Oh, meno male che te ne rendi conto” bofonchiò Abe tra sé. “Quindi lascerai perdere”.

Mi versai l’acqua nel bicchiere, decisa a schiarire le idee. Come poteva essergli venuta in mente un’idea simile? Kam e io? Era uno scherzo? “Non c’è niente da lasciar perdere, nonno. Kameron non mi piace” arrossii di vergogna, pronunciando quelle parole. L’argomento era davvero imbarazzante – dovevamo proprio parlarne davanti a Dean, per di più? “Non in quel modo” misi in chiaro, poi mi affrettai a bere, per potermi nascondere almeno un momento dietro al bicchiere.

Scelsi il momento sbagliato.

E in quale modo ti piace, si può sapere?” infierì a quel punto Dean con un sorriso sornione.

Mi andò di traverso l’acqua, come da copione. Dopo diversi colpi di tosse, annaspando, riacquistai le mie funzioni cerebrali e fui libera di fulminarlo con lo sguardo per l’ennesima volta. “Nessun modo! Cioè, come amici!”

Sogghignò. “Non si direbbe: sei tutta rossa”.

Tutt-?” boccheggiai, incredula. “Mi sono appena strozzata con l’acqua, ecco perché sono tutta rossa!”

Stronzo! Si stava divertendo da morire, vero?

Ah-ha” fece lui in tono di superiorità. Mi lanciò un’occhiata scettica e tornò alla sua bistecca.

Lo odio! Lo odio, lo odio, lo odio!

Occorse tutta la mia determinazione per mantenere la calma e ignorare l’arroganza del mio adorabile – mpf! - coinquilino. “Siamo buoni amici” fu l’ultima frase che uscì dalla mia bocca, rivolta a lui. Da quel momento, con quell’affermazione, decisi che la mia cotta per Dean era ufficialmente finita. Non era una reazione troppo drastica ad una presa in giro – per quanto io fossi permalosa e vendicativa –, era semplicemente un punto di partenza. Da qualche parte dovevo pur iniziare a dimenticarmi di lui e decisi che il momento giusto era quello.

 

Tra le diverse qualità di Sperdutolandia, una che mi piaceva particolarmente era che di sabato non c’era scuola. Certo, se solo mi fosse stato permesso di dormire fino a mezzogiorno, sarebbe stato molto meglio, ma in mancanza di questo privilegio, mi accontentavo di non dover affrontare ore e ore di lezione.

Quel giorno Dean, autoproclamandosi padrone di casa in assenza del nonno, mi aveva mandato da Kameron a fare rifornimento di becchime per i polli. Considerato che l’alternativa sarebbe stata rimanere in casa con lui a fare la lavatrice, avevo accettato di buon grado.

In quel momento ne stavo approfittando per prendermi una pausa, beandomi della presenza dei bovini nella stalla dei Towell, dove Kameron si stava prendendo cura del bestiame.

Avevo giusto finito di raccontargli della ridicola discussione della sera precedente, mentre lui riempiva le mangiatoie delle vacche, quando lui cambiò argomento con noncuranza: “Mi fai ascoltare la canzone?”

Ritrassi la mani con cui stavo per accarezzare un grosso muso bovino e lo fulminai con lo sguardo. “Io ti sto dicendo che mio nonno è convinto che tu mi faccia la corte e l’unica cosa di cui ti importa è scroccarmi l’mp3?”

Lui sghignazzò. “Ma cosa dici? Io non scrocco proprio nulla! Volevo solo sapere che canzone avete scelto, ma se dev’essere una sorpresa...”

Sul momento non diedi peso a quelle parole e credetti che mi stesse di nuovo prendendo in giro. Pensando che l’influenza di Terrence gli facesse proprio male, gli feci una linguaccia mo’ di saluto e me ne andai, lasciandolo con un’espressione interrogativa che la diceva lunga sul fatto che nessuno dei due avesse capito molto di quella conversazione.

Solo quel lunedì ebbi modo di capire cosa mi fossi persa esattamente e anche il perché dell’improvviso interesse di Dean a proposito del mio ritardo – che detto così, è un po’ ambiguo. Non fatevi strane idee: ero solo un povero capro espiatorio, tanto per cambiare.

Prima dell’inizio delle lezioni, camminavo pigramente con Kameron e Agatha verso il portone della scuola. Terrence si era ovviamente già volatilizzato alla ricerca del suo caro amico Phil, borbottando a proposito di un’idea geniale su cui decisi di indagare. Non mi fidavo molto delle idee geniali di quel ragazzo.

Mentre Aggie mi raccontava dei problemi avuti il giorno prima con il recupero di alcune recensioni assegnate per le vacanze – il suo sguardo volava continuamente ad accusare Kameron – , Bethany Peterson ci corse incontro in mezzo alla mensa scolastica, con un’allegria davvero insolita per un lunedì mattina scolastico.

Ehi, Pan!”

Ciao, Beth” la salutai di rimando.

Buongiorno!” intervenne Kameron solare.

Lei gli rivolse un sorriso bonario e tornò a rivolgersi a me: “Ci sarai alla festa del raccolto? Io sarò con i miei cugini, mi farebbe piacere vedere un volto amico”.

La guardai, sorpresa, senza avere la più pallida idea di cosa stesse parlando. Festa del raccolto? Festa? Quale festa?

Sì, ci sarà” rispose Kameron per me. “Altroché, se ci sarà!”

Lo guardai sorpresa. Ci sarei stata, diceva lui. Peccato che non sapessi dove o perché. Avevo dato per assodato, negli ultimi due giorni, che si sarebbe arrogato il diritto di ordinarmi di fare mille piccole commissioni al posto suo – stupido ricattatore pigrone! –, ma non credevo sarebbe giunto a decidere dove sarei e non sarei andata. Gli avrei chiesto spiegazioni più tardi, l’ultima cosa che volevo era farlo sembrare ancora più imbecille agli occhi dei nostri compagni. Per il momento mi sarei limitata a piegarmi al volere dei mio burattinaio. “Sì, pare che ci sarò” risposi con un mezzo sorriso divertito. La mia inconsapevolezza a riguardo era lampante, ma per lo meno non mi ero messa a bisticciare con lui pubblicamente, cosa che avrebbe mosso pettegolezzi a go go su quanto ‘Towell fosse insopportabile: persino la sua nuova amichetta non lo regge più’.

Oh, fantastico! Ci vediamo a lezione, devo dare la notizia a Terry!” rispose, allegramente.

Le sorrisi, divertita. “A più tardi” la salutai.

Ciao!” mi fece eco Kameron, guadagnandosi a sua volta un sorriso.

Quando Bethany fu abbastanza lontana da non poterla sentire, Agatha sghignazzò. “Bethany Peterson, vero?”

Sorrisi. “Bethany Peterson” confermai.

Bethany Peterson” ripete lei, sogghignando al ricordo della nostra performance del primo giorno di scuola. E di quella di Bethany Peterson stessa. (*)

Qualcuno mi spiega perché quando si parla di lei si ripete il suo nome sempre un sacco di volte?” se ne uscì in quel momento Kam, facendoci ridere entrambe.

 

La prima lezione del giorno era educazione fisica. Per qualche motivo a me sconosciuto, però, si svolgeva in un’aula come una comune lezione. Inspiegabilmente il professor Lloyd aveva l’abitudine di dare lezioni di teoria durante il primo mese di scuola, il che significava principalmente che aspettava fosse terribilmente freddo prima di lasciarci fare esercizio fisico. Non che avessi nulla in contrario – più la fatica tardava, meglio era –, ma l’idea di dover correre attorno alla scuola a metà Ottobre, per esempio, non mi allettava particolarmente. Forse però io ero di parte, visto la mia leggera tendenza alla nullafacenza.

Il professor Lloyd esplicava in maniera fin troppo energica le regole del salto in alto, con tanto di aneddoti pseudo-interessanti, origini e cambiamenti storici di tale sport. Era tremendamente assorto in quello che diceva, che nessuno si prendeva il disturbo di ascoltare. Camminava avanti e indietro tra la cattedra e la porta e ogni volta che pronunciava il nome di un importante atleta, lo gridava perché ci rimanesse più impresso. Naturalmente ogni tanto che strillava qualcosa, mezza classe sobbalzava, violentemente strappata ai propri pensieri. Tra tutti solo Theresa Donovan, una ragazza alta dai capelli rossi con due spessi occhiali a nascondere gli occhi verdi, ascoltava e prendeva appunti.

Decisi dunque di sfruttare quel momento per chiedere spiegazioni a Kameron. Optai per iniziare l’argomento con un sempre efficace “Dai che ti odio, vero?”.

Lui si voltò a guardarmi, cessando l’ammirazione del proprio banco. “Perché, che ho fatto?” domandò sulla difensiva.

Che significa che sarò alla festa del raccolto? Che diavolo è la festa del raccolto?”

Kameron mi fissò per qualche istante, con un’espressione divertita in volto, poi scosse il capo e spostò lo sguardo sul professor Lloyd. “Ma smettila, non fa ridere”.

No, infatti, non faceva ridere proprio per niente. Che razza di scherzo era quello? Non aveva nemmeno senso! “Kameron!”

Cosa?” chiese di nuovo, senza capire.

Cos’è la festa del raccolto?” ribadii con impazienza. “Perché devo andarci, poi? Mica sono una contadina, io a malapena spazzo il pavimento in casa! Senza offesa per i contadini” aggiunsi poi, domandandomi se quelle parole non potessero sembrare offensive alle orecchie di eventuali ascoltatori indiscreti.

Pan, scherzi?” mi domandò, facendosi improvvisamente serio.

Ti sembra che io stia scherzando?” commentai, aggrottando le sopracciglia. Il mio solito sarcasmo doveva essere davvero dannatamente convincente.

Sgranò leggermente gli occhi, incredulo: “Dean non ti ha detto niente!”

Sbuffai. “Kam, ho capito che la cosa” e con ‘cosa’ intendevo chiaramente la mia non-più-cotta, “ti diverte, ma stai diventando pesante. Non puoi menzionarlo ogni volta che ti dico qualcosa, sembra quasi che sia tu a...”

Dovete esibirvi!” mi interruppe.

Eh? “Ma di che diavolo parli?” sibilai, esasperata.

Prima di potermi rispondere, Kameron guardò distrattamente davanti a sé e impallidì alla vista del professor Lloyd che aveva interrotto la lezione per occuparsi di noi. “Fletcher, Towell! La vostra conversazione è interessante come sembra? Se è così mi piacerebbe partecipare”.

Arrossii inevitabilmente per la vergogna – non faceva mai piacere essere rimproverati davanti a tutti. “Ci scusi” borbottai, abbassando lo sguardo sul banco.

Quando Lloyd tornò alla sua lezione, Kameron mi diede di gomito per attirare la mia attenzione. Gli risposi con un’occhiataccia e lui ridacchiò in silenzio. “Stavi scherzando, prima, vero?”

Non feci in tempo a rispondere, che il professore aveva già di nuovo gridato “Towell!”

Come non detto” ridacchiò lui, imbarazzo. “La smetto, promesso!” assicurò, mimando di cucirsi la bocca.

Mi impegnai parecchio per non mettermi a ridere, ma decidemmo implicitamente di rimandare la conversazione all’intervallo.

 

Dobbiamo andare da Aggie” proclamò, trascinandomi per il corridoio.

Sei impazzito?”

S- no! Dobbiamo dirglielo, lei saprà cosa fare”.

Ah, certo. Dillo a lei, non è importante che io sappia di cosa stiamo parlando” commentai. Mi scrollai dalla sua presa e allungai il passo per evitare che lui mi portasse di peso a spasso per il corridoio. La scena ricordava tanto quando mia madre aveva trascinato un dodicenne Joshua fuori dal negozio di videogiochi, dicendogli che, no, non poteva acquistare anche quel quinto DVD, quattro erano abbastanza. A quel tempo ancora mio fratello non aveva assunto l’aria da super-figo, poteva quindi permettersi di fare la figura del cretino in mezzo alla strada. Al contrario, mia madre si era vergognata tanto, che da quel giorno, aveva iniziato ad aspettarlo in macchina fuori dal negozio.

Aspetta, aspetta, te lo spiego dopo... Matthew!” Inchiodò in mezzo al corridoio, come mi accorsi solo dopo un’altra decina di passi.

Mentre facevo dietro front per raggiunger il mio – ufficialmente decerebrato – amico, lui stava già parlando a macchinetta con il nostro professore di spagnolo.

Come sarebbe a dire che non ti ha detto niente?” mi chiese Matthew, colto alla sprovvista.

Sarebbe stato carino capire di cosa stessero parlando.

Io gliel’ho detto venerdì!”

Lo so, lui a me lo ha detto il giorno stesso” confermò Kameron, agitato.

Si può sapere di cosa state parlando?” mi informai, a costo di sembrare egocentrica. Kameron parlava con me, di me, senza dirmi nulla di sensato. Perché tutti quei complementi oggetti sottintesi? ‘Non glielo ha detto’. Che diavolo stava succedendo?

Della vostra esibizione!” rispose Matthew tranquillamente, riprendendo poi a confabulare con Kameron.

Oh, certo, ora capivo.

Ascoltai pazientemente una serie incoerente di ‘Solo quattro giorni!’, ‘Poco tempo’, ‘Impossibile’, ‘Il solito idiota’ e ‘Non è così idiota, se conosci bene’, prima di perdere la pazienza.

Quale esibizione?” ringhiai allora, passando totalmente inosservata ai due cervelli in fase di spremimento di meningi.

Quella situazione era piuttosto frustrante. Stavano borbottando frasi spezzate e senza senso e, seppure fosse ormai ovvio che parlassero di me, non capivo cosa stessero dicendo. Forse era così che si sentivano le persone normali quando sentivano me ed Emily discutere a proposito di una qualche scena di Harry Potter che nel film non era stata inserita.

Mi ero appena decisa ad andarmene, quando Matthew sospirò e si girò verso di me. “È un bel problema”.

Gli rivolse un’occhiata truce, dimentica che si trattasse di un mio insegnante. “Ma davvero?”

No. È un po’ un casino, ma Dean odia passare dalla parte del torto, quindi è risolvibile”.

Ah, certo. Qualcuno gli aveva detto che bastava evitare di attaccar briga con chiunque per non essere nel torto? Avrebbero dovuto dirglielo, si sarebbe evitato la fatica di rimediare ai problemi che causava. Qualunque essi fossero.

Allora, posso finalmente sapere qual è il dramma?”

 

Scesa dalla macchina, mi diressi a grandi falcate verso i campi sul retro, dove stava lavorando quel meschino biondo mestruato quella mattina.

Quel ragazzo voleva essere sepolto vivo dai miei insulti, era chiaro come il sole. Esibirci! Ora che sapevo cosa intendevano Kameron e Matthew non avrei voluto saperlo.

Stavo già preparandomi mentalmente una sclerata coi fiocchi, mi accorsi che non c’era traccia di lui. Per un momento

Senza scoraggiarmi, girai sui tacchi e filai dritta in casa, trovandolo seduto sul suo letto abbracciato beatamente alla sua chitarra.

Vedendolo feci una smorfia. Evidentemente il suo sesto senso lo aveva avvisato in anticipo dell’argomento della nostra prossima lite.

Festa del raccolto” sputai, prima ancora di aver messo un piede sull’ultimo gradino.

Lui alzò pigramente lo sguardo dalle corde e lo posò su di me. “È il giorno dell’equinozio”.

Gli rivolsi un’occhiata truce. “Questo lo so, ora”.

Fammi indovinare: ti hanno aggiornata” buttò lì con un sorriso di scherno, tornando a osservare lo strumento.

Al diavolo! Come poteva essere così bello mentre mi sfotteva miseramente?

Perché non mi hai detto niente?” ringhiai, incrociando le braccia e appoggiandomi al muro. Avevo corso per tutto il giardino e su per le scale; le gambe mi reggevano a stento, ma non avevo la minima intenzione di mostrare di essere affaticata. Quale credibilità avrei avuto facendo una sfuriata con il fiatone?

Mi rivolse una rapida occhiata di sufficienza. “E chi sono io, il tuo agente?”

No, uno stronzo. Uno stronzo schifosamente sexy abbracciato in quel modo alla sua chitarra...

No. Come non detto. A me non piaceva più, era un dato di fatto.

Sospirai. “Devo farlo?”

Non volevo. Non volevo assolutamente farlo. Cantare alla festa del paese? Davanti a tutti? Era inaccettabile. Tanto più perché non mi era stato chiesto se volessi partecipare. Con Dean, per di più!

A Kameron era parsa un’idea geniale e se solo non mi avesse detto che non era stato lui a combinare quel casino, lo avrei preso a pugni fino a fargli venire qualche livido. Tuttavia la colpa non era sua, era di quel simpaticone di Matthew McDonnel, che da quel giorno avrei depennato dalla lista dei bravi professori e delle persone che avrebbero potuto potenzialmente piacermi.

Mi aveva iscritto al concerto della festa del raccolto di Sperdutolandia.

Assieme a Dean.

Senza dirmi niente.

Assieme a Dean!

L’avevo o non l’avevo detto che quando una persona veniva adorata da tutti, finiva per essere sopravvalutata? L’avevo o non l’avevo detto che Matthew McDonnel avrebbe finito per starmi sulle scatole? Be’, era giunto il momento.

Cantare era l’unica cosa che sapevo fare. Era il mio sfogo, il mio rifugio. Non era giusto costringermi a farlo. Per di più, questa volta nessuno avrebbe cantato le prime strofe assieme a me, cercando di infondermi coraggio.

Strano ma vero, in quel momento sentii la mancanza di mio fratello più forte che mai.

Dean scrollò le spalle. “Hai paura, forse?”

Diavolo sì! “No. Qual è la canzone?” domandai, cercando di suonare il più naturale possibile. Tanto ormai il danno era fatto.

A te la scelta”.

Sì, certo, perché lui sapeva suonare tutto il repertorio di qualunque cantante io avessi scelto, no? Buttai lì la prima che mi venne in mente: “Crazy little thing called love”. Almeno era allegra, forse mi avrebbe tirato su il morale.

No” mi freddò, senza alzare lo sguardo dalla chitarra né darmi un’ulteriore spiegazione.

Fantastico”. Non aveva detto che la scelta sarebbe stata mia? “Prendo l’mp3 e diamo un’occhiata” suggerii, intuendo l’antifona. Avrebbe bidonato tutte le mie proposte, probabilmente.

Mi sorprendo del tuo buon senso”.

Mentre andavo in camera mia ad appoggiare lo zaino e cercare il mio fidato mp3, mi scivolò accidentalmente il dito medio, che schizzò fuori dal pugno chiuso in sua direzione. Era evidente che a quel dito la cotta per Dean non fosse passata. A me sì, ma a lui no.

Quando tornai in stanza, mi fermai incerta in piedi davanti a lui. Avrei dovuto sedermi lì accanto? Avremmo dovuto mettere un auricolare ciascuno quindi era più che ovvio, ma non meno imbarazzante. Prima che lui potesse notare la mia indecisione e lanciarmi una frecciatine delle sue, trattenni il fiato e mi sedetti sul letto. “Tieni” gli porsi una cuffietta.

In quel momento iniziò l’ennesima lotta, un auricolare ciascuno e gli occhi fissi sul display.

Alleluia” proposi, leggendo il titolo del primo brano che iniziò, non appena accesi l’mp3.

Evviva la banalità”.

Gli rivolsi un’occhiataccia di sottecchi e passai alla canzone successiva. “Come vuoi” sussurrai, irritata.

Click, click, click.

Le donne lo sanno?”

Ti piacerebbe”.

Misogino”.

Egocentrica! Perché leggi i titoli ad alta voce? So leggere!”

Non l’avrei mai detto. Quest’uomo è una sorpresa continua. “Perché altrimenti non rispondi! Ah, fai come ti pare”.

No”.

Non è una canzone, è un consiglio spassionato”. Cambiai traccia.

Smoke on the water dei Deep Purple.

Questa!” esclamò, convinto.

Non mi piace” replicai, felice di avere finalmente anche io qualcosa da criticare.

Lui mi lanciò un’occhiataccia. “Il lettore è tuo” osservò.

Che c’entra? Mica mi deve piacere tutto quello che ci capita dentro!” borbottai, stringendomi nelle spalle.

Ero in imbarazzo. Sembrava un’impresa titanica solo scegliere una canzone, come avremmo fatto ad impararla e... oddio, avremmo anche dovuto fare le prove! L’equinozio era quel giovedì quindi avevamo quattro giorni di tempo e...

Mi trattenni a stento dal gettarmi sul letto e gridare contro il materasso, aiutata dalla consapevolezza che quello su cui ero seduta non era il mio e che Dean avrebbe avuto conferma della mia totale imbecillità. E noi non volevamo questo. O meglio, il mio dito medio non voleva, ci teneva troppo.

La canto io” suggerì allora con naturalezza.

Sì, ottimo. E io che faccio?”

Nulla” mi diede corda, con un pizzico di sarcasmo nella voce.

Davvero?” mi illuminai.

Certo che no”.

Guarda che per me non c’è problema, posso sempre andarmene da qualche altra parte a mangiare pannocchie arrosto. Ci saranno pannocchie arrosto?”

Mi guardò male. “Non sai quanto mi alletta questa idea. Cambia” ordinò, alzando gli occhi al cielo.

Quel pomeriggio scoprii tante cose a proposito della musica. Tanto per cominciare che “la musica italiana fa schifo” – e se lo diceva lui... –, inoltre quella commerciale era “anche peggio”, Two Princes e Wherever you will go erano “Schifosamente sdolcinate. Devo suonare o vomitare?”, ma soprattutto, udite udite, Hey there Delilah dei Plain Whit T’s, era “ok. Segnatela e fammi vedere se c’è di meglio”.

Bastano altri dieci minuti di sbuffi e commenti acidi, per farmi capire che meglio di quell’ok, non avrei ottenuto.

Quando Kameron tornò, dopo aver riaccompagnato Terrence e Agatha, per fare i compiti, convenimmo che non era più il caso di perdere tempo. In fondo si trattava solo di una canzone e anche se un ‘ok’ non era un giudizio particolarmente entusiastico, ce lo saremmo fatti andare bene – se lo sarebbe fatto andar bene, perché per me quella canzone era molto più che ‘ok’. 

 

 

 

 

DubbiDomandeDelucidazioni:

  • Il festival del raccolto nel Regno Unito si celebra la domenica della Luna piena più vicina all'equinozio di settembre.

Sperdutolandia è in un luogo X, ma mi sono ispirata a questa nota trovata su Wikipedia per decidere che la Festa del raccolto viene festeggiata il 23 Settembre (il giorno prima del mio compleanno, yay! E generalmente uno dei miei giorni preferiti – per come suona ‘ventitré settembre’, mica per un motivo particolare XD).

 

In der Ecke – Nell'angolo:

Oh. Oh, erano secoli che non mi facevo viva, vero? A dirla tutta, se avessi continuato secondo la mia idea di aspettare di aver finito il capitolo successivo, non sarei qui nemmeno oggi. Ma non ce la facevo più, iniziavo a sentirmi tremendamente in colpa.

Vi ho fatto penare per questa cosa... non è neppure betata, spero che non ci siano troppi errori (mi sono limitata ad usare il correttore automatico).

Quest'anno è dura, gente. Credevo che avrei trovato comunque il tempo di scrivere e spero ancora di riuscirci, ma soprattutto voglio finire questa storia. Il vero motivo per cui ho postato – oltre i sensi di colpa – è che venerdì andrò ad una fiera a Bologna – credo. La stessa a cui due anni fa andai con mio padre, prendendo per la prima volta il treno, il giorno in cui scrissi le prime righe di questa storia. Due anni. Due anni, capite? Saranno due anni il 2 Dicembre che questa storia è su EFP. È un'eternità. È ora di concluderla. Qui dentro c'è un fetta piuttosto consistente della mia vita. Ci sono un sacco di cambiamenti... c'è un sacco del mio tempo, forse quello speso meglio. :)

Ci sono gli incontri con delle persone fantastiche, che prima di questa storia non conoscevo, c'è... tanto. Questa storia significa tanto per me. Non so perché lo sto dicendo, ho un momento di sentimentalismo, credo. Mi capita spesso ultimamente. XD

Vi ringrazio da morire se siete arrivate fino a qui, se ci siete ancora dopo tutto questo tempo, se ancora avete voglia di sopportare le mie scuse, le mie paturnie, i miei stupidi deliri “nell'angolo”. Un enorme grazie di cuore per avermi accompagnato fino a questo punto della storia.

E perdonatemi. Perdonatemi per il ritardo, per il fatto che nemmeno questa volta risponderò alle recensioni e per il fatto che probabilmente non riuscirò a farlo nemmeno le prossime volte. Non avrei mai creduto di avere così poco tempo quest'anno – o in qualunque momento -. Credo non farei in tempo a rispondere a tutte, e non voglio rispondere solo a qualcuno e lasciare indietro qualcun altro, perché siete tutte meravigliose e non ve lo meritate, affatto. Ogni parola che avete speso per me, sappiatelo, è stata apprezzata e la mia gratitudine verso di voi cresce continuamente. :)

(E fu così che aveva già risposto alle recensioni tempo fa e non se lo ricordava...)

Spero che il capitolo vi sia piaciuto.

Se volete, ci ricordo che esiste un gruppo in cui essere stalkerate/stalkerare la sottoscritta (oltre che un profilo facebook a cui potete aggiungermi). Trovate i link sul mio profilo, come sempre.

Inoltre, ora, sul gruppo trovate le storie partecipanti al contest indetto la volta scorsa. E, ragazze, non ho dimenticato il vostro premio, giuro, sono solo un po' indietro coi lavori! :D Aspetto le vostre domande, comunque. :3

Basta, fuggo. A presto – si spera! :D

E grazie, grazie, grazie e ancora grazie! A tutti! 

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Capitolo 39
*** 39 ***


Cows and jeans

 

39

 

 

Le cose col tempo cambiano.
È un dato di fatto, una delle frasi più banali del mondo, preceduta solo da “È per il tuo bene”, “Chi la fa l’aspetti, “Essere o non essere, questo è il dilemma” e “Sei proprio uguale a tuo padre, Harry. Tranne gli occhi: hai gli occhi di tua madre”.
Sono quelle frasi cui l’ovvietà rasenta il lapalissiano, il cui significato è intrinseco nelle tue ossa, ma della cui veridicità ci si stupisce ogni santissima volta. Chi di noi, guardando un tramonto, non si stupisce di quanto sia meraviglioso?
Era giunto il giovedì, quel maledetto giovedì 23 Settembre in cui avrebbe avuto luogo la festa del paese.
I tre giorni precedenti erano stati a metà tra un inferno e una follia. Avevo passato più tempo ad arrossire che altro.
A Kameron non era parso vero di potermi veder passare tanto tempo con Dean, per via delle prove della canzone, e continuava a rivolgermi tante di quelle frecciatine che mi sembrava di essere diventata il bersaglio di un tiro a segno. Si divertiva da morire a farmi crepare per la vergogna. Serve specificare che stavo sfruttando ogni singola occasione che mi capitava per vendicarmi?
Ero seduta nel solito giardino della scuola, durante la pausa a pranzo, e osservavo Kameron, Phil e Terrence lanciarsi una pallina da tennis con tanta gioia che mi chiesi se avere la testa così sgombra come quella di quei tre non fosse una benedizione del cielo. Quanti castelli in aria avrei evitato di farmi? Quanti pensieri mi sarei lasciata alle spalle? Quante volte avrei fatto quello che mi veniva in mente senza farmi troppi problemi? E, ok, forse avrei finito per essere un’iperattiva zuccavuota come Terrence, ma in quel momento quella prospettiva mi sembrava meravigliosa.
Si parlava di dati di fatto e cose scontate, giusto? Ecco una cosa scontata di cui mi sarei dovuta accorgere prima: più provi a toglierti una persona della testa, più quella rimane lì. Non solo, cercando di non pensarci, si finisce a pensarci sempre di più, proprio nel tentativo di non farlo. Sono di quelle stupide cose che dentro di sé ciascuno sa, ma peccando di orgoglio ci si convince di poter essere diversi dagli altri, di potercela fare, perché c’è sempre una prima volta e quella prima volta potremmo essere noi.
Be’, è una stronzata.
L’orgoglio crede di sapere tante cose, ma non sa nulla. È troppo impegnato a credere di sapere, per fermarsi a pensare e cercare di capire.
Negli ultimi giorni avevo passato fin troppo tempo con Dean. Il mio pomeriggio era diviso, dopo la scuola, in spicchi da due ore. Due ore con Kameron per i compiti, due con Dean a fare quelle dannate prove e arrossire ogni volta che incrociava il mio sguardo. Erano stati solo tre giorni, ma erano stati infiniti.
Ogni volta che mi guardava per farmi l’attacco e invitarmi a iniziare a cantare, arrossivo come un pomodoro e prima che potessi finire la strofa, mi impappinavo per via dell’imbarazzo.
Gli improperi e i rimproveri che avevo attirato in quei giorni non me li sarei accaparrati più in tutta la mia vita.
Tutto sommato non era andata male per niente, ma ero felice che il giorno dell’Equinozio d’Autunno fosse finalmente arrivato, per poter finalmente interrompere quella tortura.
Proprio il giorno precedente, dopo le ultime prove, ero corsa in camera mia con la verità in mano, una realtà scomoda, ma che avrebbe dovuto essere lampante, e l’avevo scritta nell’ennesimo quaderno riempito con le lettere per Emily.
«La mia cotta, dici? Ah, sì, è tornata. O meglio: c’è sempre stata, si era solo nascosta nel baule di Dean. Dolce, non è vero? Le ho anche dato un nome, si chiama Carol. È gentile e andiamo d’accordo. Quasi sempre. Ok, lo ammetto, ci sopportiamo solo quando il diretto interessato non è nei paraggi.
Ho pensato come una matta negli ultimi giorni. Su una cosa avevi completamente ragione: penso troppo e penso male. È imbarazzante l’idea di essere innamorata di una persona del genere, così arrogante e piena di sè, ma credo proprio che sia così. Come ci si può innamorare di una persona come Dean, Lily? Perchè sì, i miei pensieri sconnessi mi hanno portata a credere che Carol si sia evoluta in qualcosa di più... intenso.
Non sai quanto mi senta stupida.
Quando leggi queste righe chiamami, sai come e quando.»
Avrei potuto tranquillamente telefonarle da scuola, ma non era il genere di cose di cui mi piaceva parlare ad alta voce. Il fatto di scriverlo e basta lo rendeva un po’ meno realistico, più fatiscente. Pronunciare quelle parole ad alta voce mi avrebbe messo il panico addosso e quella era l’ultima cosa che mi serviva quel giorno, come se il pensiero di dover cantare quella sera non fosse abbastanza.
“Ehi, Pan, la bevi quella?” tornai alla realtà, mentre Kameron mi correva incontro, additando la lattina di cocacola per la quale avevo fatto una fila immane al distributore – incredibile quanta gente bevesse bibite gassate per pranzo, in quella scuola!
Lo guardai stranita, aspettandomi da un momento all’altro qualche commentino allusivo a Dean, giusto per ricordarmi chi comandava. “Secondo te l’ho comprata per tenere fermo il tovagliolo?”
“Oh, avanti, sei lì ferma, non puoi essere assetata come me!”
“Mi spiace, grande atleta, ma...”
La pallina da tennis sfrecciò verso di me, mancò la mia testa per un pelo, e rimbalzò sull’albero alle mie spalle per poi finire lontano. Opera di Terrence, ovviamente, che in quel momento rideva tenendosi la pancia. “Che faccia hai fatto!” mi prese in giro.
Che faccia avevo fatto? Quella di una persona a cui avevano appena lanciato un proiettile a millemila chilometri orari dritto in faccia, forse? Un giorno o l’altro l’avrei strozzato!
Era un peccato che la nuova consapevolezza a proposito dei miei sentimenti non mi avesse trasformata in una persona zuccherosa e gentile, sarebbe stato meglio per tutti. Invece ero – evidentemente – ancora più acida di prima. Non avrei mai pensato che fosse umanamente possibile.
Alzai gli occhi al cielo, mentre Kameron correva a recuperare la palla.
Ne approfittai per agitare per bene la lattina intanto che non guardava. Insomma, io avevo fatto la fila per comprarla e l’avevo pagata. Una piccola vendetta era ciò che ci voleva dopo tutte le battutine di cui aveva costellato la mia esistenza negli ultimi giorni.
“Hai vinto!” esclamai al suo ritorno, porgendogli la coca-cola con un’espressione leggermente contrariata, giusto per non lasciar trasparire i miei reali intenti. Intimamente sapevo che se quella testa di sughero di Terrence Doyle avesse fatto la spia, gli avrei fatto ingoiare la lattina intera. Confidavo tuttavia nella sua travolgente passione per gli scherzi burloni.
Kameron sorrise entusiasta e lanciò la pallina da tennis a Phil, che si scambiò un’occhiata divertita con Terrence, il quale ridacchiò con aria malefica come se avesse appena preso parte alla genialata del secolo. Era la discrezione fatta persona.
Prima che Kam potesse insospettirsi, un paio di ragazze ci raggiunsero sorridenti. Lui prese una posa da ragazzo figo, che molto probabilmente gli aveva consigliato Joshua, mentre Bethany Peterson e la sua amica bionda e occhialuta trotterellavano verso di noi. Anzi, verso di me.
“Ehi, Penny!”
Oh, no, per carità! Penny proprio no. Il mio sorriso amichevole si congelò a quel soprannome e Bethany capì al volo l’antifona. “Come non detto: niente ‘Penny’” si corresse.
Ridacchiai, annuendo. “Sì, grazie”.
“Come va? Conosci Terry Donovan, vero?” domandò, indicando la sua amica.
La guardai per qualche istante e annuii, sorridendo con cortesia. “Sì. Theresa, giusto? Frequentiamo lo stesso corso di spagnolo”.
“Ohh, compagne di sospiri alla lezione del figone!” esclamò Beth allegramente.
EH?!?
“Ma cosa dici?” ringhiò Theresa; lanciò un’occhiata omicida all'amica e io risi forte, perfettamente in accordo con lei: che diavolo stava dicendo Bethany?
“Oh, e va bene, mi sono fatta prendere dall’entusiasmo” ammise la Peterson divertita. “Non vedo l’ora che sia oggi pomeriggio! Mi hanno detto che canterai con Dean McDonnel!” continuò, sempre entusiasta, ma anche evidentemente curiosa.
Fantastico, ora le voci giravano. Avrei dovuto aspettarmelo, in effetti. Chissà che voci erano. Il punto era che non c’era nulla da vociferare, purtroppo.
...Purtroppo? No, senza ‘purtroppo’. Era giusto così. Io mi sarei dovuta dimenticare del tutto dell’esistenza di quel... tizio. Ecco, ‘tizio’ era perfetto. Un termine perfettamente neutro. Stavo facendo progressi.
Tempo di pensare questa frase e la mia mente era già tornata ai pomeriggi precedenti, rivivendoli scena dopo scena. Come se non fossi circondata da gente e potessi permettermi di fantasticare ad occhi aperti.
Era stato tutto esattamente usuale. Durante le prove Dean non aveva aperto bocca se non per cantare e non mi aveva rivolto la parola se non per mandarmi al diavolo o rimproverarmi qualche errore. Tutto esattamente nella norma. Eppure nella mia testa era stato tutto estremamente emozionante. In senso positivo e negativo insieme. Ogni volta che mi guardava arrossivo e quando cantava mi fermavo ad osservarlo e mi dimenticavo di attaccare quando era il mio turno. E poi quella canzone. Non sarebbe mai più stata solo una canzone, sarebbe stata la canzone che mi faceva pensare a Dean e...
“Merda!”
L’esclamazione di Kameron disappannò il mio sguardo, giusto in tempo perché lo vedessi puntare il foro della lattina eruttante nella direzione opposta a se stesso. Gesto totalmente inutile, perché ormai era stato annaffiato a opera d’arte.
“Ah! Ops, l’avevo agitata, forse” commentai a voce alta, per sovrastare le risate sguaiate di Terrence e quelle più contenute di Phil e delle ragazze. Mi unii al coro, mentre Kameron mi guardava esterrefatto, indeciso se ridere anche lui o vendicarsi. Alla fine rise, avvicinandosi pericolosamente a me. “Mossa molto astuta” si complimentò, tirandomi su.
“Cosa hai... ? No!” Prima che potessi rendermene conto mi stava abbracciando e, naturalmente, il disegno artistico sulla sua t-shirt si era appena stampato, con qualche imprecisione, sulla mia. “Kameron!” protestai.
“E non è finita qui, simpaticona...” preannunciò, alzando la lattina ormai mezza vuota.
“No, ehi” mi allarmai. “Non è decisamente una buona idea, Kameron. Insomma, vuoi essere messo in punizione alla seconda settimana di scuola?”
Lui si strinse nelle spalle. “Sai qual è il problema!” rispose con noncuranza.
Stupido troglodita! “Ehm.” Dovevo trovare un altro modo per distrarlo. “Non... non vorrai riversarmi in testa quel... ehm, dissetante... nettare divino! Non stavi morendo di sete qualche secondo fa? Sei lunatico!”
Kameron rise e mi lasciò andare. “Hai ragione” proclamò, facendomi sospirare di sollievo. “Sarebbe uno spreco”.
“Certo che ho ragione!” esclamai, mentre mi affrettavo ad allontanarmi di qualche passo da lui, in caso cambiasse idea. “Io ho sempre ragione!” puntualizzai, giusto per non smentirmi mai.
Quando i ragazzi tornarono a dedicarsi al loro sport estremo – per me, che ogni tanto venivo bersagliata -, mi fu chiaro che, nonostante avessi scampato la doccia a base di coca-cola, avevo ancora una gatta da pelare. Quella gatta si chiamava Bethany Peterson e continuava a ridacchiare, facendo battute e domande, mentre la sua cara amica fissava con una vaga aria disgustata Kameron. Come se fosse una sorta di mostro a otto teste, per essere chiari. Precisiamo: non mi dava fastidio. Al contrario, l'unica che sembrava essere infastidita, lì, era proprio Theresa. Che Beth l'avesse obbligata a farci compagnia era più che evidente e in parte mi dispiaceva essere causa della sua insofferenza. D'altra parte, tuttavia, il suo palese astio nei confronti di Kameron affievoliva radicalmente la portata dei miei sensi di colpa. Fu solo per amor di tranquillità se, quando i ragazzi spedirono per l'ennesima volta la pallina da tennis nella nostra direzione e lei minacciò di farlo notare a qualche insegnante, non la mandai al diavolo. Ingoiai il rospo e rimasi in silenzio mentre Bethany pregava l'amica di non essere così severa.
...severa, pff. Mio nonno era severo, lei era intrattabile. E odiava Kameron. Come si può odiare Kameron? Mi appuntai mentalmente di chiedere informazioni a riguardo a Bethany, se quel pomeriggio l'avessi incontrata. Finalmente mi sarei tolta quell'assillante dubbio, forse.
 
L'idea che il paese potesse trasformarsi in un luogo allegro e festaiolo non mi aveva mai sfiorata. Quando dico ciò, intendo proprio che la cosa non mi era mai passata per la mente, non che credessi Sperdutolandia un posto triste o deprimente – e va bene, lo avevo pensato, ma non è questo il punto. Com’era accaduto ogni singola volta che avevo sottovalutato quel posto, Sperdutolandia anche quel giorno mi stupì.
Erano le cinque del pomeriggio e ancora il sole illuminava la piazza del paese, completamente animata e pullulante di abitanti. Non avevo mai visto quel posto così pieno di vita.
Un palco scenico dall'aria non molto stabile era stato posizionato di fronte alla chiesa e su di esso si stavano esibendo un gruppo di vecchietti di cui mi ero spesso occupata al bar, durante l'estate. Suonavano musica di altri tempi, musica che sapeva di vita di campagna e sacrifici, di giornate passate a spezzarsi la schiena nei campi e meravigliosi albe e tramonti.
Su qualche tavolo posto in luoghi strategici della piazza, le vecchie signore vendevano i loro dolci, le marmellate e le conserve fatte in casa, la frutta del loro orto che per qualche motivo non era già stata scambiata con altri prodotti.
In tutto questo, io me ne stavo in piedi di fronte ad uno dei recinti improvvisati, contenenti animali da vendere, e accarezzavo il muso di un tenero vitellino.
Quella versione di Sperdutolandia mi piaceva molto. Forse non mi era mai piaciuta tanto quanto in quel momento. Era tutto così allegro e tranquillo, genuino e spontaneo che quasi – quasi – non mi accorgevo dell'ansia che mi cresceva nel petto canzone dopo canzone. Da un momento all'altro – non sapevo quando esattamente – sarebbe toccato a me salire su quel palco scenico pericolante. Con Dean. E cantare. Davanti a tutti.
“Ma dove sono andati tutti?” Robin Lucas, quel piccolo e assillante Robin Lucas, aveva deciso di essere la mia ombra quel pomeriggio. Strano ma vero, la sua compagnia non mi dava alcun fastidio. Al contrario, sapere che, nonostante il tempo passato, fosse ancora affezionato a me, mi faceva piacere. Inoltre mi distraeva quando rischiavo di farmi prendere dal panico.
Mi strinsi nelle spalle, continuando a osservare rapita la mansueta tenerezza del vitellino nel recinto. “Non so. Aggie ha detto di aver dimenticato qualcosa a casa”.
Robin annuì, sporgendosi attraverso le transenne di legno che racchiudevano gli animali verso una pecora dall'aria annoiata per porgerle del fieno. “E Kameron?”
Mi strinsi nelle spalle, lanciandogli un'occhiata di sottecchi. “L'ha accompagnata: lei non ha la patente”.
“Tu sì?” domandò ancora lui.
Non capivo se stesse spianando il terreno per sganciare una rivelazione bomba o semplicemente fosse curioso. “Sì. Dove vuoi arrivare?”
Robin si aprì in un sorriso sornione e alzò il capo con orgoglio, voltandolo verso la mia direzione. “Be', dico solo che avresti potuto accompagnarla tu, invece...”
“Eccovi finalmente!” La comparsa di sua cugina Bethany interruppe il suo glorioso discorso, lasciandomi con un palmo di naso proprio nel momento in cui stavo per scoprire la sua grande verità. “Vi ho cercato dappertutto!”
“Te l'avevo detto che ero qui” brontolò Robin scontento quando la ragazza lo abbracciò da dietro, raggiante come sempre.
“Ciao” la salutai io, divertita dall'espressione indispettita del ragazzino. “Sei in servizio anche oggi?”
Bethany rise. “In effetti sì, ma oggi c'è anche Hayley che tiene i piccoli. Johnny era alle calcagna di Dean McDonnel l'ultima volta che l'ho visto – ah, eccoli là - e Robin... be', Bobbie non si trovava più!”
Lui roteò gli occhi, mentre la cugina lo stritolava in un secondo abbraccio pronunciando quella frase.
Non mi disturbai a trattenere una risata. Subito dopo, però, guardai automaticamente nella direzione da lei indicata e rabbrividii notando la diabolica accoppiata in giro per la piazza. Dean e Johnny. I miei incubi peggiori che ridevano con aria malignamente tranquilla in mezzo a quell'atmosfera vivace e spensierata. Nessuno a parte me notava quanto stonassero con l'atmosfera circostante? Nessuno si accorgeva di come Johnny si guardasse attorno in cerca della vittima giusta da strangolare o di quanto Dean fosse schifosamente attraent-...no. No, nessuno se ne accorgeva. Nemmeno io avrei dovuto, a dirla tutta.
Distolsi in fretta lo sguardo, ma non abbastanza perché il piccolo demone non si accorgesse che li stavo guardando. Una parte di me si chiese 'E ora?'. L'altra, quella più razionale, le rispose 'E ora nulla. Hai cinque anni più di lui, non puoi temerlo. Dov'è la tua dignità?'. La risposta era che, probabilmente, la mia dignità era stata perduta durante uno dei viaggi tra casa e scuola, magari per colpa di una delle geniali trovate di Terrence. In tutta onestà, non ero nemmeno certa di averne mai avuta una, ma... ma in pratica ero un dannato fascio di nervi. Il motivo era semplice. E, no, non aveva nulla a che vedere con il fatto che avessi appena pensato per l'ennesima volta che Dean fosse schifosamente attraente. In parte. La spiegazione che preferivo dare al mio momento di panico, preziosamente abbinato a una serie di pensieri sconnessi ed emozioni contrastanti, era strettamente legata a ciò che stava succedendo nei pressi del palco.
Il gruppo di anziani intenti a suonare musica folk stava scendendo, lasciando il posto a un paio di ragazzi che avevo già visto in giro. Si misero a parlottare tra loro, mentre Matthew, presentatore dell'evento, annunciava al microfono che avrebbero cantato per noi qualche storico pezzo dei Beatles. Proprio come aveva detto Dean.
“Sai, Bobbie, credo che...” Bethany ricominciò a parlare, attirando la mia attenzione.
“Smettila di chiamarmi così” protestò Robin, divincolandosi dal suo ennesimo abbraccio. “Fa schifo quel soprannome”.
“Ma che dici? Non è vero. Ti ho sempre chiamato così!” si accigliò la cugina, lanciandomi un'occhiata interrogativa.
In tutta risposta io mi strinsi nelle spalle. Io e i bambini non andavamo molto d'accordo. Per ottenere la simpatia di Robin avevo dovuto farmi spedire dei film western da casa e non credevo che questo potesse ritenersi un buon modo per stringere amicizia con chiunque. Insomma, era una sorta di ricatto, aveva un qualcosa di meschino. Non aveva senso chiedere aiuto a me, se voleva capire cosa gli passasse per la testa, questo era poco ma sicuro.
“Be', Bobbie non è adatto a un ragazzino della sua età, Beth. Bob è meglio” buttai lì infine, dando la prima spiegazione che mi passò per la mente. Spiegazione che sembrò soddisfare parecchio il piccolo Robin, perché annuì energicamente e incrociò le braccia osservando la cugina, come a sfidarla a contraddirmi. Lo trovavo estremamente buffo, a dirla tutta.
“Bob, eh? Come Bob l'aggiusta-tutto?” lo prese in giro Bethany.
“Quello non era Handy Manny?” Perché ero così informata sui cartoni animati per bambini?
“Anche Bob” mi corresse lei, divertita.
Robin sbuffò sonoramente e, dopo averla guardata male, si allontanò di corsa, lasciandoci lì a ridere della comicità della scena. Sicuramente sarebbe tornato da un momento all'altro.
Beth si appoggiò come me alla staccionata e mi sorrise. “Sei tesa?” mi domandò, cercando di essere amichevole.
Abbozzai un sorriso, scuotendo il capo. “Un po'” risposi soltanto. Avrei voluto essere più spigliata, almeno quanto lei lo era con me, ma c'era qualcosa che m’impediva di sentirmi del tutto a mio agio. Non sapevo cosa fosse e, probabilmente, era solo colpa delle mie paranoie, ma dover affrontare da sola qualcuno che conoscevo appena mi era difficile. Se ci fosse stato Kameron con me, probabilmente, non avrei avuto molti problemi a relazionarmi con qualcuno – conosciuto o meno -, ma in quelle circostanze...
“Canterai con Dean, no? Cosa canterete?”
Un'altra opzione era che fossi solamente troppo nervosa per quello che avrei dovuto fare di lì a poco. L'ansia cresceva minuto dopo minuto e stavo seriamente rischiando di impazzire. Non volevo pensarci – non dovevo. Dovevo fare qualcosa. Dovevo pensare ad altro, dovevo... “Beth, posso farti una domanda un po' strana?” sputai, senza rendermi davvero conto di quello che stavo facendo.
Rimase in silenzio qualche istante, poi annuì. “Certo. Almeno credo... Dimmi!” mi sorrise incoraggiante.
Presi un respiro profondo per farmi coraggio e mi decisi finalmente a porle la domanda che mi tormentava da un po' di tempo. Forse almeno lei mi avrebbe risposto. “Be', vedi... ho notato che Kameron non... sta simpatico a molti a scuola” borbottai, evitando di guardarla negli occhi.
Lei parve capire al volo a cosa mi stavo riferendo: “Parli del comportamento di Terry?”
Mi strinsi nelle spalle, annuendo lentamente. “Anche” risposi, per poi ridacchiare. Non che ci fosse nulla di divertente, ma non mi piaceva la tensione che si stava creando. O forse ero l'unica a percepirla perché l'argomento mi premeva particolarmente? “Ma non solo. Sembra non piacere quasi a nessuno”.
Bethany prese un respiro profondo e si sedette a terra, con la schiena appoggiata alla staccionata. “Vieni, ti spiego una cosa” propose, battendo una mano sul terreno ghiaioso.
Rimasi a guardarla qualche istante, pensando che in tutta probabilità qualche animale da fattoria si sarebbe avvicinato per brucare allegramente i nostri capelli, così facendo, ma alla fine obbedii. Mi sedetti al suo fianco e rimasi in ascolto.
Non c'era molto da spiegare, alla fin fine il discorso era chiaro e semplice. Dean – era ovvio che la colpa fosse sua, no? - era un ragazzo particolare e schivo. L'unica persona che in tutta la sua carriera scolastica fosse riuscita a penetrare il muro di arroganza che si era costruito intorno era stata Kameron.
Kam era sempre stato un ragazzino un po'... sciocco. Non brillava di intelligenza, ma era carino e disponibile con tutti. Al liceo, tuttavia, la fama di Dean aveva allontanato da lui gran parte dei compagni di classe. Il mezzano dei McDonnel intimoriva – coscientemente o meno non era dato saperlo – tutti i ragazzi più piccoli e questo a molti bastava come motivazione per evitare anche la compagnia del suo migliore amico. Poi erano successe delle cose. Dei litigi nei corridoi, un paio di zuffe tra compagni di classe e Dean McDonnel aveva iniziato a essere considerato un ragazzo violento, come se la sua aura da stronzo non fosse abbastanza evidente. “Non sono state poche le volte in cui Kameron si è esposto per difenderlo. Quando Dean ha finito la scuola, lui si è trovato completamente solo. Contro tutti, in un certo senso. A parte Terrence, ovviamente, lui è sempre così amichevole che non si è mai posto il problema di voltare le spalle a qualcuno.
C'erano due sentimenti che mi gonfiavano il petto in quel momento. Uno era un immenso dispiacere per quello che Kameron aveva dovuto sopportare a causa di Dean. Il secondo era un potente moto di orgoglio. Quante persone al posto di Kameron avrebbero continuato a difendere sempre e comunque il proprio migliore amico, finendo poi per rimanere soli? Sorrisi amaramente, pensando che era una fortuna che quel ragazzo fosse mio amico. “Quindi è per Dean. Lui non piace a nessuno e, siccome Kam lo difende, tutti odiano anche lui” sintetizzai, la voce atona e lo sguardo perso nel vuoto. Era incredibile quanto la gente fosse strana e immatura. E anche io lo ero, ne ero consapevole, ma non riuscivo a credere che le persone potessero essere così ottuse da ignorare totalmente qualcuno solo perché il suo migliore amico era oggettivamente uno stronzo. Uno stronzo con gli attributi e un senso di responsabilità non indifferente, tra l'altro. Chissà se si era mai sentito in colpa per tutta quella faccenda...
Bethany scosse energicamente il capo, notando il disappunto celato dietro alle mie parole. “Non è che lo odino, ecco. Terry non lo odia davvero, ha solo...”
“Un sacco di pregiudizi” conclusi per lei, guardandola negli occhi. “Non te ne sto facendo una colpa, Beth. Insomma, sicuramente c'è un perché se le cose stanno così. Ma non riesco a spiegarmelo. Lui è un ragazzo fantastico, ha sempre una buona parola per tutti. Ok, non sarà un genio, ma non è nemmeno stupido e...”
Una voce si fece strada prepotentemente nel nostro discorso, facendoci sobbalzare. “Oh, cavolo. Stavo per chiedere se steste parlando di me, ma ora che parlate di persone stupide non sono più così sicuro di volerlo sapere!”.
Alzai lo sguardo per incontrare quello svagato di Kameron, spuntato dal nulla con Agatha e Terrence al seguito.
“Parlavano di stupidi?” Aggie inarcò un sopracciglio, ficcandosi le mani nelle tasche del giubbotto di jeans. “Allora è proprio a te che si riferivano” concluse, poggiandosi alla staccionata come se nulla fosse.
Kameron le fece una linguaccia e noi altri ridemmo. Non fu necessario dire a Bethany che forse sarebbe stato meglio continuare la conversazione in un altro momento, mi bastò incrociare il suo sguardo per capire che aveva avuto il mio stesso pensiero.
Mi voltai di nuovo verso i miei amici, proprio mentre Kameron si gettava a sedere accanto a me. “Allora, Pan, sei pronta?”
“Oh, ti prego, non farmici nemmeno pensare...” brontolai, nascondendomi il volto tra le mani.
“Be', ma ormai tocca a voi!” trillò allegramente Terrence, con il solito tono gioioso e la delicatezza di un elefante ubriaco. “Perché ora tocca a me e Phil, poi...”
Lui e...? Avrebbero cantato anche quei due?
“Tu e Phil?” chiese Agatha. “Vi esibite anche voi?”
Terrence mise le mani sui fianchi e spinse il petto in avanti con aria orgogliosa. “Certo! Tocca a noi proprio appena finiscono di suonare Twist and Shout” proclamò sorridente.
Agatha inarcò le sopracciglia, soffiando una risata sarcastica, mentre il suo sguardo vagava tra la gente verso il palco. “Suppongo tu sappia che hanno appena concluso, allora”.
Kameron scoppiò a ridere per primo, mentre Terrence si rendeva conto di essere in ritardo e correva via, giusto un secondo prima che Matthew prendesse il microfono in mano per annunciare che “Terrence Doyle è atteso sul palco. Il suo amico Phil, qui, è piuttosto contrariato: dove ti sei cacciato?” riferì, ridacchiando. Sentendolo ridere, Bethany emise un patetico sospiro ammirato. Mi ritrovai a ridere, più per il sospiro della ragazza che per ciò che era appena accaduto.
Kameron balzò in piedi, allegro come solo lui sapeva essere in ogni circostanza. “Forza, andiamo a vedere da vicino!” propose, afferrando Aggie per un braccio e trascinandola via prima che potesse rifiutarsi categoricamente di andare da qualunque parte con lui. Cosa che, comunque, non si risparmiò di fare, mentre il ragazzo correva tra la gente con lei appresso.
Senza pensarci due volte, Bethany si alzò e attese che facessi lo stesso. Fu così che, cercando di non pensare al fatto che di lì a poco io avrei dovuto fare lo stesso, mi portai in prima fila assieme agli altri per vedere l'esibizione di quello svitato di Terrence. Prima di tutto, esordì inciampando nel filo del microfono, chiese scusa un'infinità di volta a Phil – che sembrava avrebbe preferito essere ovunque fuorché lì – e poi fece cenno a Matthew di far partire la musica. Pochi secondi dopo dalle casse esplosero le note iniziali dell'immortale “Surfing USA” e Terrence spalancò le braccia e piegò le ginocchia, fingendo di trovarsi su una tavola da surf.
A nulla servirono le occhiate ammonitrici di Phil, Terrence, mentre cantava a squarciagola e incitava tutti a fare altrettanto, continuava ad atteggiarsi e surfista californiano, sorridendo felice e ondeggiando a destra e a sinistra sul posto. Le risate di Kameron sovrastarono la musica in un primo momento, poi si fece prendere dal ritmo e, come aveva fatto quel pomeriggio a scuola, afferrò Agatha per i polsi e la trasportò con sé in una danza scatenata a cui lei faceva di tutto per sottrarsi, gridando aiuto. Quando Bethany si mise a ondeggiare a ritmo di musica al mio fianco, presa da un modo di entusiasmo – dovuto totalmente all'isteria pre esibizione -, la presi per mano a mia volta e ballai con lei nel modo più ridicolo e sconclusionato che riuscii.
In quel momento, pur non essendo perfettamente a mio agio con Bethany, mi sentii bene. La paura per ciò che stava per succedere era finita, almeno per il momento, nel dimenticatoio. Niente ansia, niente pensieri, niente Dean. C'era solo quella musica coinvolgente e una gran voglia di ridere e divertirmi. Non sapevo esattamente cosa mi fosse preso – una scarica di adrenalina, forse -, ma non importava. Andava bene così, mi stavo divertendo e Bethany, seppure un po' sorpresa dal mio slancio di pazzia, non sembrava affatto dispiaciuta che avessi finalmente preso un po' di confidenza con lei.
Poi, com'era ovvio che fosse, quel momento di allegria crollò miseramente. Più o meno nello stesso momento in cui Agatha riuscì a liberarsi dalla presa di Kameron, che non smetteva di ridere e cantare a squarciagola agitandosi in una danza improvvisata, quello che con qualche secondo di ritardo compresi essere Robin mi balzò sulla schiena, aggrappandosi e rischiando di farmi rovinare addosso a sua cugina. “Sei impazzito?” domandai, cercando di tenerlo su, con scarsi risultati. Aiutata da Bethany, lo rimisi coi piedi per terra, mentre Johnny e Dean, con mio sommo timore, si avvicinavano a noi.
“Volevo farti uno scherzo! Johnny ha detto che sarebbe stato divertente” si giustificò il ragazzino, con un sorriso sornione.
Lanciai un'occhiata al suo fratello maggiore, che mi fissava con aria di sfida. Avrei dovuto immaginarlo, forse. “Cercavi di farmi uccidere, moccioso?” sputai.
Il neo-adolescente inarcò un sopracciglio e incrociò le braccia. “Se così fosse, ci sarei già riuscito”.
Alzai gli occhi al cielo. Non mi era mancato per niente quel ragazzino pseudo-ribelle con tendenze da gangsta di quarta categoria.
A Dean la battuta parve piacer molto. “È ora di provarci, Johnny, io non la sopporto più” proclamò con un sogghigno. Quel commento riempì il moccioso di orgoglio, come dimostrava il suo ampio sorriso soddisfatto.
Strinsi le labbra con disappunto e mi voltai verso il palco, cercando di non far caso a loro. Pessima mossa, perché la vista di Terrence e Phil che strillavano nei microfoni mi ricordarono la mia – nostra – imminente esibizione. Senza rendermene conto, feci una smorfia terrorizzata e spostai nuovamente lo sguardo su qualcos'altro che, per ironia della sorte, risultò essere Dean. E la visione di Dean non aveva mai un effetto positivo sul mio sistema nervoso, mai. Specie quando, come in quel momento, mi osservava come se fossi un enorme e disgustoso scarafaggio sul pavimento del bagno. “Che c'è? Cosa ho fatto questa volta?” domandai con una vena di isteria nella voce.
“Ovviamente niente. Quando mai fai qualcosa?” rettificò lui, impassibile.
“Allora smettila di guardarmi in quel modo, sono già abbastanza nervosa”.
Lui alzò gli occhi al cielo e rise amaramente. “Oh, scusami principessa. Credevo fossi abituata a metterti in mostra. Non è una cosa che ti piace tanto?”
Ecco, era in quei momenti che la definizione che Joshua aveva dato di lui mi sembrava particolarmente azzeccata: biondo mestruato. In quel momento mi ricordava terribilmente mia madre in quel periodo del mese. Diventava saccente e iraconda ogni volta che aprivo bocca, anche quando non facevo sarcasmo gratuito. Finsi di non sentire Bethany sussurrare ad Aggie un incuriosito “Principessa?” a cui, per altro, lei non si diede la pena di rispondere.
“Qual è il tuo problema, Dean?” sbuffai. “Credi che io sia contenta di questa cosa? Sono anche stata l'ultima a scoprirlo!”
Lui fece una smorfia. “Il mio fratellino ti ha fatto proprio una bella sorpresa, allora, non c'è che dire”.
Oh, sì, davvero meravigliosa. Cantare in pubblico era sempre stato il mio sogno. Ma esibirmi davanti a una folla di campagnoli semi sconosciuti, accompagnata dalla mia cotta isterica e stronza fino al midollo, andava davvero oltre ogni mia aspettativa. “Sai cosa?” sbottai, allargando le braccia. “Potremmo far saltare tutto. Sarebbe meglio per tutti, no? Avresti la tua vendetta sulla dannata principessa esibizionista e tu potresti farti gli affari tuoi”.
Lo sguardo castano di Dean si accese di rabbia. “Oh, sì, certo, è così che risolvono le cose in città? Oppure è una prerogativa di voi Fletcher? Quando le cose si mettono male, girate i tacchi e ve ne andate!”
Quelle parole furono uno schiaffo in pieno viso. Rimasi immobile qualche istante, fissandolo sconvolta. Di cosa stava parlando? Cosa mi stava rinfacciando?
Bethany, discretamente, prese Robin per mano e se andò, facendo cenno a Robin di seguirla, il quale, per qualche motivo, obbedì senza fiatare. Con la coda dell'occhio notai appena Agatha lanciare un'occhiata a Kameron, che aveva smesso di agitarsi per prestare attenzione a noi.
“Che cosa...?” inizia, ma lui non mi lasciò finire.
“Non è così che vanno le cose. Non puoi lasciar perdere solo perché ti fa comodo. Hai paura? Sono solo cavoli tuoi. Abbiamo perso fin troppo tempo per questa cosa, non puoi tirarti indietro adesso. Non farò la figura dell'idiota solo perché una principessina viziata ed egocentrica come te se la fa sotto”.
Un altro schiaffo. Continuava ad aggredirmi con rabbia e, seppure non avessimo mai avuto un bel rapporto, non capivo perché se la stesse prendendo con me a quel modo.
“Dean, avanti, smettila” intervenne Agatha, guardandomi con preoccupazione.
“Non t’immischiare, tu” sbottò lui, senza smettere di fissarmi con disprezzo.
Il modo in cui parlò a sua sorella mi fece ribollire di rabbia, facendo esplodere la mia reazione a quell'immotivata sfuriata. “Sarò anche una principessina viziata ed egocentrica, ma per lo meno so chi merita il mio rispetto e chi no.”
“Scommetto che io non lo merito”.
“Bravo, hai vinto! Il tuo ego sta facendo i salti mortali, vero? Da dove vengo io – il paese degli unicorni, hai presente? - ci sono stronzi dappertutto, Dean, ma ti assicuro che non ho mai conosciuto una persona più insensibile, egoista e arrogante di te” sibilai tra i denti, senza sapere bene se la mia voce potesse essere udita o meno al di sopra della musica.
Ma lui capì benissimo. Eccome se capì. Mi guardò con superiorità ancora una volta, prima di ridermi apertamente in faccia. “Be', principessa” commentò a quel punto, incrociando le braccia. “forse avresti dovuto scegliere meglio di chi innamorarti, allora. Io della tua cotta non me ne faccio proprio nulla, quindi fossi in te non ci penserei più e me ne tornerei a casa. È così che affrontate i problemi voi di città dopotutto, no? Faresti un favore a tutti quanti andandotene”.
E lì scoppiai. O meglio, la mia testa scoppiò. Una consapevolezza si fece strada nella mia mente, spegnendo qualunque pensiero razionale: Dean sapeva. Sapeva della mia cotta, sapeva che ero innamorata di lui. Non mi chiesi come lo avesse scoperto, in quel momento non importava. Mi sentivo così profondamente umiliata che avrei davvero voluto sparire dalla faccia della terra.
Proprio come aveva detto lui, senza nemmeno rendermi conto che così facendo gli stavo dimostrando di aver ragione, girai su tacchi e mi allontanai a grandi passi.
Per la seconda volta da quando ero arrivata a Sperdutolandia, lasciavo a piedi il paese, lasciandomi tutto alle spalle, bisognosa di stare da sola e di sfogare quella maledetta voglia di piangere che mi stringeva forte la gola.


In der Ecke - Nell'angolo:
Ed eccomi di ritorno con i font tutti incasinati! Sono proprio io, signore e signori. :3
...
...
Niente torce e forconi, vi prego! *si nasconde dietro Kam, che è carino e coccoloso* 
Ho tante cose per cui dovrei scusarmi...
Per il ritardo, tanto per cominciare (e checché ne dica la mia beta, non è affatto colpa sua: ci sono cose che hanno la priorità su C&J e ne sono pienamente consapevole). Perché anche questa volta non risponderò alle recensioni e mi dispiace da morire, perché le adoro tutte e mi danno la voglia di continuare a scrivere questa storia - che ormai, sì, si avvicina alla fine: questo capitolo è l'ultimo prima della parte finale (due o tre capitoli, circa).
Per star riempiendo il mio profilo con pseudo flash/OS estremamente sciocche e avervi lasciato credere che questa storia fosse abbandonata. Be', non lo è, gente, ve lo giuro su qualunque cosa vogliate che io giuro. Non abbandonerò C&J, è troppo importante.
Detto ciò, devo scusarmi anche per la piega che stanno prendendo le cose nella storia, credo. Ma per quest'ultima cosa non m scuserò, perché, insomma, conoscete Dean, conoscete Pan e sono sicura che sapeste fino dal principio che una cosa del genere sarebbe successa. XD
Niente, che dire? Che vi adoro, se siete tornate a leggermi anche questa volta, se ancora sopportate me e la mia storia (o almeno lei, poverina^^), se ancora siete così gentili da volermi recensire nonostante non riesca più a rispondervi. Grazie a tutte, di cuore! Grazie a Mary che mi dà una mano con il betareading e... be', spero che la storia vi sia piaciuta! ^^

Se volete fare due chiacchiere con quella timidona della sottoscritta, mi trovate su Facebook (Yvaine Efp), sul gruppo FB (Per la barba di Merlino, Pan!), su Twitter (@yvaine0mich) e su Ask.fm ( 
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Grazie a tutte di nuovo e mi scuso di cuore per ciò che ho elencato sopra. ♥

Mich

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Capitolo 40
*** 40 ***


Cows and jeans
 
40
 
 

Camminavo alla cieca lungo quella maledetta strada ciottolata che portava fuori dal paese. Si poteva ancora chiaramente la musica della canzone cantata di Phil e Terrence, ma la percepivo solo passivamente, senza che entrasse davvero nella mia testa. Un caotico bombardamento di delusione, tradimento e umiliazione mi rimbombavano nel cervello impedendomi di realizzare o pensare qualunque cosa.
“Pan!”.

Non mi voltai neppure. L'ultima cosa che volevo in quel momento era vedere qualcuno, anche se si trattava di Kameron. Avevo bisogno di stare da sola, di … di... non lo sapevo di cosa avevo bisogno. Di dormire, probabilmente. Era l'unica soluzione che riusciva a venirmi in mente. Cos'altro avrebbe potuto attutire tutte quell'accavallarsi di pensieri negativi? Avevo bisogno di un rilassante sonno senza sogni. Avevo bisogno di svegliarmi rigenerata, dimentica dell'umiliazione che mi si era insinuata fin dentro le ossa.
“Pan, avanti, dove stai andando?”.
Allungai il passo, nel vano tentativo di seminarlo.
Dove stavo andando? A casa probabilmente. Con un pizzico di fortuna mi sarei persa e sarei rimasta da sola tutta la notte e magari anche tutto il giorno successivo.
Il nodo che sentivo nella gola si strinse fino a farmi quasi mancare il fiato. Non volevo piangere. Non volevo dare a Dean la soddisfazione di ferirmi, non volevo. E poi c'era quello stupido di Kameron, che evidentemente non riusciva a capire che volevo stare da sola. Continuava a trottarmi dietro come uno stupido cavallo e, se anche avessi voluto lasciarmi andare, non avrei mai potuto piangere davanti a lui. Davanti a nessuno. Non l'avrei fatto.
“Pan...”.
Una mano si posò sulla mia spalla. Come scottata, la scrollai via, stizzita. “Vai al diavolo pure tu!” Non sapevo nemmeno io perché gli avessi risposto. Una parte di me aveva deciso fin dal primo momento di ignorarlo e aspettare che capisse da solo che non era il momento per farmi compagnia. C'era un'altra parte, evidentemente, consapevole del suo essere un po' tardo, che aveva compreso quanto fosse inutile aspettare che facesse due più due.
Feci ancora qualche passo, spedita, poi mi fermai; un dubbio si era insinuato nella mia mente e la mia rabbia lo stava per sputar fuori: “Perché glielo hai detto, si può sapere?”.
Gli davo ancora le spalle, ma potevo immaginare con facilità l'espressione ebete di Kameron alle mie parole. “Cosa?”.
“Lo sai benissimo cosa! Lo sapevi solo tu, Kameron, solo tu!” sibilai, furiosa. Perché? Perché aveva avuto la geniale idea di andare a spifferargli della mia stupidissima cotta? No, anzi, non era più corretto chiamarla così. Perché io ero schifosamente innamorata di Dean. Esserne consapevole faceva male, forse tanto male quanto il suo pubblico rifiuto, tanto male quanto l'idea che Kam avesse tradito la mia fiducia. Da tutti me lo sarei aspettata, ma da lui...
“No, aspetta un minuto”. Se avessi avuto la lucidità di fare del sarcasmo, probabilmente a quel punto gli avrei chiesto se i pigri criceti dentro la sua testa si fossero messi a correre sulla ruota. Ma non ce l'avevo. Non riuscivo a formulare un solo pensiero coerente, i miei neuroni venivano spintonati a destra e a sinistra, caoticamente, dalla quantità industriale di sentimenti negativi che mi si agitavano in testa. “Non sono stato io a dirglielo, Pan!”.
“E chi allora? Emily?”.
“Come faccio a saperlo io? Bethany, magari ha...”.
Emisi un ringhio carico di frustrazione. “Non lo sapeva! Non lo sapeva nessuno, solo tu!” strillai.
Improvvisamente mi sentivo fin troppo fragile. Lo stomaco faceva un male cane, tremavo come una foglia. Mi piegai su me stessa, rimanendo china sulle ginocchia. Senza che potessi evitarlo, le lacrime avevano preso a rigarmi il volto. Avevano vinto loro. Non ero capace nemmeno di trattenerle.
Forse Dean aveva ragione, forse l'unica cosa che sapevo fare era fuggire i miei problemi, evitarli, scansarli. Non sapevo affrontare la vita a testa alta. Quando ci provavo, combinavo solo guai.
E me la stavo prendendo con Kameron come se tutto ciò fosse stata colpa sua. Come se il caratteraccio del suo migliore amico fosse un suo errore, come se lui avesse potuto cambiare i suoi sentimenti nei miei confronti o magari i miei e non l'avesse fatto per capriccio.
I miei stupidissimi singhiozzi furono l'unico suono udibile per qualche istante, assieme ad un terribile fruscio di qualcosa che si muoveva tra le sterpaglie del fosso. Mi faceva male, malissimo la testa, il sangue mi pulsava nelle orecchie e non riuscivo a calmarmi nemmeno quel poco che bastava per ordinare a me stessa di smettere di frignare. Ero consapevole che tanto non ci sarei riuscita.
Mi sembrava tutto così nero, tutto così sbagliato, così terribile. Tutto e niente, perché non riuscivo a pensare in maniera abbastanza lucida da capire cosa non andasse, cosa mi facesse stare così male.
Poi venne il suono dei pensanti passi di Kameron sulla ghiaia. Si fermarono proprio accanto a me. L'istante successivo stavo piangendo come una fontana stretta tra le sue braccia, in mezzo al nulla, mentre il sole decideva che era ora di andare a dormire, perché di melodrammi sul piccolo schermo di Sperdutolandia ne aveva visti abbastanza per quel giorno.
In mezzo a tutto quel turbinante casino che imperava nella mia testa, solo un pensiero era nitido: Kameron c'era; c'era sempre stato da quando l'avevo conosciuto e non mi avrebbe mai lasciata affogare in me stessa. E io mi ci stavo aggrappando con tutte le mie forze, come nella mia vita mi ero aggrappata solo ad Emily.

Quando tornai a casa, le sorprese per quel giorno non erano ancora finite. In camera mia trovai un quaderno aperto, gettato malamente sul pavimento. Seppure io avessi poca cura delle mie cose e non fossi esattamente la persona più ordinata del mondo, la cosa mi parve strana. Ma ogni incertezza svanì quando mi accorsi che quello non era un quaderno qualunque, ma il mio diario, uno di quelli che, una volta pieni fino all'ultima pagina, finivano in un pacco e viaggiavano via posta fino alla città, fino ad Emily.
Quando capii il perché della sua insolita posizione e la collegai a ciò che era successo poco prima in paese, non potei che scoppiare di nuovo: Dean aveva letto il mio diario.
Aveva violato la mia privacy, letto i miei pensieri, i miei sfoghi, aveva spalancato le porte del mio cervello ed era andato a farci una passeggiata all'interno. Quanto aveva letto? Cosa, in particolare? Sicuramente il momento in cui avevo ammesso di essere innamorata di lui.
Non ricordo esattamente cosa successe poi. Oggi ho un vago ricordo di aver lasciato il diario aperto sul letto di Dean su una pagina pulita su cui avevo scritto uno stizzito “Buona lettura, stronzo!”. Non oso nemmeno chiedermi se lui abbia poi letto o meno ciò che non aveva già letto in precedenza. Era il mio ultimo pensiero in quel momento e credo non valga la pena di domandarselo ora. Ciò che importa è che da quel giorno le cose cambiarono radicalmente.
La delusione per ciò che era successo era stata così grande che il mio cervellino orgoglioso decise di cancellare Dean dalla mia vita.
Incredibilmente, fu proprio quello che feci.
Non gli rivolsi più la parola volontariamente, non risposi più alle sue provocazioni, non lo chiamai più 'Trenino Thomas' e mi sforzai di non parlare più di lui.
Dean McDonnel diventò un'ombra, una delle tante sfumature imprecise e fin troppo appariscenti che si notano con la coda dell'occhio quando ci si sforza di non guardare qualcosa o qualcuno. Era proprio ciò che facevo: sforzarmi di chiuderlo fuori dalla mia vita. Non era l'operazione più semplice e intelligente del mondo, specie se si considera che abitavamo insieme, ma era una di quelle decisioni definitive. Un'impresa da donne ferite, disposte a tutto e di più pur di soddisfare la propria sete di vendetta e attestare la propria superiorità.
Le nostre quotidiane discussioni di limitarono ad un “Mi passi il sale?”, “Mh”.
Era evidente che Kameron trovasse questa soluzione sciocca e improbabile, ma dopo avermi visto piangere in quel modo, come mi aveva confessato un giorno in collegamento viva voce con Emily nel giardino della scuola, aveva deciso di non immischiarsi nella faccenda. Era roba da donne, aveva detto.
Agatha non si espresse mai a riguardo, non sapevo come la pensasse, ma, sinceramente, qualunque fosse stato il suo parere, io ormai ero decisa a continuare per la mia strada. Dovevo cancellarlo dalla mia vita.
Non che fosse facile. Per quanto cercassi di ignorarlo, non rispondere alle provocazioni, Dean era sempre nella mia testa, nei miei pensieri. Continuavo a scacciarlo malamente; a volte, quando ero sola, scuotevo ostinatamente il capo fino a che non mi girava a testa nello sciocco tentativo di sbriciolare ogni pensiero che lo riguardava. La delusione che mi era stata inflitta, la rabbia che provavo nei suoi confronti mi aiutava a non calcolarlo quando era al mio fianco, a non parlargli e a rispondergli a monosillabi quando proprio non potevo evitare di aprire bocca. Ma quando lui non c'era, compariva nei miei sogni, si intrufolava nelle mie fantasie nei momenti in cui, mentre studiavo, la mia mente prendeva il volo. Inutile dire che per evitare che cose del genere succedessero, cercavo di tenermi impegnata in altre attività. In un primo momento avevo optato per la cucina, ma la mia incapacità doveva essere qualcosa di troppo profondamente radicato in me, perché per quanto mi impegnassi non riuscivo mai a preparare un piatto che potesse essere gustato senza storcere il naso o, in alternativa, chiedersi quando esattamente Rubeus Hagrid ci si fosse seduto sopra.
Constatato che imparare a cucina per me era una battaglia persa in partenza, mi dedicai ad una diversa, fruttuosa e divertente attività: cercare di capire se ci fosse qualcuno nel cuore di Kameron.
Dopo qualche tentativo di prenderlo per sfinimento e convincerlo a dirmi spontaneamente a chi appartenesse il suo cuore, avevo optato per ricorrere al mio subdolo lato da femmina abbindolatrice. Ecco perché, dopo aver appurato che pur ammiccando a quasi tutte le ragazze della scuola, nessuna di loro gli interessava davvero, avevo intuito – andando per esclusione – che probabilmente l'unica che gli piacesse davvero era quella con cui meno andava d'accordo. Ovvero...
“Aggie non era a pranzo oggi” buttai lì un pomeriggio, mentre facevamo i compiti assieme. La cucina di nonno Abe, quando Dean lavorava da qualche altra parte - lontano da me, da noi, dalla mia pace interiore -, diventava un ottimo luogo in cui passare il tempo, accogliente e caldo al punto giusto, visto che il forno era costantemente acceso per cuocere qualche meraviglia del nonno o riscaldare qualcosa preparatoci da Ginger.
Non saprei dire esattamente perché avessi deciso che Kameron avesse una cotta proprio per lei, ma da un po' di tempo a quella parte – precisamente da quel terribile ventitrè settembre e dalle allusioni di Robin – avevo una pulce nell'orecchio. Osservando come battibeccavano e le parole che usavano per apostrofarsi, era chiaro che tra quei due ci fosse del tenero. Del tenero inespresso, ma sempre di tenero si trattava.
Kameron si strinse nelle spalle, giochicchiando distrattamente con una penna. “Aggie chi?” Naturalmente il mio caro amico faceva di tutto per mettermi fuori strada; per qualche assurdo motivo l'idea che io venissi a conoscenza di certe informazioni private al suo riguardo non gli piaceva molto. Il che era assurdo, perché lui sapeva benissimo della mia cotta! Ma a questo non era il caso di pensare.
Aggrottai le sopracciglia. Che razza di domanda era? “Come sarebbe 'chi'? Agatha!”.
“Sì, ma quale Agatha? Agatha del corso di spagnolo o...”.
Chi diavolo è Agatha del corso di spagnolo? “La nostra Agatha!” insistetti, lanciandogli un'occhiata eloquente: quella messinscena era davvero ridicola e non faceva che agitare la pulce nel mio orecchio.
“Ah, quella del corso di spagnolo, quindi” concluse in un lampo di genio terribilmente poco credibile.
Sbuffai e gli lanciai la mia gomma da cancellare. “Ma quale Agatha del corso di spagnolo! Aggie! La nostra Aggie! La tua Aggie!” sbottai. Incrociai le braccia e avevo tutta l'intenzione di lanciargli un'occhiataccia, quando, vedendolo boccheggiare, la meraviglia ebbe la meglio.
“M-mia? Ma-ma cosa dici? Io non ho nessuna...” si bloccò, arrossendo appena in zona orecchie.
E Pan Fletcher prende il Boccino d'Oro! La partita è finita, signori! Tassorosso vince!
Risi forte, allegra. “Oh, andiamo, Kam! Hai capito benissimo di chi parlo!”.
Lui aprì bocca per dire qualcosa, guardandomi dritto negli occhi. Poi però distolse lo sguardo e ridacchiò, palesando il proprio imbarazzo. “Be', ma questo non significa proprio niente, no? Stavo solo cercando di … prenderti in giro”.
Sì, appunto: stava cercando di prendermi in giro. “Ah-ha, certo. Hai una mucca di nome Agatha o sbaglio?” gli ricordai, inarcando le sopracciglia con fare saccente.
Kameron mi fissò qualche istante, aprì la bocca, poi la richiuse. “Vacca” mi corresse infine.
Roteai gli occhi. “Mucca”.
“Vacca! Si chiamano vacche!” insistette, stringendosi nelle spalle.
“E con questo?” sbottai, battendo le mani sul tavolo. “Io mica ti definisco Homo Sapiens! Non cercare di cambiare argomento”.
“Non sto cercando di cambiare argomento, è che un discorso tira l'altro” puntualizzò lui con aria da intellettuale noncurante delle quisquilie di cui si stava disquisendo.
Alzai di nuovo gli occhi al soffitto. “La mia presenza ti influenza troppo, stai diventando saccente” commentai, con il suo stesso tono. “Ma comunque”, pausa per dare enfasi, “sei arrossito!” strillai, puntandogli un dito contro e contemporaneamente sporgendomi un po' sul tavolo.
Lui sgranò gli occhi – un po' per la sorpresa e un po' per lo spavento – e scosse ostinatamente il capo: “Ma certo che no! Perché dovrei arrossire quando mi danno del saccente?”.
Ridacchiai, mettendo su un sorrisetto irriverente. “Ritiro tutto: la mia presenza non ti influenza abbastanza. Io sono molto più brava a svicolare” constatai.
“Tu dici? Eppure ti sto portando a parlare d'altro...”.
Risi di nuovo, questa volta più forte. Se anche non me ne fossi accorta, lui me l'aveva appena svelato. E io me ne ero accorta, giuro. “Kam, ma fammi il piacere!”.
“Fammene uno tu: smettila con questa storia!” bofonchiò lui, intuendo che di quel passo non sarebbe arrivato da nessuna parte. Lo stavo mettendo con le spalle al muro – metaforicamente parlando, perché fisicamente non sarei mai riuscita a farlo: lui era troppo grosso, troppo muscoloso, troppo alto e io troppo pigra.
“Non capisco perché tu non voglia ammetterlo”.
Questa volta fu lui a ridacchiare, rivolgendomi un'occhiata di superiorità. “Come se tu fossi corsa a dirmelo fin da subito, quando hai capito che...”.
“Questo non c'entra proprio niente” precisai, incrociando le braccia con stizza. Ora che c'entravamo io e la mia vecchia cotta? “La situazione è completamente diversa”.
“Ah sì? E perché?” mi sfidò lui, assumendo la mia stessa posizione. Sembravamo vagamente due bambinetti delle elementari nel ben mezzo di un bisticcio per decidere quale, tra la blu e quella rossa, fosse la penna migliore. Ed era la blu, chiaramente.
“Perché tu sei un ragazzo!”.
“E tu una ragazza!”.
“Oh, ma che occhio di lince!” mi congratulai, fulminandolo con lo sguardo.
Lui rise e continuò: “Non è esattamente la stessa cosa?”.
“No, Kameron. Noi ragazze, nella maggior parte dei casi, abbiamo una cosuccia che voi non avete...”.
“Il...?” spostò lo sguardo sulla mia maglietta.
“IL CERVELLO!” sbottai, sistemando le braccia a nascondere il mio praticamente inesistente seno da sguardi poco discreti. Certo che a volte quel ragazzo diventava particolarmente troglodita. “Imbecille. Questa ne è la prova”.
“Ok, ammesso e non concesso che voi abbiate il cervello e noi no” continuò Kameron. “Allora? Dove sta la differenza?”.
“Tu sei il suo migliore amico, maledizione” soffiai, irritata dalla piega che stava prendendo quella conversazione. Non mi piaceva parlare di Dean, ultimamente lo facevo pochissimo e le poche volte che capitava l'argomento mi innervosiva sempre fin troppo.
Kameron sbuffò, prendendo improvvisamente – e senza alcuna ragione apparente – a cercare chissà cosa nel suo astuccio. “Ma sono anche amico tuo”.
“Questo è vero, ed è il motivo per cui non capisco perché tu non voglia ammettere di avere una cotta per Aggie”.
“Senti chi parla, tu non lo ammettevi nemmeno a te stessa”.
Mi abbandonai contro lo schienale della sedia, esasperata. “Senti, hai finito di girare il coltello nella piaga?”. Perché doveva continuare a ricordarmelo? Stavamo parlando di lui e Agatha, non di me e... quell'altro.
“Certo” rispose, ridacchiando. “Oh, ecco!” esclamò, trionfante, estraendo qualcosa dalla bustina e stringendola poi nel pugno.
“Il tuo cervello?” mi informai, con una smorfia infastidita. Perché cercavo di parlare con lui, se lui era impegnato nella sua personale caccia al tesoro?
Kameron mi fece una linguaccia, poi mi mostrò una monetina da qualche centesimo con un sorriso sornione e orgoglioso. Nemmeno avesse trovato uno Zellino di bronzo, insomma. Prima che potessi esprimere in qualche modo il mio sconcerto nei confronti del suo assurdo entusiasmo, lui cominciò a giochicchiare con la monetina, tutto contento. La lanciava in aria e poi la riacciuffava, poi ripeteva il gesto. Continuò con quel procedimento per almeno due minuti, conclusi i quali io optai per rivolgere la mia attenzione agli ultimi esercizi appena svolti, senza parole.
Poi però ecco che...
“GUARDA, PAN!” strillò Kameron, come se avesse appena scoperto una meravigliosa verità.
Alzai lo sguardo per incontrare il suo, allegro, mentre si passava le enormi mani tra i capelli. “Hai i pidocchi?” domandai, sarcastica.
Lui rise. “Scema” mi etichettò. “Guarda”.
E lo guardai. Lo osservai prendere in mano la sua amata monetina, lanciarla in aria per l'ennesima volta e colpirla con la testa, dove sparì in mezzo alla sua non troppo fluente chioma castana. Poi scrollò energicamente il capo, lanciandola dall'altra parte della stanza. Quando sentì il rumore del metallo che cadeva sul pavimento, scoppiò a ridere di gusto, come se avesse fatto la cosa più divertente del mondo. “Hai visto?”.
Ero così sconcertata dall'assurdità di quella scena, che non potei non scoppiare a ridere con lui, tanto da farmi venire le lacrime agli occhi e il mal di pancia. Perché la sua risata era sempre stata un vortice che mi trascinava nei suoi abissi e la situazione non era affatto cambiata. Col senno di poi, posso assicurarvi che non sarebbe mai cambiata.

“A Kameron piace Ag-”.
“CHIUDI IL BECCO!”.
“...Aggiustare le marmitte delle macchine. Lo sapevi, Lily?”.
Kameron mi guardò male, poi sospirò, mentre si guardava attorno per verificare che nessuno stesse ascoltando la conversazione.
Altro giorno, altra pausa pranzo, stesso argomento: Kam e la sua cotta per Aggie. Con l'arrivo dell'inverno, avevamo optato per smettere di accamparci all'aria aperta, per cui il nostro pranzo si svolgeva ora sulle scale interne dell'ultimo piano – quelle che portavano sul tetto e quindi inutilizzate. I gradini non erano esattamente comodi, ma la temperatura dentro la scuola, per lo meno, non rasentava lo zero. Probabilmente non era veramente così freddo, ma Kameron non aveva saputo resistere al mio sfoggio della mia passione per il lagnarmi, così avevamo trovato una postazione alternativa.
“Certo, è una passione insolita” commentò Emily divertita. Riuscivo quasi a figurarmela, raggomitolata sulla tazza del gabinetto nel bagno delle ragazze, ad alzare i piedi per non farsi vedere dall'esterno ogni volta che sentiva qualcuno avvicinarsi.
“Vero?” risi, voltandomi per sorridere raggiante a Kameron. “Dicci, Kam, quando hai scoperto questa tua vocazione?”.
Lui si grattò una guancia. “Mah, non saprei. Temo di averlo saputo solo ora” rispose. Aveva il volto arrossato per l'imbarazzo causatogli dalla mia quasi-rivelazione pronunciata a voce troppo alta; aveva un'aria tremendamente tenera, così impacciato e a disagio com'era.
“Oh, avanti Kam!” lo spronai, dandogli di gomito. “Con noi non hai bisogno di fare il timidone!”.
“Non sto facendo il timido!”.
“Già” la voce di Emily, leggermente distorta dal vivavoce, confermò la mia versione. “Inoltre questa è una conversazione che abbiamo già avuto per quanto riguarda Pan, è giusto essere equi: ora è il tuo turno” proclamò, pragmatica e convincente come solo lei sapeva essere. Io annuii vigorosamente, soddisfatta del fatto che le cose stessero andando come volevo io, una volta tanto. “Esatto!” dissi, quando mi ricordai che lei non poteva vedere il mio gesto.
“E quando sarebbe il tuo turno, Emily?”.
Ci fu un attimo di silenzio, nel quale probabilmente lei aveva boccheggiato la sua improbabile scusa senza riuscire a pronunciarla. “Questa domanda non è assolutamente pertinente! Stiamo parlando di te ora” riuscì a dire infine, in tono leggermente più acuto del solito. Forse era persino arrossita.
“Già. In ogni caso, Kam, se vuoi passo parlarti io di quanto Matt sia carino, disponibile, dei suoi meravigliosi gusti musicali, dei suoi...”.
“Dacci un taglio!” mi zittì Emily brusca. “Sei troppo di buon umore oggi. Si può sapere cosa ti prende? Non puoi mica farti sempre gli affari degli altri” mi rimproverò, in un tono che di serio aveva ben poco, nonostante cercasse ostentatamente di esserlo.
Kameron sorrise trionfante: ora la mia migliore amica traditrice sembrava essersi schierata dalla sua parte. “Sai cosa ti dico, Emily?”.
“Cosa?” domandammo in coro io e lei.
“Che ora io e te ci facciamo quattro chiacchiere!” proclamò Kam. Prima che potessi rendermi conto di cosa quella frase volesse dire, lui mi aveva già rubato il telefono dalle mani e, tolto il vivavoce, si stava allontanando per parlare in tutta tranquillità con la mia migliore amica traditrice. Anzi erano due migliori amici traditori. “Ehi!” protestai a voce alta, il mio panino imbottito stretto in una mano e l'espressione ebete di chi era stato brutalmente gabbato.
“Se suona la campana porti la mia roba in classe?”.
Oh, ma certo. Ci mancava solo che facessi il facchino per conto suo, mentre sperperava le mie ricariche telefoniche per parlare con Emily. “Puoi scordartelo! E ridammi subito quel telef-”, mi zittì rumorosamente con uno “Shhhht!”, poi scosse il capo: “Non lo sai che non si disturba la gente al telefono?”.
Incrociai le braccia con stizza, incredula. Stava succedendo davvero? Era assurdo! Non sapevo se ridere o mandarlo a quel paese. In mancanza di un'idea precisa sul da farsi, optai per un “Ma perché non te ne vai al diavolo?”.
“Appena riaggancio!” mi assicurò, per poi scoppiare a ridere.
A nulla valsero i miei tentativi di arrampicarmi sulla sua schiena per riprendere ciò che mi spettava e tanto meno quelli di origliare la conversazione. Quei due continuavano a confabulare di chissà cosa alle mie spalle, sapendo benissimo di starmi facendo impazzire e se la ridevano beatamente alla faccia mia – questo era chiaro, anche grazie alle continue prese in giro di Kameron.
Il lato positivo di tutto ciò era che Emily aveva ragione: ero davvero di buon umore quel giorno. Forse perché alla mattina, grazie a Merlino, non avevo affatto incrociato Dean per casa, forse perché la consapevolezza che tra Kameron e Aggie ci potesse essere del tenero mi piaceva più del dovuto – a pensarci, sarebbero potuti essere davvero una bella coppia -, o forse semplicemente perché la sindrome premestruale era ancora lontana, come avevo piacevolmente scoperto quel giorno consultando il diario scolastico durante l'ora di storia.
Nonostante ogni tanto la faccenda “Dean” ancora mi bruciasse – e parecchio –, in quel momento capii che non avevo affatto bisogno di lui per essere felice; non avevo bisogno del suo affetto, della sua considerazione, di parlarci o anche solo di vederlo. Forse la delusione e la violazione della privacy subite erano il giusto punto di partenza per chiudere Carol in un cassetto e dimenticarmi della sua esistenza. Una cosa era già stata decisa: Dean sarebbe stato chiuso fuori dalla mia vita; coinquilini o meno, nessuno poteva obbligarmi ad avere a che fare con lui più dello stretto necessario.
“Cosa?” Kameron si fermò in mezzo al corridoio e mi rivolse un'occhiata sorpresa.
“Che c'è?” domandai, incuriosita dalla sua espressione.
Lui in tutta risposta mi porse il telefono e si ficcò le mani nelle tasche dei jeans. Mi accigliai, senza capire cosa stesse accadendo.
“Emily?”.
“Mi sono appena ricordata una cosa. Tuo padre mi ha detto di riferirtelo, ma con la storia di Agatha mi è passata di mente e...”.
“Cosa succede?”.
“I tuoi vorrebbero che tornassi a casa per le vacanze di Natale. Che ne dici?”.
Sgranai gli occhi, presa in contropiede da quell'improvvisa rivelazione. “Ah” fu la mia unica risposta. 


In der Ecke - Nell'angolo:

Dio, quanto mi riesce difficile avercela con Kameron. D: Ho odiato Pan, tantissimo, all'inizio di questo capitolo.
In caso qualcuno se lo fosse dimenticato (il che è molto probabili, visti i miei tempi di aggiornamento), Carol è la cotta di Pan per Dean, recentemente evolutasi con consapevolezza in “innamoramento”. XD È tipo un pokèmon: ha un nome piuttosto ridicolo, si evolve, vive chiusa in uno posticino angusto e quando ne esce è tutta energica e pronta a spaccare tutto. Ha pure un verso, fa “Carocarocarocarocaro!”. O magari fa “Va' al diavolo Dean, va' al diavolo Dean”, sono indecisa.
Okay, ho finito di delirare.
Il capitolo non è dei migliori e l'ho scritto a pezzi durante i quali è trascorso un arco di tempo di... settimane? Almeno. Spero che nonostante questo il tutto sia un minimo coerente.
Per lo meno, però, credo ci sia qualche risposta alle vostre domande, alle vostre supposizioni riguardo il modo in cui Dean è venuto a conoscenza dei sentimenti di Pan nei suoi confronti (la cosa buffa è che il litigio alla festa del raccolto e il fatto che Dean andasse a leggere il diario di Pan erano stati pianificati mesi e mesi fa. Successivamente ad aver messo a punto questa bastardata, mi è più o meno successa la stessa cosa – chi mi conosce sa a cosa e chi mi riferisco. Assurdo vero?).
Ma soprattutto, gente, qui c'è un po' di quelle che, come Mary_ l'ha chiamato per prima, si può definire AGGERON. :3 È un accenno minimo, ma almeno sappiamo che Kameron sa dell'esistenza di Aggie (cavolo se lo sa!) e che le supposizioni di Robin non erano affatto infondate – sono addirittura riuscite ad accendere il cervello di Pan!
 
Ora passiamo alle cose serie.
Sono imperdonabile. E, sì, parlo anche del ritardo con cui aggiorno, ma soprattutto del fatto che non trovo più il tempo per rispondere alle vostre recensioni. Mi dispiace immensamente, perché io adora ogni singola parola da voi lasciatami, mi fate sorridere, mi fate sentire per un attimo orgogliosa di me e di questa storia. E mi sono affezionata un po' ad ognuna di voi, senza alcuna eccezione. Ho sempre pensato che il rapporto tra autore e lettore fosse la parte più bella dello stare su EFP, ma così facendo lo sto distruggendo. Mi sento terribilmente in colpa per questo. Per quanto possa valere, vi raccomando di contattarmi per qualunque cosa su Ask.fm (Yvaine0Mich), twitter (@yvaine0mich) o facebook (Per la barba di Merlino, Pan! - Yvaine Efp), visto che se la relazione tra me e voi non è ancora sparita del tutto, è solo grazie a quei social network. Per qualunque domanda irrisolta, vi invito a scrivermi senza farvi alcun problema: non mangio nessuno, anzi, a detta di qualcuno sono carina e coccolosa – poi non so esattamente su che basi lo sostenga, ma okay.
Voglio comunque ringraziare una per una tutte le ragazze che hanno speso le loro belle parole per me, sapendo che questa pigra idiota ritardataria probabilmente non avrebbe risposto loro.
Grazie a Larry forevah, MN125 (Ciaaaao, compagna di banco! :poop:), Enigmasenzarisposta, Flamel_ (grazie di tutto! :3), Nipotina, shesrainbow, Ginny_99 e infine la nostra Mary_.
Grazie, grazie, grazie, grazie! :D
Grazie a tutti voi per essere arrivati fin qui. :)

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Capitolo 41
*** 41 ***


Cows and jeans

 
41

 
Allora, quella se ne va o no?”
Non lo so, ragazzo, non ha ancora deciso, pare”.
Sappiamo entrambi che lo farà”.
Forse. Ma lei non ha ancora deciso...”.
 
Le decisioni non erano mai state il mio forte. O magari sì? Nemmeno su questo sapevo decidermi al momento. Se messa di fronte ad un bivio, come avevo imparato, sarei sempre stata in grado di scegliere la strada sbagliata – non sapevo nemmeno più se considerarlo un pregio o un difetto. Per questo, in quel periodo di confusione totale, affrontare anche la più piccola scelta mi sembrava qualcosa di estremamente difficile.
In realtà, come avevo scoperto telefonando quella domenica, mio padre non aveva affatto già spedito i biglietti per farmi tornare a casa. Non ancora. Non era stato deciso nulla: la decisione avrebbe dovuto essere mia, secondo i miei genitori.
E il problema stava proprio lì.
Volevo o non volevo tornare in città dalla mia famiglia per le vacanze di Natale?
Ero piuttosto combattuta.
Da una parte morivo dalla voglia di rivedere Emily – e, sì, anche mio fratello –, ma dall'altra sapevo che una volta messo piede in casa non mi sarei affatto sentita a mio agio; avrei dovuto affrontare di nuovo mia madre, mio padre, George, i quotidiani litigi, la pessima cucina di Felicity.
Kameron, Aggie, Ginger e il nonno mi sarebbero mancati molto. Anche se, altro punto a favore della città, lì non c'era Dean. Non vederlo nemmeno una volta per due lunghissime settimane sarebbe stato fin troppo bello per essere vero. Ma ne valeva la pena? Dovevo che lui interferisse nelle mie scelte? Avevo pur sempre scelto di tagliarlo totalmente fuori dalla mia vita, dopo tutto.
La questione mi ossessionò all'incirca fino al venti Dicembre. Continuavo a chiedermi cosa avrei dovuto fare, se tornare o rimanere, se trascorrere metà delle vacanze in città e metà a Sperdutolandia, se smettere di pensarci e rimandare la decisione o scegliere subito lanciando in aria una moneta.
La verità era che, a pochi giorni dalle vacanze di Natale, non avevo ancora preso una decisione. E fortunatamente non ebbi bisogno di farlo.
Alla vigilia della mia incerta partenza, durante la notte, Sperdutolandia sembrava aver deciso che il freddo era troppo pungente per essere affrontato con un solo manto di foglie secche. Ecco perché, quando quella mattina mi svegliai, ormai rassegnata all'idea di dover prendere una decisione – o sarebbe davvero stato troppo tardi –, scoprii che si era messa la coperta. Una spessa coperta bianca ricopriva ogni cosa.
Il mio tentativo di spalancare la finestra per vedere meglio fuori, nel buio della mattina alle... be', comunque troppo presto, fu ostacolato dalla collinetta di poltiglia bianca sul davanzale.
Dopo un paio di spinte, rinunciai e corsi al piano di sotto, dove spalancai la porta d'ingresso trovandomi, in pigiama, in mezzo ad una distesa bianca.
Neve!” esclamai sorpresa, dando prova della mia acuta intelligenza. Poi, sempre per dimostrare al mondo che ero un tipo sveglio, corsi in ciabatte giù dalle scalette del portico e sprofondai fino al polpaccio nella neve.
Detestavo la neve, non mi era mai piaciuta. Troppo bagnata, troppo bianca, troppo fredda. Intasava le strade e rendeva non poco difficile le comunicazioni.
Sperdutolandia si dimostrò sorprendente anche sotto questo punto di vista; se normalmente il blocco dei trasporti era qualcosa che mi dava sui nervi, costringendomi a casa assieme al resto della mia incasinata famiglia, in quel luogo i treni fermi significavano solo una cosa: non si torna a casa.
Scoppiai a ridere, realizzando che non avevo più alcun bisogno di prendere una decisione, valutare pro e contro... Niente! Il tempo atmosferico aveva deciso per me.
“Pan!” Il richiamo del nonno attirò la mia attenzione, mentre guardavo, a braccia aperte, il cielo e i fiocchi che cadevano come se fossero la cosa più bella del mondo. Era un freddo beduino, ma, ehi, io non sarei tornata a casa! “Si può sapere cosa ti è saltato in mente? Torna subito dentro!” sbottò, burbero, la fronte increspata da rughe di preoccupazione.
Ehi, nonno!” esclamai, ridendo. “Nevica!”
Cristo Santo, ragazzina! Certo che nevica! Torna dentro!” abbaiò lui affacciato dalla finestra della sala.
Quando un brivido di freddo mi attraversò la spina dorsale, mi resi conto dell'enorme sciocchezza che avevo appena fatto: ero in mezzo all'aia, affondata fino ai polpacci nella neve, con il pigiama e le ciabatte. A fine dicembre. Come se solo in quel momento fossi stata abilitata a percepire il gelo dell'inverno, saltellai il più svelta possibile sui miei passi e tornai in casa. Mi chiusi svelta la porta alle spalle e mi strinsi nelle mie stesse braccia, battendo i piedi sul pavimento nel vano tentativo di accumulare un po' di calore.
Dean, che stava scendendo in quel momento le scale diretto in cucina, si fermò a fissarmi. Cercai di non alzare lo sguardo su di lui, ma quando sputò il suo sarcastico “Mi complimento per la furbizia”, non potei fare a meno di stringere i denti. Senza replicare, mi fiondai a mia volta sulle scale, lo superai e mi chiusi in camera per mettermi dei vestiti caldi e possibilmente asciutti. Dovetti tuttavia ammettere che quella volta non aveva tutti i torti.
Come ebbi modo di scoprire nel giro di qualche ora; nonostante lo spettacolo di Sperdutolandia fosse meraviglioso e rappresentasse per me la risposta alle mie notti insonni, quel paesaggio alternativo significava anche essere bloccati in casa.
Che palle, questa non ci voleva” ripeté Dean per la diciannovesima volte, mentre spalava la neve nel vialetto? Poteva ritenersi tale? Insomma, non ero nemmeno sicura che si trattasse del vialetto, ammesso che la fattoria ne avesse uno, poiché del solito sterrato non si vedeva nemmeno l'ombra.
Quanto poteva nevicare in una notte? In città non ne era mai caduta più di una o due decine di centimetri. A Sperdutolandia al mio risveglio la coltre sul terreno era spessa già una trentina di centimetri. Alle tre del pomeriggio, ce n'era più di mezzo metro.
Per qualche assurda ragione, sembravo essere l'unica contenta di quell'inondazione di poltiglia ghiacciata.
Tra un'imprecazione e l'altra di Dean, mentre anche io facevo del mio meglio, coperta alla bell'e meglio, per scavare un passaggio che arrivasse almeno al pollaio e al porcile, decisi di fare una domanda al nonno, perché era evidente che mi fossi persa qualche passaggio. Da quando una nevicata provocava bestemmie e improperi da parte di qualcuno e il nonno, invece che prendere questo qualcuno a bastonate, si limitava a digrignare i denti e a spalare la neve?
Affondai la palla nella neve. “Senti nonno...” Feci per lanciarla via, ma quando notai che nonostante i miei sforzi non riuscivo a sollevare quell'arnese, intuii che pesava troppo per le mie scarse capacità. Sbuffai.
Cosa c'è?” domandò Abe, la voce incrinata dallo sforzo.
Diminuii il carico sull'attrezzo e poi lo scaraventai a fatica alle mie spalle. “Cosa succede adesso?”
Lo sbuffo di Dean risuonò forte nel silenzio causato dalla nevicata. Lo ignorai.
Di cosa parli?”
Come funziona in questo posto, quando nevica?” Presi dell'altra neve e la scaraventai sulla montagnola che si stava formando poco lontano. Non senza fatica, intendiamoci: nonostante fosse un freddo assurdo e continuasse a nevicare come se non ci fosse un domani, sotto gli strati di lana e piumino stavo sudando come fosse stato Agosto.
Come vuoi che funzioni?!” Sbottò Abe, parecchio contrariato. Evidentemente avevo appena fatto una domanda molto stupida. Ops. “Si sta chiusi in casa finché non smette! E poi ci si dà da fare finché non si libera la strada!” scaraventò il carico sul suo badile all'indietro con un gemito di frustrazione.
Ah. E quando avrebbe smesso di nevicare? Guardai il cielo: una coltre bianca non molto diversa da quella che copriva il terreno. E continuavano a cadere fiocchi grandi come il mio pugno – okay, forse un po' meno, ma fatto stava che nevicava maledettamente e... “Che senso ha stare qui a spalare se ancora nevica?” mi lasciai sfuggire poi.
A quella mia domanda, una delle imprecazioni di Dean risuonò un po' più forte delle altre e la successiva porzione di neve da spalare del nonno gli arrivò dritta sulla schiena. “Datti una regolata, ragazzo!” abbaiò il vecchio, prima di rivolgersi nuovamente a me. “Se ghiaccia non la levi più” spiegò, aggrottando le sopracciglia con fare severo.
Sì, ma...”
Dean sbuffò e smise per un attimo di lavorare, voltandosi nella mia direzione. “Cosa non capisci, principessina? L'utilità di lavorare? Se lasci che si accumulino due metri di neve, come pensi di fare ad uscire di casa?”
E anche questa volta aveva ragione lui, apparentemente. Senza trovare la voglia di replicare, annuii tra me e ricominciai a lavorare. Nel mio piccolo, stavo riuscendo a rendermi utile, una volta tanto. Questo però non impedì a mio nonno di spedirmi in casa non appena cominciai, mio malgrado, a starnutire. “E cosa dovrei fare, dentro, se voi siete qui a lavorare?” protestai, sotto lo sguardo severo di Abe.
Non lo so, pulisci!”
Prepara da mang-... meglio di no, forse”.
Quella frase fu quella che mi diede l'ispirazione. “Nonno, mi insegni a cucinare?”
Oh, Cristo...” fu il commento di Dean, mentre riprendeva a spalare la neve, scuotendo il capo.
Smettila di imprecare, pezzo di ignorante!” lo riprese il vecchio, fulminandolo con lo sguardo. Soppesò la mia risposta qualche istante, poi prese un respiro profondo e annuì: “Tanto credo che non avremo altro da fare nei prossimi giorni. Ora fila a fare le pulizie, però!”
Agli ordini!” trillai, entusiasta. Misi fine alla conversazione con un poderoso starnuto e scappai al calduccio dentro casa, lasciando i vestiti bagnati nello sgabuzzino accanto alla lavatrice – tanto era chiaro che non sarei uscita di nuovo al freddo e al gelo.
Era un po' strano pensare che, probabilmente, per i giorni successivi non sarei riuscita ad uscire di casa nemmeno volendo. Continuava a nevicare e, ogni volta che guardavo fuori da una delle finestre mentre mi dedicavo alle faccende domestiche, lo strato di neve sui davanzali e su ogni altra cosa sembrava essere cresciuto. Non mi restava davvero nulla di meglio da fare se non cimentarmi nei lavori domestici.
Spolverai ogni singolo mobile e soprammobile, feci la lavatrice e lavai i pavimenti. Quando Dean e il nonno rientrarono, ovviamente, dovetti rilavarli daccapo, visto che sporcarono tutto con i loro stivali incrostati di fango rimasto appiccicato lì sopra da secoli. Mi occupavo della casa solo da qualche ora e già parlavo come mia madre. Cioè, che come avrebbe parlato mia madre se solo avesse avuto una minima idea di cosa significa occuparsi di casa propria.
Quando quella mattina mi ero rallegrata al pensiero di non dover più decidere se tornare a casa o meno, mi ero dimenticata di diversi piccoli particolari. Tanto per dirne una, se ero bloccata alla fattoria, non avrei potuto avvisare a casa che non sarei tornata, né fare gli auguri il giorno di Natale, probabilmente, o chiamare i miei genitori di domenica. In secondo luogo, non avrei visto Kameron, Agatha o Terrence, ma soprattutto, aspetto più importante di tutti, ero bloccata dentro casa assieme a Dean. Questo non era decisamente quello che avrei definito un colpo di fortuna, ma mi sarei resa conto di tutte queste cose solo il giorno seguente, quando mi sarei cominciata a stancare di quella nuova e curiosa situazione. Al momento, invece, tutta quella situazione mi trasmetteva una strana euforia; era qualcosa di nuovo, mai provato prima. Era necessario darsi da fare, rimboccarsi le maniche, fare del proprio meglio per aiutarsi in quei giorni di emergenza. Da brava scioccherella di città, l'avevo presa come una cosa entusiasmante.
La cosa iniziò a puzzarmi solo quando, a mezzogiorno del giorno dopo, era smesso di nevicare, Dean aveva aperto un varco per poter raggiungere sia il porcile che il pollaio e, non avendo nulla di meglio da fare, si era stravaccato “per riposarsi un po'” su una delle sedie della cucina in cui il nonno cercava di evitare che dessi fuoco a casa nel tentativo di cucinare.
Così il fuoco troppo alto. No, così invece è troppo basso, la fiamma deve essere media. Media ho detto!”
Così è media!”
Sì, se sei all'Inferno! Diavolo, ragazzina, così è giusto!”
Scusa!”
E non scusarti senza motivo”.
Scus-”
Che ti ho detto?!”.
Sc- … Voglio dire, okay”.
Dean rise. Rise davvero, senza troppo scherno, senza cattiveria, rise e basta. Ecco perché, sorpresa, per poco non rovesciai la pentola con l'acqua addosso al nonno. “Stai attenta!”
Sì, sì, scusa!”
Santi numi...”
D'accordo, sto attenta, sto attenta!” mi corressi, scuotendo il capo. “E ora che si fa?”
Ora prepari la tavola”.
D'accordo”. Questo sapevo farlo. Recuperai la tovaglia nel cassetto, pulii il tavolo con la spugna prima di stenderla, ignorai totalmente Dean che non accennava a spostarsi né tanto meno a dare una mano, stesi il panno, poi mi fiondai a recuperare i piatti.
È inutile che prendi i piatti piani se non c'è niente da metterci” osservò Dean. Non aveva tutti i torti, ma, come se non lo avessi sentito, li misi comunque in tavola. E lui rise di nuovo, motivo per cui, per poco, non mi caddero tutti a terra.
Vuoi stare attenta?!” mi rimproverò il nonno con uno sbuffo.
Certo, sc-... Certo.” mi corressi appena in tempo.
Dean si alzò pigramente dalla sedia e si stiracchiò. “Non ce la può fare” commentò divertito.
Qualcuno, di grazia, può fulminarlo? Dio? Mago Merlino? Voldemort? Chiunque, basta che me lo leviate dai piedi!
Quello fu solo l'inizio, però, perché durante quella giornata me lo ritrovai ovunque. Qualunque lavoretto stessi svolgendo, lui era sempre lì, pronto a ridere di qualche mia gaffe – come se fosse possibile non farne, sotto il suo sguardo da uccellaccio del malaugurio! - e a nulla fare come se non ci fosse un domani. Incredibile che, nel momento in cui io, la pigra cronica, mi mettevo al lavoro e non mi prendevo un attimo per respirare, lui avesse deciso di fare le ferie.
Secondo te è logico pulire i vetri mentre fuori nevica?” mi domandò, trovandomi in equilibrio precario su una sedia mentre cercavo di tirare a lucido la finestra del salotto.
Mi voltai a guardarlo, mollemente appoggiato allo stipite della porta, per poi lanciare una rapida occhiata fuori. “Non sta nevicando”.
Ora, ma ricomincerà entro stasera”. Se fossi stata un maschio una grattata nelle parti basse ci sarebbe stata, ma essendo io una ragazza, sarebbe stato sciocco, volgare e inutile.
Non hai niente da fare?” Oltre che gufare, intendo. Un po' mi mancavano i giorni in cui il mio acido gli si riversava addosso con una naturalezza invidiabile. Non ero però disposta a dargli più la possibilità – o il motivo – di ferirmi. Aveva vinto, in un certo senso. Non avrei più opposto resistenza, non avrei risposto alle sue cattiverie, non gli avrei più dato alcuna soddisfazione. Mi ero arresa, gli avevo lasciato vincere non solo la battaglia, ma anche la guerra. Tutto pur di poter mettere fine a quella pazzia che continuava a far star male solo me.
C'è la legna da spaccare”.
Ottima idea, vai” suggerii, riprendendo il mio lavoro da dove lo avevo interrotto per causa sua.
Lo sentii sbuffare. La porta scricchiolò, quando lui si diede la spinta per allontanarsi da essa. “Continuo a pensare che tu stia perdendo tempo, comunque” borbottò, mentre si allontanava.
Questa volta non risposi, ma continuai imperterrita a pulire come unica, personale e discreta vendetta. E se avesse ripreso a nevicare, una volta smesso li avrei puliti di nuovo. Certamente la neve non avrebbe sporcato i vetri interni delle finestre, in ogni caso.
Naturalmente nemmeno mezz'ora dopo aveva ripreso a nevicare che Dio la mandava. Ovvio, no?
Per cena Abe mi fece nuovamente da supervisore in cucina e anche questa volta il mio caro coinquilino rimase comodamente spaparanzato su una sedia ad osservare cosa sarebbe accaduto, dando non pochi problemi al normale funzionamento del mio cervello – che già, poverino, aveva i suoi problemi a funzionare correttamente.
Nonostante la presenza inquietante di Dean, che in quei giorni sembrava aver deciso di trasformarsi in avvoltoio, per il solo gusto di dare fastidio, mi piaceva passare del tempo con mio nonno, lasciare che mi insegnasse e aiutasse a migliorare, correggendo i miei errori. Nonostante ne combinassi una dietro l'altra e lui passasse più tempo a ripetermi di non scusarmi ogni volta, mi faceva piacere passare così tanto tempo con lui. Non credo di essere stata così tanto legata a lui come da quel periodo in poi. Dean o meno, essere bloccati in casa con la neve aveva i suoi lati positivi. Stavo piano piano riscoprendo una parte della mia famiglia, l'unica, forse, in cui ancora non avessi perso fiducia; era stato un po' difficile abbattere il muro di orgoglio e imbarazzo che vi aveva separati in un primo momento, ma stavamo imparando ad aver confidenza e a fidarci l'uno dell'altra.
In quei giorni imparai a preparare almeno tre piatti in maniera almeno decente. Alla sera del quarto giorno, dopo aver lavato per l'ennesima il pavimento dopo i continui vai e vieni di Dean e del nonno, trovai una piacevole sorpresa sul tavolo della cucina: una vecchia scatola di cartone decorata a fiorellini blu e rossi.
Cos'è?” domandai, avvicinandomi.
Abe scrollò le spalle e mi fece cenno di aprirla, così obbedii. Alzai il coperchio trovando una serie di grossi volumi rilegati. Ne estrassi uno e, aprendolo, scoprii che non era affatto un libro, ma un album di vecchie fotografie. Fotografie di famiglia, mi resi conto sfogliando le prime pagine. Come non riconoscere il sorriso dolce di nonna Margareth in quella donna paffuta che si chinava a raccogliere il bambino dai ricci capelli scuri?
Rivolsi un'occhiata sorpresa al nonno, che si schiarì la voce per allontanare l'imbarazzo e mi affiancò. “C'è anche qualche altro libro di ricette lì dentro” spiegò.
Inconsciamente alzai la testa per guardare lo scaffale sopra al tavolo, su cui avevo visto i vecchi ricettari della nonna durante i miei primi giorni alla fattoria. Abe parve capire al volo cosa stessi pensando e aggiunse: “Ormai quelle le abbiamo provate tutte. Tutto il possibile, almeno. Non è che ci possa preparare le pesche sciroppate, senza pesche in pieno inverno...” bofonchiò lisciandosi distrattamente la grossa camicia di flanella a quadri che indossava quel giorno.
Tornai a fissare la foto della nonna e, senza sapere bene il perché, ci lasciai scorrere sopra le dita. La nonna. Quanto mi mancava... E chissà quanto mancava a lui. Senza pensarci due volte, gli gettai le braccia al collo e lo strinsi forte. “Grazie, nonno” sussurrai senza riuscire a trattenere un sorriso grato.
Solo dopo qualche lunghissimo istante, nonno Abe ricambiò timidamente l'abbraccio, posandomi leggeri colpetti sulla schiena. “Prego. Ora fila a lavarti e poi cuciniamo” concluse, burbero.
Interpretai quella frase come un invito a farla finita con quelle smancerie, quindi lo strinsi un po' più forte un'ultima volta, prima di allontanarmi ridendo. Scartai Dean sulla soglia, correndo poi fino al bagno di servizio, lo sguardo severo di quel ragazzo sempre addosso.
 
Fu solo dopo quattro giorni di reclusione totale, che la neve smise di cadere e cominciò, piano piano, a sciogliersi. Grazie al cielo la semi-bufera del primo giorno era andata infiacchendosi così che ora la fattoria non si trovava del tutto sommersa da quattro metri di neve – grazie a Dio. Era anche vero che, se Dean e il nonno non avessero spalato un po' nell'aia, sarebbe stato davvero difficile uscire di casa.
I viveri iniziavano a scarseggiare, però, per cui la necessità di uscire e trovare un modo per raggiungere il paese – o almeno la casa di qualche vicino – diventò impellente. Nonostante tutte le mie proteste, obiezioni, bislacche proposte alternative, il nonno decretò che l'unico modo per spostarsi era sulle proprie gambe. Questo significava vestirsi a cipolla, imbottirsi per benino, indossare gli stivali di gomma troppo grandi del nonno e arrancare nella neve per chilometri. Ma soprattutto, dal momento che il nonno aveva la schiena bloccata per gli eccessivi sforzi di quei giorni, avrei dovuto fare tutto ciò da sola con Dean.
Oltre il danno, la beffa: fui costretta ad insistere per convincere il vecchio Abe a rimanere in casa e andare al suo posto a tentare il suicidio per ipotermia assieme a Dean. Cioè, ehm, volevo dire a fare rifornimento. Suonava disgustosamente romantico, però, no? Una sorta di Romeo e Giulietta in versione 'odi et amo', ma senza 'amo' e con mesi di relazione alle spalle anziché tre giorni. Parlando per assurdo, è anche più realistico dell'originale.
Okay, la smetto.
Dov'ero rimasta?
Ah sì.
Ecco il motivo per cui in quel momento stavo arrancando faticosamente in mezzo ad un mare di neve alto più o meno come la mia intera gamba. Probabilmente in vita mia non avevo né mai avrei fatto nulla di più faticoso. Avevamo portato con noi le pale e, quando la situazione diventava davvero insostenibile, ci facevamo largo con quelle. Anche usarle come puntello per non affondare quando inciampavo e finivo a faccia in giù non era una cattiva idea, comunque.
Il lato positivo di tutta quella faccenda, fu che due o tre volte persino Dean perse l'equilibrio e sprofondò nella neve. Alcune di quelle scene epiche, che probabilmente non dimenticherò mai nella vita.
L'aspetto assurdo della questione, invece, furono quelli che sembravano a tutti effetti goffi tentativi del mio biondo coinquilino di socializzare. Con me.
 
Nevica mai, da dove vieni tu?”
Voltai il capo nella sua direzione per controllare di non aver sentito male: camminava faticosamente, teneva il capo ritto e lo sguardo fisso di fronte a sé, impassibile come sempre. Dovevo essermi sbagliata.
Allora?”
Ah, dici a me?”
No, principessa, stavo scambiando qualche parola con tutta questa neve” replicò, sarcastico. Come al solito.
Sbuffai e mi scrollai nelle spalle. Era necessario rispondere? “A v-”, proprio in quel momento misi male un piede, sprofondando così a faccia in giù nella neve. “A volte” bofonchiai, mentre, sputacchiando, cercavo di rialzarmi.
Dean rise e avanzò ancora di qualche passo, prima di fermarsi per aspettarmi. “Perché sembra che tu non abbia mai visto la neve, allora?”
E perché a me sembra che tu sia impazzito, tutto d'un tratto? “Perché non nevica così tanto, di solito. E poi da noi passano gli spartineve, non si viaggia a mezza gamba per le strade” risposi concisamente, riprendendo la marcia. Lo vidi annuire con la coda dell'occhio e con un certo sollievo mi resi conto che il nostro scambio di battute era appena concluso.
Era molto meglio camminare circondati dall'assordante silenzio della neve piuttosto che sforzarsi di fare conversazione con Dean, specialmente se si considerava il fatto che quel tizio, quello di cui ero innamorata, mi aveva pubblicamente rifiutata, umiliata, dopo aver frugato tra le mie cose e letto il mio diario. Non si era nemmeno degnato di chiedermi scusa. Precisiamolo: non mi ero aspettata nemmeno per un momento che lo facesse, era logico che non lo avrebbe fatto, era troppo Dean per fare una cosa del genere. Tuttavia una parte di me sapeva che una persona normale avrebbe dovuto farlo. Me le meritavo, delle scuse. Scuse qualsiasi, anche inverosimili, stiracchiate, borbottate o tossicchiate in mezzo ad una risata di scherno. Me le sarei meritate, ma sapevo che non sarebbero arrivate.
Ad ogni modo, dopo ore di faticoso cammino, raggiungemmo la fattoria dei Towell. Non ci volle molto per riconoscere il pickup incastrato in un cumulo di neve in mezzo a quella che avrebbe dovuto essere la strada sterrata.
Ce la fai ad arrivare in paese?”
Lo guardai di sottecchi, stranita. Seriamente, stava cercando di far nevicare di nuovo? Magari proprio mentre eravamo da soli in mezzo al nulla, dove una terribile per colpa sua ci avrebbe travolti e uccisi; probabilmente avrebbero ritrovato i nostri cadaveri congelati solo qualche secolo dopo, intenti a guardarci in cagnesco anche mentre piano piano morivamo ipotermia.
Il freddo stava avendo pessimi effetti sul mio cervello. Forse anche lui stava avendo lo stesso problema: neuroni infreddoliti.
Ho altra scelta?” domandai piccata, mentre le grida furioso di un uomo giungevano alle nostre orecchie.
Ci risiamo” lo sentii borbottare, mentre deviava sulla sua traiettoria e puntava dritto verso il pickup di Kameron, bloccato in mezzo ad un cumulo bianco. Senza poter fare altro – di certo non potevo continuare da sola: avevo problemi ad orientarmi a Sperdutolandia quando si vedeva la strada, figurarsi quando tutto era bianco e informe! -, lo seguii.
E dai, papà, non-”
Sta' zitto, almeno! Sei un totale imbecille, lascia che te lo dica!” stava abbaiando il signor Towell, piegato in avanti verso Kameron come se volesse dare una testata al figlio da un momento all'altro. Questi, da parte sua, osservava il padre a braccia aperte, come se volesse convincerlo che – qualunque fosse stato il problema – non era colpa sua.
Ma papà, dico davvero, pensavo che...”
Ti ho detto di stare zitto! Non so più che cosa fare con te! A scuola non vai bene, a casa non fai che combinare danni.” Questo mi era parecchio familiare. “Dimmelo tu, Kameron, che cosa devo fare? Sei troppo grande per la baby sitter, non posso metterti sempre alle costole Agatha McDonnel, lo capisci? Cosa ti è saltato in mente questa volta?!”
Kameron stava per rispondere, ma Dean fece la sua comparsa nell'aia ricoperta di neve della fattoria. “Salve!” salutò ad alta voce, agitando una mano sopra la testa.
Il signor Towell prese un respiro profondo per calmarsi, prima di ricambiare il saluto. “Ehi, ragazzo...” bofonchiò, allontanandosi di un paio di passi da lui.
Mettere i piedi su di una porzione di terra quasi completamente ripulita dalla neve mi parve un sogno. Sentivo le gambe maledettamente pesanti.
Ciao Dean. Oh, Pan, ci sei anche tu!” esclamò, in tono un po' meno allegro del solito. Che qualcosa non andasse era evidente, dallo scarso entusiasmo con cui ci aveva accolti. Non che vedere suo padre rimproverarlo non fosse bastato a farmi intendere che non era il momento adatto ad andare a fargli visita, ma il mio caro coinquilino non sembrava pensarla allo stesso modo.
Che è successo alla macchina?” domandò con naturalezza, accennando al pick up incastrato.
Il signor Towell alzò gli occhi al cielo, spazientito, e incrociò le braccia al petto. “Chiedilo a lui”.
Kameron si passò una mano sulla nuca coperta dalla sciarpa pesante, mentre si dondolava sui talloni. “Stavamo spalando e ho pensato che il pickup avrebbe potuto spostare molta più neve della pala e...”
Oh” mi lasciai sfuggire, arrossendo appena sulle guance, come se il gelo non le avesse arrossate già abbastanza. Abbassai lo sguardo, ma non abbastanza rapidamente da non notare l'occhiata divertita che mi aveva appena rivolto Dean. “Sì, non sei l'unico ad aver avuto questa idea, oggi” commentò.
Kameron mi diede una pacca sulla spalla. “Secondo me non era un'idea così stupida” mi difese. O si difese. Insomma, ci difese.
Siete fatti l'uno per l'altra non c'è che dire” commentò Dean, alzando gli occhi al cielo. “Una più idiota dell'altro”. La più cretina dovevo essere io, immaginai. “Anche se la vedrei meglio con quel ritardato di Doyle...”
Oh, fantastico. Mi vedeva bene con Terrence. Ma sì, continua pure, gioca con i miei sentimenti in questo modo barbaro. E ridi, sì, ridi più che puoi, chissà che prima o poi tu non muoia soffocato facendolo.
Non era un'idea così stupida?!” abbaiò il signor Towell, non credeva alle sue orecchie. “Hai bloccato l'entrata, pezzo di deficiente!”
Credevo avrebbe spostato la neve, non che ci si sarebbe bloccata in mezzo!” si giustificò il figlio,
Dean annuì, affondando una mano nella tasca del giubbotto, mentre con l'altra alzò leggermente la pala che reggeva: “Volete una mano a spalare?” si offrì.
Il signor Towell scosse il capo, “Non ce n'è bisogno, Dean. Suppongo voi due abbiate da fare...” .
Sì, ma può continuare lei da sola”.
Cosa? Sgranai leggermente gli occhi per la sorpresa. Davvero potevo andare avanti da sola? Come diavolo avrei fatto a continuare da sola, che non sapevo nemmeno dove dovessi andare? E poi, diamine, era impossibile orientarsi su quella distesa bianca!
Kameron lesse lo smarrimento nel mio sguardo e scoppiò a ridere. “Pan non la pensa così” osservò.
Dean mi lanciò una breve occhiate e si strinse nelle spalle. “Può sempre rimanere lei qui a spalare e io andrò dai Jenkins a far rifornimento”.
Jenkins. Perché nessuno mi aveva parlato di arrivare alla fattoria Jenkins? Ero convinta che sarei dovuta arrivare fino al paese a piedi! Non che io sapessi dove si trovava tale fattoria, ma ero sicura che non fosse lontana quanto il paese.
Presi un respiro profondo e annuii: “Va bene, va bene, vado avanti da sola. Dove dovrei andare, esattamente?”
Dai Jenkins” ripeté Dean, senza degnarmi di uno sguardo. Prese la pala e si avvicinò al pick up per osservare la situazione e decidere da dove iniziare a spalare.
Sbuffai e alzai gli occhi al cielo, cose che sembrò divertire Kameron. Rise e, quando gli rivolsi un'occhiata truce, mi strizzò l'occhio. “Quattro case più avanti, per di là” mi spiegò, indicandomi le direzione con le mano.
È la casa con i cani” aggiunse suo padre. Notando la mia preoccupazione a quella notizia, si affretto a specificare: “Sono chiusi in un recinto, non ti preoccupare. Però abbaiano sempre, per cui quando li sentirai ti accorgerai di essere arrivata”.
D'accordo. Allora vado” bofonchiai, incerta. “A dopo”.
Stai attenta!” si raccomandò Kameron, mentre mi allontanavo.
Sì, cerca di non affogare” gli fece eco Dean, ridendo tra sé. Bastardo.
E fu così che rischiai la crisi di nervi in mezzo alla neve, da sola, senza sapere bene dove andare, né cosa chiedere una volta arrivata alla fattoria Jenkins. Questa, però, non è una storia che vale la pena di essere raccontata. Non quanto quello che sarebbe successo di lì a qualche giorno, qualcosa di davvero, davvero sconvolgente.
 
 
In der Ecke - Nell'angolo:
Tadannn!
Dopo avervi fatto aspettare tanto, eccomi. Non l'ho fatto betare, perché non volevo disturbare nessuno – immagino siano tutti sommersi dalla scuola come lo sono io, in questo periodo. No, dai, non è vero, è che ci tenevo a postare questa mattina, visto che oggi pomeriggio sarò impegnata con qualcosa come quindici cante di Dante mai letti per il test di domani.
(Vi state chiedendo se sono una deficiente? La risposta è la seguente: sìììììì!)
So che vedere il numero di one shot che sale sul mio profilo ma niente aggiornamenti di questa storia per mesi può essere davvero irritante. Scusatemi, davvero, non è che io abbia molte scuse, non ne ho.
Ma torniamo al capitolo. È un po' di passaggio, non succede poi molto e credo che sia uno dei più noiosi che abbia mai scritto – non sono nemmeno riuscita a farci entrare la “cosa importante” che avevo paura di scrivere male. Ma il punto è: qualcuno ha notato qualcosa di strano? (Non parlo di errori, ma se ne avete notati, non abbiate paura e segnalatemeli, cercherò di correggerli il prima possibile). Chessò:personaggi OOC, situazioni strane, cambiamenti... Niente? XD
Vabbè, smetto di fare la cretina.
Mi scuso se questo capitolo non è stato all'altezza delle vostre aspettative – di sicuro non lo è delle mie.
Aspettatevi un Missing Moments di questo capitolo, prima o poi. Cercherò di mettermi subito al lavoro, per scriverlo. :)
Spero che comunque a qualcuno sia piaciuto almeno un po'. (Giuro che non mi sto lagnando in cerca di commenti positivi, anche se può sembrare: mi sto scusando per qualcosa che non credo sia venuto come avrebbe dovuto).
Basta.
Ciao a tutti e grazie, grazie, grazie mille per le vostre recensioni, le vostre richieste di aggiornamenti, tutto il vostro sostegno e le piacevoli chiacchierate che ogni tanto capitano sul gruppo. Grazie di tutto, siete davvero fantastiche. ♥

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Capitolo 42
*** 42 ***



Dedico questo capitolo alla cugina quattordicenne di Anna, che si è giustamente resa conto di quanto
io sia fissata con quei cinque pulcini che tanta gente osa definire idoli,
fuori di ogni merito (a mio parere).
Lo dedico a lei e a tutti coloro che aspettano gli aggiornamenti e aprendo la mia pagina autore trovano un sacco di sciocchezze sugli One Direction, che ogni volta sono sempre di più.
Questo capitolo è dedicato a voi, che mi sopportate, aspettate e tornate ogni volta,
come ringraziamento e pegno. :)
 
 
 
Cows and jeans

42
 
 
Secondo me dovresti darle una possibilità”.
Se ti dico che va bene, chiudi il becco?”
Andata!”
Oh che bello”.
 
Ho mai parlato di quanto io odi i cambiamenti?
I cambiamenti sono per le persone intelligenti, con la mente così aperta e le vedute così ampie che riescono a intuire che qualcosa sta mutando fin dai primi accenni di novità. Io sono sempre stata il genere di persona che si accorge del primo indizio quando il delitto è già stato compiuto, le indagini svolte e il colpevole incarcerato. Non sono mai stata un tipo da gialli – vogliamo davvero parlare di cluedo? - né da cambiamenti.
Avevo bisogno di sicurezze, di una routine che mi dicesse cosa dovevo fare, ero troppo insicura per potermi inventare scappatoie e soluzioni, avevo bisogno di punti fissi nella mia vita.
E comunque, quando qualcosa cambiava, io rimanevo sempre ed inevitabilmente indietro. Un po' perché ero troppo ottusa per notare le novità e un po' perché mi rifiutavo di crederci finché non era troppo tardi. Questo era uno di quei casi.
I cambiamenti a cui mi ostinavo non far caso si palesarono il pomeriggio del sette gennaio. Ma prima è necessario parlarvi di ciò che successe il tre dello stesso mese.
La neve ormai era in gran parte sciolta e non costituiva più un problema per i trasporti, come testimoniava la costante presenza di Kameron alla fattoria. Sembrava proprio intenzionato a passare meno tempo possibile con suo padre – e a giudicare dai loro ultimi litigi potevo capirlo – e per questo trascorreva interamente la sua giornata alla fattoria Fletcher. Ecco perché ogni mattina lavorava fuori con Dean, a mezzogiorno pranzava con noi e poi al pomeriggio ci prendevamo un po' di tempo per studiare assieme. Fino alle sei di sera a Kameron Towell non passava nemmeno per la testa l'idea di andare a casa, cosa che al nonno sembrava dare fastidio. Il suo disappunto, però, veniva facilmente attenuato dal fatto che lavorasse tanto e aiutasse Dean nei lavori pesanti – a cui altrimenti avrebbe dovuto pensare lui, visto che la mia forza fisica era pari a quella di un canarino.
Nonostante tutto, avere Kameron per casa non esattamente il tipo di cambiamento a cui era difficile abituarsi: al contrario, mi faceva piacere avere qualcuno di amico con cui scambiare qualche chiacchiera. Soprattutto, fu un bene che Kameron fosse in casa quando successe quel che successe.
Era, dicevamo, la tarda mattinata del tre gennaio. Ero in casa per i lavoretti domestici, la pentola dell'acqua era già sul fuoco ed entro un paio di minuti mi sarei dovuta ricordare di buttar giù la pasta. Kameron e Dean erano in cortile che cercavano di riparare la porta del capanno degli attrezzi, sfondata da una retromarcia troppo rapida e imprudente del giovane Towell (con somma gioia del nonno).
Stavo apparecchiando, mentre il nonno era al piano di sotto a cambiarsi dopo un brutto scivolone nella neve. Mi piaceva ascoltare i suoi passi attraverso il pavimento, quando lavoravo, era qualcosa inconsciamente mi fermavo a fare ogni volta che mi trovavo in cucina. Era piacevole sapere di star facendo qualcosa di buono – ecco, magari non in senso culinario del termine – per qualcuno, un qualcuno che nel frattempo stava facendo dell'utile per tutti. In più si trattava di mio nonno, a cui avevo imparato a voler molto bene negli ultimi mesi.
Sorrisi quando sentii i suoi passi uscire dalla camera da letto e dirigersi verso le scale. Il mio sorriso tuttavia scomparve quando quel rumore cadenzato si interruppe e fu sostituito da una serie di tonfi soffocati e dalle imprecazioni sommesse del nonno. Rimase immobile qualche istante – troppo, maledizione, dove diavolo ero io quando Dio distribuiva i riflessi pronti? - poi lasciai cadere la tovaglia per terra e corsi in corridoio.
Nonno!” gridai, sconvolta, accorrendo: era caduto dalle scale. Giaceva seduto su uno degli ultimi scalini con un'espressione dolorante in volto e una mano serrata attorno alla ringhiera, nel tentativo di rialzarsi in piedi. “Nonno, che è successo?” Domanda stupida, ma capitemi, ero sotto shock. Era caduto dalle scale. Che cosa bisognava fare in queste situazioni? E se si fosse fatto male sul serio? Oddio.
Sta' zitta, non urlare” brontolò lui, gli occhi serrati nello sforzo di rimettersi in piedi. “Aiutami ad alzarmi, piuttosto” mi ordinò, quando si accorse che da solo non poteva riuscirci.
Dopotutto, forse, non era così in forma come voleva farmi credere con il suo solito atteggiamento da uomo forte e inscalfibile.
Istintivamente mi avvicinai per aiutarlo, poi però scossi energicamente il capo e alzai le mani come per fargli segno di aspettare, intuendo che non era il casa. “No, no, stai fermo. Ora chiamo i ragazzi, ora chiamo qualcuno” farfugliai, mentre già correvo alla porta.
Non dire sciocchezze, non ho bisogno di essere preso in braccio...” lo sentii a malapena brontolare, ma lo ignorai. Quasi scivolai sullo strato di ghiaccio che comunque si era formato sui gradini, ma con un saltello poco aggraziato riuscii a ristabilire l'equilibrio. “DEAN!” gridai, allarmata, fermandomi dopo qualche passo in direzione del capanno. “Dean, il nonno è caduto, corri!”
Cosa?” domandò voltandosi con un'espressione indecifrabile in volto.
Mi voltai a dare un'occhiata verso la casa, come a controllare che Abe fosse ancora lì. “È caduto dalle scale, non riesce ad alzarsi!” spiegai brevemente, la voce che suonava ancora più isterica del solito per via della preoccupazione.
Un attimo dopo Dean aveva lasciato cadere le viti e il martello al suolo e stava correndo dentro casa, imprecando tra i denti. Lo seguii senza stare ad aspettare Kameron, il quale comunque fece la sua comparsa nell'atrio dopo qualche istante.
Ti avevo detto che avrei fatto da solo!” protestò rabbiosamente il nonno quando mi vide rientrare.
Dean sbuffò e si chinò su di lui perché gli passasse un braccio attorno alle spalle. “Sta' zitto, vecchio” lo invitò, mentre lo aiutava ad alzarsi. “Mettici un po' di forza, però” lo rimproverò, quando si accorse che da solo non ci riusciva.
Ci sto provando, pezzo d'asino” replicò Abraham. Poi cercò di muovere una gamba ma gemette, il volto contratto dal dolore.
Cazzo” sibilò Dean, notando quel gesto. “Kameron, aiutami” ordinò, e un attimo dopo il ragazzo aveva l'altro braccio del nonno attorno al collo. Insieme lo tirarono in piedi, ma era evidente che nonno Abe non potesse reggersi da solo. “Pan, vai a prendere la macchina”.
Macchina?”
Sì, macchina, macchina!” sbottò Dean sbrigativo, accennando alla porta di uscita. “Dobbiamo portarlo in ospedale, potrebbe essersi rotto qualcosa”.
Macchina. Macchina?! Secondo lui avrei dovuto guidare in quella situazione? Scossi leggermente il capo, gli occhi sgranati dalla paura e la tensione. “Non posso guidare” sussurrai.
Non mi dovete portare da nessuna parte, sto benissimo. Fatemi sedere sul divano e datemi del ghiaccio, tra mezz'ora sarò di nuovo in piedi” ringhiò il nonno, cercando di sopportare stoicamente il dolore che continuava a distorcergli la voce e il volto.
Spostai lo sguardo da lui a Dean, quando questo riprese a parlare: “Sì che puoi. Prendi la macchina, dobbiamo portarlo in città”.
Non so se ci riesco, io...”
Dean mi puntò addosso lo sguardo più serio e risoluto che avessi mai visto in volto a qualcuno. “Pan” disse solo, in un tono che non ammetteva repliche.
Istintivamente cercai l'appoggio di Kameron, che boccheggiò un secondo in cerca di una soluzione e poi “Se volete posso guidare io, ho il pick-up” propose.
Dean scosse il capo. “No, non ci stiamo tutti sul pick-up: è troppo freddo per il cassone. E la macchina di Abe è a secco”.
Cosa?” sbottò il vecchio, severo, fulminandolo con un'occhiataccia. Il ragazzo biondo abbozzò un sorriso irriverente: “Non sei nelle condizioni di sgridarmi” gli ricordò. “Non avevo i soldi per la benzina l'ultima volta che sono andato in paese. Andiamo, Kam. Un passo alla volta, piano” spiegò brevemente. “Dai, muoviti Pan!” mi ripeté. E io obbedii: afferrai le chiavi della macchina appese al chiodo nell'entrata, con le mani che tremavano, e corsi fuori in ciabatte.
Mi ci vollero quattro tentativi prima di riuscire a mettere in moto la mia macchina. Ficcai un CD nell'apposita fessura e feci partire la musica, sperando che mi calmasse un poco, poi feci manovra, misi in folle, tirai il freno a mano e corsi ad aprire lo sportello posteriore per permettere ai ragazzi di mettere il nonno – che ancora si ostinava a ripetere di lasciarlo sul divano – sui sedili.
Cos'è 'sta roba?” domandò Kameron, quando sentì la musica. Sì, be', la compilation delle sigle dei pokemon non era esattamente la musica migliore che si potesse trovare, ma al momento non avevo di meglio in macchina. Arrossii, senza sapere cosa rispondere e lanciai un'occhiata per spiare la reazione di Dean, che tuttavia non disse niente. “Sali davanti” ordinò al suo migliore amico.
Posso cambiare CD, però?” domandò Kameron, una volta che tutti prendemmo posto.
Fai quel diavolo che ti pare” tagliò corto Dean, per poi sporgersi in avanti e posare gli avambracci sugli schienali dei nostri sedili. “Ascoltami, okay?” mi disse, dritto in un orecchio – più a causa della vicinanza alla mia testa che non per sua volontà di farlo. E, okay, forse non era sua intenzione farmi arrossire e venire i brividi, ma successe comunque. Non un gran bel modo per infondermi coraggio e tranquillità.
Kameron tolse il CD e aprì il bauletto alla ricerca di qualcuno che gli piacesse di più.
Devi stare calma” disse Dean. “La strada che devi percorrere è la stessa per la scuola. Una volta in città ti diremo noi dove andare. Capito?”
Ca-capito” mormorai. Poi lanciai un'occhiata allo specchietto retrovisore per controllare le condizioni del nonno. Stava stranamente zitto, aveva smesso di lamentarsi dell'inutilità di coinvolgere medici in quella storia. “Stai bene?”
Certo che sto bene, pensa a guidare” brontolò lui a voce bassa, evitando accuratamente il mio sguardo. Il che mi fece sospettare che invece non stesse bene per niente.
Presi un respiro profondo e feci per partire, ma l'auto si spense.
Sentii Dean respirare a fondo a sua volte, mentre Kameron si guardava attorno a disagio. “Rimetti su quel CD, Kam, puoi sopportare i pokemon per un quarto d'ora, no?”
Lui obbedì, mentre io mi sforzavo di stare calma e mettere in moto. “Grazie” sussurrai a voce così bassa che per un attimo sperai che Dean non avesse sentito. Poi però lo vidi annuire nello specchietto e sentii il cuore accelerare il battito. Aveva davvero fatto qualcosa per me?
 
Dopo quella prima difficoltà, eravamo ad arrivare all'ospedale senza intoppi. Il nonno era stato fatto sedere su una sedia a rotelle – e solo il cielo sa quanto si lamentò per questo – in attesa del suo turno per essere visitato. Era strano che anche in una città così piccola il pronto soccorso fosse così affollato; non mancavano bambini frignanti, vecchi brontoloni – Abe in primis – e ragazzi incapaci di sopportare un po' di dolore che si lagnavano a mezza voce come se fosse in bilico tra la vita e la morte. Tra questi spiccavano un paio di studenti dell'ultimo anno della nostra scuola, i quali non risparmiarono occhiate diffidenti in direzione di Kameron e Dean. Mi aspettavo che almeno quest'ultimo ricambiasse con la stessa moneta quelle occhiatacce, ma mi stupì limitandosi a far finta di niente. Si sedette su una sedia come Kameron e me, in attesa che arrivasse il turno di Abe.
Fissavo ostinatamente il muro bianco dall'altra parte del corridoio, chiedendomi cosa sarebbe successo. Mi auguravo che il nonno stesse bene e non si fatto nulla, ma quante probabilità c'erano che un uomo della sua età cadesse per le scale senza essere scalfito? Inoltre era evidente che non riuscisse a stare in piedi da solo, non poteva esserne uscito del tutto indenne. Eppure continuavo a sperarci.
Rivivevo nella mia mente il rumori di quella caduta, la scena del nonno accasciato sulle scale, i suoi vani tentativi di rialzarsi da solo. Nelle mia testa Abe era una persona forte, capace di affrontare indenne qualunque circostanza. Non avevo idea del perché avessi quest'infantile visione di lui, ma la nuova consapevolezza che le cose non stessero così mi turbava. E se un giorno lui non ci fosse stato più? Io cosa avrei fatto? La mia famiglia in quel momento era costituita esclusivamente da lui – perché, sì, ormai consideravo casa mia solo la fattoria, non certo l'abitazione dei miei genitori. Come sarebbe stato vivere lì senza di lui? Non avrei saputo nemmeno fare... be', niente. Non ero in grado di vivere da sola e non lo sarei mai stata. E mi sarebbe mancato, mancato terribilmente. Aveva lentamente sostituito la figura paterna a cui mi ero disperatamente attaccata fino ai miei diciotto anni, ne avevo ottenuta una molto più affidabile e salda, per quanto continuassi ad adorare mio padre. Cosa avrei fatto se questa mi fosse stata strappata?
Di nuovo risentii i passi del nonno, i tonfi sulle scale, i gemiti di dolore e le sommesse imprecazioni. Poi mi ricordai di un piccolo particolare: “Ho lasciato l'acqua sul fuoco” rizzai la testa, sgranando leggermente gli occhi.
Abraham sbuffò sonoramente: “Un motivo in più per tornare a casa” commentò.
Stai scherzando?”
Se era per quello avevo anche lasciato la tovaglia sul pavimento e la porta aperta, ma molto probabilmente questo particolare non era altrettanto grave. Non si poteva dire altrettanto della stufa accesa e incustodita. Strinsi le mani l'una nell'altra, abbassando leggermente la testa. “Non è che io abbia avuto molto tempo per pensare a cosa fare...” risposi, senza il coraggio di guardarlo negli occhi. Era già molto che non mi avesse ancora preso a male parole.
Dean respirò a fondo, poi nascose le mani nelle tasche dei pantaloni, la mandibola contratta, ma non disse nulla – al contrario di Abraham, che non era mai stato lamentoso come quel giorno.
Fu Kameron a risolvere il problema, con una proposta tutt'altro che insensata. “Si può telefonare a Ginger, lei manderà qualcuno alla fattoria”.
Sì” acconsentì Dean, annuendo appena. “Pensateci voi”. E noi obbedimmo.
 
Ci vollero un paio d'ore prima che qualcuno visitasse il nonno. Quando finalmente l'infermiera permise a me e Dean di entrare nella sua stanza, un dottore ci informò della situazione, mentre Abraham borbottava come una caffettiera: cadendo aveva subito una frattura composta del femore, sarebbe stato sottoposto ad un intervento il giorno seguente e, salvo complicazioni, entro tre giorni sarebbe potuto tornare a casa. Il problema di per sé non era grave per la salute del nonno, ma, come ci avvisò il medico dopo averci scortato fuori dalla stanza, era probabile che il nonno subisse ripercussioni psicologiche a seguito di quell'evento.
Perché?” mi venne naturale domandare, mentre mi torturavo le mani per la preoccupazione.
Il dottore si sistemò gli occhiali tondi sul naso e si spiegò meglio, guardandomi dritto negli occhi: “In una persona della sua età è difficile recuperare del tutto la mobilità, dopo una frattura del genere. Con un po' di fortuna potrà ricominciare a camminare sulle proprie gambe, dopo un periodo di fisioterapia e riabilitazione, ma non sarà come prima. Detto fra noi, ai vecchi contadini di quel paesino non è mai andata giù l'idea di non poter più lavorare e me ne sono capitati in cura diversi, da quando lavoro qui. Dovrete tenerlo d'occhio e assicurarvi che non faccia sciocchezze, ragazzi. E incrociate le dita perché non rimanga in sedia a rotelle”.
Non erano esattamente queste le notizie che mi aspettavo di sentire.
 
Tieni, ho preso da mangiare”. Dean si sedette sulla poltroncina di fronte alla mia, dall'altro lato del corridoio, porgendomi un sacchetto di carta bianco. Gli rivolsi un'occhiata interrogativa e lui mi mostrò sbrigativamente che ne aveva uno uguale in mano. “Allora? Non lo vuoi?”
Mi affrettai ad annuire, allungandomi per afferrare il sacchetto. “Sì, sì. Grazie”. Conteneva un panino, come scoprii dopo qualche istante.
Lui scrollò le spalle come a sminuire la sua gentilezza. Che di per sé, solitamente, non era poi così significativa, ma quel giorno si era dimostrato una persona civile in più occasioni.
Erano le sette di sera e si era fatto buio già da un bel po'. Avevamo trascorso l'intera giornata in quell'ospedale, con qualche breve pausa per prendere una boccata d'aria all'esterno. Kameron era tornato a casa nel primo pomeriggio, con la promessa che sarebbe tornato a prenderci alle due del pomeriggio del giorno seguente. Sebbene Dean mi avesse ripetuto svariate volte di tornare alla fattoria, mi ero rifiutata di abbandonare lì il nonno. E così c ritrovavamo entrambi seduti in quel corridoio, in attesa che il tempo passasse. L'orario per le visite era finito, ma le infermiere avevano detto che, in quanto parente più prossima ad Abraham, ero autorizzata ad entrare nella stanza del nonno quando volevo, salvo diverse istruzioni. Al momento, però, ero così giù di corda che non me la sentivo di star lì dentro, sicuramente non sarei stata d'aiuto.
Non fare quella faccia” brontolò ad un tratto Dean. Alzai lo sguardo per incontrare il suo, il quale però era fisso sul proprio panino.
Quale faccia?”
Lui ignorò la mia domanda e scrollò le spalle come se non fosse importante – e in effetti non lo era più di tanto. “Abe è un tipo a posto. È forte” buttò lì quasi con casualità.
Sembrava a me o quello era un goffo tentativo di consolarmi? Senza nemmeno rendermene conto mi ritrovai a reprimere un sorriso. “Lo so” risposi, anche se ciò che avrei davvero voluto dire era “grazie”. Gli ero grata per questi suoi improvvisi moti di solidarietà dei miei confronti, molto. Era evidente, però, che lui non avesse voglia di parlarne o far notare in alcun modo il suo sforzo per essere gentile, ecco perché mi obbligai a far finta che tutto fosse normale.
Senza dire una parola di più, mangiammo i nostri panini, dopodiché io sgattaiolai in camera del nonno.
Lui stava già dormendo quando mi accoccolai sulla poltrona accanto al letto e mi sforzai di chiudere gli occhi. Non era nulla di grave, mi ripetevo, sarebbe andato tutto bene.
La poltrona era scomoda, fuori il vento soffiava forte, sibilava e faceva sbatacchiare le tapparelle. Probabilmente aveva anche ricominciato a nevicare, ma sarebbe andato tutto bene. Non poteva non andare tutto bene. Non poteva, vero?
Quella notte non fu decisamente tra le migliori della mia vita. Ebbi un sonno tormentato, frammentato e popolato da sogni tutt'altro che piacevoli in cui non facevo che piangere, piangere, gridare e percepire l'angoscia strozzarmi la gola.
 
Il giorno dopo, però, tutto andò nel migliore dei modi, più o meno. L'intervento riuscì bene e senza complicazione e nel pomeriggio potemmo riportare Abe a caso, con la condizione che sarebbe tornato in città nei giorni prestabiliti per la terapia di riabilitazione.
Il lato negativo della faccenda era che per ora di camminare sulle proprio, con il nonno non se ne parlava neanche. Era stato difficile convincerlo a sedersi sulla sedia a rotelle, ma alla fine ci eravamo riusciti – Dean ci era riuscito, abbaiandogli senza un minimo di tatto frasi poco carine e decisamente esagerate; aveva attirato gli sguardi sconvolti delle infermiere ma alla fine era risultato un metodo efficace. D'altra parte Abe si era categoricamente rifiutato di farsi spingere da qualcuno: “Finché sono lucido, voglio arrangiarmi” aveva proclamato con stoica ostinazione, le mani già sui sostegni delle ruote. Ed era partito di gran carriera, lasciandoci indietro di diversi metri.
Cavolo, come va!” aveva esclamato Kameron con ammirazione. Avevo annuito, mentre Dean aveva riso: “Voglio proprio vedere come farà quando arriverà alle scale”.
Com'era da aspettarsi, nonno Abe era un uomo dalle mille risorse: quando raggiungemmo le scale, facemmo giusto in tempo a vederlo sparire dietro le porte dell'ascensore. Il che sarebbe stato perfettamente normale se il nonno non fosse stato claustrofobico e sospettoso nei confronti di quasi ogni “trabiccolo tecnologico”, ma di fatti lo era, e il suo comportamento la diceva lunga su quanto fosse orgoglioso.
La parte più difficile della gestione di Abe arrivò, forse, alla fattoria. Su una sedia rotelle non potevamo spingerlo per le scale fino alla sua camera da letto, ma lui non voleva saperne di dormire sul divano. Parlai a vanvera per una buona mezz'ora prima che Dean gli facesse notare che l'alternativa sarebbe stata portarlo su e giù per le scale in braccio. Solo allora Abraham, sconfitto, dichiarò con un filo di voce che il divano non era una soluzione non era un'idea poi così malvagia.
All'inizio fu tutto fuorché facile. Grazie a Dio per quanto riguardava l'igiene personale del nonno, non fui nemmeno presa in considerazione. D'altra parte, ora che il nonno era in quelle condizioni, la mole di lavoro in casa era raddoppiata. Il fatto che Kameron avesse deciso di scegliere la fattoria Fletcher come sua seconda casa risultò una fortuna; fu molto d'aiuto dal momento in cui ora anche i compiti solitamente svolti da Abe si aggiungevano a quelli di cui normalmente ci occupavamo io e Dean. E poi c'erano i compiti scolastici, anche. Trovare il tempo per ogni cosa non era facile, ma dopo un paio di giorni di ritardi e orari un po' sfasati, eravamo riusciti a prendere il ritmo. Si arrivava a sera stravolti dalla fatica e con le orecchie che dolevano per il troppo lamentarsi del nonno, ma si arrivava a sera.
In questa situazione fuori dal comune, anche le relazioni tra gli abitanti della casa erano insolite. Tanto per cominciare dovevo sforzarmi per non essere sempre addosso al nonno, per non chiedergli continuamente se avesse bisogno. A dire il vero ci avevo provato, ma ero stata cacciata in malo modo almeno quindici volte durante i primi due giorni. Meglio evitare, mi ero detta. Avevo inoltre capito quanto fosse difficile per un uomo del tutto abituato ad arrangiarsi ed orgoglioso della sua indipendenza dover appigliarsi a qualcuno per ognuna delle piccole azioni quotidiane che prima faceva senza alcuno sforzo.
Dean doveva averlo capito prima di me, perché invece che essere indifferente come al solito, riversava sul nonno tutta la sua indolenza, senza tuttavia fargli pesare il suo stato di momentanea – si sperava – invalidità; non passava giorno senza che il nonno non si impuntasse a voler far qualcosa a lui inaccessibile e Dean non gli dicesse, non senza una buona dose di sarcasmo, che se avesse voluto farlo avrebbe dovuto tornare indietro nel tempo ed evitare di rotolare giù per le scale. Personalmente al posto del nonno me la sarei presa a morte per il suo comportamento brusco e maleducato, ma Abe sembrava apprezzare. Non voleva essere compatito, aiutato, voleva essere trattato com'era giusto. Quindi rideva quando Dean si lamentava del sovraccarico di lavoro, si impegnava a fargli notare tutti i più piccoli errori che compiva e gli rispondeva a tono quando risultava un po' troppo impertinente. (“Solo perché sono infortunato, non sei autorizzato a bestemmiare in casa mia, ragazzo!”, “Alzati e prendimi a calci nel culo, Abe, avanti!”)
Al contrario, con me si comportava molto meglio del solito. Addirittura avrei potuto dire che mi trattava bene. Nel mezzo di quella difficile situazione, lui mi dava istruzioni su come comportarmi e cosa fare e io, stranamente, non osavo contestare le sue decisioni. Una parte di me diceva che senza di lui la fattoria sarebbe andata a rotoli, era quindi necessario fare come diceva senza lamentarsi. E infatti era così che facevo. Con il nonno in quelle condizioni, il mio impegno in qualunque cosa facessi era doppio, l'unica cosa che finivo per trascurare, con somma gioia di Kameron, erano i compiti scolastici. Ma per quello ci sarebbe stato tempo, al momento era occuparmi della casa ciò che mi premeva.
Quel pomeriggio, tuttavia, era l'ultimo giorno di vacanza e lo studio era appena diventato un'urgente priorità. Kameron era già in cucina che spargeva i libri sul tavolo, mentre Abe gli faceva chissà quale interrogatorio come ormai faceva ogni volta se lo trovava di fronte da solo. Io, invece, ero in camera che raccattavo i libri necessari. Stavo giusto pensando che probabilmente sarebbe servito mettere su carta il programma di studi per il pomeriggio ed era un peccato che non ce ne fosse il tempo, quando la voce di Dean mi fece sussultare. “Kam ti aspetta in cucina”.
Sì, sì, lo so” risposi in breve e, dopo avergli lanciato giusto un'occhiata – che bastò a farmi venire la tachicardia –, tornai a raccogliere volumi e quaderni, con la sua immagine stampata a fuoco in mente. Una parte di me, quella evidentemente più cretina, era felice del cambiamento che il nostro non-rapporto aveva subito. Avevamo finalmente imparato a coesistere, persino a cooperare. Il solo pensare una cosa mi sembrava ancora impossibile. Se avessi dovuto trovare un lato positivo nella situazione causata dall'incidente di Abe, avrei senza dubbio scelto questo: Dean non mi detestava più. O, se ancora lo faceva, era diventato tutto ad un tratto discreto.
Lo sta riempiendo di domande idiota”.
Sembra che il nonno ci stia prendendo gusto, in effetti”.
A metterlo in imbarazzo, dici?”
Quando mi voltai, lui era ancora lì, in piedi sulla soglia della mia camera con le braccia incrociate e si guardava attorno sorridendo divertito. Era maledettamente bello. E tutto ciò era maledettamente strano.
S-sì, metterlo in imbarazzo”. Un po' come lo ero io sotto il suo sguardo, ogni volta che non si rivolgeva a me con disprezzo.
Rise.
La sua risata agitò le farfalle nel mio stomaco. Stronzo.
Dovrà pur fare qualcosa, pover'uomo, no?”
Del tutto indifferente, Pan. Lui ti è del tutto indifferente, ricordi? “Già, prendere in giro il tuo migliore amico”, che poi era anche il mio, in teoria.
Il vecchio crede che tra voi ci sia... del tenero”, sogghignò.
Scrollai le spalle, mentre attraversavo la stanza con una smorfia di disappunto in volto. “Sembra che una ora non possa più avere amici maschi senza che il proprio nonno prepari le nozze...”
Dean rise. “Non credo che sia pronto a cedere la tua mano a Kam, sai?” buttò lì divertito.
Mi ritrovai ad arrossire come una cretina. Da quando scherzava con me?
Abbozzai un sorriso, mentre, in piedi di fronte a lui, speravo che si scansasse. “Poco male” sussurrai, rendendomi conto di quanto la scena fosse patetica: ero paonazza in volto per colpa di un ragazzo che giusto un paio di mesi prima mi aveva detto chiaramente che non sapeva cosa farsene della mia stramaledetta cotta nei suoi confronti. E nonostante mi fossi imposta di dimenticarlo, mi era stato impossibile. Anzi, negli ultimi giorni avevo la triste sensazione che i miei sentimenti non solo fossero tornati a galla, ma si fossero addirittura rafforzati.
Poteva andare peggio di così?
Sì, poteva.
Avrei dovuto smettere di pormi quella domanda, tanto poi era matematico che le cose sarebbero precipitate.
Successe quando alzai lo sguardo per intimare a Dean di lasciarmi passare. In un primo momento pensai ad un giramento di testa, quando vidi Dean muoversi (e non all'indietro). Dovette chinarsi su di me prima che mi rendessi conto che il suo volto si stava davvero avvicinando al mio.
E allora...
Be', allora feci un balzo indietro.
Che diavolo stava succedendo? Avevo il cuore che batteva all'impazzata e, se possibile, ero ancora più rossa in volto di qualche attimo prima. Frastornata. Frastornata era il termine giusto; il sangue pompava forte e ne sentivo il rimbombo nelle orecchie. Mi tremavano le gambe.
Dean era ancora fermo sul posto, leggermente chino in avanti, un'espressione indecifrabile in viso. Si raddrizzò e “Che ti prende?” domandò scocciato. Riecco il vecchio Trenino Thomas.
Cavolo, cavolo, cavolo. Doveva essere stata tutta una mia impressione. Un'epica figura di merda, una di quelle Kameron non avrebbe mai saputo nulla o avrebbe riso di me per l'eternità. Forse nemmeno Emily lo avrebbe saputo. Dovevo proprio essere un'illusa disperata se avevo creduto stesse per baciarmi! Che vergogna.
Boccheggiai, farfugliando qualcosa di sconnesso in risposta, e, quando mi accorsi di non riuscire a mettere in fila una frase di senso compiuto, mi limitai a scuotere leggermente il capo, fissando i suoi all'improvviso interessantissimi piedi. “Niente” riuscii a biascicare.
Lo sentii sbuffare. “Qual è il tuo problema?”
Strinsi le labbra in una smorfia confusa, non sapendo cosa dire. Così lo guardai senza dire niente.
Quelle...” sbuffò. “Erano tutte chiacchiere?”
Eh? Forse avevo perso il filo del discorso. “Cosa?” mi lasciai sfuggire, facendo senza pensarci un altro passo indietro. Il mio gesto sembrò non piacergli, perché arricciò un labbro con fare contrariato e poi spalancò le braccia. “ Si può sapere che ti è preso?”
A me? Non ci stavo capendo più niente. “Un giramento di testa” risposi, pur di dargli una risposta. Non ero sicura che fosse ciò che voleva sapere, ma non avevo idea di dove volesse andare a parare. Non avevo una minima idea di nulla, al momento. La mia mente era nel caos più totale, ogni pensiero era sballottato tra una seria di 'perché?' e 'non essere sciocca' in tutte le loro possibili sfumature.
E allora rise, al di là di ogni aspettativa. “Ti faccio questo effetto?”
Spalancai la bocca per rispondergli male, ma non ci riuscii di fronte al suo sorriso divertito.
Posso chiamare a casa? Altrimenti scelgo l'aiuto del pubblico. Non ci stavo capendo più niente.
Distolsi lo sguardo cercando di recuperare un minimo di lucidità mentale.
Peccato. Pare che io sia un baciatore niente” concluse, soffocando una risata.
Lo guardai, sconvolta da quelle parole, ma lui mi aveva già voltato le spalle e stava scendendo le scale.
Cosa? Cosacosacosa? No, no, no.
Dovevo aver capito male. Tanto per cambiare dovevo aver frainteso tutto, preso fischi per fiaschi.
Sì, doveva essere così. Era ovvio. Perché cioè che la mia testa bacata aveva elaborato suonava proprio come un “Peccato che tu ti sia spostata, avevo intenzione di baciarti” e, no, non era plausibile. Assolutamente. Per niente.
Rimasi impalata sul posto, i libri tra le mani, lo sguardo perso nel vuoto. Il cuore ancora batteva all'impazzata, le guance mi bruciavano e la mia testa era nel bel mezzo di una tempesta.
Carol, piccola peste, placati!
E se invece fosse stato vero? Ero un po' stupida, okay, ma non potevo esserlo così tanto.
Sì, sì, invece. Potevo. Non avevo capito niente, come al solito.
Oh Merlino!
Senza pensarci due volte scaricai tutti i libri sulla scrivania e mi gettai sul letto a pancia in giù, il volto affondato nel cuscino, e strillai. Forte, cercando di sfogare i mille pensieri che mi frullavano nella mente senza riuscire ad uscirne né a riordinarsi.
Perché? Perché tutte a me?
 
In der Ecke – Nell'angolo:
Ed eccomi qui, con l'ormai consueto ritardo. Sono esaltatissima perché ho finalmente deciso un titolo per la mia tesina di maturità e scritto l'introduzione. Venerdì l'insegnante di italiano me la stroncherà, ma almeno ho buttato giù qualcosa.
Non sono molto convinta di come è uscita la parte finale e, lo ammetto, non ho riletto il capitolo. Spero che non ci siano troppi orrori, probabilmente lo farò nei prossimi giorni. Se per caso incorrete in errori gravi come frasi lasciate in sospeso – porca vacca, devo smettere di farlo – fatemelo pure notare. Il correttore automatico non ha riscontrato errori, al di là dei nomi dei personaggi, che proprio non gli piacciono.
Ma ehm... sì, sto volutamente glissando sul contenuto del capitolo. XD Non so se il graduale cambiamento di Dean sia davvero graduale quanto avrei voluto renderlo, l'incidente di Abe ha contribuito a cambiare la cose. Spero soprattutto che il missing moment (che come qualcuno sa ho posticipato a dopo questo capitolo) possa giustificare almeno in parte gli ultimi avvenimenti e comportamenti del biondo mestruato – che sembra aver concluso i suoi interminabili cinque giorni critici. 
Quindi, be', stay tuned per il missing moment!
 
Credo che basti così. Per eventuali domande, sapete come contattarmi: potete trovarmi su facebooktwitterask.fm e naturalmente sul gruppo facebook. E, be', chiaramente qui su EFP.
 
Grazie a tutti voi che siete arrivati fino a qui, grazie a tutti coloro che hanno speso belle parole per me e la mia storia. 
Grazie, grazie, grazie di cuore! ♥

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Capitolo 43
*** 43 ***


Cows and jeans
 
43
 
 
Il modo aveva cominciato a girare al contrario. Non c'era altra spiegazione, se non, forse, che fossi finita nel paese delle Meraviglie, dove le cose non hanno alcun senso logico e molte funzionano al contrario; quindi, in ogni caso, tutto quello che stava succedendo era assurdo.
Nulla era più come l'avevo conosciuto al mio arrivo.
A parte Kameron. Kameron era sempre lo stesso adorabile cretino che adorava prendermi in giro per via di Carol. Questa volta dovevo ammettere che non aveva nemmeno tutti i torti; dove si era mai visto che una ragazza cotta a puntino di un ragazzo, si scansava quando lui cercava di baciarlo, convinta di aver avuto una vertigine? Non aveva alcun senso. Come tutti sappiamo, però, è proprio quello che è successo a me.
Ma torniamo alla mia personale Wonderland, è davvero... curioso.
Come in ogni paese delle Meraviglie che si rispetti, anche a Sperdutolandia c'era uno Stregatto. Ecco, lo Stregatto della situazione era sicuramente il caro Kam, che compariva sempre nei momenti meno opportuni ridacchiando e sorridendo sornione, intuendo doppi sensi e mistiche rivelazioni che solo la sua sopraffine mente di poeta simbolista poteva afferrare.
Era onnipresente e sembrava reggere costantemente il coltello dalla parte del manico. La parte più dolorosa della faccenda era che, in effetti, era così. Insomma, era l'unico a divertirsi in quella situazione assurda – almeno quando il nonno non lo braccava per riempirlo di domande scomode, perché a quel punto nemmeno lui rideva più, se non per l'imbarazzo.
Il ruolo di Brucaliffo calzava a pennello a nonno Abe, invece, che se ne stava tutto il giorno appollaiato sulla sedia a rotelle – suo malgrado – a controllare le azioni degli abitanti e degli ospiti della fattoria, borbottando tra sé e sé, correggendo gli errori altrui e rispondendo a tono a tutte le frecciatine che Dean gli rifilava in risposta ai rimproveri. Forse, ripensandoci, a nonno Abe si addiceva di più il ruolo della Regina di Cuori, in quanto ad umore e gentilezza...
Al di là del suo pessimismo e della sua perenne frustrazione, non ci mise molto per migliorare. Quotidiana era la lotta per convincerlo a salire in macchina e collaborare con il fisioterapista per gli esercizi di riabilitazione, ma i risultati furono positivi: secondo i medici, sorprendentemente, era un uomo davvero forte come sembrava; era ancora presto perché si reggesse sulle proprie gambe, ma non ci sarebbe voluto molto perché potesse stare in piedi con l'aiuto delle stampelle. Da lì alla totale riabilitazione la strada era ancora in salita e parecchio accidentata, ma nessuno aveva più dubbi sul fatto che Abraham Fletcher potesse arrivare in cima e rimettersi completamente – per quanto fosse possibile.
Se da questo lato le cose non facevano che migliorare, dall'altro si complicavano giorno dopo giorno. E non azzardatevi a chiedere di quale altro lato io stia parlando, so benissimo di cosa, o meglio di chi, volete che vi racconti. Ebbene sì, era proprio sul fronte McDonnel che le cose stavano andando peggio. Non solo per quanto concerneva il buon... il caro... insomma, Dean, ma in generale tutti e tre i fratelli sembravano essere particolarmente fuori dai canoni nell'ultimo periodo: uno si presentava alla prima lezione dopo le vacanze di Natale con un compito in classe a sorpresa di letteratura, un'altra era così sfuggente come non l'avevo mai vista e, infine, l'ultimo sembrava aver dimenticato il ruolo del suo personaggio. Era completamente Out Of Character e nemmeno se ne rendeva conto. Per capirci, era arrivato a cercare di consolarmi con battutine quasi divertenti, quando ero tornata da scuola con Kameron, lamentandomi dei pessimi voti che avevamo ricevuto a quello stupido compito a sorpresa – non solo per la mia D-, ma per la F di Kam: Merlino solo sapeva quanto sarebbe stato difficile farla recuperare a quello zuccone, specie ora che il nonno era in quelle condizioni, Dean fuori da ogni controllo e i miei nervi ipertesi a causa di quel mix esplosivo di guai. Perché, sì, si trattava di guai. I sorrisi ammiccanti di Dean erano guai, il suo sguardo divertito che incrociavo ogni volta che commettevo l'errore di guardare nella sua direzione era un guaio, la sua voce, la sua risata, la sua costante presenza al mio fianco erano un enorme, immenso guaio. Non potevano che essere tali, erano un cambiamento non indifferente, una novità sconcertante che mi turbava e spaventava. Perché tutto d'un tratto rideva e scherzava con me? Perché quando tornavo a casa lamentandomi degli insegnanti, anziché zittirmi con qualche frecciatina sarcastica o ignorarmi bellamente, mi ascoltava mentre parlavo da sola per sfogarmi e buttava lì qualche battutina per prendere in giro i suoi vecchi professori? Perché continuava a comparire nel bel mezzo di un pomeriggio di studio e si trastullava in cucina, fingendo di essere lì per caso e non per darmi fastidio, mentre rideva e scherzava con Kameron? Perché quando un'equazione non ci portava al risultato giusto, si chinava sempre sul mio quaderno per controllare gli errori, e non su quello di Kameron, che aveva chiesto il suo aiuto contro la mia volontà, sapendo benissimo quanto la sua vicinanza mi mettesse a disagio? Perché sorrideva sornione quando il nonno rifilava domande assurde e imbarazzanti a Kameron sul mio conto?
La risposta era solo una: si era rimbambito. Doveva aver battuto forte la testa mentre lavorava, era evidente, mandando così a farsi friggere tutto il suo bel caratterino. Okay, un carattere di merda che avevo sempre detestato, ma che almeno era una sicurezza, una costante nella mia vita. Sapevo che Dean andava evitato, che non c'era alcuna speranza per me e la mia Carol, nella sua vita non c'era spazio per noi, se non come elementi di disturbo marginali; qualcosa come un moscerino, talmente insignificante da non dare nemmeno seriamente fastidio. A quel punto, però, non avevo più nemmeno quella certezza. Lo evitavo come la peste, perché mi mandava in tilt e non sapevo come affrontare questo suo improvviso cambiamento di rotta.
Lui, dal canto suo, sembrava averla presa come una sfida personale. Non mi seguiva, questo no, e nemmeno mi cercava o diceva frasi da “figo della scuola” da film americano di quarta categoria – grazie al cielo –, ma quando ci trovavamo nella stessa stanza, mi bersagliava con occhiatine insistenti e sorrisetti di scherno. Sorrideva, sorrideva un sacco, causando un aumento del mio battito cardiaco ogni dannatissima volta.
Sembrava più disponibile e quando mi prendeva in giro, cosa che comunque succedeva continuamente, non lo faceva più con il palese intento di ferirmi e rendermi ridicola, ma con quello puro e semplice di ridere e magari far ridere anche me. In modo giocoso colpiva Kameron, il nonno, Aggie e anche me con le sue battute e spesso risultava addirittura simpatico.
Allora, ci credete o no che il mondo stava cominciando a girare al contrario?
Come se non bastassero i due fratelli McDonnel presi da momenti di puro sadismo, anche la sorella non era da meno in quanto a stranezza, nell'ultimo periodo. Incontrarla per i corridoi della scuola era diventato più difficile di trovare la Coppa Tremaghi nel labirinto della prova finale – al posto della Sfinge si rischiava di incontrare quel simpaticone di Mark in tutta la sua gentile e bella presenza. Non la si vedeva più correre tra una classe e l'altra durante i cambi dell'ora o, quando capitava, era sempre troppo lontana per poterle parlare. A mensa, nemmeno a dirlo, non c'erano mai posti vuoti al suo tavolo e, insomma, a parte l'obbligatorio tragitto casa-scuola e scuola-casa, non c'erano occasioni per fare quattro chiacchiere.
Kameron sembrava intristito da quell'improvvisa assenza di Agatha. Avevo provato a spiegargli che probabilmente si trattava di pure coincidenze; in quel periodo era molto impegnata per la scuola e per questo non aveva molto tempo da perdere con noi, che di certo non l'avremmo aiutata a studiare – Aggie, al contrario nostro, prestava particolare attenzione ai suoi voti. Insomma, di certo non ci stava evitando, ne ero convinta. O almeno lo ero stata finché, una mattina, non assistetti da lontano ad un scena insolita.
Avevo avuto bisogno del bagno e, per questo motivo, Kameron si trovava solo in corridoio all'intervallo. Mi aspettava mollemente appoggiato al muro, con le mani dietro la schiena e l'espressione allegra di sempre, quando Aggie e le sue amiche gli passarono di fronte, senza nemmeno fermarsi a salutare. Per un attimo avevo pensato che non l'avesse visto, poi, però, la testolina bionda della ragazza si era voltata a controllare l'espressione del buon vecchio Kameron, che si grattava la testa, confuso, e si sforzava di sorridere fingendo di non esserci rimasto male. Fu quel giorno che capii che, impegni scolastici o meno, qualcosa non andava con lei. Così cercai una buona occasione per parlargliene.
Chiaramente, come ogni volta che si aspetta il momento giusto per qualcosa, quello non arrivava. Quella che seguì fu una settimana di inferno. A parte l'impellente bisogno di interrogare tutti che affliggeva il professor McDonnel, per recuperare i votacci delle verifiche di spagnolo, la scuola era l'unico momento di stacco dalle mie paranoie e preoccupazioni Deancentriche. D'altro canto, come la mia povera auto blu veniva parcheggiata fuori dall'edificio scolastico, Kameron toglieva i panni dello Stregatto, smetteva di prendermi in giro in maniera più o meno velata per l'assurda situazione con Dean, ed entrava in fase Paranoia. La fase paranoia di Kameron Towell è qualcosa che non auguro a nessuno. Perché Kameron, si sa, non è un tipo particolarmente sveglio, ma senz'ombra di dubbio è ottimista. Le paranoie di una persona ottimista sono ciò di più ridicolo e snervante che si possa ascoltare a questo mondo.
Sentirlo commentare la patetica scena del non-saluto di Aggie con un misto di ironia e autocommiserazione era snervante. Si trattava di tutto un susseguirsi di risatine nervosa, “Magari non è come sembra”, “Tu che dici?”, “Mi sta evitando”, “Che le prende?”, “Sono sicuro che le passerà presto” e “Ma come fai a sopportarmi?”. Quella sì che era una bella, bellissima domanda. Come facevo a sopportarlo? Non lo sopportavo. Quel ragazzo stava diventando il mio personale secondo incubo. Ecco perché, quando per caso incontrai Agatha nel bagno delle ragazze, durante un intervallo, la fermai.
Ehm, Aggie?” cercai di attirare la sua attenzione, come sempre in soggezione di fronte al suo carattere austero, ma questa volta anche decisa a non farmi raccontare sciocchezze. Al di là della mia pazienza giunta quasi al limite, mi dispiaceva vedere Kameron angustiarsi – anche se con una buona dose di autoironia – su quella faccenda.
Lei sussultò, mentre si sciacquava le mani al lavandino. Era evidente che sperava non le rivolgessi la parole. “Ciao, Pan” farfugliò senza guardarmi.
Ciao” ripetei, confusa dal suo atteggiamento. Non mi aveva degnata di uno sguardo e si muoveva a scatti, come se si sentisse parecchio in imbarazzo. Notato ciò, mi venne automatico girarmi alla ricerca di qualcuno che potesse metterla a disagio: non potevo credere di essere io il problema. Ma, be', a meno che l'elemento di disturbo non fossero le due ragazze che si copiavano a vicenda gli appunti stese sul pavimento, sotto la finestra, lì dentro non c'era nessun altro. Quindi, per quanto la scelta di quelle due non fosse propriamente igienica, mi ritrovai a riconoscere che il problema ero io. “Tutto a posto?” le domandai, quindi, un po' confusa.
Agatha annuì frettolosamente, mentre si asciugava le mani, in fretta e furia. Prima che potesse fiondarsi fuori dal bagno con una scusa, quindi, le chiesi: “Posso parlarti di una cosa? Da amica a amica”.
La vidi bloccarsi un attimo, soppesare le mie parole con una smorfia di disapprovazione in volto, ma, proprio quando ero convinta che mi avrebbe mandata al diavolo, sospirò, sistemandosi l'immancabile coda di cavallo alta: “E va bene”.
Grazie” esalai a mia volta, sollevata dall'essere riuscita a raggiungere almeno il primo step della mia missione. Ora, però, arrivava la parte difficile. Che dirle? Ehi, ho visto che non hai salutato Kameron e ora lui si fa un sacco di viaggi mentali; che succede? Non era un'idea malvagia, ma mi sarei mandata al diavolo pure io, se fossi stata così diretta.
Spara” mi incoraggiò quindi, sedendosi sul lavabo, lo sguardo duro e la pretesa di avere il coltello dalla parte del manico in ogni situazione tipici dei McDonnel - almeno di quelli biondi. Fu questo sgangherato pensiero a farmi venire in mente una cosa: che Agatha avesse saputo della mia cotta per Dean e dei suoi strani comportamenti e che, quindi, ce l'avesse con me? Non ero esperta dei sentimenti di amore fraterno, lo avevo sperimentato pochissime volte e negli ultimi sei mesi, ma sapevo che Agatha era molto legata ad entrambi i suoi fratelli. Che fosse gelosa? Non era una cosa poi così improbabile, dopotutto. Anche Joshua, a modo suo, aveva cercato di tenermi lontana da Dean – e, santo cielo, mi rendevo conto che aveva avuto ragione: ero caduta come una stupida nella rete del fascino dello stronzo. Uno stronzo che però si stava addolcendo mandandomi completamente in tilt.
Ma eravamo ad Aggie, torniamo ad Aggie.
Annuii distrattamente, mentre dondolavo sui talloni, le mani nelle tasche, alla ricerca delle parole giuste da dire. “Ehm, come va?”. Non un ottimo esordio, no.
Lei inarcò un sopracciglio. “Si tira avanti” rispose con freddezza. Fu proprio questo a spingermi a prendere il coraggio a quattro mani: noi avevamo superato la fase del distacco, eravamo quasi in confidenza, perché tutto ad un tratto le cose erano cambiate? “Già, ma come? Perché ho notato che sei un po'... strana, negli ultimi tempi”.
Sono stressata. La scuola, sai” buttò lì, in tono di sfida. Un tono di sfida che mi ricordava maledettamente Dean. E questo era palese: ero davvero ridotta male, non facevo che pensare a lui. Stupida, stupida, stupida!
Sì, lo so. Non intendo questo. Che mi dici di... di Kameron?”
Ah”. Agatha si rabbuiò e abbassò lo sguardo. “Cosa?” domandò poi, ostinandosi a non voler darmi risposte dirette.
Lo stai evitando o è solo una sensazione sua?” Forse le sue paranoie erano un dettaglio che non andava rivelato. Forse. “Mia. Volevo dire mia,” mi corressi.
Rimase in silenzio per un po', lo sguardo basso che saettava febbrilmente sulle piastrelle del pavimento, come alla ricerca di una via di fuga. Alla fine si arrese con uno sbuffo. “Senti, Pan, senza offesa, ma è complicato e personale, non voglio parlarne”.
Se c'è qualcosa che non va, io forse...” Mi bloccai, lanciando un'occhiata alle due ragazze che copiavano i compiti, per controllare che non stessero ascoltando; in effetti sembravano così concentrate sul loro lavoro da non aver nemmeno fatto caso a noi. “Forse potrei darti una mano. Non sono un genio ed è evidente, ma due cervelli lavorano meglio di uno”.
Agatha saltò giù dalla sua postazione e scosse ostinatamente il capo, guardandomi finalmente dritto negli occhi. “Non è che tu possa aiutarmi in questo caso, no. Anzi, hai già fatto abbastanza”.
Okay, ora la cosa si stava facendo personale. Quella sembrava a me o era proprio un'accusa? Di cosa, poi? “Io che c'entro? Ti ho fatto qualche torto?” domandai allora, sulla difensiva.
Lei sbuffò di nuovo e strinse forte i pugni. “Ho... io...”
Cosa?”
Ho una cotta per lui, va bene?!” abbaiò infine, a voce un po' troppo alta, come a liberarsi di un peso che l'aveva inibita da secoli, costringendola a sorreggerlo con fatica e dolore.
E io, da perfetta cretina qual ero, rimasi immobile sul posto, a fissarla, mentre cercavo inutilmente di ricostruire nella mia testa tutti i tasselli del puzzle.
Aggie che rimproverava Kameron per le sue battutine maliziose e i suoi atteggiamenti da playboy fin da quando li avevo visti la prima volta; le sue battutine sarcastiche, le risate trattenute, la sensibilità a tutto ciò che usciva dalla bocca di quel troglodita; il suo imbarazzo quando l'aveva costretta a ballare con lui davanti a tutti, nei corridoi della scuola e alla festa del raccolto; il fatto che fosse come la sua ombra, sempre pronta a ricordargli i suoi compiti, i suoi doveri, ad aiutarlo. Tutto tornava. Tutto, a parte il suo improvviso allontanamento.
Ma è fantas-” stavo per dire, quando la sua risata amare mi interruppe. Agatha incrociò le braccia al petto con stizza e: “No, non c'è niente di fantastico” replicò.
Questo perché non sapeva che lui ricambiava, forse, pensai. Certo, questo non andava detto, però potevo spingerla a capirlo da sola. Da quando mi ero autoeletta cupido della situazione?
Ero contenta. Contenta perché all'improvviso tutto aveva un senso, le paranoie di Kameron erano infondate e, anzi, forse addirittura quei due avrebbero potuto essere felici insieme. Sì, era decisamente meraviglioso! Perché Aggie non se ne era accorta?
Oggi, a distanza di tempo, noto con disgusto che allora tutto ciò che vedevo era distorto dalla mentalità di una ragazza innamorata, la stessa che mi ero vantata di non aver assunto qualche tempo prima. Ovviamente non avrei dovuto cantare vittoria tanto presto, perché a quel punto ero piuttosto rammollita, nonostante non me ne rendessi conto. Tutto ciò che vedevo era rose e fiori oppure biondo con gli occhi castani e un pessimo carattere – che andava addolcendosi.
Agatha, ma che dici? Stiamo parlando di Kameron! Voglio dire, passate insieme tutto il vostro tempo, o quasi, e...”.
Ed è il migliore amico di mio fratello” obiettò lei con tono di sfida. “È molto più grande di me” contò sulla punta delle dita; “è ottuso come pochi al mondo e non si accorgerà mai di come lo vedo. E poi...”.
Poi?”
La concorrenza non è da poco”.
Okay” ricominciai subito a parlare, prima ancora di aver davvero ascoltato le sue parole. Dovevo risolvere la situazione al più presto: “Okay, Aggie, non tutto è perduto. Punto primo: è il migliore amico di tuo fratello. E allora? Mica stanno insieme! Punto secondo: è molto più grande di te”. Alzai gli occhi al cielo con fare teatrale; ammesso e non concesso che quattro anni di differenza potessero essere considerati molti – a quell'età, forse, ma nel giro di qualche anno sarebbero stati un ostacolo insignificante –, bisognava anche valutare la maturità dei due individui: Kameron era molto infantile e Agatha, invece, decisamente matura per la sua età. Il problema in pratica non sussisteva.
Per quanto riguardava il problema succ- … un momento. Cosa aveva detto?
Come, scusa?” domandai scioccamente.
Lei inarcò un sopracciglio. Sembrava rassegnata ad avere a che fare con una stupida e, devo dargliene atto, non aveva tutti i torti a considerarmi tale. “Cosa?”
Concorrenza?” ripetei, confusa. “Ma quale concorrenza? C'è forse qualcuno in questa scuola che si interessa a Kam in quel mod-... che si interessa a Kameron e basta?” No, perché io ero rimasta alla situazione in cui tutti lo evitavano in quanto amico di Dean McDonnel. Possibile che tutto ad un tratto si fosse trasformato anche questo?
Mi prendi in giro?” mi domandò, rivolgendomi un'occhiata così gelida che avrebbe potuto congelare l'inferno.
A quel punto capii di essermi persa qualcos'altro. Ma cosa? “Ehm... no” ammisi.
Oh, ti prego. Ora vorresti farmi credere che tra voi non c'è niente?!”
Black out. Ci fu un momentaneo black out nel mio cervello. Tutto era nero e silenzioso e poi, dal nulla, le parole di Agatha mi esplosero in testa.
Che cosa?! “Eh?!”
Senti, basta. È meglio che vada, ho lezione e...”
Sei totalmente fuori strada!”
Lo so, infatti vorrei andare in classe”.
Non...” Mio malgrado mi ritrovai a ridere di quella battuta involontaria, spinta anche dall'assurdità delle sue insinuazioni. “Non intendevo quello!” precisai, cercando di darmi un contegno. E io che credevo avesse capito di me e Dean! Non che ci fosse qualcosa da capire: io avevo una pericolosa cotta per lui e lui si era improvvisamente bevuto il cervello. “Tra me e...” Ridacchiai, davvero non riuscivo a crederci. “ Tra me e Kam non c'è nulla! Siamo amici!”
Già” sbuffò lei, sarcastica. Senza una parola di più, si avviò per uscire dal bagno e io la seguii.
No, Aggie, ascoltami, sono seria: siamo amici, solo amici. Buonissimi amici, non potrebbe mai esserci dell'altro tra noi”.Anche perché lui è cotto di te e io di tuo fratello. Già. Compatiscimi pure.
Continuò a camminare, rallentando però sempre più, fino a fermarsi; a quel punto di voltò verso di me, incerta: “Davvero?” domandò, indecisa se sentirsi sollevata o continuare a sospettare.
Spalancai le braccia, come a dimostrare la mia innocenza, e, così facendo, colpii un povero passante. Povero passante che, quando mi voltai per scusarmi, mi fulminò con un'occhiataccia, rivelandosi essere proprio il nostro carissimo amico Mark. Spalancai la bocca mortificata; perché tutte a me? “Scusa!” gli urlai dietro, mentre si allontanava rapidamente.
Agatha ridacchiò; dopotutto non doveva essere più così arrabbiata con me. “Te lo assicuro” ribadii comunque.
Lei annuì e si strinse nelle spalle, imbarazzata. Solo in quel momento pensai a quanto doveva essere stato difficile per una persona così riservata e orgogliosa ammettere una cosa del genere ad alta voce. Mossa da un'impeto di solidarietà, trotterellai verso di lei e la travolsi in un abbraccio del tutto inaspettato. “Ehi!” protestò infatti lei, ridendo. Sorrisi e stringendola un po' più forte, le promisi che avrei fatto del mio meglio perché le cose andassero per il meglio e che avrei mantenuto il segreto.
Che cosa stai dicendo?” chiese con una smorfia, una volta che ebbi riacquistato la dovuta distanza di sicurezza.
Alzai gli occhi al cielo. “Cercavo di essere carina, non è colpa mia se voi McDonnel siete allergici agli slanci affettivi!” brontolai, alzando il mento come a dichiarare la mia superiorità. Inoltre avevo già parlato troppo, dovevo tenere a mente che lei non sapeva di piacere a Kameron e che non avrei dovuto in nessun caso dirglielo.
Lei allora rise e inarcò un sopracciglio con fare intimidatorio: “A quanto ne so, noi non siamo gli unici a rifiutare le attenzioni altrui”.
Rimasi spiazzata. Quella era forse una frecciatina? No, perché aveva tutta l'aria di essere una frecciatina. Una frecciatina che temevo di non aver capito – o di non voler capire. “Come, scusa?” domandai, quindi, presa in contropiede.
Aggie rise di nuovo e mi fece l'occhiolino: “Oh, hai capito benissimo, cognata!”.
Probabilmente in quel momento passai a miglior vita.
 
Quindi, ricapitoliamo. Nel Paese delle Meraviglie c'erano lo Stregatto Kameron, il nonno Regina di cuori, un Dean Cappellaio Matto (molto matto e poco Cappellaio) e una Aggie Lepre Marzolina, che se ne usciva dal nulla e, proprio come il compare Stregatto, mi prendeva in giro. Perché, ebbene sì, non era solo una mia impressione che lei sapesse; lei effettivamente sapeva. A parte il mio sommo sconcerto iniziale, mi aveva confessato di aver sentito suo fratello e il migliore amico parlare di quell'episodio in camera mia e aveva ammesso di essersi battuta una mano in faccia. “Insomma, sì, è mio fratello, quindi che schifo. Ma... “ aveva lasciato la frase in sospeso, rivolgendomi poi uno sguardo eloquente.
Oh, smettila, non ti ci mettere anche tu!” sbottai imbarazzata, nascondendomi il volto tra le mani. Sì, lo sapevo, ero stata una cretina, non c'era bisogno che me lo ripetesse anche lei. Avevo avuto paura, d'accordo? Non ero riuscita a credere nemmeno per un secondo che Dean volesse davvero baciarmi; quando l'idea mi si era intrufolata nella mente, mi ero spaventata. C'erano una montagna di motivi a giustificare il mio timore. Migliaia. E me li ripetevo tutti ogni volta che lui era carino con me, ogni volta che eravamo soli nella stessa stanza: Dean McDonnel che mi odiava era fastidioso, ma era okay; Dean McDonnel interessato a me, era portatore di guai. Montagne, mari, oceani, intere galassie di guai.
Era quello che mi ripetevo continuamente. Dean era un guaio. Non era per me. O magari era anche per me, ma io non ero per lui. Ero in grado a malapena di affrontare me stessa e un paio di amici, non avrei mai potuto sopportare un... un... un Dean. Non ne ero capace. Pan Fletcher era un organismo unico, solo, separato da tutto il resto del mondo. Ero la Strega tra i Babbani e, se così sembro troppo presuntuosa, ero il Magonò che spazzava i pavimenti nella Scuola di Magia e Stregoneria più famosa del mondo. Sì, questo secondo paragone rende decisamente l'idea.
Dean aveva un carattere troppo diverso dal mio. Era laborioso, intollerante, severo, proprio come il nonno e sua sorella. Io ero pigra, goffa, blanda, non sapevo fare praticamente nulla. Ero persino più incapace di Kameron, che, comunque fosse, sapeva svolgere i propri compiti, nonostante tendesse a prenderli un po' troppo alla leggera. Se Agatha e Kameron nella mia visione dei fatti erano anime gemelle, fatte appositamente l'una per l'altro, io e Dean eravamo così diversi e così simili da essere assolutamente incompatibile. Era così, punto.
Non mi importava che tutto d'un tratto andasse in giro per casa cantando e facendo impazzire le farfalle nel mio stomaco – per non sentirlo, diverse volte mi ero messa a cantare a squarciagola la prima canzone natalizia che mi fosse venuta in mente; cosa che l'aveva divertito molto, ma non gli aveva impedito di smettere di cantare e mandare a farsi friggere i miei neuroni.
Dean era un ragazzo di campagna, io venivo dalla città. Era già molto che fino a quel punto fossi riuscita a sopravvivere, che addirittura preferissi quel posto a quello da cui venivo, ma nonostante questo ero comunque una ragazza di città. Una ragazza che non viveva senza il suo fidato mp3, che aveva ancora bisogno di nascondersi in cortile o nei bagni, a scuola, per telefonare alla sua migliore amica. Gridavo quando vedevo un insetto, quando sentivo qualcosa frusciare nel fosso accanto al quale stavo camminando, non avevo mai più, dopo la mia prima crisi di nervi, camminato scalza, né in casa e tanto meno fuori. Non ero una ragazza di campagna.
Ragazza di città e ragazzo di campagna non erano una coppia che poteva funzionare. La mia famiglia ne era la prova. L'ultima cosa che volevo ero diventare come mia madre, un giorno. Il fatto che non sapessi cucinare era già un indizio piuttosto preoccupante di quanto effettivamente promettessi male. Non avrei intrapreso una relazione con una persona dalla mentalità così diversa dalla mia, sapendo benissimo che sarebbe andata a finire male. Non mi sarei messa assieme ad un uomo solo per non rimanere da sola, non ero egoista come lei e speravo proprio di non diventarlo mai. Pan non era Felicity e non voleva diventarlo.
Coscientemente o meno, era questo che mi bloccava. Ero terrorizzata all'idea di finire come mia madre. E, sì, indubbiamente correvo troppo, nessuno parlava di matrimoni, non ero nemmeno sicura che Dean avesse intenzioni serie con me – Agatha me lo aveva assicurato, sapevo di potermi fidare del suo giudizio critico, ma non ero comunque convinta al cento per cento: ogni piccolezza era buona per dubitare.
Le cose procedettero così per un po': Kameron non perdeva occasione per prendermi in giro, che Dean fosse presente o meno, a casa e a scuola, completamente dimentico delle sue paranoie, ora che Aggie era tornata a frequentarci come agli inizi, pur non abbandonando mai le sue amiche; Emily, durante le telefonate della pausa pranzo, lo spalleggiava amabilmente, rischiando seriamente di farmi saltare i nervi; Agatha era l'unica che, strano ma vero, cercava di rincuorarmi, intuendo la mia confusione e il mio timore. Forse il motivo era che eravamo entrambe sulla stessa barca, in un certo senso, anche se lei non sapeva di esserci e Kameron non mostrava più attenzione del solito nei suoi confronti. La novità, comunque, era che avevo tutto il diritto e la possibilità di ripagare il mio buon amico con la stessa moneta, ogni volta che Agatha era nei paraggi. Cosa che facevo, causando così l'imbarazzo di entrambi, che grazie al cielo non sembravano mai prendersela davvero. Lo ammetto, quel ruolo da burlona mi faceva sentire tanto Terrence, ma era più forte di me: avevo un bisogno smisurato di vendicarmi di quelle quotidiane prese in giro.
Ah, e a proposito di Terrence: era incredibile l'intesa con cui smettevamo di fare allusioni a Dean, Agatha o chiunque non appena lui si univa a noi. Non era solo una mia impressione, quindi, che Mr Burlone fosse una rana dalla bocca – non larga – larghissima. Gli arrivi tempestivi di Terrence Doyle erano quasi una manna dal cielo certe volte: quando le cose si mettevano male e stavo per morire dall'imbarazzo, lui arrivava, portando con sé il silenzioso Phil e una quiete di cui probabilmente non si capacitava nemmeno lui. Perché, sì, insomma, era uno di quei ragazzi non esattamente calmissimi. Non che fosse un poco di buono, questo mai. Piuttosto era una sorta di Attila: dove andava lui, non cresceva più l'erba. E nemmeno lo faceva di proposito. Insomma, era un casinista pieno di buone intenzioni, ma era anche un casinista che non sapeva tenere la bocca chiusa, qualcuno a non avrei mai raccontato i fatti miei, per quanto fosse evidente che fosse un tipo comprensivo e accomodante.
Una volta tornata a casa, comunque, il mio problema principale rimaneva Dean. Considerato che non potevo stare tutto il giorno col fiato sul collo del nonno, o come minimo mi avrebbe cacciata di casa, visto il suo sempre ottimo umore, e che i compiti reclamavano di essere fatti, non avevo alcun modo di evitarlo, specie durante le sue pause.
 
Kameron sbuffò per l'ennesima volta, mentre cercava di studiare una maledettissima funzione. “Qual è la derivata di coseno di x?”
Ehm... seno di x” risposi, dopo averci pensato su un attimo. La matematica era abbastanza complicata anche per me, senza che lui continuasse a chiedermi cose che avrebbe potuto benissimo leggere sul formulario che avevamo preparato prima di passare agli esercizi.
Giusto. Quindi quella di seno di x è coseno di x” snocciolò, correndo subito a scrivere.
Senza nemmeno ascoltarlo annuii, troppo concentrata nel tentativo di ricordarmi come dimostrare uno di quegli stupidissimi teoremi dal nome ridicolo. “Sì, il seno di x è...” mi accigliai, rendendomi conto che aveva appena detto una cretinata. “No, ma cosa dici? La derivata del seno di x è meno-”
Utile di qualsiasi altra cosa studierai nella tua vita” si intromise una terza inconfondibile voce, mentre i passi di Dean attraversavano il corridoio diretti al piano superiore.
Sbuffai, mentre Kameron rideva: “Quindi niente!” gli gridò dietro, ottenendo in risposta un grugnito divertito.
Alzai gli occhi al cielo, tornando al mio teorema. Ci mancavano solo le sue battute demotivanti: svolgere esercizi di matematica era già abbastanza complicato e noioso anche senza che lui ci ricordasse quando poco ci sarebbe stato utile conoscere quelle nozioni.
Poi, naturalmente, i suoi passi si interruppero a metà scala e tornarono al pian terreno. Mentre faceva il suo ingresso in cucina, diretto come al solito verso il lavabo per riempirsi un bicchiere d'acqua. “Scusa, quindi qual è la derivata del coseno di x?” ripeté.
Kameron si strinse nelle spalle e guardò me, carico di aspettative.
Stupido pigrone! Alzai gli occhi al cielo e mi voltai appena sulla sedia per poter vedere Dean, allora risposti, in tono piatto e rassegnato: “Meno seno di x”.
Dean sghignazzò tra sé, chiudendo il rubinetto. “È la tua formula allora: qui non c'è traccia di seno!”.
Sgranai gli occhi, oltraggiata, e spalancai la bocca per dirgliene quattro. Non aveva perso il suo pessimo senso dell'umorismo, questo era evidente.
Inutile dire che Kameron se la stava ridendo della grossa, fomentandosi così l'ego di Dean, che mi fissava soddisfatto, sfidandomi con lo sguardo a replicare. Così io non replicai: feci un respiro profondo, sbuffai e tornai a ragionare – per quanto fosse possibile – sul mio esercizio di matematica, la testa tra le mani e i capelli a coprire la mia aria frustata. Si meritava una montagna di schiaffi, ecco cosa. “Stronzo” non riuscii ad impedirmi di borbottare, comunque.
Lui ridacchiò, mentre Kameron si svegliava dalla sua trance di ilarità per venire in mio soccorso: “Dean! Non puoi trattare così la ragazza a cui fai il filo!” Be', circa.
La mia occhiataccia successiva fu riservata proprio a lui, ma questa volta mi trattenni dall'aprir bocca o mostrarmi colpita da ciò che era stato detto. Sì, be', e naturalmente ero arrossita, motivo per cui non mi degnai nemmeno di alzare la testa dal quaderno.
Il mio supplizio non era ancora finito, però: Dean si avvicinò al tavolo, bevendo, poi posò il bicchiere sul tavolo e appoggiò le mani sullo schienale della mia sedia, mentre, in un soffio, diceva: “Ho notato che con le cattive ottengo più risultati che con le buone, a dire il vero. Ho cambiato tattica”.
Kameron annuì con aria teatralmente solenne e emise un grugnito d'intesa, mentre morivo dall'imbarazzo. Per coronare il tutto, Dean mi scompigliò i capelli e se ne andò, lasciandomi nel più totale imbarazzo alle prese con un maledettissimo esercizio di matematica.
Visto? L'avevo detto io che portava guai. Ed era un grandissimo stronzo. Sarei morta di vergogna, un giorno o l'altro.
 
 
In der Ecke – Nell'angolo:
Eccoci qua, finalmente, al penultimo capitolo. Non vi dirò cosa ne penso, perché ultimamente mi disgustano quasi tutti i capitoli, ma non pensiamoci.
Vorrei ringraziare tantissimissimo la cara Meri, Aries Pevensie, che oltre a sopportare tutti i miei scleri – che son parecchi ultimamente, davvero troppi e su ogni cosa – mi ha fatto l'enorme favore di betare questo capitolo. E ha avuto il coraggio di ringraziarmi. LEI! XD Grazie, Poop, tantissimo, per tutto. ♥
Poi naturalmente ringrazio anche voi, che siete fantastiche ed incredibilmente non vi siete ancora stufate di questa storia e di me, dei miei ritardi, delle mie scuse. Grazie anche a voi. :)
Ci sentiamo il prima possibile con il prossimo e ultimo capitolo. ^^

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Capitolo 44
*** 44 (Epilogo) ***


Cows and jeans
 
44
(Epilogo)
 
So take a chance with me
Let me romance with you
I'm caught in a dream
And my dream's come true
So hard to believe
This is happening to me
An amazing feeling
Comin' through -
(I was born to love you – Freddie Mercury) 
 
È strano per una come me sorridere guardando al passato.
Sorridere senza rimpianto, intendo, quasi con soddisfazione. Forse il fatto è che, cavolo, ne ho passate tante da quando quel giorno in cui i miei hanno dato di matto e probabilmente oggi sono una persona totalmente diversa da quella di prima.
Ricordo ancora perfettamente la sensazione che provai quando scesi dal treno, alla fermata, e guardandomi attorno mi resi conto di essere in mezzo al nulla più completo. Allora non avrei nemmeno lontanamente immaginato che quel “nulla” sarebbe diventato il mio habitat naturale. Non avrei mai immaginato che quella ragazza che mi diede della scostumata vedendomi in canottiera sarebbe diventata la mia confidente; che quel ragazzo un po' marpione, con cui lei mi aveva accompagnata alla fattoria, sarebbe stato il mio migliore amico; che il biondo eccessivamente prevenuto nei miei confronti, che mi aveva male accolta in casa sarebbe diventato così, ehm, importante, ecco. Non avrei soprattutto mai creduto che nonno Abe, lo stesso Abraham che mi aveva sgridata e trattata con sufficienza, scambiandomi per una delle “amichette” di Dean (quali amichette, poi?), sarebbe diventato il pilastro che sorreggeva la mia vita, tutta la mia famiglia.
E chi avrebbe mai detto che avrei mai chiamato la fattoria Fletcher “casa mia”?
Sono cambiate un sacco di cose dal mio arrivo a Sperdutolandia ad oggi, ma, soprattutto, sono cambiata io. Non che abbia perso il mio lato sarcastico, l'umorismo potteriano, la pigrizia e la voglia di dimostrare al mondo che non sono incapace come sembro, ma ho sicuramente imparato tanto.
Ho imparato che la prima impressione è sempre quella sbagliata. Se non sempre, comunque, otto volte su dieci.
Ho imparato che se anche un ragazzo sembra un vagabondo, non è detto che lo sia; forse è solo pigro, forse nessuno gli ha mai fornito gli stimoli giusti. Questo non toglie che lui possa rivelarsi una persona meravigliosa e sempre disposta a fare del suo meglio per aiutarti.
Ho imparato che le malelingue sono solo malelingue, sempre. Potranno anche avere ragione, ogni tanto, ma sempre e solo di cattiverie si tratta. L'unico modo per sapere la verità su una persona è conoscerla, parlarci, studiarsi a vicenda, raccontarsi.
Ho imparato che la tua fatica non sempre viene premiata dagli altri, ma se hai dato il meglio di te puoi sempre sentirti orgoglioso del tuo lavoro. Ho imparato che i fallimenti non sono disastri, ma nuovi punti di partenza, se si pensa a loro nel modo giusto e con ottimismo.
Ho imparato che l'età non ha niente a che vedere con la maturità effettiva di una persona e non avrà mai niente a che vedere con essa. Ecco perché, passando per il paese, riservo sempre un sorriso e un saluto speciale alla mia cara amica Cassie, che invece borbotta contro di me come una vecchia caffettiera.
Ho imparato che se ad una persona stai antipatica, forse è meglio così. Ecco perché quando Johnny Lucas viene alla fattoria per far visita a Dean, io mi volatilizzo. Ah, e ora so che i problemi vanno evitati, quando è possibile, ma non sempre si può sfuggire loro.
Un'altra delle cose che mai avrei indovinato, comunque, è quella che sta accadendo adesso.
Oggi si conclude il mio primo anno alla fattoria e, seguendo il mio percorso fino a qui, mi sento davvero soddisfatta.
Sono seduta sulla vecchia sedia a dondolo in veranda, i grilli friniscono nascosti chissà dove e c'è pure una fastidiosissima cicala che turba il mio animo con il suo agitarsi febbrile. Non riuscirò mai a sopportare le cicale, ma immagino che a loro non importi più di tanto.
Stare qui, immersa nel silenzio della notte in campagna, è forse una delle esperienze più belle della mia vita. Quando non riesco a dormire, esco spesso qui fuori ad ascoltare e ad osservare. È pura quiete, la pace assoluta tra uomo a natura. In città una situazione del genere sarebbe surreale; non solo improbile, ma impossibile in tutto e per tutto. Ci sarebbe sempre il suono di qualche auto in lontananza, di un televisore nella camera di qualche cittadino insonne, gli irrigatori dei vicini, il cane dei dirimpettai che abbaia, due gatti randagi che litigano tra i bidoni dell'immondizia, un gruppo di ragazzi ubriachi che strillano le parole di qualche canzonaccia. In città non c'è mai silenzio, le persone che la abitano non hanno la minima idea di cosa esso sia.
Qui ci siamo solo io, i grilli, quella stupida cicale, il vento che di tanto in tanto fa frusciare le piante e... questa stupida porta che si apre cigolando. Rabbrividisco, mentre mi volto a fulminare con lo sguardo chiunque stia disturbando il mio momento di contemplazione romantica della natura. Il chiunque chiaramente ha i capelli biondi spettinati che, più lunghi rispetto ad un anno fa, gli ricadono sulla fronte.
“Cosa ci fai qua?” Sbuffo, contrariata, mentre Dean si siede sulla panca di legno, gli avambracci posati sulle ginocchia.
Sogghigna, mentre mi risponde: “Non hai l'esclusiva sul portico, sai?”.
Sì, lo so. L'ho notato. Sbuffo di nuovo. Non c'è modo di rilassarsi un po', vero?
Alza gli occhi al cielo, soffia una risatina.
Cosa avrà da ridere, ora? Una cosa non è cambiata: niente va mai secondo i miei piani. Se prevedo che le cose andranno in un certo modo, si sarà sempre – sempre! - qualcosa che manderà a monte le mie previsioni. E così andrà anche oggi, visto che il caro McDonnel si è piazzato qui per dar fastidio. Ringraziamo tutti Dean, avanti: graaaaazie, Dean!
Mi ci vogliono venti minuti di sbuffi, lamentele e pensieri negativi per rendermi conto che in realtà non mi sta dando alcun fastidio. Si è seduto lì e non ha aperto bocca, non mi ha toccata, guardata, non ha fatto il minimo rumore. È lì e guarda davanti a sé proprio come stavo facendo io prima del suo arrivo. Forse è il caso di darmi una regolata, me ne rendo conto. È per questo che sorpiro un'ultima volta, per riacquistare un po' di tranquillità, e torno a far nulla.
Ora siamo io, Dean e Sperdutolandia. Ascoltiamo il silenzio, osserviamo nemmeno noi sappiamo cosa. E va bene così. C'è un qualcosa di magico in momenti come questi. Tutto sembra perfetto, anche più di quanto lo fosse qualche minuto fa, quando ero sola. Ascoltare il silenzio della campagna in due è anche meglio. C'è condivisione – la condivisione di praticamente nulla, ma di un nulla importante. Ci vuole maestria per condividere niente, credo. Ma credo anche che se dicessi una cosa del genere a Dean, lui scoppierebbe a ridere. Allora io mi arrabbierei e lui, per farsi perdonare, mi... mi bacerebbe. Arrossisco al solo pensiero.
Questa volta non mi do della cretina. C'è differenza tra l'immaginare queste cose quando sai che non succederanno mai, quando sperarci è un puro atto di masochismo – è quasi doveroso darsi della cretina in quelle occasioni –, e quando invece sai che potrebbe davvero succedere. Insomma, succede spesso ultimamente.
È proprio questo che trovo ancora assurdo: siamo davvero finiti insieme, in qualche modo. In qualche modo, sì, di certezze non ce ne sono. Non di certezze assolute. Insomma, con Dean non si parla di sentimenti, mai. Lui ti guarda fisso mentre cerchi di prendere il discorso e poi si gratta una guancia e... ti bacia. No, non bacia te – non pensarci neanche: lui bacia me.
Come siamo finiti a questo punto non lo so, esattamente. Non so mai niente, è vero. Quasi niente: so quando è successo la prima volta.
Successe quell'inverno, quando ebbi la geniale idea di stendere i panno fuori ad asciugare. Non sarebbe stata un'idea tanto stupida, se solo non fosse stato, appunto, pieno inverno. Una volta tornata in casa, il nonno aveva cominciato a inveire contro la mia incredibile stupidità e mi aveva spedita a riprenderli. Non ero quindi nemmeno riuscita a posare la tinozza nello sgabuzzino, ché già stavo uscendo, i miei sbuffi e i borbottii isterici di Abe a farmi da colonna sonora. Corsi sul retro, dove Dean spaccava la legna, e cominciai a togliere le mollette e ripiegare i panni. Non mi sembrava un'idea tanto stupida, ma Abraham – se prima era “nonno”, per me tornava “Abraham” ogni volta che aveva i suoi momenti di isteria acuta – aveva gufato un temporale epico, motivo per cui mi era toccato obbedire ai suoi ordini prima che mi lanciasse contro qualcosa. Era particolarmente irritabile da quando era costretto sulla sedia a rotelle.
Dean rise e: “Sembra a me o il vecchio sta di nuovo dando i numeri?” domandò ironico.
Gli lanciai un'occhiata divertita e annuii: “Sta per cadere il diluvio universale”.
Lo sentii ridere, mentre continuavo a raccogliere i panni dandogli le spalle. Poi un rumore secco mi comunicò che aveva piantato l'accetta sul ceppo. Feci finta di non sentire i suoi passi avvicinarsi, finsi di non essere tutto ad un tratto agitata, continuai a fare il mio lavoro con lo sguardo fisso sulle federe di fronte a me, i movimenti improvvisamente meccanici.
“Ci salverà lui con la sua mitica sedia a rotelle?” domandò.
Notai con sollievo che la sua nuova postazione non era poi così vicina a me e mi scoprii già più tranquilla. Azzardai quindi un'occhiata e lo trovai appoggiato di schiena al muro esterno della casa, ad un paio di metri da me. A debita distanza, grazie al cielo.
Scrollai le spalle e borbottai un “Probabile”.
“Sicuramente porterà in salvo i polli di persona” aggiunse con lo stesso tono divertito.
Abbozzai un sorriso: “È bello sapere di essere la cosa più importante per il proprio nonno!” commentai sarcastica.
Rise di nuovo. Rideva sempre, cavolo, e la sua risata agitava le farfalle nel mio stomaco. Che poi sarebbe anche stato carino sapere come ci fossero entrate, lì dentro.
Smettila di farneticare, stupida!
“La vecchiaia confonde le idee, dicono” disse. Ci pensò su un po', poi sogghignò: “Tu vai per gli settantacinque o gli ottanta?”.
Mi paralizzai qualche istante, mentre lui rideva, cercando di capire l'esatto significato di quelle parole. Non ci volle molto per intuire il riferimento a quel maledetto episodio del quasi-bacio e al mio continuo fuggire le sue attenzioni. “Giusto due o tre in meno di te” replicai, passando a togliere le mollette da un lenzuolo.
“Touché” rispose lui, sorprendendomi. Touché? Quindi avevo vinto io il round? Oh, per la barba di Merlino, il diluvio universale arriva davvero!
“Vuoi una mano a piegare quello?” domandò accennando al lenzuolo.
Quasi senza pensarci, realmente bisognosa d'aiuto, mi ritrovai ad annuire. Così lui si staccò dal muro e si avvicinò a prendere due lembi di stoffa. Arretrammo di qualche passo, le braccia spalancate e la stoffa tra le dita.
“Tu chi salveresti se arrivasse il diluvio?”
“Il nonno” risposi automaticamente, mentre cercavo di sovrapporre in maniera più precisa più possibile gli angoli.
Dean non sembrò soddisfatto della risposta. “E io?”
“Tu che vuoi?” sbuffai, senza guardarlo. “Immagino tu sappia nuotare e non mi sembri costretto su una sedia a rotelle”.
“Nemmeno tu. Non sei carina con me, io cerco sempre di essere gent-”
Lo fulminai con un'occhiataccia. “Come, scusa?” lo interruppi inarcando le sopracciglia con aria incredula. Aveva davvero avuto il coraggio di dire una cosa del genere? Cercava sempre di essere gentile con me? Ma davvero?
Rise, mentre reggeva il lenzuolo ora piegato in due. “Perché?” mi stuzzicò con un sorrisetto beffardo.
Espirai bruscamente, scettica. “Devo rinfrescarti la memoria?”
“Sarebbe utile, sì” continuò, ridacchiando divertito.
Bene. Anzi, benissimo. Ne avevo di cose da dire! “Quando sono arrivata qui mi hai abbaiato in faccia che non ero la benvenuta. Ah-ha!” lo zittii, prima che potesse interrompermi; “La citazione non è testuale, ma il significato era quello!” gli ricordai. Poi sbuffai, unendo i due nuovi angoli del lenzuolo. “Non hai fatto che ricordarmi quanto io foss-... quanto io sia incapace, ogni volta te ne si è presentata l'occasione. Il fatto che non ti andassi a genio è diventato più palese giorno dopo giorno e no, Dean, non sei mai stato gentile con me. Se non nell'ultimo periodo, quando, francamente, penso tu ti sia rincoglionito. E, ah, vogliamo parlare della festa del raccolto?”
Il sorrisetto divertito gli cadde dalle labbra e scosse il capo: “Okay, okay, hai ragione, sono uno stronzo”.
“Sì, stronzo è la definizione giusta” approvai, acida, dando uno strattone al lenzuolo.
Lui alzò gli occhi al cielo e ne diede uno a sua volta, rischiando di farmi scivolare via dalle mani la stoffa. “Ehi!”
Si strinse nella spalle. “Scusa”, ridacchiò. Peccato si stesse scusando per la cosa sbagliata.
“Già” bofonchiai. Ancora infervorata dal discorso appena concluso, trovai la sfacciataggine di alzare lo sguardo per incrociare il suo e chiedergli: “Potresti anche spiegarmi che ti è preso, tutto in una volta”.
E allora lui, per la prima volta, mi fissò in quel modo inquietante. Non che facesse paura, ma mi turbava.
Spostò lo sguardo altrove, si grattò distrattamente una guancia contro la spalla sinistra, poi tornò a fissarmi in maniera così intesa che quasi mi lasciai sfuggire di nuovo il tessuto dalle mani. Giusto per fare qualcosa e non rimanere lì a guardarlo come un'ebete, piegai di nuovo il lenzuolo; lui mi imitò. Eravamo separati da una striscia lunga e stretta di stoffa, a quel punto.
Si avvicinò, per permettermi di finire di piegarlo, facendo protestare a pieni polmoni il mio buon senso, che proprio non ne voleva sapere di averlo vicino finché mi fissava in quel modo fin troppo serio. Era destabilizzante. Lo era sempre di più mano a mano che si avvicinava, lo era da morire quando si fermò a pochi centimetri da me, mettendomi i lembi del lenzuolo tra le mani e sfiorando così le mie dita.
Non ebbi il coraggio di alzare lo sguardo, mentre finivo di ripiegarlo; lui era ancora lì, leggermente piegato su di me, le mani lungo i fianchi, c'era troppo poca distanza tra noi. Ecco perché non riuscii a scappare quando si chinò di più e posò le labbra sulle mie, mentre una mano andava a sfiorarmi un fianco attraverso il giubotto pesante – e, nonostante gli strati di tessuto, a partire da quel tocco una scossa mi attraversò tutto il corpo. Dovette danneggiare irriversibilmente il mio cervello quella scossa, perché mi alzai in punta dei piedi e gli allacciai le braccia attorno al collo, i lembi del lenzuolo stretti tra le dita di una sola mano, lasciando che Dean approfondisse il bacio.
Sorrise sulle mie labbra, poi interruppe il bacio. “Sono o non sono un bravo baciatore, allora?”.
Aggrottai le sopracciglia, infastidita dal commento. Perché doveva rovinare tutto? “Sei arrogante”.
“Mh” commentò lui, con una smorfia appena accennata, poi mi baciò di nuovo.
 
Dopo quella, è successo altre volte. Ogni tanto. Tipo ogni volta che ci ritrovavamo da soli da qualche parte, per un certo periodo. Poi abbiamo imparato a condividere i silenzi, a battibeccare senza mai offenderci seriamente, fino ad arrivare a parlare davvero. Non solo conversare in maniera civile, ma addirittura comprendendoci a vicenda. Prima solo quando nessuno era nei paraggi, poi anche in presenza di Kameron, di Agatha, Terrence, i compaesani. L'ostacolo più grande rimane tutt'ora il nonno, che continua a guardare con sospetto Kameron, aspettandosi che chieda la mia mano da un momento all'altro. L'idea che la persona di cui essere geloso sia Dean non sembra averlo ancora sfiorato nemmeno una volta, fino ad oggi.
Emily dice che in realtà Abe sa tutto, ma non vuole ammetterlo. Secondo lei non è pronto per realizzare una cosa del genere. L'ha intuito, ma non vuole farsene una ragione, quindi continua ad importunare Kameron. “Che tra l'altro è più semplice e divertente” ha commentato quando è venuta a farci visita e l'ha incontrato di persona.
Ecco, sì, quell'esperienza sarebbe da raccontare, in effetti. La farò breve, è una promessa!
È rimasta con noi un paio di giorni e ha portato con sé a Sperdutolandia un'atmosfera di novità che non avevo mai sentito prima. Ancora mi chiedo se il mio arrivo abbia portato un'aria di cambiamento come quella. La sua personalità cordiale e allegra si è ben amalgamanta a quella del resto degli abitanti del paese e dintorni; ecco che quindi ha fatto subito amicizia con Terrence, che trova addirittura incredibilmente simpatico: “Non è cretino come l'avevi descritto!”. Pff.
Naturalmente al suo arrivo era già in confidenza con Kameron, cosa che ha indispettito parecchio Agatha. Questo purtroppo ha infierito sul suo giudizio sulla mia migliore amica, ma, come ho detto, non si può andare a genio a tutti.
So cosa vi state chiedendo: è successo qualcosa tra Kameron e Agatha?
Magari! No, purtroppo no. Continuano a piacersi di nascosto, senza mai lasciar trapelare troppo, ma a loro sembra andare bene così, almeno per ora. Mi piace pensare che siano una di quelle coppie che, una volta fatto il grande passo, si accorgono di essere stati insieme tutta una vita, anche senza rendersene conto. Credo sia una cosa bella.
Tra una battutaccia e l'altra, ho anche fatto notare a Dean quanto poco sia un fratello esemplare: lascia sua sorella in mano al suo migliore amico? Mi ha risposto che più che altro sta affidando il suo migliore amico a sua sorella. Non ho saputo replicare.
Ah, ottime notizie! Nonno Abe si è rimesso in sesto. Ancora non cammina da solo, si deve ancora appoggiare su una stampella, ma questo è già un grandissimo passo avanti, visto che fino a poco tempo fa ne usava due.
Io e Kameron abbiamo anche finito il liceo, ora che ci penso. È una cosa di cui vale la pena parlare? Non so, non è che per noi faccia tanta differenza. In ogni caso ora siamo in estate, ancora non ci siamo resi conto di aver definitivamente concluso con quel mondo.
Niente college per noi. Felicity non è stata molto felice di questa decisione e tanto meno George o papà, ma credo di essere abbastanza grande da poter decidere da sola una cosa del genere. Si tratta della mia vita e del mio futuro, dopo tutto. Forse non è una scelta saggia, su questo hanno ragione – potrei davvero andare al college, ne avrei le capacità e la possibilità economica – ma non ne ho intenzione.
Se c'è una cosa che ho capito, in questo anno appena trascorso, è che il posto giusto per me è questo. Non dico che sia al fianco di Dean, non sono così stupida da pensare che tra noi non finirà mai, visto che ancora esattamente non so nemmeno cosa ci sia tra noi – qualche battuta, qualche bacio, sguardi complici e tanti, tantissimi insulti, di cui alcuni velati e altri meno.
Intendo in questo posto, in mezzo a questa natura, ad ascoltare questo silenzio. A spaccarmi la schiena lavorando in fattoria alla sera, dopo una giornata passata dietro al bancone del saloon. Imparerò a cucinare, prima o poi.
Kameron dice che prima dovrei imparare a chiamare le cose con il loro nome – si dice vacca e non mucca. Io gli rispondo che ho problemi più grossi a cui pensare.
Quali, vi chiedete? Be', tra una settimana mio fratello verrà a farci visita, rimarrà qua un mese. Non ho la minima idea di come reagirà venendo a conoscenza di qualunque-cosa-ci-sia-tra-me-e-Dean. Forse potrei provare a distrarlo mostrandogli tutte le magliette che ho rubato dal suo armadio quando sono tornata in città per le vacanze e che ora hanno dimora stabile nel mio guardaroba.
Sì, non è una cattiva idea. Potrebbe funzionare.
Certo, come no.
 
 
 
 
In der Ecke – Nell'angolo
Faccio fatica a credere di essere arrivata a questo punto. Inizio con lo scusami, perché temo che questo ultimo angolo sarà in realtà un'intera casa, sarà immenso.
Mi scuso con chi mi sta scatenando contro gli Hunger Games giusto ora sul gruppo, ma, ehi, soprattutto devo ringrarvi. :)
Ed è quello che I'm going to do: ringraziarvi. (Ignorate i momenti di bilinguismo scrauso, vi prego, mi è presa così.)
Da dove inizio? Oh, senz'altro è il caso di iniziare col dire che, chiudendo questa storia, chiudo un grosso capitolo della mia vita. Alcuni di voi mi hanno accompagnata in questo percorso per tre lunghi anni. Ancora ricordo benissimo il giorno in cui, diretta a Bologna con mio babbo, diretti ad una fiera, ho preso per la prima volta il treno e ho buttato già l'idea per questa storia. All'inizio non era niente, era solo un'idea che ero certa di non continuare e invece... guardateci oggi. Io e C&J abbiamo messo su una sorta di piccola famiglia a Sperdutolandia e io davvero non so come ringraziarvi per tutte le bellissime parole che in tutto questo tempo mi avete regalato, il supporto, le fan art, le fanfiction del contest, i vostri click, i mi piace (che ora come ora sono spariti da EFP per volere di Erika, ma li ho apprezzati), i preferiti, le seguite, le ricordate. Vi ringrazio per ogni singola cosa.
Senza di voi non si sarebbe mai arrivati a questo punto.
Cows and Jeans è persino approdata sulla prima pagina delle “storie popolari” del genere Commedia, in quasi tutte le categorie. In alcune sono più in basso solo di L_Fy, che è tipo un pilastro del sito, ergo non posso che esserne onorata. Tutto questo grazie a voi, siete voi che mi avete dato tutte queste soddisfazioni, mi avete aspettata tutto questo tempo senza lamentarvi (troppo ♥); vi siete sorbite i miei scleri, i capitoli non betati, li avete betati voi per prime, mi avete sempre supportato, scrivendomi su Ask, facebook, qui su efp, qualcuno anche su twitter e io, davvero, non ho le parole per ringraziarvi. :)
Siamo arrivati alla fine e credo sia doveroso ringraziarvi tutti.
Il primo grazie da a Sharma, che mi ha lasciato l'unica recensione negativa a tutta la storia. La ringrazio perché, nonostante non abbia chiarito i miei dubbi, mi ha aiutata a riflettere su certe cose e forse anche a migliorare certi punti. Un appunto mi prendo la libertà di farlo comunque (se stai leggendo: non mi hai più risposto, per cui non sono riuscita a dirtelo direttamente, ma ti giuro che non è una ripicca, non sono il tipo): non è scritto da nessuna parte che Pan sia troppo immatura per avere diciott'anni. Non è detto che una persona a diciotto anni diventi adulta anche mentalmente, io ne sono una prova vivente. XD
Poi voglio ringraziare Mary_, che, sempre dolcissima, ha fanartato un sacco di personaggi e situazioni di questa storia, mi ha fatto da beta un sacco di volte ed è diventata una mia carissima amica, a cui tengo un sacco. Grazie, Mary! :3 *alza il calice*
Ringrazio Martowl, perché ogni tanto mi spediva a scrivere e quella ragazza ha una capacità persuasiva non indifferente! XD
Ringrazio Aries Pevensie, che, anche se non ho ancora imparato come si scrive il suo nickname, mi prendo la libertà di chiamare Mariuga. Ti ringrazio un po' per tutto, per essermi accanto tutti i giorni e per ogni cosa. ...Ah. Devo darti una risposta ora, credo. Chiedimelo appena leggi, ahahah. XD
Ringrazio Valery, Francesca, Miriam, Annabianca, Daniela, Alessandra, Anna-la-cugina-di-Mary, Paola-la-sorella-di-Mary, Wynne, Ellie, Merope, Nonna Geralda, Misfit, Korat e tutti quelli che mi sono dimenticata da brava beota, ma su facebook mi hanno scritto e sostenuta. Grazie!
Ringrazio tutti gli anonimi su Ask.fm, anche quelli più insistenti, perché mi ha fatto piacere leggere ogni vostra domanda, richiesta, ogni vostra richiesta di aggiornamenti! Mi sarebbe piaciuto riconoscervi. :)
Ringrazio Flamel_, perché, poveraccia, deve sorbirsi tutte le mie paranoie, le insicurezze, i miei deliri, perché è dolcissima e andrebbe spupazzata di coccole.
Ringrazio tutti voi per le 206 recensioni. È un numero enorme, ve ne rendete conto? Io non riesco a crederci.
Ringrazio le 74 persone che hanno aggiunto la storia tra le preferite, le 25 che l'hanno messa tra le ricordate e le 181 che l'hanno seguita. Grazie, grazie, grazie! Grazie anche a tutti coloro che mi hanno inserita tra gli autori preferiti, siete davvero tanti. Grazie. :)
Chiedo scusa se ho dimenticato qualcuno, giuro che non era mia intenzione e che sono grata a tutti voi, non uno di meno. Anche... anche alla persona che mi ha betato i capitoli prima di Mary, sì. Qui dentro ci sono tre anni della mia vita, ho la tachicardia al pensiero di concludere tutto. 
Io... non so davvero cosa dire. Finirei per ripetere grazie allo sfinimento e poi dovrei uscire e non farei in tempo a postare. Ma vi ringrazio. Vi ringrazio tantissimo.
Le iscrizioni al gruppo sono sempre aperte. Probabilmente d'ora in poi vi saranno postati aggiornamenti anche su altre storie, siete liberissime di abbandonarlo, ma sappiate che sarete sempre le benvenute.
 
Ricordo che ho abbandonato il mio account facebook, da ora potete trovarmi solo sul gruppo ( https://www.facebook.com/groups/410264445669928/ ), sulla mia pagina Yvaine0 su facebook ( https://www.facebook.com/pages/Yvaine0/201269919939034 ), su twitter, Tumblr e ask.fm come @yvaine0mich .
 
Fa strano pensare che non aggiornerò più. Mi mancherete. :)
Un abbraccio fortissimo ad ognuno di voi, dai più vecchi ai più nuovi lettori. Grazie di cuore a tutti voi. :)

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