Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: Peppers    17/07/2013    3 recensioni
Dacia, 117 d.C.
Arinne vive in un piccolo villaggio celtico insieme al fratello Calaid. È una ragazza semplice ma possiede un dono molto particolare: è stata scelta dalla Dea Persefone, la Regina dei Morti.
Ceylon è un elfo della città di Uran. È un potente guerriero, un veterano di mille battaglie noto come Cane Nero. Insieme a Laslie, giovane sacerdotessa della Dea Varghas, Ceylon si imbatte casualmente in un’antica stele incisa.
È l’inizio di una spirale di eventi che inghiottirà i quattro personaggi, portandoli faccia a faccia con antichi miti, verità inenarrabili e segreti proibiti.
«Sbagliate a pensare che i sogni siano solo illusioni» aveva sentito dire molti anni indietro ad una sacerdotessa. «Il corpo non è che un riflesso dello spirito. Chiamate realtà la vostra casa, l’armatura, le armi e i gioielli. Tutto ciò non è che un velo fuggevole posto davanti ai vostri occhi. La realtà autentica sta aldilà di ciò che potete scorgere con i sensi. Prestate fede a queste parole e vi saranno aperte le porte al mondo della Dea Varghas. Solo allora sarete in grado di fare ciò che ci rende Elfi Onirici: potrete allenare la vostra mente e, con essa, anche il vostro corpo si irrobustirà.»
Genere: Avventura, Dark, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Il sole del meriggio splendeva su Piatra Carvii, ovattato da una lieve coltre di nubi. Dalle capanne riunite in piccoli gruppi sparsi per la vasta campagna dacica, giungeva il rumore di una vita che scorreva senza alcuna fretta né ambizione: la sega di un falegname, lo scampanellio di una mandria di buoi e il ruvido strisciare della ruota di un vasaio. Un uccello volava alto nel cielo, sorvolando senza alcun interesse quelle colline decorate di sterpi, simili alla testa di un uomo afflitto da calvizie. Dalla valle un sentiero risaliva fino ai monti, e Arinne ne percorse l’ultimo tratto con una corsa vigorosa.

Col fiatone e la fronte imperlata di sudore, si piegò su se stessa per riprendere fiato. Pochi passi più in là, proprio al limitare di un bosco, si ergeva un cumulo di pietre sormontato da una lastra rozzamente squadrata. La ragazza girò un paio di volte intorno all’altare, osservandone la superficie muschiata e ormai levigata. Nessun disegno, nessuna decorazione. Solo mute pietre, eredi di un passato celtico ormai lontano. Per essere un luogo sacro, trovava quella costruzione spoglia e arida. L’idolo di legno, quello era molto interessante. Al cospetto di quel tronco intagliato nelle sembianze approssimate di uomo, Arinne provava un misto di solenne rispetto e curiosità pettegola. Non era originario di Piatra Carvii, questo tutto ciò che sapeva. Trasportato lì dal nord, era stato piantato appena dietro l’altare ormai tanti anni prima. Da allora aveva vigilato, attento custode, su quelle colline contro ogni pericolo.

«Pensi che lì dentro abiti davvero una divinità?» chiese passando un dito affusolato sulla corteccia scabra dell’idolo. Era alto poco più di uomo e Arinne non poteva guardarlo negli occhi senza alzare la testa.

«Forse».

Calaid era appena arrivato e la sua figura ben proporzionata proiettava un’ombra scura giù lungo il sentiero. Di fronte alla risposta evasiva del fratello, Arinne arricciò il naso.

«Non capisco perché mai un dio dovrebbe scegliere di abitare dentro un tronco» continuò dubbiosa, sedendosi sull’altare. Con gli occhi verdi persi in un’aria sognante, teneva le mani incrociate sul petto e la testa inclinata su un lato, cercando di figurarsi in carne ed ossa quell’uomo longilineo intagliato nel legno.

«Siamo uomini, Arinne. Il mondo degli Dei non ci appartiene» la ammonì Calaid, che si ostinava a non raccogliere gli stralci di conversazione con cui la sorella lo punzecchiava. «Spostati di lì e smettila di fare domande».

La ragazza fece una boccaccia e si rizzò in piedi. Una folata di vento le scompigliò i capelli castani, facendola rabbrividire. D’istinto si strinse nella tunica di lana, sfregandosi le spalle. Osservò il fratello deporre sull’altare un agnellino. Non le piaceva l’idea di offrirlo in sacrificio per propiziare quella divinità di cui non conosceva nemmeno il nome, e ancor meno il fatto che Calaid dovesse mettersi in viaggio.

«Devi proprio farlo?»

La voce di Arinne perse di colpo ogni entusiasmo, mostrando una sfumatura di tristezza.

Sempre la stessa storia.

Calaid si sarebbe recato a sud, nelle terre romane, o forse a nord, negli altri villaggi di Piatra Carvii, offrendo la propria abilità di fabbro in cambio di qualche moneta, poi sarebbe tornato recando, nella migliore delle ipotesi, anche un piccolo dono per la sorella. Si trattava solo di qualche giorno, ma l’idea di rimanere sola rendeva Arinne inquieta. Quando il fratello non c’era, il vento sembrava troppo rumoroso, come se volesse ricordarle i pericoli aldilà di quella mite campagna.

«Sai che devo» rispose sommesso Calaid, osservando pensieroso la campagna punteggiata qua e là di fattorie.

Aveva gli stessi occhi verdi di Arinne, ma non mostravano la medesima tristezza, piuttosto una ferrea determinazione sfumata in dolcezza ogni volta che posava lo sguardo sulla sorella. Le si avvicinò, scompigliandole i capelli. Un gesto deciso, che possedeva tutta la forza di un padre intento a consolare una figlia. Calaid era tutto ciò che ad Arinne era rimasto dopo la morte dei genitori. Infaticabile lavoratore, faceva tutto ciò che era necessario per assicurarle una tranquilla esistenza esente da stenti. Avevano cibo, una capanna spaziosa e anche qualche prezioso gingillo. Gli voleva bene anche per questo, riuscendo a perdonargli i frequenti viaggi e persino tutte le volte che non assecondava la sua avida e curiosa immaginazione.

«Tienilo fermo»

Con un cenno verso l’animale, il giovane fabbro lasciò intendere che non era disposto a scendere a patti sulla questione del viaggio. Arinne fece come le era stato ordinato. Con una mano carezzò la testa lanosa dell’agnello, con l’altra lo costrinse a stare fermo sull’altare. Rimase in silenzio, osservando con attenzione ogni gesto del fratello. Era di spalle e non ne poteva scorgere il volto mentre rivolgeva una muta preghiera a quello strano idolo di legno. Quando ebbe finito si volse verso il cucciolo, stringendo nel pugno il coltello che teneva nella cintola. Arinne ebbe un moto di tenerezza verso quell’animale che se stava lì, gracile e docile, ignaro della fine cruenta che lo avrebbe colto. Calaid sollevò la testa dell’animale, poi con la piccola arma ne recise la gola. In preda agli ultimi guizzi di vita, l’agnello scalciò, schizzando l’altare con una striscia scura. Arinne chiuse gli occhi: odiava dover assistere a quello spettacolo. Anche solo l’odore del sangue le dava la nausea, ma riuscì a controllare la propria repulsione: sapeva bene quanto fosse importante quell’offerta. Era un rito abbastanza semplice, con cui il fratello avrebbe acquisito la benevolenza degli Dei prima del lungo viaggio.

Quando Calaid soffocò un’imprecazione, Arinne riaprì gli occhi, indietreggiando col volto sconvolto per la sorpresa.

L’agnello aveva la gola squarciata, una ferita che avrebbe dovuto ucciderlo in pochi istanti. Tuttavia l’animale si ostinava a rimanere in vita, come se una forza invisibile avesse allontanato la mano della morte. Scalciava e si dibatteva con vigore finché, vinta la resistenza di Calaid, balzò giù dall’altare. La ragazza impallidì: la testa dell’agnello ciondolava su un fianco, quasi sul punto di staccarsi. La bestia fece alcuni passi lasciando una scura scia di sangue sull’erba, emise un verso stridulo, poi si accasciò al suolo, ormai priva di vita.

Dapprima i fratelli non riuscirono a far altro che rimanere in un silenzio attonito, spezzato solo dal gracchiare delle cornacchie nel bosco. Arinne si sentì assalire da mille paure, negli occhi ancora l’immagine di quella testa piegata in modo innaturale.

«Era davvero un cucciolo vigoroso» sussurrò Calaid, il volto terreo ancora fisso sulla carcassa.

Lontano dal rassicurarla, quelle parole non fecero che allarmarla ancor di più. Evidentemente il fratello stava tentando di lasciar passare l’accaduto come qualcosa di normale, ma la sue fronte imperlata di sudore freddo diceva esattamente il contrario.

Arinne deglutì e stropicciò gli occhi, cercando di convincersi che, in fondo, una spiegazione poteva anche esserci. La ferita era profonda certo, ma forse non sufficientemente profonda da uccidere la bestia all’istante. E poi aveva fatto solo qualche passo prima di morire. Solo qualche passo? E quel verso. La sua immaginazione stentava a definire quella nota agghiacciante il verso di un agnello. Più la sua mente si affannava a giustificare l’accaduto, meno Arinne sentiva di riuscire a credere a se stessa. Non c’era nulla di normale in ciò a cui aveva assistito, ancor più se pensava al sacrificio rituale.

«Nefas».

La parola le affiorò alle labbra quasi inavvertitamente. Un cattivo presagio, un segno di sventura. Prese a tremare, scoprendosi angosciata per l’imminente partenza del fratello.

«Calaid, non partire»

«Ne abbiamo già parlato, Arinne»

«Questa volta è diverso. Hai visto cosa …»

«Non è successo nulla» l’interruppe Calaid, gli occhi di smeraldo nuovamente pieni di sé.

Aveva ritrovato il portamento abituale, come se quel macabro avvertimento l’avesse appena sfiorato prima di disperdersi nel vento che spazzava le colline.

«Come puoi negare l’evidenza?»

«Evidenza?» le fece eco, deponendo i resti sanguinolenti dell’animale sull’altare. «Io ho visto solo un agnello che sperava di sopravvivere. Tu hai visto qualcosa di diverso, Arinne?»

«Stai mentendo a te stesso, Calaid. Se partirai, sarai in pericolo»

Arinne scosse la testa, amareggiata. Distolse lo sguardo dal fratello, voltandosi a guardare l’idolo senza nome. L’immobilità aliena del totem e quei suoi strani occhi allungati le misero addosso la pelle d’oca. Assorta com’era nelle proprie meditazioni, quasi sussultò quando Calaid la strinse a sé.

«Va tutto bene, Arinne. »

La ragazza ricambiò l’abbraccio, rimanendo in silenzio. Chiuse gli occhi, sfregando la guancia contro la corta barba del fratello. Si sentiva rassicurare dalla sua presenza, dalla sua forza. Le sue parole riuscirono a scalzare l’angoscia morbosa che l’aveva appena assalita.

«E se …»

Non terminò la frase. La certezza di quella sinistra premonizione si stava smorzando nel dubbio.

«Continui a essere in pensiero per un viaggio che ho fatto tante volte »

Chinandosi a raccogliere la propria sacca, Calaid le sorrise, poi iniziò a ridiscendere la collina.

«La preoccupazione mi ha giocato un brutto scherzo.» confessò infine, raggiungendo il fratello.

Camminarono senza fretta e in silenzio. Calaid aveva l’abitudine alla quiete, così Arinne non seppe dire se stesse riflettendo o semplicemente ascoltando il cinguettio degli uccelli. Di tanto in tanto la ragazza si fermava a lanciare un’occhiata all’altare, ma ben presto la sagoma dell’idolo di legno divenne una macchia indistinta nel paesaggio. Mancavano ancora diverse ore al crepuscolo, eppure i preparativi per il viaggio erano numerosi. Bisognava assicurarsi che ci fosse abbastanza legna per il fuoco, e cibo sufficiente per l’intera settimana. Arinne doveva ammettere che, senza l’affidabile presenza di Calaid, non riusciva a tener testa alle numerose incombenze casalinghe. Per fortuna la loro casa non sorgeva isolata come tante fattorie di Piatra Carvii. C’era Hyrem, la vicina della capanna a lato. Aveva molti anni più di Arinne, forse anche qualcuno in più del fratello. Era simpatica e molte incline a lunghe chiacchierate. Una ragazza solare, la compagna ideale per Calaid. Solo una volta aveva azzardato ad accennare all’argomento, e la burbera risposta del fabbro celtico l’aveva convinta ad accantonare la questione. Anche se, Arinne ne era certa, una futura unione sarebbe stata inevitabile. Persino lei riusciva a notare gli sguardi melliflui con cui Hyrem sbirciava oltre la porta del piccolo capanno che Calaid aveva adibito a fucina. Eppure, inspiegabilmente, il fratello sembrava non riuscire ad accorgersi delle attenzione che la ragazza si ostinava a profondergli. Cosa al quanto imbarazzante, bisognava ammetterlo.

«Se ti rechi nelle terre romane, Hyrem vorrebbe che tu le portassi un fiasco di vino speziato. Dice che il padre ne va matto.»

Arinne aveva già dimenticato il brutto episodio e tornava alla carica contro il fratello, spezzando la pace di quel pacato ritorno a casa.

«Si, mi ha già detto» replicò Calaid seguendo distrattamente le volute di fumo che si innalzavano dal comignolo di alcune capanne. «Ha anche aggiunto che, per qualsiasi cosa, puoi contare su di lei durante la mia assenza».

«Che cara ragazza»

Il commento di Arinne fluttuò per aria prima di cadere, ancora una volta, nel silenzio.

Ormai avevano percorso quasi interamente il sentiero che portava a casa, snodandosi fra macchie di olmi isolati e radure pietrose coperte solo da sterpaglie. A poca distanza si profilava un agglomerato molto raccolto di casupole, sei in tutto. Erano capanne circolare costruite alla maniera celtica. Strette finestre, quasi fessure, solcavano le mura di legno intonacate con argilla essiccata. Sotto un tetto di sterpi si aprivano poche stanze: una cucina, lo spazio per gli animali e un dormitorio che, all’occorrenza, fungeva anche da cucina. Una famiglia numerosa con padre, figli e relativa prole avrebbe forse sofferto la mancanza di spazio, ma per Arinne e Calaid la propria capanna non era diversa da una di quelle domus romane che tanto meravigliavano i viaggiatori provenienti dal nord.

Un guaito accolse il loro lento ritorno: il cane del villaggio, accovacciato poco scosto dalla linea del sentiero. Più che un saluto festoso, ad Arinne parve un inno alla vita indolente cui l’animale pareva essersi consacrato.

«Cotoletta, potresti quanto meno mostrare un po’ di gioia!».

Poggiata contro lo stipite della porta di casa, i capelli raccolti in una treccia ramata, Hyrem si esibì in un improbabile rimprovero. Degnandole appena un’occhiata di sufficienza, Cotoletta non si scompose più di quanto aveva appena fatto, continuando a osservare un gruppo di bambini intenti a giocare.

«Sei sicura che sia in grado di difenderti contro i nemici?» ridacchiò Calaid, chinandosi ad accarezzare l’animale.

«Se di nemici si può parlare da queste parti» lo corresse Hyrem, accennando un vago saluto con la mano. «Magari è solo annoiata. Dovresti prendere in considerazione l’idea di portarla nei tuoi viaggi. Si divertirebbe, e tu avresti anche un po’ compagnia.»

«Un cane celtico? Non superebbe le frontiere dell’Impero» ironizzò il giovane fabbro, gettando la propria sacca oltre l’uscio di casa.

Per tutta la durata della conversazione, Arinne non aveva proferito parola né si era mossa da dove si trovava. Si irrigidì, sentendo il respiro farsi sempre più affannato. Stava assistendo a una scena di familiare quotidianità eccetto per un singolo, macabro dettaglio.

Di fronte a sé vedeva Hyrem, ma il suo volto non era quello abituale. Gli occhi erano delle orbite vuote, scure e rugose, orlate di sangue rappreso. La pelle del viso tumefatta come quello di un cadavere.

«Arinne, tutto bene?» le chiese Calaid, la voce vibrante in allerta.

«Hai una brutta cera» confermò Hyrem, accennando qualche passo nella sua direzione. Ma più si avvicinava, più Arinne si allontanava. Com’era possibile? Come poteva muoversi e parlare con disinvoltura, nonostante il viso orrendamente trasfigurato? E perché Calaid non sembrava curarsi della cosa? Dovette trattenere l’impulso di urlare, dominando l’agitazione, prima di riuscire a capire. Stava assistendo ad un prodigio, un orribile prodigio. La sua era una visione, che nessun altro stava condividendo.

Stavolta non potevano esserci dubbi: Gli Dei le stavano parlando, con i loro modi equivoci ed effimeri. Era da anni che non accadeva, tanto che ormai aveva quasi dimenticato di possedere il dono dell’Occhio di Persefone.

Persefone, moglie di Ade e Regina dei Morti.

Aveva sempre pensato che fosse ironico che una Dea, a lei sconosciuta, l’avesse scelta. Certamente merito della madre, greca di nascita. Era molto devota a Persefone e anche lei possedeva l’Occhio. In che modo quella strana affinità con la morte si fosse tramandata, non riusciva a spiegarselo, ancor più se pensava a Calaid. Lui non aveva mai mostrato nessuna abilità fuori dalla norma. Un comune uomo celtico, come lo era stato il padre, come lo erano tutti a Piatra Carvii.

Tutti, eccetto lei.

Ancora sconvolta per ciò a cui stava assistendo, Arinne era incapace di parlare. Ansimava, indietreggiando lentamente, un passo dopo l’altro. Il volto di Calaid rivelava preoccupazione, ma come poteva dargli spiegazioni? Cosa avrebbe dovuto dirgli? La mente si dibatteva in una febbrile eccitazione, divisa fra trovare il senso della visione e riuscire a celare la cosa.

Non passò molto prima che le incalzanti domandi di Hyrem e Calaid attirassero l’attenzione del resto dei vicini. Chi sbirciò da oltre l’uscio, chi emerse dal retro della propria capanna. I bambini interruppero il gioco in cui erano impegnati. Tutti si raccolsero nello spiazzale, tutti curiosi di capire che stesse accadendo.

Tutti col medesimo volto sanguinante e privo degli occhi.

Arinne si sentì esausta e nauseata, come se avesse subito un scarica di energia. Inciampò. Si scoprì distesa sul sentiero, ma non vi badò né diede importanza alla schiena dolorante. Riuscì appena a rizzarsi sui gomiti che Calaid le era a lato, i corti capelli biondi impiastrati di sudore, il viso teso e gli occhi dilatati.

«Arinne, che sta succedendo?».

La scosse energicamente per le spalle, poi poggiò la fronte contro la sua, incatenando insieme gli sguardi smeraldini.

«Rispondimi».

Un ordine perentorio, ma proferito con un calore misurato. Quell’ultima parola sembrò riuscire a destarla, creando uno spazio intimo che non apparteneva a nessun altro eccetto i due fratelli. Deglutì e chiamò a raccolte le proprie forze. La risposta arrivò in un sussurro udibile appena, ma fu sufficiente a pietrificare il volto di Calaid.

«Qualcosa di terribile si abbatterà su Piatra Carvii».

 
 
L’ANGOLO DEL BARDO:
Aprire la nota ringraziando i pochi lettori che avranno fede negli sviluppi di questa storia, è inevitabile. In particolare vorrei ringraziare una cara amica che, con pazienza e puntualità, segue e recensisce le storie che pubblico. Spero questa volta di riuscire a portare avanti un progetto ben più ambizioso di un semplice racconto (o raccolta). Sotto, trovate la copia scannerizzata di una mappa. Potrebbe essere un’utile guida ai futuri sviluppi della storia, così mi preme chiedervi: pensate sia meglio postarla, di volta in volta, alla fine del capitolo (magari segnando in rosso le location di interesse citato nel capitolo?) oppure preferite un’appendice, liberamente consultabile e slegata da ogni capitolo?Fatemi sentire i vostri pareri, che sono la cosa più importante :D Chiudo la nota con una piccola parentesi storica. Ci troviamo nella regione della Dacia, in una zona periferica dell’Impero Romano (vedi seconda mappa). Siamo nel 117 d.C, il periodo di massima espansione di Roma. Dacia. Ho scelto questa regione, memore del Castello sui Carpazi di Dracula. Chiunque abbia letto anche solo i primi capitoli del romanzo di Bram Stoker, sono certo capirà il fascino di questa regione. Piatra Carvii è un nome tratto realmente dalla geografia storica della regione anche se non sono per niente certo si tratti del nome di una zona di villaggi celtici ma, ai fini della storia, mi sono preso la libertà di rattoppare con la fantasia la mancanza delle mie conoscenze. Spero che questa prima parte abbia stuzzicato la vostra curiosità, a presto col prox aggiornamento!
PepperS, il bardo di Efp



  

  
   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Peppers