Daiquiri di Aura (/viewuser.php?uid=1032)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - Cambiare vita ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - Tanti motivi per andare, uno per rimanere ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - Tornare a conoscersi ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - Where is my mind ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 - Valpolicella&Tequila ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 - Ballando ballando... ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 - Rossella detta anche ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 - Always On My Mind ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 - Cambiare vita ***
daiquiri
Diana era agitata, erano passati
quanti? Dieci anni, o forse poco meno, da che non vedeva Michele, e
ora era diretta a casa sua, con due valigie nel bagagliaio della
macchina.
Il navigatore iniziava a innervosirla, sembrava che come
al solito quell'aggeggio infernale avesse deciso di non collaborare,
e Diana si fermò in un parcheggio pronta a capire cosa non andasse o
distruggerlo, dopo che quell'affare aveva detto per la terza volta
“Ricalcolo del percorso”.
– Insomma, – gli disse,
sbattendolo con poca grazia sul volante. – ti decidi o no? Dovremmo
essere vicini, perché non trovi la strada?
Guardò l'ora: Michele
le aveva chiesto di arrivare per le sei e mezza, perché lui poi sarebbe
dovuto andare al lavoro, ed erano già le sette meno un quarto.
Sconfitta
fece un respiro e lo chiamò.
– Ti sei persa? – la sua voce,
bassa e rauca, le colpì con una buona dose di sarcasmo.
– Non è
colpa mia, è il navigatore che si rifiuta di collaborare. – si
giustificò.
Michele fece una risatina vittoriosa.
– Te lo
avevo detto, dove sei?
Abbassò il finestrino e mise fuori la
testa, cercando di trovare il nome della via.
– Non lo so, sono
in un parcheggio, qui davanti c'è un tabaccaio con l'insegna
viola.
– Lascia la macchina lì e cammina in direzione opposta
al tabaccaio: vengo a prenderti.
Così Diana riempì la borsa con tutte le cose che aveva sparpagliato in macchina durante il
viaggio, prese non senza sforzo le valigie, e si incamminò;
fermandosi ogni due passi per tirare su la tracolla che le scivolava
dalla spalla.
– Ehi, cosa stai cercando di fare? – Lo vide
arrivare verso di lei, e sorrise istintivamente: era esattamente come
se lo ricordava, sembrava che non fosse passato nemmeno un giorno.
–
Ciao! – disse, tendendogli le braccia.
– Ciao Diana. –
L'abbracciò velocemente e prese le sue valigie. – Scappiamo: te lo
avevo detto che dovevo lavorare!
Lei iniziò a trotterellargli
dietro.
– Come mai mi chiami così? – Sollevò un
sopracciglio. – Non ti ricordi?
Michele la guardò
interrogativo, stringendo gli occhi a due fessure.
– Daiana!
Lo hai sempre detto così il mio nome.
Lui asserì brevemente, e
si fermò davanti a un palazzo, cercando le chiavi in tasca e
borbottando che prima aveva lasciato il portone aperto.
Diana lo
seguì in silenzio, limitandosi ad osservarlo di sottecchi mentre
lui, in ascensore, controllava l'ora.
Le fece strada sul
pianerottolo.
– Ecco, questo è il tuo appartamento, io sono
esattamente a quella porta, per qualsiasi cosa tu abbia bisogno.
Domani inizierai, se stasera non sei stanca e vuoi venire a vedere
l'ambiente... – Scarabocchiò qualcosa su uno scontrino che aveva
in tasca, tipico di lui, anziché mandarle un messaggio. – Questo è
l'indirizzo. – Le consegnò le chiavi, perché lei potesse aprire,
e le portò le valigie dentro. – Ora devo scappare, se non ci
vediamo stasera a domani mattina!
Diana rimase nell'appartamento
vuoto, sentendosi vagamente a disagio. Certo, non si sarebbe
aspettata una riunione del tipo amici d'infanzia con lacrime annesse,
ma era sempre andata d'accordo con Michele, e anche se non si erano
visti né sentiti per anni aveva pensato a un incontro un po' più
amichevole.
Trascinò le valigie nella camera, fece il giro della
casa e dopo essersi accertata che era appena stata pulita a fondo si
decise di concedersi una meritata doccia, che l'avrebbe risvegliata
dopo le lunghe ore di viaggio.
A diciassette anni aveva
lasciato la scuola, dichiarando che prendere il diploma non era nei
suoi interessi, e dopo una fallimentare esperienza come cameriera, il
giorno del suo diciottesimo compleanno, lesse un volantino che sapeva
le avrebbe cambiato la vita: Corsi di Bartender e Flair primo e
secondo livello, per informazioni chiamare...
Fu
così che era entrata a far parte di quella piccola accademia
neonata, e come alunna più piccola si era guadagnata velocemente il
suo posto e le simpatie di tutti.
Aveva superato con buoni
risultati il primo corso, e Mariela, la direttrice, dopo averle
offerto un posto nel bar di fronte all'accademia gestito da lei, le
aveva proposto di frequentare anche i corsi successivi facendole
degli importanti sconti.
Diana amava quelle aule, dove passava le
ore a esercitarsi, e si pavoneggiava spesso con i suoi compagni,
vantandosi dei suoi miglioramenti nella tecnica, gongolando quando il
loro insegnante pluripremiato Francesco, detto Frank, le faceva i
complimenti.
Quella mattina quindi entrò baldanzosamente in
accademia, salutò la segretaria con disinvoltura e salì al piano
superiore, aspettandosi di trovare l'aula ancora vuota, in modo da
potersi sgranchire un po' prima dell'arrivo di Frank e dei suoi nuovi
compagni. Ma le sue aspettative vennero disattese, nella postazione
occupata solitamente da Frank c'era un uomo, appoggiato, intento a
sfogliare un libro.
Lo guardò di sottecchi, guadagnando
infastidita la postazione che era sempre stata sua, e sistemò
rumorosamente le sue cose.
– Quella è la postazione
dell'insegnante. – disse poi, seccata.
Lui sollevò appena gli
occhi dal libro.
– Lo so. – disse, con voce roca.
Diana
sollevò un sopracciglio: qualcuno aveva fatto le ore piccole quella
notte. E iniziò a scaldarsi, con qualche lancio base.
Frank entrò
nell'aula, con il solito casino che lo accompagnava: una trolley
mezzo aperto da cui fuoriusciva uno shaker, la giacca che cadde a
terra mentre camminava, e il suo modo di fare chiassoso.
–
Oh-oh, Diana, ci sei anche tu! – la salutò, contento,
abbandonando la valigia e andando ad abbracciarla. – I tuoi
compagni avranno un osso duro, allora! Hai già conosciuto
Michele?
Il sorriso scomparve brevemente dal volto della
ragazza.
– Veramente no, era impegnato a leggere.
Michele
sollevò divertito un angolo della bocca.
– E lei era impegnata
a mettermi al mio posto.
Iniziarono ad arrivare gli altri ragazzi
che avrebbero frequentato il suo corso, come al solito era la più
piccola e come al solito era l'unica donna.
Erano in sei, in
tutto, e Frank, dopo essersi brevemente assicurato che ci fossero
tutti, partì in quarta con la lezione.
Alla prima pausa sigaretta
Diana si era accaparrata l'attenzione di Frank, raccontandogli con
quanto impegno riuscisse a combinare gli allenamenti di flair, il
freestyle del bartender, al lavoro, ma non riuscì a evitare di
ascoltare Simone, un suo compagno, che salutava calorosamente quel
Michele, appellandolo come genio.
Frank probabilmente si
accorse dell'espressione seccata sul suo volto, radunò i ragazzi
intorno a lui e presentò a tutti Michele, che durante la lezione era
stato in disparte.
– Sapete, – spiegò, – io, Michele e
Luca, che presto conoscerete, abbiamo deciso di metterci in società,
e collaboreremo insieme con varie scuole di bartending in tutta
Italia: il nostro sogno è formare dei baristi come si deve. Luca è
il genio del caffè, io mi occuperò dei corsi più acrobatici e
avanzati, e Michele prenderà il mio posto con quelli del primo
livello: è un grande, – disse poi, rivolto a lei, – quasi quasi
mi dispiace che non hai potuto seguire il corso con lui.
Diana lo
guardò di sottecchi, dichiarando tra sé e sé che non si fidava
ancora di lui, poi spensero le sigarette e ricominciarono a
lavorare.
Mesi dopo si chiedeva come poteva essere stata tanto
stupida a non adorarlo immediatamente: era Michele il vero genio fra
i tre, lui era straordinario, sapeva tutto, poteva parlare di
qualsiasi cosa con la sua voce bassa e roca e lei poteva giurare ad
occhi chiusi che avrebbe imparato di più ascoltandolo che ricercando
le stesse cose su Wikipedia. Non per niente qualcuno lo aveva
soprannominato Google.
Ma Michele non era il solito tuttologo
noioso, lui la sua opinione la dava solo se veniva richiesta.
Quando
finì il loro corso Frank partì, e Michele rimase per una nuova
classe: non era raro che Diana, finito il lavoro al bar, facesse
capolino in accademia, e lo aspettasse per andare a mangiare qualcosa
insieme; stupendosi di come, nonostante avesse già frequentato quel
corso e anche quello più avanzato, ascoltando le sue lezioni
imparasse sempre qualcosa di nuovo.
Quando finalmente i suoi
studenti, in estasi da apprendimento, andavano a casa, Diana
accompagnava Michele all'albergo presso cui alloggiava, lo aspettava
mentre si faceva una doccia e poi partivano, ogni sera con una
destinazione diversa. Si divertiva un mondo con lui, a tratti
spiritoso, a tratti riflessivo, spesso brontolone.
– Daiana, –
le diceva, dall'alto dei suoi trentanni, – quando avrai la mia età
capirai molte cose, tra cui che fare tardi tutte le sere non è
umanamente possibile, se la mattina dopo ti devi svegliare presto per
andare a parlare davanti a dieci persone.
Diana rideva, mentre
invece che tornare all'albergo, da brava amica, lo portava in qualche
locale appena aperto per sentire la sua opinione sui cocktail che
facevano, o su come avevano organizzato il bancone.
– Ma
smettila di fare il vecchio, l'altro ieri abbiamo fatto un po' tardi,
ma ieri ti ho riaccompagnato in albergo prima di mezzanotte!
Michele
allora scuoteva la testa arreso, non avendo la macchina e non potendo
decidere lui.
– Ah, carina, ti auguro proprio che anche tu
troverai qualcuno di maledire. E cambia musica, che è sta roba?
In
genere Diana allora gli chiedeva di scegliere qualcosa lui, e poi,
compatibilmente con la guida, si metteva comoda, in attesa dei suoi
racconti sulla canzone che stavano ascoltando.
Avevano passato sei
mesi così, poi Michele era tornato a Padova, per poi ritornare in
quella piccola cittadina del torinese un anno dopo, e nonostante
Diana avesse trovato un altro posto di lavoro più lontano, dopo che
Mariela aveva ceduto il bar, e nonostante quella volta si era portato
con sé la macchina, lei raramente non si faceva trovare in accademia
all'ora di chiusura pronta a portarlo fuori a mangiare, tanto che Mariela
aveva iniziato a chiamarla "l'angelo di Michele".
Diana però non lo
faceva per evitargli di mangiare da solo, il motivo per cui
principalmente aveva iniziato l'anno prima a portarlo fuori, ma
perché Michele era il suo mentore e il suo amico, e in sua compagnia
stava benissimo.
Era quasi seccata quando comparivano Frank e
Luca, nonostante li avesse sempre adorati, a portarle via il loro
rito di cena e discorsi più o meno seri: Frank attirava sempre la
sua attenzione su di sé, e quando c'era lui puntualmente dovevano
andare a ballare, così Diana si trovava spesso in pista con Frank,
Luca, e qualche vecchio compagno di corso che saputo che erano in
città li aveva raggiunti, mentre Michele rimaneva al bancone,
dichiarando che lui non avrebbe mai ballato in mezzo ai
ragazzini.
Poi, semplicemente, lo aveva perso di vista:
l'accademia era stata venduta, e Michele non collaborava più con i
nuovi proprietari; non aveva motivo di chiamarlo, così all'ennesimo
cambio di cellulare si era scordata di copiare il suo numero di
telefono, e a quell'epoca non c'era Facebook.
Non l'aveva più
visto né sentito per anni, ma nonostante tutto da qualche parte nei
suoi ricordi le serate con Michele, la figura che più di tutti i
professori che aveva avuto nella sua vita era stato l'unico mentore,
non le aveva mai scordate.
Si ritrovò a cambiare lavoro, finendo
a gestire un negozio di vestiti, cambiò qualche ragazzo e andò a
vivere da sola; e gli anni passarono ancora.
Una notte, all'alba
del suo ventottesimo compleanno, si ritrovò a spulciare il vecchio
blog che teneva da ragazzina, una sorta di diario privato che
nonostante fosse in internet era rimasto tale, e precisamente si
ritrovò su un post dello stesso giorno, ma datato anni prima.
Era
una sorta di ringraziamento a chi l'aveva fatta crescere nei suoi
primi vent'anni, e lì, in cima alla pagina, spiccava il nome di
Michele.
Le ci volle una settimana per trovarlo su Facebook, dal
momento che non ricordava il suo cognome e non avevano amici in
comune, ma lo trovò, e insieme alla richiesta di amicizia gli
scrisse una lunga mail, raccontandogli chi era e com'era cambiata la
sua vita in quegli anni.
Passò un mese, prima che Michele
accettasse la richiesta, e altri due prima che una sera la salutasse
in chat.
Diana bypassò l'offesa, e chiacchierarono brevemente
del più e del meno: lui aveva abbandonato l'insegnamento da anni, e
era gestiva il bar di una discoteca di Padova.
Non parlarono più,
poi, dopo un altro mese, una sera in cui era particolarmente cupa per
via di una giornata lavorativa andata non proprio benissimo,
vedendolo on-line Diana gli chiese scherzosamente se non fosse
disposto ad assumerla come barista, anche se erano anni che non
lavorava più in quell'ambito.
Michele rispose spiazzandola, non
cogliendo l'aspetto ironico, e le disse che avrebbe potuto prenderla
in considerazione, dato che era a corto di personale.
Diana
inserì uno smile imbarazzato, specificò lo scherzo facendogli
notare che viveva a centinaia di chilometri di distanza: dove avrebbe
vissuto?
Poi venne distratta da un'altra conversazione, e non fece
caso che Michele non le aveva ancora risposto.
Una settimana dopo,
entrando on-line, trovò un suo messaggio:
Michele: se
ti interessa ancora il lavoro ti ho trovato un appartamento nel mio
condominio, l'affitto è buono, e conosco il proprietario di casa: è
tenuta bene. Fammi sapere cosa decidi e quando puoi essere qui.
Non
ci aveva mai pensato seriamente. Fino a quel momento. Scattò in
piedi come una molla, prese l'ultima busta paga e controllò il TFR
teorico, calcolando che se anche avesse rinunciato a qualche giorno
di preavviso non sarebbe stato molto grave.
Il suo contratto di
affitto non prevedeva perdite di caparra, poteva semplicemente
disdirlo da un mese all'altro, così scrisse subito una mail a Irina,
la sua proprietaria di casa, e poi scrisse a Michele che sarebbe
stata lì per la fine di quel mese.
Ecco che cosa le ci voleva:
cambiare vita.
Certo, lei e Michele non si erano sentiti per
anni, però si era aspettata almeno che la chiamasse Daiana.
Chiuse
l'acqua della doccia, l'imbarazzo non era ancora andato via, non
poteva fare a meno di chiedersi se non aveva sbagliato a mollare
tutto e ad andare lì, in una città che non conosceva, a fare un
lavoro che non faceva da anni, con come unico conoscente un amico di
talmente vecchia data da essere diventato un estraneo.
Nda: forte, per la seconda volta
sbatto la testa contro l'enorme muro del pochissimo pubblico delle
originali, e degli zero commenti che mi devo aspettare da loro, e
stasera, invece che pubblicare l'ultimo capitolo di Blackout, ritrovo
questa storia e decido di continuarla e metterla alla gogna.
Grazie a Federico, tuttologo e mentore come pochi, ovunque tu sia.
Ovviamente in questa storia non ci sei tu, ma ho voluto regalare al
protagonista una delle tue meravigliose caratteristiche.
Ps: forse sto cominciando a pubblicare tante nuove storie perché
la domanda "Hai già l'HTML? -Sì -No -Non capisco" mi fa
ridere come la prima volta che l'ho letta. Con tutto il rispetto con
chi dice "Non capisco", eh! Io sono la prima frana con l'HTML, senza
Nvu sarei morta!
|
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 - Tanti motivi per andare, uno per rimanere ***
daiquiri
Gettò
la sigaretta ed entrò nel locale, guardandosi intorno: avrebbe
lavorato lì, fra non molto quell'ambiente le sarebbe sembrato
famigliare, ma in quel momento non riusciva ad immaginarsi a
camminare con disinvoltura su quelle mattonelle immacolate,
raggiungere il retro da una porta che chissà dov'era, e ritornare a
trasformare il banco nel suo regno incontrastato.
Schivò una
giovane cameriera che le stava passando accanto con una torre di
bicchieri, e istintivamente tirò la gonna che si era messa verso il
basso, cercando di coprire più pelle possibile: quella era una
ragazzina, esattamente come lo era lei quando lavorava in
quell'ambiente. Raggiunse il bancone e guardò il suo riflesso negli
specchi dietro le bottiglie: ora era un'adulta che metteva la crema
contorno occhi già da un anno. E che data la sua avversione allo
struccaggio serale avrebbe dovuto presto sostituire con una più
forte.
–Quindi,
cosa vuoi?
Diana distolse lo sguardo dallo specchio, e si trovò
di fronte un barista alto e spallato. Indugiò sulle braccia muscolose
che uscivano dalla camicia smanicata, e in preda alla depressione si
nascose la faccia con le mani.
– Magari sapere che cosa ci
faccio qui! – bofonchiò.
Il ragazzo si protese verso di lei.
– Non ho
capito, leva le mani! – urlò.
Diana scoprì il viso.
– Ho
detto: sapere che cosa diavolo faccio qui. Ma in alternativa fammi un
Mojito. – disse, porgendogli una banconota da venti euro.
Lui
gliene restituì una da dieci, e le mise davanti il cocktail, ma fu
fermato da Michele, comparso in quel momento, che aggiunse al resto
una banconota da cinque euro.
– Sconto dipendenti, – spiegò
al barista, – lei è la nuova, che prenderà il posto di
Cecilia.
Diana ascoltò immobile, senza dire una parola, e poi
seguì con lo sguardo Michele, che era stato chiamato dall'altra
parte del bancone da una ragazza dai capelli rosso fuoco e
l'atteggiamento festaiolo.
Il ragazzo si guardò intorno, e
vedendo che in quel momento non aveva clienti da servire si appoggiò
sul bancone.
– Ciao, – disse, porgendole la mano, – io sono
Stefano. E così sei tu che sostituirai Cecilia, eh? – le chiese,
indicando con la testa la ragazza dai capelli rossi.
Diana bevve
cupamente un sorso del suo Mojito.
– Mah, non so. – sospirò,
fra sé e sé.
Ma Stefano non sembrava voler terminare la
conversazione.
– Perché prima hai detto quelle cose?
Lei si
scansò, per permettere a una cameriera di raccogliere i bicchieri
vuoti che si trovavano sul bancone, e la guardò eloquentemente, per
poi passare a Cecilia con lo stesso sguardo.
– Ma mi vedi? Che
cosa c'entro io qui? Sono anni che non faccio più questo lavoro, sì,
ero bravina, ma è da secoli che non preparo più un cocktail, e
quando lo facevo ero una ragazzina come loro: ora sembro una vecchia
bacucca!
Stefano si mise a ridere,
– Ma cosa dici, quanti
anni avrai, trenta? Hai ancora tutta la vita davanti!
Diana
scivolò giù dal suo sgabello, fulminandolo con lo sguardo.
–
Ventotto, prego. – disse, prima di eclissarsi tra la gente.
Non
aveva fatto i calcoli che il motivo per cui lei affrontava sempre le
novità con entusiasmo era proprio per il fatto che erano nuove:
poteva solo migliorarsi, era quello il suo stimolo.
In quella
occasione, invece, doveva misurarsi con una versione più allenata e
più giovane di sé stessa: era già stata brava, e ora probabilmente
non sarebbe riuscita ad arrivare agli stessi livelli.
E poi c'era
un motivo per cui aveva smesso di lavorare nei bar e nelle
discoteche: un giorno, nella caffetteria in cui lavorava, aveva
conosciuto una nuova collega. Si chiamava Sonia, aveva quarantacinque
anni, e nonostante dalle ginocchia in su avesse un aspetto curato, ai
piedi aveva un paio di ciabatte ortopediche. Tipo quelle degli
ospedali.
Diana aveva guardato i suoi stivali, e aveva promesso a
sé stessa che non si sarebbe mai ridotta così.
E ora si vedeva,
in mezzo a tutti quei ragazzi, a un passo dal diventare la milfona di
turno, non tanto per l'avvenenza quanto per l'età.
Provò a
cercare con lo sguardo Michele, per ritrattare la sua assunzione, ma
sembrava scomparso nel nulla; allora dopo aver sbollito un po'
l'offesa legata all'età, sentendosi una stupida a rimanere da sola,
tornò al banco da Stefano.
Si sedette sullo sgabello, e aspettò
pazientemente che finisse di servire la gente che aveva davanti.
–
Scusa per prima. – disse, attirando la sua attenzione, – Comunque
io sono Diana, e non so ancora se diventeremo colleghi.
–
Un'improvvisa tremarella?
Diana si mise comoda.
– Ascolta,
non scherzavo quando dicevo che sono secoli che non faccio più
niente: di sicuro non mi ricordo come si fanno la maggior parte dei
cocktail. E inoltre mi sento fuori luogo: tu quanti anni avrai?
Venticinque? E sembri il più grande, l'età media dei dipendenti di
questo locale sarà vent'anni!
Michele comparve di fianco a lei,
sedendosi sullo sgabello accanto al suo.
– Dimentichi che ci
sono io ad alzare la media. – disse, dimostrando di avere sentito
la conversazione. – Domani mattina verrai qui insieme a me, a
locale chiuso: ripasseremo insieme tutto quello che c'è da sapere. E
se ti può far stare più tranquilla i primi giorni ti affiancherò,
va bene?
Daiana sollevò lo sguardo piano, come se avesse potuto
incenerirla solo guardandola; eppure allo stesso tempo in quei
riguardi ritrovava il suo vecchio amico.
– Saresti gentile,
grazie.
Stefano applaudì.
– Guarda guarda: la cocca del
boss. Con me non sei mai stato così tenero! – si ribellò ridendo,
mentre strizzava l'occhio a Diana.
Michele sbuffò:
– Questo
è perché tu sei una testa di cazzo. – borbottò, bevendo l'acqua
tonica che Stefano gli aveva messo davanti. – Bene, sarà meglio
che vada in ufficio a guardare un po' di scartoffie, se le prossime
sere dovrò stare qui con voi altri.
Lanciò il bicchiere a
Stefano, che lo prese al volo, e dopo aver dato un amichevole pacca
sulla spalla a Daiana se ne andò in mezzo alla folla di ragazzi che
ballavano.
Lei guardò Stefano, sollevando le sopracciglia.
–
È il mio mentore. – gli spiegò, finendo di bere il suo
Mojito.
Una volta nel suo letto tirò un sospiro: i suoi
dubbi, riguardo all'età, non erano svaniti, ma aveva deciso che
avrebbe dato almeno una chanche a quella vita in cui si era
buttata.
Si rigirò sul fianco, rannicchiandosi, e sorrise
ripensando a Michele. Era decisamente strano, averlo rivisto dopo
tutto quel tempo, troppo strano.
La mattina dopo si alzò
quasi all'alba, impaziente che la giornata iniziasse, e dopo aver
fatto un abbondante colazione e aver continuato a sistemare le sue
cose, che la sera prima aveva per lo più lasciato nelle valigie,
aspettò che Michele arrivasse: gli aveva mandato un messaggio,
dicendogli che lei era pronta ad andare quando voleva.
Quando gli
aprì la porta di casa le fece ancora quello strano effetto: da un
lato le sembrava di tornare a dieci anni prima, dal momento che lui
sembrava assolutamente identico, e dall'altro si sentiva tutto il
peso di quegli anni addosso.
Lo seguì verso la sua macchina,
Michele aveva messo in chiaro che ora era lei l'ospite nella sua
città e ci avrebbe pensato lui a guidare, e mentre andavano verso il
locale continuò a guardarlo di sottecchi, sperando che iniziasse da
un momento all'altro a raccontarle qualcosa sulla canzone che
passavano alla radio. Ma forse quello non era il suo genere. Era
come se fosse sulle sue, quello sguardo che gli aveva visto negli
occhi la sera prima, quando si era offerto di aiutarla, era
scomparso.
Cercò di non rimanere intimidita di fronte al pensiero
di un'intera giornata insieme a lui in quelle condizioni, così
silenzioso e indifferente, facendosi coraggio con l'opzione che se ne
sarebbe potuta andare da un momento all'altro: forse la sua nuova
vita, che aveva cercato lì a Padova, la stava aspettando da qualche
altra parte.
E invece, dopo che lui fece il giro di accensione
delle luci e la trovò titubante con una bottiglia in mano, la magia
ricominciò.
– Dimmi un po', – rise, – non vorrai prenderla
in mano così quella povera bottiglia!
Diana sussultò,
posizionandosi subito nella maniera corretta: le dita intorno al
collo e il pollice dritto verso l'apertura.
– Certo che no! –
gli rispose, un po' seccata nell'essersi fatta trovare in fallo su
una cosa talmente tanto basilare. Michele la raggiunse, sostituendo
tutte le bottiglie che aveva davanti con dei vuoti pieni d'acqua,
ovviamente ognuno con la sua etichetta che contraddistingueva un
distillato diverso.
– Forse è meglio usare questi, Daiana.
– le disse, leggermente ironico. Forse era per come l'aveva
chiamata, forse era per il suo sorriso, ma lei sentì che il ghiaccio
si era sciolto di nuovo.
– Dimmi tutto, maestro.
Magari
il detto che non si scorda mai ad andare in bicicletta si poteva
riferire a tante altre cose: certo, ricordava solo le ricette
basilari, ma se Michele le elencava gli ingredienti riusciva a
ricavarne le dosi corrette; poi ci sarebbe voluto molto tempo prima
che riacquistasse scioltezza nel flair, o forse non ce l'avrebbe mai
fatta, ma lavorando sotto pressione, con lui che le chiedeva un
cocktail dietro l'altro, aveva ritrovato una certa scioltezza nei
movimenti base.
– Sono un vero danno, vero? – gli chiese a
tarda mattinata, mentre lui osservava tutta l'acqua e il ghiaccio che
erano finiti sulla pedana. Michele le mise una mano sulla spalla.
–
Non ti preoccupare, sarai tu a pulire la tua postazione, fino a
quando non sarai più ordinata. – disse sarcastico.
Diana ignorò
il fatto che il contatto la rendeva particolarmente euforica, e cercò
di comportarsi normalmente.
– Ti ricordi con chi stai parlando?
Io? Ordinata?
Michele diventò serio.
– Non ti ho portata
perché tu diventassi la barista più brava o più veloce, sono
altre le cose che mi aspetto da te, e sicuramente quella che tu
diventi un esempio per i tuoi colleghi è la più importante.
Annuì,
imbarazzata.
– Pausa sigaretta? – chiese.
Michele guardò
l'orologio.
– Meglio, andiamo a mangiare.
E se era stato
strano incontrarlo, mangiare davanti a lui un piatto di spaghetti
aveva un che di paradossale; ma la cosa positiva era che lui sembrava
a tutti gli effetti tornato quello che ricordava:
non appena erano
entrati in macchina aveva fatto partire il lettore Cd, interrogandola
sul gruppo e chiedendosi sconsolato perché sembrava che in tutti
quegli anni non si fosse fatta una cultura musicale decente. Diana
chiuse gli occhi, ascoltandolo parlare, con quella sua voce roca e
dall'inconfondibile accendo padovano, pensando che era il suono più
gradevole che ascoltava da molto tempo.
E quando si erano seduti
al tavolo non aveva smesso, stuzzicato dalla sua domanda su un autore
che anni prima avevano scoperto piacere ad entrambi, le stava
raccontando che cosa aveva considerato geniale nell'ultimo romanzo
che aveva letto.
Diana arrotolò gli spaghetti alla forchetta,
felice.
– Cosa intendevi, prima? – trovò il coraggio di
chiedergli, all'insalata.
– Prima quando?
– Quando hai
detto cosa ti aspetti e cosa non ti aspetti da me: perché mi hai
offerto il posto? Probabilmente avresti potuto trovare qui qualcuno
che fosse produttivo più velocemente di quanto potrei fare
io.
Michele prese un pezzo di pane, iniziando a masticare
lentamente.
– Perché tu me lo hai chiesto.
Scosse la testa,
non ci credeva che era solo per quello, e le parole di quella mattina
ne erano la conferma.
– No, davvero: cosa ti aspetti da me?
Lui
sospirò, appoggiando i gomiti sul tavolo.
– Che tu non sia solo
una brava barista: sei intelligente, sei sveglia, e non hai
dimenticato le cose importanti di quando si sta dietro a un bancone.
Ora però è prematuro che io ti dica altro, tu pensa a
lavorare.
Diana fece una smorfia, e poi guardò il dessert che era
stato portato al tavolo vicino.
– Prendiamo il dolce?
Nel pomeriggio il lavoro fu più impegnativo: Michele voleva che si
esercitasse nella preparazione di diversi cocktail alla volta, e a
ricordarsi i trucchi necessari per fare più abbinamenti.
–
Michi non mi ricordo praticamente di flair! – si lamentò.
Lui
le si mise accanto,
– Non pensare alle stronzate che ti ha
insegnato quel pirla di Frank. – disse, quasi arrabbiato. –
Quello che conta non è fare spettacolo, è riuscire a ottimizzare i
movimenti, in modo da sincronizzare i tempi: il tuo cervello non può
pensare a contare le once di tre bicchieri diversi che hai iniziato a
versare in tre momenti diversi, ma il tuo corpo sì.
Le mostrò,
mentre ancora sinuoso e elegante lanciava e prendeva una bottiglia
con una mano, mentre con l'altra ne prendeva un'altra facendole fare
un giro diverso; poi la prima mano passò ad un altro bicchiere,
mentre la seconda rimise a posto la bottiglia prendendone un'altra
ancora.
Quello doveva ammetterlo: lei, neanche nei suoi momenti
migliori, era mai stata così elegante, così precisa. Ci aveva
provato, in passato, ma si era sempre sentita goffa.
– Forse il
mio cervello non è in grado di comandare al mio corpo di farlo. –
borbottò, umiliata. Ma Michele non si diede per vinto, e le lanciò
una bottiglia.
– Partiamo con una mano, insieme: ruota il gomito
e poi lascia che sia il peso della bottiglia a darti il ritmo,
assecondalo. Visualizzalo nella tua mente, lo so come ragioni. –
cambiò idea, mise a posto la sua bottiglia e si posizionò dietro di
lei. – Senti il movimento che devono fare i tuoi muscoli, la
bottiglia seguila nella tua mente, chiudi gli occhi e guardala girare
– continuò, mettendole una mano sul polso e aiutandola con il
movimento.
Ma Diana era nella crisi più nera: com'era possibile
concentrarsi sul braccio e sulla bottiglia se l'unica cosa che
sentiva era Michele e la sua mano stretta intorno al suo polso?
E
specialmente: non le era mai successo, non con lui. Anni prima si era
beatamente addormentata sulla sua spalla, senza nessunissimo pensiero
se non il grande affetto che provava per lui, e ora non era più
così. Ora sentiva la sua presenza, percepiva il suo profumo, e il
cuore iniziava a battere annebbiandole la mente.
– Ho capito,
fammi provare da sola. – mentì, pur di farlo allontanare.
Michele
si spostò di qualche passo, e incrociò le braccia,
guardandola.
Diana inspirò: non doveva sbagliare, assolutamente.
Provò a concentrarsi su quello che le aveva spiegato, sul
visualizzare la bottiglia; chiuse gli occhi e pensò al movimento, al
peso della bottiglia che girava su sé stessa e poi ritornava nella
sua mano, secca, senza una sbavatura. Poi gli aprì e cercò di
trasformare quel pensiero in realtà.
Fece tutto il movimento,
chiuse solo la mano mezzo secondo prima, riprendendo la bottiglia
leggermente inclinata, ma tutto sommato era più che soddisfatta. Si
girò sorridendo vittoriosa a Michele, che le stava battendo le
mani.
– Ora ti meriti una sigaretta. – le concesse, mentre
lei, tornata con la mente ragazzina, già saltellava verso la sua
borsa, per cercare il pacchetto.
Soffiò il fumo sopra di sé,
osservandolo disperdersi nel cielo, mentre una strana sensazione, nel
suo stomaco, la spingeva a sperare che quella giornata perfetta non
finisse mai.
Alle cinque l'aveva accompagnata a casa, in modo
che potessero entrambi prepararsi al lavoro, e mentre era sola,
facendosi la doccia, liquidò i pensieri che l'avevano assalita come
una cosa momentanea: a lei non piaceva Michele, era impossibile, non
le era mai piaciuto.
Forse era semplicemente contenta di stare
ancora con lui, decretò.
Ma mentre gli aprì la porta di casa,
quando venne a chiamarla, inclinò la testa, lasciando che i capelli
coprissero il rossore sulle sue guance.
Nda: ed ecco in botta il secondo capitolo, che ho pubblicato subito in modo che poteste avere una migliore visione dell'insieme.
Con questo vi saluto, sperando che qualcuno si soffermi a dirmi la sua opinione ;-)
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 - Tornare a conoscersi ***
daiquiri
Quando la macchina si fermò
sotto casa Diana si slacciò stancamente la cintura di sicurezza,
scese dalla macchina e a occhi chiusi lasciò che fosse il rumore dei
passi di Michele a guidarla verso casa, fino in ascensore, dove si
appoggiò allo specchio e aprì un poco le palpebre: era stata una
bella giornata ma intensa e faticosa, era letteralmente
distrutta.
Quando le porte dell'ascensore si aprirono Michele
l'avvisò:
– Vieni tra un quarto d'ora: ti aspetto per la
pizza.
Diana spalancò gli occhi e la bocca.
– Ma sei matto?
A quest'ora? Sono le quattro, chi è che ti porta la pizza
adesso?
Lui scosse la testa, mentre apriva la porta di casa sua.
–
È surgelata, la scaldo solamente. Ehi, non mi guardare così: dovrai
pur mangiare qualcosa!
Diana si arrese, sorridendo.
– A
dopo, se ci arrivo.
– Lascio la porta socchiusa: non suonare il
campanello, sveglieresti tutti. A parte noi qui ci abitano persone
per bene,
Avendo tempo si fece una velocissima doccia, per
levarsi di dosso l'appiccicume dell'alcol che si era rovesciata
durante la serata, e fortunatamente quella la svegliò un po'.
Si
infilò una tuta e attraversò in punta di piedi il pianerottolo,
trovando la porta aperta come lui le aveva detto.
– Michi! –
lo chiamò, a mezza voce, guardandosi intorno. – Sono qui!
Osservò
la casa: era più bella e più grande della sua, arredata in modo
minimalista ma curato. Una grande libreria troneggiava in salotto,
occupando quasi tutta la parete. Non avendo avuto risposta decise di
curiosare tra i volumi e i vinili riposti, chiedendosi se era
umanamente possibile spaziare tra tutti quei generi. Poi si voltò, e
ammirò la collezione di Dvd: che sciocca, si trattava di Michele,
Google.
– Lo sai che non ti lascerò portare via niente di
quello che vedi qui?
Diana sussultò, scoprendolo mentre era
appoggiato allo stipite a guardarla. I suoi capelli erano umidi,
sentiva fin da lì il profumo di bagnoschiuma, e quella combinazione
le chiuse lo stomaco.
– Andiamo, – cercò di essere
disinvolta. – adesso siamo vicini di casa: dove pensi che potrei
dimenticarmeli?
Michele scosse la testa, attraversando la sala e
raggiungendo la cucina, seguito da lei.
– Un libro. – diceva,
– Un libro ti ho prestato e non l'ho più rivisto. Non se ne parla
proprio.
Sembrava severo, eppure sentendo la sua voce non poteva
fare a meno di sorridere.
– Certo che te le leghi al dito le
cose: non ti ricordavi che mi hai sempre chiamato Daiana, ma quel
libro mica te lo scordi! – sbuffò, sedendosi a tavola mentre lui
tirava fuori le pizze dal forno.
Doveva cercare di parlare, per
evitare di soffermarsi sul pensiero che più si fermava lì, in casa
sua, più era imbarazzata.
– Allora, come sono andata stasera? –
chiese, continuando a muoversi sulla sedia.
Michele le mise
davanti il piatto, con un mezzo sorriso sarcastico.
– E tu
dimentichi che non sono Frank: io non ti liscerò mai il pelo,
dicendo che sei la migliore. – e bloccò il sorriso che stava
spuntando sul viso di Diana, – specialmente perché non è così.
Di
tutta risposta lei arricciò il naso, masticando di gusto.
– È
la seconda allusione a lui che fai oggi: devo dedurre che non siete
più in buoni rapporti?
– Ci arrivi solo adesso? Abbiamo sempre avuto
idee diverse: a me interessava fare un buon lavoro con le risorse
che avevamo a disposizione, a lui le grandi cose. Pavoneggiarci a
migliori, presenziare a mille fiere, riempirci l'agenda di corsi in
città sempre nuove.
Effettivamente era tipico di Frank: un tempo
lo considerava un grande, ma poi, dopo aver conosciuto Michele, aveva
iniziato a vederlo per quello che era, ovvero un montato. Bravo, per
carità, ma pur sempre uno a cui interessava più apparire che
essere.
– E Luca? – gli chiese. Sapeva che erano sempre stati
amici, ancor prima del discorso della società; era stato infatti
Luca a presentarlo a Frank.
Michele scrollò le spalle, bevendo un
sorso di birra.
– Ci si sente. – disse, semplicemente.
Diana
si concentrò sul cibo: stava crollando in piedi, più in fretta
avrebbe finito la pizza prima sarebbe potuta andare a dormire.
–
Che faccino. – commentò infatti Michele, – Ma non eri tu quella
che voleva spaccare il mondo?
Sorrise, guardandolo di sottecchi.
–
Una volta un vecchio saggio mi disse: quando avrai la mia età
capirai, e spero che anche tu avrai qualcuno che ti romperà le
scatole come tu fai con me. – Lo vide sorridere, e continuò. –
Ironico che sia proprio quel vecchio saggio, stanotte, che mi tiene
sveglia. – Gli lanciò uno sguardo complice e continuò a mangiare:
non c'era bisogno di dire altro.
– Diana.
– No. –
bofonchiò.
– Daiana?
Svegliati, non puoi dormire qui, nella mia cucina.
–
Tipregosolocinqueminuti...
Quando aprì gli occhi un senso di
smarrimento la colse: non era a casa sua. E non era neanche nel suo
nuovo appartamento. Si rigirò, scoprendo di essere su un divano, e
mettendo a fuoco la stanza vide l'enorme libreria, che le suggerì
immediatamente che era a casa di Michele. Istintivamente si toccò le
guance: se avesse sbavato sul suo divano non sarebbe stata più in
grado di guardarlo negli occhi; no, era tutto a posto.
Si alzò,
spostando la coperta che lui le aveva messo, e a passi malfermi
raggiunse la cucina, da cui sentiva arrivare dei rumori.
–
Scusami. – disse, affacciandosi alla porta.
Michele sollevò lo
sguardo dal giornale, e poi tornò a leggere, senza degnarla di una
parola.
– Ehi, raggio di sole, ti ho chiesto scusa: non l'ho
fatto apposta! – prese le sue chiavi, appoggiate sul tavolo, e si
girò borbottando. – Me ne torno a casa mia.
C'erano momenti in
cui sentiva che tra di loro scorreva la stessa sintonia perfetta di
quando si erano conosciuti, e degli altri momenti in cui lui la
guardava come se fossero due estranei, e lei fosse una da tenere a
debita distanza.
Attraversò il pianerottolo, gelando con lo
sguardo il tecnico dell'ascensore che l'aveva vista uscire da una
casa ed entrare in un altra, e si chiuse la porta alle spalle. Che
fosse venuto lui a dirle quando era l'ora di andare al lavoro: per
conto suo sarebbe potuta rimanere a casa, non le aveva fatto sapere
niente.
Andò direttamente nella sua camera e si buttò sul
letto.
– Vado un attimo... – provò a dire, ma Diana lo
bloccò:
– No, ti prego stai qui! Avevi detto che saresti stato
con me, ed è solo la seconda sera. – gli ricordò.
Michele
aveva sbuffato bonariamente e si era messo comodo, appoggiandosi alla
ghiacciaia.
Diana, tra un Cuba e l'altro che metteva sul bancone
davanti alla marmaglia di gente gli sorrise, ringraziandolo.
Quel
pomeriggio si era presentato come se niente fosse alla porta di casa
sua, per dirle l'ora per cui si sarebbe dovuta far trovare pronta,
come se lei quella mattina non l'avesse praticamente mandato a quel
paese. Così Diana aveva sorvolato sul fatto che lui era stato
scortese, e l'aveva invitato a entrare per un caffè.
Ed era
tornato tutto come prima.
Stava iniziando a prendere più
confidenza con il lavoro, ma la sua presenza accanto a lei la faceva
sentire più sicura: quando aveva un dubbio, quando si sentiva fuori
luogo, bastava che lo guardasse, ed ecco che la determinazione
tornava a spingerla. Voleva che Michele fosse fiero di lei.
–
Stefano continua a dirmi che devo inventarmi un ruolo. – sbuffò,
quando furono in macchina. – Cecilia era la scatenata, lui e Fabio
sono l'oggetto del desiderio delle ragazzine e l'altro? Come si
chiama, Gianni? Beh, lui fa il tenebroso.
– E io chi sarei,
secondo Stefano? – chiese, divertito.
– Ah, ma è chiaro: tu
sei il boss!
Michele rise di gusto, mentre parcheggiava.
–
Daiana, tu sarai
quella che intimidirà i ragazzini che provano a voler bere gratis. –
la prese in giro.
– Mi darai un'ascia da usare?
– Certo, e
anche un arco.
Ridacchiò, seguendolo verso casa. Iniziava ad
avere paura: quel giorno aveva dormito, e non era più così stanca
come la sera prima, ma forse lui avrebbe preferito evitare di
invitarla ancora, vedendo come aveva reagito quella mattina. Non
doveva fargli capire che se lo aspettava, assolutamente.
–
Allora domani mattina andiamo al Daiquiri ad allenarci?
– Tarda
mattinata o primo pomeriggio.
Diana si stiracchiò vistosamente,
mentre l'ascensore saliva al loro piano.
– Allora sarà meglio
che io non perda tempo davanti alla tv vada a letto immediatamente. –
dichiarò.
– Come, non mangiamo? – le chiese aggrottando le
sopracciglia, quando raggiunsero il pianerottolo. Si fermò con le
chiavi in mano, a guardarla.
– Oh, beh, – balbettò
intimidita, – io non pensavo...
Michele le sorrise.
– Non
vuoi la pizza? E va bene, ti faccio un piatto di pasta. – disse,
voltandosi e andando ad aprire la sua porta. – Ricordati di non
suonare.
Diana rimase sul pianerottolo, a guardare la porta che si
accostava. Ma come faceva Michele a farla sentire sempre così? Più
cercava di ricordare e più poteva giurarlo: in passato non lo aveva
mai, mai considerato bello. Non perché non lo fosse, ma perché lo
vedeva come una figura enormemente più adulta di lei: Diana non
aveva neanche vent'anni, e lui aveva una vita intera di esperienze
sulle spalle. Michele era il suo mentore, insieme era come se non
avessero sessualità, non c'era mai stato un dubbio su quello. E ora,
più guardava il suo viso, rude ma bello, più sentiva la sua voce,
più voleva sprofondare.
Pur di staccarsi quei pensieri dalla
mente cercava in lui la figura che aveva sempre significato,
richiedendo la sua approvazione, permettendogli di insegnarle nuove
cose, ma non stava funzionando; anziché riportarla allo stadio di
ammirazione asessuata Michele diventava semplicemente più
desiderabile ai suoi occhi, e al tempo stesso più irraggiungibile.
Lo sapeva, lui non l'avrebbe mai guardata, e lei non voleva rendersi
ridicola, correndogli dietro per poi essere rifiutata, e rovinando
non solo quello che in quei giorni avevano ricostruito, non solo
quella che sarebbe stata la sua nuova vita, ma anche il ricordo della
loro amicizia.
– Sai a cosa stavo pensando? – disse,
entrando nella sua cucina . Michele era girato di spalle, così lei
continuò. – Ora ho la stessa età che avevi tu quando ci siamo
conosciuti: non è incredibile? Mi sembravi così
grande, e ora io ho la stessa età.
– Un paio in meno, bambina.
– sottolineò, mettendo i piatti sul tavolo.
Diana gli diede a
vaschetta di gelato che aveva portato: voleva contribuire alle loro
cene.
– Che differenza fa?
Alzò eloquentemente un
sopracciglio e si sedette di fronte a lei.
– Pare che ce ne sia
molta, stando a quello che mi ha detto Stefano, a come hai reagito
quando ti ha dato della trentenne. – stappò il vino rosso e gliene
versò un calice, per poi versarsene per sé.
– Il gusto del
mangiare. – divagò Diana, ricordando come secondo lui ogni pasto
andava accompagnato dalla giusta bevanda. Annusò il vino e gli porse
il bicchiere, per un brindisi. Michele lo guardò per qualche
istante, poi lo fece scontrare svogliato contro il suo.
– E comunque io
preferisco pensare che ci sia una differenza. – dichiarò,
iniziando a mangiare.
Solitamente gli avrebbe chiesto una
spiegazione, ma in quel momento qualcosa la induceva a non farlo,
nonostante quell'affermazione fosse rimasta nella sua testa
continuando a vorticare, in cerca di una soluzione.
Nda: allora, innanzitutto un grazie
enorme a Bloomsbury, che ha letto e commentato i primi due capitoli,
riempiendomi di gioia. Lo sai che non sei costretta, vero? ;-)
E secondo di tutto... voi non avete la minima idea di quanto mi stanno
facendo dannare questi due protagonisti: ricordatevi, non è
colpa mia ma è colpa loro. Capirete più in là, non
temete.
Viva il fandom delle originali. Sì, vi sto un po' allisciando, si sa mai che mi prendiate in simpatia ;-)
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 - Where is my mind ***
daiquiri
Quando vide la chiamata in arrivo
inizialmente pensò che si fosse messo il telefono in tasca senza il
blocco tasti: Michele non la chiamava, né le mandava messaggi; o
suonava il campanello oppure le lasciava dei bigliettini attaccati
alla porta, se stava uscendo ed era particolarmente di fretta.
–
Pronto? – rispose, sospettosa.
– Pensavo che non rispondessi
più. Ascolta, vai al lavoro da sola, stasera: io ho un appuntamento
con il capo, a Vicenza.
– Ok.
– Ascoltami attentamente: se
Katisha arriva in ritardo dille che la prossima volta può evitare di
venire. Stefano rimarrà al suo posto, voglio che invece Fabio e
Gianni gli si mettano uno a destra e uno a sinistra, in modo che
rimarrà aperto solo un lato del bancone, stasera non ci sarà il
pienone e quindi può bastare.
– E io? – chiese, accorgendosi
che non l'aveva nominata.
– Ricordati che oggi arriva il
fornitore delle bottiglie, e quindi devi essere lì un po' prima.
Devi dargli i vuoti, le casse piene fattele portare direttamente nel
magazzino. Fai in modo che le cameriere lascino sempre la sala
pulita, voglio che facciano il giro per raccogliere i bicchieri ogni
volta che sono libere.
Diana capì che cosa intendeva: doveva
prendere il suo posto, quella sera. Si grattò la tempia, dubbiosa.
–
Michele, sono due mesi che lavoro al Daiquiri. – disse, chiedendosi
tra sé e sé se i suoi colleghi l'avrebbero ascoltata.
– Ma che
cosa dici? – si arrabbiò, – Sei più grande di tutti loro, non
iniziare a farmi questi discorsi.
Si morse le labbra e fece un
sospiro: doveva dimostrargli che la sua fiducia era ben riposta, ce
la poteva fare. Sapeva come funzionava un locale, e in passato aveva
gestito dei negozi: sarebbe stata in grado di unire le due cose.
–
Intendevo dire, sono due mesi che lavoro al Daiquiri: so che il
mercoledì arriva il fornitore del vetro, e so come ti aspetti che
vadano le cose. Passa una buona serata, quando finisci la riunione
con il capo se vuoi rimani in giro, prenditi del tempo
libero.
Michele, più tranquillo, si lasciò andare a una risata,
smascherandola.
– Sai che non mi freghi, vero?
Diana
controllò l'orologio: avrebbe dovuto sbrigarsi.
– Dove mi hai
lasciato le chiavi?
Solo Fabio sembrò poco convinto del fatto
che Michele avesse lasciato a lei il comando,
– Ma dai, –
cercava di aizzare Gianni, che stava preparando diligentemente la sua
postazione, – è la più nuova qua dentro! – si lamentò, dando a
intendere che lo considerava un favoritismo.
Diana gli si parò
davanti.
– Fabio quanti anni hai? Da quanto tempo lavori qui?
Hai lavorato in altri posti prima? E cosa facevi? – Fissò lo
sguardo serio del ragazzo, e continuò. – Io ho ventotto anni, sì,
lavoro qui da due mesi, ma prima gestivo un negozio in centro a
Torino, avevo dieci persone sotto di me. Prima ho fatto la vice
responsabile in un store con quanti, cinquanta venditori? E prima
ancora lavoravo nei bar e nelle discoteche: per anni. Fidati che ci
sono stata più io di te dietro a un bancone, e se anche non fosse tu
non hai le competenze necessarie per sostituire Michele una
sera, io sì. O ti metti al lavoro o vai in sala: porto qui Agnese al
tuo posto e le insegnerò a fare un dannatissimo Cuba.
Fabio la
guardò, dall'alto in basso, e si slacciò il grembiule.
– Dici?
– la minacciò.
Diana si girò.
– Agnese! – chiamò la
ragazza che stava mettendo i tovagliolini e le cannucce nei privé. –
Tu e Fabio stasera vi scambiate di posto, vieni qui.
La ragazza
spalancò gli occhi e corse al bancone, ignorando Fabio che le stava
passando accanto dandole una spallata.
– Cosa devo fare? –
chiese, eccitata.
Diana le mostrò la sua postazione, riempì una
bottiglia d'acqua e le mise in fila una cinquantina di bicchieri di
plastica, spiegandole cosa doveva fare per riempirli.
– Gianni
ti preparerà la postazione mentre tu ti eserciti, non ti
preoccupare: farò in modo che tu stasera non debba fare altro. –
la rassicurò, mentre lei entusiasta provava a versare. – Dalle un
occhio, per favore. – sussurrò a Gianni, mentre scendeva dalla
pedana e andava a sentire che cosa voleva il Dj, che si stava
sbracciando verso di lei.
La metà della serata era passata
senza particolari problemi: aveva fatto un cartellone attaccando
delle cannucce colorate in modo che formassero una scritta che
segnalava la postazione di Agnese come preferenziale per Cuba, Vodka
Lemon e Chupiti; Fabio aveva ingoiato il rospo e stava iniziando a
sciogliersi, scherzando con le altre cameriere.
Diana faceva il
giro incessantemente, per accertarsi che tutto stesse andando bene,
dal guardaroba ai bagni; e aveva convinto il capo dei buttafuori a
darle un auricolare, in modo che sarebbe potuta intervenire in caso
di bisogno.
Salì sulla pedana, andando accanto a Stefano che era
appoggiato alla fila di frigorigeri e se la rideva per come Agnese si
stava impegnando.
– Non la prendere in giro. – disse
bonariamente.
– No, no, – si giustificò lui, – se la cava
alla grande: un ragazzo prima non ha letto un cartello e voleva un
Long Island, stava iniziando a lamentarsi ma Agnese ha sbattuto un
po' gli occhi e lui si è accontentato di un Cuba.
– Quando
c'era casino sono venuta ad aiutarla con la cassa, sembra che sia
andato tutto bene. Cosa ne pensi? – gli chiese, sospirando.
–
Sei stata brava: per un attimo ho avuto paura che Fabio ti mettesse i
piedi in testa, ma lo hai gestito alla grande. Vecchietta. –
la prese in giro, facendola ridere. – Oh, – disse poi,
indicandole l'ingresso. – guarda chi è arrivato! Boss! – si
sporse dal bancone per salutare con Michele, in una sorta di cinque
alto, e salutò le ragazze che erano con lui.
– È andato tutto
bene, non ti preoccupare. – lo informò svelta Diana, vedendo che
osservava Agnese dietro al bancone, poi premette l'auricolare
all'orecchio, ascoltando. – Arrivo subito. – rispose,
schiacciando il tasto del microfono.
Michele la stava
squadrando.
– Che roba è? – borbottò, – È tutto a
posto?
– È un auricolare, – spiegò, mentre scendeva dalla
pedana, – va tutto bene: qualche problema nel bagno delle signore,
ma me la cavo io. Tu sei di riposo. – lo assicurò, prima di
dileguarsi tra la gente.
Dopo aver sedato la piccola emergenza,
una ragazza che inizialmente sembrava stesse male ma poi scoprì
essere solo in crisi perché il ragazzo l'aveva tradita, Diana si
stiracchiò e tornò in sala.
Si sedette sui gradini della scala
che portava all'ufficio e spiò verso il banco, Michele e le ragazze
con cui era arrivato.
Erano tre, e sembravano avere una grande
confidenza con lui: gli stropicciavano i capelli, bevevano dal suo
bicchiere, una aveva addirittura provato a portarlo a ballare,
dovendo poi arrendersi. Furono raggiunti da un altro uomo, circa
della stessa età di Michele, e rimasero al bancone da Stefano, che
preparò da bere per tutti.
Diana non faceva altro che guardare le
ragazze: labbra rosse e lucide, ciglia nere che sbattevano maliziose,
capelli lunghi e sciolti, sembravano fatte con lo stampino, ma,
doveva ammetterlo, uno stampino incredibilmente bello.
Non aveva
mai scoperto il genere di donna che interessava a Michele, forse era
quello. E forse tra di loro c'era la sua ragazza: aveva dato per
scontato che lui fosse single, ma sapeva che nonostante sapesse per
alcuni versi lo conoscesse intimamente in realtà lui poteva
benissimo aver avuto una ragazza per tutto quel tempo senza che lei
se ne accorgesse.
Continuò a guardarli, mentre il suo stomaco
sembrava attorcigliarsi: o magari una di loro lo sarebbe presto
diventata.
Un fischio all'orecchiò la fece sussultare.
–
Quindi? – le diceva la voce metallica, all'auricolare.
–
Quindi cosa? La ragazza sta bene, l'ho lasciata con una sua amica.
–
Sì, intendevo dire: faccio ancora entrare la gente?
Diana guardò
l'ora.
– No, è ora di iniziare ad alzare le luci: tra una
mezz'oretta saremo chiusi.
Decise di concedersi una sigaretta,
sperando che il il gusto del tabacco l'aiutasse a portare via l'amaro
in bocca: ancora una volta, per motivi diversi, Padova la faceva
sentire inadeguata, e dopo una serata come quella non poteva
accettarlo.
Sperava di essersi caricata abbastanza, e invece una
volta tornata dentro il castello mentale che si era costruita,
ricordandosi che doveva essere fiera di sé, crollò. Indossò il suo
miglior sorriso, notando che Michele e le sue amiche si erano
dileguati, e iniziò la chiusura.
Si trattenne in ufficio per
assicurarsi un' ultima volta che avessero contato i soldi
correttamente, poi spense anche l'ultima luce e chiuse il locale,
salutando grata il buttafuori che l'aveva aspettata.
– A domani,
Giacomo!
– Brava Diana, sei stata brava! – la salutò lui,
guardandola salire in macchina prima di far partire la sua
Harley.
Arrivata sotto casa cercò con gli occhi la 159 di
Michele, ma non la vide al solito posto. Salì in casa, finalmente
non doveva più costringersi di sorridere, ora il suo riflesso nello
specchio dell'ascensore le restituiva lo smarrimento che
provava.
Prese una coppetta di gelato dal freezer e tornò
nell'ingresso a mangiarla, seduta per terra contro la porta, per
riuscire ad ascoltare i rumori del pianerottolo; quando si addormentò
Michele non era ancora tornato.
Sussultò mentre il campanello
la svegliava, lanciando in aria la vaschetta di gelato ormai sciolto
che aveva appoggiato alla pancia.
Intontita, senza capire bene
cosa stesse facendo, aprì istintivamente. Michele la guardava
sconcertato, e abbassando lo sguardo verso la sua maglietta capì: il
gelato le si era versato addosso, e anche per terra da quello che
vedeva. Cosa doveva dirgli, per giustificarsi, che la notte prima era
stata colta da un momento di pazzia e si era addormentata alla porta
sperando di sentirlo quando sarebbe rientrato?
– Ti dispiace?
Non è il momento, devo farmi una doccia. – gli disse, richiudendo
la porta prima che le lacrime scendessero senza il suo permesso.
–
Vieni da me, dopo, così mi racconti di ieri. Vado a prepararti un
caffè.
Si sentiva come in piena crisi premestruale, avrebbe
voluto spalancare la porta e urlargli dietro, chiedendogli se l'unica
cosa che gli interessava di lei era sapere cosa aveva combinato nel
suo preziosissimo locale. Evitò, tenendo a bada quell'insano
istinto, e si trascinò in bagno, dove alla vista del suo riflesso
nello specchio non fu più capace di trattenere le lacrime.
Anche
la sua guancia era sporca di cioccolato, forse prima di dormire si
era lasciata andare a un pianto perché il trucco le era colato
tutto, e per concludere l'opera i capelli sembravano un roseto che
non aveva una potatura da decenni.
Michele forse aveva passato la
notte fuori con una di quelle ragazze, e lei finiva ridotta in quelle
condizioni.
Il morale era così a terra che nemmeno quando fu
vestita e pettinata se la sentiva di attraversare il pianerottolo e
andare da lui: il pensiero di come l'aveva vista, il pensiero di
quello che era successo la notte prima, sembravano impossibili da
affrontare.
Michele suonò al campanello, e lei rimase immobile,
sperando che lui non la sentisse e pensasse che si fosse
riaddormentata.
Ma invece lui suonò di nuovo.
– Daiana...
–Si sentì chiamare, da fuori dalla porta.
Asciugò la
lacrima depressa e solitaria sulla sua guancia, e capì che presto o
tardi avrebbe dovuto affrontarlo.
– Eccomi. – sorrise, aprendo
la porta. Allargò il sorriso, vedendo il suo sguardo dubbioso. –
Ehi, scusa il ritardo, ma non so se avevi notato i miei capelli
richiedevano un lavaggio intensivo. – disse superandolo, diretta
verso il suo appartamento.
Sul tavolo, oltre al caffè, Michele
aveva appoggiato anche un paio di brioche, e lei ne prese una
chiedendosi se si fosse era fermato a prenderle di ritorno da casa
della ragazza con cui aveva passato la notte. Almeno in qualche cosa
l'aveva pensata, per vendicarsi scelse quella al cioccolato,
lasciando a lui quella vuota.
Fece colazione come se niente fosse,
e poi, mentre lui era ancora a metà brioche, uscì sul terrazzino a
fumare una sigaretta.
– Tutto bene, ieri sera? – le chiese,
seguendola.
– Oh, sì. – rispose particolarmente entusiasta, –
E tra parentesi inizialmente Giacomo era dubbioso, e poi ha detto che
sono stata un genio a chiedergli l'auricolare: forse dovresti copiare
la mia idea. Fabio ha alzato un po' la cresta, è per quello che l'ho
mandato in sala e ho chiesto ad Agnese di salire al banco, ma a fine
serata mi ha chiesto scusa, quindi tutto risolto.
Michele incrociò
le braccia.
– Sì, quello me l'ha spiegato Stefano, ha detto che
l'hai rimesso a posto proprio bene, ma non avevo dubbi. No, ti
chiedevo, perché prima eri... così?
Diana ci mise molto impegno
a spegnere la sua sigaretta, non sapeva davvero cosa dirgli.
Era
gelosa, era insicura, era disperata perché si sentiva male al
pensiero di quello che provava per lui. Perché Michele era anche
molto, troppo, altro.
– Non avevo niente, mi sono addormentata
davanti alla tv, era un bel film. – lo liquidò, entusiasta per la
spiegazione che copriva tutto, gelato e trucco sciolto.
Michele
aggrottò le sopracciglia, ma lei lo ignorò, tornando dentro. Sì,
era gelosa, gelosa da stare fisicamente male.
– Posso mettere su
un po' di musica? – disse, andando in sala e scegliendo un cd, già
sapendo che lui non le avrebbe mai permesso di toccare il giradischi
e uno dei suoi idolatrati vinili.
Non voleva scappare da lui,
dandogli modo di chiedersi ancora che cosa potesse avere, ma d'altra
parte non aveva voglia di altri silenzi, né di altre domande.
Mise
Surfer Rosa dei Pixie, skippando diretta alla settima traccia, Where
is My Mind, lasciandosi poi cadere sul divano e ascoltandola a tutto
volume, grazie al meraviglioso impianto di Michele.
– Ehi, –
disse lui raggiungendola, – non dirmi che l'hai scelta per Fight
Club, tamarra.
Le fece scappare un sorriso.
– Sai, –
urlò per sovrastare la musica, e Michele prese il telecomando
abbassando il volume a livelli più accettabili. – sai, tanta gente
pensa che io abbia una cultura musicale di tutto rispetto, eccetto
te: ti assicuro che ce l'ho, solo che è più varia, non mi soffermo
solo su generi di nicchia. Comunque hai mai ascoltato la versione
live di questa canzone con i Placebo? – capì dal suo sguardo che
per una volta poteva essere lei a fargli scoprire qualcosa, e si tirò
su, soddisfatta. – Ce l'ho in macchina, se andiamo al lavoro con la
mia te la faccio ascoltare.
Gli prese il telecomando dalle mani,
fece ripartire la canzone e alzò il volume.
Non aveva voglia di
altri silenzi, né di altre domande.
Seduta accanto a lui, sul
divano, abbracciando un cuscino, avrebbe voluto piangere
silenziosamente, mentre la musica la stordiva e allo stesso tempo
esaltava i suoi sentimenti; ma si limitò a respirare, lasciando che
il semplice contatto del suo gomito la addolcisse.
– Almeno potresti dirmi che sono
stata brava ieri sera. – si ribellò rianimandosi quando, dopo che
la canzone finì anche per la terza volta, si decise a spegnere.
–
Non mi aspettavo niente di diverso, è questo che ti devo dire?
–
Se le tue aspettative nei miei confronti si abbassassero magari
potrei beccarmi un “brava”, ogni tanto. – incrociò le gambe e
si girò verso di lui.
– Se le mie aspettative fossero state
basse forse non ti avrei detto di trasferirti qui. – strinse gli
occhi a due fessure, guardandola, e si alzò.
– Perché vuoi
avere sempre l'ultima parola? – borbottò, e Michele dalla cucina
rise.
– Lo sai che ho sempre ragione.
Stava prendendo le
tazze dal lavandino e mettendole nella lavastoviglie, come se lei non
fosse già più lì.
– Però, qualche rara volta, potresti
dirmelo. Così, mi farebbe bene. – disse a mezza voce,
appoggiandosi allo stipite della porta della cucina. Si sentiva molto
più vulnerabile in quel momento, in cui in cui gli chiedeva una
semplice gratificazione, che poco prima, quando aveva ascoltato la
stessa canzone più volte davanti a lui, sfogando un sentimento che
involontariamente era stato proprio lui a provocarle.
Ma era
perché nascosto in quelle parole c'era qualcosa di più, che non
sapeva e non voleva esprimere, una richiesta diversa.
– E no, –
continuò, dopo un lungo silenzio durante il quale Michele l'aveva
semplicemente guardata. – non mi risponderai stasera, non mi
risponderai un'altra volta: non credi che ogni tanto potresti
dirmelo? Sei l'unico che potrebbe farlo, e l'unico da cui avrebbe un
valore.
Michele le porse il pacchetto di sigarette, precedendola
nella terrazza.
– Sai, Daiana, quando ci siamo conosciuti
continuavo a meravigliarmi: avevi solo diciotto anni ed eri così
sicura di te. – soffiò una boccata di fumo. – Certo, volevi
essere ricoperta di complimenti, ma era come se volessi sottolineare
quello che tu già sapevi.
– I tuoi complimenti però li sentivo
diversi, quando me li facevi. Ero davvero fiera quando riuscivo a
strappartene uno, anche misero. – ricordò, mentre un amaro sorriso
di rimpianto le addolciva il volto. A quei tempi era tutto molto più
semplice.
– Ora ti vedo: sei più matura e ti sei ridimensionata
nella tua testa, paradossalmente ti fai più paranoie adesso, ma in
fondo sei ancora orgogliosa di quello che sei, e di quello che sai.
Se qualcuno ieri sera ti avesse detto che eri stata brava, e
sicuramente lo avranno fatto, avresti reagito come allora. Saresti
stata contenta, ma tu per prima sai di aver fatto un bel
lavoro.
Diana trattenne un nuovo sorriso, lasciando che a tradirla
fosse solo la fossetta, raccogliendo a piene mani quel mezzo
complimento mascherato.
Sospirò, poi, capendo che lui non aveva
intenzione di proseguire.
– Qual'è la fine di questa
riflessione, tu che mi chiedi perché ti assillo continuando a
chiederti se ho fatto un buon lavoro?
– Tu per prima lo sai. Io
non sono più importante di te, della opinione che hai di te stessa,
né di tutte quelle persone che te lo hanno detto ieri: loro lavorano
con me, e se ti hanno giudicato bene è come se avessi anche il mio,
di giudizio. Non devi aspettare che sia la mia approvazione a dartene
la certezza.
Diana tremò leggermente, forse per la leggera
brezza.
– Se tu sapessi. – Guardava dritto davanti a sé, i
palazzi illuminati dal sole, i le violette che iniziavano timide a
fiorire nei vasi sui balconi. Non sarebbe mai riuscita a guardarlo. –
Se tu solo sapessi cosa significherebbe per me. Non è questione che
non mi sento brava, se non me lo dici. Io vorrei che tu mi
apprezzassi: lo vorrei tanto, tu sei il mio mentore. – aveva
parlato a mezza voce, scandendo ogni parola, come se avesse voluto
soppesarle ad una ad una.
Si sentì rinchiudere nel suo
abbraccio, e nascose la faccia contro il suo petto.
– Sei stata
brava. – disse, con quella sua voce roca e bassa.
E pensò che
forse quello poteva bastarle.
Nda: Ma ciao fandom delle originali
:-D un aggiornamento domenicale non fa mai male, e visto che è
il mio ultimo giorno di malattia ho deciso di festeggiarlo così!
Ecco un nuovo capitolo, che spero vi piacerà, Diana inizia ad
essere più sicura di sè al lavoro ma con Michele non le
è altrettanto facile.
Grazie Bloomsbury, il fatto di sapere che tu sai leggendo questa
storia mi dà la forza di continuarla! Grazie grazie grazie!
Ascoltatevi i Pixies, pace amore e rock!
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 - Valpolicella&Tequila ***
daiquiri
L'aveva accompagnata Michele quella
mattina a Vicenza, a firmare l'aumento di livello: le avevano
proposto di affiancarlo, diventando di fatto la vice responsabile.
-
Come mai mi perdi sulla mania di controllo? Non sei più il super
uomo che vuole avere tutto il potere nelle sue mani? - gli aveva
finalmente chiesto mentre lui stava guidando, dopo qualche giorno che
quella domanda le frullava nella testa. Aveva semplicemente paura che
la sua risposta fosse qualcosa di simile a “sai, è la mia ragazza,
non la vedo mai”.
- Magari sto diventando un vecchietto. - la
prese in giro, senza di fatto rispondere.
- Dai, Michi, non fare
lo stupido!
- Allora, punto primo: io ho comunque tutto il
potere nelle mie mani. Punto secondo: il capo vuole ingrandirsi, e
fare un estivo con i contro coglioni, una mano non mi farà schifo. E
punto terzo: se sono il tuo mentore è ora che ti insegni un po' come
si manda avanti la baracca.
Che il capo si fidasse ciecamente
di lui l'aveva sempre sospettato, dal momento che se ne era sempre
stato buono buono a Vicenza, non era mai andato al Daiquiri a
interferire; ma quando li vide insieme fu solo più lampante.
Continuava a parlargli e a chiedergli la sua opinione su un mucchio
di cose, e Michele, con quel suo atteggiamento un po' da “ma non
starmi troppo addosso”, lo indirizzava su quella che per lui era la
scelta migliore.
Quando poi Michele si era allontanato, le aveva
detto che era stato lui a insistere per darle la promozione, e se
Michele insisteva tanto voleva dire che ne valeva la pena, così lui
le aveva fatto preparare il rinnovo del contratto.
Diana non poté
fare altro che scuotere la testa: a lei diceva le cose con il
contagocce e poi addirittura insisteva per promuoverla.
Però
le faceva piacere, quel suo occuparsi di lei; se solo avesse iniziato
a guardarla in maniera diversa...
Fermò il flusso dei suoi
pensieri, che la portavano sempre allo stesso punto, e firmò il
contratto, ringraziandolo.
- Andiamo a festeggiare. - le aveva
detto Michele, mentre risalivano in macchina. Era il giorno di
chiusura del Daiquiri, e si sarebbero potuti fermare a mangiare
qualcosa fuori senza il pensiero del lavoro; sarebbe davvero potuta
diventare una bella serata, se poi non fosse successo il peggio.
Il
ristorante era in un paesino sperduto poco prima di Padova, non
faceva più tanto freddo così vennero sistemati sulla piccola
terrazzina coperta, con vista sulle colline.
Forse era stata
l'atmosfera, forse era stato il Valpolicella, ma Diana sentiva
chiaramente che il sorriso le si stava inclinando verso di più verso
il basso, e non c'era niente che potesse raddrizzarlo.
- Alla
promozione e ai tuoi tre mesi a Padova. - brindò Michele, quando
portarono il dolce.
Diana spinse di malavoglia il calice contro il
suo, e si concentrò con grande impegno sulla sua millefoglie,
cercando di dominare il suo cuore e il suo stomaco che le stavano
irrimediabilmente rovinando la serata. Perché era una bella serata,
peccato che lei lo guardava, lo ascoltava, e quell'atmosfera da
serata romantica la spingeva a rodersi, rimpiangendo quello che non
aveva. Doveva essere davvero una terribile persona, si diceva, a
comportarsi così, ma non poteva farci niente: Michele la prendeva
ancora una volta per mano, per farla crescere, ma lei non avrebbe
voluto altro che si accorgesse di lei davvero, che l'amasse.
E invece chissà come aveva scoperto quel ristorante, chissà chi
ci aveva portato: le aveva viste ancora, le sue amiche, quando erano
andate a trovarlo al Daiquiri, e a volte capitava che la sera di
chiusura lui uscisse. Poteva, anzi, doveva farlo: non era di sua
proprietà, ma se non la invitava probabilmente era perché sarebbe
stata il terzo incomodo nei suoi appuntamenti. Ma allora perché non
le diceva niente? Gli aveva offerto migliaia di occasioni per farsi
dire che era impegnato, ma lui sembrava che non le cogliesse.
-
Cos'hai? - le chiese, riscuotendola dai suoi pensieri.
Diana gli
fece un sorriso forzato.
- Beh, a volte tu sei strano, e io ti
sopporto: potresti fare lo stesso con me.
Si appoggiò allo
schienale posando la forchetta, rinunciando alla battaglia con il
dolce, e lui la imitò.
- Io non faccio il musone quando si
festeggia.
- Ti prego, - disse con il suo miglior tono
sarcastico, - non dirmi che sono una musona. Andiamo, pago io: in
fondo è la mia promozione che stiamo festeggiando.
Sembrava
innervosito da quel suo atteggiamento, ma non fece commenti.
Durante
il ritorno Diana guardò fuori dal finestrino tutto il tempo, grata
per il buio che nascondeva le sue lacrime. Forse aveva bevuto troppo
vino.
Michele rimase in silenzio per tutto il viaggio, e non disse
una parola fino a che furono in ascensore, dove le luci illuminarono
gli occhi rossi di Diana.
- Senti, si può sapere che cos'hai?
-
No. - rimbalzò, secca.
Lui sospirò, sembrava non voler cedere,
come lei, d'altronde. Così evidentemente pensò che se lo sarebbe
fatto dire per sfinimento, perché la seguì in casa, e sulle prime
Diana lo ignorò, comportandosi come se non ci fosse.
Si tolse la
giacca e la mise a posto nel guardaroba, andò in bagno a
rinfrescarsi il viso e a cancellare le tracce delle lacrime, poi
quando tornò in cucina, vedendolo ancora lì, in piedi, si
innervosì.
- Non ti viene il dubbio che preferirei stare da sola,
magari? Non hai niente di meglio da fare, stasera? Non hai qualcuno
che ti aspetta?
- Non riesco a capire che cosa ti è preso, tutto
d'un tratto.
Diana si mise davanti a lui.
- Non è colpa tua,
tranquillo, è colpa mia: sono io che voglio cose da te che non puoi
darmi.
Il volto di Michele si oscurò, di colpo.
- Stai troppo
con me: non è sano.
Lei spalancò le braccia.
- Non è mai
stato sano tra me e te. - disse platealmente. - Io e te, sempre solo
io e te: ma cosa vuol dire “sano”? Io sono sempre stata bene
insieme a te, non è questo che conta? Se c'è qualcosa che non è
sano, forse è colpa mia. Sono io quella che sta impazzendo,
stasera.
Forse la mente le si annebbiò un secondo, o forse si
mosse talmente tanto velocemente da non rendersi conto di quello che
stava per fare, per potersi fermare di conseguenza; ma era lì, in
punta di piedi, le mani allacciate al suo collo. E lo stava baciando.
Lui non era propriamente immobile, quindi non vedeva nessun buon
motivo per fermarsi, ormai era dentro con tutti e due i piedi in
quella pazzia.
E poi, Michele, la stava baciando così bene che in
ogni caso non avrebbe potuto.
Quel bacio era come lui, dolce e un
po' rude, un po' le accarezzava le labbra e un po' la stringeva a sé,
premendole, e annebbiandola di passione.
Poi, la mano di lui sulla
sua testa, si staccò di mezzo centimetro, e Diana già capì cosa
stava succedendo. Si tirò indietro, non osando guardarlo.
- Ti
prego scusami: deve essere stato il vino. - gli disse, tutto d'un
fiato.
Sollevò piano gli occhi, e lo vide, ancora lì in piedi
davanti a lei, che la osservava muovendo nervosamente la mascella, le
labbra serrate.
- Sì, anche io forse ho bevuto troppo. - disse
poi, secco. - Sarà meglio che vada.
Quando sentì la porta di
casa chiudersi il terreno le franò sotto ai piedi: che cosa cavolo
aveva combinato? Come poteva essere stata così stupida?
Passò
mezz'ora, prima che ebbe il coraggio di attraversare il
pianerottolo.
Michele aprì uno spiraglio, interrogativo,
guardandola mentre teneva in mano una bottiglia di
Tequila.
Probabilmente era troppo sbalordito, perché aprì la
bocca ma non uscì nessun suono.
Diana sospirò per farsi
coraggio, e si infilò nello spazio lasciato aperto, entrando in
casa.
- Tu mi credi, vero, se ti dico che ho bevuto troppo e non
so nemmeno io perché ti ho detto quelle cose e perché... beh, hai
capito?
Michele continuava a guardare la bottiglia.
- Sì, ti
ho detto che anche io forse devo aver bevuto un po', ma non capisco
cosa centri...
Diana sospirò, di nuovo.
- Il problema è
questo: io non voglio che quello che c'è tra noi si rovini, e
sicuramente causerà dei problemi, così ho pensato che dobbiamo
berci su. Non ho mai provato a bere così tanto da dimenticare tutto
il giorno dopo, ma forse può funzionare.
Michele si portò una
mano sulla fronte, e rise, stanco.
- Non ci credo.
Diana
accese la musica, tenendo il volume più basso dei suoi standard
vista l'ora.
- Solo che ho pensato: ci chiederemo come mai abbiamo
iniziato a bere, e alla fine ci ricorderemo lo stesso di quello che è
successo. Ma... - scelse una canzone un po' più movimentata, - non
se adesso festeggiamo. Forza, prendi due bicchieri e vieni qui: ci
aspetta una bevuta.
Michele era probabilmente troppo incredulo e
sbalordito per obiettare, e forse senza crederci troppo nei risultati
che sperava Diana, decise di stare al gioco.
Dopo un ora i
bicchieri erano stati aboliti, e la musica movimentata anche: si
passavano la bottiglia, bevendo un sorso uno alla volta, ed erano
finiti a fare discorsi filosofici.
Michele forse era un po' più
silenzioso del solito, ma anche Diana stava iniziando ad avere
difficoltà a parlare normalmente, tra il sonno e la pesantezza
dell'alcol.
- Sono proprio una stupida. - biascicò, ridendo.
-
Perché? - le chiese, passandole la bottiglia.
- Per questa
bevuta. - mandò giù un altro sorso, nonostante il suo stomaco
stesse iniziando a ribellarsi. - non è un'idea stupida?
Michele,
già con gli occhi chiusi, sdraiato per terra accanto a lei, sorrise.
- No, in fondo è una cosa carina.
Capì che si stava per
addormentare, e lo scosse leggermente.
- Michele. - disse,
trattenendo il singhiozzo. - Mi devi promettere, mi devi giurare, che
domani ci dimenticheremo tutto.
Lui aprì un occhio,
- Che cosa
dovremmo dimenticarci?
- Ecco, bravo. Tieni un altro sorso. - gli
passò la bottiglia e lasciò che la mano cadde a terra, troppo
pesante per muoversi. E prima che potesse sentire se lui aveva
qualcos'altro da dire, già dormiva.
Aprì gli occhi, non
poteva vomitare a casa sua. Gattonò per un paio di metri, poi si
alzò, e tenendo una mano sulla bocca aprì la porta e attraversò il
pianerottolo, maledicendo la serratura che sembrava essersi
incastrata; quando riuscì finalmente a entrare non si curò di
chiudere la porta, e barcollò in quella che le sembrava una corsa
verso il bagno, maledicendo tutto quello che aveva bevuto.
Il suo
stomaco doveva per forza essere ormai vuoto: non avrebbe mai creduto
di poter vomitare così a lungo. Si sciacquò la bocca e la faccia,
ma nonostante l'acqua fosse gelida allo specchio continuava a vedere
uno zombie, e la testa sembrava scoppiarle da un momento
all'altro.
Si trascinò verso la porta di casa, per chiuderla, e
incontrò Michele, che si era alzato a chiudere la sua.
Lo guardò
con smarrimento, tenendo gli occhi socchiusi per il mal di testa.
-
Non ci posso credere. - piagnucolò, - Michi: sono una vecchia,
guardami come mi sono ridotta. Non mi era mai successo!
Lui, che
probabilmente non era in condizioni migliori ma riusciva a nascondere
meglio il malessere post sbornia, sbuffò una risata stanca,
appoggiando la fronte allo stipite.
- Vieni, ti faccio una cosa
che ti farà stare meglio.
Diana trascinò i piedi fino al suo
appartamento.
- Eh? Io non posso mangiare, tu non sai e non vuoi
sapere cosa è appena successo di là. - disse tragicamente. Di tutta
risposta lui le mise una mano sulla testa, scompigliandole i capelli
già spettinati,
- Fidati di me, Daiana.
Tirò fuori
dal freezer una specie di pizza, alta, tagliata a trancio, come
quella delle macchinette automatiche.
- Questa è una cosa
pessima, - le spiegava, mettendola in microonde, - ma quando la
mangerai si gonfierà nel tuo stomaco, come una spugna, e assorbirà
tutti gli acidi. - provò a stiracchiarsi la schiena. - Dormire sul
pavimento: quella no, non è stata una buona idea. Mi toccherà
prendere un antinfiammatorio, se voglio stare in piedi
stasera.
Diana, per quanto possibile, spalancò gli occhi, e si
mise le mani sulla fronte.
- Ti prego, dimmi che per stasera sarà
tutto finito! E non hai qualcosa contro il mal di testa?
- Tieni,
rottame. Finiscila, e poi ti darò un antidolorifico.
Faceva
persino fatica a masticare, ma una volta mandata giù doveva
ammettere che quella cosa plasticosa sembrava fare quello che
prometteva.
- Questo giorno segna l'inizio della mia vecchiaia. -
disse, teatralmente, mentre ingollava l'antidolorifico insieme ad un
fantastico succo di frutta che sembrava avere proprietà magiche con
la sua arsura. - Dì un po', - borbottò, - quanto mi hai fatto
bere?
Michele mise una bottiglia quasi vuota sul tavolo.
-
Quanto ti ho fatto bere? Ho trovato questa, di là, e ti
assicuro che non è mia, non l'ho mai vista prima.
Diana
bofonchiò una risata, aveva un assoluto bisogno di dormire, ma non
poteva addormentarsi lì: ricordava fin troppo bene quella notte che
l'aveva portata sul suo divano, che conseguenze disastrose aveva
avuto la mattina dopo; quella mattina era andata bene, ma non le
conveniva sfidare troppo la fortuna.
- Ora ti chiedo un ultimo
favore: aiutami ad alzarmi. - gli disse, porgendoli le mani, - Devo
assolutamente raggiungere il mio letto.
Lui nascose una risata.
-
Ma guardati: secondo me la fai più grande di quella che è, non puoi
stare così male!
Si aggrappò alle sue mani e si alzò in
piedi.
- Forse le donne fanno più fatica a smaltire l'alcol: ti
assicuro che sto davvero di merda.
Stava per imboccare l'ingresso,
ma lui da dietro la deviò verso il divano.
- Forza, mettiti qui a
dormire, così posso tenerti d'occhio.
E visto che glielo aveva
proposto lui non ebbe niente da obiettare. Si sdraiò sul lato più
piccolo del divano ad angolo, Michele accostò le persiane e
raggiunse l'altro lato.
- Cerca solo di non vomitare sul mio
divano. - l'ammonì.
Ripensò a come le aveva risposto sulla
Tequila: aveva sicuramente funzionato, Michele aveva dimenticato il
disastroso episodio della sera prima, il loro rapporto era salvo. E
con questo pensiero si addormentò profondamente, con in testa una
vecchia canzone di Bruce Spristing di cui non ricordava il titolo.
Nda: Cosa dite voi, la Tequila funziona? Con Diana no, ma Michele sembra aver rimosso tutto... o no?
Per i più curiosi la canzone del Boss è Sad Eyes. Io a
quanto pare, la storia insegna non riesco a reggere tanto scrivendo una
storia senza infilarci dentro qualche riferimento musicale :-P ! E in
alcuni casi, come questo, si riferisce al pezzo che ascolto
mentre scrivo il capitolo.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, anche se è un po' strano ;-) alla prossima!
Grazie Bloomsbury, che così carinamente leggi e recensisci
quello che scrivo, ma specialmente grazie perché amo le tue
storie!
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 - Ballando ballando... ***
daiquiri
– Non vedo l'ora di quando aprirà
l'estivo: sarà spaziale. Tu sei andata a vederlo? – le chiese
Stefano, eccitato come un bambino alla viglia di Natale.
– Non
mi ha ancora portata, forse domani. Ce la sta proprio mettendo tutta,
ad allestirlo bene: non vedi come è intrattabile in questi giorni? –
disse, parlando di Michele.
– Come se avesse il ciclo, davvero.
– rise lui, avvicinandosi poi verso una cliente che voleva da
bere.
– Ehi, – le diceva, strizzandole l'occhio. – Tu verrai
al nostro estivo quando lo apriremo, vero? Guarda che io ci sarò, e
me ne accorgerò se non verrai! – Lei era arrossita e gli aveva
sorriso. Diana si spostò, per evitare di riderle in faccia: da
quello che si ricordava non si era mai comportata così, forse le
generazioni cambiavano proprio.
Giacomo la chiamò
dall'auricolare,
– Arriva il boss. – le disse, preceduto da
un fischio metallico.
– Ricevuto. – rispose, andandogli in
contro. Michele entrò come un uragano,dirigendosi direttamente verso
il suo ufficio, salendo i gradini a due a due. – Qualche problema?
– gli chiese, mettendo dentro la testa.
Lui stava controllando
dei fogli, cercando qualcosa.
– Decisamente: la ditta che ci
fornirà i frigoriferi ci dà dei modelli troppo scadenti, e se ne
vogliamo
di migliori alzano l'affitto all'inverosimile; quelli
che abbiamo qui li abbiamo acquistati, ma mi sembra di ricordare che
prima che arrivassi li avevano in comodato d'uso, devo solo trovare
qualcosa, una fattura qualsiasi.
Sapeva che non c'era niente che
potesse fare per aiutarlo, così scese ad assicurarsi che tutto
stesse filando liscio.
– Agnese, – le chiese, fermandola,
dopo aver controllato che in sala non ci fossero bicchieri
abbandonati, – vai a riempire la vasca del ghiaccio tritato di
Gianni, per favore, e digli che ti mando io: chiedigli se ha tempo di
tenerti lì con lui, per farti vedere qualcosa.
Agnese era l'unica
cosa per cui lei e Michele avevano discusso: lui diceva che se voleva
stare sul banco avrebbe dovuto fare un corso, serio, come aveva fatto
lei e come avevano fatto tutti i baristi che lavoravano lì; Diana
invece insisteva sul fatto che le stava semplicemente facendo fare le
ossa, e che sarebbe stata proprio Agnese a comunicare, un giorno, che
si era iscritta a un corso per bartender. Però tutto sommato lui le
aveva dato carta bianca quando non c'era, se voleva poteva lasciarla
sul banco se non avesse interferito con il normale lavoro.
Poi
discutevano regolarmente, ma quello era un bene: poteva sfogare in
quelle discussioni tutta la sua insoddisfazione repressa, ed evitare
di arrivare a momenti tanto folli come era accaduto in passato.
Diana
ricordava benissimo il loro bacio, anche se fingeva di non farlo, ma
era sicura al novantanove per cento che lui lo aveva completamente
rimosso: sennò non si sarebbe mai comportato normalmente con lei,
conoscendolo. E invece Michele si comportava come se niente fosse,
anzi, da un po' di tempo a quella parte i suoi momenti di dolcezza
erano aumentati, a volte mentre guardavano un film si sedeva accanto
a lei lasciando che Diana si appoggiasse sulla sua pancia, altre
volte si lasciava abbracciare mentre fumavano una sigaretta, nei
momenti in cui era particolarmente nostalgica. E tutto quello per lei
era un nettare e una droga insieme, e se non avesse avuto Agnese,
come pretesto per litigarci un po', sarebbe sicuramente impazzita di
frustrazione.
Perché lei invece ricordava tutto, il modo stupendo
in cui Michele l'aveva baciata, e si sarebbe fatta mozzare un braccio
pur di riviverlo.
Inaspettatamente dall'auricolare le arrivò la
sua voce, resa ancora più roca dall'apparecchio, e si bloccò
allarmata, come se lui avesse potuto spiare i suoi pensieri.
Si
allontanò dallo sguardo indiscreto di Stefano, che stava seguendo la
scena.
– E così ne hai anche tu uno, eh? – balbettò
imbarazzata, cercando di scacciare dalla mente i pensieri dove lui la
baciava.
– Cosa pensavi, che fosse una tua esclusiva?
– No,
sono contenta che alla fine ti sei arreso alla mia idea.
Lo sentì
sbuffare chiaramente, e il fischio quasi la assordò, ma lei sorrise
soddisfatta.
– Non cantare vittoria: – le stava dicendo, –
ne ho chiesto uno solo perché così posso parlare con te senza
correre in giro a cercarti. Domani dovremmo a venire a controllare le
scorte, ma se è tranquillo potete farlo anche stasera, così inviamo
direttamente l'ordine.
– Ricevuto, lascio Agnese al banco e mi
porto uno dei ragazzi.
– Sempre di testa tua, eh, Daiana?
–
Tu spostavi le casse e dettavi le cose da ordinare a una cameriera,
vorresti che io facessi lo stesso? Passo e chiudo.
Stava andando
verso Gianni, ma Stefano le si parò davanti.
– Allora, – le
disse, studiandola. – era Pietro? Non Giacomo, vero? Cosa
voleva?
Diana non capì, dedicandogli una smorfia dubbiosa, e lo
schivò avvicinandosi a Gianni.
– Era Michele, – gli disse
camminando, mentre lui le stava dietro, – mi ha detto che possiamo
fare l'ordine stasera.
Era davanti a Gianni, ma Stefano la fermò,
prendendole il polso.
– Non ci posso credere, era Michele? –
Si avvicinò al suo orecchio – Lo sai che avevi la stessa faccia
che fa Paola quando parla con Fabio?
Diana si gelò. Quella
cameriera con la sua immensa cotta erano sulla bocca di tutti. Lo
fulminò con lo sguardo, e poi si rivolse a Gianni:
– Stefano
viene ad aiutarmi nel magazzino: mettiti tu al suo posto, per favore.
– disse, e poi con un cenno si fece seguire da Stefano.
Non
sapeva davvero cosa dirgli, ma di sicuro non voleva che quello che
provava per Michele fosse messo alla gogna e ridicolizzato, con anche
il rischio che lui venisse a scoprirlo. In quei mesi nessuno si era
accorto di niente, e ora...
– Quindi? – la incalzò
Stefano.
Deglutì, e prese il block notes.
– Quindi aiutami a
spostare questa fila di scatole: devo controllare quelle dietro. –
disse freddamente.
Ogni tanto con l'auricolare chiedeva ai
buttafuori se tutto stesse andando bene, ma per il resto lavorarono
in silenzio, come se non fosse successo niente. Diana era
paralizzata: lei non era Paola, non aveva vent'anni e non aveva una
cotta. Lei era innamorata di una persona che attualmente significava
tutto nella sua vita.
Furono talmente svelti da finire l'elenco
prima del previsto, controllando anche le scorte dei fusti,
portandosi avanti per la volta successiva, e Stefano le propose una
sigaretta.
– Andiamo, vuoi ignorare quello che è successo
prima? – cercò di smuoverla, spingendole il pacchetto fin sotto al
naso.
Diana sbuffò e ne prese una.
– Guarda che prima non è
successo niente: a cosa ti riferisci? – cercò di sviarlo. Stefano
sollevò le sopracciglia eloquentemente.
– A te che parli con
Michele e arrossisci. – Lei, allarmata, gli diede uno spintone, e
poi si assicurò che il microfono dell'auricolare fosse spento. –
Sai, – continuò lui, accarezzandosi il pizzetto. – questo
vorrebbe dire che ho perso un po' di soldi, dato che io avevo puntato
su Pietro, e mi secca che Gianni e Agnese abbiano avuto ragione, dal
momento che mi sono sempre vantato di conoscerti meglio io.
Sbarrò
gli occhi,
– Scusa, ma cosa stai dicendo? – balbettò.
–
Allora, – sbuffò, dovendo rispiegare tutto, – io ho scommesso
che sarebbe successo qualcosa tra te e Pietro, il buttafuori, Fabio
ha puntato su Giacomo, e Gianni e Agnese su Michele. Ti è tutto
chiaro? Dannazione, certo che si trattava di Michele, sono uno
stupido.
Era sconcertata, avevano davvero scommesso sulla sua vita
sentimentale?
– Perché non Michele? – si limitò a
chiedergli, accedendo la sigaretta.
Stefano sorrise sotto ai
baffi.
– Colpa mia, sono un po' troppo poco romantico, alle
favole preferisco del buon sano sesso, e dopo la partita di calcetto
indirizzerò qualsiasi donna da Pietro. – Osservò la sua
espressione sconcertata e specificò: – Le docce, si scoprono molte
cose, sai? – Mimò una misura enorme distanziando le due mani,
facendola scoppiare a ridere imbarazzata. – È che tu e il Boss...
sì, vi vedrei bene insieme, forse troppo: ecco perché ho puntato su
Pietro.
Diana spense la sua sigaretta.
– Mettiamo le cose in
chiaro, Stefano: tu non hai visto niente. Se ho fatto una faccia
strana forse era perché ero distratta, se sono arrossita era perché
faceva caldo. E soprattutto non vedrai niente. – Gli strizzò
l'occhio e fece per rientrare. – Ah, comunque... – Mimò lo
stesso gesto che aveva fatto lui per descriverle le qualità di
Pietro. – Non credo che potrei sopportarlo.
Di fatto, però, non
riuscì più a guardare negli occhi il buttafuori senza reprimere una
risata.
– Quindi questa sarebbe l'idea di “cena aziendale
per festeggiare l'apertura dell'estivo”? – Fabio osservava
dubbioso la tavolata della festa di paese, dove il loro gruppo, in
mezzo ai pensionati che si sgranchivano per il liscio, stonava
decisamente.
– Mangiati quella salamella e stai zitto. – lo
riprese Michele, – Poi ti ho detto che dopo ti porto in un locale,
dove volevi mangiare? In pizzeria, come con i compagni delle medie? –
borbottò, prendendolo in giro.
La sera prima il Daiquiri aveva
chiuso ufficialmente i battenti per la stagione, e quel venerdì ci
sarebbe stata l'inaugurazione del Daiquiri Frozen, come ormai tutti
avevano ribattezzato l'estivo contrariando Michele; visto che secondo
lui quel “frozen” non avrebbe ricordato per niente l'atmosfera
quasi caraibica che avevano ricreato, con tre piste da ballo su cui
avrebbero suonato Dj e generi musicali diversi, intervallati da
piscine e una zona con la sabbia. Il trio delle meraviglie, Stefano,
Gianni e Fabio, avrebbe dominato dalla postazione bar principale;
Diana si sarebbe divisa tra quella e un'altra verso le piscine, in
base alla serata e all'affluenza; erano stati assunti dei nuovi
bartender provenienti da altri locali che avrebbero fatto la chiusura
estiva per coprire le altre postazioni, e infine Agnese era stata
promossa a bar–back, ovvero a quella figura che approvvigionava
costantemente i bar di ghiaccio, frutta e quant'altro.
I baristi
nuovi erano per lo più ex colleghi o comunque erano conosciuti dal
resto dello staff, quindi l'avventura appariva invitante sotto a
tutti i punti di vista.
Anche la cara Cecilia faceva parte
della reunion, ma fortunatamente quella sera non era presente,
e
Diana non ne era propriamente dispiaciuta: era passata al Daiquiri
qualche sera prima, e oltre a essere una ragazza esaltata come poche,
con una pronunciata mania di protagonismo, aveva anche il brutto
vizio di prendersi un po' troppe confidenze con Michele. Diana era
rimasta inerme mentre Cecilia gli si era praticamente strusciata
addosso quando lo aveva salutato, e aveva passato tutta la serata a
stargli intorno. Ancora non gliel'aveva del tutto perdonata,
all'ignaro Michele.
Quella serata però sembrava proprio
uscita bene: oltre a praticamente tutto lo staff abituale si erano
uniti due ragazzi che avrebbero fatto parte dell'estivo, la compagnia
era allegra ma non chiassosa, il cibo buono, e lei si stava
divertendo un mondo.
E forse era lo stato d'animo generale,
perché dopo aver finito di mangiare avevano riempito il tavolo di
birre, senza fretta di scappare via, ed erano rimasti a chiacchierare
e a prendere bonariamente in giro i vecchietti che sfoderavano tutte
le loro abilità in pista.
Dopo molte eloquenti spinte da parte di
tutti Fabio aveva portato Paola a ballare, la piccola Agnese aveva
trascinato Gianni, e Giacomo stava facendo scatenare Irma, la
cassiera cinquantenne che ogni due mesi dichiarava di voler andare in
pensione, ma che di fatto era ancora lì con loro.
Da quel lato
del tavolo erano rimasti lei, Michele e Stefano, e Diana stava
provando senza molti risultati a convincere Michele a farla
ballare.
– Dai, ti porto io! – si era offerto Stefano.
–
Quanti anni hai, quindici? – esagerò, – Dai, mi sentirei una zia
che balla con il suo nipotino, sai che odio fare la figura della
vecchia babbiona. Giacomo è già impegnato con Irma e... – abbassò
la voce, – sai che con Pietro non ballerò mai, per colpa
tua.
Stefano scoppiò a ridere, stuzzicando la curiosità di
Michele.
– Perché? Che cosa è successo?
Diana arrossì, e
Stefano gli spiegò che le aveva svelato la maggior qualità di
Pietro, consigliandole un giro di giostra, aumentando ancora di più
il rossore sulle guance di lei, che cercò di ritrovare il contegno
bevendo un sorso di birra e schiarendosi la voce.
– Dai, –
tornò in carica con Michele, che dopo il racconto di Stefano la
guardava stranamente divertito, – sarebbe l'unica occasione di
ballare con te dopo più di dieci anni: dici che con i ragazzini non
balli, e allora balliamo con i vecchi, me lo devi.
– Vediamo se
c'è qualche canzone che mi ispira, – sospirò Michele, rimanendo
sul vago, e Stefano scattò in piedi, correndo verso il palco.
–
Oh cielo, – lo guardava Diana, – cosa vuole fare? Questa non è
una serata karaoke, dove puoi chiedere i pezzi che vuoi! – gli
disse, quando tornò a sedersi accanto a loro.
– Ehi, l'ho fatto
per fare alzare il vecchio culo del Boss dalla sedia:
ringraziami.
Suonarono ancora un paio di canzoni ma Stefano
scuoteva la testa: la sua non era ancora arrivata.
Il cantante poi
prese una pausa, e finalmente annunciò al microfono, mentre
l'orchestrina accordava gli strumenti:
– Una richiesta dal
pubblico: Boss fai ballare... Daiana. – disse, mentre le
trombe iniziavano a intonare Diana di Paul Anka.
Lei scoppiò a
ridere, e Michele si alzò porgendole finalmente la mano.
– Non
ti lamentare se ti pesto i piedi, – l'avvisò mentre raggiungevano
la pista.
Diana non riusciva a reprimere il sorriso felice, e
anche se non sapeva bene come ballare la canzone lasciò che lui la
guidasse, dimostrando delle inaspettate capacità.
– Allora è
vero che ti scateni con i vecchietti. – lo prese in giro, dopo
essersi abituata al ritmo.
Quella canzone, in particolare, le
aveva sempre ricordato lui: gliel'aveva fatta sentire una sera, dopo
poco che si erano conosciuti, per spiegarle che la chiamava “Daiana”
non in onore della principessa; e mai come in quel momento il tema di
quella canzone le faceva venire i brividi: come ascoltare quell'amore
con quella differenza di età e senza rimanerne coinvolti?
–
Quindi Daiana è la ragazza più giovane di lui di cui si è
innamorato? – si azzardò a chiedergli, maliziosa.
Michele fece
uno strano sorriso.
– Ti confondi con la versione di Celentano:
nell'originale Daiana è più grande di lui. – Rimase imbambolata:
non era possibile, era sempre stata convinta che... – I'm so
young and you're so old... – intonò piano lui, praticamente
senza cantare da tanto la sua voce era bassa.
Diana scoppiò a
ridere, nascondendo il volto contro la sua spalla.
– Non ci
posso credere, e io che ti volevo prendere in giro: che gran figura
di merda!
Come se li avesse sentiti, il cantante, allungò la
canzone includendo la versione italiana, provocando così quasi una
ola tra i vecchietti; e Diana si prese così la sua piccola vendetta,
canticchiandogli allegramente:
– Certo non ne ho viste mai
belle e sexy meglio di lei, ma a me sembra che lei è un po' troppo
giovane per te...
Michele sbuffò, ridendo infastidito, e le
fece fare una giravolta.
– Guarda che la Daiana della canzone
non aveva certo ventotto anni... mi sa che sei tu, a essere un po'
troppo vecchia. – la stuzzicò.
Diana lo guardò in faccia,
vide il suo sorriso che le assicurò che stava scherzando, e decise
di ignorarlo, godendosi quello che rimaneva della canzone. Non le
importava, per lei anche la versione originale avrebbe continuato a
parlare di loro, in segreto.
– Un'altra canzone? – gli chiese,
sentendo che la musica stava finendo.
– Ancora? Ma questa erano
già due canzoni! – le fece notare, facendo un cenno a Giacomo che
stava andando a sedersi di prendere il suo posto.
Stefano
guardò la pista, e diede una gomitata a Michele:
– Non ci
credo: guarda chi è andato a ballare con Daiana!
Lui non
apprezzò molto l'utilizzo del soprannome, e guardò crucciato verso
la pista, finendo però a ridere divertito, vedendo il suo volto
imbarazzatissimo mentre ballava con Pietro.
– Giuro che l'avevo
lasciata a Giacomo. – si discolpò, girandosi verso l'uomo, – Hai
smesso di ballare?
Lui si stava facendo aria con una tovaglietta
ripiegata.
– Non ce la facevo più, ho una certa età anche io e
ho fatto del mio meglio. Non come te, fighetta. – concluse,
dando uno scherzoso scappellotto a Michele.
– Quindi chi la va a
salvare? Io o te? – si preoccupò Stefano, richiamando la sua
attenzione.
– Nessuno, lasciala nel suo brodo. – Ma poi cambiò
idea.
Era finalmente riuscita a superare l'imbarazzo di stare
con Pietro, o almeno a mascherarlo, quando comparve Michele.
–
Siete rimasti solo voi a ballare, muovetevi che andiamo a bere
qualcosa. – disse, interrompendoli.
– Mi fai finire la
canzone? – gli chiese: era rimasta tutto il tempo seduta e aveva
iniziato a ballare solo da un poco, almeno voleva godersi
quell'ultimo ballo. Michele la guardò brevemente, e poi si rivolse a
Pietro.
– Posso?
Così disorientata passò nuovamente tra le
sue braccia, e quello sguardo negli occhi di Michele la obbligò a
guardare altrove, stranamente imbarazzata e felice.
– Alla fine
non mi sembravi così in difficoltà con Pietro, forse potevo evitare
di venire a salvarti.
Diana evitò di rispondergli, godendosi
quegli ultimi attimi stretta a lui, prima che il ritmo della canzone
aumentasse.
– Sai, questa canzone la canteresti meglio tu. –
dichiarò, mentre iniziava a farla girare. – Il cantante ha una
voce troppo pulita per fare Buscaglione.
Girò e rigirò, per
ritornare sul finale tra le sue braccia.
– Buonasera
signorina, kiss me goodnight.– l'accontentò Michele, sempre a
mezza voce, liberando in quelle ultime parole il ricordo di Fred
Buscaglione, e della voce forse un po' meno roca della sua. E poi,
inaspettatamente, la fece scendere in un casché posandole un veloce
bacio tra la guancia e le labbra. – Forza, andiamo. – disse,
tornando dritto, come se quel bacio avesse solo fatto parte di una
coreografia.
Un'altra voce che si aggiungeva alla già lunga
lista di cose da evitare di pensare, cose che però occupavano la
maggior parte dei suoi pensieri. Parzialmente, ma l'aveva baciata,
era indiscutibile, anche se poi aveva fatto finta di niente e
continuava a farlo.
– Che faccia, a che pensi? – la distolse
dai suoi pensieri a fine serata, quando furono in ascensore.
Diana
lo guardò: avrebbe voluto dirgli “kiss me goodnight”, e
fiondarsi su di lui, come se si fosse trattato di vita o di morte.
Scosse la testa e improvvisò:
– Non mi ero mai accorta che
Agnese e Gianni fossero così carini insieme.
– Ti prego: non
partecipare anche tu al gioco delle scommesse. – l'ammonì.
–
Ma sei pazzo? Sapendo che l'hanno fatto con me e volevano accoppiarmi
con Giacomo o con Pietro? – Evitò accuratamente di dirgli che
anche lui rientrava nei papabili. – Non ci penso proprio.
Quando
l'ascensore si aprì si divisero, ognuno verso la propria porta.
–
Buonasera, signorina. – sentì, mentre stava entrando in casa.
–
Eh? – le uscì strozzato: forse non aveva capito bene.
Michele
le strizzò l'occhio,
– Buonasera signorina, kiss me goodnight.
– disse, mentre chiudeva la porta, lasciandola totalmente
stordita.
Entrò in casa: era ben dura ora, obbligarsi a pensare
che stava succedendo tutto nella sua testa.
Nda: Capitolo un po' musicale, ma io
adoro le feste di paese e i climi da balere :-) inoltre Diana di Paul
Anka è una delle mie canzone preferite di sempre, e se devo
essere onesta nonostante io parli l'inglese abbastanza bene per una
dozzina di anni minimo anche io l'ho sentita pensando seriamente che la
più giovane fosse Diana. Ed ero un po' ispirata alla canzone,
scrivendo questa storia; poi mi sono accorta che lui in realtà
le dà della vecchia :-P poco tatto, eh, Paul Anka? ;-) Scherzo
ovviamente, Diana è una delle canzoni più belle di
sempre, e detto fuori dai denti nonostante molte canzoni di Celentano
mi piacciano questa è inascoltabile: biondorosa morbidosa cotta
al dente? ...
Chiudendo la mia divagazione musicale... spero che il capitolo vi sia
piaciuto, grazie a chi mi legge e ha inserito la mia storia nelle
seguite/preferite; e ovviamente grazie a Bloomsbury: ogni singola
recensione che mi hai lasciato è stata una sorpresa! Grazie!
Passo e chiudo, ciao a tutti, alla prossima e
Pace Amore e Gioia Infinita!
[Ovviamente anche questa è una citazione ;-) ]
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 - Rossella detta anche ***
daiquiri
Una ventata d'aria fresca: Rossella
sarebbe andata a trovarla, in quei giorni di ferie prima
dell'apertura dell'estivo.
La mattina dopo la festa Diana si era
alzata presto e aveva lucidato la casa, impaziente di rivedere l'ex
collega e amica, e quando le arrivò la sua telefonata, che la
informava che il navigatore non trovava l'indirizzo e si era persa,
corse giù per le scale, troppo impaziente per aspettare
l'ascensore.
– Ehi! – gridò, vedendo la sua macchina
accostata vicino a quel tabaccaio dove anche lei si era fermata
quando era arrivata in città. La raggiunse, indicandole un
parcheggio libero, e quando la vide spegnere il motore praticamente
la tirò giù dalla macchina, da tanto aveva voglia di
abbracciarla.
– Che accoglienza! – rise lei, stringendola a
sua volta. – Ti ho portato il resto delle tue schifezze, aiutami a
tirare giù gli scatoloni.
Mezz'ora dopo erano scomposte sul suo
divano, stanche per i viaggi con gli scatoloni in mano, e Rossella la
stava aggiornando su tutte le ultime novità.
– Ti rimpiangiamo
tutti, in negozio: il nuovo capo è uno stronzo totale, di quelli che
ti davanti fanno i simpaticoni, ma non ti conviene dargli le spalle,
sennò... Ti sei sistemata bene qui, vedo. Stasera dove mi porti?
Cosa fai in genere?
Rimase scandalizzata nel sapere che in genere
Diana la sera lavorava, e le sue sere libere o le passava con Michele
oppure rimaneva a casa a riempirsi di film.
– Non vedo dove stia
il problema: già sono in discoteca la maggior parte della settimana,
almeno una sera le mie orecchie hanno bisogno di riposo. – si
giustificò, rimasta male dall'espressione sconcertata di Rossella.
–
Sì, ma non hai altri amici oltre a quel Michele? Andiamo, sono mesi
che vivi qui! Non ti preoccupare, ora c'è Rossella in città, vedrai
che ti rivoluzionerò la vita. Immagino che anche a uomini oltre a
Michele... niente vero? Ma almeno vi date da fare? – Capì subito
dall'espressione imbarazzata di Diana che non era esattamente così.
– Oh, ma andiamo, ti sei data alla castità?
Diana sbuffò,
seccata: non si aspettava certo di venire giudicata, con il lavoro
che faceva era normale che la cerchia di conoscenze si restringesse
ai colleghi, e sul fattore uomini non aveva minimamente intenzione di
far venire in mente a Rossella di spingerla tra le braccia di
Michele. Lei sarebbe partita, ma Diana doveva rimanere a fare i
conti con le conseguenze delle sue azioni.
Certo, in tutta onestà
il sesso le mancava, e abbastanza, ma non aveva la testa per anche
solo pensare ad altri uomini che non fossero lui.
– Scusa tanto
se non sono venuta a fare la prostituta di Padova: non sono in
vacanza, è il luogo dove sto vivendo, e non ho intenzione di
mettermi a fare la stupida. E prendi nota e tienilo bene in mente:
Michele è il mio capo e il mio amico, non ho proprio l'intenzione di
andare a letto con lui. – sperò di essere stata abbastanza chiara,
Rossella era un tesoro ma a volte aveva la sensibilità di un
elefante, e aveva il potere di metterla nei guai.
Non aveva fatto
un programma, ma captando come il suo interesse si fosse focalizzato
sulla sua vita sociale, sentimentale e sessuale decise che doveva
tenerla impegnata, così mentre Rossella faceva la doccia preparò un
itinerario che avrebbe potuto sfiancarle, in modo da poterla inibire.
E poi Rossella faceva la commessa a tempo perso, la sua vera
passione era l'arte, per cui non si sarebbe insospettita per quel
tour.
Anzi, fu proprio lei a prenderne in mano le redini, dopo ore
di cammino.
– Muovi quelle gambe! – la rimproverò, mentre
guardava lo schermo del suo cellulare che le indicava il monumento
più vicino. – Se ci sbrighiamo riusciremo a entrare alla Basilica,
muoio dalla voglia di vederla! E qui mi dice che li vicino c'è un
posto perfetto per fare l'aperitivo, così conosceremo i tuoi
concittadini!
– Accaldate e sudate? – sbuffò,
raggiungendola.
Rossella, nel pieno del suo elemento, ignorò
quell'affermazione, la prese sottobraccio e la trascinò verso la
Basilica.
– Smettila, Rossella! – la riprese, quando
furono sedute sui tavolini esterni del bar dove l'aveva portata. –
Sembri una ragazzina di quei film, dove le protagoniste iniziano una
nuova scuola e iniziano a guardarsi intorno per riuscire a entrare
nel sistema e diventare reginette: non mi piace affatto.
– Sei
pesante, guarda che tra reginetta e sfigata asociale c'è la
normalità in mezzo, e a quella mi sembri abbastanza lontana!
No,
la visita della città aveva sfiancato più lei che Rossella, non
andava affatto bene.
Sentì una voce famigliare chiamarla,
–
Vecchietta! – si voltò verso Stefano, che si stava sedendo nel
tavolo accanto al loro, non riuscendo a decidere se era un bene o un
male che Rossella lo incontrasse. – Che ci fai qui, dove hai
lasciato il Boss?
Rossella lo aveva subito adocchiato, lanciandole
delle occhiate molto eloquenti.
– Non lo so, sai, non viviamo in
simbiosi come pensi.
– Aspetti qualcuno? Unisciti a noi,
piacere, sono Rossella, un'amica di Diana. – si intromise,
porgendo la mano a Stefano.
– Certo che aspetta qualcuno. –
commentò sarcastica Diana, ma Stefano decise di portare lì la sua
sedia.
– Ma è in ritardo, – diceva, – quindi bevo
volentieri qualcosa con voi. Da dove sei spuntata, Rossella?
Non
che non le interessasse socializzare con Stefano, ma era quella sua
ossessione a voler evitare che altri si intromettessero nel rapporto
tra lei e Michele: Stefano già ne aveva fatto accenno, anche se
Rossella non era riuscita a coglierlo, e conoscendoli entrambi sapeva
che se avessero unito le idee non ne sarebbe uscito fuori niente di
buono. Forse Stefano le aveva dato una mano la sera prima, ma non
voleva che esagerassero: era la sua vita, il suo rapporto, e nessuno
doveva metterci il becco. Come infatti avvenne.
– Stefano, tu
cosa dici del fatto che da quando Diana è qui non è ancora uscita
con nessun ragazzo?
– Potete evitare di parlare di me?
Stefano
la guardò,
– Sei il nostro unico argomento in comune, e anche
io penso che tu debba darti una svegliata. Comunque, Rossella, il
fatto è che io ci ho provato a spingerla tra le braccia di un uomo
affascinante e molto dotato, ma questa scema non ha occhi che per il
Boss!
Diana sbatté il bicchiere sul tavolo.
– Non è
affatto vero!
– C'ero anche io ieri: ho visto la tua faccia
quando ballavate, e ho visto anche quel b-a-c-i-o. E la tua faccia
diceva tutto, fidati.
Sentì che gli occhi le si stavano
riempiendo di lacrime.
– Non mi ha propriamente baciata.
E...
Rossella spalancò gli occhi.
– Allarme rosso: non è
cotta, è proprio innamorata persa! Bimba, ma perché non mi hai
detto niente?
– Sentite, – disse, asciugandosi gli angoli
degli occhi con un tovagliolino. – io non voglio interferenze
esterne. Voi non potete capire, non voglio essere né spinta né
consolata, fate finta di non saperlo, per favore.
Non vide lo
sguardo che si scambiarono Rossella e Stefano.
– Ehi, – iniziò
lui, – io e Fabio stasera usciamo, e lui probabilmente porterà
Paola, ieri sera hanno limonato duro... perché non venite anche voi?
Andiamo a bere qualcosa, magari si va a ballare in quel posto verso
Mestre.
– Fantastico! – esclamò Rossella senza darle la
possibilità di declinare.
Poi, quando si separarono, si girò
verso di lui, e senza che Diana la vedesse mimò una cornetta con le
mani, e con il labiale gli ricordò di chiamare il Boss.
Come
ai vecchi tempi, quando Rossella si fermava a dormire a casa sua
quando andavano a ballare e si preparavano insieme, entrò in bagno
mentre Diana si stava asciugando i capelli e si buttò sotto alla
doccia.
– Perché non mi hai detto quello che provavi? Magari
avrei evitato.
– Non è facile parlarne. – sospirò, dopo
averci riflettuto. – E poi non scherzavo: non voglio intromissioni,
tra me e Michele c'è troppo in ballo, e so che tu saresti tentata di
combinare un gran casino, anche con le migliori intenzioni. –
disse, passandole l'accappatoio.
– Ma ti ha baciato, no?
–
Non proprio in maniera consueta, forse non se ne è nemmeno accorto.
– Diana, – sbuffò, accarezzandole la spalla, – non esiste che
un ragazzo non si accorga di averti baciato. E sì, ti vorrei
spingere verso di lui: tu non faresti lo stesso con me? Comunque non
farò niente di eccessivo, niente che tu non voglia, e per
dimostrarti la mia buona fede ti dico che stasera ci sarà anche
lui.
Rischiò di strapparsi una ciocca di capelli,
–
Eh?
Passarono il resto del tempo con Rossella che faceva di tutto
per farla mettere “da battaglia”, come diceva lei, e Diana che
puntualmente si toglieva ogni vestito che Rossella sceglieva e si
puliva dalla faccia ogni trucco che le metteva. Se forse la parte
più vanitosa di sé voleva apparire carina, trovando che in fondo
fosse utile scuoterlo un po' per capire se era o non era interessato
a lei, l'altro lato combatteva con il ricordo delle amiche di
Michele, così perfette, sapendo che era una competizione persa in
partenza.
Rossella non era stata d'accordo quando glielo aveva
detto.
– Sciocchezze, guarda che sai essere molto carina! –
aveva protestato, ma Diana aveva abolito qualsiasi rossetto rosso e
qualsiasi vestito che potesse fornire un paragone.
Poi, quando
Rossella riuscì finalmente a crearle un look che accontentasse
entrambe, Diana si lasciò cadere a terra, tentando di togliersi
anche quel vestito e dichiarando che sarebbe rimasta a casa.
–
Ti prego, ti lascio scegliere il film da guardare! Anche “E.T.”,
nonostante mi faccia una paura boia! O se vuoi proprio uscire andiamo
da un'altra parte, ti prego! – piagnucolava.
Aveva paura di
rendersi ridicola, di fare la figura della ragazzina che si veste
bene per fare colpo su il ragazzo che le piace e che non la guarderà
mai.
– Siamo due adulti, – continuò, – renditi conto che
lui ha quarant'anni? Questi trucchetti da dodicenni sono solo
tristemente comici.
Rossella si sedette di fronte a lei,
bloccandole le mani in modo che non rovinasse il suo lavoro.
–
Respira. – disse, guardandola negli occhi. – E ora guarda la cosa
per quello che è: esci e c'è anche lui. Non è un crimine se ti sei
vestita bene, vorresti dirmi che se non hai nessuno su cui far colpo
ti copri di stracci? Tu? Sei la stessa che aveva speso con orgoglio
mezzo stipendio per un paio di scarpe? – le ricordò, facendola
ridere. – Quindi: sei uscita a fare un po' di festa con la tua
amica Rossella che non vedi da mesi, saresti strana se ti mettessi i
jeans e le scarpe da ginnastica, concordi?
Diana chiuse gli occhi
e annuì: detto da lei sembrava diverso. E accettò la versione,
nonostante dentro di sé sapeva che quando si trattava di lei e
Michele le cose non seguivano mai il filo logico di tutti gli
altri.
In fondo, nonostante la sua ingombranza, Rossella le dava
fiducia.
Michele non sembrò particolarmente sorpreso o
infastidito dalla sua presenza.
– Stavo giusto chiedendo a
Stefano chi erano quelle due tamarre che avevano parcheggiato. – la
prese in giro, salutandola.
– Esagerato, solo perché non mi
adeguo sempre ai tuoi gusti musicali: guarda che quando non ti sto
intorno mi piace non avere l'ansia da prestazione culturale e se mi
va ascolto anche musica più plebea. Ascoltavo Justin Timberlake, è
un problema?
Michele rise,
– Ansia da prestazione? Non ne
avevi quando mi hai fatto ascoltare tutta la discografia di Beyoncè,
vero? – Poi si rivolse a Rossella. – Io sono Michele, comunque,
dato che la tua amica si è dimenticata le buone maniere.
Diana
presentò velocemente Rossella a Fabio e Paola, che non la
conoscevano, e si guardò intorno.
– Aspettiamo ancora qualcuno?
Stefano guardò interrogativo Michele, che lo informò:
–
No, ci raggiungono là, possiamo andare. – colse l'espressione
curiosa di Diana. – Beh, cosa pensavi, che sono un pirla che sa
solo circondarsi di ragazzini come voi? Io appartengo a un altro
decennio, ogni tanto mi piace parlare con qualcuno della mia età.
Vedo che ti sei vestita bene, Daiana, per fortuna: dove ti
porto stasera è un posto da grandi. – disse finendo il commento
con un occhiolino, mentre saliva in macchina e faceva cenno a Stefano
di andare con lui.
E lì, in piedi su quel marciapiede, se avesse
potuto Diana lo avrebbe incenerito con lo sguardo.
– Che bisogno
c'è di parlarmi così? – si lamentò, ferita, salendo in macchina
con Rossella.
– Ma se ti ha fatto un complimento! Io non lo
conosco, ma ti assicuro che dalla faccia che ha fatto si vedeva che
non gli dispiacevi affatto.
– Non lo conosci: – dichiarò
Diana, – Michele non fa mai complimenti, soprattutto davanti ad
altre persone.
– O forse te li fa e tu non li capisci. –
commentò testarda, mentre metteva in moto e seguiva la macchina che
le stava aspettando.
Rossella era proprio in clima da vacanza,
si era fiondata in pista a ballare non appena erano entrati. Diana
agitò nervosa il ghiaccio nel suo bicchiere: non aveva avuto torto a
preoccuparsi, ovviamente avevano trovato ad aspettarli le solite tre
amiche di Michele, che ovviamente lo avevano subito monopolizzato.
–
Vecchia spugna. – La raggiunse Stefano, per riprendere un po' fiato
provato dall'energia inarrestabile di Rossella, che si stava ancora
scatenando. – Che ci fai tutta sola?
Al diavolo.
– Direi
“io non ballo con i ragazzini”. – imitò Michele, – Peccato
che qui non ce ne siano. Hai ragione, sei pronto a tornare nella
mischia? Ma stammi lontano: se mi stai troppo vicino io sembro una
milf. – Gli intimò, facendolo scoppiare a ridere.
Trovò
facilmente Rossella, e nonostante Diana non si sentisse proprio
l'anima della festa iniziò a ballare, decidendo di mandare a quel
paese Michele e quello che avrebbe fatto quella sera: lei era lì
solo per divertirsi con la sua amica.
– Ma guarda chi è
arrivato! – urlò Stefano, dandole una gomitata.
Vide Pietro,
che si stava avvicinando a loro, e commentò, incredula:
– Devi aver puntato proprio tanti
soldi, eh?
E ignorò Rossella dietro di Pietro mentre che lo stava
salutando: da come stava muovendo le mani stava chiaramente chiedendo
a Stefano se era proprio lui. E lei che aveva paura che volessero
buttarla tra le braccia di Michele...
Fortunatamente la sera prima
aveva avuto la buona idea di parlare a Pietro, spiegandogli che
ultimamente era stata in difficoltà a parlare con lui per via della
scommessa, evitando accuratamente di scendere nei particolari, e
avevano chiarito di non avere nessun interesse reciproco.
Tornò
a ballare accanto a Rossella, sperando che il suo sguardo non
significasse “se non lo vuoi tu me lo prendo io”.
– Non ci
credo! – rise con molto poco tatto Stefano, indicando il limite
esterno della pista. – Lui è proprio il Boss, non c'è storia!
Si
voltò e si bloccò, smettendo di ballare, incredula: Michele era
lì.
Non ballava, se ne stava fermo con il cocktail in mano, ma le
sue amiche lo facevano ampiamente anche per lui.
– Calmati. –
l'afferrò Rossella, facendola girare. – Non è mica niente!
–
Lui non balla. Mai. – scandì, tornando a voltarsi verso la scena,
come se non potesse evitare di vederla. Non poteva rimanere lì,
immobile mentre tutti ballavano, a guardarlo. Rossella e Stefano
l'avrebbero certo compatita, e Fabio e Paola erano così appiccicati
da non lasciare spazio a nessun dialogo, così chiese a Pietro se
l'accompagnava a prendere da bere.
E lui, che era più alto della
maggior parte della gente lì e sovrastava molte teste, cercò di
starle dietro mentre lei marciava verso il bar.
– Tutto bene? –
provò a chiederle, e lei gli scoccò un'occhiata sarcastica.
–
Ma certo, perché non dovrebbe andare bene? Sono stata con questa
persona in decine di discoteche diverse e l'ho sempre visto attaccato
al bancone, guai a spostarlo, e poi scopro che... niente, ignorami.
No, scusami, – Cercò di calmarsi, capendo quello che stava
facendo. Appoggiò i gomiti al banco e nascose la faccia tra le
mani. Era davvero una stupida a comportarsi così. – Non volevo
trascinarti dentro alla mia follia, ma se fossi venuta da sola
Rossella mi avrebbe seguito, e non volevo.
– Vuoi rimanere da
sola?
– Sarebbe l'ideale se tu potessi fare finta di
niente.
Lui le sorrise,
– Tornerò là camminando molto
piano, così avrai tempo di seminarla.
Diana prese la birra e si
allontanò, prendendo un'uscita di emergenza che la portò fuori,
dove nessuno sarebbe andato a cercarla.
Era talmente nervosa che i
denti stringevano il collo della bottiglia, mentre beveva. Certo,
Michele le aveva fatto un complimento secondo Rossella, ma intanto
non l'aveva degnata di uno sguardo per tutta la sera. Era ora di
guardare in faccia la realtà.
– Disturbo? Sta tornando
Pietro?
Michele l'aveva trovata. Diana corrugò la fronte.
–
Ma cosa dici?
Stava avvicinandosi, un passo alla volta, aveva un
che di strano: si sentiva con le spalle al muro, e quella sensazione,
combinata con la gelosia che l'aveva colpita, la innervosì ancora di
più. Cercò di mantenere un ritmo di respiro regolare, riuscendo
però solo a evidenziare la sua agitazione, sottolineando ogni
respiro.
– Mah, non so, ho visto che vi siete allontanati
insieme.
Allora quando gli faceva comodo si accorgeva di lei.
Doveva evitare di guardarlo, si stava avvicinando sempre di più. Per
distrarsi prese un altro sorso di birra.
– A dire la verità
l'ho usato come espediente perché non mi andava di avere intorno
nessuno: sapevo che Rossella mi avrebbe seguito, se mi fossi
allontanata da sola. – disse, funerea. – Comunque, anche se
fosse? – lo guardò giusto per scoccargli un'occhiata di sfida, e
poi continuò a dedicarsi allo studio della recinzione a cui si era
appoggiata mollemente. Michele ora era davanti a lei, lo percepiva
chiaramente anche se stava guardando altrove, e poteva scommettere
che aveva le braccia incrociate. Se pensava che si sarebbe arresa a
guardarlo si sbagliava di grosso, pensava testardamente.
– Ogni
tanto hai delle reazioni esagerate. – le rimproverò, osservandola.
Diana si leccò le labbra e sospirò, ironica, bisbigliando qualcosa.
– Non ho capito: se bisbigli e guardi dall'altra parte non ti
sento.
– Ho detto: – si girò finalmente a guardarlo,
contraendo le labbra per il nervoso. – che almeno io ho
delle reazioni, per esagerate che siano. Sai che conosco delle
persone che non perdono mai il controllo? – lo sfidò. Al diavolo
se avesse capito che parlava di lui, voleva che lo capisse: odiava
essere lì, a tremare quasi dalla rabbia e dalla delusione, davanti a
lui, che per giunta sembrava si stesse prendendo gioco di lei e delle
sue “reazioni”.
Fu un istante, Michele strinse gli
occhi a due fessure, le bloccò i polsi con le mani e la spinse
contro la cancellata, obbligandola a guardarlo.
– Perché mai
una persona dovrebbe perdere il controllo?
Diana era
immobilizzata, sentiva il suo respiro sfiorarle la pelle, i suoi
occhi la fissavano senza darle la possibilità di guardare altrove.
Raccolse tutto il coraggio che aveva, forse dovuto dalla rabbia che
l'aveva colta, e sostenne fieramente il suo sguardo. Sapeva cosa
dirgli, ma non pensava che ne avrebbe mai avuto il coraggio:
–
Perché chissene frega, cazzo.
Quasi non riuscì a pronunciare le
ultime lettere, perché la sua bocca le aveva impedito di continuare.
Chiuse gli occhi, incredula, e si aggrappò a lui. Come la stava
baciando... era come se fossero le uniche persone sulla faccia della
terra. Sentiva le sue mani stringerla, aggrapparsi ai suoi capelli,
accarezzarle la schiena, i fianchi. E il suo bacio era esattamente
come se lo ricordava, se non meglio, perché non stava accennando a
finire: era in totale balia delle sue labbra, delle loro lingue che
si incontravano e si sfidavano a ottenere sempre di più.
E lei
glielo avrebbe concesso senza tanti pensieri, lì, contro quella rete
o per terra, ovunque. Si sentì stringere ancora di più e si
abbandonò totalmente a lui.
Si staccò da lei, allontanandosi un
poco, vedeva che il suo petto si muoveva allo stesso ritmo affannato
del suo respiro.
– Chissene frega cazzo? – le domandò,
sarcastico.
– Sì. – dichiarò, tirandolo nuovamente a
sé.
Chissene fregava delle discussioni che avrebbero avuto o
delle scuse che avrebbero utilizzato per non parlarne, ormai erano lì
e tanto valeva immergersi ancora in quel bacio, di cui era ancora
affamata.
E poi, non poteva negarlo, le sue mani, le sue mani sui
suoi fianchi che la stringevano, l'accarezzavano, senza varcare i
confini ma provocandole sensazioni come se l'avessero fatto: quelle
mani dimostravano che in fondo anche lui la voleva, Michele la
vedeva, e lei aveva bisogno di sentirlo.
Capiva che per qualche
motivo non avrebbe voluto perdere il controllo come aveva fatto, non
avrebbe voluto baciarla: lo percepiva quasi arrabbiato, ma questo non
gli impediva di continuare a baciarla ancora di più, fino a
stordirla, e quindi non le importava dei pensieri che gli passavano
per la testa, se lo spingevano a baciarla così.
– Ora basta. –
mise in chiaro, lasciandola andare.
– Ok. – riuscì a dire,
stordita, nonostante le fosse di fronte e se lo sentisse ancora
addosso, e non poteva evitare di guardarlo come se fosse
così.
Michele aggrottò le sopracciglia,
– Che discorso è,
comportarti come se ti avessi fatto un torto mortale? Perché ero con
delle altre persone.
– No, – ansimò, – forse sono stata un
po' esagerata.
Gli avrebbe detto anche che la Terra era piatta, se
glielo avesse chiesto in quel momento.
– Allora siamo d'accordo?
Basta reazioni eccessive. Per tutti e due.
Diana annuì, anche se
non capiva esattamente quello che le aveva detto.
– Aspetta. –
gli tirò la manica, prima che potesse allontanarsi, senza sapere
neanche lei perché.
Michele la tirò a sé, baciandola ancora,
più dolcemente.
– Ok, il discorso è chiuso, allora: non
parliamone più, basta.
Rientrò, e Diana era sicura solo di una
cosa: non aveva capito una parola.
– Cosa... Ah, sei qui. –
la raggiunse Rossella, guardandola. – Qui? Viziosa! – si
mise a ridere.
Diana strizzò gli occhi: forse stava perdendo la
capacità di capire le persone.
– Ma che dici? – notò poi il
suo sguardo eloquente. – No, ma cosa pensi?
Rossella le porse
una sigaretta,
– Penso quello che mi dice la tua faccia, e la
tua faccia sembra quella di una che ha appena messo fine al periodo
di castità!
Diana gliela strappò quasi di mano.
– Cretina.
– la rimproverò, come se non le fosse neanche passato per la
testa. – Però... mi ha baciato. Di brutto. – scandì, guardando
un punto inesistente davanti a sé, ripensando al genere di
bacio.
Rossella le prese la sigaretta dalle dita e tirò una
boccata.
– Allora il nostro piano ha funzionato alla grande. –
esclamò, soffiando via il fumo. – Io e Stefano, mentre tu facevi
l'asociale: tu eri gelosa marcia, e abbiamo pensato che anche lui
andava ingelosito, così ha chiamato Pietro. Da quanto mi ha detto,
Michele non ha preso molto bene il fatto che tu non sia più
intimidita da lui, quindi sapevamo che si sarebbe ingelosito
vedendolo comparire. Poi hai fatto tutto tu, allontanandoti con lui.
Quindi?
Diana alzò le spalle, ancora troppo nel mondo dei sogni
per potersela prendere con lei per quello che le aveva appena
detto.
– Non lo so, continuava a dire che il discorso era chiuso
e cose così.
– Non sarà facile, a quanto pare per qualche
motivo non vuole cedere: ma almeno sai di non essergli
indifferente.
Diana ripensò alla sua bocca, alle sue mani...
probabilmente Rossella aveva ragione.
Rossella era
partita a mezzogiorno, abbracciandola e ricordandole che la sua
previsione si era avverata: era riuscita a dare una scossa alla sua
vita.
– Però non dormire sugli allori! Guarda che ho lasciato a
Stefano il mio numero, se vede che fate i cretini mi avvisa e io
torno qua e ne combino un'altra delle mie, a tuo rischio e
pericolo!
Diana l'abbracciò, assicurandole di non preoccuparsi, e
rimase in strada finché non vide la sua macchina scomparire nel
traffico.
Le porte dell'ascensore si stavano chiudendo quando
qualcuno che stava arrivando di corsa lo fermò.
– Ah. Ciao. –
disse, quando si accorse che era Michele.
Lui sembrava sorpreso
quanto lei.
– Ho finito il caffè, ero andato a prenderlo. –
gli mostrò il pacchetto, come se volesse giustificarsi. Diana ebbe
conferma della conclusione a cui era arrivata quella notte: il suo
“basta, non parliamone più” si riferiva al loro bacio. Abbozzò
un sorriso, come a volerlo tranquillizzare, e guardò il display
dell'ascensore, aspettando che segnasse il numero del loro
piano.
Quando le porte si aprirono rischiarono di rimanere
incastrati, poi Michele fece un passo indietro lasciandola passare.
– Beh, – disse, avvicinandosi alla sua porta e guardandolo
uscire dall'ascensore con la coda dell'occhio – ci si vede.
–
Caffè? Stamattina mi è arrivato il pacco da Amazon con i dvd che ho
ordinato.
Prese fiato: quello che aveva voluto per tutta la salita
dell'ascensore era un altro bacio, in realtà.
– Va bene, ma
scelgo io.
Nda: Sorry per il ritardo, ma è stata una settimana decisamente impegnativa!
Piccola nota: Diana non intendeva It, ma proprio ET; ve lo assicuro
perché quel film fa morire di paura anche me O_O mille volte
meglio It!!! XD
Grazie immenso a Bloomsbury, perché mi ha letto e recensito e
perché mi ha lasciato un minimo di speranza nel finale del suo
Draw Skin, speranza di rivedere ancora il mio uomo preferito ;-)
Alla prossima!
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 - Always On My Mind ***
daiquiri
Michele aveva uno sguardo strano negli occhi,
quasi triste in alcuni momenti, o più precisamente colpevole. Se
faceva due calcoli non le ci voleva molto a capire da quanto avesse
iniziato, quello che non capiva era perché: perché il fatto di
averla baciata doveva farlo sentire in colpa? Michele cercava di
comportarsi normalmente, e spesso sembrava esserlo, ma poi succedeva
qualcosa nella sua testa e il suo sguardo cambiava.
Non la
evitava, parlavano come al solito e come al solito passavano quasi
tutte le loro giornate insieme, tra casa e il lavoro; ma quei piccoli
gesti d'affetto erano scomparsi, quasi evaporati nel nulla, e lui
sembrava come voler mantenere una certa distanza fisica, nel vero
senso del termine: persino quando mangiavano quasi faticava ad
avvicinare la sedia al tavolo, come se farlo avesse potuto spezzare
una barriera invisibile che aveva faticosamente costruito.
E
nonostante lei cercasse di far finta di niente, se ne accorgeva
e ne soffriva, ma il solo pensiero di sentirsi dire che aveva sperato
troppo le impediva di chiedergli delle spiegazioni.
Al Daiquiri
Frozen cercava di essere quanto mai efficiente, anticipando ogni sua
richiesta e dando sempre il massimo senza risparmiarsi, forse
inconsciamente per sentirsi dire un altro “sei stata brava”, o
più semplicemente per ricordargli della sua esistenza; mentre in
privato cercava di sopperire alle sue distanze mostrandosi serena,
voltandosi quando le scappava una smorfia di delusione, come a
volergli dimostrare che il suo sguardo colpevole non aveva motivo di
esistere. Anche se non sapeva neanche lei a che cosa era dovuto.
–
Vuoi guardare un film? – provò a proporgli. Quel giorno sembrava
particolarmente pensieroso.
– No, oggi pomeriggio ho da
fare.
Impassibile.
Avrebbe voluto urlargli “Chissene frega,
cazzo”, ma sparecchiò il suo posto mettendo le stoviglie sporche
nel lavello, con la sfibrante percezione che anche se gli stava
passando accanto lui non la degnava di uno sguardo; così abbozzò un
saluto e tornò a casa sua.
Stava peggiorando sempre di più.
Si
chiuse nella sua camera, retaggio dei suoi anni da adolescente visto
che tecnicamente tutta la casa era esclusivamente sua, e si decise a
disfare gli scatoloni che le aveva portato Rossella settimane
prima.
Contenevano i suoi libri, i cd, le fasce ricordo dei
concerti a cui era andata e qualche foto: praticamente le sue cose
più care. Scelse una compilation che non ricordava di aver fatto e
con la musica a tutto volume che riempiva la stanza si fece coraggio
a mettere tutto in ordine: dare un timbro di definitivo alla sua
permanenza lì, in quel momento, le sembrava quasi di cattivo
gusto.
Un giro di chitarra classica risuonò, anticipando la voce
calda e comprensiva di Elvis che iniziò a dirle “forse non ti
ho sempre trattato bene come avrei dovuto, forse non ti ho amato così
spesso come avrei potuto”.
Si asciugò le lacrime che
rotolavano veloci sulle guance in un pianto silenzioso e immobile che
di pianto aveva solo le labbra incurvate caparbiamente, come se non
volesse permetterselo, e continuò imperterrita a tirare fuori gli
oggetti accatastati e a metterli a posto.
Poi, quando le venne in
mano un libro tascabile che ricordava fin troppo bene, le sue dita lo
strinsero tanto da diventare bianche: non era proprio possibile,
aveva lì i ricordi di una vita senza Michele e lui riusciva a
intrufolarvisi comunque. Spalancò la porta della sua camera, si
assicurò di avere le guance asciutte, e andò da lui, a restituirgli
quel dannato libro.
– Guarda che cosa ho trovato. – si
obbligò a sorridere, porgendoglielo, come se fosse ormai istintivo
indossare quella maschera.
Michele lanciò un'occhiata alla porta
lasciata aperta del suo appartamento, da cui filtrava ancora Always
on my mind, e per un attimo Diana vide che la colpa nei suoi occhi
assumeva una sfumatura diversa.
– Ho il vinile, vuoi venire ad
ascoltarlo? – le chiese.
Diana chiuse la porta, senza
preoccuparsi di andare a spegnere la musica mentre lui l'aspettava
appoggiato allo stipite, addolcito. Sentì la maschera che si stava
sciogliendo, e passandogli accanto, mentre lui la faceva entrare, si
fermò ad abbracciarlo, nascondendosi contro di lui. Michele lasciò
andare un sospiro, che forse avrebbe voluto essere una scusa, e la
strinse, lasciando che il tempo passasse. Sentì contro la guancia
che la sua maglietta stava diventando umida, e capendo che erano le
sue lacrime a bagnarla cercò di smettere di piangere, mentre lui le
accarezzava la testa.
Si staccò, assicurandosi di asciugarsi non
vista le guance,
– Allora, dov'è il disco?
Lo seguì in
salotto, aspettando in piedi mentre lui lo trovava e lo metteva sul
giradischi. Non capitava spesso di ascoltare le sue reliquie
personali, e in un certo qual modo non si sarebbe mai aspettata di
trovare Elvis nella sua raccolta, e specialmente quella canzone,
anche se era un classico.
Le note vennero precedute dal fruscio,
e poi fu come se Elvis fosse proprio lì a cantare per lei. Ricordò
quella volta che lui l'aveva fatta arrabbiare, quando avevano
ascoltato insieme Where is my mind, e capì che non sarebbe riuscita
a mantenere la stessa freddezza con una canzone che diceva
esattamente le stesse parole che lei si sarebbe voluta sentir dire,
così quando la guardò interrogativo scosse la testa.
– Sto
qui. – disse, rimanendo in piedi accanto al divano finché la
canzone non sfumò. Gli diede le spalle e si sedette a terra,
appoggiando la schiena sul divano. – Lo so, sono eccessiva? –
borbottò, come se si stesse prendendo in giro da sola, mentre
cercava di trattenere le lacrime in tutti i modi.
Michele tolse il
vinile e tornò a sedersi sul divano.
– Non pensavo che te ne
accorgessi. – disse, alludendo al comportamento che aveva
avuto in quegli ultimi giorni, – O forse sì, l'avevo
capito, ma speravo che fosse una mia
impressione.
– Non pensavi che me ne accorgessi. –
ripeté amaramente. – Sono io che faccio di tutto...
– Perché
io mi accorga di te? – concluse Michele per lei. – Lo so. E non è
necessario: io mi accorgo di te, sempre, lo farei anche se tu
rimanessi immobile. Lo faccio anche adesso, che sei lì
nascosta.
Anche Diana si accorgeva di lui, bastava la sua voce,
bassa e roca, bastava la semplice percezione della sua presenza. E si
accorgeva che quello non era uno dei loro tanti discorsi.
– Ho
sempre paura di chiederti una cosa. – disse, concentrando lo
sguardo sulla sua libreria, come se stesse guardando un'estensione di
lui. – Ho paura che tu mi risponda che è effettivamente così:
perché a volte mi fai sentire indesiderata? – maledisse la voce
che aveva tremato su quell'ultima parola e si maledisse per averla
pronunciata: era come se non avesse neanche più la pelle a
proteggerla, solo carne viva.
– Perché non è facile, per me,
convivere con te.
Fu come se le avesse buttato dell'acido addosso,
lì, sulla sua carne inerme senza pelle.
Scattò in piedi, il suo
sguardo avrebbe potuto ferirla ancora di più ma non poteva evitare
di guardarlo.
– Come puoi dirmi questo?
Michele strinse gli
occhi, come incredulo al fatto che lei non capisse.
– Come?
Certo, guardami, guarda noi: ti ho conosciuto che eri poco più di
una ragazzina, vieni qua che ti pensi una donna quando in confronto a
me sei ancora una ragazza. Mi ricopri di un ruolo che secondo te io
ho di diritto, mi metti al centro della tua vita e mi costringi ad
accorgermi di te, sempre, nonostante tutte le dannate volte io mi
incazzi; perché tu sei una ragazza e non dovresti centrare niente
con me. Tutte le volte che cerco di allontanarmi tu mi obblighi a
guardarti. Sì, in un paio di momenti posso anche essere stato tanto
stupido da farmi trascinare: non sono una roccia, tu mi guardi e mi
provochi, vuoi che io ti faccia ballare, vuoi che io ti baci. Ed è
sbagliato, perché non so se sono stato io ad averti portato a
volerlo: tu non dovresti volerlo.
– Io ti amo. – quella frase
era ormai andata, non avrebbe mai potuto riprendersela, neanche con
dieci bottiglie di Tequila.
– Tu non mi ami. – negò, come se
volesse smascherarla, o tentare di convincerla che non era così.
–
Certo che ti amo: perché ho sempre delle reazioni esagerate quando si
tratta di te? Non sono mica pazza. È perché ti amo così tanto, e
amo così tanto di te... e non penso di arrivare a meritarti, come
dici tu io sono solo una ragazza, in confronto a te.
– Tu non
devi amarmi: se te lo permettessi un giorno mi odierai.
– Odierò
me stessa, invece, se non tu mi permettessi di amarti: perché come
una stupida ho cercato di avere tutto di te, perdendo anche quello
che avevo. Cazzo, Michele, però. – nascose il viso tra le mani, –
Non continuare a dirmi che non ti amo, che non dovrei amarti: mandami
via, se ho sbagliato tutto. Lo so: ho sbagliato.
Si era avvicinato
senza che lo sentisse, le mise una mano sulla testa e la tirò a sé,
abbracciandola.
– E se mi odiassi io? Perché non trovo giusto
che tu ami me? Per me?
Appoggiò la fronte sul suo petto.
–
Ma tu che cosa vuoi?
– Mi pare abbastanza ovvio. Non dovrei, è
sbagliato, ma voglio te. Daiana.
Sentì un brivido correrle
lungo la schiena mentre diceva il suo nome, come se al posto di
quello avesse detto a chiare lettere di amarla. – E ora non centra
il “chissene frega, cazzo”. – continuò, – Ti amo, non posso
dirlo. Prima o poi Google, o il Boss, passa in secondo piano:
succederà anche a te, e mi odierai per averti permesso di
amarmi.
Diana lo guardò.
– Michele ti ho trovato dopo dieci
anni, e non ti ho trovato perché ti amavo, non così almeno. Perché
eri una persona che non aveva ancora smesso di significare qualcosa
per me, dopo dieci anni che non ti vedevo: come pensi sia possibile
che tu possa passare in secondo piano per me? Dammi una possibilità
per mostrarti che ti sbagli. – lo implorò. Se lui l'amava avrebbe
potuto scalare un grattacielo, pur di dimostrargli che lei non voleva
altro che lui. Si morse le labbra, non sapendo più cosa fare per
convincerlo. – Chissene frega, cazzo. Ti amo, hai capito? E non ti
amo in una maniera strana e platonica come forse tu pensi che io lo
faccia: ti amo nel profondo, quando mi parli, come sei, come siamo
insieme; ma ti amo anche ogni volta che ti vedo il cuore mi batte,
come una ragazzina, e io non riesco a pensare ad altro se non a te
che mi baci. E quando lo fai vorrei...
La interruppe, finalmente,
arrendendosi e baciandola, come lui sapeva baciarla, come se la
volesse accarezzare e poi come se la volesse mangiare. E le aveva
detto di amarla, non doveva aver paura che quel bacio finisse, poteva
sperare che continuasse a oltranza.
La scarica di adrenalina per
quella dichiarazione strappata e sofferta, l'emozione di quel bacio
che la travolgeva sempre di più, le andarono alla testa.
Se fino
a qualche istante prima aveva voluto diventare sua ma in maniera più
dolce, per trasmettergli tutto il suo amore e per sentirsi sua, ora
la passione la annebbiava, e voleva sentirsi sua, punto. Sì, lo
amava, si diceva cercando di rimanere lucida, ma doveva essere sua,
immediatamente. Le sue labbra non dovevano smettere di baciarla, le
sue mani non dovevano smettere di toccarla, sempre più avidamente.
Gli offrì senza remore il suo collo, come sostituto delle labbra,
mentre la sollevava da terra e lei gli cingeva i fianchi con le
gambe. Quando l'appoggiò sul divano Diana gli sfilò la maglietta e
lo tirò verso di sé, sentendo già l'astinenza dei due corpi uno
contro l'altro. La mano di Michele era sul suo fianco, e scendeva
sempre di più...
Prima suonò il telefono di Michele, due volte,
poi iniziò il suo e suonarono assieme.
– Chi... chi è? – gli
chiese ansimando, continuando a guardarlo come ipnotizzata, quando
lui si staccò brevemente da lei.
– Non lo so, ma penso che sia
ora di andare a lavorare.
Diana chiuse gli occhi, incredula: lo
aveva completamente dimenticato. Si aggrappò alle sue spalle, quando
lo sentì sollevarsi.
– Aspetta mezzo secondo... noi?
Come se separandosi fosse finito tutto, che ne sarebbe stato di loro?
– Non lascio
le cose incomplete a lungo: non preoccuparti. – La baciò ancora
più avidamente, come se avesse voluto sottolinearle quello che
intendeva, e poi si alzò a rispondere al telefono. – Sì,
arriviamo subito, non ci siamo accorti dell'orario:
aspettateci.
Quando si girò, pensando di trovarla ancora sul
divano, la trovò accanto a lui.
– Quindi tu mi ami, io ti amo
e... – il suo sguardo vagò senza volere sul suo petto nudo. – E
non lasciamo le cose incomplete a lungo, no?
– No. Ma adesso
dobbiamo andare, lo sai?
Diana annuì: se lui l'amava avrebbe
potuto aspettare qualche ora.
Nda: Non so davvero cosa
posterò dopo questo capitolo -_- è da una settimana e
passa che sto lavorando a quello successivo ma continuo a cancellarlo!
Questo è proprio uno dei miei talloni d'achille: quando i miei
protagonisti si dichiarano basta, non so più che cavolo
scrivere.
;-) ci penserò!
Spazio credits: ovviamente il pezzo della traduzione fa parte di Always on My Mind di Elvis, https://www.youtube.com/watch?v=u9sRJ-eOHnc , in assoluto la mia canzone. Era una vita che volevo inserirla in una storia, e il motivo è duplice:
il primo è che la amo, questa canzone mi scioglie sempre e la
voce di Elvis mi graffia sempre l'anima, ogni volta che l'ascolto;
e il secondo motivo è una specie di tributo al nono capitolo di
Blowing Bubbles di SidRevo, che immagino tutti conosciate. Quel
capitolo, complice la presenza di questa canzone, mi aveva distrutto
l'anima, e da tempo avevo avuto il desiderio di citarlo. Nota di
servizio: se non conoscete la storia guardate quando è stata
aggiornata l'ultima volta e decidete voi se volete leggerla e diventare
pazze nell'attesa che ormai credo non finirà mai, oppure passare
oltre. Non fraintendetemi, io l'ho adorata, ma se la scoprissi oggi
forse non la leggerei, così come non ho letto l'altra storia di
SidRevo per lo stesso motivo: è incompleta, e leggere le
incomplete fa male al mio povero cuoricino in cerca di un finale.
Bando alle ciance, ringrazio Bloomsbury perché ha iniziato il
seguito di Draw Skin, rendendomi la Miyavi addicted più felice
di questo mondo: Bloom aggiorna quando ti pare, anche tra un mese, il
solo fatto che esista il seguito per me è fonte di gioia
♥ e ovviamente grazie perché continui a leggermi e
recensirmi. Su questo capitolo avrai scoperto molto su Michele, su
molte cose come vedi ci avevi azzeccato. Non per mettere le mani avanti
ma ti dico che a me pubblicarlo ha messo l'ansia, quindi sii pure
crudele con la tua recensione, magari così capirò meglio
il motivo della mia ansia! -> in genere ci arrivo quando leggo le
cose nero su bianco.
Va bè, mi impegnerò a continuare questa storia!
ps: in NaNoWriMo si avvicina, qualcuno partecipa quest'anno? Io vorrei,
ma so che se lo facessi da sola non lo completerei mai, fatemi sapere!
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