Oniricon

di Peppers
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sacrificio all'Idolo Senza Nome ***
Capitolo 2: *** Paure, Ombre e Desideri ***
Capitolo 3: *** La ferita di Piatra Carvii ***
Capitolo 4: *** Prigioniera degli Elfi Onirici ***
Capitolo 5: *** Il Riflesso dello Specchio ***
Capitolo 6: *** Risveglio in Terra Romana ***



Capitolo 1
*** Sacrificio all'Idolo Senza Nome ***


Il sole del meriggio splendeva su Piatra Carvii, ovattato da una lieve coltre di nubi. Dalle capanne riunite in piccoli gruppi sparsi per la vasta campagna dacica, giungeva il rumore di una vita che scorreva senza alcuna fretta né ambizione: la sega di un falegname, lo scampanellio di una mandria di buoi e il ruvido strisciare della ruota di un vasaio. Un uccello volava alto nel cielo, sorvolando senza alcun interesse quelle colline decorate di sterpi, simili alla testa di un uomo afflitto da calvizie. Dalla valle un sentiero risaliva fino ai monti, e Arinne ne percorse l’ultimo tratto con una corsa vigorosa.

Col fiatone e la fronte imperlata di sudore, si piegò su se stessa per riprendere fiato. Pochi passi più in là, proprio al limitare di un bosco, si ergeva un cumulo di pietre sormontato da una lastra rozzamente squadrata. La ragazza girò un paio di volte intorno all’altare, osservandone la superficie muschiata e ormai levigata. Nessun disegno, nessuna decorazione. Solo mute pietre, eredi di un passato celtico ormai lontano. Per essere un luogo sacro, trovava quella costruzione spoglia e arida. L’idolo di legno, quello era molto interessante. Al cospetto di quel tronco intagliato nelle sembianze approssimate di uomo, Arinne provava un misto di solenne rispetto e curiosità pettegola. Non era originario di Piatra Carvii, questo tutto ciò che sapeva. Trasportato lì dal nord, era stato piantato appena dietro l’altare ormai tanti anni prima. Da allora aveva vigilato, attento custode, su quelle colline contro ogni pericolo.

«Pensi che lì dentro abiti davvero una divinità?» chiese passando un dito affusolato sulla corteccia scabra dell’idolo. Era alto poco più di uomo e Arinne non poteva guardarlo negli occhi senza alzare la testa.

«Forse».

Calaid era appena arrivato e la sua figura ben proporzionata proiettava un’ombra scura giù lungo il sentiero. Di fronte alla risposta evasiva del fratello, Arinne arricciò il naso.

«Non capisco perché mai un dio dovrebbe scegliere di abitare dentro un tronco» continuò dubbiosa, sedendosi sull’altare. Con gli occhi verdi persi in un’aria sognante, teneva le mani incrociate sul petto e la testa inclinata su un lato, cercando di figurarsi in carne ed ossa quell’uomo longilineo intagliato nel legno.

«Siamo uomini, Arinne. Il mondo degli Dei non ci appartiene» la ammonì Calaid, che si ostinava a non raccogliere gli stralci di conversazione con cui la sorella lo punzecchiava. «Spostati di lì e smettila di fare domande».

La ragazza fece una boccaccia e si rizzò in piedi. Una folata di vento le scompigliò i capelli castani, facendola rabbrividire. D’istinto si strinse nella tunica di lana, sfregandosi le spalle. Osservò il fratello deporre sull’altare un agnellino. Non le piaceva l’idea di offrirlo in sacrificio per propiziare quella divinità di cui non conosceva nemmeno il nome, e ancor meno il fatto che Calaid dovesse mettersi in viaggio.

«Devi proprio farlo?»

La voce di Arinne perse di colpo ogni entusiasmo, mostrando una sfumatura di tristezza.

Sempre la stessa storia.

Calaid si sarebbe recato a sud, nelle terre romane, o forse a nord, negli altri villaggi di Piatra Carvii, offrendo la propria abilità di fabbro in cambio di qualche moneta, poi sarebbe tornato recando, nella migliore delle ipotesi, anche un piccolo dono per la sorella. Si trattava solo di qualche giorno, ma l’idea di rimanere sola rendeva Arinne inquieta. Quando il fratello non c’era, il vento sembrava troppo rumoroso, come se volesse ricordarle i pericoli aldilà di quella mite campagna.

«Sai che devo» rispose sommesso Calaid, osservando pensieroso la campagna punteggiata qua e là di fattorie.

Aveva gli stessi occhi verdi di Arinne, ma non mostravano la medesima tristezza, piuttosto una ferrea determinazione sfumata in dolcezza ogni volta che posava lo sguardo sulla sorella. Le si avvicinò, scompigliandole i capelli. Un gesto deciso, che possedeva tutta la forza di un padre intento a consolare una figlia. Calaid era tutto ciò che ad Arinne era rimasto dopo la morte dei genitori. Infaticabile lavoratore, faceva tutto ciò che era necessario per assicurarle una tranquilla esistenza esente da stenti. Avevano cibo, una capanna spaziosa e anche qualche prezioso gingillo. Gli voleva bene anche per questo, riuscendo a perdonargli i frequenti viaggi e persino tutte le volte che non assecondava la sua avida e curiosa immaginazione.

«Tienilo fermo»

Con un cenno verso l’animale, il giovane fabbro lasciò intendere che non era disposto a scendere a patti sulla questione del viaggio. Arinne fece come le era stato ordinato. Con una mano carezzò la testa lanosa dell’agnello, con l’altra lo costrinse a stare fermo sull’altare. Rimase in silenzio, osservando con attenzione ogni gesto del fratello. Era di spalle e non ne poteva scorgere il volto mentre rivolgeva una muta preghiera a quello strano idolo di legno. Quando ebbe finito si volse verso il cucciolo, stringendo nel pugno il coltello che teneva nella cintola. Arinne ebbe un moto di tenerezza verso quell’animale che se stava lì, gracile e docile, ignaro della fine cruenta che lo avrebbe colto. Calaid sollevò la testa dell’animale, poi con la piccola arma ne recise la gola. In preda agli ultimi guizzi di vita, l’agnello scalciò, schizzando l’altare con una striscia scura. Arinne chiuse gli occhi: odiava dover assistere a quello spettacolo. Anche solo l’odore del sangue le dava la nausea, ma riuscì a controllare la propria repulsione: sapeva bene quanto fosse importante quell’offerta. Era un rito abbastanza semplice, con cui il fratello avrebbe acquisito la benevolenza degli Dei prima del lungo viaggio.

Quando Calaid soffocò un’imprecazione, Arinne riaprì gli occhi, indietreggiando col volto sconvolto per la sorpresa.

L’agnello aveva la gola squarciata, una ferita che avrebbe dovuto ucciderlo in pochi istanti. Tuttavia l’animale si ostinava a rimanere in vita, come se una forza invisibile avesse allontanato la mano della morte. Scalciava e si dibatteva con vigore finché, vinta la resistenza di Calaid, balzò giù dall’altare. La ragazza impallidì: la testa dell’agnello ciondolava su un fianco, quasi sul punto di staccarsi. La bestia fece alcuni passi lasciando una scura scia di sangue sull’erba, emise un verso stridulo, poi si accasciò al suolo, ormai priva di vita.

Dapprima i fratelli non riuscirono a far altro che rimanere in un silenzio attonito, spezzato solo dal gracchiare delle cornacchie nel bosco. Arinne si sentì assalire da mille paure, negli occhi ancora l’immagine di quella testa piegata in modo innaturale.

«Era davvero un cucciolo vigoroso» sussurrò Calaid, il volto terreo ancora fisso sulla carcassa.

Lontano dal rassicurarla, quelle parole non fecero che allarmarla ancor di più. Evidentemente il fratello stava tentando di lasciar passare l’accaduto come qualcosa di normale, ma la sue fronte imperlata di sudore freddo diceva esattamente il contrario.

Arinne deglutì e stropicciò gli occhi, cercando di convincersi che, in fondo, una spiegazione poteva anche esserci. La ferita era profonda certo, ma forse non sufficientemente profonda da uccidere la bestia all’istante. E poi aveva fatto solo qualche passo prima di morire. Solo qualche passo? E quel verso. La sua immaginazione stentava a definire quella nota agghiacciante il verso di un agnello. Più la sua mente si affannava a giustificare l’accaduto, meno Arinne sentiva di riuscire a credere a se stessa. Non c’era nulla di normale in ciò a cui aveva assistito, ancor più se pensava al sacrificio rituale.

«Nefas».

La parola le affiorò alle labbra quasi inavvertitamente. Un cattivo presagio, un segno di sventura. Prese a tremare, scoprendosi angosciata per l’imminente partenza del fratello.

«Calaid, non partire»

«Ne abbiamo già parlato, Arinne»

«Questa volta è diverso. Hai visto cosa …»

«Non è successo nulla» l’interruppe Calaid, gli occhi di smeraldo nuovamente pieni di sé.

Aveva ritrovato il portamento abituale, come se quel macabro avvertimento l’avesse appena sfiorato prima di disperdersi nel vento che spazzava le colline.

«Come puoi negare l’evidenza?»

«Evidenza?» le fece eco, deponendo i resti sanguinolenti dell’animale sull’altare. «Io ho visto solo un agnello che sperava di sopravvivere. Tu hai visto qualcosa di diverso, Arinne?»

«Stai mentendo a te stesso, Calaid. Se partirai, sarai in pericolo»

Arinne scosse la testa, amareggiata. Distolse lo sguardo dal fratello, voltandosi a guardare l’idolo senza nome. L’immobilità aliena del totem e quei suoi strani occhi allungati le misero addosso la pelle d’oca. Assorta com’era nelle proprie meditazioni, quasi sussultò quando Calaid la strinse a sé.

«Va tutto bene, Arinne. »

La ragazza ricambiò l’abbraccio, rimanendo in silenzio. Chiuse gli occhi, sfregando la guancia contro la corta barba del fratello. Si sentiva rassicurare dalla sua presenza, dalla sua forza. Le sue parole riuscirono a scalzare l’angoscia morbosa che l’aveva appena assalita.

«E se …»

Non terminò la frase. La certezza di quella sinistra premonizione si stava smorzando nel dubbio.

«Continui a essere in pensiero per un viaggio che ho fatto tante volte »

Chinandosi a raccogliere la propria sacca, Calaid le sorrise, poi iniziò a ridiscendere la collina.

«La preoccupazione mi ha giocato un brutto scherzo.» confessò infine, raggiungendo il fratello.

Camminarono senza fretta e in silenzio. Calaid aveva l’abitudine alla quiete, così Arinne non seppe dire se stesse riflettendo o semplicemente ascoltando il cinguettio degli uccelli. Di tanto in tanto la ragazza si fermava a lanciare un’occhiata all’altare, ma ben presto la sagoma dell’idolo di legno divenne una macchia indistinta nel paesaggio. Mancavano ancora diverse ore al crepuscolo, eppure i preparativi per il viaggio erano numerosi. Bisognava assicurarsi che ci fosse abbastanza legna per il fuoco, e cibo sufficiente per l’intera settimana. Arinne doveva ammettere che, senza l’affidabile presenza di Calaid, non riusciva a tener testa alle numerose incombenze casalinghe. Per fortuna la loro casa non sorgeva isolata come tante fattorie di Piatra Carvii. C’era Hyrem, la vicina della capanna a lato. Aveva molti anni più di Arinne, forse anche qualcuno in più del fratello. Era simpatica e molte incline a lunghe chiacchierate. Una ragazza solare, la compagna ideale per Calaid. Solo una volta aveva azzardato ad accennare all’argomento, e la burbera risposta del fabbro celtico l’aveva convinta ad accantonare la questione. Anche se, Arinne ne era certa, una futura unione sarebbe stata inevitabile. Persino lei riusciva a notare gli sguardi melliflui con cui Hyrem sbirciava oltre la porta del piccolo capanno che Calaid aveva adibito a fucina. Eppure, inspiegabilmente, il fratello sembrava non riuscire ad accorgersi delle attenzione che la ragazza si ostinava a profondergli. Cosa al quanto imbarazzante, bisognava ammetterlo.

«Se ti rechi nelle terre romane, Hyrem vorrebbe che tu le portassi un fiasco di vino speziato. Dice che il padre ne va matto.»

Arinne aveva già dimenticato il brutto episodio e tornava alla carica contro il fratello, spezzando la pace di quel pacato ritorno a casa.

«Si, mi ha già detto» replicò Calaid seguendo distrattamente le volute di fumo che si innalzavano dal comignolo di alcune capanne. «Ha anche aggiunto che, per qualsiasi cosa, puoi contare su di lei durante la mia assenza».

«Che cara ragazza»

Il commento di Arinne fluttuò per aria prima di cadere, ancora una volta, nel silenzio.

Ormai avevano percorso quasi interamente il sentiero che portava a casa, snodandosi fra macchie di olmi isolati e radure pietrose coperte solo da sterpaglie. A poca distanza si profilava un agglomerato molto raccolto di casupole, sei in tutto. Erano capanne circolare costruite alla maniera celtica. Strette finestre, quasi fessure, solcavano le mura di legno intonacate con argilla essiccata. Sotto un tetto di sterpi si aprivano poche stanze: una cucina, lo spazio per gli animali e un dormitorio che, all’occorrenza, fungeva anche da cucina. Una famiglia numerosa con padre, figli e relativa prole avrebbe forse sofferto la mancanza di spazio, ma per Arinne e Calaid la propria capanna non era diversa da una di quelle domus romane che tanto meravigliavano i viaggiatori provenienti dal nord.

Un guaito accolse il loro lento ritorno: il cane del villaggio, accovacciato poco scosto dalla linea del sentiero. Più che un saluto festoso, ad Arinne parve un inno alla vita indolente cui l’animale pareva essersi consacrato.

«Cotoletta, potresti quanto meno mostrare un po’ di gioia!».

Poggiata contro lo stipite della porta di casa, i capelli raccolti in una treccia ramata, Hyrem si esibì in un improbabile rimprovero. Degnandole appena un’occhiata di sufficienza, Cotoletta non si scompose più di quanto aveva appena fatto, continuando a osservare un gruppo di bambini intenti a giocare.

«Sei sicura che sia in grado di difenderti contro i nemici?» ridacchiò Calaid, chinandosi ad accarezzare l’animale.

«Se di nemici si può parlare da queste parti» lo corresse Hyrem, accennando un vago saluto con la mano. «Magari è solo annoiata. Dovresti prendere in considerazione l’idea di portarla nei tuoi viaggi. Si divertirebbe, e tu avresti anche un po’ compagnia.»

«Un cane celtico? Non superebbe le frontiere dell’Impero» ironizzò il giovane fabbro, gettando la propria sacca oltre l’uscio di casa.

Per tutta la durata della conversazione, Arinne non aveva proferito parola né si era mossa da dove si trovava. Si irrigidì, sentendo il respiro farsi sempre più affannato. Stava assistendo a una scena di familiare quotidianità eccetto per un singolo, macabro dettaglio.

Di fronte a sé vedeva Hyrem, ma il suo volto non era quello abituale. Gli occhi erano delle orbite vuote, scure e rugose, orlate di sangue rappreso. La pelle del viso tumefatta come quello di un cadavere.

«Arinne, tutto bene?» le chiese Calaid, la voce vibrante in allerta.

«Hai una brutta cera» confermò Hyrem, accennando qualche passo nella sua direzione. Ma più si avvicinava, più Arinne si allontanava. Com’era possibile? Come poteva muoversi e parlare con disinvoltura, nonostante il viso orrendamente trasfigurato? E perché Calaid non sembrava curarsi della cosa? Dovette trattenere l’impulso di urlare, dominando l’agitazione, prima di riuscire a capire. Stava assistendo ad un prodigio, un orribile prodigio. La sua era una visione, che nessun altro stava condividendo.

Stavolta non potevano esserci dubbi: Gli Dei le stavano parlando, con i loro modi equivoci ed effimeri. Era da anni che non accadeva, tanto che ormai aveva quasi dimenticato di possedere il dono dell’Occhio di Persefone.

Persefone, moglie di Ade e Regina dei Morti.

Aveva sempre pensato che fosse ironico che una Dea, a lei sconosciuta, l’avesse scelta. Certamente merito della madre, greca di nascita. Era molto devota a Persefone e anche lei possedeva l’Occhio. In che modo quella strana affinità con la morte si fosse tramandata, non riusciva a spiegarselo, ancor più se pensava a Calaid. Lui non aveva mai mostrato nessuna abilità fuori dalla norma. Un comune uomo celtico, come lo era stato il padre, come lo erano tutti a Piatra Carvii.

Tutti, eccetto lei.

Ancora sconvolta per ciò a cui stava assistendo, Arinne era incapace di parlare. Ansimava, indietreggiando lentamente, un passo dopo l’altro. Il volto di Calaid rivelava preoccupazione, ma come poteva dargli spiegazioni? Cosa avrebbe dovuto dirgli? La mente si dibatteva in una febbrile eccitazione, divisa fra trovare il senso della visione e riuscire a celare la cosa.

Non passò molto prima che le incalzanti domandi di Hyrem e Calaid attirassero l’attenzione del resto dei vicini. Chi sbirciò da oltre l’uscio, chi emerse dal retro della propria capanna. I bambini interruppero il gioco in cui erano impegnati. Tutti si raccolsero nello spiazzale, tutti curiosi di capire che stesse accadendo.

Tutti col medesimo volto sanguinante e privo degli occhi.

Arinne si sentì esausta e nauseata, come se avesse subito un scarica di energia. Inciampò. Si scoprì distesa sul sentiero, ma non vi badò né diede importanza alla schiena dolorante. Riuscì appena a rizzarsi sui gomiti che Calaid le era a lato, i corti capelli biondi impiastrati di sudore, il viso teso e gli occhi dilatati.

«Arinne, che sta succedendo?».

La scosse energicamente per le spalle, poi poggiò la fronte contro la sua, incatenando insieme gli sguardi smeraldini.

«Rispondimi».

Un ordine perentorio, ma proferito con un calore misurato. Quell’ultima parola sembrò riuscire a destarla, creando uno spazio intimo che non apparteneva a nessun altro eccetto i due fratelli. Deglutì e chiamò a raccolte le proprie forze. La risposta arrivò in un sussurro udibile appena, ma fu sufficiente a pietrificare il volto di Calaid.

«Qualcosa di terribile si abbatterà su Piatra Carvii».

 
 
L’ANGOLO DEL BARDO:
Aprire la nota ringraziando i pochi lettori che avranno fede negli sviluppi di questa storia, è inevitabile. In particolare vorrei ringraziare una cara amica che, con pazienza e puntualità, segue e recensisce le storie che pubblico. Spero questa volta di riuscire a portare avanti un progetto ben più ambizioso di un semplice racconto (o raccolta). Sotto, trovate la copia scannerizzata di una mappa. Potrebbe essere un’utile guida ai futuri sviluppi della storia, così mi preme chiedervi: pensate sia meglio postarla, di volta in volta, alla fine del capitolo (magari segnando in rosso le location di interesse citato nel capitolo?) oppure preferite un’appendice, liberamente consultabile e slegata da ogni capitolo?Fatemi sentire i vostri pareri, che sono la cosa più importante :D Chiudo la nota con una piccola parentesi storica. Ci troviamo nella regione della Dacia, in una zona periferica dell’Impero Romano (vedi seconda mappa). Siamo nel 117 d.C, il periodo di massima espansione di Roma. Dacia. Ho scelto questa regione, memore del Castello sui Carpazi di Dracula. Chiunque abbia letto anche solo i primi capitoli del romanzo di Bram Stoker, sono certo capirà il fascino di questa regione. Piatra Carvii è un nome tratto realmente dalla geografia storica della regione anche se non sono per niente certo si tratti del nome di una zona di villaggi celtici ma, ai fini della storia, mi sono preso la libertà di rattoppare con la fantasia la mancanza delle mie conoscenze. Spero che questa prima parte abbia stuzzicato la vostra curiosità, a presto col prox aggiornamento!
PepperS, il bardo di Efp



  

  

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Capitolo 2
*** Paure, Ombre e Desideri ***


Il sole aveva terminato il suo corso nel cielo, svanendo a occidente oltre gli alti picchi dei monti. Le ombre si erano allungate verso est, inghiottendo Piatra Carvii con le sue colline, le capanne e le fattorie. Ognuno si era ritirato nella propria dimora. L’ora della cena era trascorsa e dai comignoli non si levavano che esigui sbuffi di fumo, invisibili nell’oscurità della notte. Seduto su uno sgabello, curvo su una scodella di legno, Calaid consumava il proprio pasto. Aveva gli occhi fissi al braciere, ma non ne vedeva i ceppi ardenti che riscaldano la capanna. Sgranocchiava con fare meditabondo alcuni porri passati sul fuoco, a cui di tanto in tanto accompagnava un sorso d’idromele. Una cena piuttosto magra, soprattutto se confrontata con la selvaggina che abitualmente seguiva le dure giornate di lavoro in fucina. Ma con tutto ciò che era successo, non c’era stato né il tempo né la voglia di preparare un pasto impegnativo.

La crisi, come usava chiamarla, aveva lasciato Arinne indebolita, chiusa in uno stato di torpore. Liquidati i vicini con spiegazioni sbrigative, Calaid si era premurato di mettere a riposo la sorella. Le carezze si erano inseguite a decine su quel volto paffuto rigato di lacrime, nel tentativo di riportare la calma. C’era voluto del tempo, ma infine Arinne aveva smesso di tremare. Aveva rifiutato la cena e, senza dire una parola, era crollata in un sonno esausto. Attraverso la scarsa luce lunare che filtrava dai rami del tetto e dalle strette finestre, il giovane riusciva a intravederne a tratti la sagoma distesa sul pavimento, infagottata in pesanti pellicce di lana.

L’inverno non era ancora giunto, ma già la notte dispensava gelide pugnalate, che si infrangevano contro la debole luminescenza del braciere. Il turbamento per ciò che era successo superava il sonno e la stanchezza. Nonostante la tarda ora, Calaid non riusciva a dormire. Per quanto odiasse ammetterlo, i segnali di pericolo erano inequivocabili e non potevano essere ignorati. Dapprima aveva pensato che la premonizione riferita al proprio viaggio. Chissà, forse una banda di briganti accampati sulla strada per le terre romane, o magari un branco di lupi spinto fuori dai boschi dalla fame. Ma poi, quella visione.

Si alzò e, irrequieto, prese a camminare per la capanna a piedi scalzi. Superò una sottile parete in legno che separava il dormitorio dal resto della casa. Frugò in una rastrelliera addossata contro la parete fino a trovarvi un lungo pugnale. Non era un coltello da cucina, né uno strumento cerimoniale per riti religiosi. Si trattava di un’arma da caccia, un ferro ben solido dal filo tagliente, frutto delle proprie capacità di fabbro. Un colpo ben assestato di quel pugnale avrebbe potuto ridurre in fin di vita un uomo, perforando persino una giubba di cuoio bollito. Tornò nel dormitorio. Dopo aver attizzato il fuoco nel braciere, si mise a sedere sullo sgabello. Osservava la sorella dormiente e rigirava l’arma fra le dita, rimuginando sull’intera faccenda.

Era davvero possibile che qualcuno covasse contro un insignificante pugno di fattorie? Le genti celtiche che vivevano a Piatra Carvii potevano vantare dei rapporti insolitamente distesi con l’Impero Romano, e le bellicose tribù germaniche erano confinate a nord, oltre la lontana linea dei Montes Carpates. Per quel che ne sapeva, non c’erano motivi per sospettare pericoli imminenti. Si trovava di fronte a un enigma insolubile, un sarcastico scherzo degli Dei. Un sorriso amaro segnò la corta barba del fabbro celtico. Perché, se proprio Persefone doveva scomodarsi per avvertirli, non lo faceva mandando un segnale più chiaro e comprensibile?

Avrebbe di gran lunga preferito che Arinne non possedesse l’Occhio. Era un dono scomodo, molto scomodo. L’aveva imparato a proprie spese, a forza di sangue e sudore, sin dai tempi ormai lontani della propria infanzia.

«Calaid, svegliati» gli diceva ogni giorno il padre, un’ora prima che il sole sorgesse. Le colline erano ancora addormentate e dell’alba non si vedeva che un riflesso appena accennato.

«Non è ancora presto per iniziare a lavorare, papà?». La sua domanda era dettata dall’innocente semplicità di un bambino, che di un frutto coglie solo la scorza più esterna. In quell’ora strappata al sonno, Calaid era costretto ad allenarsi. Il padre lo addestrava alle armi, e i suoi insegnamenti lasciavano lividi, contusioni e solchi brucianti sulla schiena.

«Non mordere il fango, Calaid. Rialzati!».

Calaid, ostinato e infuriato, si alzava e riprendeva a lottare. Maneggiava il bastone senza alcuna tecnica e i suoi colpi brancolavano alla cieca. Il suo corpo non si temprava alla velocità voluta dal padre e, nei giorni in cui quello scontro impari si esacerbava oltre il tollerabile, Calaid saltava il lavoro. Tornava zoppicante al letto e strisciava sotto le coperte. Piangeva in silenzio, finché non udiva i passi lievi della madre. Era quella donna dalla voce calda e l’accento greco a consolarlo, asciugando ogni lacrima con un bacio.

«Tuo padre ti vuole molto bene, anche se a te non sembra» gli spiegava con gli occhi colmi di tristezza. «Arinne è una bambina speciale, diversa da tutte le altre. Lei ha bisogno di te. Quando non ci saremo più, toccherà a te proteggerla».

Proteggerla, ma come?

Logorato da quella domanda provò l’impulso di andare a dormire, ma si rese indifferente alle lusinghe degli sbadigli. Lentamente fece scorrere il chiavistello della porta e uscì, sperando che una boccata d’aria fresca potesse aiutarlo nel prendere una decisione.

Piatra Carvii era così immobile nella quiete notturna, da far pensare a un quadro. La capanne erano linee appena accennate nell’oscurità e i monti sembravano inghiottiti da un cielo gravido di nubi. Non si vedevano le stelle e la luna faticava a trovare lo spazio necessario a risplendere. Quando vi riusciva, non teneva il dominio del cielo che per qualche istante, poi tornavano le nubi trasportate dal vento e tutto ripiombava nel buio più fitto.

Calaid rabbrividì, rimpiangendo di non aver indossato un manto oltre la maglia di lana. La sensazione della rugiada notturna sotto i piedi nudi lo solleticava, provocandogli un’inaspettata sensazione di piacere. Si guardò intorno alla ricerca di Cotoletta, ma non poté contare sulla compagnia della vecchia cagna: dormiva profondamente, accovacciata sotto un carro. Si diresse allora nel capanno che sorgeva adiacente alla casa.

La porta della fucina era chiusa solo da un tratto di corda annodato. L’aprì e brancolò con le mani sul banco di lavoro, armeggiando fino ad accendere una lucerna. Il bagliore del piccolo lumino romano si rifletté sulla forgia e sugli attrezzi, sugli scarti di metallo e sui lavori incompiuti invadendo le tenebre dell’officina. Scivolando in silenzio, Calaid raggiunse un cantuccio in prossimità della fornace. Scostò alcune casse contenenti le forme di cera che usava per dar vita a finimenti per cavalli e utensili, trovandovi un piccolo scrigno. Ne trasse un involucro di panno, che scoprì, rivelando due piccoli orecchini in oro.

Il lavoro non era ancora terminato, ma già si indovinavano le decorazioni finali dei gioielli. Ne sarebbero nati due bei gingilli, con cui rallegrare Arinne al ritorno dal viaggio. Ovviamente li avrebbe spacciati per gioielli romani, risparmiandole così l’umiliazione di una vita appena al di sopra della povertà. In fondo, l’ingenuo occhio della sorella non si sarebbe certo soffermato sui dettagli che tradivano la mano di un artigiano celtico piuttosto che di un raffinato artista imperiale.

«Un’ora davvero insolita per mettersi al lavoro».

Una voce alle sue spalle lo fece sobbalzare. Nella penombra appena oltre l’uscio della fucina, vide Hyrem in una elegante tunica decorata a motivi geometrici.

«Mi hai fatto prendere uno spavento» rispose Calaid, premurandosi a coprire nuovamente con le casse lo scrigno. «non ti avevo sentito arrivare».

Hyrem si strinse nelle spalle.

«Ho visto la lucerna brillare e ho pensato che forse non ti sarebbe dispiaciuto ...»

«Scambiare due chiacchiere?» l’interruppe il fabbro celtico, prima che potesse spingersi oltre. «Certo che non mi dispiace, è un modo come un altro per ingannare la notte».

Il volto di Hyrem non nascose il disappunto per l’abilità con cui l’amico riusciva a sfuggire le occasioni con cui tentava di passare del tempo insieme a lui.

La ragazza uscì dall’officina, guidando il vicino appena oltre la proprie casa. Sedettero su un masso, godendosi la tranquillità della notte. A causa dei propri pensieri, Calaid trovava la notte persino più opprimente del solito, così si risolse a spezzare il ghiaccio per primo.

«Come va con il tuo problema? Con l’insonnia, intendo»

Hyrem ferì la notte con un’allegra risata.

«Secondo te? Sono seduta su un masso nel cuore della notte per diletto?»

Calaid accennò un sorriso. Tipico di Hyrem: ridere dei problemi che avrebbero portato allo snervamento una persona normale. Eppure l’insonnia che le impediva di riposare per gran parte della notte era una questione abbastanza seria. Il padre di Hyrem si era prodigato in tutte le cure cui la sua mano era arrivata. A nulla erano valse le preghiere rivolte agli dei celtici, e nemmeno a quelli romani. Aveva persino acquistato, per un ingente somma di denari, un impacco di pelli di serpi dalle proprietà taumaturgiche. Un rimedio miracoloso dalla lontana Scitia, stando a sentire il tizio che l’aveva venduta, un dubbio mercante dalle origini germaniche. Tutto si era rivelato inutile, Hyrem continuava a sgranare una notte dopo l’altra, incapace di dormire nella propria capanna a Piatra Carvii.

Una volta, Hyrem aveva azzardato a chiede l’aiuto di Arinne, cosa che aveva fatto infuriare oltre ogni dire il giovane fabbro. Come se sua sorella fosse una di quelle fattucchiere che vanno in giro a curare malanni e predire il futuro. Adesso che nei suoi occhi stralunati riusciva a leggere fino in fondo il dramma, Calaid doveva ammettere che era stato fin troppo duro con la ragazza della porta accanto. Decise che, in qualche modo, bisognava scusarsi.

«Senti, Hyrem. Mi dispiace per quella volta che hai chiesto aiuto a mia sorella. Io non volevo ...»

«Non preoccuparti per così poco, Calaid, è tutto passato».

Come se le parole da sole non fossero sufficienti, Hyrem sfiorò appena la guancia di Calaid con una mano ossuta. Il giovane si sentì sollevato dalla semplicità con cui avevano risolto la questione. In fondo Hyrem era un gran brava ragazza, sarebbe stato un gran peccato ossidare il buon rapporto che li univa.

«Ricordo che tua madre riusciva a mandare semplici messaggi agli spiriti dei morti»

«Magari stava solo fingendo»

«Ne dubito, cose del genere non si vedono spesso in giro. Per questo avevo pensato che, forse, tua sorella sarebbe stata in grado di far qualcosa».

«L’Occhio di Persefone non permette di guarire la gente, Hyrem». Fece una pausa, trascinato controvoglia nel ricordo della madre scomparsa. «E poi mia sorella non è mia madre, non riesce a controllare le sue capacità bene quanto lei».

«Oggi pomeriggio ha avuto una premonizione, è vero?».

Calaid non rispose immediatamente. Intelligente com’era, doveva aspettarsi che l’amica non aveva bevuto le frottole che aveva raccontato sul malore di Arinne.

«Teme che Piatra Carvii possa divenire un posto non più sicuro».

«Esiste un luogo sulla terra che possa veramente definirsi sicuro? Mio padre racconta certe storie sull’Impero che metterebbero i brividi persino a te. Schiavi, costretti a lottare nelle arene contro animali feroci».

Le labbra di Hyrem si serrarono in una smorfia di disgusto.

«E poi chiamano noi selvaggi» sbuffò stizzita.

Calaid sapeva bene quanto Hyrem fosse un’accesa sostenitrice della cultura celtica. Non mancava occasione per denigrare i romani né per osannare la propria cultura nativa. Avrebbe voluto che i residui celtici sparsi per la Dacia si unissero, formando un fronte comune per riconquistare le terre perdute molto tempo prima. Nessuno più di Calaid era propenso a credere che fosse solo un’impresa irrealizzabile. A lui l’Impero stava bene: i romani apprezzavano gli artigiani celtici e pagavano anche bene. Così ignorò il commento pungente dell’amica.

Cadde un silenzio imbarazzante, acuito dai trilli dei grilli nascosti fra le sterpi che li circondavano. Poco lontano, il verso di una civetta riecheggiò stridulo nella notte.

«Fammi indovinare» lo punzecchiò Hyrem. «Le parole di Arinne ti hanno preoccupato e adesso non sai che fare».

Calaid ebbe un moto di sorpresa: l’amica aveva colto nel segno. Senza attendere la risposta, Hyrem propose la propria soluzione.

«Portala con te»

«Hai detto la stessa cosa di Cotoletta»

«Lo so, se potessi anche io andrei via»

«A sud? Nelle terre romane?»

La vicina scosse la testa, gesticolando come volesse allontanare quell’idea da sé.

«Nemmeno per sogno. Andrei a est. Dicono che lì i celti siano più agguerriti»

Stavolta fu la risata di Calaid a perforare il silenzio, disturbando il sonno della cagna del villaggio. Se Hyrem fosse stata un uomo anziché una ragazza, Calaid non aveva dubbi sul fatto che sarebbe divenuta un guerriero eccezionale. L’eco della propria voce non si era dileguato, che il fabbro si fece nuovamente pensieroso.

«Non posso portare Arinne con me nelle terre di Roma».

«Perché no? Potresti spacciarla per la tua donna»

Calaid aveva già preso in considerazione quell’idea. Anche se fosse riuscito a farla viaggiare senza alcun pericolo, si trattava solo di qualche giorno. E poi? Non sarebbe rimasto altro per loro che tornare a Piatra Carvii. Non era che una soluzione d’accomodo a un problema di difficile definizione. Aveva l’impressione che la notte fosse popolata da spiriti infidi in agguato dietro le forme imponenti delle querce sparse sulle colline. Sapere che fossero solo il frutto della propria apprensione non bastava a renderli meno reali.

«Conosci gli Adamantes dell’Imperatore Traiano?»

Hyrem fece un annoiato cenno di diniego.

«I soldati dell’Impero?»

«Non sono semplici soldati. Sono guerrieri d’elité, reclutati da tutte le provincie romane, addestrate duramente con l’unico scopo di dar la caccia ai maghi proibiti che si nascondono nell’Impero».

«Maghi proibiti?»

«Tutti coloro che praticano forme di magia non ufficiale romana».

Hyrem aggrottò la fronte, soppesando attentamente l’implicazione di quelle informazioni.

«Calaid, tua sorella non è un mago proibito, e questa non è terra dell’Impero».

Il giovane sentì il sangue montargli al viso, assecondando i capricci di sentimenti reconditi.

«Roma ha piegato il mondo intero, Hyrem! Cosa siamo al cospetto della Legione, dell’Imperatore e dei suoi Adamantes? Te lo dico io, solo un pugno di rozzi contadini».

«Parli come un romano» replicò la ragazza con voce piatta. «Dovresti smettere con i tuoi viaggi nell’Impero. O almeno, smettere di dare ascolto a ogni diceria che striscia per le loro luride tabernae

«E se fosse Roma il nemico da cui dovremmo guardarci? Se la voce della capacità di Arinne si diffondesse, gli Adamantes potrebbero mettersi sulle sue tracce e poi ..»

«Calaid, torna in te. Siamo a Piatra Carvii» lo richiamò dolcemente Hyrem. «Non puoi proteggere tua sorella per sempre. Un giorno potrebbe imboccare strade che ti sono precluse».

«Non accadrà».

La risposta del fabbro celtico arrivò secca e lapidaria, intrisa di una ferrea determinazione.

«Arinne è indifesa e spetta a me assicurare che il suo sentiero sia sgombro di ostacoli. A me e a nessun altro».

Hyrem lo guardò come se lo stesse vedendo per la prima volta. Nei suoi occhi stralunati brillava una comprensione che, fino ad ora, le era sfuggita.

«è per questo, vero?»

«cosa?»

Hyrem si morse le labbra, indecisa se proseguire o desistere da quella conversazione.

«Che non hai mai ricambiato le mie attenzioni».

Calaid fu grato che, in quello stesso istante, una pesante nube oscurò la luna. Quella domanda lo aveva colto alla sprovvista, facendolo sentire denudato e indifeso contro quella ragazza che lo aveva sempre aiutato.

«Temi che io possa distrarti da lei».

Capiva quanto sbagliata fosse la propria posizione, ma al tempo stesso comprendeva la necessità di non poterla cambiare. Non rispose, lasciando che il silenzio divenisse ambasciatore del proprio assenso. Pensava che Hyrem sarebbe andata tutte le furie, invece si sporse leggermente inchiodandogli un bacio sulla guancia.

«Non sei un guerriero, Calaid. Sei solo un fabbro, una persona qualunque. Non hai il diritto di fare l’eroe. Sacrifica tutto per lei e rischierai di smarrire te stesso lungo la via».

In quelle parole c’era della ragione, doveva ammetterlo.

Chiuse gli occhi e desiderò che i genitori fossero ancora in vita. Suo padre era solo un agricoltore ma, all’occorrenza, sapeva impugnare bene una spada, rendendo onore al proverbiale furor celtico. Lui sarebbe stato in grado di difenderli tutti, o almeno di prendere la scelta migliore. Quando tornò a guardare la campagna, trovò Hyrem a pochi centimetri da sé. Le mani appoggiate al masso, i capelli ramati sciolti carezzati dal vento e il viso proteso in un bacio. Forse erano state le sue parole, forse quell’oscurità che sembrava avvilupparli, nascondendoli agli occhi del mondo, ma Calaid non riuscì a tirarsi indietro. Le labbra della ragazza era calde e lievemente tremanti. Assaporarono la dolcezza di un bacio che si protrasse a lungo, poi rimasero in silenzio. Entrambi non sapevano cosa dire, come interpretare ciò che era successo.

Non ebbero modo di riflettere molto, perché furono distratti da Cotoletta. Non solo il cane del villaggio si era destato ma, cosa ancor più importante, guaiva sommessamente, mostrando evidenti segni di paura.

«Cotoletta, che succede?»

Calaid scattò in piedi, un viscido senso di pericolo che strisciava sulla pelle.

«La vista di un gufo l’avrà terrorizzato»

Hyrem invitò il giovane a sedersi nuovamente sul masso, ma il fabbro celtico sentì il dovere di indagare oltre. Si diresse in direzione della cagna. Aveva già coperto metà della distanza che li separava, emergendo oltre le sagome delle case. Da quella posizione riusciva ad avere una vasta visuale delle colline circostanti.

«Un fuoco?»

La sorpresa lo paralizzò sul sentiero: un incendio brillava lontano, ardendo una delle fattorie di Piatra Carvii.

«Cosa?»

Hyrem condivise lo stupore del fabbro. Si guardarono negli occhi scambiandosi un messaggio che nessuno dei due aveva il coraggio di formulare in parole.

Qualsiasi cosa avesse intenzione di attaccare i villaggi celtici, era arrivata prima del previsto.

Un brivido solleticò la nuca di Calaid. Ebbe la sinistra impressione di essere osservato. Si voltò. Alle spalle scorse delle figure, indistinte nella notte, muoversi fra gli alberi. Non erano soli. Occhi estranei li spiavano, aspettando solo l’attimo giusto per passare in azione. L’intera campagna brulicava di nemici.

«Dobbiamo fuggire».

Calaid pronunciò le ultime parole con una sicurezza vacillante. Il pensiero corse rapido ad Arinne, sola e dormiente nella capanna.

«Dobbiamo fuggire» ripeté, con maggior decisione.

Stava per iniziare a correre, quando Hyrem lo trattenne per un braccio. Lo costrinse a voltarsi, indicando un punto sulla collina che dominava il villaggio. Alla luce della luna, la foschia che ne avvolgeva la sommità erbosa sembrava scintillare come polvere di diamanti. In mezzo alla bruma, Calaid vide la sagoma di una cane.

«Cotoletta?»

«Non è lei» lo corresse Hyrem, la voce che vibrava per la paura.

Era un enorme mastino dall’ispido pelo nero, che digrignava il muso mostrando una fila di denti affilati. Li osservava con inquietanti occhi viola in cui brillava una luce inumana. In quella bestia l’irrazionalità selvaggia si fondeva con un agire misurato. Quella consapevolezza istillò in Calaid un terrore atavico.

«Hyrem, via da qui!».

Presero a correre, ognuno diretto alla propria capanna. Quel terribile cane nero li avrebbe attaccato da un momento all’altro. Ogni secondo poteva rivelarsi prezioso. Doveva svegliare Arinne e fuggire. Qualsiasi posto sarebbe andato bene, purché si fossero allontanati da Piatra Carvii. Calaid si diede dello stupido: gli Dei li avevano avvertiti, eppure lui aveva tentennato fin troppo. Ora che i nemici li circondavano, mettersi in salvo sarebbe stato molto più arduo.

Un lugubre latrato lo costrinse a interrompere la corsa. Un verso macabro, che risuonava per tutta la campagna come un funereo avvertimento. La bestia aveva la testa rovesciata all’indietro e non si dava più pena di celare la propria presenza, poi una nuvola fece piombare tutto nell’oscurità. Quando la luna emerse nuovamente dalle tenebre, la collina era vuota.

Calaid si guardò attorno: Hyrem era rientrata a casa, le sue urla stavano svegliando tutti. La voce di un attacco dilagò, rapida come la paura. Ovattato da imposte sprangate, giungeva il pianto di alcuni bambini. Le donne, chine sul terreno, seppellivano i propri averi, gli uomini sceglievano la propria arma migliore.

Ma di Cane Nero, nessuna traccia.

Calaid era assordato dal proprio cuore. Batteva assordante, coprendo il crepitare delle prime fiamme fra i campi. Stava accadendo tutto troppo velocemente. Riprese a correre, stavolta senza più voltarsi indietro.

La fine di Piatra Carvii era appena iniziata.

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Capitolo 3
*** La ferita di Piatra Carvii ***


 

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     Arinne stava sognando.

Il suo sonno era agitato dai fantasmi di un futuro imminente, un futuro che serbava terribili sorprese. Forme oscure turbinavano nella sua mente, mescolandosi in un confuso susseguirsi di immagini.

Fiamme, urla, il feroce ringhio di un cane, poi il volto di Calaid.

Non capì immediatamente di essere stata svegliata.

«Arinne, svegliati!».

La voce del fratello fremeva di impazienza.

«Alzati!» la pungolò tirandole via, senza tanti complimenti, i manti di lana che la coprivano.

Si tirò a sedere, stropicciando gli occhi, intirizzita a causa del freddo.

«Che succede, Calaid?»

Ci volle qualche secondo ancora prima di abituarsi alla penombra, poi le forme della stanza emersero tutto intorno a lei: distingueva la fila di lepri appese al soffitto, le anfore di terracotta allineate contro la parete e la stretta finestra che si apriva su una capanna in fiamme.

Una capanna in fiamme?

Il sonno si dileguò immediatamente e Arinne iniziò a capire. La figura del fratello, chino su un tavolo, non fece che rafforzare le proprie paure. Con addosso una giubba di cuoio e dei calzoni in tela, Calaid studiava frettolosamente una mappa approssimativa della zona.

«Vestiti, Arinne» la incalzò con fare conciso, senza nemmeno guardarla. «Non indossare nulla che possa intralciarti, dobbiamo correre veloci».

La ragazza fece come le era stato detto: nella situazione in cui si trovavano, fare ulteriori domande era superfluo. Raggiunse la parete su cui, affissi su un chiodo, trovò i propri indumenti. Indossò una semplice veste di lana, corta al ginocchio, decorata con ricami floreali. Dopo aver allacciato un paio di sandali, si avvicinò al fratello. Come ogni volta che si sentiva angosciata, Arinne portò la mano al collo, lì dove pendeva il ciondolo che una volta era stato della madre. Era un semplice disco di rame, non più grande di una moneta, con inciso il nome di Persefone. Arinne non se ne separava mai e, mentre il fratello decideva sul da farsi, lo strinse forte, rivolgendo una silenziosa preghiera alla dea cui era devota.

«A sud ci sono le terre romane» la informò Calaid, anche se Arinne sospettava che il fratello si rivolgesse più a se stesso che a lei. «Per raggiungerle dovremo attraversare le colline. Sono spoglie e non ci offriranno molti ripari. Saremo visibili e troppo vulnerabili».

Con una smorfia, il fabbro scartò l’idea. Rimuginò in silenzio, grattandosi la barba bionda, il viso teso nello sforzo di trovare velocemente un’alternativa soddisfacente.

«Andremo a nord, fra i boschi sarà più facile nasconderci» decretò infine, assicurandosi di avere alla cintola il proprio coltello da caccia. «Se riusciamo a raggiungere i guadi e attraversare i fiumi forse saremo salvi».

Senza ulteriori indugi, Calaid aprì uno spiraglio nella porta e studiò la situazione nel villaggio. La notte, rischiarata a giorno dalle fiamme, riecheggiava di rumori di battaglia, di urla e ordini impartiti in una lingua che Arinne non identificò col latino e nemmeno con l’idioma celtico.

«Da chi stiamo scappando precisamente?»

«Non sono romani e dubito possa trattarsi di germani».

Era una spiegazione molto misera, che aggiungeva ben poco a ciò che Arinne riusciva a vedere sporgendosi oltre la spalla del fratello. Molti fra i nemici indossavano ampie cappe di colore blu, marrone o nero. Al di sotto dei mantelli si intravedevano pesanti armature e armi dalle fogge esotiche, come le ragazza non ne aveva mai viste. A quei guerrieri si accompagnava anche un gruppo di animali, cosa che impressionò profondamente Arinne: una volpe, un falco, un cinghiale, un lupo e perfino un orso. Le bestie dovevano essere certamente ammaestrate poiché rispondevano agli ordini con incredibile precisione. Una parte degli invasori aveva iniziato a setacciare da cima a fondo ogni capanna, mentre il resto della truppa sembrava in procinto di sparpagliarsi per la campagna alla ricerca dei fuggiaschi. Il gruppo più vicino distava poco più di un tiro di sasso dalla capanna dei due fratelli. Contava meno di dieci avversari, numero che saliva a quindici aggiungendo gli animali. Stavano raccolti nello spiazzo fra le casupole, sorvegliando alcuni prigionieri, tutti abitanti di Piatra Carvii. I volti sinistri appena visibili, imponevano il proprio volere con arrogante naturalezza.

«Hyrem!»

Calaid emise un gemito strozzato, scorgendo l’amica in mezzo ai nemici. Era ancora viva, anche se ad Arinne parve di intravedere delle ferite sanguinanti. Il padre la cingeva con un braccio mentre implorava pietà e spiegazioni.

«Come li aiutiamo?»

«Nono possiamo aiutarli»

«Vuoi abbandonarli?»

«Li hai visti, Arinne? Cosa pensi potremo fare? O scappiamo, o prenderanno anche noi»

Alla ragazza non piacque la decisione del fratello, ma non si sentì di ribattere. L’idea di abbandonare al proprio destino la gente che conoscevano sin da quando erano nati, le strinse un nodo in gola. Riusciva a capire da sé che non avrebbe più rivisto molti di quei volti e, forse, persino la propria casa.

Rimasero accucciati, osservando il gruppo di invasori intento in una discussione. Attesero finché non furono sufficientemente distratti.

«Non ti separare da me per nessun motivo» le rammentò Calaid, stringendole il polso fin quasi a farle male. «Se anche ci riuscissero, corri a nord. Ci incontreremo nei boschi».

«S-Separarci?»

Arinne balbettò quella parola che, nella propria mente confusa, divenne sinonimo di catastrofe. Per un attimo provò a immaginarsi senza il fratello, con l’unico risultato di non essere nemmeno certa in che direzione fosse il nord. Ne stava facendo parola a Calaid quando, senza alcun preavviso, il fabbro la trascinò fuori dalla capanna.

Correvano a più non posso, sebbene Arinne stentasse a reggere il passo del fratello. In più di un occasione temette di scivolare sull’erba umida, ma ogni volta Calaid la tirava su, incitandola ad andare ancor più veloce. Ebbero appena il tempo di oltrepassare l’ultima capanna, poi un urlo rivelò che, nonostante tutti gli accorgimenti, la loro fuga non era passata inosservata.

«Maledizione, ci stanno inseguendo» imprecò Calaid, scorgendo un minaccioso guerriero dal volto pallido quanto un fantasma staccarsi dal gruppo e lanciarsi nella loro direzione.

Tentarono di accelerare l’andatura, ma già da un pezzo Arinne sentiva di essere al limite delle proprie capacità. Alla luce degli incendi seguire il sentiero si rivelò cosa abbastanza facile. Su quella pista di terra nuda non correvano il rischio di scivolare lungo il declivio collinoso. Ma presto la fuga divenne ardua: nel buio della campagna aperta, la traccia del sentiero risultava meno evidente.

Furono costretti a rallentare.

Calaid si guardava spesso indietro, soprattutto nei momenti in cui la luna riusciva a squarciare la coltre di nubi. Anche Arinne osava lanciare, di tanto in tanto, un’occhiata dietro alle sterpaglie dietro di sé: lontano dal desistere nell’inseguimento, la misteriosa creatura continuava a guadagnare terreno. Il giovane celta sembrava irritato dalla prospettiva di incrociare il nemico, ancor più perché la pesante armatura color amaranto che questi indossava avrebbe dovuto rallentarlo.

Fecero appello all’unico vantaggio che rimaneva loro: la conoscenza del territorio. Abbandonarono il sentiero e scelsero di non procedere in linea retta, pur mantenendo la direzione puntata verso il nord. Calaid fendeva le creste in cui la nebbia era più fitta e attraversava interi tratti in cui la vegetazione cresceva più rigogliosa, in modo da rendere meno evidente le proprie tracce sul terreno umido. Arinne si limitava a seguire il fratello senza riuscire a proferire parola. Quando non era impegnata a mantenere l’equilibrio, boccheggiava cercando di riprendere fiato.

Sorpassarono l’altare, con il suo misterioso idolo senza nome, giungendo al limitare della foresta. Le colline ora sfumavano in pendici montuose e Arinne fu contenta di scoprire che dovevano attraversare quei fianchi boscosi in direzione del fiume che scorreva a valle. Il sentiero era ancor più impervio, ma certamente meno faticoso della precipitosa fuga su per le colline.

Si sentivano spossati, così Calaid decise di concedere una breve pausa.

Arinne si era appena fermata, crollando al suolo, ogni fibra del corpo stremata. Al contrario di Calaid, non era abituata agli sforzi fisici. Si rannicchiò su se stessa, tremando più per la paura che per il freddo. Il fabbro se ne accorse e le si avvicinò, rassicurandola che il peggio era ancora passato. Arinne accennò un debole sorriso, riavviandogli i capelli biondi scomposti, eppure sentiva di non poter credere fino in fondo alle parole del fratello. Perché altrimenti si muoveva con fare cauto, tenendosi basso in mezzo ai rovi?

«L’abbiamo seminato?»

Arinne decise di avere il diritto di sapere la verità.

«Parla piano»

«L’abbiamo seminato?» ripeté, con un filo di voce.

«Sembra di si»

«Dove andremo adesso, Calaid?»

«Al momento concentriamoci nel riuscire a superare il fiume»

Arinne sentì il cuore traboccare di lacrime. Sapeva che la verità avrebbe avuto un sapore amaro, ma si riteneva abbastanza forte da riuscire a sopportare l’evidenza. Evidentemente si sbagliava. Calaid non aveva alcun piano preciso: l’idea di errare senza alcuna meta le mise addosso una terribile angoscia.

«Perché piangi, Arinne?»

«Ho paura, Calaid»

Il vento stava sparpagliando le nubi, rivelando sprazzi di cielo terso. Come piccoli lumini, le stelle fecero la loro comparsa tutt’intorno al disco argenteo. Arinne si chiese se anche le stelle, come lei, si sentissero piccole e insignificanti. La sua luna era il fratello, di cui ammirava l’ostinato spirito di intraprendenza. Nonostante l’incursione di quei nemici senza volto né un nome, era riuscito a mantenere il sangue freddo, conducendoli sani e salvi fuori dal villaggio. Un traguardo notevole, certo, ma la notte era ancora lunga e il giorno non avrebbe che moltiplicato le loro incertezze.

«Dovresti essere contenta» la rincuorò Calaid «è merito tuo se siamo qui, se non ci avessi avvertiti ...».

«Il merito non è mio, è di Persefone. Io non sono che uno strumento della sua magia».

Scambiarono poche altre parole, spesso intervallati da lunghi silenzi. Dopo aver ripreso fiato si spostarono, sempre al limitare del bosco, fino ad avere una buona vista sul villaggio. Anche da quella distanza riuscivano a distinguere i contadini celtici, piccole figure scure raggruppate come un gregge.

«Che ne faranno di loro?»

Calaid si strinse nelle spalle.

«Probabilmente li condurranno nel loro covo, incolonnati e legati in modo che non possano fuggire. Se non moriranno di stenti lungo la via, diverranno schiavi».

«Schiavi?»

Arinne ne aveva sentito parlare qualche volta, ma non era sicura di conoscere bene quel lavoro. A Piatra Carvii non c’erano schiavi: solo contadini, allevatori e artigiani, e lei non si era mai allontanata da quel piccolo mondo.

«Si, schiavi»

Calaid non sembrava propenso ad approfondire, così la ragazza non pose ulteriori domande. Rimase in silenzio, attenta ai rumori del bosco. Il vento faceva ondeggiare le cime dei tassi e delle querce. Come una piccola orchestra, i grilli e gli uccelli notturni assecondavano quel ballo con i propri versi. Di tanto in tanto si udiva lo scricchiolare delle foglie secche o lo spezzarsi di un ramoscello. Quando accadeva, Calaid si acquattava al suolo, facendo cenno alla sorella di non far alcun rumore.

«Potrebbe essere il nostro inseguitore, o anche solo gli animali del bosco» le spiegava, tornando a scrutare la valle. A giudicare dai movimenti, i nemici stavano preparandosi a ripartire.

Quella scoperta ricordò loro che il fiume era ancora lontano.

Con il corpo indolenzito, Arinne riprese a seguire il fratello. La stanchezza le impediva di concentrarsi sulla fuga, così era il fratello a indicarle di volta in volta i passi in cui il pendio era più agevole. Calaid conosceva ancora abbastanza bene la zona e seppe guidarli agevolmente. Salirono per un breve tratto lungo il fianco della montagna, poi presero a discendere il versante in direzione del fiume. Dove la vegetazione inghiottiva il sentiero, il coltello del fabbro riapriva la via. Gli alberi erano così grossi che non sarebbero bastate due persone per cingerne completamente il tronco. Protendevano le fronde come dita nodose, precludendo loro la vista delle stelle. I cespugli insidiavano le gambe, celando i tratti di terreno più cedevole. Calaid aveva avvertito la sorella di tenere gli occhi ben aperti e, anche se fece del proprio meglio, Arinne finì con l’essere inghiottita dalle insidie del terreno. Le bastò un passo falso per ritrovarsi a scivolare giù lungo il pendio. Cacciò un urlo e cercò di aggrapparsi a qualcosa, ma le mani scivolavano sul tappeto di foglie, riuscendo solo a strappare inconsistenti ciuffi d’erba. Lo schianto contro un albero le graffiò il volto.

«Arinne!»

Calaid la rimise in piedi, assicurandosi che la caduta non avesse lasciato più di qualche livido. Il volto del giovane era contratto, gli occhi verdi fiammeggianti di furore. Per un attimo la ragazza temette che fosse stata la propria sconsiderata inesperienza a suscitare l’ira del fabbro ma, nel sentirlo inveire contro i nemici capì: la premonizione, l’assalto, la fuga. Tutto era accaduto così in fretta. Si ritrovavano in una matassa ingarbugliata, senza sapere come vi fossero stati invischiati. Meno di un giorno e della placida vita in cui avevano vissuto per tanti anni non erano rimasti che ceppi fumanti.

«Riesci a camminare?» le chiese Calaid, studiando quel poco di cielo che riusciva a vedere in modo da ritrovare la giusta direzione. Arinne mosse alcuni passi. Aveva la tunica annerita imbrattata di fango e la coscia destra che doleva ogni volta che la sfiorava.

«Certo, sono solo pochi graffi» assicurò al fratello. «Non ci siamo smarriti, vero Calaid?»

Un sorriso addolcì il volto del fabbro.

«Ma che dici, Arinne? Non siamo molto lontani da ...»

La frase sfumò gradualmente, lasciandoli in silenzioso ascolto. Al di sotto dello stormire delle foglie, un suono grattava le loro orecchie. Udibile appena, divenne sempre più nitido, rivelando qualcuno in rapido avvicinamento. Calaid immobilizzò la sorella contro il tronco di un albero, tappandole la bocca. Un ululato imperò sul brusio della foresta, un verso agghiacciante che riverberò fra i rami terrorizzando Arinne fino all’anima.

«Il cane nero» sussurrò Calaid, con spaventevole certezza «ci ha trovati».

Si guardò attorno con aria confusa, come se stesse cercando di rimettere assieme brandelli di un pensiero rimasto a metà.

«Il fiume, dobbiamo scappare».

Se la fuga dei fratelli fu precipitosa, l’inseguimento della bestia lo fu ancor di più. Proprio quando pensavano di averlo seminato, il nemico era balzato fuori dalla notte. Arinne si morse le labbra, tentando di non cedere al dolore che l’attanagliava. Che il trambusto della caduta avesse attirato l’avversario, tradendo la loro presenza non era da escludere, ma un pensiero ben più agghiacciante si fece spazio nella mente della ragazza: la creatura aveva lasciato che i fratelli trovassero riparo nei boschi. L’orrenda evidenza di quella riflessione sembrava prendere corpo nelle difficoltà con cui riuscivano ad avanzare. Il bosco intero intralciava la loro fuga, schiudendo sentieri nascosti a una bestia famelica che, nella mente eccitata della ragazza celtica, assumeva fattezze mostruose. Precipizi, tronchi caduti e massi li costrinsero continuamente a tornare sui loro passi. Mutavano continuamente il tragitto, ora cercando di andare a nord, ora sperando di allontanarsi dalla creatura, finché non si abbandonarono in mezzo a una radura, ormai allo stremo.

«Maledizione, non capisco più da che parte stiamo andando!» imprecò Calaid, colpendo con un pugno il tronco di un albero.

«Sembra ovunque attorno a noi» gemette Arinne, stringendosi al fratello.

Per quanto intricato fosse il cammino percorso, il cane nero diede prova di uno strabiliante senso dell’orientamento. In più di un occasione i fratelli ne intravidero l’imponente sagoma scura ringhiare ferocemente dietro di loro, ma ogni volta ne riuscivano a evitare i tentativi di ingaggiare uno scontro.

Fu con l’astuzia che la bestia li intrappolò. Proprio quando sperarono di averla seminata, eccola rizzarsi innanzi a loro coi suoi orribili occhi viola: li aveva aggirati, tagliando il sentiero lungo il quale stavano fuggendo.

Di ciò che accadde, Arinne non vide che pochi frammenti distorti dalle lacrime.

Il fratello che le urlava di fuggire e la bestia che lo azzannava alla gamba. Una lotta sporca e confusa, terminata con un ruzzolone giù lungo il declivio e un dirupo.

Poi il pastoso sapore del fango in bocca e un’improvvisa sensazione di frescura.

«Calaid, il fiume!»

Arinne urlò di gioia, gli occhi incapaci di schiodarsi dal solco fra le rocce in cui l’acqua scrosciava, alzando spruzzi argentei nella notte. Strisciò a carponi fino a un albero, rialzandosi con grande fatica. Sentì rianimare dentro di sé una debole scintilla di speranza, che si spense alla vista del fratello ferito, faccia a faccia con la creatura.

Calaid teneva ben in vista il coltello, scoraggiando con decisi movimenti dell’arma l’avvicinarsi della creatura. Aveva una mano premuta contro la coscia, segnata da una ferita sanguinante. Nonostante la fatica e l’emorragia, i suoi occhi mostravano la decisione di vendere cara la pelle.

«Arinne, segui il fiume» le ordinò con la voce spezzata dalle fitte di dolore. «Più a valle troverai un guado, attraversalo. Corri, io lo terrò impegnato. Corri e sarai salva!».

La ragazza premette una mano contro la bocca, soffocando un urlo. Seguire il fiume? Attraversare il guado? Dove sarebbe potuta arrivare da sola? Singhiozzava, incapace a muoversi e parlare. Non avrebbe abbandonato il fratello fra le fauci della belva.

Sotto gli occhi dei due fratelli, la Bestia aveva mutato aspetto. Un attimo prima avevano di fronte un cane, ma poi il muso si era ritratto, le zampe allungate e la schiena rialzata, sfumando nelle forme di un uomo.

Un uomo? No, non poteva essere un uomo.

Nessun uomo possedeva delle orecchie a punta e un colorito cinereo come quella creatura. I capelli di un bianco slavato erano raccolti dietro la nuca e alcuni ciuffi, sfuggiti a quella spartana acconciatura, incorniciavano un viso largo e piatto. Gli intensi occhi viola narravano di una provata esperienza da guerriero, resa ancor più evidente da una corazza rosso amaranto dalle linee dure.

«Abbiamo distrutto i guadi sul fiume» esordì la creatura in un traballante latino, fissando con distaccata superiorità i fuggitivi.

Quando mosse un passo verso Arinne, Calaid urlò selvaggiamente. Si era alzato, il viso pallido per il sangue perso, serrando la presa sul coltello. Alzò un braccio tremante verso l’avversario, ma il suo gesto, svuotato da ogni significato di minaccia, appariva dettato soltanto dalla disperazione.

«Cosa credi di fare, Erhain?» lo incalzò il mostro.

Calaid sputò su quel volto inumano e, chiamando a raccolta le sue ultime forze, tentò un attacco. La creatura scivolò di lato, schivando senza difficoltà un rabbioso affondo, poi con un gesto svogliato segnò la schiena del giovane celta con un fendente di spada. La lama, sfavillante al chiaro di luna, si tinse di rosso.

«Calaid!»

Arinne tremò e si abbandonò al suolo. Alla vista del corpo riverso sul terreno ebbe il timore di aver perso per sempre il fratello poi, quando il nemico abbandonò con un calcio ciò che ne restava alle acque del fiume, ne ebbe la certezza. Non si lanciò fra le acque tentando di salvare Calaid, non ne avrebbe avuto il coraggio. Rimase dov’era, la mano stretta al ciondolo di Persefone, osservando le anse spumanti del torrente finché il guerriero non l’inghiottì nella sua ombra.

«Andiamo» le disse, artigliandola per l’orlo della tunica.

Si lasciò issare su quelle spalle vigorose senza opporre alcuna resistenza, i capelli castani impiastrati di sangue, gli occhi verdi spenti.

Poco dopo perse i sensi, soprafatta dagli eventi.

Un’alba pallida e fredda incombeva sulle colline, ma non furono i muggiti delle mandrie ad accoglierla, né la ruota del vasaio. Come un relitto abbandonato, Piatra Carvii rimase sopita in un sonno da cui nessuno l’avrebbe più destata.



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Capitolo 4
*** Prigioniera degli Elfi Onirici ***


La cella era fredda, e Arinne si strinse nelle spalle cercando di scaldarsi. Una torcia, affissa alle pareti di roccia, smorzava l’oscurità della stanza in una tetra penombra. Il guizzare della fiamma si infrangeva sul pavimento irregolare, popolando il cubicolo di ombre sinistre. L’odore di chiuso dava la nausea, sensazione acuita dal soffitto basso al punto da risultare schiacciante.
Gli occhi di Arinne vagavano inquieti, cercando un modo per interrompere l’oppressiva monotonia che la circondava. Immaginare dei disegni nelle macchie d’umidità dei muri aveva avuto come unico  risultato quello di partorire figure d’incubo, allucinazioni distorte di una mente accecata dal dolore.  Quanto tempo era passato? Non riusciva a rammentare. Ricordare, a che pro?
Nel silenzio sommesso della prigionia, riflettere era uno dei pochi lussi rimasti. Ma Arinne non voleva riflettere. Con immane fatica aveva eretto un muro fra sé e gli ultimi eventi della propria vita. Si sforzava di credere che nulla di tutto ciò che aveva visto fosse realmente accaduto. Avrebbe preferito vivere una menzogna, piuttosto che fare i conti con gli occhi verdi di Calaid. Quegli occhi, il cui ultimo ricordo era un guizzo di feroce follia, soverchiavano ogni speranza di dimenticare.
E giungeva la bufera: l’inaspettato risveglio, il misterioso attacco delle creature, la tragica fuga da Piatra Carvii e il duello fatale. Ogni immagine, una raffica di vento gelido che tormentava la propria anima. Ogni immagine, una foglia staccata da un albero che iniziava ad avvizzire.
Le lacrime risalivano dal cuore, rigandole le guance, e il mondo prendeva a vorticare. Era costretta a graffiare la roccia con le unghie per non lasciarsi trascinare via dalle paure. Un fiume in piena, le cui acque avevano già inghiottito Calaid, rischiava di affogarla.
Aria. Aria. Aria.
Boccheggiava, soffocata dalle paure di un mondo sconosciuto. Strappata dalle braccia protettive del fratello, doveva cavarsela da sola. Si strinse le ginocchia, ondeggiando avanti e indietro: sapeva di non farcela. Provò l’impulso di urlare, ma ogni fibra del corpo sembrava paralizzata nella morsa del terrore.
Una speranza sfuggente, un volto.
Hyrem. Anche lei era stata catturata, quindi doveva essere lì da qualche parte. Frugò fra le grigie figure che la circondavano nell’estremo bisogno di scovare qualcosa che risultasse vagamente familiare, ma attorno a sé vide solo corpi smunti, piegati e abbruttiti da indicibili sofferenze. Gran parte di essi professava una provenienza celtica, più raramente romana, anche se Arinne stentava quasi a definirli come uomini. Parlavano poco e stavano isolati, gli occhi infossati che mostravano diffidenza ai nuovi arrivati. Una popolazione in misero declino, che le creature avevano rinverdito con la rappresaglia a Piatra Carvii.
Ma di Hyrem nessuna traccia.
Premette le mani contro le tempie, soffocando conati di vomito. Dove era finiti gli altri prigionieri? Inghiottiti, tra le pieghe di un incubo che non smetteva di riservare nuove sorprese. Sulla fronte il sudore condensava in rivoletti che le scendevano ai lati del viso. Gli occhi bruciavano. Bruciavano. Certamente doveva essersi ingannata, non poteva essere altrimenti. Hyrem doveva essere lì. Doveva. Non poteva essere stata privata persino di lei.
Oh, Cailaid! Calaid.
Ripeteva il nome del fratello in una nenia infinita, come se fosse capace di spezzare il venefico incantesimo che la stava prosciugando da ogni energia. Esausta, scivolò lungo la parete. Cadde rannicchiandosi in posizione fetale. Fu allora che sentì al collo la piccola medaglietta con il nome di Persefone. Un’ondata di sollievo. Almeno quella era al proprio posto, i nemici non vi avevano badato. Era ben poca cosa, ma riuscì comunque a lenire l’orrore di tutte le altre privazioni. Mormorò una preghiera a fior di labbra. Per Calaid, affinché giungesse sano e salvo alle porte dell’Ade. Le forze le vennero meno prima ancora di terminare l’invocazione alla propria Dea. Tutto sembrò scivolare nel nulla di un torpore irrequieto, un sonno senza alcun ristoro.
Un volto scarno, incorniciato da una barba scura e incolta, era chino come se la stesse studiando. Arinne si rizzò immediatamente a sedere, ritraendosi impaurita: non era il migliore dei risvegli. Strabuzzò gli occhi, mettendo a fuoco la sagoma di un uomo che le era sconosciuto.
«Non sei morta, quindi»
Il prigioniero parlava con una voce priva di qualunque sfumatura. Aveva la testa rasata e occhi profondamente infossati. La muscolatura segnata da cicatrici lo facevano rassomigliare a uno degli eroi delle leggende celtiche. Era chiaro che facesse del proprio meglio per mantenere in ordine il proprio aspetto, con risultati piuttosto scarsi: i pochi cenci e l’odore sgradevole lo avvolgevano in una bruciante miseria.
«N-no, pensò di no» farfugliò la celta.
Il carcerato sporse la testa in avanti, per nulla turbato dall’ovvia osservazione, increspò un angolo della bocca in una smorfia e sedette a fianco della ragazza.
«Avevi un nome?»
Impegnato com’era a sfrattare una pulce dalla lunga barba, Arinne dubitò che il compagno avesse udito la risposta. Non aveva alcuna intenzione di ripetersi due volte, né tanto meno di porre domande a quella bizzarra figura. Era intimorita. Forse i propri occhi avrebbero tradito il sentimento? Ritenne saggio tenere lo sguardo fisso ai propri piedi.
«I bastardi hanno fatto un’altra delle loro scorribande»
Non sembrava una domanda, così Arinne si limitò a rispondere con un cenno nervoso del capo.
«Altri schiavi»
Un ombra passò il viso del prigioniero. Le labbra serrate rivelavano un profondo disprezzo per le misteriose creature, ma gli occhi sembravano svuotati da ogni emozione, risultando in uno sguardo vacuo e fisso.
«Schiavi»
Arinne mormorò con un filo di voce quella parola che aveva tutto il sapore di una rivelazione. Schiavitù, ciò che Calaid le voleva nascondere. Una verità spigolosa e amara, di cui la ragazza avrebbe volentieri fatto a meno.
«Da dove venite?»               
«Piatra Carvii»
Lo schiavo si strinse nelle spalle, lisciandosi la barba incolta. Evidentemente non conosceva quelle colline celtiche. Come poteva biasimarlo? Piatra Carvii era un centro assolutamente privo di importanza: una zona banale disseminata di villaggi, molti dei quali senza nemmeno un nome.
«Ti ho vista piangere. Tutti piangono all’inizio. Ma poi si abituano. Ti abituerai anche tu. Come tutti.»
Arinne schiuse la bocca in un’espressione di stupore. Se il compagno aveva fatto un tentativo per consolarla, aveva miseramente fallito l’obiettivo. Si scoprì a tremare e lottò per non darlo a vedere. Non era facile ignorare la situazione in cui si trovava e, in breve, cadde vittima dei ricordi. Abituarsi? Come era possibile abituarsi, quando risultava difficile persino accettare ciò che i propri occhi avevano scorto nei giorni immediatamente seguenti la cattura?
Il viaggio era iniziato appena dopo l’alba.
Le creature aveva imposto ai prigionieri una lunga marcia verso il nord. Legata per la vita e i polsi agli altri profughi, Arinne aveva osservato con stoico distacco il lento sfilare degli alberi. Vi erano stati pochi tentativi di rivolta, tutti sapientemente domati anche a costo della vita di qualche profugo. I nemici avevano guadato i fiumi improvvisando un ponte di tronchi, poi li avevano costretti a viaggiare per molti giorni. Arinne non era riuscita a capire la direzione presa, né aveva avuto interesse a farlo. Di tanto in tanto aveva rivisto Cane Nero, anche se non le aveva mostrato alcuna attenzione. Evidentemente ciò che era successo fra di loro faceva parte della normale routine del guerriero. Era lui a scegliere uno dei propri compagni e mandarlo in avanscoperta davanti la colonna di schiavi. Anche le altre creature mutavano il proprio aspetto in animali, ognuno diverso dall’altro. Tutti avevano le orecchie a punta e gli occhi delle più svariate sfumature. Erano arroganti con i prigionieri, sicuri di sé e insofferenti agli ordini. Al calar della notte, inspiegabilmente, divenivano guardinghi, estremamente cauti e ben più inclini a prestare ascolto a Cane Nero, a buon diritto il più anziano della truppa.
Boschi, fiumi e montagne si susseguivano in monotona successione, rendendo il paesaggio sempre uguale a se stesso. Arinne aveva scoperto di trovarsi alle pendici dei Montes Carpates solo perché uno dei prigionieri ne aveva riconosciuta la linea imponente e frastagliata. Quelle montagne abbracciavano tutta la Dacia da sud a nord, per cui era impossibile dire con esattezza dove sorgesse la città della creature.
Si inerpicarono fra i picchi, fino a trovarsi di fronte a un’immensa caverna, ampia molte centinaia di metri. Da imponenti archi traforati nella pietra, cascate di luce illuminavano l’intero complesso, riverberando sulle pareti in un caleidoscopio di sfumature ocra. Sotto un cielo di roccia si ammassavano abitazioni scure, che contendevano il proprio spazio a macchie di vegetazione incolta. Costruzioni dalle forme squadrate, separate da polverose stradine che si snodavano in un soffocante labirinto. Di tanto in tanto le viuzze anguste si aprivano in spiazzi lastricati da cui si scorgevano scorci d’acqua scura e immota. Arinne aveva ammirato quelle forme confuse con un misto di sorpresa e distaccata malinconia. Attorno a lei ogni cosa riusciva a esaltare soltanto se stessa: se anche esisteva un vago senso d’armonia, era scavalcato da un’ossessiva arroganza. Una smodata ricercatezza, adombrata da un senso di abbandono, come se quella città non fosse parte del popolo che vi abitava.
Nessuna delle creature aveva prestato attenzione al corteo di prigionieri più di quanto avesse fatto coi propri vicini. Sotto lo sguardo indifferente dei cittadini, i nemici li avevano condotti nei recessi più bui di quella caverna: un quartiere sinistro, nemico della luce del sole, in cui la via era malamente rischiarata da torce fumiganti. Ad accoglierli, una squallida casupola attorniata da alte mura. Lo spiazzale che separava il cancello dalla costruzione si sforzava di trasmettere calore, ma era talmente sporco da dare il voltastomaco. Qualcuno lo aveva chiamato Mercato degli Schiavi, e sotto quel miserabile atrio si aprivano le celle riservate ai prigionieri.
In una di queste camere sotterranee Arinne attendeva, assieme a diverse decine di prigionieri,  il proprio futuro in un logorante silenzio inframmezzato da cupi pensieri. Poggiò la testa sulle proprie ginocchia, abbandonandosi a un pianto liberatorio. Ancora una volta si sentì divorare dal vuoto che la scomparsa di Calaid le aveva lasciato nella vita.
«Smettila di piangere, Arinne» le suggerì il burbero compagno.
Con sorpresa, avvertì una sfumatura di dolcezza nella sua voce. Era una nota vaga e lontana, quasi dimenticata nella sinfonia della schiavitù, ma fu abbastanza per scaldare il cuore della ragazza.
«Avevo una figlia nelle terre romane, aveva all’incirca la tua stessa età» proseguì l’uomo, con un roco sussurro. «Ogni notte sogno il suo viso. Mi figuro come sia cambiata in questi anni, dall’ultima volta che l’ho vista. E ogni notte scopro che, quando sei uno schiavo, anche sognare può far male.»
Si interruppe di colpo, scacciando nel silenzio i fantasmi della propria vita. Arinne vide il prigioniero protendere un dito ad asciugarle le lacrime, o forse a profonderle una carezza, ma ritirò il braccio appena prima del contatto.
«Tutti noi abbiamo perso qualcuno di importante, Arinne.»
Una conclusione lapidaria, pronunciata con freddo distacco. Per la prima volta da quando aveva iniziato a pararle, Arinne vide veramente l’uomo che stava dietro quella barba unta e appiccicaticcia. Si sentì unita a lui da un vincolo invisibile, una catena forgiata nel sangue e nella prigionia e volle saperne di più.
«Come ti chiami?»
Lo schiavo la guardò dritta negli occhi e la ragazza ebbe l’impressione che l’altro le stesse scandagliando l’anima prima di accettare quel patto di mutua fratellanza. Puntellandosi con le braccia, l’uomo si erse dall’alto della propria imponente statura.
«Sono Gaio Valeriano, centurione della Terza Legione» ruggì, distendo il braccio nel tipico saluto romano.
Rannicchiata nell’ombra, Arinne si sentì rimpicciolire fino alle dimensioni di un granello di polvere. Non aveva mai conosciuto un soldato imperiale, meno che mai un ufficiale. Calaid ne aveva sempre parlato con una sfumatura di velata ammirazione e ora ne capiva il motivo: negli occhi di Valeriano bruciava un orgoglio che parlava di dovere e disciplina. Era lo sguardo inflessibile di un soldato di Roma, lo sguardo dell’Aquila che domina il mondo, lo sguardo della Lupa che non conosce la parola arresa. Il petto gonfio di determinazione, il centurione sembrava avere in sé una forza in grado di travalicare i limiti dello spazio e del tempo. Arinne non aveva mai visto nulla di simile in nessun uomo celtico e ne fu affascinata.
Ma durò un solo attimo, poi la scintilla magica si spense e Valeriano tornò a essere lo schiavo polveroso, curvo sotto il peso di molti più anni di quanti ne possedesse realmente.
«Ti manca la tua città, vero?» chiese Arinne con composto rispetto.
Valeriano rispose con voce atona, gli occhi spenti fissi davanti a sé.
«A chi non manca la propria terra?»
Arinne si sentì stupida per aver fatto un’osservazione talmente ovvia da risultare offensiva e, quando Valeriano si chiuse in un silenzio meditabondo senza più accennare una conversazione, temette di aver sbagliato ad alludere al passato del soldato. Si ricredette poco dopo: come ognuno in quella cella, anche il compagno aveva diritto a piangere i propri morti.
Passò molto tempo, senza che nulla turbasse la quiete rassegnata dei prigionieri.
Arinne iniziava a provare i morsi della fame. Immaginò che i lunghi digiuni fossero solo una delle tanti abitudini a cui si sarebbe dovuta abituare. Alla nausea e alla stanchezza si unì un senso di disorientamento, dovuto all’impossibilità di scorgere il sole. Senza il disco dorato a scandire la giornata, tutto era racchiuso in un eterno presente, svuotato da ogni riferimento. Fu colta da una smaniosa voglia di tenersi impegnata, un po’ per scacciare i ricordi del fratello scomparso, un po’ per non cedere alla minaccia di un lento logoramento.
Attraversò la cella fino alla parete opposta, facendo attenzione a non importunare il sonno degli altri prigionieri. Nel muro si aprivano delle finestre, strette fessure che assicuravano il ricambio di aria. Erano talmente alte che Arinne dovette mettersi in punta di piedi per riuscire a sbirciare aldilà delle grate. La precaria posizione le offrì una vista sul lurido spiazzale del Mercato degli Schiavi, lo stesso cortile per cui era stata condotta poco tempo prima. Cumuli di polvere e detriti rocciosi punteggiavano le piastrelle all’ombra di mura dalle proporzioni ciclopiche. Arinne imputò l’effetto ottico alla particolare posizione da cui osservava: si trovava appena sopra il livello del terreno. Aveva già visto quel cortile quando aveva percorso la strana città, e la recinzione le era sembrata piuttosto anonima e priva di segni distintivi.
L’attenzione della ragazza fu attratta da un chiacchiericcio alla propria destra. Addossate alla cinta muraria, due lunghe fila di panche in legno correvano fino all’unica uscita del Mercato. Sedute sui sedili, due creature conversavano. L’armatura li identificava come guerrieri, forse delle guardie, benché il tono allegro della conversazione lasciasse pensare a una pausa. Arinne si sforzò di seguire la discussione fra i due ma, come già era accaduto, non riuscì a comprendere l’idioma dei nemici.
Cosa credi di fare, Erhain?
Di certo, però, quei mostri conoscevano il latino e anche la lingua celtica. Guardò con un misto di curiosità, timore e repulsione quelle strane creature dalle orecchie a punta. Una lieve corrente d’aria fece guizzare la fiaccola della cella, minacciando di far piombare l’angusta prigione dell’oscurità. Arinne assaporò la sensazione dei capelli sfrangiati dalla. Si trovava in un angolo remoto della grande caverna che ospitava la città: il vento era raro e carico di odori sgradevoli, il sole solo un miraggio.
«Anhar’ii Erhain, me thas yu ter?»
Uno dei guerrieri si era accorto della presenza della ragazza e aveva commentato qualcosa. Certamente una battuta, a giudicare dall’occhiata rapace e maliziosa che l’altro essere le aveva rivolto. Arinne si lasciò scivolare di nuovo nella cella con le risate arroganti dei due nemici ancora nelle orecchie. Nella foga di ritrarsi dalla finestra si era sbucciata un ginocchio, ma non fece caso al bruciore e tornò di nuovo al proprio posto.
«Cerca di attirare meno possibile la loro attenzione» le suggerì Gaio Valeriano, acciambellandosi sulla roccia nuda. «Ti risparmierai qualche umiliazione»
«Riesci a capire la loro lingua?»
«Solo qualche parola»
Arinne rimase in attesa, gli occhi verdi invitavano il soldato romano a proseguire.
«Non chiedermi di tradurti»
«Perché?»
«Sei troppo dolce per essere avvelenata dalle loro frecciatine sconce»
Arinne arrossì e con le mani si sgualcì l’orlo della veste con fare imbarazzato. La sorpresa per ciò che Valeriano le aveva detto superava l’indignazione verso quelle creature. Troppo dolce. Era forse un complimento? No di certo. Il tono del compagno era ruvido, come se essere dolce fosse una colpa da espiare in fretta per evitare futuri guai.
«Cosa sono quelle creature?» chiese timidamente a quell’uomo che, per quanto burbero, ne sapeva più di lei.
«Eldhen»
Gaio Valeriano masticò la parola con ribrezzo, poi sputò davanti a  sé allontanandone il sapore amaro.
«Non ne ho mai sentito parlare»
«Nella nostra lingua si fanno chiamare Elfi. Elfi Onirici, per distinguersi dagli altri»
«Dagli altri? Vuoi dire che esistono altre creature del genere?»
Arinne non poté trattenere la domanda, né l’incredulità che si dipinse sul proprio volto.
«Stando a sentire ciò che dicono, si» le spiegò il soldato, liquidando l’intera faccenda con una scrollata di spalle. «Io non ne ho mai visto altri».
La rivelazione confuse Arinne. Senza troppi giri di parole, Valeriano stava sollevando un lembo del velo che, fino a ora, aveva coperto il mondo in cui la ragazza celtica aveva vissuto.  Elfi. Quanti altri segreti riposavano sotto il velo? Si figurò esseri dalle orecchie a punta nascosti fra i boschi di Piatra Carvii. Magari era sempre stati lì, persino prima che lei e Calaid fossero nati. La prospettiva di essere spiata da creature di cui non conosceva l’esistenza aveva qualcosa di inquietante.
«Gran parte di loro sono guerrieri superiori alla norma» appurò stizzito Gaio Valeriano. «Trasformarsi in animali è solo uno dei loro poteri.» 
Arinne arrotolava una ciocca di capelli castani attorno al dito, ben attenta a non perdere nessuna parola della preziosa spiegazione,
«Il loro sguardo è magnetico. Se non hai una gran forza di volontà possono convincerti a fare qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa, Arinne. Anche se solitamente si limitano a prendere con la forza ciò che serve loro. Non sono molto inclini alla diplomazia.»
Con lo sguardo inviperito Gaio Valeriano si rigirò sul proprio giaciglio, cercando di prendere sonno. Arinne rimase ammutolita. Le serviva del tempo per digerire le informazioni del compagno. Nella sua mente le parole del soldato si mescolavano a frammenti di ricordi, come tessere di un mosaico che iniziava a ricomporsi.
Mancavano ancora tante tessere, ma già le sembrava di scorgere l’immagine finale.
Gran parte di essi sono guerrieri superiori alla norma.
Cane Nero. Aveva schivato i colpi di Calaid con fare annoiato e gli era bastato un colpo svogliato per recidere i fili che legavano Arinne al fratello.
Si limitavano a prendere con la forza ciò che serve loro.
Avevano bisogno di schiavi. Questo riusciva a capirlo da sé, ma perché uccidere Calaid? Fece decine di congetture, più o meno realistiche. Si lambiccò il cervello per tanti di minuti, approdando a un’unica conclusione possibile: aveva opposto resistenza.
La notte dell’attacco, gli elfi avevano fatto una prima selezione da cui erano stati scartati gli individui fisicamente più deboli e coloro troppo agguerriti. Chi era rimasto? Gente come lei, incline alla rassegnazione e dallo sguardo mite simile a un agnello sacrificale.
«E la loro città? Cosa mi dici della loro città, Valeriano?»
Il soldato sbadigliò, voltandosi verso la ragazza.
«Si chiama Uran e si annida fra i Montes Carpates, solo gli Dei sanno dove.»
La risposta scarna le lasciò intendere che lo schiavo aveva esaurito la voglia di elargire spiegazioni, ma Arinne aveva bisogno di spiegazioni. Doveva capire. La sua mente non era abituata alla lungimiranza e riflettere l’infiacchì al punto tale da costringere ad abbandonare ogni elucubrazione.
«Valeriano.»
«Si?»
Aveva un’ultima domanda, ma esitava a porla.
«C’è un modo per andare via da qui?»
«Arinne.»
«Si?»
«Sai che significa Uran?»
«No.»
«Sepolcro dei sogni»
«Oh.»
«Sepolcro, Arinne. Da qui non si esce. Nemmeno da morti. Quando il tuo corpo cessa di vivere, viene dato in pasto alle loro bestie. È così che insegnano loro a combattere gli umani.»
Rise sguaiatamente, forse trovava l’idea divertente.
«Ora dormi, Arinne. Domani verranno a prenderci. Parlare non ti aiuterà nella giornata di duro lavoro che ci aspetta.»
La ragazza si sdraiò sulla roccia umida e guardò le ombre danzare sul tetto della caverna. Più cercava di distogliere la mente dalle parole di Gaio Valeriano, meno si sentiva incline a riposare. Infine, dopo un tempo che le sembrò infinito, scivolò in un sonno inquieto popolato da un paio d’occhi viola.
Gli occhi di Cane Nero. 

L'ANGOLO DEL BARDO:
Avere l'aggiornamento pronto da almeno 4 giorni e non poterlo pubblicare è davvero qualcosa per cui rodersi -.- Ma, finalmente, fra tanti salti acrobatici sono riuscito a sgusciare su efp per pubblicare l'inizio del secondo capitolo (grande traguardo, dato la mia tendenza a "distrarmi" con altri progetti xD xD). di seguito troverete, come al solito, la mappa della Dacia con evidenziata la posizione di Uran, ma non solo *squilli di trombe* troverete anche la mappa dell'intera città elfica! C'ho studiato sopra per tanti giorni, e mi ha richiesto un bel pò di prove prima di avere fra le mani qualcosa di lievemente decente ma va bene anche così xD xD è così minuziosamente disegnata ... che non ho trovato la spazio per aggiungere i nomi degli edifici più importanti della città ^^" *smettono di suonare le trombe* xD Vedrò di studiare una soluzione per questo annoso problema ;) Grazie per la lettura, a presto!
PepperS, il Bardo di Efp


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Capitolo 5
*** Il Riflesso dello Specchio ***


Ceylon si inumidì le labbra. Non era la paura a rendergli la gola secca, piuttosto la consapevolezza. Il cielo era d’acciaio, livido e sfumato da strisce gialle e verdi. Un’atmosfera così irreale non lasciava alcun dubbio: si trovava in un sogno. Nello studiare la desolazione immota che lo circondava, l’elfo portò una mano sopra gli occhi. Alberi scheletrici si assiepavano sulla carcassa arida della terra, non lasciando altra via che il sentiero su cui Cane Nero si trovava. 
Era stato lì troppe volte nelle ultime settimane. Un unico incubo, ricorrente fino all’ossessione. Mosse alcuni passi, poi si fermò. Con la punta dello stivale sollevò una pietruzza, lasciando un incavo secco e polveroso. Il braccio scivolò oltre le spalle, scostando appena la spada dal fodero. Ogni movimento faceva cigolare la corazza. Nel silenzio che lo circondava, anche il più piccolo rumore era assordante, ma Ceylon non se ne curava: tentare di passare inosservati serviva a ben poco. Sarebbero arrivati. Anche questa volta. Lo avrebbero trovato, non importa in che direzione correva, quindi tanto valeva affrontarli a viso aperto.
Sguainò l’arma. La pietra rossastra che impreziosiva il pomo sembrò infiammarsi alla fievole luce del cielo. L’impugnatura non era che una lamina d’argento larga pochi centimetri, ripiegata rozzamente su un imbottitura di cuoio fin sotto la guardia. Quest’ultima era priva di decorazioni, come pure la lama. Il risultato era una spada pressappoco banale, un’opera mediocre che nessun fabbro avrebbe mostrato a un guerriero di una certa fama. Eppure Ceylon non l’avrebbe avrebbe scambiata con nessun’altra arma. Era maneggevole e ben affilata. Gli bastava. Al resto avrebbe pensato la sua mano. I muscoli si tesero come la corda di un’arpa che attenda l’inizio dello spettacolo per far sentire la propria musica. Gli istinti da Elfo Onirico si stavano risvegliando, destati dalla mattanza che da lì a poco si sarebbe scatenata: le pupille si assottigliarono a piccole fessure, cercando tracce di vita nel cuore di quel bosco esanime, e i canini brillarono fra le labbra serrate. Dovette sforzarsi per riprendere il controllo di sé. Pian piano le pupille tornarono a essere due soli scuri sprofondati in un’iride violacea e i denti si ritrassero.
Sarebbe stato un grave errore sottovalutare una battaglia ardua come quella che gli si prospettava. Se fosse morto in sogno, il suo corpo non si sarebbe più destato. Forse lo avrebbero scambiato per un dormiente, almeno finché la pelle grigia non fosse sbiadita in un pallore mortale. Cose del genere accadevano con discreta frequenza a Uran, e nessuno ormai si sorprendeva più. Addentrarsi troppo nelle visioni notturne poteva rivelarsi rischioso, ma era l’unico modo per un Elfo Onirico di incontrare la Dea Varghas. Ceylon aveva abbastanza esperienza per capire che la Signora dei Sogni era ovunque attorno a lui: nell’albero scuro e nodoso, nelle crepe della terra e nel cielo immobile e silenzioso. Si celava dietro qualsiasi forma, plasmando quella realtà esistente solo nella propria mente. Ogni Elfo Onirico tentava di trarre il massimo da quella comunione di spirito e corpo con la Dea: era così che Varghas allenava i suoi protetti.
«Sbagliate a pensare che i sogni siano solo illusioni» aveva sentito dire molti anni indietro ad una sacerdotessa. «Il corpo non è che un riflesso dello spirito. Chiamate realtà la vostra casa, l’armatura, le armi e i gioielli. Tutto ciò non è che un velo fuggevole posto davanti ai vostri occhi. La realtà autentica sta aldilà di ciò che potete scorgere con i sensi. Prestate fede a queste parole e vi saranno aperte le porte al mondo della Dea Varghas. Solo allora sarete in grado di fare ciò che ci rende Elfi Onirici: potrete allenare la vostra mente e, con essa, anche il vostro corpo si irrobustirà.»
Le parole della sacerdotessa potevano anche essere vere, ma Ceylon sospettava che la mistica aveva taciuto volontariamente sull’altra faccia della medaglia. La Dea Varghas era tanto incline a elargire doni ai più meritevoli, quanto a ignorare le suppliche dei più deboli. Ogni settimana nel cimitero della città veniva scavata una nuova buca per accogliere un elfo smarrito nel sonno.
Con una smorfia Cane Nero scacciò il pensiero. Non c’erano motivi per cui dovesse temere l’ira della Signora dei Sogni. Eppure quella visione sempre uguale a se stessa. Arricciò il naso, un riflesso condizionato dal proprio animale guida. Il momento era vicino. Uno scricchiolio dietro di sé. Colpì senza nemmeno guardare. La lama sibilò nell’aria e la punta di un ramo cadde, falciata dall’arma dell’elfo. Ceylon si allontanò di un passo, gli occhi fissi al legno da cui non stillava nemmeno una goccia di linfa. Un altro scricchiolio. Il guerriero balzò indietro, appena in tempo a schivare l’affondo di un secondo tralcio. Gli alberi si muovevano, prendendolo di mira. Protendevano le loro dita avvizzite, ora tentando di ostacolarne il cammino, ora cercando di coglierlo di sorpresa. Ma Cane Nero non era un combattente facile da cogliere in fallo. Si chinava, saltava, correva e colpiva con precisione, indifferente al pensiero che la selva tutt’attorno si stava trasformando in un esercito pronto a braccarlo. Ringhiò contro un nemico che non aveva volto. La lama guizzava in una danza da cui i rami si ritraevano, per poi tornare subito dopo all’attacco, ancor più numerosi. Non c’era tempo per riflettere. Gli attacchi si susseguivano incalzanti. Si ritrasse appena in tempo a evitare una fronda, che tuttavia gli sfiorò un orecchio. I capelli tirati dietro la nuca si sciolsero, ricadendo sul viso madido di sudore. Una radice si avviluppò attorno al piede. La recise con un fendente. Tentò di riguadagnare l’equilibrio. Non vi riuscì.
Si ritrovò col viso sul terreno secco. Un ramo gli graffiò l’armatura, un altro lo trascinava indietro, un altro ancora mirò fra la corazza e lo spallaccio. Non badò alla fitta di dolore ma brancolò e con gran fatica riguadagnò l’arma. Prese a correre, liberandosi dalla stretta degli alberi. Cercava ancora di schivare i colpi, gli occhi inchiodati al sentiero che si dipanava di fronte a sé come un gomitolo infinito. Alle orecchie gli giunsero dei sussurri indistinti. Erano tutto attorno a sé. Non troppo lontani, eppure ovattati come da una distanza infinita. Era forse la voce della Dea che gli stava parlando? Non poté soffermarsi sul pensiero. Bisognava correre. Scappare. Scappare? No. I nemici erano ovunque: dietro di sé, ma anche davanti. Stava scappando dalla minaccia, e al tempo stesso correndo dritto fra le sue braccia spalancate. Ciò che prima reputava l’unica speranza di vita,  adesso gli sembrava un piano profondamente stupido.
Rallentò e riprese fiato. I contorni degli alberi si stavano facendo sempre meno distinti, sfumando le sagome in ombre. Accennò un colpo con la spada, scoprendo che la lama fendeva l’aria come gli alberi fossero incorporei. Eppure  qualcosa c’era. Lo avvertiva nell’aria che a ogni respiro gli annegava i polmoni. L’idea che le ombre potessero sgusciare dentro il proprio corpo lo innervosì. Con un basso ringhio si abbandonò alla propria forma animale. Si contorse, rimpicciolendosi fino a divenire un mastino dal pelo scuro e irto.
Attraverso i propri occhi di canide, Ceylon vide il mondo tingersi di colori preclusi alla vista di un elfo. Percepiva in modo più distinto anche gli odori, e di nuovo la pressante sensazione di minaccia tornò a pungergli il naso. Si abbandonò a una fuga lungo il sentiero, con le ombre che gli lambivano la coda. Si facevano beffe di lui, attendendo solo un passo falso per piombargli addosso e inghiottirlo. Si sentì scuotere il petto da un’ira incontenibile. Non era una prova legittima lottare contro un nemico contro cui non aveva armi. Nessun guerriero poteva abbattere un avversario privo di un corpo.
Il paesaggio iniziò a mutare. La piana desolante si modellò in una schiera di colline accidentate fra le quali correva il sentiero, giungendo al più alto di quei picchi. Ceylon mordeva il terreno con le unghia, senza badare alla bava che colava ai lati del muso. I sussurri si alzarono in un coro assordante. Premevano sulle orecchie sensibili da cane, ma anche così non riuscì a comprenderne il significato. Si sentì infiacchito dallo sforzo di reggere quei ritmi inumani e provò l’impulso di abbandonarsi alle ombre e a quella nenia che cercava di ammaliarlo. Ma la ferma volontà di vivere lo costrinse ad andare avanti.
Non rallentò nemmeno quando sentì la terra tremare.
Tutte le colline, eccetto la più alta, si sgretolarono in una valanga di roccia e una spaccatura segnò il sentiero davanti a sé. Non rallentò. Sapeva che ce l’avrebbe fatta. Era sempre stato così nelle ultime settimane. La crepa si allargò fino a divenire una voragine che si apriva in un vuoto oscuro e nebuloso. Ceylon tentò di colmare con un balzo la distanza che lo separava dal resto del sentiero. Si rannicchiò e con tutte le proprie forze si librò in aria. Le ombre non avrebbero potuto attraversare quel vuoto, dall’altra parte sarebbe stato al sicuro. Mentre sovrastava la fenditura udì una voce argentina. Una nota lenta e melodiosa sovrastò la cacofonia di sibili e parole intellegibili, annunciando una salvezza che sembrava essergli preclusa. Si ritrasformò in elfo non appena ebbe chiaro che non sarebbe riuscito a raggiungere l’altra sponda del sentiero. Con un grugnito batté contro la dura roccia, scivolando nello strapiombo. Riuscì ad aggrapparsi con una mano, impedendo al vuoto di inghiottirlo.
«Cosa vuoi da me?»
Urlò, contro nessuno in particolare. Le ombre e il coro di voci si attenuarono, lasciando solo il misterioso canto. Solitaria nel sogno desolato, quella voce sembrava sospesa come un manto caldo. Ceylon rimase ad ascoltare quella nota che vibrava di energia, una mano stretta alla spada, l’altra aggrappata alla roccia. Guardò in basso, poi in alto. Il cielo era mutato in una distesa scura quanto una macchia di inchiostro su cui splendeva, solitaria, una falce di luna.
Una falce di luna. Si inumidì le labbra: il simbolo della Dea Varghas.
La roccia su cui Ceylon era aggrappato cadde, sprofondando Cane Nero nel vuoto.
Si destò sul giaciglio su cui stava riposando, sudato e angosciato, ma ancora vivo. Frastornato dal sogno, ci vollero diversi secondi prima che ricordasse dove si trovava. Era una camera dell’Ossario, il luogo in cui gli Elfi Onirici si recavano per sognare: una palestra della mente, un santuario del corpo e un calderone ribollente di chiacchiere sulle novità più scottanti della città. Si rizzò a sedere, poggiando i palmi sul bordo in pietra del letto. Il largo torace di Ceylon si alzava ritmicamente, godendo delle fresche sensazioni della vita. Dalla finestra, unica interruzione in un solido muro in pietra, filtravano i bagliori di una mattina indaffarata: Uran si era svegliata da un pezzo e i suoi abitanti sfrigolavano per le vie come un torrente di figure indistinte. Una lieve brezza cinse l’elfo in un abbraccio, provocandogli un fremito. Si ricordò di essere solo in calzoni.
Un’occhiata distratta alla propria destra lo rassicurò che tutto era come lo aveva lasciato: l’armatura amaranto su un piedistallo di legno, accanto alla porta; la  cotta d’acciaio nero su un comodino, insieme alla spada; la maglia su una sedia, accuratamente piegata. Accuratamente piegata? Ecco un indizio che rivelava il passaggio di una fra le sacerdotesse dell’Ossario. Non faticava a immaginarla in punta di piedi, attenta a non disturbare il suo sonno. Di certo aveva rinvigorito l’incensiere con una buon pugno di Tateesha, l’erba allucinogena usata dalle adepte di Varghas per promuovere sogni e visioni. Il suo odore acre saturava ancora l’aria, librandosi in rigagnoli di fumo. Con la sgradevole sensazione di essere ancora intrappolato in un sogno, Ceylon si sgranchì le gambe.
Si diresse su un lato della stanza, l’unico spoglio eccetto per un alto specchio incastonato in una ricca intelaiatura. Nell’atmosfera vaporosa della camera, la superficie lucida risplendeva come un’isola evanescente. Il guerriero avanzò cauto, chinando il capo come a cercare qualcosa nell’immagine riflessa. Fissò con intensità la superficie lucida: il letto, gli incensieri, la finestra, ogni oggetto si trovava nell’esatta posizione. Si sarebbe detto una copia identica, tranne per un solo dettaglio. Ceylon non scorse il proprio riflesso. D’istinto volse la testa, guardando dietro di sé con fare allarmato. Poi calò lo sguardo, arrendendosi all’evidenza degli insegnamenti delle sacerdotesse.
«Badate nello specchiarvi, Elfi Onirici». Le parole gli riaffiorarono alla mente con la stessa fermezza con cui erano state pronunciate molti anni addietro. «Solo gli sciocchi credono di scorgere il riflesso del proprio corpo. Quella che vedete è la vostra anima. Uno specchio è un potente artefatto, l’anello di congiunzione fra il nostro mondo e quello dei sogni».
Quale turbamento scuoteva il petto possente di Ceylon? Sapeva bene la risposta: l’irrequietudine per un sogno che lo perseguitava. Una visione di cui non riusciva ad afferrare il significato. Nel profondo della propria anima, Cane Nero non era sicuro di voler scorgere il senso di quell’incubo senza via di fuga. Si rifiutava di affrontare la realtà racchiusa nella propria mente, questa l’unica ragione per cui non scorgeva se stesso nello specchio.
«Esci fuori»
La voce si tinse più di rabbia che fermezza. Dal bordo dello specchio fece capolino un guerriero cupo, dai lineamenti duri e gli occhi viola: l’anima di Ceylon apparve in calzoni, accigliata per essere stata sorpresa a nascondersi. L’elfo guardò negli occhi se stesso mentre la parte più intima della propria mente celava con una smorfia il disagio di quella sfida.
«Voltati. Fammi vedere le ferite»
Il riflesso batté il piede con impazienza, valutando se assecondare o meno i voleri del corpo, poi sbuffò irritato, mostrando una schiena segnata da linee arrossate. Benché Ceylon sentisse la pelle tirare e bruciare, nessuno di quei segni era particolarmente grave. Se la sarebbe cavata con un po’ di riposo e, nella migliore delle ipotesi, senza aggiungere una nuova cicatrice al proprio corpo. Annuì lentamente, ma la sua soddisfazione non fece altro che acuire l’indignazione del spirito nello specchio.
Fu distratto dallo scricchiolare della porta sui cardini. Volse appena il capo, scorgendo una figura allampanata avvolta in una tunica blu. Sulla sopravveste di fili d’argento brillò la mezza luna di Varghas, qualificando la nuova arrivata come una sacerdotessa. Ceylon tornò a concentrarsi sullo specchio, scoprendo che il proprio riflesso era svanito. Non se ne sorprese: l’ingresso dell’elfa era un motivo come un altro per sviare la questione irrisolta del sogno.
«Se avessi saputo che eri sveglio, avrei bussato»
Due occhi chiari bramarono Ceylon, ma il guerriero non vi badò, rispondendo al saluto con una scrollata di spalle.
«Sono venuta a chiudere le imposte, la luce del sole non giova a chi dorme»
«Ho dormito abbastanza per oggi, considera la stanza libera per qualcun altro.»
La sacerdotessa, ancora poggiata allo stipite della porta, si avvicinò a Cane Nero.
«Ho degli unguenti per queste» sussurrò, carezzando delicatamente la schiena dell’elfo. Il tocco di quel dito affusolato lasciò intendere che, con molta probabilità, le attenzioni della sacerdotessa non si sarebbero limitate ai dei semplici massaggi. Ceylon era chino sulla sedia, la dita che indugiavano sui propri vestiti. Da una stanza limitrofa proveniva un gemito sommesso: un altro guerriero stava godendo delle belle forme di una ragazza. Finse di non badarvi e si rivestì in fretta.
«Un’altra volta, forse»
La ragazza ritrasse la mano, sospirando affranta. Quella delusione dipinta sul volto era uno dei motivi per cui Cane Nero evitava l’unione con le ragazze dedite alla religione. Non era piacere né passione, la loro, ma solo una fede al limite del fanatismo. Il culto di Varghas professava la supremazia dell’anima sul corpo? Allora schiere di sacerdotesse erano pronte a tutto per soddisfare i desideri più reconditi dei migliori guerrieri di Uran. Lo facevano in nome della religione, ben intenso, non erano certo delle sgualdrine. Sulle prime era stato interessante: con la propria fama di combattente, Ceylon aveva visto crescere l’esercito di belle ragazze disposte a dividere le bellezze del proprio corpo. Ma poi tutto era divenuto così scialbo e monotono, una vera scocciatura. Eppure, a giudicare dai gemiti, di elfi insaziabili ce n’erano molti. Era il volto oscuro degli Elfi Onirici, guerrieri ingordi nel corpo e nell’anima, affamati di prestigio, potere e ricchezze. Dopo mezzo secolo, Cane Nero aveva fatto l’abitudine anche a quello.
Indossò la maglia, la cotta e chiese aiuto alla sacerdotessa per stringere le cinghie della corazza di amaranto. Sotto lo sguardo avido della ragazza, Ceylon lasciò la stanza stringendo nella mano il fodero con la spada. Un corridoio lugubre, senza finestre, percorreva il perimetro quadrato dell’Ossario. A destra e a sinistra, altre porte conducevano a camere identiche a quelle in cui Cane Nero si era svegliato. In molte di queste altri elfi stavano certamente sognando, intorpiditi in sogni ricamati dalla mano della Dea Varghas. Percorrendo il corridoio fino a trovare la scala per il piano inferiore, Ceylon incrociò altre sacerdotesse: figure dallo sguardo allucinato, che lo squadravano con deferente interesse. Una gradinata rischiarata da alcune torce lo condusse a un passaggio privo di porte laterali, una galleria dal soffitto a volta che collegava i piani superiori con il cortile interno dell’Ossario. Si ritrovò all’aria aperta, all’ombra di un porticato. A pochi passi da sé si estendeva uno spiazzale gremito di vasche d’acqua calda in cui erano immersi dozzine di elfi. A qualsiasi ora del giorno e della notte i bagni termali erano sempre occupati, al punto che Ceylon si era ormai rassegnato a godere dal colonnato quell’aria calda e carica di profumi: capannelli di guerrieri scaldavano i muscoli prima di recarsi ai piani superiori, cogliendo l’occasione per chiacchierare assieme; un giovane rampollo tentava di darsi delle arie, lusingando le sacerdotesse che percorrevano le passerelle da una vasca all’altra; raccolti in un angolo isolato del porticato, loschi figuri parlottavano sottovoce, certi che nessun orecchio avrebbe udito gli accordi segreti che stavano scambiandosi. Il cuore pulsante della vita sociale di Uran batteva senza sosta, e Ceylon si chiese se anche gli altri Elfi Onirici, come lui, avevano l’impressione che qualcosa di grosso stesse per accadere. Se anche era così, non lo davano a vedere: i loro volti non esprimevano nulla di più che una sicurezza arrogante. Ma Cane Nero sapeva che non bisognava fidarsi dei propri occhi, perché molti Elfi Onirici celavano i propri segreti con la stessa abilità con cui si trasformavano in animali.
Crivellando la testa con pensieri d’ogni tipo, Ceylon si abbandonò alla contemplazione dell’immenso teschio di drago posto al centro del cortile. Aveva sempre pensato che fosse solo una decorazione, un trofeo così imponente da poter ospitare senza alcuna difficoltà un uomo fra le fauci spalancate; ma si era dovuto ricredere una notte che, ingannando il tempo in una delle bettole della città, aveva sentito un elfo dal volto grinzoso raccontare la storia della fondazione di Uran. Era stato uno sproloquio troppo lungo per essere seguito con attenzione, Cane Nero non ricordava che pochi e sparsi frammenti. Un manipolo di esuli, il nucleo originario degli Elfi Onirici, si era insediato nella caverna quando il mondo era ancora giovane. Avevano dovuto fronteggiare l’immensa bestia e certamente sarebbero morti se non fosse intervenuta Varghas. Grazie agli insegnamenti della Dea gli elfi, manipolando le arti del sonno, ebbero la meglio sulla bestia assopita. Così era sorta Uran, sotto il segno di una prodigiosa vittoria e con la benedizione della Signora dei Sogni. Un bel mito, anche se Ceylon dubitava fosse andata proprio come il vecchio aveva raccontato. Qualsiasi fosse l’origine dei resti del drago, i primi coloni elfici riutilizzarono i frammenti dello scheletro per la costruzione dell’Ossario: i residui di potere racchiusi nelle ossa della bestia agivano come cassa di risonanza, amplificando i sogni degli elfi. Le visioni partorite in questa costruzione erano intrise di un potere antico, Cane Nero ne era al corrente, e più cercava di non dar peso alla cosa, più la stranezza di ciò che gli stava accadendo tornava a galla, come spinta da una forza superiore.
Nel percorrere le due lunghe rampe d’uscita, sentì il proprio spirito risollevarsi. Era ben lieto di tornare a immergersi nella vita di Uran, lasciandosi alle spalle le effimere visioni dell’Ossario. Lì, per strada, la vita non aveva sorprese da rivelargli. Forse la preferiva per questo. Sentire le nobili donne, imbellettate nei loro vestiti appariscenti, imprecare contro la polvere delle viuzze non aveva prezzo. Si atteggiavano in una gara sfrenata per chi era in grado di dimostrare di più ma, il più delle volte, dimenticavano di provenire dal fango. Ceylon, invece, lo teneva bene a mente. Era un elfo che si era fatto da sé, con nessun altro aiuto se non la propria spada. Quell’arma sempliciotta che tutti erano propensi a deridere. Facciano pure pensò, allacciandosi il fodero in cuoio alle spalle,  sicuro che quel solido acciaio lo avrebbe tratto dai guai ancora per un bel po’. Se fra gli Elfi Onirici tutti erano concordi nel riconoscere il valore di Cane Nero, c’era qualcuno che, proprio per i suoi modi tutt’altro che ambiziosi, lo preferiva agli altri.
Come Ashter, ad esempio, il Mercante di Schiavi. Ceylon sapeva bene che quell’omuncolo dagli occhi da topo e la mente da volpe lo adulava e, in fin di conti, non gliene importava nulla, almeno finché pagava per i suoi servigi. Deciso a riscuotere la propria ricompensa per l’ultima retata nei territori umani, il guerriero si diresse verso il Mercato degli Schiavi. Sorgeva nella Fossa, il quartiere più impopolare di Uran. Asserragliati fra esalazioni sulfuree e baracche degradanti, i bassifondi degli Elfi Onirici formavano un quadro abbastanza variopinto: tagliagole e fuorilegge, ubriaconi ed elfi che non potevano più fare a meno della Tateesha condividevano il proprio spazio con famiglie soffocate dalla povertà. Per alcuni, la vera piaga di Uran; per Ceylon, un luogo non diverso dalla parte più ricca della città.
Quando Cane Nero calcò il cortile del Mercato degli Schiavi, Ashter stava facendo bella mostra della propria mercanzia. Alcuni prigionieri erano allineati uno a fianco all’altro, nudi, affinché fossero giudicati con maggiore imparzialità. Gruppi di elfi passeggiavano lentamente, valutando il pezzo migliore, mentre il Mercante balzava dall’uno all’altro dei propri avventori, attento a non lasciarsi sfuggire nessuna possibilità.
«Questo ragazzo ha gli occhi completamente bianchi» osservò una coppia, avvicinandosi con curiosità a un ragazzetto tremante. «Per la sua cecità, spero lo concederai a un buon prezzo»
«Più che un difetto, la definirei una particolarità»
Ashter si passò la lingua sulle labbra e riordinò i capelli tirandoli all’indietro. Gesticolava con tono affabile, velando dietro uno sguardo bonario la capacità di rigirare ogni discorso a proprio favore.
«Questo schiavo è nato a Uran, sapete? Sua madre è stata catturata quando ancoro lo portava in grembo. È cieco fin dalla nascita.»
Ceylon si avvicinò silenziosamente al mercante, seguendone divertito le movenze teatrali. Ashter non lo scorse, o semplicemente finse di non vederlo, rimanendo assorto nella discussione con i propri clienti.
«Ciò non cambia il fatto che questo Erhain non vede nulla. A che serve uno schiavo cieco?»
Il Mercante sfoggiò il suo miglior sorriso. Senza ombra di dubbio si aspettava una domanda del genere: la risposta era pronta già da tempo.
«Vi infastidisce dover fare qualcosa mentree siete osservati dai vostri servi? Questo ragazzo è la risposta al vostro problema. E se vi imbarazza che possa anche sentire allora ...»
Fece un gesto eloquente, sfiorando le orecchie del ragazzo, poi con una risata gracchiante batté la mano sulle sue giovani spalle. L’idea parve interessante alla coppia che si allontanò parlottando in modo compiaciuto. Ashter profuse loro un inchino servile, finché non scomparvero oltre il cancello.
«Sai benissimo che questo Erhain  sarebbe un pessimo schiavo»
Ceylon dileggiò il mercante, invitandolo ad avvicinarsi.
«Metti in mostra il meglio di ognuno e, prima o poi, qualcuno sarà interessato all’acquisto»
Ashter si risollevò, lisciandosi la veste turchina impreziosita da un minuzioso ricamo di perline. Si guardò intorno e, avendo visto che nessun altro cliente si mostrava interessato agli acquisti, si avvicinò al guerriero. Insieme percorsero il cortile, sedendosi in una panca vuota addossata al muro di cinta.
«Qual buon vento ti porta da queste parti, Ceylon?»
«Non fingere di non ricordare, Ashter»
«Ogni volta spero tu sia qui per l’acquisto di una manciata di schiavi»
«Vai a rifilare i tuoi umani a qualcun altro»
Il mercante sorrise, mostrando una fila di denti bianchissimi. Aveva un mento aguzzo e profumava. Per essere un elfo che viveva nella Fossa, Ashter curava in modo maniacale il proprio aspetto: faceva parte del proprio mestiere. Del resto, il giro di schiavi gli fruttavano tanti bei quattrini, una parte dei quali erano destinati alla compagnia di guerrieri che regolarmente gli procuravano nuovi carichi. Nonostante l’immensa fortuna, nascosta chissà dove, quell’elfo subdolo non aveva mai acquistato una casa decente. Si ostinava a mescolarsi ai rifiuti di Uran; un po’ per comodità, un po’ per superstizione.
«Non cambiare mai ciò che ti va bene, Ceylon» gli aveva sussurrato una volta, quando il delirio causato da una dose eccessiva di Tateesha si era smorzato in una conversazione insolitamente sincera.
Ashter fece cenno alle guardie che presidiavano il Mercato di stare a distanza dagli schiavi, spiegando che, secondo il suo infallibile giudizio, la presenza di elfi armati, pur necessaria, rischiava di snervare la clientela, rendendo infruttuosi i guadagni.
«Ho un’offerta per te, mio caro Ceylon. Piuttosto che in denaro, vorrei pagarvi in umani. Vedilo come un dono per ...»
«Scordatelo, Ashter»
«Ma il loro valore è superiore alla somma che ti dovrei!»
«Gli schiavi vanno sfamati, mentre un borsello di soldi non ha bisogno di cibo»
Ashter rimuginò in silenzio lisciandosi il mento a punta, infine si arrese alle richieste del guerriero e mise mano ad una tasca interna della veste, traendone una piccola sacca in cuoio. Se la rigirò per un po’ fra le mani, lanciandola in aria e riafferrandola al volo.
«D’accordo, ma c’è una questione di cui volevo discutere»
La voce del mercante era improvvisamente meno servile, pur mantenendo il tono di falso rispetto.
«Ne avete portati meno delle altre volte. Ho come l’impressione che forziate la mano sui prigionieri. Sono merce preziosa, Ceylon, e vanno trattati con il massimo riguardo»
«Vuoi forse insegnarmi come cacciare gli animali?»
«Lungi da me, Cane Nero. Vorrei solo ricordarti, come ho detto anche agli altri, che dovreste limitare al massimo le perdite.»
«Ashter, c’è una cosa che non ti è chiara, forse perché non hai mai messo il tuo naso adunco fuori da Uran. Siamo costretti a spingerci sempre più a sud. A breve scorgeremo il confine romano.»
«Non avrai paura degli uomini dell’Impero?»
«Finché rastrelliamo le campagne, nessuno si da pena per un pugno di celti che scompare. Ma se creiamo problemi ai romani, rischiamo di alterare l’equilibrio che regge l’intera baracca.»
Ashter strinse la labbra in un’espressione di irosa insoddisfazione.
«Dunque?»
«Hai detto che gli schiavi sono merce preziosa. Le nostre incursioni stanno impoverendo le terre. Dovresti aggiungere che sono anche merce rara. Accontentati di ciò che riusciamo a trovare.»
Il mercante scosse la testa, socchiudendo gli occhi. Ceylon sentì i canini dell’elfo scattare ma sapeva che non sarebbero mai arrivati alle armi. Ashter era troppo furbo per abbandonarsi a impeti rabbiosi e inconcludenti. Digerito il boccone amaro, il trafficante di uomini passò a Ceylon la sacca con l’oro.
«Voi mercenari siete solo dei farabutti in cerca di soldi facili» borbottò a denti stretti, alzandosi di scatto e avviandosi verso un gruppo di clienti appena arrivati.
«C’è un’altra possibilità, Ashter.» lo richiamò il guerriero, con le braccia conserte e le labbra appena increspate in un sorriso. «Puoi sempre catturare da te gli Erhain
Il mercante ignorò la provocazione, ritrovando nuovamente il proprio atteggiamento accondiscendente. Ceylon rimase per un po’ ad ammirare l’abile tecnica con cui quell’odiosa faccia da topo adescava un giovane elfo. Sarebbe tornato a chiamarlo quando avesse avuto bisogno di nuovi schiavi, ne era certo. Come ogni cosa a Uran, anche la tratta degli schiavi era restia al cambiamento. Gli Elfi Onirici anelavano alle profondità insondate della mente e per questo disprezzavano le faccende materiali, relegando gran parte dei lavori ai propri servi. Gli schiavi erano il vero motore della città: Uran aveva bisogno di Ashter e dei suoi schiavi, e Ashter aveva bisogno di guerrieri come Ceylon, disposti a sfidare il mondo fuori dalla città. Era un equilibrio immutabile, una linea granitica destinata a durare in eterno.
Prese la via che conduceva fuori dalla Fossa, ma appena prima di varcare i cancelli del Mercato si voltò. Posò lo sguardo su quegli uomini nudi, in balia dei capricci di una razza a loro sconosciuta. Si chiese quanti di loro si trovavano lì per mano sua, e scoprì di non provare rimorso né pietà verso quei profughi affamati. Fece un altro passo, ma di nuovo guardò il cortile. Ashter, col viso raggiante, stava incassando il prezzo pattuito per una nuova vendita. Ceylon si rigirò il borsello pieno d’oro fra le mani. Chiuse gli occhi e si chiese perché faceva tutto ciò: non trovò alcuna giustificazione. Poi li riaprì e scene familiari di soldati in armi, nobili altezzosi e sacerdotesse esaltate tornarono a colorargli la vita. Sparì nella moltitudine di elfi che riempivano strade e piazze. Era imbarazzante porsi delle domande, soprattutto quando si è a corto di risposte. Molto più semplice essere inghiottito dall’ordinaria follia di Uran.
 
L’ANGOLO DEL BARDO:
Prima di snocciolare i miei commenti, mi preme ringraziare coloro che hanno speso tanto belle parole per questa storia. Un grazie particolare a:
Laila Osquin, ormai quasi una  “madrina” del mondo della Ruota del Destino
Kuma_cla, per le sue 4 recensioni in un sol giorno (riuscissi ad avere io questi ritmi!)
Draukar,per il suo colpo di fulmine con l’Oniricon
E ovviamente un grazie ai viaggiatori occasionali, che hanno lasciato una traccia fra i commenti, un grazie a chi segue silenziosamente la storia e un grazie a chi ha bruciato parte del suo tempo a leggere le mie ciarlatanerie (e poi è scappato via dopo appena 10 righe :D). Mai quanto adesso ho sentito forte il sostegno di chi legge le mie storie. D’accordo, non siete una folla siete in pochi, ma per i miei standard è già un successone xD xD E poi chi ha mai badato ai numeri? :P E a proposito di numeri …. Quello di oggi è un aggiornamento bello tosto. Una bella passeggiata per le vie di Uran assieme a Ceylon. Per me è stata una vera sfida. Nella mia testa, brulicano idee, ma tutte devono sottostare alla golden rule del “Show, don’t tell”. Più di una volta mi sono dovuto frenare nello scrivere una bella papella sul culto della Dea Varghas, sullo stile di vita degli Elfi Onirici, su questo o quel dettaglio. Mi sono frenato nel timore di appesantire troppo la lettura con cose di scarso interesse (al momento u.u), dando solo pochi ed essenziali elementi per apprezzare pienamente il nuovo palco degli eventi. Non so quanto sono andato vicino nel centrare l’obiettivo. Se sia un disastro o un buon lavoro, il giudizio è solo vostro! Qui finisce “ufficialmente” il secondo capitolo. In realtà sono solo a metà di quanto mi ero proposto nella scaletta. C’erano altre due belle parti ma, vista la lunghezza quasi paragonabile all’intero primo capitolo, ho deciso di diluire in due capitolo diversi gli eventi. Sotto, come al solito, trovate la mappa di Uran. Qualche parola sui colori per distinguere le location (in ordine di incontro nella storia)
VERDE = OSSARIO
ROSSO= IL QUARTIERE DELLA FOSSA
BLU=IL MERCATO DEGLI SCHIAVI (in realtà lo conoscevate già, ma repetita iuvant xD)


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Capitolo 6
*** Risveglio in Terra Romana ***


Soundtrack consigliata : http://www.youtube.com/watch?v=dOibtqWo6z4
 
 
La capanna era troppo grande per l’unica famiglia che vi abitava. A giudicare dall’odore e dagli escrementi gran parte dello spazio doveva essere destinato agli animali, ma con le bestie al pascolo quel tugurio risultava desolante, sensazione rafforzata dal mobilio scadente ed essenziale. Calaid era ben lieto di occuparne solo un piccolo angolo: rannicchiato su un pagliericcio asciutto, mascherava il proprio disagio osservando una donna corpulenta intenta a tessere. Benché avessero perso la grazia della gioventù, le mani callose si muovevano con esperienza tra i fili di lana tesi al telaio. Il fuso scivolava con un movimento lento e regolare, tessendo una trama a motivi geometrici. Accortasi che Calaid la stava guardando, il faccione della donna si aprì in un sorriso che disegnò due piccole fossette agli angoli della bocca.
«Hai fame?» chiese senza interrompere il proprio lavoro. «Vuoi qualcosa da mangiare?»
«Grazie, signora Dehin»
Calaid chinò rispettosamente il capo, ma in verità si sentiva affamato come un lupo. Si limitava ad accettare il cibo che gli veniva offerto solo nel timore di abusare dell’ospitalità di quella gentile famiglia celtica. Nonostante tutte le buone intenzioni, i segni della fame trapelavano in modo inequivocabile dallo sguardo opaco e la guance lievemente incavate. La febbre delirante che lo aveva colto nell’ultima settimana lo aveva lasciato in bilico fra la vita e la morte, prosciugandone gran parte delle forze: se si trovava ancora su questa terra, lo doveva a una buone di fortuna e – soprattutto – alla donna che adesso gli offriva una ciotola di latte speziato. La signora Dehin avvicinò l’orlo della scodella e Calaid ne tracannò con ingordigia il contenuto.
«Piano, o rischi di soffocare»
«Il vostro latte è speciale» si giustificò il giovane celta, affrettandosi ad asciugare le labbra con il dorso della mano.
«Il segreto sta nelle erbe aggiunte». Inorgoglita dal complimento, la signora Dehin sfoggiò un altro dei suoi sorrisi solari. «È una ricetta di mia madre».
Aveva occhi grandi e limpidi; non fosse stato per la sincerità che vi scorgeva, Calaid avrebbe bollato ogni parola che gli aveva raccontato come un tentativo di assicurarsi la propria gratitudine. Invece non dubitava della veridicità di quella storia, ancor più perché si sposava in modo plausibile con certi dettagli che riusciva a ricordare: pochi giorni prima Amhu, la figlia dei Dehin, sorvegliando il proprio gregge lo aveva scorto privo di sensi sulla riva di un fiume. Probabilmente, dopo lo scontro a Piatra Carvii, era stato trascinato dalla corrente per diverse miglia a sud, oltre i confini della terra celtica all’interno dell’Impero Romano. Era un miracolo che non fosse annegato, o che qualche masso non gli avesse frantumato il cranio. Spinta dalle condizioni drammatiche, Amhu lo aveva condotto sul dorso di un montone fino ad Apulum, dove la propria famiglia viveva e si stava prendendo cura di lui.
«Le ferite alla schiena sono quasi guarite»
La signora Dehin era compiaciuta dei progressi della guarigione. Ma per quanto veloce potesse sembrare alla vecchia donna, Calaid aveva l’impressione che il tempo scorresse con esasperante lentezza.
«Te ne sorprendi, forse?».
Dall’alto del suo sgabello, circondato da trucioli di legno, il signor Dehin lanciò una occhiata distratta a Calaid, diede un colpo di tosse e tornò a concentrarsi sul ceppo di legno che stava intagliando.
«Alla sua età» proseguì con tono acidulo, «chiunque guarirebbe in fretta».
«Un mal di reni». La signora Dehin accennò al marito che lavorava curvo con una pazienza che al giovane sembrava eccessiva. «Finché non guarirà, non può più fare alcuno sforzo fisico».
«Se mai guarirò»
A guardare l’aspetto del vecchio celta, Calaid comprendeva perfettamente la sua sfiducia negli impiastri della moglie: era slanciato ma eccessivamente magro, e la sua pelle aveva chiazze giallastre. Del possente aspetto che certamente aveva avuto in passato, rimaneva solo uno sguardo severo e determinato. Eppure, pensò il giovane, si trovavano in territorio romano: scovare un buon guaritore non doveva essere poi così difficile.
«Avete provato con un dottore?» disse Calaid, memore delle storie prodigiose che aveva udito nei suoi viaggi.
«Non mi lascerò mettere le mani addosso da uno stregone romano»
Il signor Dehin sbottò in una lunga serie di imprecazioni, mentre la moglie sorrideva imbarazzata. Il vecchio doveva essere uno di quei celti insofferenti alla presenza romana: Hyrem sarebbe stata entusiasta di conoscerlo. La signora Dehin si chinò a raccogliere una manciata di trucioli dal pavimento e li mise nel braciere, agitando un rozzo ventaglio di stecche di legno e stracci per ravvivare le braci.
La mattina stava lentamente sfumando nel mezzodì. Calaid osservò che, per quanto ampia, la capanna non era fredda, il calore doveva rientrava nel ciclo di cure che la donna gli stava impartendo. Il Signor Dehin strinse le labbra, arricciando i lunghi baffi che spiovevano sotto il naso prominente: un’indubbia espressione di malumore, che Calaid imputò un po’ alla discussione appena conclusa, un po’ allo spreco di preziose risorse della famiglia. I Dehin rasentavano la povertà e non avevano mai accennato a una ricompensa per ciò che stavano facendo. Non che il giovane celta avesse enormi mezzi con cui ripagare le cure, ora che la fattoria di Piatra Carvii era stata spazzata via.
Piatra Carvii.
Un nodo strinse la gola di Calaid. Dov’era in quel momento Arinne? La sorella era una ragazza, una bella ragazza, ma con lo spirito di una bambina. Se anche fosse riuscita a salvarsi dai persecutori, non sarebbe durata a lungo da sola. Non era in grado di cacciare, era Calaid che procurava il cibo. Non era nemmeno capace a costruirsi un riparo per la notte, era Calaid che si occupava dei lavori della casa. Nessuna delle prospettive che gli venivano in mente erano piacevoli e tutte confluivano in un unico pressante pensiero: la necessità di rimettersi in azione.
Il giovane fabbro sapeva di essere ancora troppo debole per riprendere a camminare, ma rammentava anche di non poter attendere per sempre. Ogni giorno che passava dai Dehin, era un giorno che sottraeva alla ricerca della sorella. Quel riposo forzato lo rendendo irrequieto,  avvilendolo fino allo stremo. Al costo di una fitta di dolore si girò su un fianco e passò il dito sul pavimento in terra battuta della capanna, cercando di disegnare il volto di Arinne.
«Signora Dehin, quanto tempo pensa ci vorrà prima che riesca a mettermi in sesto?»
La donna si trovava ora di fronte a un tavolo ingombro di statuette intagliate, attrezzi da falegname, tegami in terracotta e fasci di erbe. Avvicinò a sé un mortaio di pietra, vi pose delle ossa di pollo sul fondo e prese a frantumarle col pestello.
«A voler essere ottimisti, almeno un mese»
 Quella constatazione non lo rallegrò.
«Suvvia Calaid, non fare quella faccia». La signora Dehin aggiunse alle ossa frantumate una manciata di erbe, poi versò un poco d’acqua. Lavorò il miscuglio direttamente con le dita, fino a ricavarne un impasto con la giusta consistenza. «Impara a rispettare i tempi del tuo corpo, hai subìto gran brutte ferite».
L’anziana donna gli si avvicinò, svolse le bende che fasciavano le gambe e ripulì il sangue con uno straccio.
«L’acqua continua a scorrere e il sole sorge ogni mattina» mormorò Calaid, fissando la pelle gonfia e segnata da numerose escoriazioni. «Potrei non avere il tempo che lei mi chiede, signora Dehin»
Con mano esperta, la donna celtica spalmò l’impiastro sulle ferite. Il ragazzo fece una smorfia: i tagli bruciavano come fossero stati cauterizzati con un ferro rovente.
«Sei il benvenuto fra noi, Calaid» lo rassicurò la Signora Dehin, bendandolo con delle fasce pulite. «Non sentirti in dovere di lasciare questa casa, ormai sei ...»
«Non potrò mai ringraziarvi abbastanza per tutto ciò» la interruppe Calaid.
Fissava la parete di legno di fronte a sé, cercando le parole più adeguate per esprimere il tormento che lo dilaniava. Fin’ora aveva preferito tacere sui reali motivi per cui si trovava lì; per quanto inverosimile, nessuno sembrava dubitare delle frottole che aveva raccontato sulla caduta accidentale nel fiume. Adesso tuttavia giudicò necessario rivelare la verità: una parte di sé sperava che, in qualche modo, potesse contare sull’aiuto dei Dehin.
«La notte in cui precipitai nel fiume, il nostro villaggio fu attaccato dai nemici. Diedero alle fiamme le nostre capanne e devastarono il raccolto. Fecero prigionieri gran parte di noi».
Il Signor Dehin interruppe il proprio lavoro, una mano poggiata sui calzoni di tela l’altra a lisciarsi i baffi.
«Caddi nel fiume lottando per la libertà, ma non ero solo. C’era anche mia sorella. Da quella notte non ho più notizie di lei».
La signora si rialzò lentamente, per nulla sorpresa dal resoconto. Anche il marito non batté ciglio, limitandosi a sfregarsi il naso.
«Il mio cuore scalpita, questa lenta convalescenza per me è una reclusione» disse Calaid e, prima che riuscisse a controllarsi, un fremito nervoso fece vibrare le sue labbra. «Voglio soltanto andare via».
Nel silenzio che seguì il giovane intuiva che probabilmente la coppia celtica aveva già capito tutto. In fondo la Dacia era piena di storie come la sua anche se, doveva ammettere, i Dehin lo avevano trattato con molta gentilezza. Cailaid non era mai stato irriconoscente, tanto meno egoista. Quasi immediatamente, di fronte alle parole imbarazzate con cui la donna espresse il proprio rammarico, si pentì del tono brusco con cui aveva parlato. Qualsiasi fosse il motivo della loro attenzione, tuttavia, i Dehin sembrarono accantonarlo di fronte alla necessità dei fatti. Il senso di rimorso si fece più forte per pranzo, quando la signora Dehin, lavorando senza l’abituale entusiasmo, servì tre porzioni di una succulenta minestra di farro e legumi.
«Nessuna coorte romana ha lasciato Apulum nelle ultime settimane» disse il signor Dehin, porgendogli la scodella fumante. Contro ogni aspettativa il taciturno artigiano celtico sembrava in vena di chiarimenti.
«Non ho mai detto si trattasse di soldati romani».
Calaid portò alla bocca il cucchiaio, masticando lentamente il cibo. Qualcosa del viso del signor Dehin, gli ricordava il padre. Forse gli stessi baffi portati alla maniera celtica, forse l’abitudine di andare dritto al punto delle conversazioni.
«Riesci a muoverle?»
Il vecchio fece un cenno alle gambe con un’espressione di pensierosa attenzione. Puntellandosi sui gomiti, Calaid scoprì di poter sgranchire le dita senza alcuno sforzo. Era un buon inizio. Lentamente sollevò una gamba poi, tremando per lo sforzo, mosse anche l’altra. Serrò la mascella per non cedere al dolore.
«Basta così» lo interruppe il signor Dehin. «Più tardi ti aiuterò a fare degli esercizi. Sei giovane e forte: in breve riuscirai a tenerti in piedi da solo, a giorni camminerai e fra una settimana sarai fuori di qui».
Senza attendere una risposta, il vecchio artigiano si allontanò. Tossì piegandosi leggermente su se stesso e sedette al tavolo con la moglie, che consumava il proprio pasto volgendo le spalle a Calaid. Aveva ottenuto ciò che desiderava, accelerare la guarigione e riprendere le ricerche, eppure la vista dei Dehin, raccolti uno a fianco dell’altro dalla parte opposta della capanna, gli sferzò il cuore.
Nel pomeriggio il vecchio si distese su una pelle di daino consunta, cadendo immediatamente in un sonno pesante. Calaid, invece, non riuscì a chiudere occhio. Lo scalpiccio della gente in transito per la città romana gli impedì di andare oltre uno sfibrante dormiveglia: udiva stralci di conversazioni insignificanti, il nitrito di cavalli lanciati al galoppo e persino lo sferragliare di una formazioni di soldati. Il signor Dehin, poi, ronfava troppo pesantemente. Per non parlare della moglie; proprio in quel momento doveva mettersi a lavare i panni? Dalla bassa tinozza, un rivoltante odore di urina si spanse per l’intera capanna. Di tanto in tanto l’anziana signora azzardava occhiate interrogative in direzione di Calaid, che finse di non accorgersene, voltandosi contrariato verso la finestra: rinunciò a dormire. Rimase disteso, con una pagliuzza fra i denti, osservando rassegnato le nuvole rincorrersi sullo sfondo nitido del cielo.
Con l’approssimarsi del crepuscolo, si udì l’eco di uno scampanellio farsi sempre più vicino: Amhu e il suo gregge stavano tornando a casa. Alla porta della capanna, la Signora Dehin mostrava una gioia impaziente. Si scostò quanto bastava a far entrare in lenta processione pecore, capre e montoni, poi inghiottì la figlia in un caloroso abbraccio. Amhu mostrò un imbarazzo che in realtà non provava. Quelle eccessive dimostrazioni da affetto le facevano piacere perché era poco più di una bambina. Dopo essere sfuggita alla madre, corse dal padre. Si mise in punta di piedi, poggiandogli un delicato bacio sulla guancia. Appoggiò al muro il ramo nodoso che usava come bastone per governare il gregge e si voltò con una curiosità affamata verso l’angolo in cui sapeva di trovare Calaid.
La piccola Dehin era ancora troppo giovane per potersi definire una bella ragazza. Portava i capelli corti, tagliati in modo sbarazzino secondo un’acconciatura maschile, e indossava una veste lanuginosa troppo grande, che non riusciva a nascondere né la corporatura acerba, né il lezzo di stalla di cui, inevitabilmente, era impregnata.
«Oggi ti senti meglio, Ta’anih?» chiese impaziente, sedendosi di fronte a Calaid.
I suoi occhi brillavano luminosi, non lasciando dubbi sui sentimenti che si dibattevano nel suo giovane petto. Calaid era certo che, da quando aveva lasciato la casa all’alba, Amhu non aveva fatto che sognare il momento in cui sarebbe tornata.
«Un po’ meglio, grazie» rispose, stringendosi nelle spalle.
Si nascose dietro un sorriso forzato, attento a non dare alcuna inclinazione particolare alla propria voce. Se da una parte temeva di lasciar trapelare la propria insofferenza per la pastorella, dall’altra non poteva correre il rischio di alimentare i suoi sogni. Non si trattava solo del suo odore, o comunque non solo di quello. Era il pensiero di dover la vita a una bambina sempliciotta che lo faceva sentire odiosamente incapace. Ancor più perché Amhu sembrava fregiarsi di ingenue pretese: non lo chiamava mai per nome, preferendo l’appellativo Ta’anih, Dono del Fiume. Un paio di volte Calaid aveva provato a sradicare quell’abitudine con lunghi giri di parole. Ma erano discorsi troppo complicati perché Amhu potesse capire, per cui abbandonò l’impresa, lasciandola sospirare quello stupido titolo con aria sognante.  
«Ho una cosa per te, Ta’anih» disse la ragazza, mettendo in mostra i pugni chiusi.
Dopo aver atteso qualche secondo, aprì le mani rivelando una pietra piatta e incisa. Era un sasso dall’insolita sfumatura verde, in cui due amanti avevano inciso i propri nomi all’interno di un cuore.
«Non dovevi disturbarti per me, Amhu»
«L’ho trovato sul fondo di un ruscello» proseguì, studiando attentamente la reazione del giovane celta. «È una pietra rara, ti porterà fortuna».
Calaid non dubitava delle proprietà magiche della pietra, ma era anche certo che Amhu avesse scelto quel particolare sasso in virtù delle incisioni. Ovviamente non era in grado di leggerle, per cui non poteva sapere che quei nomi appartenevano a una coppia che in quel momento viveva chissà dove. Nella sua infantile convinzione, doveva aver creduto che gli Dei stessi avessero inciso sulla pietra l’amore che lo legava a lei. Un gesto tutto sommato carino, peccato che fosse proprio lui al centro delle inopportune attenzioni di Amhu.
«Sembra di buon auspicio» disse lucidando la superficie levigata del sasso con un lembo della veste. Rigirò ancora la pietra fra le dita, fingendo interesse, poi la pose nel mucchio di altri banali oggetti che Amhu gli aveva regalato: il manico ossidato di un pentola in bronzo, il frammento di una brocca dipinta secondo lo stile greco e una lunga serie di fiori di cui aveva inventato i nomi.
«Hai passato una giornata interessante?» le chiese, cercando di sviare alla svelta il discorso. Fu un brillante successo: in pochi secondi Amhu era balzata in piedi e aveva già dimenticato la pietra.
«C’è una cosa che devo assolutamente raccontarti, Ta’anih» iniziò, accalorandosi nella descrizione di come era riuscita a recuperare un agnellino che si era separato dal gregge. Il racconto andò per le lunghe e Calaid, che non riuscì a reprimere uno sbadiglio, si pentì di averle posto quella domanda. Passò un tempo angosciosamente lungo, prima che il signor Dehin interrompesse la figlia.
«Basta così, piccola»
Il vecchio celta non era cieco di fronte all’abbagliante predilezione che la figlia mostrava all’ospite, anche se Calaid sospettava che avesse ormai fiutato il proprio disinteresse in quella faccenda. Se non altro, aveva il buon senso di lasciar evolvere l’infatuazione di Amhu, cercando cautamente di smorzarla.
«Perché papà?»
«Dobbiamo aiutare Calaid a far fare due passi»
 Il viso della pastorella si illuminò per la straordinaria novità, anche se ignorava che la guarigione avrebbe portato il giovane fabbro ben lontano da Apulum. Sostenuto dal signor Dehin e dalla figlia, Calaid si mise in piedi provando un irreale senso di vertigine.
«Un passo alla volta» lo incoraggio il falegname.
«Avanti, ce la farai Ta’anih»
Calaid annuì con vigore e mosse i primi passi sotto lo sguardo ansioso della signora Dehin. Percorse in maniera incerta l’intera lunghezza della capanna, con la sensazione di avere le gambe intorpidite. Riuscendo a compiere tre volte il perimetro interno della costruzione, iniziò a nutrire fiducia nelle prospettive di guarigione.
«Lasciate che provi da solo» disse con feroce determinazione, puntando la parte opposta della casa, verso il recinto entro cui erano stati stipati gli animali.
«Nemmeno per sogno, Calaid! Non puoi affatic...»
La signora Dehin, con le mani ai fianchi, stava lanciandosi in una protesta, ma l’indice del marito la richiamò al silenzio.
«Ce la farà» disse il vecchio celta, con un cenno di intesa. «Sei pronto, ragazzo?».
Calaid chiamò a raccolta tutte le proprie forze. Che il signor Dehin condividesse la sua stessa fiducia era un forte stimolo per tentare di percorrere il breve tratto che lo divideva dal recinto. Cosa potevano essere due metri, per lui che aveva percorso così tante miglia trascinato dalla corrente? Si svincolò dalle braccia di Amhu e del padre, lanciandosi in avanti. Al primo passo era certo che ce l’avrebbe fatta;  al secondo, accusò una fitta appena sopra la caviglia; al terzo perse l’equilibrio. Il quarto non fu compiuto.
«Ta’anih
La voce bianca della pastorella prese la forma di un urlo, mentre il giovane celta stramazzava sul pavimento. Quella non era fiducia, pensò Calaid, scosso dalla rabbia. Il signor Dhein sapeva che non poteva farcela. Strinse la terra fra i pugni, con gli occhi chiusi e la fronte nella polvere. Lui sapeva e, per di più, avrebbe potuto afferrarlo durante la caduta. Invece no, era rimasto immobile come una statua. Gli occhi del vecchio lo avevano guardato con severo distacco, lasciando che la propria superbia gli insegnasse una lezione che lui rifiutava di accettare.
«Ti sei fatto male, Ta’anih
Amhu si stava lanciata sul caduto, ma il padre la bloccò con un gesto del braccio. Calaid grugnì e strisciò in avanti mordendosi le labbra. Avrebbe dimostrato di cosa era capace, lui. Come poteva ritrovare Arinne, se non riusciva a raggiungere il recinto? Gemette ma non desisté. Come poteva scovare Cane Nero se non riusciva a raggiungere il recinto? Si issò in piedi a fatica, aggrappandosi ai pali di legno che formavano lo steccato. Cane Nero. In qualche modo sentiva che i loro sentieri doveva incrociarsi ancora una volta. Che fosse per liberare la sorella o solo per reclamare vendetta, si sarebbero rincontrati. Ansimava per lo sforzo e aveva la fronte madida di sudore, ma non provò la gratificazione che aveva sperato. Al contrario, la delusione sfumò un’amara frustrazione. Si lasciò scivolare per terra e nascose il viso fra le mani. Piangeva, accusandosi del fallimento della fuga di Piatra Carvii. Singhiozzava, ammettendo a se stesso la paura di Cane Nero.
«Non abbatterti, Calaid»
La signora Dehin lo sollevò con tutta la dolcezza di una madre, mentre Amhu gli si avvinghiava al braccio, con gli occhi lucidi e il volto arrossato.
«Hai fatto più di quanto di quanto avrei scommesso, ragazzo» borbottò il signor Dehin, accompagnandolo a una sedia. Nonostante la freddezza delle sue parole, Calaid riconosceva negli occhi del vecchio il rispetto per quell’ostinazione tipicamente celtica.
Sedettero attorno a un tavolo, consumando una cena a base di pane, olive e formaggio. Durante il pasto i Dehin parlarono poco, scambiandosi occhiate impazienti: evidentemente aspettavano che fosse Calaid a spezzare il silenzio, ma il ragazzo non era in vena di condividere i propri pensieri. Finita la cena, rimase a sorseggiare del pessimo vino diluito con acqua.
«Ho voglia di sentire il vento» disse infine, alzando gli occhi verso il resto della famiglia.
Il signor Dehin ratificò il suo assenso con un verso simile a un muggito, mentre la moglie non sembrava per niente d’accordo con quell’ulteriore sforzo fisico.
«Avanti mamma» insisté Amhu, col viso appoggiato alle mani. «È da giorni che Ta’anih non esce dalla capanna».
Convinta dall’insistenza della figlia, la signora Dehin aiutò Calaid a fare una passeggiata appena fuori dalla capanna. La notte era fredda e la luna brillava sulla collina simile a un medaglione spezzato. Da lontano giungeva il rumore di un ruscello, a cui si sovrapponeva il trillo dei grilli nascosti fra gli alberi. La baracca dei Dehin sorgeva accanto a un piccolo orto, lungo la via principale che conduceva ad Apulum. Ai lati della strada, Calaid scorse innumerevoli capanne: alcune rivestite di argilla essiccata, altre costruite con tronchi sovrapposti e incastrati, ma tutte portavano i segni della tipica architettura celtica. Le finestre, rischiarate dalle lucerne, si aprivano a scorci di vita familiare. Volti a lui ignoti parlavano, ridevano, mangiavano, intonavano canti e suonavano strumenti musicali. Nonostante la fascia più povera della popolazione fosse costretta a vivere al di fuori delle mura della città, Calaid ne invidiava la mite tranquillità delle loro serate.
A un centinaio di metri da dove si trovavano, le sagome scure di alcuni carri si inerpicavano in alto, oltrepassando un ponte di legno che sovrastava un fossato. Imprecazioni in un latino dal forte accento greco, rivelavano la provenienza e la natura della consegna: erano carri di grano, indispensabili per rifornire i magazzini imperiali di un gigante come Apulum. Oltre il fossato e il terrapieno con la palizzata in legno, si scorgevano i tetti delle prime case della città. Calaid immaginò che si dovessero trattare di costruzioni in muratura ben diverse dalle fatiscenti capanne che lo circondavano. In fondo, Apulum non era diversa dalle tipiche città dell’Impero. A sentire la signora Dehin, lì abitavano la gente più ricca: mercanti, soldati, ricche famiglie patrizie ma anche gruppi di celti romanizzati. Ancora più in alto, un possente muro di pietra cingeva la sommità della collina, stagliandosi contro la luna come una maestosa corona. Il signor Dehin spiegò con orgoglio che si trattava delle difese dell’originaria fortezza celtica poi, con tono risentito, aveva descritto come i romani vi avessero insediato gli uffici governativi.
«Hanno usurpato la nostra collina, crogiolandosi sulla fatiche dei nostri padri» sussurrò a mezza voce, assicurandosi che nessuna guardia avesse udito.
«L’ultima volta che sono venuto ad Apulum, era poco più che un borgo di provincia» disse Calaid, respirando a pieni polmoni la fresca aria della notte.
«Non ci hai mai detto che conoscevi Apulum, Ta’anih»
Amhu si era arrampicata sul ramo più basso di una quercia e faceva ciondolare i piedi nudi avanti e indietro.
«È  stato parecchi anni fa, quando stavo per arruolarmi nella legione»
«Sei stato un soldato?»
Dal tono della voce, la signora Dehin sembrava sorpresa dalla notizia. Il marito invece espresse il proprio disappunto con uno sputo indignato.
«Dovevo far parte di un’unità di soldati ausiliari: per lo più ragazzi celti provenienti dalle mie parti e attratti dalla promessa della cittadinanza romana»
«Vili traditori» puntualizzò il signor Dehin, ma Calaid non badò al commento.
«Avevo appena completato l’addestramento e si parlava di un possibile trasferimento nella frontiera dell’alto Reno»
La spiegazione si attenuò in un silenzio, che Amhu si affrettò a spezzare.
«E poi?»
«Prima che partissi, arrivarono nuove reclute. Alcuni di loro erano vecchie amicizie di infanzia, mi riferirono che i miei genitori erano morti e fui costretto a tornare a Piatra Carvii: non potevo lasciare sola mia sorella»
«Se proprio avevi voglia di combattere, potevi farlo nella tua terra»
Il signor Dehin drizzò la schiena fissando oltre il ruscello l’orizzonte a nord.
«Da noi non esiste un esercito stabile e la paga, quando arriva, consiste nel semplice bottino di guerra. Qui nell’Impero è diverso, i soldati sono retribuiti ogni mese. Ci pensai su, ma alla fine  decisi di abbandonare la carriera militare, preferendo l’arte del fabbro».
Naturalmente sopra ogni ragione economica, era stata l’idea di prendersi cura di Arinne a convincerlo ad impugnare tenaglie e martelli, ma preferì non farne parola, custodendo gelosamente per sé i segreti più intimi della propria vita familiare. Rimasero a parlare ancora un po’, finché il freddo pungente della notte li costrinse a rientrare. Il signor Dehin mise la barra alla porta, mentre la moglie si preparava a dormire. Amhu si avvicinò al pagliericcio di Calaid alla luce di una piccola lucerna: doveva ancora avere una gran voglia di parlare, ma il ragazzo non assecondò le sue curiosità, così si rassegnò ad augurargli una buona notte.
L’intera famiglia scivolò nel sonno e l’unico rumore della casa fu lo sporadico belare di una pecora nel recinto e il fruscio del vento fra la paglia del tetto. Calaid sentiva il sonno premere sulle proprie ciglia. Ripensò al passato, a quanto aveva raccontato alla famiglia Dehin, e si proiettò nel futuro, immaginando di riabbracciare la sorella. La lunga chiacchierata aveva scalzato i cattivi pensieri: era tornato di nuovo fiducioso e determinato a rimettersi in forze. Aveva una missione e l’avrebbe compiuta a costo della propria vita. Lo giurò muovendo impercettibilmente le labbra, poi gli occhi si chiusero e gli spiriti della notte vennero a vegliare su di lui.



 L’ANGOLO DEL BARDO:
La fine di questo capitolo sfiora un totale di 50 pag di word, sancendo l’Oniricon come la storia più lunga che io abbia mai scritto *-* a proposito, devo rettificare i ringraziamenti fatti nell’aggiornamento passato. Ho ringraziato tutti, eccetto una persona che ( volente o nolente ) è costretta a sopportarmi tutto il giorno. Sto parlando di mia sorella, i cui frequenti confronti portano sempre qualcosa di buono
Ok, ora che ho sventato una crisi familiare, possiamo passare al testo. Non è un mistero che io scriva con la musica nelle orecchie ma, a volte, si incappa in melodie così particolari che non si può fare a meno di identificarle con dei personaggi ben precisi. È da quando ho abbozzato la trama dell’Oniricon che nella canzone dei Metallica che vi ho proposto ho sentito battere il cuore di Calaid, della sua ostinata perseveranza, della sua miseria, delle sue paure e dei suoi sogni. Da qualche parte nei miei appunti avevo scribacchiato il titolo della canzone, etichettandolo come “Calaid theme” eheh, ho altre sorprese in serbo da questo punto di vista, ma le tengo ben nascoste nella mia valigia! Spero che vi sia piaciuto il lungo aggiornamento, a presto
PepperS
Ps. Ormai non c’è più bisogno di dirlo, sotto trovate la mappa con l’esatta posizione di Apulum.




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