Diana era agitata, erano passati
quanti? Dieci anni, o forse poco meno, da che non vedeva Michele, e
ora era diretta a casa sua, con due valigie nel bagagliaio della
macchina.
Il navigatore iniziava a innervosirla, sembrava che come
al solito quell'aggeggio infernale avesse deciso di non collaborare,
e Diana si fermò in un parcheggio pronta a capire cosa non andasse o
distruggerlo, dopo che quell'affare aveva detto per la terza volta
“Ricalcolo del percorso”.
– Insomma, – gli disse,
sbattendolo con poca grazia sul volante. – ti decidi o no? Dovremmo
essere vicini, perché non trovi la strada?
Guardò l'ora: Michele
le aveva chiesto di arrivare per le sei e mezza, perché lui poi sarebbe
dovuto andare al lavoro, ed erano già le sette meno un quarto.
Sconfitta
fece un respiro e lo chiamò.
– Ti sei persa? – la sua voce,
bassa e rauca, le colpì con una buona dose di sarcasmo.
– Non è
colpa mia, è il navigatore che si rifiuta di collaborare. – si
giustificò.
Michele fece una risatina vittoriosa.
– Te lo
avevo detto, dove sei?
Abbassò il finestrino e mise fuori la
testa, cercando di trovare il nome della via.
– Non lo so, sono
in un parcheggio, qui davanti c'è un tabaccaio con l'insegna
viola.
– Lascia la macchina lì e cammina in direzione opposta
al tabaccaio: vengo a prenderti.
Così Diana riempì la borsa con tutte le cose che aveva sparpagliato in macchina durante il
viaggio, prese non senza sforzo le valigie, e si incamminò;
fermandosi ogni due passi per tirare su la tracolla che le scivolava
dalla spalla.
– Ehi, cosa stai cercando di fare? – Lo vide
arrivare verso di lei, e sorrise istintivamente: era esattamente come
se lo ricordava, sembrava che non fosse passato nemmeno un giorno.
–
Ciao! – disse, tendendogli le braccia.
– Ciao Diana. –
L'abbracciò velocemente e prese le sue valigie. – Scappiamo: te lo
avevo detto che dovevo lavorare!
Lei iniziò a trotterellargli
dietro.
– Come mai mi chiami così? – Sollevò un
sopracciglio. – Non ti ricordi?
Michele la guardò
interrogativo, stringendo gli occhi a due fessure.
– Daiana!
Lo hai sempre detto così il mio nome.
Lui asserì brevemente, e
si fermò davanti a un palazzo, cercando le chiavi in tasca e
borbottando che prima aveva lasciato il portone aperto.
Diana lo
seguì in silenzio, limitandosi ad osservarlo di sottecchi mentre
lui, in ascensore, controllava l'ora.
Le fece strada sul
pianerottolo.
– Ecco, questo è il tuo appartamento, io sono
esattamente a quella porta, per qualsiasi cosa tu abbia bisogno.
Domani inizierai, se stasera non sei stanca e vuoi venire a vedere
l'ambiente... – Scarabocchiò qualcosa su uno scontrino che aveva
in tasca, tipico di lui, anziché mandarle un messaggio. – Questo è
l'indirizzo. – Le consegnò le chiavi, perché lei potesse aprire,
e le portò le valigie dentro. – Ora devo scappare, se non ci
vediamo stasera a domani mattina!
Diana rimase nell'appartamento
vuoto, sentendosi vagamente a disagio. Certo, non si sarebbe
aspettata una riunione del tipo amici d'infanzia con lacrime annesse,
ma era sempre andata d'accordo con Michele, e anche se non si erano
visti né sentiti per anni aveva pensato a un incontro un po' più
amichevole.
Trascinò le valigie nella camera, fece il giro della
casa e dopo essersi accertata che era appena stata pulita a fondo si
decise di concedersi una meritata doccia, che l'avrebbe risvegliata
dopo le lunghe ore di viaggio.
A diciassette anni aveva
lasciato la scuola, dichiarando che prendere il diploma non era nei
suoi interessi, e dopo una fallimentare esperienza come cameriera, il
giorno del suo diciottesimo compleanno, lesse un volantino che sapeva
le avrebbe cambiato la vita: Corsi di Bartender e Flair primo e
secondo livello, per informazioni chiamare...
Fu
così che era entrata a far parte di quella piccola accademia
neonata, e come alunna più piccola si era guadagnata velocemente il
suo posto e le simpatie di tutti.
Aveva superato con buoni
risultati il primo corso, e Mariela, la direttrice, dopo averle
offerto un posto nel bar di fronte all'accademia gestito da lei, le
aveva proposto di frequentare anche i corsi successivi facendole
degli importanti sconti.
Diana amava quelle aule, dove passava le
ore a esercitarsi, e si pavoneggiava spesso con i suoi compagni,
vantandosi dei suoi miglioramenti nella tecnica, gongolando quando il
loro insegnante pluripremiato Francesco, detto Frank, le faceva i
complimenti.
Quella mattina quindi entrò baldanzosamente in
accademia, salutò la segretaria con disinvoltura e salì al piano
superiore, aspettandosi di trovare l'aula ancora vuota, in modo da
potersi sgranchire un po' prima dell'arrivo di Frank e dei suoi nuovi
compagni. Ma le sue aspettative vennero disattese, nella postazione
occupata solitamente da Frank c'era un uomo, appoggiato, intento a
sfogliare un libro.
Lo guardò di sottecchi, guadagnando
infastidita la postazione che era sempre stata sua, e sistemò
rumorosamente le sue cose.
– Quella è la postazione
dell'insegnante. – disse poi, seccata.
Lui sollevò appena gli
occhi dal libro.
– Lo so. – disse, con voce roca.
Diana
sollevò un sopracciglio: qualcuno aveva fatto le ore piccole quella
notte. E iniziò a scaldarsi, con qualche lancio base.
Frank entrò
nell'aula, con il solito casino che lo accompagnava: una trolley
mezzo aperto da cui fuoriusciva uno shaker, la giacca che cadde a
terra mentre camminava, e il suo modo di fare chiassoso.
–
Oh-oh, Diana, ci sei anche tu! – la salutò, contento,
abbandonando la valigia e andando ad abbracciarla. – I tuoi
compagni avranno un osso duro, allora! Hai già conosciuto
Michele?
Il sorriso scomparve brevemente dal volto della
ragazza.
– Veramente no, era impegnato a leggere.
Michele
sollevò divertito un angolo della bocca.
– E lei era impegnata
a mettermi al mio posto.
Iniziarono ad arrivare gli altri ragazzi
che avrebbero frequentato il suo corso, come al solito era la più
piccola e come al solito era l'unica donna.
Erano in sei, in
tutto, e Frank, dopo essersi brevemente assicurato che ci fossero
tutti, partì in quarta con la lezione.
Alla prima pausa sigaretta
Diana si era accaparrata l'attenzione di Frank, raccontandogli con
quanto impegno riuscisse a combinare gli allenamenti di flair, il
freestyle del bartender, al lavoro, ma non riuscì a evitare di
ascoltare Simone, un suo compagno, che salutava calorosamente quel
Michele, appellandolo come genio.
Frank probabilmente si
accorse dell'espressione seccata sul suo volto, radunò i ragazzi
intorno a lui e presentò a tutti Michele, che durante la lezione era
stato in disparte.
– Sapete, – spiegò, – io, Michele e
Luca, che presto conoscerete, abbiamo deciso di metterci in società,
e collaboreremo insieme con varie scuole di bartending in tutta
Italia: il nostro sogno è formare dei baristi come si deve. Luca è
il genio del caffè, io mi occuperò dei corsi più acrobatici e
avanzati, e Michele prenderà il mio posto con quelli del primo
livello: è un grande, – disse poi, rivolto a lei, – quasi quasi
mi dispiace che non hai potuto seguire il corso con lui.
Diana lo
guardò di sottecchi, dichiarando tra sé e sé che non si fidava
ancora di lui, poi spensero le sigarette e ricominciarono a
lavorare.
Mesi dopo si chiedeva come poteva essere stata tanto
stupida a non adorarlo immediatamente: era Michele il vero genio fra
i tre, lui era straordinario, sapeva tutto, poteva parlare di
qualsiasi cosa con la sua voce bassa e roca e lei poteva giurare ad
occhi chiusi che avrebbe imparato di più ascoltandolo che ricercando
le stesse cose su Wikipedia. Non per niente qualcuno lo aveva
soprannominato Google.
Ma Michele non era il solito tuttologo
noioso, lui la sua opinione la dava solo se veniva richiesta.
Quando
finì il loro corso Frank partì, e Michele rimase per una nuova
classe: non era raro che Diana, finito il lavoro al bar, facesse
capolino in accademia, e lo aspettasse per andare a mangiare qualcosa
insieme; stupendosi di come, nonostante avesse già frequentato quel
corso e anche quello più avanzato, ascoltando le sue lezioni
imparasse sempre qualcosa di nuovo.
Quando finalmente i suoi
studenti, in estasi da apprendimento, andavano a casa, Diana
accompagnava Michele all'albergo presso cui alloggiava, lo aspettava
mentre si faceva una doccia e poi partivano, ogni sera con una
destinazione diversa. Si divertiva un mondo con lui, a tratti
spiritoso, a tratti riflessivo, spesso brontolone.
– Daiana, –
le diceva, dall'alto dei suoi trentanni, – quando avrai la mia età
capirai molte cose, tra cui che fare tardi tutte le sere non è
umanamente possibile, se la mattina dopo ti devi svegliare presto per
andare a parlare davanti a dieci persone.
Diana rideva, mentre
invece che tornare all'albergo, da brava amica, lo portava in qualche
locale appena aperto per sentire la sua opinione sui cocktail che
facevano, o su come avevano organizzato il bancone.
– Ma
smettila di fare il vecchio, l'altro ieri abbiamo fatto un po' tardi,
ma ieri ti ho riaccompagnato in albergo prima di mezzanotte!
Michele
allora scuoteva la testa arreso, non avendo la macchina e non potendo
decidere lui.
– Ah, carina, ti auguro proprio che anche tu
troverai qualcuno di maledire. E cambia musica, che è sta roba?
In
genere Diana allora gli chiedeva di scegliere qualcosa lui, e poi,
compatibilmente con la guida, si metteva comoda, in attesa dei suoi
racconti sulla canzone che stavano ascoltando.
Avevano passato sei
mesi così, poi Michele era tornato a Padova, per poi ritornare in
quella piccola cittadina del torinese un anno dopo, e nonostante
Diana avesse trovato un altro posto di lavoro più lontano, dopo che
Mariela aveva ceduto il bar, e nonostante quella volta si era portato
con sé la macchina, lei raramente non si faceva trovare in accademia
all'ora di chiusura pronta a portarlo fuori a mangiare, tanto che Mariela
aveva iniziato a chiamarla "l'angelo di Michele".
Diana però non lo
faceva per evitargli di mangiare da solo, il motivo per cui
principalmente aveva iniziato l'anno prima a portarlo fuori, ma
perché Michele era il suo mentore e il suo amico, e in sua compagnia
stava benissimo.
Era quasi seccata quando comparivano Frank e
Luca, nonostante li avesse sempre adorati, a portarle via il loro
rito di cena e discorsi più o meno seri: Frank attirava sempre la
sua attenzione su di sé, e quando c'era lui puntualmente dovevano
andare a ballare, così Diana si trovava spesso in pista con Frank,
Luca, e qualche vecchio compagno di corso che saputo che erano in
città li aveva raggiunti, mentre Michele rimaneva al bancone,
dichiarando che lui non avrebbe mai ballato in mezzo ai
ragazzini.
Poi, semplicemente, lo aveva perso di vista:
l'accademia era stata venduta, e Michele non collaborava più con i
nuovi proprietari; non aveva motivo di chiamarlo, così all'ennesimo
cambio di cellulare si era scordata di copiare il suo numero di
telefono, e a quell'epoca non c'era Facebook.
Non l'aveva più
visto né sentito per anni, ma nonostante tutto da qualche parte nei
suoi ricordi le serate con Michele, la figura che più di tutti i
professori che aveva avuto nella sua vita era stato l'unico mentore,
non le aveva mai scordate.
Si ritrovò a cambiare lavoro, finendo
a gestire un negozio di vestiti, cambiò qualche ragazzo e andò a
vivere da sola; e gli anni passarono ancora.
Una notte, all'alba
del suo ventottesimo compleanno, si ritrovò a spulciare il vecchio
blog che teneva da ragazzina, una sorta di diario privato che
nonostante fosse in internet era rimasto tale, e precisamente si
ritrovò su un post dello stesso giorno, ma datato anni prima.
Era
una sorta di ringraziamento a chi l'aveva fatta crescere nei suoi
primi vent'anni, e lì, in cima alla pagina, spiccava il nome di
Michele.
Le ci volle una settimana per trovarlo su Facebook, dal
momento che non ricordava il suo cognome e non avevano amici in
comune, ma lo trovò, e insieme alla richiesta di amicizia gli
scrisse una lunga mail, raccontandogli chi era e com'era cambiata la
sua vita in quegli anni.
Passò un mese, prima che Michele
accettasse la richiesta, e altri due prima che una sera la salutasse
in chat.
Diana bypassò l'offesa, e chiacchierarono brevemente
del più e del meno: lui aveva abbandonato l'insegnamento da anni, e
era gestiva il bar di una discoteca di Padova.
Non parlarono più,
poi, dopo un altro mese, una sera in cui era particolarmente cupa per
via di una giornata lavorativa andata non proprio benissimo,
vedendolo on-line Diana gli chiese scherzosamente se non fosse
disposto ad assumerla come barista, anche se erano anni che non
lavorava più in quell'ambito.
Michele rispose spiazzandola, non
cogliendo l'aspetto ironico, e le disse che avrebbe potuto prenderla
in considerazione, dato che era a corto di personale.
Diana
inserì uno smile imbarazzato, specificò lo scherzo facendogli
notare che viveva a centinaia di chilometri di distanza: dove avrebbe
vissuto?
Poi venne distratta da un'altra conversazione, e non fece
caso che Michele non le aveva ancora risposto.
Una settimana dopo,
entrando on-line, trovò un suo messaggio:
Michele: se
ti interessa ancora il lavoro ti ho trovato un appartamento nel mio
condominio, l'affitto è buono, e conosco il proprietario di casa: è
tenuta bene. Fammi sapere cosa decidi e quando puoi essere qui.
Non
ci aveva mai pensato seriamente. Fino a quel momento. Scattò in
piedi come una molla, prese l'ultima busta paga e controllò il TFR
teorico, calcolando che se anche avesse rinunciato a qualche giorno
di preavviso non sarebbe stato molto grave.
Il suo contratto di
affitto non prevedeva perdite di caparra, poteva semplicemente
disdirlo da un mese all'altro, così scrisse subito una mail a Irina,
la sua proprietaria di casa, e poi scrisse a Michele che sarebbe
stata lì per la fine di quel mese.
Ecco che cosa le ci voleva:
cambiare vita.
Certo, lei e Michele non si erano sentiti per
anni, però si era aspettata almeno che la chiamasse Daiana.
Chiuse
l'acqua della doccia, l'imbarazzo non era ancora andato via, non
poteva fare a meno di chiedersi se non aveva sbagliato a mollare
tutto e ad andare lì, in una città che non conosceva, a fare un
lavoro che non faceva da anni, con come unico conoscente un amico di
talmente vecchia data da essere diventato un estraneo.
Nda: forte, per la seconda volta sbatto la testa contro l'enorme muro del pochissimo pubblico delle originali, e degli zero commenti che mi devo aspettare da loro, e stasera, invece che pubblicare l'ultimo capitolo di Blackout, ritrovo questa storia e decido di continuarla e metterla alla gogna.
Grazie a Federico, tuttologo e mentore come pochi, ovunque tu sia. Ovviamente in questa storia non ci sei tu, ma ho voluto regalare al protagonista una delle tue meravigliose caratteristiche.
Ps: forse sto cominciando a pubblicare tante nuove storie perché la domanda "Hai già l'HTML? -Sì -No -Non capisco" mi fa ridere come la prima volta che l'ho letta. Con tutto il rispetto con chi dice "Non capisco", eh! Io sono la prima frana con l'HTML, senza Nvu sarei morta!