Broken Ice

di Mary P_Stark
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. ***
Capitolo 3: *** II ***
Capitolo 4: *** III ***
Capitolo 5: *** IV. ***
Capitolo 6: *** V. ***
Capitolo 7: *** VI ***
Capitolo 8: *** VII ***
Capitolo 9: *** VIII ***
Capitolo 10: *** IX. ***
Capitolo 11: *** X. ***
Capitolo 12: *** XI. ***
Capitolo 13: *** XII. ***
Capitolo 14: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


3

Prologo.

 

 

 

 

«Non credi che sia rischioso salire su quel ciliegio, Kimmy?»

La voce trillante di un ragazzo riverberò nel giardino di casa Clark dove una bambina di dodici anni, Kimberly, era intenta a compiere una delle sue solite bravate.

Le scure sopracciglia aggrottate, il giovane Winter, di quattordici anni, scrutò l’amica d’infanzia con la segreta speranza di non vederla scivolare dal ramo dove ella si trovava per raccogliere alcune ciliegie particolarmente belle.

In cuor suo, però, sapeva che il suo piede era troppo vicino a scivolare.

Un attimo dopo, avvenne quanto temuto.

Kimmy scivolò clamorosamente, le ciliegie volarono tutt’attorno in una pioggia rossastra e Win, pronto, si lanciò in direzione dell’amica. Presala al volo, ruzzolarono a terra sull’erba smossa impedendo, di fatto, il peggio.

Confusa e, sì, spaventata per quella caduta, Kimmy si guardò intorno confusa notando solo vagamente le ciliegie sparse per il prato. La sua attenzione era interamente indirizzata al ragazzo che, tanto coraggiosamente, l’aveva salvata da un brutto capitombolo.

Sdraiato a terra e con un braccio saldamente trattenuto contro il torace, Win aveva i denti digrignati, ma non stava lamentandosi neppure in misura minima.

Subito, Kimmy gli fu accanto e, non appena sfiorò il suo braccio, Win si lasciò sfuggire un grugnito e una lacrima.

Kimmy allora iniziò a piangere a dirotto, dispiaciuta per il dolore causato all’amico e Win, riaprendo gli occhi nel sentirla piagnucolare, borbottò: «Sono io che mi sono fatto male, e tu piangi? Non ha senso!»

«Ti ho fatto male io!» singhiozzò irrefrenabile Kimmy, cercando di asciugarsi le lacrime dal viso.

Le mani, macchiate d’erba, le colorarono di verde il viso e Win, nonostante il dolore, si ritrovò a sorridere.

Facendosi forza sul braccio sano, si avvicinò all’amica e, dandole un buffetto sul naso, replicò: «Ho sbattuto il gomito sulla terra, non sei stata tu.»

«Ma se fossi stata più attenta…» iniziò a lagnarsi Kimmy, subito interrotta da Win.

«… non saresti più stata Kimmy. Va tutto bene. Lo sai che penso io a proteggerti dalla tua testa matta, no?» terminò per lei Win, strizzandole un occhio con complicità.

«Win!» strillò affranta Kimmy, gettandogli le braccia al collo e minacciando di farlo cadere nuovamente per la foga di quel gesto.

Il ragazzino accusò il colpo con stoicismo e la strinse per un momento con il braccio sano, dandole confortevoli pacche sulla schiena prima di avvertire un sibilo nel suo cuore.

Accigliandosi, ascoltò con maggiore attenzione e, solo quando fu certo di aver compreso bene, si lasciò andare all’abbraccio di Kimmy e pianse.

La bambina interpretò quella reazione come uno scoppio ritardato del dolore causato dalla caduta, perciò si limitò a tenerlo ancora stretto a sé, tentando con vuote parole di confortarlo.

Avrebbe scoperto poco tempo dopo cosa, realmente, aveva scosso tanto l’amico d’infanzia.

 

 

 

 

_____________________

N.d.A.: Ciao! Con questo breve prologo ha inizio la storia del primo dei quattro gemelli Hamilton. Ben presto farete conoscenza con tutti loro. Nel frattempo, vi ringrazio fin d’ora per aver deciso di leggere la mia storia.

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Capitolo 2
*** 1. ***


1

Capitolo 1

 

 

 

 

Washington D.C. si svegliava presto, la mattina.

Il via vai di auto lungo le vie non cessava veramente a nessuna ora del giorno e della notte, nella capitale degli Stati Uniti, pur se la città appariva più sonnolenta della Grande Mela, notoriamente conosciuta per non dormire mai.

Era freddo, quella mattina di novembre inoltrato, e le strade erano già spolverate della prima neve di stagione.

Gli addetti alla pulizia stradale erano in movimento già dalle prime luci dell’alba, e gli spargi-sale stavano circolando da ore lungo le interminabili strade a scorrimento veloce, che levitavano sulla città con l’aria di essere quasi prive di peso.

Una mera illusione, ovviamente.

Quei cavalcavia di ferro e cemento dalle forme così eleganti avrebbero distrutto tutto ciò che incontravano, se fossero implosi su loro stessi. Fortunatamente, Washington D.C. non era zona sismica come potevano essere invece Los Angeles o San Francisco.

Inoltre, Winter Hamilton era proprio l’ultima persona al mondo a doversi preoccupare di eventi simili.

Dall’abitacolo della sua auto ibrida sorrise deliziato, assaporando le onde di potere che riverberavano attraverso le ampie vie cittadine. In questo, i fondatori di Washington erano stati lungimiranti.

Intessuti nelle fondamenta stesse della città, antichi poteri e reminiscenze di altri tempi galleggiavano non visti ai più, ma a disposizione di coloro i quali erano stati beneficiati da divino sangue o benedicente mano.

E lui respirava a pieni polmoni l’energia esoterica della Capitale, godendone pienamente.

Le genti comuni non potevano avvertire le correnti energetiche, che scorrevano attraverso il pentacolo di potere creato appositamente per proteggere la città dai suoi nemici, ma Winter era in grado di farlo.

Lui, come il resto della sua famiglia.

Di antico retaggio e di fatata stirpe, i coniugi Hamilton si erano trasferiti più di trent’anni prima dalla nebbiosa città di Dublino alla più caotica Washington D.C., portando con loro i quattro figli gemelli.

Brigidh, la sorella di Camille O’Hara Hamilton, li aveva seguiti nel nuovo mondo per poter restare accanto ai nipoti, oltre che per liberarsi del giogo familiare troppo opprimente per tutti loro.

I sobborghi di Washington D.C., con le loro piccole case di legno dalle tinte chiare e i bei giardinetti ordinati, avevano visto crescere Winter, Spring, Summer e Autumn, i magici gemelli di Anthony e Camille.

Ma erano anche stati testimoni della triste fine della coppia, che aveva incontrato il suo destino lungo una delle vie dell’immensa Capitale degli Stati Uniti.

Un giorno d’estate, col sole a perpendicolo e il cielo sgombro di nubi, la notizia  era giunta nefasta in quell’angolo di Woodland Drive e, nel giro di poche ore, la vita dei quattro gemelli era cambiata radicalmente.

La banca aveva pignorato loro la casa, obbligandoli a lasciarla in fretta e furia e Brigigh, giovane venticinquenne, si era ritrovata a fare da madre e da padre a quattro bambini di quattordici anni dal cuore infranto.

Trasferitisi a Saint Charles, nel Maryland, dove il costo della vita parve loro più abbordabile, Brigidh aveva tentato di dare il via a un nuovo corso per i suoi nipoti, pur sapendo che la mancanza dei genitori si sarebbe fatta sentire, sempre.

Old Washington Road era divenuta il loro nuovo habitat e, per lunghi anni, i fratelli Hamilton e la loro zia Brigidh, avevano convissuto in una modesta casetta, che sarebbe bastata sì e no per tre persone.

Nello svoltare all’interno del parcheggio sotterraneo della sede locale del NOAA1, Winter rammentò senza problemi i lunghi anni passati a sbarcare il lunario, e le infinite giornate passate a dare una mano alla zia, impegnata all’università.

Era così che aveva imparato i mestieri di casa, a cucinare, pulire, tenere in ordine e, soprattutto, a non sporcare.

Perché quello, sopra ogni altra cosa, avrebbe voluto dire prendere in mano detergenti e stracci e usare olio di gomito per ore.

Cosa che lui detestava.

Si era impegnato tutte le estati a tagliare prati, consegnare giornali, sistemare siepi, e tutto per dare un po’ di sollievo a Brigidh che, senza mai lamentarsi, si era presa cura di loro senza badare alla propria vita.

Le borse di studio che avevano saputo ottenere grazie a immani sforzi avevano, se non altro, tolto un peso enorme dalle spalle della zia.

Tutti loro avevano cercato di non pesarle in alcun modo, ma tenere a bada quattro bambini non doveva essere stato facile. Soprattutto quattro ragazzini come loro.

Lui più di tutti lo sapeva.

Suo figlio Malcolm era adorabile, un bambino intelligente quanto educato, ma era pur sempre un ragazzino di otto anni che, da quattro, aveva perso la mamma a causa della leucemia che, nel giro di pochi mesi, l’aveva strappata a tutti loro.

Capiva non poco quanto i primi anni assieme fossero stati difficili per la zia e anche per questo, alla fine, l’aveva perdonata di tutto.

Posteggiata l’auto nel suo parcheggio privato, Winter smontò dalla Toyota Prius grigio scuro e si diresse con passo sicuro in direzione degli ascensori.

Con rapide falcate,  ne uscì non appena le porte si aprirono e penetrò all’interno dell’ampia struttura governativa, la camminata elegante e potente al tempo stesso.

Climatologo affermato e dalle idee innovative, Winter si occupava di una ricerca volta a scoprire i danni causati dal progressivo innalzamento delle temperature terrestri sui ghiacci del Polo Nord.

Proprio in quei giorni, stava riunendo una nuova squadra per partire alla volta dello Stretto di Bering per portare avanti le sue analisi sui ghiacci nordici.

«Buongiorno, Dottor Hamilton» gorgogliò cordiale la receptionist nel vederlo comparire nell’enorme atrio, illuminato naturalmente dalle ampie vetrate a specchio, che lasciavano penetrare generosamente la luce del giorno.

«Mrs Matsumoto» mormorò gentilmente Winter, sfoggiando un breve, rapido sorriso prima di dirigersi verso gli ascensori.

Pigiato il tasto numero quattro quando le porte dell’ascensore gli permisero di salire nella stretta camera rettangolare di metallo satinato, Winter lanciò una veloce occhiata all’orologio da polso prima di annuire tra sé.

Un attimo dopo, afferrò il cellulare e digitò il tasto tre per la chiamata rapida.

Due squilli e una voce trillante gli rispose, dicendo: «Ciao, papà!»

Un sorriso enorme si dipinse sul viso solitamente compassato di Winter che, infilato il bluetooth all’orecchio, mormorò: «Ehi, campione, ciao. Già fatto colazione?»

«Zia Spring sta mettendo i pancake in tavola proprio adesso» lo informò il bambino, in sottofondo lo sbatacchiare di piatti e forchette.

Un attimo dopo, un tonfo, il tintinnio di un bicchiere infranto e la voce cinguettante quanto inferocita di Spring che, agitata, gridò: «No! Non ancora

Winter scosse il capo indulgente mentre le porte dell’ascensore si aprivano e, percorrendo a rapidi passi il corridoio dinanzi a lui, sussurrò: «Cos’ha distrutto, stavolta?»

«Il succo di mela è sul pavimento… mi sa che le darò una mano. A dopo, papà» ridacchiò Malcolm, chiudendo la chiamata.

Winter si concesse un breve risolino prima di tornare al suo solito cipiglio serioso e, quando aprì la porta della sala riunioni, sul suo volto dai lineamenti fieri nessuno avrebbe potuto scorgere neppure un barlume di emozione.

Timothy Walker, suo collega e meteorologo dall’occhio fino, lo salutò con un cenno del capo, lo sguardo puntato sulle isobare che interessavano le zone dell’Alaska e dello Stretto di Bering.

Avvicinatosi al tavolo ovale che capeggiava nel bel mezzo del salone – interamente bianco e grigio e munito di monitor con computer annesso – Winter diede una sbirciata alla situazione barometrica prima di commentare: «Mi sembra buono. Che dici?»

«Tempo perfetto per i prossimi quattro giorni. Poi, un breve flusso di aria fredda dalla Siberia, corredato da tempeste di neve, e di nuovo bel tempo. Per i primi giorni di dicembre la missione potrà prendere il via senza alcun problema, a mio modesto modo di vedere» gli spiegò succintamente Timothy, grattandosi pensosamente la guancia coperta di barba scura.

Winter, al contrario, era perfettamente rasato, e i capelli neri come ali di corvo erano tagliati e pettinati a regola d’arte.

Nulla, nella sua figura, era fuori posto. Dal Dior Homme grigio scuro che indossava su una camicia botton-down di cotone bianco, alla cravatta Regimental al righe blu e rosse, alle scarpe nere e lucide, tutto appariva perfetto, senza difetti di sorta.

Un maledetto perfezionista, ecco cos’era.

Dalla morte di Erin poi, tutto era peggiorato, se possibile.

Winter si era chiuso in se stesso, lasciando che il suo cuore battesse solo per il figlio e per la sua famiglia, mentre all’esterno riversava soltanto la sua passione per il lavoro e poco altro.

Iceman, lo chiamavano, e a ben donde.

Non un cedimento, non un sorriso di troppo, non una battuta.

Winter era gelido come l’inverno, di nome e di fatto.

«Ottimo. Non mi va di aspettare troppo» annuì una sola volta Winter, poggiando la sua ventiquattrore sul tavolo di vinile scuro.

Era difficile immaginarlo con un completo da neve della North Face, specialmente quando si presentava così abbigliato, ma tant’era. Winter sapeva esattamente cosa fare, quando farla, e come farla.

E Timothy non si sarebbe stupito più di tanto se, i carotaggi nel ghiaccio, li avesse fatti in completo gessato e parlando al telefono con il Presidente degli Stati Uniti.

«I membri della squadra sono già stati nominati?» si informò distrattamente Winter, estraendo le ultime planimetrie satellitari dello Stretto.

«Big Mama ci ha mandato Rowena Simms, Malick Nejad e una nuova… aspetta… ho il nome da qualche parte…» borbottò Timothy, scartabellando tra i suoi appunti.

Winter si lasciò andare ad un rapido sogghigno.

Big Mama altri non era che il loro supervisore, un donnone alto più di un metro e ottanta e con una stazza che avrebbe fatto invidia ai più titolati pesi massimi della boxe.

Era buona come il pane finché tutto filava liscio ma, se qualcosa non rientrava nel suo particolarissimo spettro di idee, allora era la fine. Si scatenava in tutta la sua forza distruttrice e chi si fosse trovato troppo vicino al suo raggio d’azione, avrebbe passato un brutto, bruttissimo quarto d’ora.

Personalmente, la adorava, ma Winter sapeva che poteva essere anche un’emerita stronza, quando voleva.

Il che voleva anche dire che, in quella missione, avrebbero potuto ritrovarsi con il figlio di un idiota che lei non sapeva dove piazzare, oppure con un autentico genio delle trivellazioni.

Tutto dipendeva da come si era svegliata quella mattina.

«Ah, ecco!» esclamò all’improvviso Timothy, richiamando l’attenzione di Winter. «Dottoressa… ah, dottoressa Kimberly Clark, laureata a Yale, ha un Master in paleoclimatologia e uno in ingegneria. Ha lavorato presso alcuni laboratori privati subito dopo essere uscita dall’università prima di fare domanda qui al NOAA. Ma mi stai ascoltando, Hamilton?»

Non appena Winter aveva udito quel nome, ogni particella del suo corpo si era come frizzata e gli occhi si erano spalancati lentamente mentre, con ondate sempre più forti, antichi ricordi si erano riversati nella sua mente.

Profumo di crostata di ciliegie si era mescolato ad autunni passati a scaldare le caldarroste sul barbecue di casa Clark mentre sua madre, Camille, preparava cioccolata calda per tutti.

Non era possibile che fosse proprio lei, eppure…

Levando il capo in direzione della porta non appena questa si aprì, Winter esalò un sospiro di autentica sorpresa e, prima che potesse bloccarlo, un unico nome scaturì dalle sue labbra: «Kimmy?»

≈≈≈

Non sapeva esattamente cosa aspettarsi dal suo nuovo lavoro ma, di certo, tutti l’avevano messa in guardia sul suo supervisore e capo della spedizione.

Tutti, nessuno escluso, le avevano detto che, del Dottor Hamilton, bisognava avere rispetto e paura.

Quando aveva chiesto il suo nome, nessuno aveva voluto dirlo perché, testuali parole, non ci si rivolgeva mai a lui per nome, a meno di non aver ricevuto il permesso di farlo – cosa che non capitava mai – quindi era superfluo conoscerlo.

Quel particolare l’aveva sconcertata, perché lei era abituata a dialogare con i colleghi senza alcun problema e, soprattutto, trattava tutti come pari, senza alcuna distinzione tra i ruoli.

Possibile che esistesse davvero il mostro che tutti le avevano descritto?

Bravo, competente, efficiente, intuitivo ma, a conti fatti, gelido. Imperscrutabile.

Non era del tutto sicura che si sarebbe trovata bene a lavorare con un simile concentrato di bravura e, al tempo stesso, di stronzaggine, ma tant’era.

Lei voleva quel lavoro a tutti i costi, e non era detto che le sarebbe sempre toccato lavorare con quest’uomo.

Quando aprì la porta della sala riunioni, dove avrebbe incontrato i suoi futuri colleghi, non si aspettò di certo di percepire quell’antico nome, e mormorato dall’uomo più improbabile che si sarebbe mai aspettata di incontrare.

Il volto era cambiato, così come tutto il resto, ma gli occhi restavano quelli che lei aveva sempre ammirato.

Quegli occhi grigi, capaci di catturare la luce in mille sfumature diverse, così come solo il ghiaccio è capace di fare.

Solo che…

Avevano qualcosa di diverso anche loro, nonostante sapesse bene a chi appartenevano.

Spalancando la bocca per la sorpresa, al pari dell’uomo alto e bruno che la stava scrutando come se non si aspettasse di vedere proprio lei, Kim esalò: «Win?»

Timothy strabuzzò gli occhi, terrorizzato.

Rapido, lanciò un’occhiata in direzione del suo capo, forse aspettandosi qualche reazione violenta a quella deliberata infrazione al codice non scritto che vigeva nel loro gruppo, ma nulla trovò se non sconcerto.

Avanzando lentamente, una mano che tratteneva la tracolla della sua borsa mentre gli occhi verde giada ancora indugiavano sul viso dagli zigomi alti e la mascella squadrata di Winter, Kimberly mormorò ancora: «Sei tu, vero?»

«Vi… vi conoscete?» si azzardò a chiedere Timothy, già pronto a correre ai ripari in caso di un’esplosione ritardata da parte di Hamilton.

La voce dell’uomo riscosse quel tanto che bastò Winter da permettergli di uscire dall’immenso gorgo in cui era finito con l’entrata in scena di Kim e, ricompostosi in fretta, annuì e disse: «Sì, Timothy. Siamo vecchi vicini di casa.» Poi, rivolto nuovamente lo sguardo verso Kim, aggiunse: «Kimberly Clark, lascia che ti presenti Timothy Walker, nostro meteorologo di fiducia.»

«Tanto piacere, Dottor Walker» mormorò la donna, ancora vagamente confusa dalla reazione del vecchio amico.

Senza dare a vedere quanto il comportamento freddo di Winter l’avesse colpita e, sì, ferita, Kim allungò una mano in direzione dell’uomo alto e magrolino che le venne presentato.

Sorridente, strinse con forza prima di volgere lo sguardo in direzione dell’uomo che un tempo era stato suo amico, e domandare: «E’ lecito stringere la mano anche a te?»

«Certamente» annuì Winter, formale quanto pacato.

Kim si chiese nuovamente il perché di quella reazione.

Non si era sbagliata, l’aveva sentito sussurrare ‘Kimmy’, il nomignolo con cui l’aveva sempre chiamata quando erano bambini.

Quindi, perché comportarsi come se tra loro non vi fosse stata una bella quanto profonda amicizia?

Nello stringere quella mano dalla carnagione pallida – Winter non aveva mai preso la tintarella, neppure sotto il sole cocente – Kim si chiese cosa fosse successo ma, quando provò a leggere in quegli occhi chiari, trovò solo una barriera insormontabile.

La luce di un tempo, del bambino a cui lei tanto si era affezionata, non c’era più.

Era completamente svanita.

Molto più tardi, studiando con calma il riassunto del programma di viaggio che avrebbero intrapreso da lì a dodici giorni, Kim si ritrovò a rimuginare sulla riunione appena terminata.

Winter era stato bravissimo nell’esporre tutto ciò che avrebbero fatto nello Stretto di Bering per circa un mese.

A giudicare dalle espressioni cariche di ammirazione di tutti, le era parso chiaro quanto il solo pensiero di poter lavorare con lui avesse stimolato i suoi colleghi.

A lei, però, qualcosa non tornava.

Dov’era finito il bambino sorridente e gagliardo di un tempo?

Perché Winter era più gelido di un pupazzo di neve?

«Ah, sei ancora qui?» esordì una voce alle sue spalle.

Volgendosi a mezzo sulla sedia girevole che occupava, un lecca-lecca al lampone in bocca e la carpetta con gli appunti poggiata in grembo, Kim sorrise spontaneamente nel vedere Timothy e, tolto il chupa-chups per parlare, domandò: «Ciao. Avevi bisogno di me?»

L’uomo la osservò per un attimo, i jeans schiariti su un paio di stivali da cowboy e un pesante maglione di lana marrone scuro, prima di chiederle: «Davvero tu e Hamilton eravate amici?»

«Vicini di casa, di sicuro. Amici, … me lo sto domandando anch’io» ammise Kim, poggiando sul tavolo della sala riunioni gli appunti per dedicarsi completamente a Timothy.

Lui si sedette poco più in là e le disse: «Non vorrei che partissi con il piede sbagliato, con lui, perché può esserti di grande aiuto per la tua carriera.»

Kim annuì cauta e l’uomo, preso un bel respiro, ammise: «Hamilton non è cattivo, credimi. Solo che, da quando è morta la moglie, non è più lo stesso. Certo, non brillava per battute di spirito neanche prima ma… oh, non lo sapevi… che era sposato, intendo…»

Non appena Timothy aveva accennato al matrimonio di Winter, Kim aveva strabuzzato gli occhi, solo per ritrovarsi con il desiderio di piangere non appena aveva saputo della morte della moglie del suo vecchio amico.

Davvero un po’ troppo, per lei, e in così pochi secondi.

Deglutendo a fatica, Kim ammise: «Io e Winter non ci vediamo da anni, … oddio, da vent'anni, per la precisione. Quando i suoi genitori morirono, lui e i fratelli furono costretti a trasferirsi lontano da Washington, assieme alla zia, e così persi le sue tracce. Non avevo la minima idea che si fosse sposato e… beh, che fosse vedovo.»

Timothy annuì tra sé, proseguendo nel dire: «Sua moglie Erin morì di leucemia, lasciandolo solo con un bimbo di quattro anni. Da quel giorno, si è chiuso in se stesso e mette anima e corpo in ogni progetto, lasciando tutte le emozioni al di fuori di questo palazzo. Qui, è una macchina senza freni, se capisci che intendo dire.»

«Penso di averne assaggiato sulla lingua la sensazione» asserì Kim, storcendo la bocca. «Quindi, non dipende da me il fatto che si sia comportato in maniera così fredda.»

«No, è così con tutti. Si scioglie solo in presenza del figlio e delle sorelle.»

«Oh… e il fratello? Autumn?» esalò stupita Kim.

Timothy sbatté le palpebre, più che mai sorpreso e Kimberly, fissandolo apertamente confusa, mormorò: «Non sapevate che aveva anche un fratello gemello?»

«Lo scopro ora. Hamilton non ne ha mai parlato. Ma adesso che lo nomini, però, mi sembra che una volta, in compagnia di sua sorella Spring, lo abbia accennato.» Poi, con un sorrisino, aggiunse: «Certo che chiamarli come le quattro stagioni è stato buffo.»

«Non se avessi conosciuto i suoi genitori» replicò con un sorriso affettuoso Kim. «Camille e Anthony Hamilton erano persone molto devote ai vecchi culti celtici, osservavano le antiche festività come Beltane2 o Imbolc3 e perciò, avendo avuto quattro gemelli, suppongo abbiano pensato fosse carino chiamarli così.»

«Credo dovrò studiarmi un po’ la storia irlandese, perché non ho idea di cosa siano le celebrazioni cui hai accennato» ammise Timothy, ridacchiando imbarazzato.

Kim sorrise, ricordando i bei falò accesi nel giardino per la notte di Beltane, che i cristiani associavano a Calendimaggio, in cui si onoravano la fertilità della terra e i suoi frutti preziosi.

Con loro aveva passato solo pochi anni, ma aveva imparato ad apprezzare i coniugi Hamilton, la curiosa zia Brigidh, che tanto le ricordava le storie irlandesi sulle fate dei boschi, e i quattro gemelli dai bizzarri nomi.

Rammentava con calore ogni attimo passato a giocare con loro, a festeggiare con succo di mele e crostatine ai frutti, mentre gli adulti brindavano a sidro o fumavano sigari.

I suoi genitori avevano sentito profondamente la loro mancanza, in quegli anni di separazione forzata, ma dubitava fortemente che sua madre e suo padre avrebbero riconosciuto il gaio bambino di un tempo nel Winter freddo e posato di adesso.

Forse ne sarebbero rimasti sconvolti, esattamente come era rimasta sconvolta lei.

≈≈≈

Il cielo ribolliva feroce, pronto a scaricare una nuova ondata di neve pallida e fredda, ma Winter non vi badò molto.

Percepiva, senza bisogno di osservare le nubi scure, la pressione dei fiocchi cristallizzati e pronti a cadere a terra.

Non era necessario che lui vedesse con i suoi occhi il formarsi della tempesta. La avvertiva anche se si trovava sottoterra, nel parcheggio del Centro.

Se si fosse concentrato, avrebbe anche potuto dire a che ora sarebbe iniziata la nevicata e quanta neve sarebbe caduta, ma non voleva sprecare i suoi poteri per simili sciocchezze.

Quel che gli bastava sapere era che sarebbe giunto a casa ben prima dell’inizio della tempesta che, a conti fatti, non avrebbe causato seri danni, ma solo qualche impiccio in più al traffico.

Ovviamente, se avesse anche soltanto subodorato un pericolo per la città, avrebbe fatto diramare un allerta meteo, ma quel giorno non era il caso.

Quindici centimetri di neve non causavano danni di rilievo, solo qualche imprecazione più del solito.

Sapeva di possedere quel dono fin dalla culla. Era galleggiato nel suo sangue ancestrale come liquido freddo, conferendogli i suoi poteri e predicando ciò che ogni saggio deve sapere.

Mai far del male, mai levar mano, mai diriger pena su alcuno.

Era un Mantra che si ripeteva all’infinito nella mente di ciascuno di loro, depositari dei poteri degli elementi e portatori del dono ancestrale della magia ricevuto dagli stessi Tuatha de Danann4, tanti secoli or sono, dai suoi primi discendenti.

Oh, certo, se avessero dovuto difendersi dalle Tenebre, avrebbero potuto usare ciò che gli antichi dèi avevano conferito loro, ma non avrebbero mai e poi mai dovuto abusarne.

Non era questo lo scopo.

Il tempo dei giganti era terminato, e loro erano tra gli ultimi custodi delle antiche credenze e degli ancestrali riti. Loro compito era mantenere in vita la stirpe, non certo scatenare guerre o conquistare popoli.

Pur se avrebbero potuto.

Winter levò la mano che teneva saldamente le chiavi dell’auto e sorrise tra sé.

Se l’avesse desiderato, avrebbe potuto scatenare tsunami così violenti da radere al suolo l’intera East Coast, o far sprofondare sotto metri di neve intere città, ma tutto questo a cosa lo avrebbe portato?

A nulla.

Non desiderava potere, ricchezze o dominio. Voleva solo vivere serenamente con suo figlio, visto che una parte del suo cuore gli era già stato strappato con violenza.

A quello, nessuno dei loro poteri aveva potuto porre rimedio. Perché c’era una Legge, una sola, che neppure i loro poteri potevano intaccare.

La Morte non conosceva patti, né dilazioni.

A Lei non si poteva dire di no. Neppure loro potevano farlo.

Ed Erin ne era stata consapevole fin da quando il dottore aveva diagnosticato quella tremenda verità. Aveva sorriso di fronte al suo shock iniziale e l’aveva pregato di non piangere, di prendersi cura di Malcolm e di amarlo più di se stesso.

La dolce Erin, figlia di una famiglia di antichi druidi. Lei aveva saputo tutto della sua discendenza, del nome che portava dentro di sé.

E lui non aveva potuto salvarla, pur volendolo.

La Nera Signora l’aveva condotta via durante la notte, strappandola ad un sonno miracolosamente tranquillo.

La moglie lo aveva lasciato con un dolore lancinante a bruciargli il petto, e un bambino troppo piccolo per capire pienamente la portata della perdita subita.

«Non ci posso credere!» esclamò una donna a poca distanza dalla sua auto.

Winter perse di vista il corso nebuloso dei suoi pensieri per levare il capo, cercando di comprendere cosa fosse successo di così tremendo per scatenare un’ira così violenta.

Con un mezzo sorriso, si ritrovò a fissare Kimberly alle prese con il cofano sollevato della sua piccola Ford Fiesta color smeraldo.

L’aria accigliata e lo sguardo inferocito, Kim se ne stava dinanzi all’auto fissando il blocco motore come se fosse stato il suo più acerrimo nemico, le mani piantate sui fianchi come pronte a prenderlo per un ipotetico collo.

Aperta la sua Toyota, Winter vi posò all’interno la ventiquattrore dopodiché, avviatosi verso la vecchia amica, asserì seriamente: «Denoto che tu e la tua auto state avendo un diverbio acceso.»

Sobbalzando di sorpresa, Kim si volse verso di lui sgranando gli occhi per alcuni attimi prima di abbozzare un sorrisino e replicare: «Diverbio spento, più che altro. Non ne vuol sapere di partire.»

Senza minimamente dare adito di aver recepito la sottile battuta di spirito di Kim, Winter lanciò un’occhiata veloce al motore – che appariva in ordine – prima di aprire lo sportello dell’auto e tentare un avvio.

L’auto borbottò asmatica prima di mollare la presa e Winter, annuendo tra sé, le domandò: «Quanti anni ha, l’auto?»

«Cinque, perché?»

«E non hai mai cambiato la batteria?»

Kim lo fissò come a voler dire: “Batteria? Cos’è una batteria?”.

Grattandosi distrattamente la fronte con un dito inguantato, Winter  le spiegò succintamente: «Hai un problema alla batteria. E’ andata. Lo può fare, dopo qualche anno. I controlli periodici li hai fatti regolarmente, vero?»

«Se ne occupa mio padre, lo ammetto» sospirò Kim, arrossendo leggermente.

Annuendo, Winter tornò a guardare l’auto e mormorò: «Alfred era bravo coi motori, se ben ricordo, quindi non è un problema di manutenzione. Temo proprio tu abbia bisogno di una batteria nuova.»

«Ottimo» bofonchiò Kim, intrecciando le braccia sotto il seno.

Winter chiuse il cofano con un gesto esperto della mano, afferrò le chiavi dell’auto dal dito di Kim e chiuse elettronicamente la Fiesta prima di dirle: «Ti accompagno a casa, e domani ti metterò la batteria nuova, va bene?»

Kim tornò a fissarlo con aria stranita.

E a ben donde.

Non che Winter non si fosse dimostrato gentile, ma il suo tono avrebbe potuto essere quello di un perfetto sconosciuto.

«Grazie. Ma posso chiamare un taxi» riuscì a bofonchiare Kim.

Con quel Winter che non riconosceva affatto, non sarebbe mai salita in auto.

«Sciocchezze. Sarebbe uno spreco di soldi» la liquidò in fretta lui, afferrando la sua borsa di tela da terra per poi tornarsene alla Toyota.

«Ehi!» sbottò la donna, seguendolo a passi pesanti e strascicati. «Mister Gentilezza, chi te l’ha detto che ho accettato il tuo passaggio?»

«Il tuo buonsenso. O l’hai perso del tutto?» replicò l’uomo, aprendo l’auto per poggiare la sacca di Kim sul sedile posteriore.

«Non ricordo di averlo mai avuto» ringhiò lei, aprendo lo sportello dell’auto prima che potesse farlo lui.  

Winter non diede adito di aver notato la sua irritazione, perché si limitò a salire e dire: «Io mi ricordo una bambina che sapeva quando dire ‘grazie’.»

«Beh…» iniziò col dire Kim, prima di tapparsi la bocca. In effetti, era vero.

Win mise in moto senza più aprire bocca e lei, non avendo neppure il conforto del rombo del motore  a riempire il silenzio caduto all’interno dell’abitacolo – l’auto era elettrica –, non poté far altro che giocherellare con le dita e chiedersi cosa fare.

«Abiti sempre con i tuoi?» le domandò ad un certo punto Winter, infilandosi nella via e lasciando che si inserisse il motore a benzina.

Quel nuovo brusio le diede un po’ di sollievo e, scuotendo il capo, replicò: «Vivo in un piccolo appartamento, a Randle Place Southeast… conosci la zona?»

Winter digitò il nome sul navigatore satellitare e, pragmatico, mormorò: «La conosce lui.»

«Oh» si limitò a bofonchiare lei.

«Ebbene… come stanno i tuoi genitori?» chiese a quel punto l’uomo, lo sguardo puntato sulla strada trafficata delle sette di sera.

«Guarda che non sei tenuto a fare l’educato, se non vuoi» ci tenne a dire Kimberly, sbirciandone il profilo.

Era affilato, elegante e denotava una sicurezza davvero inquietante. Pareva non avere paura di nulla e di nessuno.

«Mi interessa, invece» asserì Winter, svoltando leggermente a sinistra.

«Dal tono, non si direbbe» si lasciò sfuggire Kim, prima di tapparsi la bocca, spiacente. «Scusa.»

«Timothy non ti ha detto che il mio caratteraccio è causato dalla mia triste storia?» la accusò bonariamente Win, facendola sobbalzare sul comodo sedile di pelle chiara.

«Oh, ma… hai origliato?» lo accusò lei prima di darsi della stupida. Winter non l’avrebbe mai fatto.

«So che è solito raccontare a tutti i nuovi membri i motivi del mio… modo di fare? Si può dire così?» Il suo tono fu così pacato che Kim ridacchiò.

Winter le lanciò un’occhiata sorpresa e lei, a mo’ di spiegazione, mormorò: «Non ti senti minimamente insultato dalla sua sfacciataggine?»

«Semplifica le cose» chiosò lui, sorprendendola ulteriormente.

«Comunque, mi spiace per tua moglie. Credimi» sussurrò lei, arrischiandosi a sfiorare la mano di Winter, che riposava sul cambio.

La sua reazione la sorprese. E la ferì.

Lui ritirò immediatamente la mano, come se si fosse ustionato, e la riportò in fretta sul volante, stringendolo con così tanta foga da far sbiancare le nocche.

Kim, a sua volta, strinse le proprie in grembo e mormorò delle stentate scuse prima di sentire Winter mormorare: «Scusami tu. E’ che… non mi piace essere toccato, tutto qui. Non c’entri nulla, va bene?»

«Sei cambiato davvero tanto» ammise lei, tornando a scrutarlo dubbiosa.

«Sono cambiate tante cose» si limitò a dire lui, chiudendo il discorso col suo tono lapidario.

Kim preferì non proseguire nel discorso e Winter, in cuor suo, ne fu felice.

Non aveva davvero desiderato ferirla, ma il tocco della sua mano gli aveva procurato più dolore di quanto non potesse sopportare in quel momento. Pur sapendo di essersi comportato male, non poté fare altro che proseguire senza più aprire bocca.

Non riusciva ad essere diverso.

Era Winter solo con Malcolm, Spring, Summer e zia Brigidh. Con gli altri, beh… era solo quello che rimaneva di lui.

E, a quanto pareva, era rimasto ben poco dalla morte di Erin.

Quando infine raggiunse la via, costellata di una serie di palazzi a due piani in mattoncini rossi e circondati da filari di piante del tutto prive di fogliame, Winter le domandò a che numero dovesse recarsi.

Dopo averglielo mormorato, Kim smontò non appena l’auto si fermò e recuperò in fretta la sua sacca.

Con un ‘grazie’ biascicato, si rifugiò al sicuro all’interno del palazzo e, solo quando si chiuse alle spalle la porta a vetri dell’ingresso, ebbe il coraggio di voltarsi indietro.

L’auto di Winter era ancora lì, forse in attesa che lei raggiungesse sana e salva il suo appartamento.

Lo salutò con un cenno della mano e fuggì via, allontanandosi da quell’uomo che, a conti fatti, non riconosceva per nulla.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

_______________

1 NOAA: Nazional Oceanic and Atmospheric Administration. Agenzia Federale Americana per il controllo degli eventi atmosferici e oceanici. Più in generale, si occupa di tutti gli eventi geologici della Terra, con particolare attenzione al suolo americano.

2 Beltane: Festività celtica che si trova a metà tra l’equinozio di primavera e il solstizio d’estate. Astronomicamente, cade il 5 maggio e, durante l’occupazione cristiana nelle terre celtiche, essa prese il nome di Calendimaggio.

3 Imbolc: Festività celtica del 2 febbraio.

4 Tuatha de Danann: nella mitologia celtica, erano potenti dèi conquistatori delle terre Irlandesi.

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Capitolo 3
*** II ***


5

Capitolo 2

 

 

 

 

Malcolm dormiva saporitamente nel suo letto, al sicuro nella loro casa su Burton Street, nella contea di Silver Spring, in Maryland.

A conti fatti, Silver Spring era una costola di Washigton, pur rimanendo di fatto nello Stato confinante. Ormai, non vi erano più confini ben definiti fra le due identità cittadine.

E, fortuna delle fortune, il NOAA distava davvero poco da casa loro, trovandosi a sua volta nella stessa contea.

La villetta a due piani dove abitava Winter era circondata da begli alberi di maggiociondolo e carpino, ora totalmente esfoliati, ed era suddivisa in due appartamenti separati: uno per lui e Malcolm, l’altro per Spring.

Summer, la rissosa e focosa Summer,– quando era a Washington – abitava in un loft in centro, ma i suoi frequenti viaggi in giro per il mondo a studiare vulcani le impedivano di sfruttarlo come lei avrebbe voluto.

Zia Brigidh abitava in una graziosa villetta a poca distanza da loro, su Woodland Drive, e non ne voleva sapere di trovarsi un uomo con cui dividere la vita, nonostante fosse ancora una donna più che attraente.

Seduto a gambe accavallate sulla sua poltrona preferita, lo sguardo perso in visione di una partita di football che non stava realmente guardando, Winter ingollò in un sol sorso il whisky che si era versato neppure un minuto prima.

Spring, che era indaffarata a terminare un ricamo da applicare ad una sua creazione floreale, mormorò: «Da quando ti sei dato all’alcool, Win?»

«Perché sei ancora qui, Spry? Non hai una casa in cui andare?» la minacciò bonariamente Winter, levandosi in piedi per raggiungerla al tavolo della sala.

Spenta la TV, Win si accomodò accanto alla sorella, le cui chiome biondo dorato erano malamente trattenute da una crocchia sulla nuca, da cui scivolavano lisce ciocche sulle sue esili spalle.

Spring era sempre stata un asso, nel ricamo, ma quello che stava terminando era un autentico capolavoro.

Le sagome di due sposi in un ambiente silvestre erano davvero stupefacenti, così come lo scintillio argenteo del velo di lei.

«I miei complimenti. Sta venendo benissimo. Dove lo metterai?» mormorò il fratello, ammirando la sua opera.

Sorridendo al fratello, Spring gli spiegò succintamente il suo progetto. «Sarà nel bel mezzo di un centro tavola contornato di rose bianche, tee rosa e splendide scarlet carson. Il tutto abbellito con del velo da sposa e delle foglie di agrifoglio, visto che il matrimonio sarà in prossimità del Natale. Che ne pensi?»

«Che sei un genio» asserì lui, dandole un bacio sulla tempia.

«E tu sei preoccupato» aggiunse lei, ammiccando.

«Non ti si può nascondere proprio niente, eh?» sogghignò Winter.

«Sei arrivato a casa con una faccia! Non ho detto niente davanti a Malcolm, però avevo capito che qualcosa ti turbava. Ebbene?»

«Ho rivisto Kimmy, oggi» ammise Winter.

Spring fece tanto d’occhi prima di aprirsi in un sorriso estatico ed esclamare: «Oh, ma… che bello! E come sta? E’ sposata? Ha dei figli? Dimmi tutto!»

«Penso di averla offesa a morte» mormorò il gemello, fissandola con aria colpevole.

Accigliandosi immediatamente, e dando una sfumatura d’acciaio ai suoi occhi azzurro cielo, Spring ringhiò: «In che senso? Spiegati!»

«Per farla breve, mi stava facendo le condoglianze per Erin e mi ha sfiorato la mano in un gesto di comprensione… ed io mi sono scostato. So che non avrei dovuto farlo, ma… insomma…» borbottò Winter, passandosi una mano tra i corti capelli neri.

Spring annuì, perdendo del tutto il desiderio di mettere il broncio per il comportamento del fratello e, sospirando, poggiò il capo contro la sua spalla. «Ti capisco, Win. Ma chiuderti in eterno il mondo alle spalle non servirà a riportare in vita Erin. Kimmy potrebbe capirti. Eravate così amici! Perché non…»

Bloccandola immediatamente, Winter ringhiò: «No. Non se ne parla.»

La gemella lo fissò spiacente e, con gentilezza, gli sfiorò una mano e gli infuse un po’ del suo calore umano, frammisto ad un tocco di potere, che riverberò nella stanza sotto forma di un candido profumo di fresia.

Win a quel punto le sorrise contrito e mormorò: «Non dovrei affatto prendermela con te, Spry. Scusami.»

«Hai tutti i diritti di fare il sostenuto, in questi casi. Io non so cosa vuol dire perdere una persona a cui si era così legati… con l’eccezione di mamma e papà, ma quella è stata una cosa diversa» sorrise bonaria lei, dandogli un pizzicotto sul dorso della mano.

«Già, fu una cosa diversa» assentì Win, piegandosi per darle un bacio sulla tempia. «Vai a riposare un po’. Hai l’aria stanca, perciò suppongo che oggi sia stata una giornata dura, in negozio.»

«Un poco… ma nulla che non sia in grado di affrontare» ammise stentatamente Spring, prima di mostrare i muscoli e sogghignare.

Il gemello rise sommessamente, annuendo al suo indirizzo prima di chiosare: «La mia indistruttibile Spry.»

«Super-Spry!» annuì con vigore la donna, ammiccando.

≈≈≈

Non ci poteva credere.

Là fuori, nell’uggiosa e fredda mattina di fine autunno, l’auto chiara di Winter si intravedeva appena, spettrale evanescenza che, solo a stento, Kim non aveva scambiato per un’emanazione della sua fantasia sfrenata.

Erano le sette in punto.

L’orologio in vetro deformato, che richiamava le immagini oniriche di uno dei quadri di De Chirico, non sgarrava di un secondo e, a quanto pareva, neppure Winter.

Non aveva desiderato un suo passaggio ma, alle sei e ventidue precise, il suo cellulare aveva trillato in risposta ad un messaggio e lei, stordita dal sonno che si era fatto desiderare, quella notte, aveva letto a occhi sgranati ciò che Winter le aveva inviato.

Passo a prenderti alle sette. Ho la tua batteria. H.

Acca. Hamilton. Non aveva neppure usato l’iniziale del suo nome.

O la considerava poco più di una semplice collega, quindi non degna di un rapporto più personale, oppure la sua chiusura mentale era così radicata in lui da non fargli notare neppure quel misero particolare.

Con uno sbuffo infastidito, si era alzata dal letto con le stesse movenze di un pachiderma zoppo e, i capelli castano chiari sparpagliati come un velo stropicciato dinanzi al viso, si era diretta verso il bagno per una doccia rigenerante.

Ora se ne stava lì, la mano a sorreggere la tenda di cotone giallo chiaro a ricami di fiori bianchi, mentre scrutava dall’alto del secondo piano il tettuccio della Prius di Winter, indecisa sul da farsi.

Non aveva senso farlo aspettare ancora, eppure era restia a raggiungerlo.

«Coraggio, non fare l’idiota e scendi» si disse a mezza voce, lasciando andare la tenda per poi afferrare le chiavi della sua Ford e discendere in tutta fretta le scale di conglomerato marmoreo.

Chiusasi la porta d’ingresso dello stabile alle spalle, Kim si strinse maggiormente la sciarpa attorno al collo non appena avvertì il freddo abbraccio della nebbiolina di quella mattina di novembre.

Aperto lo sportello, si infilò all’interno dell’abitacolo già gradevolmente caldo e, stampatasi in faccia un sorriso il più possibile allegro, commentò: «Buongiorno! E’ un sollievo, per una volta, non entrare in un’auto congelata.»

«Buongiorno a te» mormorò Winter, ingranando la retromarcia per fare inversione. «Fa piuttosto freddo, in effetti. Ci sono solo due gradi.»

Osservando la nebbia cristallizzata che, con il procedere dell’auto lungo la via, lasciava sul parabrezza infinitesimali lacrime d’acqua ghiacciata e ricolma di tutta la porcheria che gravitava nell’aria dell’immensa metropoli, Kim annuì e mugugnò: «Ci da un’idea di quel che respiriamo, soprattutto.»

Winter annuì distrattamente, lanciando solo una breve occhiata alle tracce scure e umide lasciate sul parabrezza della Prius prima di dirle: «Sono solito fermarmi a uno Starbucks nelle vicinanze del Centro, per fare colazione. Tu l’hai già fatta?»

«Prenderò volentieri un secondo caffè. La mia carburazione mattiniera dipende in gran parte dalla quantità di caffeina che ingerisco» ammise Kimberly, volgendosi a mezzo verso il suo vecchio amico per studiarne l’espressione.

Appariva tranquillo, le pieghe del volto rilassate, gli occhi chiari vigili e attenti, nulla lasciava trapelare un’apparente ansia.

Quindi era solo lei a sentirsi agitata. La solita storia. Mai una volta che il suo self-control funzionasse a dovere.

Lappandosi le labbra, secche come prugne inaridite, Kim si affrettò a dire: «I miei genitori ti salutano. Ieri sera ho parlato con loro al telefono, e gli ho detto di te.»

Un microscopico, improvviso sorriso balenò sul suo volto per poi sparire veloce come era giunto, e dalle labbra di Win uscì un’imprevista risposta. «Li ricordo con affetto. Mamma e papà li adoravano.»

«Già. Andavano d’accordo» annuì Kim, tornando a scrutare il traffico in aumento sulle strade fumose di Washington D.C.

Rammentava bene i volti di Anthony e Camille, i loro sorrisi spontanei, il loro modo di vivere così sereno e spensierato… e le torte favolose che la madre di Winter sapeva sfornare nel bel mezzo di un pomeriggio noioso!

Un sorriso spontaneo le nacque sul viso acqua e sapone, del tutto privo di cosmetici e, in un sussurro, ammise: «Ricordo ancora il sapore della torta di more e lamponi di Camille. Mamma non è mai riuscita a farla uguale.»

«Lei ti avrebbe detto che il segreto stava nella polvere di fata» le rispose a sorpresa Winter.

Kim si volse completamente verso di lui per scrutarlo a fondo e, in un borbottio confuso, mugugnò: «Chi sei tu? Non sei il Winter di ieri. Che succede?»

La bocca morbida di Winter si piegò ancora più in su, pur non mostrando i denti e, contrito, ammise: «Spring mi ha fatto notare che sono stato cafone con te, ieri, così sto cercando di essere più… più ciarliero?»

Annuendo, Kim replicò: «Winter, non c’è bisogno che tu ti sforzi, se non te la senti di parlare del passato, o di argomenti che ti turbano. Posso accettare che tu sia diverso dal bambino che ho conosciuto un sacco di anni fa. Le persone cambiano.»

«Grazie» disse soltanto Winter.

Kim allora abbozzò un sorrisetto e chiosò: «Ah, ecco. Ora mi suona meglio.»

L’auto procedette tranquilla fino allo Starbucks lasciando che l’unico rumore udibile in cabina, oltre al ronzio del motore, fosse il chiacchiericcio soffuso della radio, accompagnato dai commenti a volte velenosi, a volte ironici, di Kim.

Winter si limitò ad ascoltare, rispondendo a monosillabi ad eventuali domande della donna, oppure consegnando al suo corpo le risposte che voleva regalare agli occhi dell’amica d’infanzia.

Impiegarono circa quaranta minuti per percorrere quel breve tratto di strada e, quando la Prius si fermò nel parcheggio di Starbucks, Kim esalò: «Perché la gente è già in giro a quest’ora? Non amano il loro letto?»

Winter uscì dall’auto e attese che anche la donna l’avesse imitato prima di chiudere le portiere e asserire: «New York è molto peggio.»

«Fosse per me, mi trasferirei alle Bahamas. Sveglia inesistente, venticinque gradi in ogni periodo dell’anno, un’amaca e via… vita da Nababbi.» Nel dirlo, sospirò con enfasi, tanto da portare Winter ad esibirsi in un mezzo sorriso.

Kim allora ridacchiò e gli chiese: «Mi spieghi dove l’hai trovata, una batteria?»

Aprendo per lei la porta a vetri del bar, Winter attese che Kim fosse entrata e, con tono sommesso, le spiegò: «Conosco un meccanico che tiene aperta l’officina 24h, così ho chiesto a lui se aveva il modello per la tua auto.»

Indicato un tavolino d’angolo, Kim si sedette all’assenso di Winter e si apprestò a curiosare il menù in cerca del tipo di caffè migliore per la sveglia mattutina.

Ordinato che ebbe un caffè macchiato con aggiunta di panna, la giovane sgranò lentamente gli occhi quando udì l’amico chiedere alla cameriera un doppio caffè con tre fette di torta di mirtilli, e un panino con prosciutto e lattuga da portar via.

Quando la cameriera se ne fu andata – dopo aver lanciato un’occhiata feroce a Kim – la donna mormorò: «Fuori il segreto. Non puoi mantenerti così in forma mangiando tre fette di torta ipercalorica tutte le mattine!»

Winter la fissò vagamente confuso prima di guardarsi e dire: «Le brucio. Non so in che altro modo risponderti.»

«Niente palestra? Niente, che so, arrampicata o kick boxing?» buttò lì Kim, sempre più sconcertata.

Scettico, Winter le replicò serafico: «Lavoriamo dodici ore al giorno negli uffici del NOAA, se tutto va bene, a casa ho un figlio da seguire e un’abitazione da tenere pulita. Devo fare le faccende domestiche, il bucato, stirare e, se posso, tentare di capire se Malcolm ha fatto tutti i compiti. Quando va veramente male, devo anche cercare di salvare da se stessa Spring che, per quanto eccezionale sul lavoro, a casa è un disastro. Questa è la mia palestra.»

«Oh, già. Suona incasinata… e sfiancante.» Gli occhi di Kim erano sgranati e bellissimi, sotto la luce a neon del locale, di un bel verde giada punteggiato, qua e là, di pagliuzze dorate.

«Molto incasinata, per usare le tue parole, e molto sfiancante» annuì Winter, cercando di non soffermarsi troppo sulla vista di quelle iridi così speciali. «Ma trovo comunque il tempo per correre almeno cinque miglia tutte le mattine.»

Il suo tono così tranquillo, gli occhi bassi a scrutare il menù e la sua espressione facciale indecifrabile mandarono così in confusione Kim che, quell’ultima uscita, impiegò alcuni attimi prima di immergersi nei suoi centri celebrali.

Quando finalmente ebbe recepito il suo messaggio, Kim esclamò: «Ah, ma allora la fai, ginnastica!»

E Winter non poté esimersi dal sorridere, dal sorridere veramente.

Quella era Kimmy, la piccola Kimmy, l’impertinente Kimmy. La sua Kimmy.

«L’ho visto, sai?» mormorò Kim, tornando seria.

Winter levò il capo a scrutarla e, scrollando le spalle, replicò: «Sebbene mi chiamino Iceman, al NOAA, non sono fatto di ghiaccio.»

A Kim spiacque per quel nomignolo davvero poco adatto al ragazzino che lei rammentava, ma ammise senza troppi problemi che l’uomo che aveva conosciuto solo il giorno precedente si avvicinava, e di molto, a una nomea del genere.

Ugualmente, disse: «Io non ti chiamerò mai, alle spalle, Iceman, se tu non chiamerai me Kermit con gli altri colleghi.»

Winter rimase basito per alcuni attimi prima di sogghignare e ammettere: «Non rammentavo la tua passione per quella rana di peluche ma, ora che me l’hai ricordato, lo terrò tra le mie armi di riserva.»

«Oh» esalò Kim, dubbiosa. «E cosa ci vorresti fare, con Kermit?»

Tornando a sfogliare il menù con assoluta tranquillità, lui mormorò pacato: «Farmi presentare Piggy per un appuntamento?»

A Kim non restò altro che scoppiare a ridere di gusto, gli occhi inondati da lacrime di ilarità.

Stava ancora ridendo sommessamente – mentre Winter aveva mantenuto il suo stoico sorriso di circostanza – quando la cameriera servì loro la colazione.

Ancora un’occhiata venefica e la ragazza si allontanò sventolando la corta gonnellina nera, del tutto ignorata dall’oggetto delle sue attenzioni ma ben osservata da Kim che, con una certa ironia, chiosò: «Se mi riporterai qui, mi metterà il veleno nel caffè. Da quanto tempo ci vieni?»

Apparentemente confuso dalla domanda, Winter mormorò nel sorseggiare il caffè bollente: «Da tre anni, perché?»

«Perché? Non hai notato che Miss-Biondo-Platino stravede per te?» gli confessò Kim, piegandosi lievemente sul tavolo con aria da cospiratrice.

Winter lanciò una rapida occhiata da sopra la spalla per inquadrare la cameriera incriminata dopodiché, scuotendo il capo, replicò: «Non penso. Dopotutto, quanti anni potrà avere? Ventidue, ventitré? Sono troppo vecchio, per lei.»

«Non tieni conto del fascino dell’uomo maturo… e in carriera» gli ribatté lei, beneficiandolo di un’occhiata significativa.

Contrariamente a Kim, che indossava jeans invecchiati, stivali da cowboy e un pesante maglione sotto un parka imbottito e una sciarpa di lana fatta a mano, Winter era perfetto nel suo completo scuro di sartoria.

E il cappotto nero, che aveva appoggiato sulla sedia accanto alla propria, non era certo comprato in svendita.

«Non sono interessato» sentenziò lapidario Winter, poggiando con eleganza il menù sul tavolo.

La sua lunga mano pallida sfiorò esitante la copertina plasticata prima di afferrare il bicchiere di cartoncino del caffè e portarselo alle labbra, il tutto eseguendo movenze più simili a una danza che a un semplice, banale gesto qualunque.

Kim era sempre stata affascinata dal modo di muoversi di Win, fin da piccola.

Non era mai stato un bambino goffo o pressappochista e, di certo, non confusionario come erano stati Autumn o la focosa Summer, che non perdevano occasione per combinare guai o distruggere qualcosa.

«Kimberly» la richiamò sommessamente Winter, distogliendola dai suoi ricordi.

Sobbalzando sulla sedia, lei esalò: «Eh? Sì, dimmi.»

«Ne vuoi un po’?» le domandò Winter, indicando le torte.

«No, ti ringrazio. E poi, non vorrei mai che la cameriera mi lanciasse il vassoio per ripicca, vedendomi sbocconcellare la tua torta» scosse il capo Kim, indirizzando un’occhiata studiata alla ragazza, che si guardò bene dal distogliere lo sguardo. «Ecco, lo sapevo. Mi odia. Ed è tutta colpa tua.»

Ancora, Winter si volse per studiare la cameriera che, a quel punto, distolse gli occhi da Kim per sorridere all’uomo e rimettersi a lavorare alacremente per il locale già quasi pieno di persone.

«Davvero non capisco» dichiarò lui, scuotendo il capo. «Non mi sembra proprio di aver dato l’idea di una persona in cerca di compagnia femminile.»

«Forse il problema è proprio questo. Sai, la faccenda dell’uomo bello e impossibile, no?» commentò Kim, terminando di bere il suo caffè.

«Bello… e impossibile?»

Sospirando afflitta di fronte alla palese confusione del collega, Kim esalò sconcertata: «Sei un caso senza speranza, Winter. Finisci la tua torta e andiamocene, prima che quella mi azzanni al collo per marcare il territorio.»

«Dovrebbe fare ben altro, per marcare il territorio» precisò Winter, masticando un pezzo di torta con sommo gusto.

«Sei rimasto indietro coi tempi, Dottor Hamilton. Oggigiorno, le donne mordono perché si credono tutte vampire. Mai sentito parlare di Twilight?» ironizzò Kim, sogghignando.

«No, mi spiace. Sono rimasto al Dracula di Francis Ford Coppola.» Il suo diniego fu categorico.

«Si vede che hai un figlio maschio. Se avessi avuto una femmina, saresti ammattito dietro a Convention e Première» dichiarò convinta Kim, prima di tapparsi la bocca ed esalare: «Scusa. Forse non dovevo parlare di…»

Winter scosse una mano come per liquidare le sue scuse. «A Erin sarebbe piaciuta una femmina e, come dici tu, sarebbe ammattita per portarla in tutti i posti che la piccola le avrebbe proposto.»

Rincuorata dal tono di Winter, che non pareva stentato o sputato fuori dai denti a fatica, Kim si sentì di chiedere: «E tu non le avresti accompagnate?»

«Io? Me ne sarei ben guardato! So come siete voi donne, quando vi coalizzate» scosse il capo Winter, scrutando fuori dalla vetrina del locale con aria malinconica.

Era evidente che la sua mente era tornata a bei ricordi del passato, forse legati al rapporto tra la moglie e le sue cognate.

«Spring e Summer sono rimaste sempre le solite?»

«Spring ora ha un negozio di fiori qui nella contea di Silver Spring, dove abitiamo. Condividiamo una bifamigliare così, quando io sono via per lavoro, lei bada a Malcolm. Summer, invece, ha un loft in centro, ma è quasi sempre via come me per conto del NOAA. Ora è in Italia a studiare l’Etna.» La sua spiegazione scivolò fuori semplicemente, scontata, come se il tempo passato lontani non fosse mai esistito e Kim, sorridendo, poggiò il viso su una mano e lo scrutò felice.

Winter, vistosi osservato, le domandò confuso: «Che c’è?»

«Ora sei Win.»

Quel commento lo fece accigliare leggermente e Kim, vagamente sorpresa, gli chiese curiosa: «Ma perché ti chiudi subito a riccio, tutte le volte che esci un po’ dai regimi? Non fai nulla di male.»

«Lo credi tu» mormorò lui, terminando in tutta fretta la torta.

Ombroso come le nubi che gravitavano minacciose su Washington, Winter non aprì più bocca e Kim si guardò bene dall’insistere, troppo impegnata a rimuginare sulle sue ultime parole per poter replicare al suo silenzio.

Era inquietante con quanta facilità le avesse chiuso la porta in faccia dopo che, per qualche istante, aveva riscoperto in quegli occhi di ghiaccio vivo l’antica fiammella di un tempo.

Quando glielo aveva accennato, lui l’aveva richiusa nuovamente dietro uno schermo protettivo così alto che, ora, non riusciva più a scorgerlo in nessun modo.

Cosa lo avesse spinto ad una simile, repentina decisione restava da stabilire, ma Kim era più che certa che avesse a che fare con Erin.

E fu pensando a Erin che Kim, salendo nuovamente sulla Prius assieme ad un silenzioso Winter, esalò sconcertata: «Non puoi pensare davvero che la morte di tua moglie ti impedisca di vivere!»

Lui non le rispose, dando piena conferma alle sue parole e Kim, sgomenta, si chiese cos’altro tenesse fuori dalla sua vita, credendo di non meritarsela per via della morte prematura dell’amata.

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Capitolo 4
*** III ***


8

 

Capitolo 3

 

 

 

 

 

«Alla base di Wales, cosa dicono?» esordì Winter, controllando con lo sguardo una cartina altimetrica della punta settentrionale dell’Alaska, in quel momento sommersa da sei metri di neve.

Rowena scartabellò velocemente tra i suoi mille e più permessi – lei si occupava della parte logistica dell’impresa – e, annuendo debolmente, mormorò a bassa voce: «Tutto regolare. Il volo è prenotato e le strutture arriveranno all’aeroporto ventidue ore prima di noi. Saranno caricate sui cingolati in dotazione al NOAA che si trovano già a Wales e, stando a quello che ci dicono i russi, potremo anche sforare nei loro confini, se lo desideriamo, perché sono interessati a loro volta a conoscere la situazione attuale dei ghiacci dello Stretto. Big Mama è d’accordo con Mister-Kremlin, per questo. Gli ultimi accrediti dovrebbero arrivare domattina entro le dieci.»

Annuendo, Winter lanciò uno sguardo a Timothy che, professionale, accese lo schermo principale della sala riunioni per mostrare loro le ultime foto satellitari della zona, dove avrebbero eseguito i carotaggi. «Stando agli ultimi rilevamenti, le tempeste di neve provenienti dalla Siberia hanno definitivamente chiuso il passaggio a Nord-Ovest, consentendoci l’inizio dei nostri studi. I rilievi altimetrici ci dicono che, nella zona, dovrebbero trovarsi dai settanta centimetri al metro e mezzo di ghiaccio. Campo Base sarà sulle isole Diomede, lato ovest, ovviamente… e stando a quel che ho potuto estrapolare dalle carte barometriche, direi che ci aspetta un capodanno in stile “The Day After Tomorrow”

Il gruppo rise sommessamente – con l’unica eccezione di Winter – mentre Malick, prendendo la parola, aggiunse: «Le scorte di cibo liofilizzato, gas butano, ricambi di vestiario e combustibile per le motoslitte sono già stivate nei magazzini di Wales, con l’opzione di poter aggiungere al carico una base stimata sul venticinque percento circa, casomai vi venisse voglia di mangiare salmone invece di aringhe in scatola.»

«Chi vorrebbe il salmone?» si lagnò bonariamente Kimberly, lanciando un’occhiata dubbiosa all’indirizzo di Winter.

Da quando avevano avuto quella piccola discussione, una settimana prima, Kim non aveva più avuto modo di parlare con lui in privato.

Gli aveva pagato la batteria che, tanto diligentemente, le aveva sostituito – pur avendo dovuto ricorrere a minacce più che esplicite per fargli accettare il denaro – e, da quel momento, erano entrati in modalità “lavoro”.

Come Tim le aveva preannunciato, Winter si era dimostrato uno stacanovista puro, sul lavoro. Non un cedimento, non un bargiglio di dubbio, non una parola di troppo.

Era un autentico computer vivente e catalogava, immagazzinava e distribuiva nel suo cervello ogni informazione che gli veniva fornita, neanche avesse una serie di compartimenti stagni adatti ad ogni tipo di input recepito.

«Kimberly, come siamo messi con le apparecchiature digitali?» intervenne Winter, lanciandole una breve occhiata.

Tornando in sé, lei rispose pratica, elencando tutti i computer, i palmari e le apparecchiature che avrebbero portato direttamente da Washington assieme a loro, durante il viaggio verso la landa sperduta di Wales, in Alaska.

Winter annuì ad ogni voce elencata prima di sollevare un sopracciglio con aria vagamente sorpresa quando la donna, come ultima voce, aggiunse una consolle Nintendo Wii.

«Quella è mia e la porterò per evitare che tutti e cinque, dopo giorni e giorni passati in mezzo a quel paesaggio lunare, ci ammazziamo a vicenda» dichiarò Kim, scrollando le spalle.

«Sagge parole, ragazza. L’ultima volta che siamo andati in missione, abbiamo consumato i pezzi degli scacchi, a forza di giocare partite su partite nei tempi morti» assentì Malick, lanciandole un sorriso luminoso.

Kimberly replicò al giovane studioso afroamericano con un sorriso altrettanto gaio e Winter, annuendo flebilmente, asserì: «Sta bene. Ma niente giochi violenti, o l’istinto omicida potrebbe venirvi lo stesso.»

Rowena sollevò lo sguardo dal suo palmare al pari degli altri presenti nella sala conferenze e, con aria vagamente divertita, chiosò: «Era una battuta, Hamilton? Dobbiamo fare testamento in previsione della fine del mondo?»

Il capo si limitò a stare zitto mentre Kim, con un sogghigno, aggiunse: «Lui non farebbe mai una battuta di spirito. Ha Paraflu, al posto del sangue.»

«Vero, verissimo. Abbiamo sicuramente capito male» asserì con convinzione Malick, strizzando l’occhio alla collega, che si aprì in un sorrisone canzonatorio.

Tim, fissando i tre collaboratori con aria vagamente nervosa, non sapendo davvero cosa aspettarsi da Winter, preferì non aprire bocca.

Il loro capo, chiusa che ebbe la sua carpetta, lanciò un’occhiata ironica all’indirizzo di Kim prima di mormorare: «Sei sempre stata dispettosa. Mi fa piacere scoprire che l’università non ti ha ammosciato la parlantina, così non ti addormenterai davanti al computer, durante il tuo turno da mezzanotte alle quattro del mattino.»

Kim spalancò la bocca, pronta a mandarlo al diavolo per quel brutto scherzo ma, nel notare uno scintillio divertito negli occhi apparentemente freddi del vecchio amico, si chetò immediatamente limitandosi a dire: «Non avertene a male se i dati saranno sballati, alla fine. Potrei dettare gli ultimi risultati di basket al computer, invece dei rilevamenti piezometrici.»

«Correrò il rischio» mormorò Winter, levandosi in piedi. «Ultimo briefing domani, alle ore quattordici-zero-zero, dopodiché ci troveremo sabato mattina al J.F. Dulles alle ore otto-zero-zero per il check-in.»

Detto ciò, uscì dalla sala conferenze lasciando a bocca aperta i suoi colleghi che, all’unisono, si volsero a fissare Kim prima di esalare praticamente assieme: «Ma che gli è preso?»

Scoppiando a ridere, lei esclamò: «Sembra che la cosa vi abbia sconvolto a morte!»

Malick sghignazzò divertito e replicò: «Ragazza, non hai idea di quanto ci abbia sorpresi, la sua uscita. Mai, in quattro anni di onorato servizio al NOAA, ho mai sentito Hamilton uscirsene con una battuta, seppur fiacca come quella dei giochi violenti al PC. Inoltre, il fatto che ti chiami per nome è di per sé un evento! Lascia stare che vi conoscete da quando siete piccoli… è una novità pura!»

Rowena annuì con convinzione, aggiungendo: «Giuro. Stavo per avere un collasso isterico, quando l’ho sentito. Gli ha fatto davvero bene, vederti, questo è sicuro!»

Tim fu più pacato nella sua uscita, ma confermò i dubbi di Kim sul comportamento anomalo di Winter.

«E io che pensavo mi sopportasse a malapena» mugugnò Kim, massaggiandosi il mento meditabonda.

«Secondo me, l’unica in grado di sgelare Iceman sei tu, che lo conosci da quando era piccolo» sentenziò Rowena prima di chiederle, divertita: «Com’era, Hamilton, da cucciolo umano?»

Kim scoppiò a ridere nel sentirlo chiamare così e, estratto il suo portafogli dalla sacca di tela che usava per lavoro, ne tirò fuori una piccola foto ingiallita dal tempo, mormorando: «Questa l’ho trovata l’altro giorno, mentre scartabellavo tra le vecchie foto di famiglia. Dopo aver incontrato Winter, mi è venuta voglia di riguardarmele e… bum! Mi sono imbattuta in lei.»

Nell’istantanea, si vedeva chiaramente Winter, nel mezzo, che teneva strette le braccia attorno alla vita di Kim e di Spring, che quel giorno aveva dei buffi codini coi boccoli. Ai due lati, Autumn e Summer chiudevano la fila di bambini sorridenti.

Kim, con un sorriso dolce e melanconico, sussurrò: «Fu scattata per il mio dodicesimo compleanno, alcuni mesi prima della morte dei loro genitori.»

«Il ragazzino al fianco di Spring, quindi, è il fratello di cui non avevamo mai sentito parlare» asserì dubbioso Malick. «Cavoli, non uno che abbia lo stesso colore di capelli. E’ curioso.»

«Beh, non se pensi che Camille aveva i capelli rossi, sua sorella Brigidh li ha neri, e Anthony li aveva castani» gli spiegò Kim, come se nulla fosse.

«E i capelli di Spring?»

«I nonni materni, credo. Non ho mai conosciuto i genitori di Anthony o di Camille. Sono rimasti in Irlanda» ammise Kim. A dirla tutta, non aveva mai neppure visto loro fotografie, nella casa di Winter.

«Magari i loro genitori sono scappati da casa… in stile fuga d’amore» esalò ammirata Rowena, sbattendo le palpebre con fare sognante.

«Non credo. Winter e gli altri si sono trasferiti a Washington che avevano quasi quattro anni» scosse il capo Kim, pur non essendo certa che quella potesse essere una giustificazione.

«Sarà meglio se ci rimettiamo al lavoro, invece di sparlare di persone che non sono presenti» li richiamò Tim, scrutando ansioso la porta della sala.

Paura che potesse entrare Winter senza alcun preavviso?

Forse.

≈≈≈

«Mal, mi raccomando, con quei vasi, cerca di non fare una strage. L’ultima volta, i miei ciclamini hanno pianto per settimane!»

La voce trillante e vagamente infantile di Spring si librò per il suo negozio, il Four Seasons, fino a raggiungere le orecchie sensibili quanto divertite di Malcolm.

Lui, ignorando bellamente la zia, sistemò la serie di vasi vuoti che teneva in mano senza causare alcun danno.

Con un gaio sorriso, poi, il ragazzino si volse in direzione della porta non appena la sentì aprirsi ed esclamò: «Buongiorno, signora. Benvenuta al Four Seasons

Kimberly, che aveva avuto intenzione di passare a trovare Spring fin da quando aveva rivisto Winter al NOAA, si fermò di botto a metà di un passo non appena si ritrovò dinanzi la copia in miniatura del vecchio amico d’infanzia.

Vagamente basita, riuscì a stento a tirar fuori un biascicato ‘buongiorno’.

Nero di capelli come il padre, il bambino aveva limpidi occhi verde acqua, quasi sicuramente ereditati dalla madre, e un sorriso così solare e schietto da non far credere che, in quelle vene, scorresse lo stesso sangue di Winter.

Ma lei sapeva bene che l’amico, un tempo, era rassomigliato più al figlio che a quella sottospecie di Jack Frost che era ora.

«Mal, hai bisogno di…» cominciò col dire Spring, sbucando dal retrobottega, prima di bloccarsi a bocca aperta, fissare la donna dalla lunga chioma ondulata che se ne stava impacciata sull’entrata ed esclamare: «Per tutte le fate d’Irlanda! Ma tu sei Kimmy! Non posso sbagliarmi!»

In uno svolazzare di biondi capelli lucenti, gonna e sottogonne dall’aria hippie e un alone di misterioso profumo ancestrale, Spring si gettò a capofitto in direzione della donna. Impreparata a quell’assalto, Kim non poté far altro che allargare le braccia e tentare di parare il contraccolpo.

Gelsomino e sole.

Furono le prime cose che vennero in mente a Kimmy, quando strinse a sé Spring in un abbraccio fraterno. Sorridendo commossa nonostante si fosse ripromessa di non cedere alla malinconia, mormorò contro la spalla della vecchia amica: «Oddio, Spry… sei esattamente come ti ricordavo.»

«E tu più di me, Kimmy! Quando Win mi ha detto che ora lavori con lui, avrei voluto saltare in cima alla mia Camaro per venirti subito a trovare!» asserì eccitata Spring, scostandosi dall’amica per scrutarla attentamente in viso.

Gli occhi, del colore delle foglie in primavera, erano ancora brillanti e vivaci e i capelli, che Kim aveva fatto crescere fino a metà schiena, le davano un tocco di femminilità che contrastava in parte con il suo abbigliamento vagamente mascolino.

Un rapido sguardo alla mano sinistra le disse che non era sposata e, con un mezzo sorriso, Spring le chiese: «Naturalmente sono felicissima di vederti, ma… cosa ti porta qui da me?»

«Beh, prima di tutto, rivederti.» E nel dirlo, lanciò un’occhiata ammirata al negozio, che profumava di pulito, di fiori e di magia. «Secondo, scoprire cos’avevi messo in piedi. Dio, è un negozio bellissimo.»

Malcolm, nel sentirla esprimere dei complimenti sul negozio, sollevò ironico un sopracciglio e mormorò: «Oddio, ci siamo.»

Ignorando completamente il nipote, Spring si gonfiò come un pavone durante una parata per conquistare la femmina più bella e, scrutando orgogliosa il suo negozio ricolmo di piante, vasi e articoli di profumeria ed erboristeria, asserì con veemenza: «Ci è voluto molto, ma sono riuscita a ottenere ciò che volevo. Sapessi quanto ho dovuto lottare per ottenere una licenza da erborista. Sembra quasi che nessuno tenga in considerazione le lauree, oggigiorno, perché…»

Continuando imperterrita nel suo sproloquio, Spring cominciò a girare per il negozio indicando di volta in volta una pianta piuttosto che un olio emolliente ottenuto dall’aloe vera.

Kim, trovando la scena troppo divertente, si mise al fianco di Malcolm e intrecciò le braccia per ammirare lo spettacolo in tutta tranquillità.

«Bisogna stare attenti a farle i complimenti, altrimenti fa così» commentò Malcolm, fissando la zia con aperta esasperazione e totale e incondizionato affetto.

Piegandosi verso di lui, Kim sussurrò complice: «Dici che andrà avanti fino a sera?»

«Se non fai in fretta un’ordinazione, sì» annuì con vigore il bambino, prima di chiederle: «Tu e la zia vi siete conosciute da piccole?»

«Ho conosciuto tutti i tuoi zii e tuo padre. Eravamo vicini di casa» gli spiegò succintamente lei, non volendo aggiungere che aveva conosciuto anche i suoi nonni. Un argomento triste come quello non le sembrava il più adatto cui accennare in un momento simile.

Malcolm sgranò leggermente gli occhi, forse incuriosito dalla notizia, ed esclamò: «Oh, ma… forse ho capito! Ho visto una foto di papà da piccolo assieme a una bambina, sull’altalena.»

«C’era un enorme ciliegio alle spalle?»

«Sì» annuì Malcolm, lieto di aver capito.

«Allora, tanto piacere, sono io la bambina della foto. Mi chiamo Kimberly, ma tu puoi chiamarmi Kimmy come ha fatto tua zia» dichiarò la donna, allungando una mano verso il bambino.

Raddrizzandosi, Malcolm si passò frettolosamente la mano destra sui pantaloni della tuta che indossava prima di stringere la mano protesa di Kim e dire per contro: «Malcolm Hamilton, tanto piacere.»

«Che idiota che sono!» esclamò di colpo Spring, facendoli sobbalzare leggermente prima di fissarla confusi.

La donna, raggiuntili in pochi balzelli leggeri, arrossì copiosamente ed esalò: «Io ero qui a sbrodolare elogi al mio gioiellino e ho lasciato il mio adorato nipote a fare le presentazioni tutto da solo. Che zia inetta che sono!»

Malcolm scosse il capo, replicando: «Sei solo un po’ sbadata.»

«Ed è dire poco!» ridacchiò Spring, tirandosi accanto Mal per poi dargli un bacetto frettoloso sul capo, che lui accettò con una smorfia prima di divincolarsi.

Kim sorrise di fronte a quella dolce scenetta familiare e, rivolta a Spring, le domandò: «Cosa mi consigli per un appartamento e per una donna con il pollice nero?»

Malcolm sghignazzò divertito di fronte a una simile descrizione e Spring, meditando seriamente sulla domanda, se ne uscì con un misterioso: «Una Anastatica hierochuntica

Sbattendo le palpebre con aria scettica, Kim replicò: «Ehm, è vegetale, animale o minerale?»

Ridacchiando, Spring scivolò con lo sguardo sul nipote e, dolcemente, gli chiese: «Mal, andresti a prendere una Rosa di Gerico?»

«Subito, zia» annuì lesto il bambino, correndo via con agilità per infilarsi come un soffio di vento nel retrobottega.

«E’ adorabile» sentenziò Kim, con un sorriso deliziato. «Gli occhi sono della madre?»

Lo sguardo ancora puntato in direzione della porta oltre cui Mal era scomparso, Spring annuì e disse: «Erin era la classica bellezza irlandese. Rossa di capelli e con occhi verdi come le colline da cui noi proveniamo. E’ stata una buona madre, per Mal.»

Quel commento incuriosì Kim, che però si guardò bene dall’accennare a una qualsiasi altra domanda; Mal era già di ritorno e, tra le mani, teneva una palla rachitica di rami dall’aspetto tutt’altro che florido.

Accigliandosi leggermente, Kim storse la bocca e borbottò: «Vorresti vendermi un cespuglio morto?»

Sorridendo maliziosa, Spring dichiarò: «Tesoro, stai per assistere a un’autentica magia.»

Sempre meno convinta, seguì però Malcolm e Spring fino a un bancone in acciaio dove, quasi sicuramente, la padrona del negozio elaborava le sue composizioni. Lì, con movimenti estremizzati e molto teatrali, il ragazzino versò un po’ d’acqua sul cespuglietto rachitico e si mise in posa da grande prestigiatore.

Kim si piegò in avanti, inspirando un dolce profumo speziato provenire dalla pianticella morta prima di spalancare occhi e bocca ed esalare scioccata: «Non ha senso!»

Sotto il suo sguardo sbalordito e incredulo, la pianta apparentemente esanime iniziò a muoversi e, nel giro di pochissimo tempo, si aprì dinanzi a lei come un fiore dinanzi al primo sole.

Alternando occhiate scioccate a Spring e alla pianticella ora verde e rigogliosa, Kim gracchiò: «E’ finta, vero?»

«Per niente. La Rosa di Gerico, durante la stagione secca, si chiude a riccio per difendere i semi e, con le prime piogge, si apre e lascia che l’acqua e il vento ne trasportino via i preziosi pargoletti. Entro breve farà dei graziosissimi fiori bianchi e produrrà un profumo soave che ti solleticherà il naso» le spiegò brevemente Spring. «Costa poco, può resistere anche senza acqua, come avrai capito e, quando è fiorita, è simpatica e di sicuro curiosa. Adattissima a un pollice nero.»

«Me ne sono già innamorata» mormorò Kim, sollevando tra le mani quella che, solo pochi minuti prima, era stata un’informe palletta di rami secchi e nodosi.

«La prima volta che zia Spry me la fece vedere, risi tantissimo» le raccontò Malcolm, osservando la pianta con un caldo sorriso.

«Lo immagino» asserì Kim, prima di chiedere:«Ma Winter non c’è? O lavora anche di sabato pomeriggio? Non mi sembrava che fosse di turno.»

Spring se ne uscì con un grugnito ben poco femminile e, intrecciate le braccia sotto il seno, mugugnò: «E’ solo uno sc… beh, sì, uno scocciatore.»

Malcolm fissò divertito la zia, replicando sagace: «Stavi dicendo scemo, tanto lo so.»

«Mal! Non voglio sentirti dire parole simili!» esalò inorridita Spring, divenendo paonazza in viso.

Malcolm non fece minimamente caso alla faccia sconvolta della zia e, fissando con aria da cospiratore Kim, che stava tentando in tutti i modi di non scoppiare a ridere, mormorò: «Papà l’ha cacciata fuori di casa perché ha rotto per l’ennesima volta l’aspirapolvere.»

«Non è colpa mia se non fanno più gli aspirapolvere sani e robusti di una volta!» protestò vibratamente Spring arrossendo, se possibile, ancor di più.

A quel punto Kim non riuscì a resistere e, di fronte a quei due volti così limpidi e sinceri, non poté che esplodere in una calda risata, cui si unì subito dopo anche Malcolm.

«Anche la mamma non voleva che li toccassi. Questo me lo ricordo bene» aggiunse il bambino, sorprendendo un poco Kim.

Nelle sue parole non c’era dolore, solo una dolce malinconia stemperata da un tocco di affetto incondizionato.

«Erin era una scocciatrice, esattamente come tuo padre» brontolò Spring, senza minimamente preoccuparsi per l’uscita del nipote.

Forse, parlare della madre non gli pesava.

Malcolm, come ricordandosi di un particolare, si volse in direzione di Kim e, a mo’ di spiegazione, le disse: «La mia mamma non c’è più da quattro anni, ecco perché la zia parla al passato. Ora lei è una fata della bruma... me l’ha detto papà.»

Commossa dal suo tono tranquillo e dalla tenera spiegazione che le aveva fornito, pur se non richiesta, Kim annuì e asserì convinta: «Sono sicura che è la fata più bella di tutte.»

«Vuoi vedere una sua foto?» le domandò con semplicità Malcolm, correndo verso la cassa del negozio senza neppure attendere una risposta da parte di Kim.

La donna utilizzò quel momentaneo break per scrutare di straforo Spring che, però, annuì tranquilla così, più serena, attese il ritorno del bambino non sapendo bene cosa provare.

Curiosità? Amarezza? Dispiacere?

Non lo sapeva davvero.

Quando il bambino fu di ritorno, Kim non seppe perciò come affrontarlo ma, sorridente e pacifica, si piegò un poco per ammirare la fotografia incorniciata che Malcolm le mostrò con fare orgoglioso.

«Lei è la mia mamma; Erin» le disse pomposo il ragazzino.

Kim ebbe una fitta al cuore, a quella vista.

Era bellissima.

Alta, sottile come un giunco, dai lunghi e mossi capelli rosso fiamma e brillanti occhi color smeraldo, la donna sorrideva serena al fotografo e, tra le braccia, teneva il piccolo Malcolm di poco meno di un anno di età.

Al collo portava una pesante torque dorata dalla fattura raffinata, alle cui estremità si potevano intravedere due teste di drago molto più che realistiche.

Un anello di oro brunito scintillava prezioso al suo anulare sinistro e, tra i capelli, una spilla a forma di nodo celtico le impreziosiva la figura già eterea e splendida.

Non faticava a comprendere come Winter si fosse innamorato di lei. E perché la sua mancanza gli pesasse tanto.

«E’… davvero una donna splendida» mormorò affascinata Kim, sorridendo al bambino.

«Il papà dice sempre che ora lei è la regina delle fate della bruma e, quando la nebbia si alza dai ruscelli o dagli stagni, lei volteggia a pelo d’acqua assieme alle sue ancelle» le raccontò con tono pacato il bambino, posando uno sguardo sognante sulla foto della madre.

Kim si sorprese non poco nel sentir parlare a quel modo il bambino. Trovava strano, per non dire incredibile, che il gelido, serioso Winter parlasse di fate e di bruma.

Soprattutto, le parve insolito che non avesse detto al bambino che la madre era diventata un angelo, o qualcosa del genere.

Ma forse dipendeva dalla loro discendenza irlandese. Nei loro miti, i morti probabilmente diventavano fate. Chissà.

Ugualmente, le parve davvero toccante che Winter avesse raccontato una storia così dolce al figlio per fargli superare il dolore della perdita della madre, avvenuta in così tenera età.

Quando Kim levò lo sguardo per scrutare Spring, la trovò ad asciugarsi di nascosto una lacrima e, sul momento, ipotizzò fosse per un ricordo tenero legato alla donna.

Nel vederla accigliarsi, però, se ne chiese il motivo.

Che non fossero andate d’accordo? Faticava a crederlo, ma tutto poteva essere.

Per togliere l’amica da quell’imbarazzante momento, Kim si affrettò a dire: «Dammi un paio di Rose di Gerico, allora. Le metterò in salotto.»

«Molto bene» annuì con un lieve tremolio Spring, quasi riscuotendosi da un brutto incubo.

Muovendosi rapida ed efficiente, la donna si incuneò nel retrobottega dove, in precedenza, si era recato Malcolm e, proprio in quel momento, il cordless del negozio prese vita, trillando come una furia impazzita.

Subito, il ragazzino corse a rispondere con tono molto professionale e adulto, per la sua età ma, non appena comprese chi vi fosse all’altro capo del telefono, impallidì leggermente prima di arrossire copiosamente e mugugnare: «Scusa, papà. Lo so, papà. Vengo subito, papà. Starò attento, papà. Sì, la smetto, papà.»

L’ultimo ‘papà’ lo mormorò con un mezzo sorrisino sul viso, segno che quasi sicuramente Winter gli aveva intimato di piantarla con tutti quegli epiteti snocciolati con tono spocchioso.

Quando attaccò il telefono, Malcolm scrollò le spalle, commentando: «Mi sa che stasera i piatti li devo mettere a posto io.»

«E perché?» esalò Kim, vagamente sorpresa.

«Avrei dovuto essere a casa più di mezz’ora fa per fare i compiti, ma…» borbottò Mal, sbuffando leggermente. «… ma non c’ero, insomma.»

«E’ colpa mia. Sei stato così carino e gentile con me che hai perso la cognizione del tempo» asserì colpevole Kim, prima di veder ricomparire Spring con le due piantine già inscatolate e infiocchettate.

«Ecco qui. Omaggio della ditta per invogliarti a tornare» sorrise Spring, ora più tranquilla e dallo sguardo rasserenato.

«Oh, no, ma… Spry, ti prego! Mi metti in imbarazzo!» esclamò Kim, avvampando in viso.

Scuotendo il capo, Spring le mise in mano le due scatolette prima di domandare a Malcolm chi fosse stato al telefono.

Non appena lo scoprì, un’aria contrita e vagamente preoccupata comparve sul suo viso d’angelo e Kim, per venirle incontro, le disse: «E’ colpa mia se Malcolm ha fatto tardi. Ora lo accompagno a casa e mi spiegherò con Winter.»

«E affronterai il drago nella sua tana? O sei molto coraggiosa, o del tutto folle» borbottò poco convinta Spring.

«Winter non mi ha mai fatto paura» sentenziò Kim, pur non sentendosi molto tranquilla. Del nuovo Win conosceva ben poco, ma di sicuro non avrebbe fatto scenate di fronte al bambino.

Ancora, Spring la scrutò come se l’idea di lasciarla andare da sola a casa di Winter fosse una cosa stupida, ma all’ultimo momento preferì desistere e, rivolta al nipote, mugugnò: «Coraggio, vai a prendere la tua roba. E preparati a difendere Kimmy dalle grinfie di tuo padre.»

«La proteggerò io» ridacchiò Malcolm, correndo dietro il bancone della cassa per recuperare armi e bagagli.

Non appena fu pronto, Kim gli disse: «Molto bene. Andiamo dall’orco Win.»

Il ragazzo scoppiò in una risata sguaiata e Kimberly, seguendolo fuori dal negozio, salutò con un ultimo sorriso Spring prima di indicare a Malcolm la sua Ford Fiesta.

Da bravo, il bambino montò sul sedile posteriore e si allacciò la cintura dopo aver poggiato la sua sacca al proprio fianco e Kim, scrutandolo attraverso lo specchietto retrovisore, gli domandò: «Dove andiamo, capitano?»

Ridacchiando, Malcolm le disse l’indirizzo e il numero civico e Kim, ingranata la marcia, si infilò nel tranquillo traffico cittadino non sapendo bene se temere la prossima tempesta di neve su Washington o l’incontro con Winter.

≈≈≈

Nessuno poteva essere così disordinato.

O almeno, questo era il suo pensiero ogni volta che entrava nell’appartamento di Spring.

Decidere che delle pulizie di casa si occupasse lui era divenuto un imperativo dopo che, per quattro volte, la sorella aveva rispettivamente bruciato, cortocircuitato, mandato in tilt e fatto esplodere tutti gli aspirapolvere che il fratello le aveva acquistato.

Non aveva idea di come facesse, ma la sostanza era e rimaneva una; sua sorella era tecnofobica.

O forse, era così perfida da usare il tocco leggero del suo potere per mandare in panne gli apparecchi elettrici.

Winter non credeva fosse possibile – il suo elemento era la Terra e poco aveva a che fare con il metallo e i congegni elettrici – ma tutto poteva essere, con Spring.

Nel sentire suonare il campanello dell’appartamento adiacente, il suo e di Mal, Winter lasciò perdere la casa della sorella e attraversò il piccolo corridoio che collegava le due abitazioni per portarsi sulla parte anteriore della villetta.

Per poco non scivolò a terra, quando vide Kim assieme a Malcolm.

Messo il piede in fallo, finì per sbattere contro la parete della piccola veranda che precedeva la porta d’entrata e, fissando la strana coppia oltre il cancelletto di ferro brunito, gracchiò: «Ma che diavolo…»

Malcolm lo salutò con un ghigno divertito stampato sul volto e Kim, più timida, sorrise contrita mentre l’uomo, azionando l’apertura del cancello, permise loro di entrare.

Il ragazzino corse incontro al padre prima di lanciarsi euforico tra le sue braccia mentre Kim, con passo quasi strascicato, si portò fino al gradino singolo della piccola veranda ed esordì dicendo: «Ciao, Winter.»

«Kimberly…» mormorò lui, stringendo a sé il figlio per alcuni attimi prima di fissare curiosamente Malcolm e chiedergli: «Mi vuoi spiegare dove vi siete incontrati e perché vi conoscete?»

Malcolm, allora, gli spiegò con dovizia di particolari il loro incontro al negozio della zia e, per tutto il tempo, Winter non ebbe occhi che per il figlio.

Brevi sorrisi si intervallarono a sguardi ammiccanti e Kim, ancora una volta, si ritrovò a scorgere due volti su uno stesso uomo; quello del bimbo conosciuto un tempo, gaio e felice, e quello del Winter adulto, freddo e cupo.

Quando infine Winter levò lo sguardo a fissare Kim, la donna poté scorgere in quelle iridi multicolori un bagliore residuo dell’amore dilagante per il figlio, che però non venne trasmesso alla voce, come sempre pacata e priva di inflessioni.

«Devo ringraziarti per averlo accompagnato. Non era necessario, ma preferisco quando non deve attraversare da solo gli incroci.»

Malcolm fissò malamente il padre, come per volergli fare notare che lui era abbastanza grande per attraversare la strada da solo, ma non gli disse nulla.

Kim, chiedendosene il motivo, si limitò però a dire: «Ho pensato fosse più sicuro accompagnarlo, tutto qui.»

Winter tornò a scrutare il figlio dandogli un buffetto sul naso poi, come se si sentisse in dovere di essere educato a tutti i costi, si rivolse nuovamente a lei e le domandò: «Vuoi salire per un caffè?»

Non accettare, non accettare, non accettare, non…

«Va bene» si smentì immediatamente Kim.

Ma come dire di no al sorrisone speranzoso di Malcolm?

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Capitolo 5
*** IV. ***


Capitolo 4
 
 
 
 
Smeraldo, ambra e zaffiro.

Non poté che pensare a quelle tre pietre, quando entrò nella porzione di villetta dove abitavano Winter e Malcolm.

Le pareti in stucco veneziano, di un caldo color ambra, brillavano tenui alla luce dei faretti a led e le tende di sottile, quasi inconsistente tessuto smeraldino, adornavano un’enorme porta-finestra che si apriva sul giardino ampio e ricco di piante.

Le porte delle stanze che davano sul salone d’ingresso, poi, erano la parte più singolare della porzione di casa a lei visibile.

Tutte, nessuna esclusa, erano tinteggiate di un blu scuro, quasi nero e Malcolm, notando l’aria sorpresa di Kim, ridacchiò e le spiegò succintamente: «Mi piacevano così.»

«Oh, capisco» annuì Kim, tornando a guardarsi intorno curiosa.

Sui mobili accostati alle pareti, di un caldo legno di ciliegio, erano sistemati ordinatamente quelli che a Kim parvero antichi oggetti di famiglia, dalla fattura chiaramente celtica.

Una piccola arpa di legno dalla cassa di risonanza interamente intagliata a tralci d’uva era sistemata su un piccolo piedistallo a lato della cristalliera, dove brillavano interi servizi da the, caffè e di bicchieri dall’aria antica e parecchio costosa.

Un lungo divano e due poltrone dai cuscini in pelle chiara circondavano un tavolinetto di vetro e, sulla superficie perfettamente pulita, svettava un centrotavola in cristallo boemo ricolmo di caramelle.

«Quasi quasi mi vergogno. Casa mia non è così ordinata» ridacchiò Kim, ammiccando divertita a Malcolm, che sghignazzò.

Afferrando la mano di Kim con naturalezza, Malcolm le disse: «Vieni a vedere la mia camera. La mamma ci aveva fatto un bellissimo disegno a parete.»

Winter non disse nulla, lasciando che a governare la situazione fosse il figlio. Vagamente sorpreso e, sì, sgomento, osservò i due – perfettamente complici – avviarsi verso la stanza di Malcolm.

Il ragazzino aprì il battente che dava nel corto corridoio che conduceva alle camere da letto e al bagno e lì, dopo essersi schiarito la gola con fare ampolloso, esclamò: «La mia stanza.»

Kim stette al gioco e, mostrandosi contrita e affascinata, entrò dopo aver fatto scivolare nel muro la porta scorrevole.

A occhi spalancati, fissò con autentica meraviglia il bellissimo paesaggio marino dipinto sulla parete e, a corto di fiato, esalò: «Ma… è magnifico!»

«Bello, vero? Papà mi ha detto che sono le scogliere che si affacciano sulle isole… Alan?» sorrise Malcolm, cercando di rammentare il nome giusto del luogo.

Dietro di loro, pacato, Winter mormorò: «Le isole Aran, Mal.»

«Giusto, quelle!» esclamò il bambino prima di arrossire vagamente quando si accorse di alcuni giocattoli sparsi a terra. «Ops… non li avevo messi via.»

Winter gli scompigliò i capelli con un mezzo sorriso sul viso e, tranquillo, replicò: «Li metterai a posto più tardi. Ora fai i compiti.»

«D’accordo. Tu non vai via, vero, Kimmy? Rimani?» si informò subito Malcolm, non accorgendosi del leggero irrigidimento del padre.

Kim se ne accorse eccome, invece, e si limitò a dire: «Se è vero che tuo padre stava facendo i lavori in casa, non vorrei davvero disturbare. Prenderò il caffè che mi ha promesso e poi leverò le tende. Non sia mai che mi incastri con qualche pulizia extra!»

Malcolm parve dispiaciuto dalla cosa, ma asserì: «Sì, in effetti è un rischio. Ma verrai a trovarmi ancora?»

«Non ci sono dubbi» annuì Kim con vigore.

Il bambino allora si tranquillizzò e, nell’accomodarsi alla scrivania, mugugnò: «E ora mi tocca.»

Winter sorrise benevolo nel socchiudere la porta della stanza del figlio e, assieme a una silenziosa Kimberly, si diresse verso la cucina, dove ogni superficie rifletteva la luce delle lampade al neon come uno specchio.

I mobili, laccati con tinte tenui del giallo paglierino, erano moderni e privi di orpelli, dalle maniglie in acciaio satinato e dalle linee pulite, diritte.

Sul tavolinetto quadrato della cucina era poggiato un centrotavola in macramè color avorio e, sopra di esso, una fruttiera esponeva il suo contenuto con orgoglio tutto irlandese.

«E’ un prodotto tipico, o una riproduzione? Gli intagli sono splendidi» si informò Kim, suo malgrado affascinata da quell’orpello in legno lucido.

«Opera di mio suocero. E’ un falegname» le spiegò succintamente Winter, invitandola ad accomodarsi.

Notando il suo disagio, Kim scostò la sedia senza fare rumore e replicò: «Guarda che non sei costretto a farmi davvero il caffè, sai?»

Winter sbuffò, si passò una mano tra i folti capelli neri scompigliando la perfetta linea della chioma scura e, così arruffato e dubbioso, si volse verso di lei e ammise: «Mi ha fatto uno strano effetto vedere Mal con una donna… beh, sì, che non fosse Spring. O Summer. O zia Brigidh. Non è colpa tua, per l’ennesima volta.»

«Oh.» Kim non riuscì a dire null’altro.

Accesa la macchinetta per il caffè espresso, Winter le servì un piattino di biscotti alle gocce di cioccolato e, accomodatosi a sua volta, proseguì nel dire: «Quando ti ha chiamata Kimmy… io…»

Allungandosi leggermente sul tavolo, verso di lui, lei mormorò: «Non ti va che lo abbia conosciuto?»

«No, non è questo!» esalò lui, sgomento.

Scosse il capo, come se non sapesse bene cosa dire, come dirlo o come comportarsi e, senza essere ben certo di quel che stava per ammettere, sussurrò: «I ricordi sono duri da… da gestire.»

Annuendo debolmente nell’udire le sue parole, Kim gli domandò: «Ti ricordo i tuoi genitori?»

«Tra le altre cose» buttò lì Winter, sorprendendola un poco.

La mano tornò a scompigliare i neri capelli, bianca su quella superficie setosa e scura e Kim, dispiaciuta dall’evidente disagio del vecchio amico, mormorò: «Ehi, va tutto bene. Non mi devi spiegare nulla.»

«Non voglio che pensi che il mio comportamento nei tuoi confronti sia dovuto a qualcosa di sbagliato che hai fatto, o detto» ci tenne a precisare Winter, sbuffando infastidito. «Cristo! Spry ha ragione a dire che faccio schifo nei rapporti interpersonali!»

«Molto bene, allora stai zitto e fammi fare un sunto. Se sbaglio, fermami, sennò limitati ad annuire» sentenziò Kim, prendendo le redini della situazione.

Winter, vagamente sorpreso dalla sua presa di posizione, si esibì nel primo, vero sorriso che Kim gli vide in volto e, ringalluzzita da quella reazione, lei dichiarò: «E’ palese che la morte di Erin ti ha lasciato diverse cicatrici, che si sono combinate con quelle più vecchie, e risalenti alla dipartita dei tuoi genitori.»

Nel vederlo annuire, Kim proseguì: «Le uniche donne che lasci avvicinare a te sono Spry, zia Brigidh e Summer e, per ragioni che non conosco e non voglio conoscere, sei in rotta con Autumn. Il fatto che io sia una donna e, cosa indegna, una tua vecchia amica, complica di molto le cose.»

Winter sogghignò, ma annuì ancora.

«Morale della favola, sono una specie di Ba-bau, per te… ma stai tranquillo, non salterò fuori dal tuo armadio, la notte, per portarti via.» Kim ammiccò nel dirlo e Winter, sorridendo di nuovo, si levò per preparare il caffè.

«Saresti un Ba-bau atipico, comunque…» replicò in un mormorio Winter, armeggiando con le tazzine di porcellana color malva. «… anche perché, se ben ricordo, i Ba-bau sono dei mostri orrendi.»

«E’ un passo avanti, se non mi vedi come un mostro orrendo» asserì Kim, sbocconcellando il biscotto. «Mmh, buono.»

«Grazie» ammiccò lui, porgendole una tazzina di caffè fumante.

Sollevando un sopracciglio per la sorpresa,  gli occhi puntati sul secondo biscotto che teneva tra le dita, Kim borbottò: «Li hai fatti tu?»

«Ebbene sì. O questo, o spendere montagne di risparmi per mantenere la fame insaziabile di Mal e Spry. Divorano più biscotti di un reggimento di bambini. Così, è più salutare ed economico» le spiegò Winter, assaporando sulla lingua l’amarezza della caffeina.

«Sei davvero un bravo papà… e un bravo fratello maggiore» sentenziò Kim, terminando il caffè con diverse sorsate.

Nel momento in cui tornò a sfiorare con lo sguardo il viso di Winter, notò immediatamente un lampo di mestizia passare nei suoi occhi color ghiaccio e, per un istante, temette che l’uomo potesse chiudersi nuovamente a riccio con lei.

Win però si limitò a sospirare e, afferrato un altro biscotto, replicò: «Se non fosse per Spring che gli fa da mamma, non so come avrei fatto.»

«Te la saresti cavata benissimo. Si vede. E Malcolm ti adora» dichiarò con fiducia Kimberly, aggiungendo subito dopo: «Parla della mamma con molta serenità, perciò penso che tu abbia fatto un ottimo lavoro, con lui. Ripete un sacco di volte ‘papà dice’, ed è sempre sorridente quando lo fa. Direi che depone a tuo favore.»

Un altro sorrisino, stavolta imbarazzato. E sì, compiaciuto.

«Dirgli che sua madre è diventata una fata, poi, penso sia stato il sistema migliore per renderlo più sereno. Immaginarla come una creatura meravigliosa ed eterea deve essere un sollievo, per lui» aggiunse poi Kim, accentuando il suo sorriso.

«Erin somigliava alle fate dei boschi… mi è venuto spontaneo» buttò lì Winter, preferendo non inoltrarsi oltre su quell’argomento.

«Ora che ci penso, quando saremo in missione compirò trentatre anni.» Scaltramente, la donna decise di buttarsi su tutt’altro genere di ragionamento, preferendo non rovinare l’atmosfera rilassata di quel momento. Meglio non forzare troppo la mano, viste le reticenze di Winter a parlare. Poteva già ritenere un successo quello scambio più o meno sereno di chiacchiere.

«Sì, è il Solstizio d’Inverno» annuì lui, pensieroso. «Ti ricordi come lo festeggiavamo?»

«Facevate un cerchio attorno a me per rappresentare la Ruota del Tempo, e ognuno di voi intonava un canto in gaelico per ogni festività celtica relativa ai solstizi e agli equinozi. A te toccava sempre Yule, me lo ricordo.» Poi, con un sorriso colmo di ricordi, aggiunse: «Il mio compleanno.»

«Già» assentì Winter.

≈≈≈
 
Alla fine, Kim aveva cenato a casa loro, e Spring si era unita al trio senza dire alcunché circa la presenza della donna in casa del gemello.

Kimberly aveva dato una mano ad apparecchiare e a sistemare i piatti sporchi in lavastoviglie, una volta terminata la buonissima pizza preparata da Winter.

Spring, invece, si era messa a giocare con la Nintendo Wii di Malcolm, perdendo clamorosamente a qualsiasi gioco propinatole dal nipote. Alla fine, si era dovuta dichiarare non solo sconfitta, ma massacrata a morte.

Kimberly aveva riso di fronte alle facce buffe di Spring, e così pure Malcolm che, tra una risata e l’altra, l’aveva convinta a provare con un gioco sempre nuovo.

Winter era rimasta in silenziosa ammirazione di quel quadretto e, ogni tanto, aveva accennato qualche aiuto alla sorella, che però non era bastato a salvarla da una miriade di sconfitta.

Alla fine, al momento dei saluti prima di rientrare a casa, Kimberly si era sentita quasi svuotare e si era ritrovata ad abbracciare Malcolm come se fosse stato suo amico da sempre.

Win si era limitato a una stretta di mano, mentre Spring l’aveva avvolta nel suo stritolante abbraccio profumato di gelsomino prima di ordinarle di tornare a trovarli.

E ora se ne stava sdraiata sul suo letto, al buio, avvolta dal suo pesante panno di lana a quadrettoni rossi e gialli, e sospirava come se le avessero strappato dal petto il cuore.

E forse era vero.

Si era sentita così già un’altra volta, e aveva sperato con tutta se stessa di non dover più provare simili e devastanti sensazioni.

Invece no, aveva dovuto rivedere il suo vecchio amico Winter dopo averlo perduto nel peggiore dei modi.

Aveva impiegato mesi per ristabilirsi dal senso di vuoto e di perdita che la partenza della famiglia Hamilton aveva lasciato nel suo animo di bambina e, soprattutto, aveva dovuto mettere a tacere il suo cuore spezzato dal primo amore infranto.

Certo, le cotte che si avevano a dodici anni non contavano. Forse.

O almeno, così aveva pensato nel rivedere per la prima volta, dopo anni, il viso di Winter. Lui, così diverso dal Win di cui la piccola Kimmy si era invaghita, non poteva di certo farla crollare in una spirale senza via d’uscita, no?

Beh, allora era sveglia e sospirava per un altro motivo.

Già, ma quale?

Passandosi le mani sul viso contratto in una smorfia di disappunto, Kim disse tra sé, con tono risentito: «E’ il tuo capo, dovete lavorare assieme e, come ben sai, certe cose proprio non funzionano. Inoltre, lui non è interessato a te. Perciò, svegliati!»

Certo, lui non era più il vecchio Winter, tutto sorrisi e gentilezze per lei.

Certo, lui non era più il bambino che la sorprendeva portandole una coccinella perché sapeva che a lei piacevano.

Certo, lui non era più tante cose.

Ma che uomo era diventato!

Oh, sì, era ancora distante come la luna dal sole, quando si trattava di lei, ma come trattava Malcolm! E Spry!

Erin era stata davvero una donna fortunata ad avere al fianco un marito amorevole, gentile, premuroso e affabile come lui.

E un cuoco eccezionale.

«Come si fa a resistere ad un uomo che prepara  a mano una pizza del genere?» si lagnò Kimberly, afferrando saldamente uno dei cuscini del letto per schiacciarselo in faccia e ringhiare contro la federa pulita e profumata di limone. «Dio, che nervi!»

Lavorare gomito a gomito con lui, nello spazio ristretto della piccola base operativa dell’isola Piccola Diomede, circondati solo da ghiaccio e vento, sarebbe stato un inferno dantesco, questo era poco ma sicuro.

≈≈≈
 
La partenza per una nuova missione fu, come al solito, traumatica.

Almeno per il suo cuore.

Non gradiva mai abbandonare Malcolm, anche se sapeva benissimo che il figlio era in compagnia della zia e che, tra loro, c’era un ottimo rapporto.

Malcolm era molto maturo per la sua età, e non aveva mai fatto dei problemi al padre quando, per motivi di lavoro, si era dovuto assentare da casa anche per settimane intere.

I problemi, di fatto, se li era sempre creati Winter, e anche quella volta non fu da meno.

Abbracciò strettamente il figlio nella sala d’attesa dell’aeroporto prima di mormoragli alcune parole in gaelico, che Malcolm accettò con un sorrisone sul viso.

Mo chuisle1.

Poteva anche non essere stato un buon marito per Erin, ma amava oltre se stesso Malcolm. Era davvero il suo cuore, l’unica ragione di vita, per lui.

E lasciarlo era sempre un affronto al suo animo, pur se il figlio non sembrava risentire di queste sue mancanze ripetute da casa.

Di questo, doveva ringraziare soprattutto Spring. Era una zia eccezionale con lui e, anche se in casa era più disordinata di un bambino di sei mesi, sapeva che adorava il nipote alla follia e che, per lui, avrebbe dato tutto.

Summer era ugualmente brava, anche se meno espansiva della gemella ma, come lui, viaggiava spesso e aveva molteplici impegni che le impedivano di essere presente come invece riusciva a fare Spring.

Quanto a zia Brigidh, beh… solo la Signora della Ruota del Destino poteva sapere cosa le passasse per la testa.

Da anni non ce l’aveva più con lei, da anni aveva compreso cosa l’avesse spinta ad agire, legandolo contro la sua volontà ad un destino che non aveva cercato, da anni l’aveva perdonata senza rimorsi.

Eppure lei era sempre restia a farsi viva, quando lui era presente. Adorava Mal come tutti, in famiglia, ma se lui era in casa, di rado si faceva vedere.

Tutte le sue telefonate erano finite in un buco nell’acqua e nonostante le rassicurazioni di Brigidh, che aveva gradito e accettato il suo perdono, nulla era riuscita a smuoverla dal suo personale stato di forzata auto-flagellazione.

E che dire di Autumn?

Più di quattro anni di silenzi, spezzati solo da qualche cartolina di auguri natalizi e gli immancabili regali di Natale e di compleanno per Malcolm, erano qualcosa che si avvicinava molto all’esilio.

Da cosa fosse dipeso, non l’aveva mai saputo.

Le cose erano andate male fin dalla nascita di Mal ma, dalla morte di Erin, tutto era andato a rotoli. Avevano litigato furiosamente, e la partenza di Autumn era stato solo l’epilogo tragico.

La voce atona e gentile della hostess avvisò del prossimo atterraggio all’aeroporto di Wales, in Alaska, e Winter, riscuotendosi da quei cupi pensieri, allacciò la sua cintura di sicurezza e lanciò un’occhiata distratta oltre l’oblò.

Il villaggio alaskiano era ricoperto di neve spessa e lucente sotto la rada luce del giorno, poco più che un bargiglio indistinto all’orizzonte.

La notte polare, in quelle lande, non era così impietosa come in Scandinavia o a Capo Nord, ma di certo non avrebbero potuto contare su un sole splendente o su una luce favorevole.

La penombra sarebbe stata la loro compagna per il prossimo mese, che avrebbero passato sull’isola Piccola Diomede, di proprietà degli Stati Uniti.

Avrebbero attraversato lo Stretto di Bering fino a raggiungerla grazie ai mezzi motorizzati già in loco, attrezzati con tutto il necessario per la sopravvivenza a quelle temperature impietose e preparati secondo le loro specifiche richieste.

Quando il muso cominciò a puntare verso il basso, Kim – seduta dietro di lui – cominciò a mormorare: «Spero davvero che abbiano pulito bene la pista. Non vorrei visitare la torre di controllo direttamente dalla carlinga dell’aereo.»

Malick sghignazzò nel chiudere la sua copia del Washington Post per poggiarla sulle cosce. Ammiccando alla collega, chiosò divertito: «Non vuoi sperimentare un atterraggio d’emergenza?»

«No, grazie» ringhiò per contro lei, strizzando gli occhi quando l’angolo di caduta aumentò ulteriormente.

Timothy, del tutto tranquillo, replicò: «Devi sapere, Kimberly, che questo pilota è più che abituato a portarci qui. Sa come gestire questo genere di eventi.»

«Sarà anche lo Schumacher degli aerei, Timothy, ma ho sempre pensato che gli esseri umani non abbiano le ali per un motivo» bofonchiò contrariata Kimberly, obbligandosi a respirare con calma.

Rowena, che le sedeva accanto, le batté gentilmente una mano sul dorso tremante e commentò: «Non far caso a loro. Andrà tutto bene.»

«Non badate a me. Io e gli aerei non andiamo d’accordo» sogghignò a quel punto Kim, cercando di fare dell’ironia.

«E vuoi fare un lavoro dove, per forza, c’è da viaggiare un sacco? Sei masochista?» ironizzò Malick, scrollando le spalle come non comprendendo la collega.

Con un mezzo sorriso, fu Winter a rispondere. «I Clark sono persone coraggiose.»

«Se non morirò di paura, ti darò ragione» replicò Kimberly, pur grata per quelle parole.

Win si limitò a poggiare il capo contro il poggiatesta, il viso completamente rilassato e, rivolto all’amica, le suggerì: «Pensa a Yule, … cosa succedeva?»

Kim sbatté confusa le palpebre, cercando di comprendere cosa volesse dire, prima di sorridere con comprensione e asserire: «Il Cerchio dei Quattro. Sì, ora ricordo… grazie.»

«Volete rendere edotti anche noi?» si intromise Malick, curioso.

La donna ridacchiò di fronte alla sua curiosità e, più tranquilla, disse: «Yule è una festa celtica, ed è anche il mio compleanno.» Dopo aver rimuginato bene su cosa dire, aggiunse: «Quando eravamo piccoli, Winter, suo fratello e le sorelle si riunivano in cerchio davanti al camino acceso tenendo me nel mezzo, e intonavano una canzone in gaelico in cui, in pratica, benedicevano i nati nel giorno del Solstizio d’Inverno e richiamavano delle magie protettive su di loro. Era carino.»

«Non ti facevo così mistico, capo» commentò Malick, sbirciandone l’espressione con i suoi profondi occhi scuri.

«Avevamo otto anni, la prima volta che l’abbiamo fatto» ci tenne a precisare Win, pacato. «Di certo, scordatevi di vedermelo fare quest’anno.»

Rowena fissò senza parole Kim, come strabiliata dal fatto che il loro capo avesse tentato di fare nuovamente dell’ironia e la donna, ghignando, replicò: «Mi vergognerei troppo se lo facessi, Winter. No, grazie.»

«Sempre disponibile a non mettere in imbarazzo le signore» mormorò lui, con tono tranquillo.

Malick scoppiò a ridere e, dando una pacca sulla spalla a Tim, che sedeva vicino a lui, esclamò: «Quest’anno ci divertiremo, lo so!»

«Se non mi disarticoli le ossa, forse» si lagnò il collega, massaggiandosi la spalla dolente.

Rowena e Kim risero con Malick, mentre Winter si limitò a un quieto sorriso.

Sì, forse quell’anno non sarebbe stato così tremendo stare lontani da casa.

 
≈≈≈
 
Meno cinquanta gradi Fahrenehit2.

Una temperatura ideale per l’ibernazione, forse, ma anche per ciò che dovevano fare loro, sebbene il primo passo fuori dalla carlinga a temperatura controllata fu scioccante.

Per Kim, se non altro, quell’assaggio di gelo polare fu un evento degno di essere ricordato con un sentito ‘miseriaccia, che freddo!’.

Winter, dal canto suo, non fece una piega e, nel suo completo North Face giallo ocra – messo a disposizione dal NOAA – discese dal piccolo aereo privato in dotazione al loro gruppo.

Con calma misurata e passo elegante, poi, si diresse verso il bancone informazioni con tutti i documenti per recuperare armi, bagagli e mezzi di trasporto.

Efficienti, Malick e Tim si occuparono del disbrigo delle pratiche burocratiche mentre Kim e Rowena seguirono Win ai magazzini del piccolo aeroporto di frontiera, il più a Nord di tutto il continente americano.

Non appena ebbero abbandonato la piccola hall per avviarsi lungo il percorso designato ai pedoni, all’interno dell’enorme deposito dell’aeroporto, Kim si guardò intorno con curiosità.

L’efficienza con cui i tecnici stavano pulendo i vari accessi ai capannoni, tramite l’utilizzo di potenti turbine da neve, la fece sorridere. Erano davvero in gamba.

Il cielo terso sopra di loro e il sole basso all’orizzonte, quasi fosse in procinto di volgere al crepuscolo, rendevano quell’ambiente ancora più alieno. Soprattutto se si pensava che erano le due del pomeriggio.

Era la prima volta che assisteva a quel particolare genere di spettacolo e, pur se sapeva che non sarebbero mai arrivati ai livelli di oscurità di Capo Nord, già avere un assaggio della notte polare era eccitante e misterioso.

Nel giro di un’ora e mezzo si ritrovarono seduti scomodamente all’interno dei due mezzi cingolati – al cui interno erano presenti un paio di motoslitte – messi a disposizione dal NOAA.

Collegati al GPS della piccola base sita sull’Isola Piccola Diomede, di proprietà degli Stati Uniti d’America, il mezzo guidato da Winter precedeva quello capitanato da Timothy, che procedeva sul ghiaccio scricchiolante e bianco come il latte.

Era difficile rendersi conto dell’effettivo spessore della calotta, stando su quegli archibugi che tanto potevano rassomigliare a dei mezzi da sbarco della marina – fatto salvo per il loro colore immacolato – ma Kim sperò che fosse largamente sufficiente.

Non le sarebbe piaciuto per nulla assaggiare la frescura glaciale del Mare di Bering, neppure per un milione di dollari.

Sballottate sugli scomodi sedili di pelle nera consunta per l’uso, Rowena e Kim controllavano attentamente con lo sguardo i movimenti dell’autoarticolato sul visore del computer di bordo, mentre Winter guidava come se nulla fosse.

La velocità non era granché, anche perché il ghiaccio era sconnesso e pieno di crepe e ammassi di neve, però era sufficiente per far loro credere di trovarsi su una barca a tutta velocità.

Quei mezzi erano tutto tranne che ben ammortizzati, ma Win sembrava disinteressato sia al terreno sconnesso che ai disagi dell’autoarticolato.

Il suo volto appariva sereno, tranquillo, come se non si trovasse sopra a uno strato decisamente più sottile dello spessore d’acqua salata che sovrastavano.

Le sue mani erano ben salde sul volante, gli occhi puntati sulla lastra informe e piena di gobbe, avvallamenti e incrinature che era la calotta di ghiaccio sopra lo Stretto di Bering.

Kim si chiese come facesse a starsene lì, del tutto tranquillo, neanche stesse percorrendo un’interstatale.

«Neanche abitasse da queste parti… sembra che conosca persino per nome le crepe nella neve» brontolò sconcertata Rowena, scuotendo il capo con espressione accigliata.

E come darle torto?

Winter sembrava esserci nato, tra quelle lande ghiacciate e impervie!

La radio di bordo gracchiò, e la voce formicolante di Timothy riverberò nell’abitacolo del mezzo, domandando a Winter: «Capo, ma sei sicuro che procedere a 15 miglia orarie sia sicuro?»

«Tu seguimi e non preoccuparti. So quel che faccio.» Non disse altro e, con un gesto calcolato delle mani, svoltò leggermente e si scostò di poco dalla linea tracciata dal GPS.

Subito, Rowena puntò il dito dall’unghia laccata di nero e sibilò angosciata: «Capo, non vorrei essere pedante… ma ti sei spostato

«Lo so» replicò serafico Winter, procedendo parallelamente alla linea disegnata sul monitor del navigatore satellitare.

«E vorresti spiegarmi perché?» ansò Rowena, impallidendo leggermente.

Senza staccare gli occhi dalla disuniforme distesa di neve che li precedeva, l’uomo mormorò pacifico: «Se avrai la compiacenza di lanciare un’occhiata alla nostra sinistra, noterai che il colore del ghiaccio, per diverse miglia, è leggermente diverso, in quella zona. Ne deduco che lì lo spessore della calotta è più sottile, perciò non è sicuro. Tutto qui

Rowena scavalcò agilmente il sedile per portarsi su quelli posteriori e, col volto incollato al finestrino, aggrottò la fronte e mugugnò: «I casi sono due, capo; o io ho bisogno di un oculista, o tu hai la vista di Superman.»

Kim, che stava a sua volta osservando lo strato di neve e ghiaccio alla loro sinistra, si massaggiò pensosa il mento.

Cercò senza risultato di notare i cambiamenti di tono cui aveva accennato Winter quando, sul viso dell’uomo, scorse un luccichio nello sguardo davvero curioso.

Non c’era il sole, tutto il cielo ora era ricoperto di nubi gonfie e scure e, tutt’intorno, l’atmosfera aveva preso i contorni di una brutta serata in procinto di diventare notte,… eppure i suoi occhi brillavano.

Quando Winter si accorse dello sguardo di Kim puntato su di lui, si volse a mezzo e mormorò: «Cosa c’è, Kimberly?»

«Oh, nulla… nulla» scosse il capo lei, ridacchiando. Il bagliore era scomparso.

Tornando subito con lo sguardo alla calotta di ghiaccio, lui asserì con ironia: «Rowena, è inutile che tu stia lì con il naso schiacciato contro il vetro. Ti si congelerà e basta.»

«Ohssignorebenedetto!» esclamò la donna, fissando la nuca del suo capo con occhi sgranati.

«Beh, che succede?» esalò Kim, guardandosi febbrilmente intorno, alla ricerca di qualche eventuale problema.

Indicando con mano tremante la testa del loro capo, Rowena gracchiò scioccata: «Mi ha… mi ha chiamata con il mio nome! Oddio! Lo so! Ora finiremo in un crepaccio e affogheremo!»

Kim esplose a ridere di gusto – in effetti, per Rowena, quel particolare poteva essere sconvolgente, visti i precedenti – mentre Winter, sbuffando, si limitò a dire: «Tanta scena per cosa? Un nome? Non vi capisco davvero.»

«Neanche sapevo che conoscessi il mio nome, capo!» protestò Rowena, sghignazzando nel tornarsene sul sedile anteriore, scavalcando con agilità lo schienale imbottito.

«Conosco a memoria la scheda di ognuno di voi » precisò l’uomo, imperturbabile.

«Fa niente. Vorrà dire che mi gongolerò davanti a Timothy e Malick perché hai usato il mio nome per la prima volta» ridacchiò tutta giuliva la donna, strizzando l’occhio a Kim.

«Ho chiamato per nome anche Kimberly, se è per questo» le fece bonariamente notare Winter, gli occhi sempre incollati a ciò che li precedeva.

«Lei non conta. E’ amica tua» scrollò una mano con negligenza Rowena, dando di gomito alla collega.

«Oh, bene. Adesso non conto nulla?» si ritrovò a protestare Kim, pur sorridendo divertita.

Rowena allora dissertò sui vari motivi secondo cui il nome di Kim contasse meno del suo e Winter, costretto ad ascoltarle gioco forza il loro continuo dibattere, mugugnò a bassa voce: «C’è un motivo se, di solito, me ne sto zitto.»


 
 
__________________________
1 Mo chuisle: (gaelico irlandese) Letteralmente, mio battito, mio cuore. Per chi avesse visto Million Dollar Baby, era anche il nome di battaglia di Maggie, aka Hilary Swank.
2 Meno cinquanta gradi Fahrenheit: Equivale ai – 45.556 gradi Celsius, l’unità di misura normalmente usata in Europa.
 
 

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Capitolo 6
*** V. ***


Capitolo 5
 
 
 
 
 

 
«Non osare dirmi come devo sentirmi o meno, Win… sono felice della vita che ho avuto, punto. Non togliermi questa sensazione, te ne prego.»

«Erin, a stórin1, non voglio toglierti nulla… ma dubito tu possa realmente pensarlo.»

La voce di Winter era pesante, strascicata, stanca, scoraggiata.

Il viso emaciato di Erin stava dinanzi a lui come il simbolo primo della sua sconfitta come uomo e marito, pur se lei era convinta del contrario.

Un lento, debole sorriso screziò il viso teso della donna mentre, dalle sue labbra secche, la voce flebile sgorgò con sorprendente forza. «Mi hai amata di amore sincero e puro.»

«Sai che…» iniziò col dire lui, subito bloccato da un’occhiata glaciale della moglie.

«Win, mi hai dato tutto l’amore che potevi darmi. Pensi che non mi sia bastato? Beh, ti sbagli. Siamo stati messi nel bel mezzo di un’arena e abbiamo combattuto bene, direi. Nostro figlio è perfetto, è esattamente ciò che avrebbe dovuto essere, e io ne sono orgogliosa come ne sei orgoglioso tu. Il resto non conta. Dopotutto, chi potrebbe essere infelice con il proprio migliore amico?»

Nel dirlo, tossì un paio di volte e subito Winter, con mano delicata, le passò un pannetto umido sul viso per rinfrescarla mentre, assiso sulla poltrona della camera d’ospedale, Malcolm continuava a dormire pacificamente.

Il padre lo fissò per un attimo; il suo ometto, il suo primato, il suo campione. Non avrebbe potuto essere più orgoglioso di lui. Ma di se stesso? Davvero non lo sapeva.

«Áthas ar mo chroí go deo2» sussurrò Erin, richiamando la sua attenzione.

Winter allora le sorrise amorevole e, piegatosi su di lei, le sfiorò le labbra con un bacio delicato, mormorandole: «Móraim thú, ó lá go lá, móraim thú, ó oíche go hoíche3»

«Winter…»

«Erin…»

«Come?» esalò una voce, spezzando l’incanto del momento.

Risvegliandosi di colpo dal sonno che l’aveva preso di fronte al microscopio elettronico, Win si riscosse al suono flebile della voce di donna che aveva sussurrato il suo nome.

Aprendo gli occhi su un volto a lui noto, esalò confuso: «Kimberly?»

La donna si aprì in un sorriso comprensivo e, nello spegnere la abat-jour della scrivania, ove il collega aveva lavorato fino a tarda notte, Kim sussurrò: «Sono le due di notte. Hai intenzione di morirci, su quel vetrino?»

Muovendo lentamente il collo e le spalle per sgranchirsi le ossa, Winter tornò col pensiero agli ultimi stralci di sogno che aveva appena abbandonato e, come sempre, un dolore sordo e pungente si incuneò tra le costole, tramortendogli il cuore.

Era sempre così, quando ricordava gli ultimi giorni di Erin. Mai una volta che il suo sonno gli desse pace, la notte, quando rammentava sua moglie.

Ogni volta, il biasimo verso se stesso era così forte da porgli innanzi agli occhi solo i suoi fallimenti.

E forse, era giusto così.

Dopotutto, Erin non c’era più. Era giusto che lui pagasse.

Passandosi una mano sulla nuca indolenzita per massaggiarla, Win le domandò pensoso: «Io non dovrei essermi addormentato qui, ma tu perché sei sveglia?»

«Avevo sete, così mi sono alzata e ho visto la luce accesa nel laboratorio» gli spiegò sommariamente lei, scrollando le spalle.

Solo in quel momento Winter si accorse che, in effetti, Kimberly era in pigiama. Un bel pigiama di flanella color vinaccia a fantasie di fiori esotici.

Abbozzando un sorriso, lui commentò: «Vedo che ti piacciono sempre gli ibischi.»

Vagamente sorpresa da quell’accenno – chissà perché, ma dall’uomo che era diventato Winter, non se lo sarebbe mai aspettato – Kim annuì nel guardarsi e ammise: «Mai persa, questa passione. Ma non oso tenerne uno vero in appartamento, visto che ho il pollice nero.»

L’uomo allargò il proprio sorriso e, quasi senza accorgersene, avvolse con un braccio le spalle di Kim come soleva fare da piccolo. Stancamente, la sospinse verso la porta per uscire dallo studiolo e le disse: «Sarà meglio se entrambi torniamo a dormire.»

«Eh? Oh… sì» riuscì a biascicare lei, troppo sconvolta per riuscire a dire qualcosa di più intelligente o concreto.

Lui allora la fissò confuso per alcuni attimi, prima di comprendere cosa l’avesse mandata in tilt a quel modo.

Già sul punto di ritirare il braccio, sul viso un’espressione di totale sconcerto e, sì, imbarazzo, Winter venne bloccato dalla mano di Kim che, con un sorrisino, lo trattenne con decisione. «No, lascia. Sei stanco al punto tale che potresti rotolare in terra entro i prossimi due metri.»

«Non è…» iniziò a protestare l’uomo, subito tacitato dalla mano dell’amica che, poggiandosi sulla sua bocca calda, lo azzittì di colpo.

Accentuando il suo sorriso, la climatologa replicò: «Sei stanco, Win, e puoi appoggiarti a me. Siamo amici, dopotutto.»

«Kimberly…» esalò lui, reclinando il capo per non dover affondare nei suoi occhi color dell’erba fresca di primavera.

«Immagino che il sogno che stavi facendo ti abbia turbato, visto il modo in cui chiamavi Erin, ma voglio che tu capisca una cosa; se hai bisogno di parlare, io sono qui. E ci sarò sempre. Ricordi, no, la nostra promessa?» asserì con sicurezza Kimmy, levando un mignolo dinanzi a lui.

Winter allora levò il proprio e, seppur a disagio, lo intrecciò a quello della donna, sussurrando: «Sempre amici, dall’alba alla sera, dalla notte al crepuscolo.»

«Appunto» annuì Kim, sorridente. «E ora, a nanna. O chissà cosa potresti leggere, in quel reperto di ghiaccio!»

Lui allora ridacchiò e, stretta con forza la mano sulla spalla di Kim, se la attirò un po’ più vicina, chiosando: «Di certo, non cose utili.»

«Temo di no» assentì lei, assaporando silenziosamente quel momentaneo cedimento da parte di Winter. Era bello, nonostante tutto, averlo vicino. Percepirlo di nuovo come amico.

«Kimberly…»

«Sì?» mormorò lei, fermandosi dinanzi alla porta della stanzetta che Win divideva con Tymothy e Malick.

«Grazie» sussurrò l’uomo, chinandosi su di lei per sfiorarle i capelli con un bacio leggero.

In un fruscio fresco e profumato di ghiaccio Winter si allontanò subito dopo e Kim, bloccata nel bel mezzo del corridoio della piccola postazione fissa dell’isola Piccola Diomede, si chiese scioccata cosa fosse successo, di preciso, in quel momento.

O un asteroide l’aveva colpita in testa, spedendola direttamente in Paradiso, oppure Win le aveva realmente dato il bacio della buonanotte come soleva fare da bambino.

E in quel caso, lei come doveva reagire?

Sbuffando, si guardò le mani tremanti e, dandosi dell’idiota, commentò piano tra sé: «Letto, sonnifero, dormire.»

Anche se non era del tutto sicura che il Lorazepam4 avrebbe sortito l’effetto voluto, quella notte.

 

≈≈≈

Caffè.

Dio, se ne era dipendente!

E quello che sentiva… sì, era caffè appena fatto, di un bell’aroma corposo, che sapeva di Mari del Sud, di una sdraio su una spiaggia assolata, di…

L’occhio le cadde sulla finestrina dal vetro spesso e semi-congelato e, di colpo, tutto l’entusiasmo per il caffè scemò in un più credibile, noioso, tuffo nella realtà.

Al mare c’era, ma in uno congelato, dove c’erano cinquantadue gradi Farhenheit sottozero e dove, per il momento, stava soffiando un vento gelido che, sicuramente, le avrebbe fatto venire le piaghe al naso.

Fu con questo spirito che Kim entrò nello stretto cucinotto della base dove Winter, Malick  e Timothy stavano studiando alcune spettrografie degli ultimi campioni di ghiaccio, recuperati a due miglia a sud dell’isola.

«’giorno» bofonchiò lei, levando fiacca una mano prima di venire spintonata alle spalle da Rowena che, quanto a brillantezza, non era inferiore a lei.

Fissando i tre uomini con aria arcigna, che parevano appena usciti da una beauty farm, la paleoclimatologa dichiarò irritata: «Come facciate a non avere le occhiaie, solo voi lo sapete. E’ ingiusto!»

Malick si passò svogliatamente una mano sui corti riccioli neri e, ammiccando alla collega di origini  scozzesi, replicò: «Per essere figlia di un highlander, ti lagni parecchio, cara.»

«Aspetta che mi sia scolata mezza brocca di caffè poi ne riparliamo, cioccolatino.» Detto ciò, Rowena grugnì similmente a un cane rabbioso e si versò una dose generosa di liquido scuro all’interno di una tazza mentre Malick, ghignante, tornava al suo lavoro.

Winter si limitò a scuotere il capo, accennando appena un sorriso e Kim, non sapendo bene che dire, si attenne ad un più sicuro silenzio e fece colazione senza fiatare, ingollando biscotti secchi e caffè in egual quantità.

Rowena si sfamò con tre croissant scaldati nel microonde e, dopo essersi servita quattro tazze di caffè, dichiarò più tranquillamente: «Oggi chi mi segue alla trivella?»

«Timothy e Malick» asserì Win, impegnato a studiare alcune carte barometriche.

Malick si indicò ghignante – la faccenda del nome proprio era diventata una sorta di guerra personale tra lui e Rowena – mentre Tim fece finta di nulla.

La studiosa scozzese, invece, gli fece la linguaccia e bofonchiò qualcosa tipo “l’ha usato solo perché sei un uomo. Non conta”, dopodiché tornò alla sua colazione con ostentata insofferenza.

Tim continuò a fare finta di niente, la sua attenzione rivolta interamente a Winter, che stava parlando con lui ignorando bellamente i due contendenti.

«Timothy, dovresti testare il radar doppler dal campo di trivellazione. Ho notato che ci sono dei picchi nella ricezione dei dati dal sito di carotaggio, perciò vorrei controllassi l’apparecchiatura. Malick, tu ti occuperai di insegnare a Rowena a utilizzare la trivella senza che faccia a brandelli la carota di ghiaccio. Non ci servono i cubetti per i drink.»

Malick fissò apertamente divertito il capo chino di Winter, ma non disse nulla. Rowena, invece, neopromossa al rango di “persona da chiamare per nome”, ridacchiò divertita e commentò: «Ha fatto una battuta su di me! Entro un anno, guiderò la baracca!»

Kim cercò di non ridere ma fallì miseramente e Malick, non potendo fare altro, si lasciò andare ad uno scoppio di risa così genuino che persino Tim si permise di sorridere gaiamente.

A quel punto, notando l’ilarità generale, Win mormorò: «Devo smetterla di tentare di fare il simpatico. Non lavorate seriamente.»

«No, no, ti prego. C’è già abbastanza freddo fuori. Non sopporterei di avere qui dentro …» iniziò col dire Kim prima di tapparsi la bocca, ammiccare a Winter e sghignazzare impunemente.

Win levò allora un sopracciglio con aria vagamente minacciosa e replicò serafico: «Stavi per dire Iceman,… Kermit

I tre colleghi fissarono alternativamente i due contendenti, non sapendo bene come reagire a quello scambio di battute ma Kim, nell’udire quel nome, prevenne qualsiasi loro reazione ed esclamò contrariata: «Avevi promesso!»

Scrollando una spalla come se nulla fosse, Winter si rimise a leggere i grafici e, pacato, asserì: «Sei tu che hai scherzato col fuoco, … Clark. »

«Uh… è retrocessa al cognome. Fico.» Rowena sghignazzò prima di strizzare l’occhio a Kim, che pareva parecchio alterata, e darle una pacca consolatoria sulla spalla.

Malick, levando le mani in aria, chiosò: «Mai mettersi contro il capo, anche quando sembra di buon umore.»

«Sante parole» annuì con vigore Tim, seguendo Malick e Rowena fuori dal cucinotto, diretti alle rispettive stanzette per abbigliarsi degnamente e combattere il freddo che li avrebbe aspettati all’esterno del campo base.

Rimasti soli, Kimmy cambiò radicalmente espressione e, storcendo la bocca in un risolino ironico, dichiarò sconcertata: «Se non fossi del tutto certa di essere sveglia, direi che sono ancora nel mondo dei sogni.»

Winter la scrutò di straforo e replicò tranquillamente: «Sogni di discutere con me?»

«Per la verità, stanotte ho sognato una spiaggia assolata e drink con gli ombrellini» sottolineò lei, allungandosi per afferrare un croissant caldo e sbocconcellarlo vogliosa. «Uhm, buono…»

Poggiato il documento che teneva in mano sul tavolo di vinile, il climatologo si volse a mezzo per averla innanzi e, scrutandola pensoso, le domandò: «Cosa intendevi, allora?»

«Eri il vecchio Win… e non t’incazzare se ti chiamo così» sottolineò lei, sollevando subito una mano per chetarne eventuali reazioni. «Solo il vecchio Win avrebbe risposto alla mia presa in giro voluta

«Mi stavi mettendo alla prova?» si informò allora Winter, ammiccando.

Arrossendo suo malgrado, Kim si sedette al tavolino con lui e, intrecciando nervosamente le mani, mormorò: «Stanotte… è stato bello rivedere il vecchio… te. Mi mancava, in qualche modo.»

L’uomo si passò una mano tra gli scuri capelli, scompigliandoli leggermente e, con un pesante sospiro, si levò per servirsi un po’ di caffè nella sua tazza di porcellana nera.

Dopo averlo sorseggiato per qualche breve secondo, tornò al tavolo e ammise: «Mi manca il vecchio me, per usare le tue parole… ma è difficile tirarlo fuori.»

«Perché lo hai nascosto?» si arrischiò a chiedere Kim, mordendosi un labbro.

Winter si volse un istante quando udì la porta del campo base aprirsi e chiudersi e, nell’ascoltare pensieroso il rumore delle motoslitte prendere vita, mormorò: «Allontanare il piccolo Win, tutto gentilezze e cuore aperto, è stata una necessità.»

Vagamente confusa, Kimberly replicò: «E perché, di grazia?»

«Diciamo che…» iniziò col dire Winter prima di bloccarsi, ridacchiare tristemente e aggiungere: «… ho avuto i miei motivi.»

Kim sbuffò platealmente, ma si limitò a dichiarare: «Non ti obbligherò a parlare, se non vuoi. Ma mi fa piacere che, ogni tanto, il vecchio Win salti fuori.»

«Grazie» assentì lui, levandosi in piedi. «Vado in laboratorio a terminare il lavoro di stanotte. Tu prepara dei nuovi campioni per il microscopio elettronico. Voglio avere il resoconto delle ultime cinque carote per oggi a mezzogiorno.»

«Signorsì, comandante!» esclamò Kim, afferrando la sua tazza di caffè e un muffin.

«Dopo colazione» precisò Winter, con un mezzo sorriso.

«Non sei il solo a saper fare lo stacanovista, sai?» ghignò lei, tirandosi dietro cibo e bevande e lasciandolo solo nel cucinotto.

Winter ammiccò e disse tra sé: «No davvero, a quanto pare.»

 

≈≈≈
 

«D’accordo, a noi due. Tu sei l’ultimo e poi ho finito» brontolò Kim, azzannando il restante muffin prima di avvicinare l’occhio destro al microscopio elettronico.

Erano le undici e venti del mattino.

O per lo meno, questo diceva l’orologio di Minnie che aveva al polso, indossato sotto il pesante maglione di lana merinos che la teneva al caldo.

Sapeva che era ridicolo, come orologio, e che era anche sciocco portarlo – specialmente con Winter nei paraggi – ma non aveva mai voluto comprarne un altro. Al suo orologiaio di fiducia aveva fatto cambiare un’infinità di volte il cinturino, perché lei potesse portarlo a qualsiasi età.

Ventidue anni.

Era ben vecchio, quel minuscolo orologio della Walt Disney, con la faccia sorridente di Minnie stampigliata sul quadrante di metallo.

Ormai era scheggiato in più punti sulla corona, il vetro era stato cambiato un’infinità di volte e il cinturino doveva essere il quindicesimo, se non ricordava male, ma quell’orologio non l’avrebbe cambiato per niente al mondo.

Perché era Winter che lo aveva scelto per lei, come regalo per il suo decimo compleanno.

Ricordava ancora quel giorno di Yule quando lui gliel’aveva consegnato, avvolto in una bella carta rossa e oro e, vagamente imbarazzato, le aveva confidato di averlo scelto di persona.

Un lento, sornione sorriso le si dipinse sul volto, mentre osservava con attenzione i composti inorganici all’interno del ghiaccio e i metalli pesanti presenti nella minuscola goccia d’acqua che stava analizzando.

Dopo qualche minuto, lo spettrometro digitale iniziò a gracchiare solitario nel piccolo ufficio dove stava analizzando i campioni.

Mentre i dati dei composti ritrovati nel campione venivano stampati, Kim si lasciò andare ad uno sguardo pensieroso rivolto all’esterno del campo base.

Il cielo era scuro, purulento, con nubi gonfie e nere tali da far presagire l’arrivo di una tempesta orribile e, per un istante, temette per le vite dei suoi colleghi.

Non era importante il fatto che fossero a poche miglia dal campo, e che loro possedessero dei cingolati in grado di oltrepassare anche la peggior tempesta del mondo. L’idea di saperli fuori la angustiava.

Il vento era immoto, ad ogni modo per cui, per il momento, non si sarebbe scatenato nessun inferno dantesco fuori da quel piccolo globo di metallo e vetro.

Lanciato uno sguardo allo spettrometro quando terminò di sputacchiare l’ennesimo foglio pieno di grafici, Kim prese in mano i risultati e li sistemò nella carpetta che avrebbe consegnato a Winter.

Fatto ciò, spense tutto e controllò che la piccola cella frigorifera dove tenevano i campioni fosse ben chiusa, dopodiché si lasciò alle spalle l’ufficetto e si diresse verso il laboratorio dove stava lavorando Win.

Non ricevendo risposta quando bussò un paio di volte alla porta chiusa, Kim si arrischiò ad aprirla e, vagamente contrita, mormorò: «Ehi, Winter, ci sei?»

Nessuna traccia dell’uomo.

Era svanito nel nulla?

«Mah,… forse sarà andato in bagno» borbottò tra sé la donna, già sul punto di uscire.

Un’icona sul portatile acceso di Winter, però, la incuriosì non poco e, sorpresa, si rese conto che era un avviso di chiamata su Skype.

Mordendosi dubbiosa il labbro inferiore, Kim si chiese se fosse il caso di accettare o meno la chiamata – e se dall’altra parte ci fosse stata l’amante di Winter? (ce l’aveva?) – ma, temendo potesse trattarsi di un’urgenza, si fece coraggio, aprì la pagina di Skype e prese un bel respiro per farsi coraggio.

Suo malgrado, fu ben felice di veder comparire la faccia vagamente confusa ma sorridente di Malcolm che, dopo alcuni secondi di iniziale sorpresa, si esibì in un sorrisone felice ed esclamò: «Ehi, Kimmy, ciao! Papà è lì?»

«Ciao, Malcolm. Mi viene il sospetto che sia andato in bagno» gli confidò Kim, accomodandosi sulla sedia di Winter.

Il suo profumo fresco la avvolse come una nuvola e, pur non volendo, sospirò. Perché doveva farle quell’effetto, maledizione a lei?!

«Oh, speriamo non abbia preso qualcosa» mormorò spiacente Malcolm. «Tu stai bene? Non stai male, vero?»

«No, sto benissimo. Ma penso anche tuo padre. Forse, doveva solo fare pipì» sogghignò lei, notando un ghigno divertito balenare sul volto ora più tranquillo di Malcolm.

«Sì, hai ragione. Magari è così. Lì è brutto? Qui, nevica tanto. Ho fatto un pupazzo di neve con zia Spry, ieri» la informò Malcolm, scostando leggermente il PC perché la webcam potesse inquadrare la finestra alle sue spalle.

In effetti, oltre il vetro, Kim poté scorgere una massiccia nevicata e, annuendo, replicò: «Qui è ancora calmo, per il momento. Ma il cielo è tutto scuro e gonfio. Sembra di guardare una mora gigantesca.»

Malcolm scoppiò a ridere di gusto e Kim lo imitò con maggiore contegno, pur deliziata dal suono candido della risata del bambino.

Era adorabile, e assomigliava così tanto al Winter che ricordava lei!

Asciugandosi una lacrima di ilarità, Mal esalò: «Mi fai una foto e me la mandi? Voglio vedere il cielo che… ehi, ciao, papà!»

Volgendosi a mezzo, e sobbalzando sulla poltroncina di Winter, non appena udì il bambino esclamare quelle ultime parole, Kim divenne paonazza in viso e fissò spiacente il collega e amico.

Con occhi colpevoli scrutò la figura alta e imponente dell’uomo che, appoggiato contro lo stipite della porta, riempiva quasi per intero l’uscita, e incombeva su di lei con la sua possanza maschile.

Un mezzo sorriso solcava il suo viso niveo quanto salubre e la sua voce, roca e pensosa, sgorgò dalle sue labbra mormorandole: «Una mora?»

Ghignando imbarazzata, Kim si levò in fretta dalla poltroncina – quasi inciampandoci, per la verità – e replicò: «Beh, ammettilo. E’ somigliante.»

«Mai detto il contrario» assentì lui, facendole cenno di tornare ad accomodarsi.

Avvicinatosi a lei, sinuoso nei movimenti come il frusciare dell’acqua attorno a un masso, Winter le poggiò una mano sulla spalla per spingerla a sedersi nuovamente.  Chinandosi poi per essere inquadrato meglio dalla webcam, asserì: «Vedo che Kimberly ti piace molto, Malcolm. Devo preoccuparmi?»

Il bambino divenne rosso come un peperone, strillando nel contempo un ‘papà!’ imbarazzato quanto sgomento e Kim, sorridendo generosamente a Malcolm, gli confidò: «E’ tutta gelosia, la sua, Malcolm, perché io sono più amica tua che sua.»

Sollevando un sopracciglio con evidente sorpresa, Malcolm fissò la donna e replicò affascinato un attimo dopo: «Dici davvero?»

«Ovvio che sì! Scherzerai, spero! Non metterlo neppure in dubbio» ridacchiò Kim, scostandosi un po’ perché Win avesse più spazio di fronte alla webcam.

Quel che l’uomo fece subito dopo, però, la sgomentò al punto da ammutolirla. Cosa molto difficile, tra l'altro.

Con un movimento fluido quanto improvviso, lui la sollevò dalla sedia per prenderne il posto e, senza lasciarla andare, la depositò sulla sua coscia sinistra mentre un braccio le avvolse la vita per tenerla in equilibrio.

Senza fiato per la vicinanza col suo corpo – che sapeva di uomo e di ghiaccio – e strabiliata da quel gesto apparentemente spontaneo quanto inaspettato, Kim si ritrovò a fissarlo con occhi spalancati, mentre la bocca tentava di far scaturire qualche parola sensata.

Tutto inutile, ovviamente.

Lui ammiccò con tranquillità, limitandosi a dire: «E’ più pratico, stando in due davanti a una webcam e, se avessimo fatto il contrario, ti avrei spappolato una gamba.»

«V-vero» gracchiò lei, ancora parecchio confusa.

Tornando a scrutare lo schermo del PC mentre, del tutto pacifico, Winter se ne stava seduto sulla poltroncina con Kim appollaiata su una sua gamba, l’uomo chiese al figlio: «Come procedono le cose, a casa? Spry ha disintegrato qualcosa?»

Malcolm ridacchiò, scuotendo il capo e, dopo aver curiosato con lo sguardo il volto ancora parecchio sconvolto di Kim, asserì: «L’ho tenuta lontana dall’aspirapolvere. E’ venuta Summer a pulire. E’ tornata ieri sera, e stamattina è passata da casa per dare una pulitina veloce. Mi ha portato una roccia scura dall’Etna, sai?»

«E’ lava solidificata» gli spiegò Winter, annuendo. «Come sta Summ?»

«Bene, direi. Era tutta contenta perché il vulcano ha eruttato mentre era lì, così ha potuto prendere dei… campioni?… direttamente dal… come si chiama, papà?» borbottò Malcolm, facendosi pensieroso.

La fronte si aggrottò, mentre il bambino cercava di rammentare la parola che voleva esporre al padre e Winter, con un sorriso, lo aiutò dicendo: «Cosa ti ricorda la parola che vuoi dirmi?»

«Uhm… zia Summer dice che, in italiano, quel posto ricorda il nome di un animale.»

«E’ una valle?» intervenne a quel punto Kim, che nel frattempo era riuscita a regolarizzare il suo ritmo cardiaco.

«Sì, Kimmy» annuì con vigore Malcolm, sorridendole. «Tu sai cos’è?»

«Il posto? Sì, lo so.»

«Me lo dici?» la pregò Malcolm, intrecciando le mani dinanzi al viso.

Kimberly allora fissò Win in cerca di aiuto e lui, annuendo, le concesse di dargli la risposta. «E’ la Valle del Bove» mormorò a quel punto la donna, sorridendogli.

«Sì, è quella! E’ stata lì!» esclamò tutto contento Malcolm, fissandola adorante.

«Le è piaciuta, l’isola?» gli domandò a quel punto Winter.

Con rinnovato entusiasmo, Malcolm elencò al padre e a Kim tutto ciò che Summer gli aveva raccontato e, quando il monologo ebbe infine termine, lui mugugnò: «Non è giusto, però, che voi viaggiate tanto ed io no. Voglio andare da qualche parte.»

«Sbaglierò, ma giusto quest’estate siamo stati alle cascate del Niagara» gli rammentò bonariamente Win, ridacchiando affabile.

«Già, ma perché dobbiamo sempre andare dove…» iniziò col dire Malcolm prima di tapparsi la bocca, fissare spiacente Kim per un istante prima di borbottare: «… scusa, papà. Mi ero dimenticato.»

«Può capitare, non è successo nulla» si limitò a dire Winter, perfettamente tranquillo. O almeno, così voleva apparire agli occhi di Kim.

Cosa voleva nascondere? Cosa non doveva dire, Malcolm?

«Facciamo così, Mal. L’anno prossimo ti porto a New Orleans, va bene? E, se ci rimane il tempo, facciamo anche una capatina a Orlando, a Disney World,... ti può andare come programma?» mormorò comprensivo il padre, sorridendo generosamente al figlio.

«New… New Orleans? Davvero?!» esclamò eccitatissimo Malcolm, balzando dalla sedia con entusiasmo.

Annuendo, Winter si fece serio e asserì con una certa dose di solennità: «Sì, è tempo che tu la veda.»

«Grande! Wow! Evviva! Ti voglio bene, papà! Sei un mito!» strillò eccitato il bambino, saltellando per la stanza come un matto.

Vagamente sorpresa, Kim esalò: «Non pensavo che un bambino potesse impazzire così per New Orleans.»

«Adora il carnevale creolo» scrollò le spalle l’uomo, accentuando leggermente la stretta sulla vita di Kim.

Lei si vide costretta ad appoggiarsi completamente al suo torace e, nuovamente, il suo self-control subì un'ennesima battuta d’arresto. Lo faceva apposta, forse?

Riuscito in qualche modo a contenersi, Malcolm tornò a sedersi dinanzi al PC e, scrutando Kim con aria vagamente curiosa, le domandò con il tipico candore dei bambini: «Vieni anche tu, Kimmy? Ci divertiremmo tanto, insieme, sai?»

Sia Winter che Kimberly sgranarono gli occhi, sorpresi non poco da quell’uscita e, vagamente sconcertato, il padre gli disse: «Mal, forse Kimberly ha tutt’altro genere di programmi, per l’estate.»

Fissando ora vagamente accigliato il padre, Malcolm replicò scocciato: «Sei tu che dovresti essere più carino con lei, così non si imbarazzerebbe a venire con me.»

«Come?» esalò sorpreso Winter, facendo tanto d’occhi. «Che intendi dire, Malcolm?»

«L’ha detto Kimmy, prima. E’ più amica mia, che tua. Se tu fossi più gentile, diventerebbe amicona anche con te, e così potrebbe venire in vacanza con noi senza problemi. Così, almeno, zia Spry avrebbe un’altra donna con cui chiacchierare.»

La logica tutta infantile di Malcolm lasciò basiti i due adulti che, fissandosi vicendevolmente senza sapere bene cosa dire, non poterono far altro che scoppiare a ridere.

Sbuffando, Mal intrecciò le braccia sul torace e mugugnò: «Non è divertente, sapete?»

Pur trovando difficoltoso parlare a causa dei continui risolini che la interrompevano, Kim riuscì a dire: «Prometto… che… ci penserò. Grazie, Malcolm.»

«Tu impegnati a convincerla, papà» ordinò a quel punto il bambino, fissando burbero il genitore.

«D’accordo. Mi impegnerò. Ma tu pensa a fare i compiti e studiare, mentre io cerco di convincere Kimberly a seguirci a New Orleans» asserì divertito Win, avvolgendo anche il secondo braccio attorno alla vita di Kim.

Il bambino li osservò soddisfatto, annuendo più volte, poi alla fine dichiarò: «Promesso. Io penserò ai compiti, tu a Kimmy. Ora vado, però. Credo sia arrivata la mamma di Jason. Andiamo in biblioteca. Ciao!»

«A presto, mo chroi5» mormorò Winter, sorridendo amorevole.

«Ciao, Mal!» esclamò Kim, prima di veder scomparire l’immagine del bambino dallo schermo.

Un lento sospiro scivolò fuori dalla bocca di dell’uomo mentre, apparentemente esausto, si afflosciava addosso a Kim, poggiando la fronte contro la sua spalla.

Sorpresa e, sì, preoccupata, Kim mormorò turbata: «Ehi, Winter, che succede?»

Le braccia dell’uomo la strinsero con forza, ma Kim comprese subito che l’amico non aveva secondi fini.

Sembrava … terrorizzato.

Come se lei fosse la sua unica àncora di salvezza di fronte ad un baratro senza fine, che pareva attenderlo con bramosia.

Pur sapendo quanto il suo gesto avrebbe potuto essere mal interpretato, Kimberly si scostò da lui per averlo innanzi.

Senza pensare a null’altro se non al terrore che i suoi occhi stavano registrando in quelli di Winter, gli montò a cavalcioni sulle gambe e lo strinse a sé con forza.

Win allora si aggrappò a lei con un singhiozzo sconvolto e, scosso da brividi violenti, tenne gli occhi serrati per tutto il tempo mentre, a spizzichi e bocconi, parole convulse sgusciarono fuori dalla sua bocca, riempiendo di mestizia Kim.

Carezzando quel capo bruno e dai folti capelli neri che, poggiato contro la sua spalla, pareva non voler smettere di tremare, Kim mormorò dolci parole per calmarlo. Dentro di sé, però, il cuore sembrò andarle in pezzi per il dolore che avvertì provenire dal corpo massiccio di Winter.

Cosa lo aveva sconvolto tanto, in quella video chiamata? Cosa?!

«Parlami, Win… parlami… mi stai spaventando» sussurrò contro il suo orecchio Kim, stringendoselo maggiormente al petto.

Le mani dell’uomo risalirono lungo la sua schiena lasciando scie di fuoco che lei fece fatica a sopportare – e controllare – e, come gabbie, si strinsero all’altezza delle sue spalle per spingerla verso di lui in un abbraccio ancor più convulso.

Qualcosa dentro di lui sembrava essere andato in pezzi, ma Kim stentava a comprendere cosa fosse.

Era evidente, però, che l’amico necessitasse del suo aiuto, o non si sarebbe addossato così fortemente a lei. L’avrebbe cacciata, se avesse sentito il bisogno di rimanere solo con la sua angoscia.

Passarono un tempo indefinito in quella posizione, stretti l’uno all’altra come solo da bambini avevano avuto il coraggio di fare.

Quando finalmente l’equilibrio mentale di Winter sembrò essere venuto a patti con la realtà, l’uomo si scostò lentamente da Kim per fissarla spiacente negli occhi.

«Ehi…» sussurrò lei, le mani che ancora gli stavano carezzando il viso e i capelli.

Un mezzo sorriso si dipinse sul viso di Kim che, pur imbarazzata da quella situazione decisamente compromettente, riuscì a dire: «Va meglio?»

«Non… non gli è mai… piaciuta nessuna» balbettò confusamente lui, stupendo non poco Kimmy.

«Come? Che vuoi dire?» esalò la donna, del tutto disorientata dalla sua uscita.

Le mani ora poggiate sulla vita di Kim, Winter asserì a capo chino, la voce ridotta ad un sussurro: «Dopo… dopo un anno dalla morte di Erin, una… una mia collega cercò di … beh…»

«Tentò un approccio con te?» gli venne incontro Kim, sorridendogli comprensiva.

Lui annuì, tornando a scrutarla in viso e, roco, aggiunse: «Pensavo che dare una mamma a Mal fosse una buona idea e, visto che con Patricia andavo abbastanza d’accordo… beh, la feci avvicinare. Ma Malcolm non gradì affatto. Non gli piacque per nulla. Così decisi di non permettere più a nessuna donna di metterlo in ansia, o rattristarlo.»

«Hai fatto bene. Mal deve avere sofferto molto per la morte di Erin, ... come te, del resto» assentì l’amica, arrischiandosi a carezzargli di nuovo i capelli.

«E’ per questo che… che Rowena ha sprizzato gioia da tutti i pori, quando l’ho chiamata per nome. Io non chiamo mai per nome nessuna mia collaboratrice. Non voglio si creino… legami speciali. O che loro si facciano strane idee» le spiegò a fatica Winter, sorridendo mestamente.

«Hanno provato in tante, eh?» ironizzò bonariamente lei, ammiccando.

«Già» assentì lui, con un risolino contrito. «Come hai detto, tu? Bello e impossibile?»

«Esatto» annuì Kim, scostandosi un po’ per alzarsi in piedi.

Winter la trattenne, domandandole: «Puoi… puoi rimanere un altro po’?»

«Certo» sussurrò lei, annuendo.

Tenendola stretta e parlando a bassa voce, Winter proseguì nel suo racconto. «Tutte le volte che lo portavo al NOAA e qualche donna tentava di avvicinarlo per fargli dei complimenti, o anche solo chiacchierare un po’ con lui, Malcolm si ritraeva sempre.»

«Si vede che aveva il radar contro le pollastre accalappia-vedovi» ridacchiò Kim, il capo poggiato contro la spalla di Winter.

Chiusi gli occhi, la donna ascoltò assorta il battito regolare del cuore dell’amico e, lentamente, anche il suo imbarazzo andò scemando.

Non c’era sensualità alcuna, in quell’abbraccio, solo una richiesta d’aiuto. E lei gliel’avrebbe dato, fino in fondo all’anima.

Winter, a quella battuta, ridacchiò seccamente e assentì dicendo: «Sì, hai perfettamente ragione. Per questo, quando Malcolm ti ha parlato a quel modo, sono rimasto sconcertato. E sono crollato. Scusa.»

«E di che vuoi scusarti? Io non voglio accalappiarti all’amo, e Malcolm lo ha capito» sogghignò Kim. Vorrei ben altro da te, Winter!, pensò poi tra sé.

«E’ stato… un sollievo, tutto qui. Anche per questo non sapevo come comportarmi, con te. Non farei mai nulla per ferire mio figlio, ma visto che tu gli piaci…»

«Puoi rilassarti come hai fatto prima, quando stavamo parlando con lui?» ipotizzò Kim, tornando a riaprire gli occhi per scrutarlo in viso.

«Esatto. E posso anche fare un’altra cosa, ora» ammise lui, sorridendole speranzoso.

Facendosi subito tutt’orecchi, Kim esalò vagamente sconvolta: «Che cosa?!»

Winter scoppiò a ridere di gusto di fronte alla sua palese ansia e, dandole un pizzicotto sul naso con fare amichevole, lui si limitò a dire: «Posso dirti che mi sei mancata, Kimmy.»

«Oh, ecco…» esalò lei, sollevata.

Kimmy. L’aveva chiamata Kimmy. Beh, ora le calotte dell’artico potevano anche divorarla, tanto era felice. Sarebbe morta con il sorriso sulle labbra.

«Kimmy…» mormorò lui, quasi saggiando sulla lingua quel suono per Winter così nuovo e antico al tempo stesso.

«Sì?»

«Eri qui per un motivo?» gli domandò a quel punto lui, sollevandosi e trattenendola facilmente per la vita, così che la donna potesse poggiare i piedi a terra senza rischiare di cadere e, al tempo stesso, restasse accanto a lui per qualche altro attimo.

Scoppiando a ridere di gusto per quel cambio improvviso di argomento, Kim riuscì anche a scostarsi dal corpo massiccio di Winter senza rischiare svenimenti e, afferrata la carpetta che lei aveva poggiato sulla scrivania, dichiarò: «Ero venuta a portarti i risultati delle analisi.»

«Perfetto» sorrise lui, scrutandola in viso senza badare minimamente alla carpetta che lei gli stava porgendo.

«Win…» lo richiamò lei, ghignando vagamente confusa.

Lui ridacchiò con aria birichina, le strappò di mano la carpetta per lanciarla sulla sedia dopodiché, sorprendendo non poco Kim – che strillò spaventata – la afferrò alla vita e se la caricò su una spalla, esclamando: «Dobbiamo fare la foto alle nuvole che assomigliano a more gigantesche! L’hai promesso a Mal, ricordi?»

Non sapendo bene se scoppiare a ridere o prenderlo a pugni sulla schiena, Kim si lasciò trascinare in giro per la base come un sacco di patate e, brontolando, replicò piccata: «Guarda che ho ancora le gambe, Win! So camminare!»

«Eppure, ricordo che ti piaceva essere portata a cavalluccio in giro per il giardino!» rise l’uomo, afferrando la sua fotocamera digitale per poi avviarsi verso la porta d’uscita della base.

«Non ho più otto anni e…» iniziò col dire lei prima di bloccarsi terrorizzata non appena lo vide mettere mano alla porta. «Ehi, là fuori si gela! Io non ho intenzione di congelarmi solo per fare una foto! Fammi almeno prendere una giacca!»

«Ci vorrà un momento, fifona» sogghignò lui, aprendo il battente di metallo.

Una sferzata di vento polare li investì in pieno e Winter, bloccandosi a metà di un passo, mugugnò: «Uhm, c’è il vento. Non va bene.»

«Ovvio che non va bene! Si congela, qui fuori! Riportami dentro!» strillò contrariata Kim, afferrando il maglione di Winter per strattonarlo con forza.

Incurante dei suoi miseri tentativi di ricondurlo a più miti consigli, lui sollevò la fotocamera, fece un paio di foto alle nubi purulente e rientrò subito dopo, rimettendo a terra una furiosa quanto infreddolita Kim.

«Ma che ti è saltato in mente?!» ringhiò lei, dandogli dei pugni sul torace senza peraltro dar segno di averlo minimamente tramortito Pareva inamovibile come una statua di ghiaccio.

Winter levò un sopracciglio con ironia nell’osservarla dall’alto al basso e, scrollando appena le spalle, chiosò: «Promessa tua, non mia.»

«Ribadisco, potevo fare le foto dopo essermi messa la giacca a vento» sbuffò Kim, rabbrividendo visibilmente. «Quasi quasi, rimpiango Iceman Hamilton. Non ricordavo fossi così pestifero, da piccolo.»

«Lo ero eccome» mormorò lui, aggiungendo subito dopo: «Vieni, ti preparo del caffè bollente, così ti riscalderai.»

«Ti ci vorrà ben più di un caffè per farti perdonare per questo scherzo di pessimo gusto» borbottò lei, pur seguendolo verso il cucinotto.

Senza voltarsi, lui le disse: «Ho tutto il tempo del mondo per farmi perdonare da te, Kimmy. Almeno stavolta, mi è andata bene.»

Confusa, Kim si chiese chi non avesse avuto il tempo di perdonarlo, o da chi Winter si fosse aspettato un perdono mai giunto.

Cosa aveva voluto dire, con quelle parole?

 
 
 
 
 
____________________________
1 A stórin (gaelico irlandese): mia cara.
2 Áthas ar mo chroí go deo (gaelico irlandese): Felicità sul mio cuore per sempre.
Citazione dal brano “Deora Ar Mo Choí” , tratta dall’album di Enya.
3 Móraim thú, ó lá go lá, móraim thú, ó oíche go hoíche (gaelico irlandese): Io ti glorifico giorno per giorno, Io ti glorifico notte dopo notte. Citazione dal brano “Athair Ar Neamh” , tratta dall’album “Memory of Trees” di Enya.
4 Lorazepam: forte ansiolitico, usato in particolare per curare ansia e insonnia.
5 Mo chroi (gaelico irlandese): mio cuore.  Sinonimo di mo chuisle.

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Capitolo 7
*** VI ***


Capitolo 6
 
 
 
 
D’accordo, Winter sembrava essere tornato in parte il suo amico d’infanzia, ma era ancora uno stacanovista di proporzioni ciclopiche, e cercare di tenergli testa era praticamente impossibile.

Naturalmente, il fatto che si fosse lasciato andare con Kim non voleva necessariamente dire che l’avrebbe fatto anche con gli altri membri del gruppo.

Quando Malick, Rowena e Tim tornarono dal loro turno alla trivella, infatti, Winter si comportò come al solito, forse in maniera un po’ meno formale, ma di certo non si  aprì in grasse risate, o se ne uscì con battute sguaiate.

Kim lo trovò un po’ assurdo, ma ormai aveva compreso che Win aveva un autocontrollo davvero formidabile e, per qualche motivo a lei ancora oscuro, non intendeva concedersi più svaghi di quanti non ritenesse strettamente necessari.

Forse, un giorno, Winter gliene avrebbe parlato, ora che aveva scoperto di poterlo fare senza incorrere nel biasimo del figlio.

Per il momento, però, i motivi del suo stretto riserbo con tutti – maschi compresi – sarebbero rimasti un segreto.

Era come se si impedisse di gioire della vita stessa, o che ne prendesse a spizzichi e bocconi, quasi fosse un sacrilegio approfittare della sua buona salute e della vita relativamente tranquilla che stava vivendo.

Quel pensiero, continuo e senza freni, si arrovellò nel cervello di Kim per diversi giorni finché una mattina, già pronta a scendere in campo per il suo turno alla trivella in compagnia di Winter, scorse ciò che secondo lei era la verità.

Indossata la pesante tuta imbottita color giallo paglia della North Face, il passamontagna, gli occhiali, i guanti termici e gli scarponi, uscì per raggiungere la motoslitta che avrebbe diviso con Winter.

E, per tutto il tempo, rimuginò sulla sua scoperta stupefacente quanto mostruosa.

Non poteva essere come lei pensava! Eppure, tutto lo faceva supporre.

Levando il capo a scrutare Win che, armato di zaino, stava uscendo dal campo base per raggiungerla, Kim pregò silenziosamente che i motivi del condizionamento forzato dell’amico non fossero quelli che lei aveva immaginato.

Elegante nel portamento come se avesse indossato un gessato di Armani, mentre invece era abbigliato con una pesante quanto goffa tenuta da neve, l’amico la salutò con un sorriso prima di allacciare lo zaino alla motoslitta.

Dopo averlo assicurato per bene coi ganci in metallo, salì a bordo e le chiese: «Non sali, Kimmy?»

«Oh, ma certo. Chi se lo vuole perdere un giro in motoslitta a meno cinquanta gradi Fahrenheit! Non vedevo l’ora!»

Sollevando il cappuccio della sua giacca termica, fece una smorfia e la linguaccia a nessuno in particolare.

Winter rise spensierato e, avviata la motoslitta, replicò: «Non avresti dovuto prendere la specializzazione il paleoclimatologia.»

«Mi piace il ghiaccio, ma qui fa veramente un freddo del diavolo!» protestò amabilmente Kim, allacciando le mani ai fianchi dell’uomo.

Aumentando la velocità di crociera e procedendo spedito quanto sicuro lungo la calotta polare, Win lanciò un’occhiata meditabonda alle nubi – da cui pallidi fiocchi di neve stavano scendendo placidamente – e borbottò: «Entro sera ci ritroveremo nel bel mezzo di una tempesta davvero notevole.»

Kim annuì, sbuffando contrariata.

«Se non sapessi che è impossibile, direi che ce l’ha con noi.»

«Non è detto che non sia così» mugugnò infastidito Winter, lasciando che i suoi pensieri corressero per un momento al gemello Autumn.

Sperava davvero che non arrivasse a tanto, ma ormai da tempo non comprendeva più il peregrinare dei suoi pensieri erratici quanto folli. Autumn, per lui, era un autentico mistero.

«Come dici?» domandò curiosa Kim, avvicinandosi a lui col viso.

«Nulla. Pensavo che qualcuno ci stesse gufando contro» si limitò a dire Win, scoccandole un sorriso rassicurante dallo specchietto retrovisore.

In realtà, non si sentiva molto al sicuro all’idea di essere fuori con l’intensificarsi di una tempesta di quel calibro, ma dovevano ultimare i carotaggi a nord-est dell’isola, prima di spostarsi nella parte più occidentale e puntare verso i confini della Russia.

Il programma prevedeva quello e lui ci si sarebbe attenuto, anche a costo di tornare indietro gatton gattoni.

E, di certo, non avrebbe mai telefonato ad Autumn per sapere se, dietro quella tempesta mostruosa, ci fosse per caso il suo zampino.

Non era stato lui ad iniziare il litigio che aveva portato all’allontanamento del gemello e, di certo, lui non avrebbe mai preso l’iniziativa di cercarlo.

Se il Guardiano dell’Aria ce l’aveva con lui per qualche motivo, avrebbe dovuto spiegarglielo, e con dovizia di particolari.

Perché non si sarebbe accontentato di niente di meno, dopo essere stato accusato di essere un approfittatore e un maledetto str…

«Win» lo richiamò Kimmy, interrompendo di colpo il flusso dei suoi pensieri.

«Sì, Kimmy.»

Rallentando l’andatura quando si approssimarono alla trivella ed al minuscolo magazzino di stoccaggio delle carote di ghiaccio, Winter spense il motore e si volse verso l’amica con un punto di domanda dipinto in faccia.

Kim, sogghignando, mormorò: «Dovresti vederti adesso.»

«So di avere un’aria piuttosto confusa, ma quando mi chiami con quel tono, mi preoccupo» ammise Win, smontando dalla motoslitta prima di poggiarsi contro il manubrio e fissarla in attesa di spiegazioni.

Kim si morse un labbro sotto il tessuto pesante del passamontagna e, pensierosa, gli chiese: «Senti, so che non sono affari miei ma… da amica posso chiedertelo, no?»

Winter sollevò una mano per incitarla a proseguire e lei non si fece pregare.

«Non è che ti vieti di vivere come tutti gli altri perché Erin non può più farlo, vero?»

L’uomo si accigliò, irrigidendosi immediatamente e Kim, notandolo, sospirò e scosse il capo.

«Win, è del tutto assurdo che tu pensi che, così facendo, Erin possa essere felice. Io sono più che sicura che lei ti darebbe una botta in testa per farti rinsavire, se lo sapesse.»

«Non sei l’unica a pensarlo» mormorò Winter, levando lo sguardo verso il cielo. I fiocchi di neve erano calati di intensità, ma non era ancora smesso di nevicare.
Vagamente sorpresa da quell’uscita, Kim gli domandò: «E’ stata Spry a dirti la stessa cosa?»

«Spry, Summer, zia Brigidh, mia suocera LeeAnne… Erin…» elencò sommessamente lui, sorridendo con aria triste.

«Erin?» esalò turbata Kim, non comprendendo appieno il perché di quel nome in particolare.

L’uomo scrollò una spalla, come se quell’accenno alla moglie defunta fosse poco importante, e si spiegò meglio.

«Prima di morire mi disse di ricrearmi una vita, di non isolarmi dal mondo, ma io le replicai che non sarebbe stato giusto. Così mi diede dello stupido e cocciuto irlandese.»

Kim si ritrovò a sorridere sotto il passamontagna e, annuendo, dichiarò con convinzione: «Mi trovo perfettamente d’accordo con lei. Sono sicura che saremmo diventate amiche, io e lei.»

«Forse. Anzi, probabile» mormorò Winter, sorprendendola.

«Che intendi dire?» si incuriosì immediatamente Kim.

Winter non le rispose, limitandosi ad afferrare una sua mano per poi trascinare l’amica in direzione della trivella.

«Fai il tuo lavoro, Kimmy, e non cercare di psicanalizzarmi, oppure potrei tornare ad essere Iceman in un batter d’occhio.»

«Non è giusto che tu mi minacci a questo modo» brontolò Kim, preferendo lasciar perdere, per il momento, l’argomento ‘Erin’.

«So benissimo che preferisci il vecchio Win, perciò sfrutterò questo mio vantaggio finché potrò» ridacchiò lui, dandole una pacca sulla spalla.

«Ovvio che io lo preferisca. Iceman è insopportabilmente snob.»

E nel dirlo, abbassò il passamontagna e gli fece la lingua.

Lui rise ancor più forte e, minaccioso, le disse: «Ti converrà rimetterla dentro, quella lingua, se non vuoi che ti si congeli.»

«Antipatico» sbuffò Kim, pur sorridendo.

Sì, lei preferiva di gran lunga il Win che le faceva i dispetti e le dava i buffetti sulle guance o sul naso, rispetto all’uomo distinto e freddo che aveva conosciuto al NOAA.

Certo, anche l’uomo adulto dall’aria severa aveva il suo fascino, come negarlo, ma lo amava di gran lunga di più sorridente e spensierato che mogio e musone.

Amava. Già.

Era inutile che cercasse di trovare mille e mille scuse, tanto la sostanza non cambiava.

Era sempre stata infatuata di Winter Hamilton, e ritrovarlo adulto e completamente cambiato non aveva certo aiutato questa infatuazione a scemare. Tutt’altro.

Ora, il suo interesse per lui, così delicato quando era stato una bambina, era divenuto forte e caparbio, e lei era determinata a voler curare le ferite del suo cuore con il suo amore e la sua amicizia.

Il punto era un altro. Winter glielo avrebbe permesso e, soprattutto, avrebbe capito che lei lo amava? Lo avrebbe accettato senza dare in escandescenze?

Davvero non lo sapeva.

A complicare il tutto, poi, il senso di colpa di Win nei confronti della moglie morta non la aiutava di certo a portare a termine la sua missione di farlo tornare il suo vecchio amico, tutto sorrisi e gentilezze.

Era totalmente d’accordo con Erin nel pensare che Winter si stesse colpevolizzando per nulla, ma come farglielo capire?

≈≈≈
 
Usare la trivella per quattro ore consecutive era stancante, ma ogni qualvolta riusciva nell'impresa di estrarne una, perfetta e trasparente, il cuore le faceva un balzo nel petto.

Faceva freddo, avrebbe voluto immergersi in una vasca di acqua bollente per ore e crogiolarsi  in un mare di bollicine profumate, ma non importava.

Il suo lavoro le piaceva un sacco, anche se era scomodo e privo di comodità.

Sfilato il cilindro metallico dalla trivella, dove l'ennesima carota di ghiaccio si trovava perfetta e al sicuro, Kim si addentrò all'interno del magazzino contenente gli altri esemplari estrapolati quel giorno.

Ammiccando a Win, dichiarò: «Cambio! Tocca a me stare al computer!»

«Prego. Mi stavo annoiando, in effetti.»

Lui si scostò immediatamente dalla consolle, permettendole di passare più agevolmente.

«Sembra quasi che stare al freddo ti piaccia» mugugnò lei, sistemando l'ultima carota su uno scaffale di metallo.

«Non ci faccio molto caso» scrollò le spalle Winter.

«Senti, Win...» iniziò Kim, mordendosi dubbiosa il labbro inferiore. «... per prima...»

«Non fa nulla, Kimmy. So che l'hai detto per il mio bene, ma per il momento preferisco vivere così, d'accordo? Col tempo, forse, cambieranno le cose, ma ora...» sentenziò senza mezzi termini Winter, poggiando una mano sulla spalla dell'amica.

La donna annuì, scuotendo il capo perché lui non dicesse altro e l’amico, con un lieve sospiro, si infilò la giacca a vento e uscì, chiudendosi lentamente la porticina alle spalle.

Il piccolo magazzino rettangolare era pregno del suo profumo virile e Kim, per un momento, fu tentata di aprire la porta per cancellarne anche la minima traccia.

Dandosi subito dopo della stupida, però, si accomodò sul piccolo sgabello di fronte al computer e iniziò a scandagliare i dintorni con il GPS satellitare per individuare un nuovo punto in cui trivellare.

In quel momento non doveva pensare al suo cuore o a quello di Winter, quanto piuttosto al suo lavoro.

Non voleva che, sulla sua scheda personale, saltasse fuori che non aveva compiuto il suo lavoro con efficienza e, per evitarlo, doveva concentrarsi.

Se Win voleva condurre a quel modo la sua esistenza, lei non poteva certo impedirglielo.

Donne ben più importanti di lei, nella sua vita, gli avevano consigliato per il contrario, perciò chi pensava di essere per aver più voce in capitolo di loro?

Limitarsi a tacere e prendere le cose come andavano, no, vero?

Doveva comportarsi come la solita, vecchia testarda di sempre, con lui!

«E' proprio vero che certe cose non cambiano mai. Ma quando imparerò?» sbuffò tra sé Kim, continuando a scrutare lo schermo del computer con aria accigliata.

Non meno accigliato di lei, all'esterno, Winter stava traforando lo strato di ghiaccio sotto i suoi piedi con la mente persa in tutt'altra direzione e, disgustato da se stesso, si diede per la millesima volta dello stupido per aver parlato a quel modo con Kimmy.

Era mai possibile che non riuscisse a usare un po' di educazione, con lei?

“Winter...”

L'uomo si irrigidì immediatamente nell'udire il suo nome portato da una bruma ghiacciata improvvisa quanto leggera e, guardandosi intorno con aria stranita, esalò: «Erin?»

“Ancora con questa vecchia storia, Winter? Non hai davvero imparato nulla, in quattro anni?”

Il tono di voce della donna, niente più di un sussurro nel vento gelido, appariva ironico e carico di mestizia al tempo stesso.

Guardandosi intorno alla ricerca di una figura cui rivolgere lo sguardo, Winter nulla trovò se non cristalli di ghiaccio sospesi nell'aria mossa da lieve brezza e, con voce chiaramente più sicura di sé, lui replicò: «Non so a cosa ti riferisci, a stórin

Una risatina leggiadra galleggiò nella bruma ghiacciata mentre una voce velata di ironia gli ribatté: “Non sapevo dicessi le bugie, Winter.

Sbuffando contrariato, Win si limitò a dire: «Se la pensi così, non ho altro da dirti.»

Lo spirito di Erin rise ancora mentre sottili cristalli di ghiaccio carezzarono la pelle del viso dell’uomo, portandolo a ringhiare infastidito.

«E smettila! Lo sai che mi fai il solletico!» protestò lui, abbozzando un sorrisino.

“Perché devi allontanare le persone che vogliono solo il tuo bene, Win?”

«Non ti sto allontanando» precisò Winter, scrollando le spalle.

Il lieve vibrare della trivella gli faceva formicolare le braccia, ma era nulla in confronto allo sfrigolio che riverberò in tutto il suo corpo quando la bruma ghiacciata lo circondò, scrollandolo in malo modo.

Erin sapeva essere pestifera, quando voleva.

«Erin... smettila. Posso scacciarti quando voglio, lo sai. Sei un mio elemento, perciò...» la minacciò bonariamente lui, pur non pensandolo realmente.

“E io ti ringrazio, Guardiano dell'Acqua, per avermi concesso di rimanere in questa forma e avermi permesso di vedere mio figlio crescere, ma questo non mi esenta dal dirti quando sbagli. E, con Kimmy, stai sbagliando!”

Winter sospirò, mollò la presa dalla trivella e, poggiate le mani sui fianchi, brontolò rivolto a nessuno in particolare.

«E' mai possibile che voi donne non abbiate nient'altro da fare se non ficcare il naso nel mio animo? Vi divertite tanto? O vi coalizzate tutte prima di nascere, per infastidire gli uomini?»

“E' solo che ti brucia ammettere che noi tutte abbiamo ragione. Kimmy ti vuole...”

Interrompendola immediatamente, Win ringhiò: «So che vuole aiutarmi, Erin, ma non voglio essere aiutato! E' chiaro?!»

“Sei sempre stato testardo, Winter, ma questa tua folle idea di sacrificare la tua vita perché io non ho più la mia è la cosa più stupida, inutile e assurda che io ti abbia mai visto fare!” protestò rabbiosamente Erin.

La bruma iniziò a vibrare e i cristalli di ghiaccio rotearono su loro stessi come se volessero tagliarlo a pezzettini, creando e disfacendo la creatura di donna che gli stava innanzi.

Winter, a quel punto, aggrottò la fronte e, con il solo movimento della mano, spazzò via i cristalli e la nebbiolina gelata, che cadde a terra in una soffice nevicata.

“Ne riparleremo... questo è certo.”

«Ne sono più che sicuro, riccioli d'oro» ridacchiò Win, ammiccando al vento gelido che gli sferzava il viso.

Con voce sempre più debole e sussurrata, Erin aggiunse: “Eri il mio migliore amico per un motivo... sapevi sempre come farmi ridere, anche quando ero arrabbiata con te.”

«Avrei voluto darti molto più di un sorriso» sospirò allora Winter, sollevando una mano perché alcuni cristalli di neve si levassero a formare un lieve strato di nebbia ghiacciata.

“Nessuno di noi due ha colpa per ciò che è successo, Win. Siamo stati bene, assieme, e abbiamo avuto Mal. Direi che non è andata male, no?”

«Avresti meritato molto di più.»

“E tu no? Il cavaliere con l'armatura scintillante può vivere in sofferenza, mentre la principessa da salvare, no? Hai un'idea piuttosto romantica e tragica di quel che è successo!”

Erin lo stava nuovamente prendendo in giro.

«Avrei dovuto impormi, non accettare passivamente gli ordini che mi furono dati» sbuffò disgustato Winter, rimettendosi a lavorare alla trivella.

“Anch'io avrei potuto puntare i piedi, Win. Siamo nel ventunesimo secolo, e le donne hanno voce in capitolo esattamente come gli uomini ma, come te, ho eseguito passivamente gli ordini del Consiglio. E sai perché?”

«Perché siamo due idioti?» ironizzò Winter, ghignando amaramente.

Erin ridacchiò allegra.

“Perché avevamo a cuore il bene superiore della stirpe più di noi stessi. Malcolm doveva nascere, e noi eravamo i Prescelti. Tutto qui.”

«E ti sembra una motivazione giusta per far sposare due persone?» sbottò Winter, infastidito dalla logica contenuta nelle parole di Erin.

“Se fossimo appartenuti a due famiglie diverse, piuttosto mi sarei fatta fuori da sola, ma visto che così non è... ho accettato il mio destino come l'hai fatto tu. Io sono nata per servire gli antichi dèi, e tu sei un loro discendente diretto. Non poteva che andare così. Il Guardiano...”

Bloccandola nuovamente, Winter esalò: «Erin, ma ti rendi conto che tutto questo non ha minimamente a che fare con la tua felicità?»

“Ma io sono stata felice di avere Malcolm.”

«A volte, parlare con te è come avere a che fare con un muro di cemento armato.» Scosse il capo, ma sorrise bonariamente.

“Mai detto di non essere testarda. Quel che voglio dire, Win, è che la nostra vita assieme, per quanto breve, è stata bella. Io mi sono sentita protetta, amata e...”

«Ma per piacere! Non mentire tu, adesso!» ringhiò l’uomo, irritandosi immediatamente.

“Sai benissimo cosa intendo, Winter Hamilton... o vuoi che ti chiami...”

«Erin! Sai che non puoi dire quel nome se non a Yule!» esalò preoccupato lui, bloccandola sul nascere. «Non scatenare forze che non potrei controllare al di fuori di un Cerchio di Potere!»

“Perdonami...” mormorò contrita Erin, calmandosi subito. “... non dovevo arrabbiarmi. Ma mi spiace sentirti dire che non sei stato un bravo marito.”

«Non voglio sminuire ciò che hai provato in quegli anni, Erin, ma so di non essere stato l'uomo che tu desideravi, tutto qui» sospirò Winter, reclinando mesto il capo.

“Sei stato un marito buono e generoso, che mi ha donato l'amore che poteva darmi. Quante donne possono dire altrettanto?”

«Non avresti preferito un uomo da amare veramente e pienamente?» le replicò senza animosità alcuna.

“E tu? Non avresti voluto la donna da te amata veramente?” ribatté lei.

«Non ti è dispiaciuto abbandonare chi amavi?»

Winter non seppe se ridere o piangere, di quello strano battibecco tra sé e la fata della bruma che, un tempo, era stata sua moglie e la sua migliore amica.

“Se vuoi continuiamo fino a domattina con il botta e risposta, Win, ma la situazione non cambierà. Il tuo cuore non mi apparteneva, e io lo sapevo benissimo, così come tu sapevi che il mio cuore non ti apparteneva. Ugualmente, mi hai resa felice come, spero, io ho reso felice te.”

«Cosa vai a pensare, Erin? Certo che mi hai reso felice!»

Winter cominciò ad alterarsi.

“Bene, allora parti da qui e vai avanti. Io ho avuto una vita piena di bellezza e amore. Non voglio che per te non sia così.”

«Avrei voluto darti tutto l'amore che meritavi.»

“Mi hai dato quello che ti sentivi, ed è più che sufficiente. Anch'io ti ho dato tutto l'amore che ho trovato in me da donare a te, anche se sapevo benissimo che, fino alla fine dei tempi, noi due saremmo rimasti sempre e solo buoni amici e nulla di più.”

«E' per questo che mi sento in colpa.»

“La vera colpa sarebbe continuare a fingere di vivere. Prima o poi Mal se ne accorgerà, e sarà triste per te. Inoltre, una volta risvegliato il suo potere, non potrai più tenerlo lontano dal tuo Io più nascosto, lo sai. Tenerlo a distanza da New Orleans è stato un bene. E’ ancora troppo piccolo per ricevere il suo Lascito, ma quando metterà piede lì, non potrai più celargli le tue bugie. Quindi vivi, Winter, vivi!”

Sospirando, Winter annuì lentamente. «Ci penserò, va bene?»

“E' già un passo avanti” assentì Erin. “Domani sarà Yule. Hai già pensato a che regalo fare a Kimmy?”

«Sì» mormorò lui con un sorriso.

“Bene... se avrai bisogno di me per crearlo, sai dove trovarmi” ridacchiò Erin, svanendo in un turbinio di cristalli di ghiaccio.

Rimasto solo con la trivella e il freddo polare di quei luoghi, Winter non poté esimersi dal sorridere e, tra sé, mormorò: «Vivere, eh?»

≈≈≈
 
La tempesta stava prendendo forma con sempre maggiore virulenza, e il vento che spazzava la piana di fronte al campo base era così forte da sollevare la neve e farla vorticare con violenza.

Sistemando a fatica la motoslitta nel ricovero adibito a garage, Winter imprecò all'indirizzo del cielo plumbeo mentre Kim, raccolte le carote di ghiaccio, si diresse a tentoni verso la porta del rifugio.

Quando finalmente riuscì ad afferrare la maniglia, venne sbalzata di lato non appena il vento fece vela contro la porta di metallo.

Con uno strillo ben poco elegante, si lasciò trascinare contro la parete del rifugio, mentre le carote di ghiaccio volavano a terra rovinosamente.

Già pronta all’impatto contro la parete metallica, Kimmy si ritrovò avvolta dal calore prepotente di Winter che, giunto per salvarla da un brutto atterraggio contro il duro metallo, la strinse a sé con forza.

«Tutto bene?!»

Annuendo mentre il vento le sferzava il viso, lei replicò a gran voce: «Non mi aspettavo una forza simile! Grazie!»

«Vai dentro! Io recupero le carote!» le ordinò, posizionandola a forza dinanzi all'entrata prima di volgersi in direzione della spianata dinanzi al campo base per recuperare i cilindri  metallici.

Kim eseguì quanto dettole ma, testardamente, rimase sull'entrata per essere certa che Winter non corresse pericoli di alcun genere.

Non appena l'uomo ebbe recuperato tutte le carote, indicò a Kim di entrare e, seguendola subito dopo, si chiuse la porta alle spalle prima di sbarrarla. Subito dopo le domandò con ironia: «Avevi  paura che il vento mi portasse via?»

«Volevo essere sicura, tutto qui» mugugnò lei, togliendosi in fretta la giacca a vento per appenderla ai ganci dello sgabuzzino.

«Grazie per l'interessamento. Ma non correvo un reale rischio» replicò Win, imitandola.

«Ovvio! Peserai il doppio di me!» sbottò la donna, fissandolo dall'alto al basso con espressione accigliata.

«Tu quanto pesi?»

Arrossendo suo malgrado, Kim biascicò: «Non si chiede il peso a una donna!»

Scrollando le spalle, del tutto incurante della sua irritazione, Winter allora dichiarò: «Beh, io peso novantotto chili per un metro e ottantanove di altezza. Fai i tuoi debiti calcoli, Kimmy.»

«Ah... no. Non pesi il doppio, okay.» Kim sgranò gli occhi, tornò a squadrarlo e mugugnò: «Non pensavo fossi così alto. E sì che si vede...»

Winter allora le diede una pacchetta sulla testa, dove i capelli apparivano aggrovigliati come un cespuglio di rovi e, ammiccando al suo indirizzo, lui ghignò: «Sei sempre stata tappa.»

Kim si accigliò immediatamente ma, nel notare lo scintillio allegro nei suoi occhi, preferì lasciar correre.

«Farei vomitare, se fossi alta come te.»

«Non direi... ma io mi sentirei parecchio in soggezione, di fronte a una Kimmy così gigantesca!» ridacchiò lui.

«Ti fa male startene solo alla trivella. Ti rimbecillisce» lo stuzzicò allora Kim, avviandosi lungo il corridoio per raggiungere la zona notte del campo base.

Lui la seguì per diretta conseguenza e, facendo spallucce, dichiarò: «Stando soli si possono fare lunghissime chiacchierate con se stessi.»

«Fanne meno, allora, se il risultato sono più bisticci per me» replicò la donna, voltandosi a mezzo per fargli la lingua.

«C'è chi potrebbe risentirsi, se io non mi ponessi delle domande» ci tenne a precisare Winter, raggiungendo la stanza che divideva con Malick e Timothy.

«Beh, di' al tuo Ego che, se anche non vi parlate tutti i giorni, il mondo non casca mica» ridacchiò a quel punto Kim. «Ma mi fa piacere vederti sorridere. Temevo di averti offeso, stamattina.»

«Io temevo il contrario» asserì lui, ora più serio in viso.

«Beh, pare non ci siamo offesi a vicenda, quindi direi che è andata bene. Ma ora ho fame, sono infreddolita e voglio mettermi qualcosa di caldo. A dopo» decretò Kim, aprendo la porta seguente e infilandosi dentro la stanza per cambiarsi.

«Già, pare sia andata bene» ammise Winter, entrando a sua volta nella propria stanza.

 
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N.d.A.: Direi che si inizia a capire che c'è qualcosa che non quadra, nel rapporto tra Erin e Winter... :)

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Capitolo 8
*** VII ***


Capitolo 7
 
 
 
 
 
 
«Non. Ci. Posso. Credere.»

Mugugnando nel riemergere dal mondo dei sogni – ricordava di essersi trovata immersa nell'acqua, sentendosi stranamente al sicuro – nell'udire la voce eccitata e sorpresa di Rowena, Kim sbatté le palpebre sugli occhi sonnacchiosi.

«Cosa... non puoi credere?»

«Vieni, vieni, vieni! E' incredibile!» strillò la donna, muovendo una mano nella sua direzione in maniera irrefrenabile.

Erano sbarcati gli alieni? O fuori c’era per caso Hugh Jackman a torso nudo?

Sempre più confusa, Kim afferrò la sua vestaglia di ciniglia e vi si avvolse per affrontare la frescura della stanza.

A fatica, quindi, si levò da letto e la raggiunse alla piccola finestrella da cui la collega stava scrutando il ghiaccio che li circondava.

Sembrando in tutto e per tutto una groupie invasata.

«Che c'è? Lo Stretto si sta aprendo sotto i nostri piedi? Matt Bomer ha deciso di farci visita?» brontolò Kim, stringendosi la vestaglia fin sotto il mento.

«Niente di tutto ciò» ridacchiò la donna prima di abbracciarla e dichiarare: «Buon compleanno!»

«Uhm, grazie» esalò lei, stritolata dalle braccia robuste di Rowena.

«Dai, ora guarda!» rise eccitata la donna, sospingendola verso la finestrella.

Chiedendosi seriamente se il freddo potesse aver attecchito nel cervello della donna, fondendole qualche neurone, Kim si avvicinò scettica alla finestra, già pronta a inventarsi un po’ di entusiasmo giusto per farla contenta.

Non appena i suoi occhi registrarono ciò che con tanta foga aveva voluto mostrarle Rowena, però, la donna si esibì in uno strillo ed esclamò: «Oh, mio Dio!»

Infilati gli scarponi senza neppure prendersi il tempo di cambiarsi, Kim si catapultò fuori dalla stanza seguita a ruota da Rowena.

Non c’era tempo per una cosa sciocca come gli abiti!

Non appena raggiunsero lo sgabuzzino, indossarono in tutta fretta le giacche a vento e uscirono dalla casupola del campo base, lo sguardo eccitato e brillante.

Lì, dinanzi ai loro occhi strabiliati, una gigantesca statua di ghiaccio raffigurante Kermit la Rana se ne stava ritta e fiera sotto il cielo limpido e non più avvolto da nubi, scintillante quanto un diamante finemente lavorato.

Portandosi le mani alla bocca per soffocare un altro grido, Kim si avvicinò alla statua perfettamente eseguita e, sfiorandola con un dito per saggiarne la consistenza, si accorse di quanto fosse levigata e liscia.

«Hai un covone di fieno in testa, o sono i tuoi capelli?» dichiarò una voce alle sue spalle.

Volgendosi di scatto, gli occhi ricolmi di lacrime di gioia, Kim si ritrovò a fissare un sorridente Winter che, armato di scalpello e martello, se ne stava di fronte a lei come se nulla fosse.

«Win...» sussurrò debolmente lei, non sapendo bene cosa fare, o cosa dire.

«Ehi, capo, l'hai fatto tu?»

Malick, sbucando dalla casupola e facendo tanto d'occhi di fronte alla statua – alta quasi due metri – fissò l’opera senza sapere bene cosa dire.

«Io non sono stato di certo» confermò Tim, uscendo a sua volta per poi osservare la statua di ghiaccio con aria ammirata. «E' incredibile, capo!»

«Oh, wow! E' magnifica! Hamilton, Iceman o non Iceman, col ghiaccio ci sai fare!» esclamò divertita Rowena, strizzandogli un occhio nel complimentarsi.

«Grazie, Rowena. Farò finta di non aver sentito quel nomignolo» replicò serafico Winter prima di tornare a guardare Kim, che ancora non si era espressa, né aveva mosso un muscolo.

«Ebbene?»

L'unica cosa che Kim riuscì a fare fu scoppiare in lacrime davanti a tutti e Rowena, prese in mano le redini della situazione, trascinò a forza i suoi colleghi all'interno del campo base, lasciando che a quello scoppio nervoso pensasse il loro capo.

Win, senza badare agli altri, si avvicinò a Kim per avvolgerla tra le braccia e, cullandola contro di sé come aveva fatto un tempo, da bambino, le sfiorò i capelli con un bacio e un sorriso.

«Non ti piace? La smantellerò subito, se vuoi.»

«No! Ti prego! E' bellissima!» esalò lei, scostandosi all'improvviso dal suo torace per fissarlo in viso con aria costernata.

«Bene, allora. Perché la tua reazione mi aveva un po' spaventato, lo ammetto» ridacchiò a quel punto Winter, dandole un buffetto sul naso e asciugandole le gote coi pollici. «Perché ti sei messa a piangere?»

Passandosi i palmi delle mani sulle guance come una bambina piccola, Kim riuscì in qualche modo a biascicare: «Non... me l'aspettavo... tutto qui.»

Sinceramente dispiaciuto, l’uomo commentò amaramente: «Devo esserti sembrato davvero un mostro insensibile, per averti fatto pensare che non ti avrei fatto neppure un regalo di compleanno.»

«No! Ma cavoli... non mi aspettavo questo!» replicò sconvolta Kimmy, volgendosi a scrutare nuovamente la statua di Kermit.

«Ti piace, almeno? Devo ancora capirlo» mormorò Winter, accennando un sorriso quasi timido.

Kim non resistette a quello sguardo, a quel volto, a quell'espressione.

Gli saltò con le braccia al collo e urlò: «Certo che mi piace! Grazie, grazie, grazie!»

Lui allora se la strinse al petto per un attimo, lieto che il regalo le fosse piaciuto e, strizzando l'occhio alla lieve nebbiolina in lontananza, sussurrò: «Grazie.»

“E di che, Geamhradh1... l'ho fatto con piacere.”

Kim si scostò immediatamente da Winter, guardandosi intorno con aria confusa e, aggrottando leggermente la fronte, mugugnò: «Ma cosa diavolo...»

«Cosa c'è?» volle sapere lui, scrutandola curioso.

«Mi è parso di udire una voce di donna» gli rispose lei, lanciandogli un'occhiata preoccupata e, al tempo stesso, divertita.

Molto più che sorpreso, Winter esalò: «In che senso? Di donne, qui fuori, ci sei solo tu.»

«Appunto»

Con uno sbuffo infastidito, Kim continuò a guardarsi intorno, vagamente turbata.

«Il freddo mi sta dando alla testa. Torno dentro e mi vesto, sarà meglio.»

«Sì, forse è il caso» asserì Win, vagamente sconvolto da quella strana e imprevista scoperta.

La donna, già sulla porta, si volse nuovamente verso l'amico e gli sorrise timida ma felice.

«E' un regalo magnifico, Win. Grazie infinite.»

«Di nulla, Kimmy» le sorrise di rimando lui, scrutandola finché non fu scomparsa oltre il battente di metallo.

Accigliandosi subito dopo, Winter sussurrò all'aria immota: «Com'è possibile?»

“Forse è sensitiva... o, più semplicemente, è connessa a te. Dopotutto, è nata nel giorno di Yule, che è dedicato a te, Win. Può essere qualcosa di più di una semplice coincidenza.”

«Tu dici?»

“Ero un'accolita di Arianrhod, non la dea in persona, perciò non posso sapere come si muove la Ruota del Destino che Lei governa. Ma la sua capacità di udire la mia voce ha incuriosito anche me.”

«Non credo che Kim abbia parenti di origine irlandese» borbottò tra sé Winter.

“Le hai controllato l'albero genealogico?” ridacchiò Erin, fluttuando fino a lui e avvolgendo il campo base in una leggera bruma cristallina.

Arrossendo suo malgrado, Winter mugugnò: «Ovvio che no, ma... dici che dovrei farlo?»

“Lo farò io per te. Posso arrivare laddove neppure tu potresti, e in minor tempo.”

«Grazie, Erin» sorrise leggermente Winter, avviandosi verso la porta del campo base.

“Di nulla, Geamhradh, e gloriosa festa di Yule a te, Guardiano delle Acque.”

Winter la omaggiò di un elegante cenno del capo prima di rientrare all'interno della casupola ed Erin, non avendo più nulla da fare in quei luoghi, si dissolse per iniziare a curiosare nel passato di Kimberly.

 
≈≈≈
 
«Certo, capo, che non mi sarei davvero mai aspettato un gesto simile da parte tua» dichiarò a metà mattinata Malick, impegnato a sezionare una carota di ghiaccio da analizzare al microscopio elettronico.

A colazione non c'erano stati commenti di nessun genere e Kim era stata festeggiata con doppia razione di croissant al cioccolato e un caffè corretto al brandy, brandy di cui Winter aveva preferito non conoscere la provenienza.

Timothy, Rowena e Kim si erano poi diretti alla trivella per recuperare parte delle carote rimaste nel magazzino, oltre che per nuove perforazioni in un sito diverso dal precedente, perciò Malick era rimasto al campo base assieme a Winter.

Scostandosi dal computer, sul quale stava analizzando dei diagrammi riguardanti l'inquinamento delle acque fin lì studiate, Winter fissò il collega afro-americano per diversi secondi prima di decidersi a mormorare un laconico: «Non sono di ghiaccio, sai?»

«Mai detto il contrario. O forse sì, un paio di volte...» ridacchiò Malick, coinvolgendo anche Winter  nella sua ilarità. «... ma è la prima volta, in tre anni che ti conosco, che vedo scongelarti un po' con una donna. Lascia stare che conosci Kim da quando era piccola, ma... mi è parso curioso. E bello.»

«Ho come l'impressione che siate tutti ansiosi di scoprire il mio lato oscuro. Perché vi preoccupa tanto il fatto che io possa avere una donna, o soltanto interessarmi a un membro del genere femminile? Temete che possa cambiare sponda e darvi la caccia?» chiosò con naturalezza Win, poggiando il mento sulla mano sollevata.

Malick lo fissò con così aperta costernazione da spingere Winter a scoppiare in una risatina leggera.

«No, che cavolo! Per me puoi anche cercarti i tuoi divertimenti in un giardino zoologico ma... non ti senti solo?»

L’interesse del collega gli parve sincero, così il paleoclimatologo pensò seriamente a come rispondere alla sua domanda lecita.

«Sasha sta con te da quanto... un anno? Sei felice con lei? Ti manca, quando sei lontano?»

Malick annuì e, nell'inserire un sottilissimo dischetto di ghiaccio sotto il mirino del microscopio, asserì: «Capisco cosa intendi, ma perché ho l'impressione che questo c'entri fino a un certo punto?»

«Erin è solo parte del problema. Prima di tutto, devo pensare a Mal.»

Winter sospirò nello spegnere il computer e, subitaneo, lo sguardo gli corse alla piccola foto del figlio che teneva sulla scrivania. «Non voglio che soffra ancora.»

«Quell'arrivista di Patricia non avrebbe dovuto farsi avanti così presto» borbottò Malick, scuotendo il capo. «Scusa, capo, ma quella voleva solo farsi bella portandosi a letto il capo, se capisci che intendo.»

Il collega ridacchiò, annuendo debolmente, e ammise: «Mal non la sopportava. E anche a me è venuta a noia alla svelta.»

Malick ridacchiò a quel commento.

«Sempre detto che tuo figlio è un grande!»

«Capisci, perciò, perché tengo a distanza le donne, no?» si premurò di dire allora Win, accennando un sorriso fiacco.

«Ma non diventerai un vecchio inaridito e stanco, di questo passo?» gli fece notare Malick, strizzando l'occhio con ironia.

«Vecchio a chi?» ridacchiò Winter, levandosi in piedi dalla sedia.

«Kim, quindi, va bene?»

«E' amica di Malcolm. Lui la trova simpatica, perciò io posso... respirare, in sua presenza. E' un po' strano, per me, ma è piacevole non dover sempre stare attento a ciò che dico, o faccio.»

Scrollò le spalle, appoggiandosi al muro, e aggiunse: «Mal mi ha ordinato di essere carino con lei perché vuole che ci accompagni in vacanza, l'anno prossimo. Ti pare una cosa sensata?»

Malick scoppiò in una risatina allegra, chiosando: «Prima cotta per il nostro ometto?»

«Pare di sì. Era ben deciso a volerla con noi, e chi sono io per vietarglielo?» sorrise benevolmente Winter.

«Stai facendo un gran lavoro, con quel ragazzo, … Winter. Non so se sarei stato altrettanto bravo, al tuo posto» si complimentò Malick, arrischiandosi a chiamarlo per nome nonostante la scarsa abitudine accumulata negli anni.

Il collega gli sorrise maggiormente e ammise: «Ho delle valide aiutanti, a casa.»

«E' comunque evidente quanto il ragazzo straveda per te, quindi oserei dire che non te la cavi male. Ma dovrei saperlo, visto quanto fai rigare dritto noi!» scoppiò a ridere Malick, tornando a scrutare all'interno del microscopio.

Anche Win rise e nell'allontanarsi dal laboratorio, urlò: «Vado a prendere Kimberly al campo della trivella, così riportiamo indietro nuove carote per te!»

«Troppo gentile, capo!»

 
≈≈≈
 
Il potere scorreva dentro di lui come fuoco freddo, come una tempesta immota, come un sole dai raggi di ghiaccio e Winter, come ogni anno, ne respirava la forza e ne godeva a piene mani.

Certo, se avesse potuto presiedere ad un Cerchio di Potere completo, la cosa sarebbe stata ben diversa; il suo dono sarebbe stato così forte e potente da renderlo praticamente invincibile.

La mancanza di Autumn lo rendeva impossibile, perciò doveva accontentarsi di quel che Arianrhod aveva donato loro fin dai tempi ancestrali.

Non che fosse un dono da poco, il suo, ma era cosciente di quanto fosse immensamente più potente, nel Cerchio di Potere.

Rammentava ancora il giorno in cui, zia Brigidh, li aveva fatti riunire attorno al bacile delle Visioni per la loro prima cerimonia ufficiale.

Fuoco, Aria, Terra e Acqua erano gorgogliate attorno a loro, fondendosi in un’unica entità di luce sfolgorante, letteralmente, e Winter aveva percepito sotto di sé, attorno a sé, ogni cosa, ogni respiro, ogni creatura vivente.

Il profumo degli agrifogli e dell'helleborus niger2 si era confuso con le esalazioni aromatiche dei loro Elementi, diffondendo tutt’intorno la pura magia.

I bracieri posti ai lati dell'altare, dedicato agli antichi dèi e loro antenati, erano arsi  di fuoco azzurro, rosso, blu e verde.

Sorridendo tra sé nel pensare a quel momento per lui così speciale, Winter non poté esimersi dal rammentare anche quanto era stato perso.

Avevano avuto diciannove anni, Erin era appena giunta dall’Irlanda per diventare la sua promessa sposa, vincolata da secoli di Patti scritti con il sangue dei loro antenati.

Nessuno di loro aveva chiesto questo ma, ligi al dovere, non si erano opposti, accettando come un dato di fatto quello scorno del destino.

Avevano iniziato a conoscersi, trovandosi reciprocamente simpatici, ma comprendendo subito che nulla più di questo avrebbero ottenuto dal loro rapporto.

Lui era stato onesto fin dall’inizio, con lei, raccontandole ogni cosa, ed Erin non si era tirata indietro, mettendolo a conoscenza del giovane che le aveva rubato il cuore, ma a cui lei aveva dovuto rinunciare per sempre.

Nessuno dei due poteva sapere, all’epoca, se il suo sentimento sarebbe mai stato ricambiato da quello sconosciuto giovane, o se l’amore di Erin per lui avrebbe perdurato nel tempo.

Il Patto Ancestrale li aveva legati prima di scoprirlo.

Il destino aveva giocato con loro fin dall’inizio, legandoli a doppio filo nonostante le manovre evasive di Anthony e Camille Hamilton, permettendo loro di creare quell’unica vita che avrebbe completato il Cerchio.

Mentre procedeva sicuro lungo la calotta ghiacciata per raggiungere i suoi colleghi, decise di lasciar perdere quei tristi pensieri, concedendosi il lusso di giocherellare un poco con i suoi doni.

Non aveva senso rivangare sul passato, sulle decisioni di zia Brigidh, o su quanto fosse risultato alla fine inutile la fuga dei suoi genitori dall’Irlanda.

Con una mano disegnò ghirigori nella neve, trasformandoli in statue di ghiaccio dalle sinuose curve ellittiche.

Esse si mossero simili a onde sull’oceano e, come fedeli compagne, lo seguirono tra i ghiacci, tanti leggiadri delfini dalle strutture cristalline e perfette.

Winter le ammirò estasiato, ridendo quando le fate della bruma iniziarono a cavalcare le sue creature di ghiaccio.

Ognuna di loro lo salutò ossequiosa prima di svanire in un turbinio di cristalli argentati e l’uomo, suo malgrado, sospirò dispiaciuto prima di distruggere le statue appena create.

«Un vero peccato doverle distruggere... maledizione! Dovrei mettermi a fare lo scultore di ghiaccio, invece dello scienziato!» rise poi tra sé Winter, creando e scomponendo in un rapido battito di ciglia tutto ciò che la sua mente partorì.

Era indubbio quanto il suo dono gli fosse utile, nel suo lavoro.

Poteva percepire l'acqua come se ne fosse parte integrante, e nessun evento atmosferico violento aveva segreti, per lui.

Certo, se fosse andato ancora d'amore e d'accordo con Autumn, sarebbe stato tutto molto più semplice – i loro due elementi erano strettamente connessi tra loro – ma, su quel punto in particolare, poteva fare ben poco.

«Se si aspetta che mi muova per primo...» mugugnò tra sé Win, lanciando in aria una serie di stalagmiti di ghiaccio fino a creare un immenso ventaglio arabescato. «... sta fresco!»

Con uno schiocco di dita, il ventaglio di ghiaccio implose su se stesso, lasciando solo una scia di cristalli di neve al passaggio di Winter.

Quando infine giunse nel nuovo accampamento, dove la trivella stava già lavorando a pieno ritmo, spense il motore della motoslitta e ne discese con un abile gesto di gambe, dirigendosi poi a grandi passi in direzione del piccolo magazzino.

Lì, vi trovò Rowena e Kim, impegnate a sistemare alcune carote di ghiaccio all'interno di una sacca imbottita e, poggiandosi contro lo stipite della porta, esordì dicendo: «Bene, vedo che siete più che operative.»

«Ehi, capo!» esclamò Rowena, sorridendogli. «La tua scultura è ancora in piedi, vero? Perché voglio farle una fotografia da mandare a casa. Voglio che capiscano tutti cosa sono i veri regali!»

Ridacchiando, Winter replicò: «Attenta che per il tuo, di compleanno, non te ne facciano trovare una simile. Non durerebbe molto, a luglio.»

«Se ci provano, li affetto!» sghignazzò Rowena, prima di mettere la sacca sulle spalle di Kim. «Bene, qui siamo a posto. Torneremo per stasera. Pare che Tim si stia divertendo un sacco, alla trivella, e non ne voglia sapere di smettere.»

«E' sempre stato un lavoratore indefesso.»

Nell'annuire orgoglioso, Winter si ritrovò addosso gli sguardi incupiti delle due donne e, sollevando le mani a mo' di muta domanda, attese che loro si esprimessero.

«Winter, per forza lo è... lo hai svezzato tu!» si lagnò con ironia Kim, avviandosi verso l'uscita del piccolo magazzino. «Di che ti stupisci?»

«Come se fosse un difetto essere diligenti sul lavoro» brontolò per contro Win, salutando con un cenno della mano Rowena, che sghignazzò.

Una volta fuori, in balia di un freddo vento gelido proveniente da ovest, Kimberly scrutò Tim alle prese con la trivella e commentò aspramente: «Non ci può essere niente di divertente nel fare un buco nel ghiaccio.»

«Timothy, ti stai annoiando?» chiese per contro Winter, fissando il collega di vecchia data.

«Affatto, capo. Adoro questo lavoro!» sorrise orgoglioso l'uomo, sollevando il pollice con entusiasmo.

«L'abbiamo perso!» sospirò afflitta Kim, scuotendo il capo e dirigendosi con passo strascicato verso la motoslitta.

«Sei solo gelosa del fatto che Timothy sopporta il freddo meglio di te» ci tenne a precisare Winter, salendo al posto di guida.«Inoltre, da quel che so, la trivella piace anche a te.»

«Mai quanto a lui.»

Kim fece spallucce, mostrandosi indifferente alle punzecchiature di Win e l'uomo, sogghignando, salutò con un cenno della mano Tim prima di avviare la motoslitta e tornare verso il campo base.

Procedendo a velocità di crociera, Winter cercò di non fare caso alle mani strette intorno alla sua vita, preferendo concentrarsi unicamente sul manto nevoso che li circondava e sul peggioramento progressivo delle condizioni meteo.

Rammentare quanto fosse piacevole avere Kimmy tra le braccia, o quanto gli piacesse il suo profumo, non serviva a nessuno.

Meglio concentrarsi solo sul lavoro.

Prima di partire, Tim aveva parlato di un fronte temporalesco che avrebbe potuto rassomigliare alla tempesta vista nel film “The day after tomorrow”. 

Da quel poco che aveva compreso dal flusso di acqua ghiacciata presente nelle nubi da lì al Polo Nord e oltre, era certo che il collega non si fosse sbagliato di molto.

Con tutta probabilità, avrebbero dovuto interrompere per sicurezza i loro studi,  dedicandosi unicamente a ciò che avevano fin lì raccolto.

Dopodiché, in base a quel che la tempesta avrebbe prodotto, avrebbero deciso se spostare o meno il campo base sull'isola Grande Diomede, come previsto dal programma.

Le mani di Kimmy scelsero proprio quel momento per spostarsi e sistemarsi meglio attorno alla sua vita e, di colpo, tutti i pensieri coerenti di Winter sparirono, come se qualcuno avesse spento la luce.

La sua mente vagò in ricordi del passato, tornando ad una primavera speciale di tanti anni prima, quando Kim lo aveva baciato per la prima volta.

Era stato un bacio leggero, uno sfiorarsi di ali di farfalla al sapor di fragola e ciliegia, ma era bastato per renderlo suo schiavo per l’eternità.

Curioso che, con tutto quel ghiaccio e quella neve, gli fosse tornato in mente proprio quel ricordo.

Ma forse, con Kimmy, la faccenda iniziava e finiva lì. Lei era la sua eterna primavera, non importava quanta neve potesse cadere, quanto freddo potesse fare, quanto ghiaccio potesse avvolgerlo.

Lei sarebbe stata sempre in grado di trovarlo, di spezzare la gabbia che lo nascondeva al mondo.

Perché il suo cuore le era sempre appartenuto, in ogni istante della sua vita, e anche il semplice movimento delle sue mani sulla giacca a vento bastava a ricordarglielo.

Lui era suo, indipendentemente da quanto avesse fatto per mascherare quei pensieri, quei desideri.

A poco sarebbe servito costruire cattedrali di ghiaccio attorno a sé per non soffrire mai più.

Lei le avrebbe distrutte una dopo l’altra, smascherandolo sempre.

Le era bastato fare capolino al NOAA, con la sua acconciatura ribelle, i suoi stivali da cowboy e il suo aspetto da maschiaccio, ed il suo cuore aveva tremato, si era incendiato, aveva ripreso a battere.

 
 
 
 
___________________________
N.d.A: Qualche dubbio in meno, su Erin e Winter? O di più?
  1. Geamhradh : (gaelico irlandese) significa letteralmente inverno, ed è un nome legato alle festività di Yule.
  2. Helleborus Niger: Rosa di Natale. E' una pianta velenosa ma, usata con parsimonia, ha qualità cardiotoniche.
 

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Capitolo 9
*** VIII ***


 
8.
 
 
 
 
 
«D'accordo, non sono un mago della tecnologia, ma stavolta io non c'entro davvero!»

Kim sbottò contrariata, mettendosi le mani nei capelli quando, per la settima volta consecutiva, il segnale dell'antenna satellitare saltò.

La faccia di Malick rimase bloccata in un fermo immagine nel bel mezzo dello schermo del computer, mentre una piccola icona sullo schermo, in basso a destra, indicava la mancanza di segnale.

Infilando la testa all'interno della stanza dove stava lavorando Kimberly, Winter le domandò curioso: «Che succede?»

Volgendosi a mezzo con aria angustiata, Kimmy esalò disgustata: «Giuro che non c'entro nulla... ma non vuole funzionare! Io e Malick stavamo parlando quando, per ben sette volte consecutive, è saltato il segnale. E dire che ieri abbiamo lavorato sull’antenna per più di mezz’ora! Questo tempo infernale ci sta facendo saltare tutti i collegamenti con il campo di trivellazione, e non mi piace che se ne stiano nei pressi di Grande Diomede senza alcuna possibilità di comunicare con noi!»

La tempesta, alla fine, li aveva raggiunti la mattina seguente il compleanno di Kimberly, e si era gettata sul campo base tenendoli bloccati per circa una settimana.

Settimana che avevano passato a raggranellare tutti i dati possibili fin lì raccolti, per poi inviarli via satellite al NOAA di Washington.

Quando infine la tempesta era scemata, permettendo loro di spostare la trivella su Grande Diomede, tutto era parso andare a rotoli.

L’antenna satellitare presente al campo era stata accuratamente controllata e ricontrollata da ciascuno di loro, ma i problemi di connessione, nati con il trasloco, erano stati risolti solo in parte.

In quel momento, a quanto pareva, aveva ricominciato a dare dei problemi nella trasmissione delle immagini.
Ridacchiando, Win entrò con passo tranquillo e, piegandosi verso lo schermo del computer, controllò che tutto fosse in ordine prima di sorridere all'indirizzo di Kim.

«Mi viene il sospetto che voi donne siate tecnofobiche.»

«Io e il mio iPhone andiamo d'accordissimo, puoi credermi sulla parola» brontolò Kim, prima di sorridere nel veder tornare il segnale. «Oh, ecco Malick!»

«Ehi, Kim! Ri-ciao! Non hai idea di cosa abbiamo trovato qui nei pressi del campo!» esclamò eccitato e divertito Malick, ghignando come se avessero trovato i resti dell’Arca di Noè, o il tesoro dei Pirati dei Caraibi.

«Dimmelo! Sono troppo curiosa!» sorrise divertita la donna, tutta eccitata per il tono allegro del collega.

Data una pacca sulla spalla a Kim, Winter tornò sui suoi passi per raggiungere la cucina e farsi un bel caffè quando, all'improvviso, tutto il mondo che lo circondava parve fermarsi di colpo.

Il ghiaccio attorno a loro iniziò a urlare sgomento mentre, nella mente di Win, le voci terrorizzate degli elementali dell’acqua, trasportate a gran velocità dal suo elemento, lo misero in guardia su un pericolo imminente.

Tornando di corsa nel laboratorio, si pose lesto dinanzi allo schermo e, preso  in fretta il posto di Kimmy, urlò: «Andatevene immediatamente da lì, Malick! Prendete il cingolato e dirigetevi a Wales! Subito!»

Malick non perse tempo a chiedergli il perché.

Il tono concitato del suo capo gli disse che le spiegazioni avrebbero dovuto attendere un altro momento e, a gran voce, iniziò a chiamare gli altri perché si preparassero.

Un attimo dopo, fu il caos.

Sotto gli occhi sgomenti di Kim e Winter, quattro uomini in tenuta mimetica da neve assaltarono il campo di trivellazione a fucili spianati e, nel fuggi fuggi generale, la telecamera del computer cadde rovinosamente in mezzo al ghiaccio.

Tremante per la paura e impossibilitata a muoversi a causa del panico che la attanagliava, Kimberly venne letteralmente sollevata dalla sedia da Win, che invece appariva più che mai deciso a non stare con le mani in mano.

Trascinata fuori dalla stanza, la donna non riuscì a dire neppure mezza frase di senso compiuto mentre Winter, furioso oltre ogni possibile redenzione e ben deciso a proteggere l'amica, ringhiò: «Vestiti! Ce ne andiamo!»

«Ma... Malick... e Tim... Rowena...» balbettò incoerentemente Kim, sgranando gli occhi nel fissarlo sgomenta.

Afferratala per le spalle, l’uomo la guardò con occhi colmi di ansia e, roco, le disse: «Non preoccuparti per loro. Staranno bene.»

«Win...» singhiozzò lei, mordendosi il labbro inferiore per la paura.

«Ssst. Ti proteggerò io, piccola. Ma ora dobbiamo andare» le sussurrò concitato, avvolgendola in un abbraccio consolatorio.

Non poteva dirle che, con ogni fibra del suo essere, stava proteggendo i loro compagni con il suo Elemento.

Ci sarebbero state già troppe illazioni e domande, una volta che i loro compagni fossero tornati in mezzo alla civiltà.

Non voleva che anche Kim lo subissasse di domande o, peggio, scoprisse il suo segreto a quel modo.

Inoltre, maggiore era la sua concentrazione, maggiore sarebbe stata la sua precisione nel muovere ghiaccio e acqua attorno ai suoi tre compagni.

Tranquillizzata dall’abbraccio dell’amico, Kimberly cercò in tutti i modi di non scoppiare a piangere e lui, dopo alcuni attimi passati a stringerla contro il suo cuore, la scostò per darle un bacio sulla fronte.

«Vestiti, e riempi il tuo zaino con tutto ciò che può esserci utile. Non ci metteranno molto a raggiungerci qui, perciò non dobbiamo farci trovare.»

Le strinse con forza le braccia, forse desideroso di aggiungere qualcos'altro, ma lasciò perdere subito per correre in cucina e radunare tutto il cibo trasportabile.

Kimmy lo osservò per alcuni istanti, apparentemente padrone della situazione nonostante immaginasse quanto anche lui fosse nervoso e spaventato.

Dopo aver preso un gran respiro, corse nella sua stanza e iniziò a infilarsi tutti i capi termici che aveva prima di passare a riempire il suo zaino da esplorazione.

Gli occhi le caddero inevitabilmente sulle cose di Rowena.

Il suo bel maglione giallo canarino era sul letto assieme alle sue calze di Hello Kitty - che la nipotina le aveva regalato per il suo compleanno - e, non potendo evitarlo, lasciò che lacrime silenziose le scivolassero sulle gote.

Non comprendeva affatto ciò che era avvenuto, ma sapeva solo una cosa: i suoi compagni erano in pericolo, forse morti e, come aveva detto Winter, quelle persone avrebbero potuto tentare di rintracciarli.

Facendo più in fretta che poté, Kim si issò sulle spalle il pesante zaino dopo aver indossato la sua tuta termica della North Face e, nel riversarsi nel corridoio, esclamò: «Io sono pronta!»

Winter sbucò dalla sua stanza, interamente abbigliato e pronto per la partenza. 

Dopo aver annuito al suo indirizzo, si catapultò nel laboratorio per recuperare la chiavetta USB dove venivano registrati tutti i filmati eseguiti sul campo... ivi compreso l’assalto appena avvenuto.

Afferratala, la inserì in una delle tasche interne della giacca dopodiché, rivolgendosi a Kim, mormorò: «Andiamo. Dobbiamo tornare a Wales il prima possibile.»

Lei annuì e, lanciato un ultimo sguardo al computer, mormorò: «Vado a mettere le taniche di benzina sul portapacchi della motoslitta. Una vera sfortuna che il motore del secondo cingolato sia a terra. Una autentica sfortuna.»

«Ti raggiungo subito. Stai attenta, lì fuori» le disse dolcemente, sfiorandole il viso con la punta delle dita.

Accennando un sorriso, lei annuì debolmente, godendosi il tocco leggero della sua mano.

«Non lo sono sempre?»

Win abbozzò un mezzo sorrisino, come a voler mettere in discussione il suo dire, ma si limitò a sospingerla verso l'esterno mentre lui, non potendo fare altro, raccolse i dati raccolti fin lì e li inserì in una seconda chiavetta USB.

Fatto ciò, strinse i denti per la rabbia e ringhiò tra sé: «Spero solo non ce ne siano altri, oltre a quelli che stanno venendo qui… non so se potrei gestire più di due fronti contemporaneamente.»

Sapeva con certezza matematica che Malick e gli altri erano sani e salvi e che, alla maggior velocità possibile – che non era comunque molta, con il pesante cingolato –  si stavano dirigendo verso Wales.

Le fenditure nel ghiaccio, che aveva aperto sotto i piedi di quegli uomini armati, erano bastate per farli finire nell’acqua gelida, permettendo ai suoi compagni di scappare.

Ma ora doveva occuparsi di quelli che stavano raggiungendo il loro campo base e, in tutta onestà, il suo cuore non riusciva a pensare che a Kimmy. Un vero disastro.

Sperò soltanto che Malick fosse un asso al volante, e non si lasciasse ingannare dal ghiaccio, perché non sarebbe di certo riuscito a controllare anche quel particolare, per loro.

Se fosse stato in armonia con il gemello, gli avrebbe chiesto supporto immediato, impedendo alla tempesta in arrivo di colpirli, ma quella era una cosa che proprio non poteva fare.

Da quando lui e Autumn avevano litigato, e si erano affrontati a muso duro spezzando ogni legame, le correnti del loro potere si erano indebolite.

Pur se Summer e Spring ancora riuscivano a usare i loro doni con una certa sinergia, lui si sentiva menomato, come se gli avessero amputato un piede o una mano.

Per grazia ricevuta, le informazioni viaggiavano più velocemente nell’acqua, rispetto all’aria, e lui era riuscito a scoprire per tempo il pericolo, ma ora la sua attenzione doveva essere spesa interamente per salvare Kim.

E non c’era tempo per pregare il fratello di intercedere per lui.

«Maledetto Autumn!» sibilò Winter, scagliando un pugno contro la scrivania prima di sbuffare infastidito e tentare di inviare un'e-mail alla centrale di polizia di Wales.

Se almeno fosse riuscito a contattarli, avrebbe avuto i rinforzi a dargli man forte.

Nulla.

La linea era saltata non meno del collegamento satellitare con il campo della trivella, dove si erano trovati Tim e gli altri fino a pochi minuti prima.

Sembrava proprio che la tecnologia congiurasse contro di loro. E, se non funzionava il PC, non avrebbe dato segni di vita neppure il telefono satellitare.

Accigliato, fissò il portatile appeso al suo laccio, del tutto inattivo e con una significativa scritta sul display: No signal.

«Grandioso» ringhiò, afferrandolo per portarlo ugualmente con loro. Avrebbe tentato entro breve un nuovo collegamento, sperando di essere più fortunato.

Nel frattempo, però, si sarebbe allontanato con Kim da quel luogo. Ormai, non era più sicuro.

 
≈≈≈
 
«Maledizione! Vi lascio soli per due minuti, due maledettissimi minuti, e voi combinate un casino!» esplose rabbiosamente Boris, fissando i suoi compagni con aria accigliata.

Aveva immaginato – scioccamente, a quel punto – che lasciare al fratello Sasha il compito di recuperare le armi dal loro sito di stoccaggio su Grande Diomede, sarebbe stata una grande idea.   

Evidentemente aveva fatto male i conti. Suo fratello non era solo un idiota, era proprio un cretino senza speranza.

E sua madre avrebbe dovuto spiegargli una volta per tutte perché dovesse ancora sopportarne la presenza, visti i guai che sapeva combinare.

Ora, come se non avessero avuto già abbastanza ritardi a causa della tempesta di neve, che aveva imperversato per giorni sullo Stretto, si ritrovavano con quattro compagni morti ammazzati in mezzo al ghiaccio.

E tre americani in fuga.

Sasha aveva preferito mandare sul sito le reclute più giovani, infischiandosene del suo ordine diretto, e ora tre scienziati statunitensi sapevano del loro nascondiglio delle armi.

A peggiorare il tutto, poi, quegli idioti non si erano neppure accorti di aver interpretato Mezzogiorno di fuoco sotto lo sguardo attento di una telecamera accesa.

Come minimo, i colleghi di quegli scienziati avevano visto tutto in diretta e, a quel punto, avevano già avvisato le autorità statunitensi.

Ugualmente, dovevano trovarli per eliminare ogni prova del loro coinvolgimento o sarebbe stata la fine, per loro.

Afferrato il fratello per il bavero della giacca, Boris ringhiò: «Ora Sasha, vai a cercare i loro simpatici colleghi per assicurarti di eliminare tutto ciò che può implicare un nostro coinvolgimento... è chiaro?!»

Il giovane, poco più che ventenne, annuì spaventato e, dopo aver chiamato a sé altri quattro uomini, si catapultò verso l’unica motoslitta degli scienziati rimasta al campo e cercò nella memoria del GPS la posizione della base americana.

Boris diede a sua volta un'occhiata e, dopo averne scoperto l’ubicazione, su Piccola Diomede, sogghignò soddisfatto e afferrò il suo cellulare satellitare per esclamare: «Mickail, fermati subito e dirigiti verso Wales seguendo queste coordinate.»

Dopo averle dettate con impazienza, aggiunse: «Devi fare piazza pulita di alcuni americani. Li voglio morti, immediatamente.»

La voce gracchiante dell'uomo ritornò all'orecchio di Boris vagamente irritata, come se la sola idea di tornare sui suoi passi lo scocciasse parecchio.

«Che ha combinato quell'idiota di Sasha?»

«Te lo spiegherò dopo. Ora pensa a fare il tuo lavoro. Io ho già le mie grane da risolvere, visto che dovrò mandare l’idiota da un altro branco di fuggitivi, sull’isola Piccola Diomede.»

Chiusa la comunicazione con il cugino, Boris fissò malamente il fratello minore e ringhiò: «Fila, prima che l'istinto prenda il sopravvento sui legami di sangue.»

Sasha non se lo fece ripetere e, in fretta, balzò su una delle motoslitte.

Assieme ad alcuni compagni, si mise in viaggio per raggiungere il campo base, sperando ardentemente che, nel frattempo, il fratello maggiore sbollisse la rabbia.

Aveva già assaggiato una volta sferza di colpi che sapeva assestare il fratello nei momenti d’ira profonda, e non aveva nessuna intenzione di finire sotto i suoi pugni proprio in quel posto.

Nessuno gli assicurava che, una volta pestatolo per bene, l’avrebbero raccolto per riportarlo a casa. Meglio non rischiare.

Nel vederli allontanarsi, Boris, lanciò un'ultima occhiata alla telecamera ormai distrutta e, con un lento sogghigno, dichiarò a nessuno in particolare: «Do svidánija1...»

Con un calcio ben assestato, terminò di frantumare la telecamera dopodiché, agli uomini rimasti, sbraitò: «Raccogliete tutto ciò che rimane nella grotta, poi eliminate i bossoli dalla scena. Guai a voi se ne lasciate indietro anche uno solo. Ed estraete dal ghiaccio i cadaveri. Non voglio che ricolleghino al sito uno solo dei nostri affiliati!»

Un via vai di uomini seguì quegli ordini urlati a gran voce e Boris, aggirandosi per il sito con aria dubbiosa e confusa assieme, osservò le alte colonne di ghiaccio in cui erano scivolati i suoi adepti.

Tanti anni, forse troppi, aveva passato in quelle lande gelide e sperdute e, forse a torto, aveva pensato di conoscerne ogni segreto.

Mai, nella vita, era stato testimone di un evento così strano e diabolicamente spettacolare come quello che gli stava innanzi.

Era come se un enorme maglio da guerra si fosse abbattuto sulla calotta, facendola implodere su se stessa per inghiottire solo i suoi uomini.

Se già non bastava quella strana formazione glaciale a stupirlo, quel particolare inquietante lo agitò non poco.
Con chi avevano a che fare, realmente?

A giudicare dalle attrezzature che li circondavano, il sito sembrava un semplice avamposto per lo studio dei ghiacci ma tutto poteva essere, quando c’erano di mezzo gli Stati Uniti.

Possibile che stessero testando delle nuove armi, e questo fosse il tragico risultato di quegli esperimenti?

Difficile dirlo, visto che ad un primo esame non aveva trovato nulla di particolarmente interessante.

I due Mac raggranellati nella casetta di raccolta dei campioni se li sarebbe tenuti per uso personale ma, a parte questo, non v’era altro che potesse valer la pena di portar via.

Quando vide uno dei suoi sottoposti avvicinarsi di corsa, Boris lasciò perdere le sue elucubrazioni mentali e attese che Iljia lo raggiungesse.

Bloccatosi accanto al cugino, Iljia disse torvo: «Uno degli uomini è finito a fondo, capo. A meno di non tornare con delle mute termiche, al momento non possiamo recuperarlo.»

«Lascia perdere. Raccogliete tutto e andatevene. Io voglio darmi alla caccia grossa, adesso. Ho un paio di domande da fare agli scienziati americani» ghignò Boris, lanciando un’ultima occhiata alle alte colonne di ghiaccio.

Iljia ne seguì lo sguardo e ammise: «Mai vista una cosa simile. E tu?»

«No. Per niente.»

 
≈≈≈
«Mi vuoi spiegare perché non torniamo a prendere Kim e WInter?!» sbraitò per la decima volta Rowena, continuando a guardarsi alle spalle con l’aria sconvolta e gli occhi stralunati.
 
Doveva ancora comprendere cosa fosse successo in quegli attimi interminabili, quando Malick aveva iniziato a sbraitare come un forsennato, il rumore degli spari l’aveva fatta sobbalzare ed il ghiaccio si era spezzato.

Tutto era avvenuto in pochi istanti di panico dissennato e, mentre gli eventi si svolgevano dinanzi ai suoi occhi senza un ordine e una logica, Rowena si era sentita trascinare via da Timothy.

Senza troppa grazia era stata caricata sul cingolato, mentre alte colonne di ghiaccio investivano i quattro uomini armati piombati nel loro campo, inghiottendoli senza scampo.

Malick, impedendosi di guardarsi indietro, si era gettato tra le lande ghiacciate senza neppure accendere il GPS e, faccia schiacciata contro il vetro, aveva buttato a tavoletta il mezzo.

Sballottati come palline di un flipper da una cantone all’altro, Tim e Rowena non avevano parlato per almeno dieci minuti, finché la realtà dei fatti non li aveva finalmente raggiunti.

Iniziando ad agitarsi convulsamente, Rowena aveva iniziato a tastarsi per essere sicura di non essere stata ferita mentre Timothy, spiacente, aveva tentato invano di calmarla.

Solo dopo essersi sincerata di essere intera, l’ansia della donna era salita alle stelle.

E in quel momento stava per esplodere in un episodio di isterismo allo stato puro.

Pur sapendo di non avere nessun diritto di farlo, Malick la prevenne e le sbraitò contro: «Maledizione, Rowie, ma non capisci che è pazzia?! Winter è stato categorico! Mi ha detto di andare a Wales! A Wales! Non al campo!»

Per nulla preoccupata della rabbia di Malick, la donna replicò con uno strillo aspro e poco controllato.

«Non me ne frega niente di quello che ti ha detto! Moriranno, se li lasciamo là! C’è solo una motoslitta, alla base, e quella non offrirà loro alcun riparo, se anche riusciranno ad allontanarsi!»

 
Tim si passò una mano nervosa tra i capelli mentre Malick imprecava e Rowena, crollando svuotata sul sedile posteriore, iniziava a piangere silenziosamente.

Nessuno osò dire niente, perché la donna aveva perfettamente ragione.

Se anche fossero riusciti a salvarsi e prendere la via di Wales, il viaggio sarebbe stato praticamente impossibile da portare a termine, a causa delle temperature proibitive toccate la notte.

Che era ormai prossima.

C’era poco che potessero fare, in quel momento, se non sperare nello stesso miracolo che li aveva salvati da quegli uomini armati di tutto punto.

Quando i primi fiocchi iniziarono a cadere dal cielo e il vento aumentò d’intensità, però, Malick perse di vista anche l’ultima speranza di rivedere vivi i suoi colleghi.

In quelle condizioni, nessuno sarebbe sopravvissuto senza un minimo di equipaggiamento e, al campo, non avevano di certo quello necessario per simili situazioni.

Non era previsto dal protocollo.

«Malick, senti…»

Rowena tirò su col naso, passandosi una mano sul viso bagnato di lacrime e, più controllata, proseguì nel dire: «Scusa se ti ho aggredito.»

«Credimi, Rowie, so benissimo come ti senti» ironizzò senza alcun desiderio l’uomo, scalando una marcia quando i fari inquadrarono un tratto di calotta particolarmente accidentato.

Di quel passo, per raggiungere Wales, ci sarebbero volute un sacco di ore.

Sperò soltanto che quei folli che li avevano aggrediti non avessero altri compagni nella zona, intenzionati magari a prendersi la loro vendetta.

«Hai fatto bene a venir via» mugugnò ancora la donna, appoggiando il capo sulla spalla di Timothy, che la avvolse gentilmente con un braccio.

«Il capo ne sa una più del diavolo, e non penso proprio che lascerebbe nulla di intentato, per salvare Kimberly» la rassicurò Malick, lanciandole uno scarno sorriso dallo specchietto retrovisivo.

«Malick ha ragione. Sono sicuro che avrà sicuramente trovato il sistema per salvare entrambi. E poi non è detto che quei pazzi avessero dei compari nella zona. Magari erano soli, e il brutto lo abbiamo beccato solo noi» aggiunse Tim, pur non credendo neppure per un attimo alle sue stesse parole.

Rowena ringraziò entrambi con voce flebile e, in breve, si assopì.

Quando Timothy fu certo che fosse nel mondo dei sogni – anche se dubitava sarebbero stati belli, quel giorno – disse a Malick: «Appena arriviamo, dobbiamo avvisare la famiglia. Suo figlio e le sorelle devono essere messi al corrente di ciò che è successo.»

«Sì. Non voglio che sia un perfetto sconosciuto a chiamare il piccolo Malcolm per dirgli che, forse, ha perso anche il padre» assentì l’afroamericano, torvo in viso. «Diremo alla polizia che ce ne occuperemo noi.»

Tim annuì con forza, prima di sospirare affranto.

«Pensi che dovremmo… no, non voglio neanche pensarsi adesso. Non è detto che Winter e Kimberly siano morti. Non è detto

«Penseremo al da farsi solo quando ne saremo sicuri e, quant’è vero Iddio, quel bambino diventerà il figlio di noi tutti, se mai dovesse succedere il peggio. Non dovrà sentirsi solo neppure un giorno della sua vita!» sbottò Malick, infuriato col destino o con chiunque decidesse chi strappare dal mondo dei vivi.

«Ci penseremo a tempo debito… non un minuto prima. Finché non sapremo il contrario, per me loro sono vivi» mormorò Tim, reclinando il viso a scrutare quello addormentato di Rowena.

Avrebbe voluto anche lui abbandonarsi al sonno, ma sapeva già che non ci sarebbe riuscito.

«Quando vuoi il cambio, dimmelo.»

«Non temere. E’ tutto a posto, Tim» ghignò Malick, osservando il ghiaccio con attenzione e sperando, ad ogni secondo che passava, di essere bravo almeno la metà di Winter a saper interpretare le piste.
 
 

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1 Do svidánija: (russo) Arrivederci.

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Capitolo 10
*** IX. ***


9.
 
 
 
 
 
La motoslitta era accesa e pronta per partire, bloccata dinanzi alla porta del campo base mentre, all'interno del piccolo rifugio, Kim e Winter stavano raccogliendo le ultime cose prima di partire alla volta di Wales.

La scossa arrivò all'improvviso, violenta, e catapultò a terra i due giovani, che ruzzolarono sul pavimento di linoleum prima di fissarsi con espressioni sconvolte e sorprese assieme.

A volte, gli Elementali non avevano la mano leggera.

Ma se, per Kimberly, la sorpresa e lo sgomento furono da imputarsi all'assoluta mancanza di senso per quella scossa tellurica improvvisa, per Winter fu ben diverso.

Lui sapeva cosa aveva significato, per loro, quella scossa, e non gli piacque affatto.

Il ghiaccio li aveva avvertiti del pericolo, poiché esso li aveva raggiunti.

Era lì, oltre la sottile porta metallica, pronto a colpirlo con violenza come, con violenza inumana, aveva cercato di colpire i loro compagni.

Mentre la compagna e amica si rialzava, sul volto lo stupore ancora ben evidente, Winter non attese un solo attimo di più e, con un'urgenza dettata dalla paura per l'incolumità di Kim, si gettò su di lei per ributtarla a terra.

Piegandosi sulla donna per farle da scudo con il proprio corpo, urlò: «Resta ferma!»

Spaventata suo malgrado dalla reazione spropositata dell’amico, Kim strillò terrorizzata non appena alte colonne di ghiaccio puro e trasparente si levarono attorno a loro come una gabbia contenitiva.

Gli enormi colonnati trasparenti fracassarono il piano metallico del rifugio, divellendo tutto ciò che incontrarono sul loro cammino.

Coprendosi il capo con le mani, Kimmy gridò ancora più forte quando una raffica di mitra si riversò su di loro dall'esterno, facendo esplodere i rivestimenti coibentanti e le pareti di metallo.

«Ma che succede?!» strillò ansiosa, gli occhi serrati mentre le pallottole degli AK-47 rimbalzavano miracolosamente contro la spessa coltre di ghiaccio che li circondava.

«Sono venuti a prenderci...ecco che succede!» ringhiò Winter, scivolando via da lei per rimettersi in piedi.

Fissando malamente le pareti trasparenti di ghiaccio che, tanto efficacemente, li stavano proteggendo, l’uomo mormorò con tono serio e contrito: «Non voglio che tu ti muova da qui, Kimmy. Il ghiaccio ti proteggerà.»

«Dove pensi di andare? Non puoi uscire! Vedi che siamo circondati dal ghiaccio?!» esalò per contro lei, levandosi in fretta in piedi e stringendosi all'amico mentre le raffiche di colpi andavano scemando.

Win si volse a mezzo per sorriderle spiacente e, sfiorata la superficie liscia del ghiaccio con una mano, la dissolse senza alcun problema, sussurrando: «Non mi chiamo Winter senza motivo, Kimmy.»

Sbalordita e senza parole, la donna fissò a occhi spalancati il ghiaccio che, sotto il tocco leggero dell'amico, si sciolse come neve al sole per permettergli di passare oltre.

Una volta all'esterno della barricata, lui richiuse il passaggio e, sorridendo alla sua donna, al suo amore, alla sua amica, le promise: «Tornerò tra poco, te lo prometto.»

Kim, spaventata oltre ogni limite, iniziò a picchiare i pugni contro la lastra ora perfettamente solida del ghiaccio mentre, a gran voce, urlava: «Win! Win! Torna subito qui! Non lasciarmi da sola!»

Sotto gli occhi sgranati della donna, lui si ricoprì di ghiaccio limpido e purissimo e, roco, mormorò in risposta: «Non sei sola, Kimmy. Io e il ghiaccio siamo la stessa cosa. E nessuno dei due ti abbandonerà.»

Detto ciò, spalancò la porta del campo base e si riversò fuori come un dio furente, affrontando una nuova raffica di mitra senza rimanerne minimamente offeso.

«Winter! Winter!»

Kimberly urlò a squarciagola, fissando l'intera scena con aria smarrita, non comprendendo appieno quello che stava succedendo.

Ciò che i suoi occhi avevano scorto era reale?

Com’era possibile che le pallottole rimbalzassero sul corpo di Winter?

Com'era possibile che lui potesse manovrare il ghiaccio come una cosa viva?

Com’era possibile che Winter potesse muoversi a quel modo, come fuoco liquido e freddo?

Che diavolo stava succedendo, nella sua cavolo di stramba vita?

Inginocchiandosi lentamente a terra mentre Win faceva scempio delle persone giunte lì per ucciderli, Kim iniziò a rammentare immagini del passato, voci sussurrate nell'ombra.

Come un colpo di fucile sparatole nel bel mezzo del cervello, ricordò all’improvviso l'inverno del suo ultimo compleanno passato con gli Hamilton.

Insonnolita, si era alzata da letto più presto del solito e, con ancora negli occhi i residui del sonno, aveva scostato la tenda di pizzo per osservare il giardino dove, il giorno precedente, avevano fatto i pupazzi di neve.

Li aveva individuati subito ma, assieme a loro, aveva scorto anche Winter che, con la maestria di un direttore d'orchestra, stava sollevando interi blocchi di neve per dare vita a un bellissimo igloo nel giardino.

Subito, aveva sbattuto gli occhi con aria confusa, se li era stropicciati con le mani per poi tornare a guardare il giardino alla ricerca della figura dell'amico.

Non aveva trovato nessuno.

Si era data della sciocca e, senza più pensarci, era scesa in salotto per scoprire che regali vi fossero sotto l'albero: visto che compiva gli anni in prossimità del Natale, aveva sempre avuto una deroga per poterli aprire tutti in un sol giorno.

Ora, di fronte a quello spettacolo incredibile e terrificante al tempo stesso, rammentò quell'episodio e comprese che no, non erano state solo sue fantasie e sì, Winter era veramente in grado di manipolare il ghiaccio.

Come, restava da capirlo.

Quel che vide attraverso la porta aperta fu follia pura.

Stalagmiti di ghiaccio scaturirono dal suolo, interi blocchi di neve vennero scaraventati con violenza contro gli uomini armati e Winter, ricoperto di ghiaccio finissimo, mosse con sincronia perfetta le sue armi improbabili.

Non passò più di  un minuto, ma per Kimberly durò un’eternità.

Quando il pericolo scemò, il ghiaccio che fin lì l'aveva protetta scivolò via come richiamato all'ordine da un ignoto padrone.

Ritirandosi, lasciò alle sue spalle gli squarci praticati nel pavimento, tornando a formare uno spesso e compatto strato sotto la base del rifugio.

Fissando quei solchi con aria spaesata, Kim rimase seduta a terra senza sapere bene cosa fare, troppo sconvolta anche solo per parlare.

Fu così che Winter la trovò, al suo rientro.

Gli occhi vacui, le mani tremanti e la bocca socchiusa.

Spiacente, le sfiorò una spalla solo per vederla sobbalzare impaurita. Non aveva desiderato manifestarsi a lei in quel modo, ma non aveva potuto fare altrimenti, per salvarla.

«Kimmy...» sussurrò lui, stando ben attento a non toccarla più.

Lei sbatté le palpebre come per metterlo a fuoco e,  non appena il suo sguardo si fece più lucido, Winter le sentì chiedere a sorpresa: «L'igloo. Lo costruisti tu...nello stesso... nello stesso modo?»

Vagamente stupito dalla domanda, l’uomo impiegò qualche attimo per comprendere a cosa si stesse riferendo l'amica ma, quando la sua mente ricollegò i fatti, sorrise spontaneamente e annuì.

«Sì. Quando gli Elementali dell’Acqua mi avvertirono della tua presenza, mi nascosi, sperando tu non avessi visto troppo.»

«Pensai di essermi sognata tutto» mormorò pensosa Kim, intrecciando le braccia attorno al corpo.

Sembrava così piccola e indifesa, in quella posizione!

Winter fu tentato di stringerla a sé, di baciarla per chetarne le paure ma si bloccò, imponendosi di non toccarla finché lei non si fosse nuovamente sentita al sicuro con lui.

Era così difficile, però, sopportare di vederla in quello stato e non fare nulla per aiutarla!

«Perché riesci a farlo? Sei... sei come l'Uomo Ghiaccio degli X-Men?» borbottò Kim, fissandolo di straforo.

Win rimase così basito da quell'uscita – solo Kim avrebbe potuto pensare a una cosa simile, in quel momento! – che, per lui, fu più logico scoppiare in una risata sguaiata che rispondere.

Passandosi una mano tra i folti capelli neri, Win scosse il capo ed esalò: «Oddio! No che non sono un X-Men!»

«E non ridere di me!» sbottò lei, tirandogli un pugno contro un braccio. «Che dovrei pensare, scusa?!»

«Perdonami, Kimmy... hai ragione. Tutta questa situazione è assurda, ma non posso risponderti adesso. E' probabile che quelli non fossero gli unici uomini sulle nostre tracce. Dobbiamo allontanarci alla svelta, prima che arrivino i rinforzi» si scusò in fretta lui, levandosi in piedi prima di allungarle una mano con aria vagamente insicura.

Kim la fissò a lungo, notandone il lieve tremolio nonostante l'apparente sicurezza di Win.

Fu quello a convincerla.

Afferratala, si lasciò tirare in piedi prima di ritrovarsi avvolta dal corpo caldo e imponente di Winter che, tra i suoi capelli, mormorò: «Non dovrai mai temere nulla da me, Kimmy. Te lo prometto. Ti proteggerò.»

«Sei caldo» esalò lei, sorpresa.

Lui ridacchiò, annuendo e, scostandola da sé per scrutarla in viso, le spiegò: «Ho sangue nelle vene esattamente come te, solo che il mio è un po' speciale.»

Kimmy accennò un sorriso, annuendo, e infine gli domandò: «Ora posso chiamarti Iceman?»

Winter si fece nero in viso e, lapidario, sentenziò: «No.»

 
≈≈≈
 
«Ma che diavolo...?» esclamò Sasha, bloccando la motoslitta non appena si rese conto che i corpi stesi a terra, di fronte al campo base degli americani, erano quelli dei suoi compagni.

Insieme agli uomini con lui, Sasha smontò lesto dalla motoslitta per avvicinarsi a ciò che rimaneva dei cadaveri martoriati dei suoi amici e parenti e, nel notare con quanta violenza le carni fossero state divelte dalle ossa, l'uomo rabbrividì.

Quale forza poteva creare simili danni? Cosa nascondevano, gli americani, dentro quel rifugio?

Estratta la Glock dalla fondina da cintura, Sasha si incamminò guardingo in direzione del rifugio dopo aver fatto cenno ai suoi di circondare l'intera struttura.

Fece irruzione come un ariete in carica, ma si rese subito conto che, all'interno del campo base, non c'era più nessuno.

Confuso, fissò gli enormi squarci all'interno dell'edificio e la confusione che regnava nelle stanze.

Evidentemente, erano scappati in fretta e furia. Ma chi aveva maciullato i suoi compagni a quel mondo, facendoli sembrare dei quarti di bue in una macelleria?

Raggiunta una stanza piena di computer durante il suo veloce controllo, ne esaminò in fretta il contenuto prima di cercare, nei vari raccoglitori, le eventuali prove della loro colpevolezza.

Quando scoprì che, nel vano porta CD, mancava la registrazione di quel giorno, imprecò sonoramente.

I maledetti l'avevano portata con loro!

Boris lo avrebbe ammazzato di botte, per quello!

Ugualmente, non poté esimersi dal chiamarlo e, contrito, mormorò: «Siamo arrivati tardi, fratello. Hanno portato via tutto quello che ci serviva.»

«Dove diavolo è finito, Sergej? Perché non li ha fermati?» urlò incollerito Boris, quasi sfondando il timpano a Sasha.

«E' morto, Boris. Sono tutti morti.»

Singhiozzò, non potendo evitarlo e, con tono accorato, aggiunse: «Sono stati massacrati... li hanno fatti a pezzi. Letteralmente.»

Boris rimase in silenzio, confuso dalle parole apparentemente senza senso del fratello.

Com'era possibile che un gruppo selezionato di assassini, come Sergej e compagni, fossero stati messi a terra da un branco di scienziati? Cosa diavolo nascondevano, gli americani?

«Ci sono armi, nel rifugio?» chiese allora Boris, sempre più costernato.

«No. Anzi, il campo base sembra preso a staffilate. Penso che la stessa cosa che si sia abbattuta sui nostri amici, abbia anche massacrato il rifugio. Solo, non ci sono i corpi morti degli americani» gli spiegò sommariamente Sasha, guardandosi intorno con aria disperata.

«Trovali, Sasha. Trovali e portali da me. Mi farò dire da quei maledetti come hanno ucciso i nostri amici, dopodiché farò fare loro la stessa fine» ringhiò Boris, la voce resa ispida dalla rabbia.

«Sicuramente si staranno dirigendo a Wales come gli altri. Devi prenderli prima che consegnino le prove alle autorità.»

«Lo farò, Boris. Li prenderò» annuì Sasha, pur non essendone molto sicuro.

Interrotta la comunicazione con il fratello, urlò ai suoi uomini di depredare la dispensa prima di partire poi, uscito che fu dal rifugio, lanciò un'ultima occhiata ai suoi compagni morti e mormorò addolorato: «Se potrò, vi vendicherò.»

Niente era andato come sperato, in quella missione e, se non avessero portato le armi ai tong1 di Macao, sarebbero stati casini per tutti.

Lui l’aveva detto, a Boris, che fare affari coi cinesi avrebbe portato loro solo rogne, ma mai nella vita si sarebbe mai aspettato di dover rischiare così tanto.

Ora erano davvero in un bel guaio.

Se i tong avessero scoperto che i loro traffici erano stati scoperti, li avrebbero usati da stuzzicadenti per le olive dei loro cocktail ma, se li avessero presi gli americani, forse sarebbe stato peggio.

Non aveva nessunissima intenzione di finire in una prigione federale americana, dove i russi erano visti peggio degli stupratori e degli assassini.

Doveva trovare assolutamente quegli scienziati e sperare che, dai loro computer, non avessero già mandato alla polizia il filmato del loro assalto.

 
≈≈≈
 
La notte era calata da ore, ma Winter stava ancora proseguendo sul ghiaccio con la stessa sicurezza che avrebbe provato se fossero stati in pieno giorno.

Kim contava sul fatto che, manovrando il ghiaccio come un incantatore di serpenti faceva con i suoi cobra, sapesse esattamente  cosa stava facendo, ma un briciolo di paura era comunque insito nel suo cuore.

Tutto quello che era successo quel giorno era stato troppo strano, troppo traumatico, troppo simile a un film dell'orrore perché lei potesse stare effettivamente tranquilla.

Si era comunque imposta di calmarsi, almeno finché Winter non avesse trovato il tempo di parlarle.

La sua pazienza, però, era ormai agli sgoccioli.

Fortunatamente, Win rallentò nei pressi di uno spuntone di ghiaccio, dietro cui nascose la motoslitta e, dopo essere sceso con un agile movimento di gambe, mosse un poco le dita come per accarezzare l'aria.

Sotto gli occhi sgomenti di Kim, una calotta di neve e ghiaccio si levò dal terreno gelido per formare un piccolo igloo, perfetto nelle dimensioni e nella forma.

Sbattendo più volte le palpebre come per sincerarsi di essere sveglia, la donna si inginocchiò per infilarsi all'interno del nascondiglio di fortuna, subito seguita a ruota da Winter.

 Accoccolatosi accanto a lei, le chiese con un mezzo sorriso: «Da dove vuoi che cominci?»

«Sei un alieno?» gli buttò in faccia lei, intrecciando le gambe a terra prima di scostare dalla testa il cappuccio della giacca.

All'interno dell'igloo la temperatura era di poco superiore allo zero mentre, all'esterno, era molto al di sotto dei quaranta gradi Fahrenheit, perciò poteva affermare senza problemi di stare bene, nonostante tutto.

Winter la fissò scettico dopo quell'uscita, ma si astenne dal fare battutacce in merito e, nel togliersi i guanti, si limitò a scuotere il capo con aria divertita.

«Sono un essere umano al cento per cento.»

«Sei un mago, allora? Come Harry Potter?» gli domandò allora lei.

«Guardi un po' troppi film, Kimmy» le fece notare Winter. «Il mio sangue ha origine ancestrale. Discendo dai vecchi signori dell'Irlanda, da coloro che diedero vita ai miti e alle leggende del mio popolo. In me scorre quell'antica magia, come essa scorre nella mia famiglia da generazioni.»

Kim  allora lo fissò strabuzzando gli occhi ma rimase in silenzio ad ascoltarlo e lui, approfittandone, continuò dicendo: «Io sono il Guardiano di Yule, il Dominatore delle Acque. Posso manipolare l'acqua in qualsiasi suo stadio, sia esso liquido, solido o gassoso. Per questo ho potuto manipolare il ghiaccio per salvarci, oggi e, allo stesso modo, l’ho manipolato per permettere a Malick e gli altri di andarsene dal campo.»

La donna annuì lentamente, digerendo a stento ciò che l'uomo le aveva appena detto e, con la mano inguantata, disegnò distrattamente un ghirigoro sulla neve.

«Quindi, se tu volessi, potresti fare una statua di neve anche con questa piccola manciata?»

Sollevò il guanto ricolmo di neve e Winter, aggrottando leggermente la fronte, fece roteare i cristalli fino a formare una piccola rosa nivea.

Kim la scrutò allibita, testimone incredula di qualcosa di impossibile.

O così aveva creduto fino a quel momento. Adesso non era certa in cosa poter credere.

«Perché... perché tu?» gracchiò, poggiando a terra con delicatezza la bellissima rosa.

«Mi piacerebbe pensare che il motivo sia romantico, o eroico, ma non è così. Una nostra vecchia antenata venne rapita per diletto da uno dei Tuatha de Dannan, gli antichi dèi celtici di cui si narra nel ciclo degli eroi dell'Ulster, per intenderci. Ti lascio immaginare il resto. La donna rimase gravida del dio e diede alla luce quattro gemelli, cui vennero riconosciuti i quattro poteri degli elementi come ricompensa per la violenza subita dalla loro madre.»

Con una certa dose di ironia, Winter chiosò: «Chi governa la Ruota del Destino non prese affatto bene quel rapimento – andava contro alle sue decisioni – e tentò a quel modo di porre rimedio alla follia del dio.»

«Non mi stai dicendo scempiaggini, vero?» borbottò Kim, stringendosi le ginocchia al petto per potervi poggiare il mento.

«Pensi orchestrerei una storia simile per farti colpo? E' assurda anche per me che la conosco da quando sono nato!» ridacchiò senza allegria Winter.

«Arianrhod, la Signora dei Destini, la Tessitrice, la padrona della Ruota d’Argento, decise di farci dono di questi poteri per ripagare all'affronto subito dalla donna, figlia di un potente re dell'epoca, e così la nostra stirpe ebbe inizio. Ai miei avi venne insegnato dalla dea stessa il governo degli Elementi e, tra le altre cose, vennero loro insegnate le regole basilari per il buon uso dei doni. Mai, se non per salvare la sua stessa vita, un Guardiano può usare il proprio potere per offendere. Ciò che noi possiamo fare con i doni degli Elementi è incredibile, persino ai nostri stessi occhi. Se volessi, potrei aprire un varco nelle calotte polari, o far abbattere un nubifragio in un qualsiasi punto della Terra, ma non è questo che ci è stato insegnato. Noi portiamo avanti le tradizioni ed il potere, non vogliamo divenire despoti e tiranni.»

Deglutendo a fatica, Kim esalò: «Sei... discendente di un... dio? Di un vero dio?»

Winter la fissò comprensivo, comprendendo pienamente la sua confusione e, sì, la sua paura a stento trattenuta e, annuendo flebilmente, asserì: «Ho sangue in parte divino, sì. Come tutti, nella mia famiglia.»

Sobbalzando, Kim  si coprì la bocca per reprimere uno strillo.

«Oh, cielo! Quindi, Spry... aspetta, aspetta. Spring... è la Terra, vero? E' il Guardiano della Terra!»

Winter annuì.

«Summer è la Signora del Fuoco e per esclusione, Autumn...»

«... padroneggia l'aria.»

Dubbiosa, Kim gli domandò: «Ma se Autumn padroneggia l'aria, e l'aria è ovunque... non poteva avvisarti di ciò che stava succedendo ai nostri colleghi? Magari sto dicendo una fesseria, però...»

Scuotendo il capo con fare infastidito, Winter borbottò: «Siamo ai ferri corti da almeno quattro anni. Io non parlo con lui, lui con me. Elementi compresi. Per questo non mi ha avvisato dell’arrivo di quegli uomini armati. L'acqua, fortunatamente, impiega meno tempo a condurre i messaggi, rispetto all'aria, così ho potuto agire per tempo per bloccare l’attacco e salvare i nostri amici. Ma, se le cose fossero andate diversamente, lui avrebbe saputo immediatamente che stava succedendo qualcosa a persone legate a me, e mi avrebbe avvisato nel breve tempo di un battito di ciglia. Oppure, avrebbe scatenato una tempesta prima del loro arrivo, evitandomi di agire di corsa e in modo grossolano come invece ho fatto. L’acqua ha potuto ‘vedere’ le loro armi solo quando le hanno spianate, l’aria l’avrebbe saputo per tempo. Ma da quando abbiamo litigato, i nostri Elementi non si parlano.»

«Cristo... Santo» sbottò lei, ancora vagamente incredula.

«Se ci fosse stata Erin nei paraggi, forse...» mormorò pensoso Winter, rimuginando tra sé.

Sobbalzando nuovamente, Kimberly afferrò un braccio dell'uomo ed esclamò sconvolta: «Cosa?! Ripeti per favore?!»

Dandosi mentalmente dell'idiota, Win sospirò  e non poté che dare una spiegazione alla sua infelice uscita.

«Mia moglie Erin. Non potei salvarla dal suo destino... nessuno di noi può ingannare la Nera Signora, è una delle regole primarie che ci vengono insegnate. Comunque, all'atto della morte, legai il suo spirito alla bruma, che è mia suddita devota, e permisi al suo spirito di rimanere in quella forma per veder crescere suo... nostro figlio.»

Impallidendo leggermente, Kim sussurrò nervosamente: «La voce che udii quel giorno, allora...»

«Era lei, sì» assentì Winter. «Mi aveva aiutato a preparare il tuo regalo di compleanno.»

«Oh, mio Dio!»

 Gli occhi della donna erano spalancati per lo sconcerto.

«Kimmy, tutto bene?» si informò subito Winter, sfiorandole una mano con la propria.

Kim la avvertì stranamente fredda al tatto e, rimessasi a sedere per bene, fissò attentamente Winter in viso prima di domandargli sospettosa: «Perché io sto relativamente bene, mentre tu sei freddo come un ghiacciolo?»

«Non preoccuparti» le sorrise bonariamente lui, scuotendo il capo.

Non vedendoci chiaro, Kim gli puntò un dito contro e ringhiò: «Ho il diritto di sapere, Win! Dimmi che sta succedendo!»

Sospirando esasperato, Winter la fissò malamente, indeciso se mandarla al diavolo o ammettere quel che stava combinando ormai da ore.

«Sei sempre stata più curiosa di una scimmia, ma speravo che il tempo ti avesse ammansita.»

«Per niente, mio caro. E ora spiegami.»

Il suo sguardo volitivo disse all’uomo che non l’avrebbe affatto scampata.

«Sto riscaldando il tuo corpo grazie all'acqua in esso contenuta ma, per farlo, devo raffreddare il mio. Tutto qui. Niente di strano» le spiegò sommariamente lui, scrollando le spalle come se non stesse facendo nulla di che.

«Che cosa?! E perché?» biascicò lei, terrorizzata.

«L'energia non è inesauribile quindi devo gestirla, Kimmy. E, a proposito di energia, vedi cosa c'è nello zaino. Ho fame.»

Winter liquidò in fretta l'argomento, ghignando al suo indirizzo per smorzare le sue paure.

«Non me la racconti giusta... comunque, è il caso che mangiamo entrambi.»

 Allungate a Win un paio di barrette energetiche, Kimmy ne prese una per sé prima di chiedergli: «Quanto impiegheremo per raggiungere Wales?»

«Se non si scatenerà la tempesta che si sta avvicinando da ovest, meno di un giorno. Diversamente, non saprei.»

«Non potresti chiamare Autumn e dirgli di spostarla? Insomma, lite o non lite, voi...»

Bloccandosi non appena scorse sul viso di Winter una rabbia pura come il diamante, si tappò la bocca all’istante.

«L'avete presa brutta, eh?»

«Già. Teoricamente potrei controllarla anch'io, una volta giunta sulle nostre teste, ma sarebbe davvero troppo anche per me tenere a bada la tempesta, i nostri inseguitori, la tua temperatura corporea ed il ghiaccio sotto i nostri piedi. Non sono onnisciente.»

Nel dirlo, le ammiccò comicamente.

«Dici che ci stanno ancora inseguendo?» mormorò turbata lei, mordendosi pensosa il labbro inferiore.

«Gli Elementali del ghiaccio me lo confermano» assentì Winter, distendendosi su un fianco non appena ebbe terminato le barrette.

«Cosa sono… gli Elementali?» domandò a quel punto la donna, imitandone la postura. Anche lei era stanca morta, e aveva bisogno di stendersi.

«Puoi vederli come folletti, o fate. A seconda della loro natura, assumono forme diverse. Gli Elementali del ghiaccio sono piccoli folletti bianchi coronati da cristalli multiforme, per esempio.»

«Wow» esalò lei, sorridendo spontaneamente.

Lui replicò al suo sorriso prima di allungare una mano verso Kim, a palmo aperto.

«Avvicinati a me, Kimmy.»

Kimberly annuì, accoccolandosi accanto a lui perché Winter potesse abbracciarla da dietro e, vagamente turbata, gli domandò: «Siamo sicuri che tua moglie non si offenda?»

«Perché ti sto stringendo per scaldarmi? Non credo. Ma non si offenderebbe neppure se il motivo fosse diverso» ridacchiò lui, affondando il viso nei suoi capelli. «Hanno sempre avuto un buon profumo.»

«Winter...»

«Kimmy…» mormorò lui, imitandone il timbro vocale.

«Non sono di marmo, sai?» si arrischiò a dire lei, arrossendo nonostante tutto.

«Lo so. Ma mi piace stringerti a me. Ti da noia?»

«No, ma... insomma... forse...»

«Da quando in qua balbetti?» le domandò, scostandosi per farla volgere verso di lui.

L'oscurità era totale, nel piccolo rifugio di ghiaccio, ma Kim percepiva su di sé il suo sguardo di ghiaccio bollente, come se lui potesse vederla nonostante tutto.

Era difficile stargli così vicino, toccarlo, senza pensare a quanto avrebbe voluto fare – e avere – di più.

Ma ora che sapeva che sua moglie poteva vederlo in qualsiasi momento, e parlare addirittura con lui, era difficile persino accettare di pensare simili cose di Winter.

«Non hai idea di quello che ho provato, la prima volta che ti vidi comparire nell'ufficio.»

Rise sommessamente, nel dirlo.

«Un'idea me l'ero fatta» replicò bonaria, Kim. «Devi aver pensato: “oddio, che ci fa quella, qui!?”... o qualcosa di simile.»

«Per niente» ribatté con un sospiro Winter. «Ho pensato: “E' Kimmy! La mia Kimmy!”»

«La... tua... Kimmy?» esalò la donna, avvampando in viso e ringraziando l'oscurità della notte che ne preservò il segreto imbarazzante.

Winter sorrise nella notte e annuì, pur sapendo che lei non avrebbe visto il suo gesto.

«Hai sempre avuto un posto speciale nel mio cuore, Kimmy, fin da quando ti incontrai la prima volta. Non hai idea di quanto, il separarci, mi abbia addolorato. In seguito, non ti cercai perché io e la mia famiglia stavamo cercando di raddrizzare il nostro futuro, ed io non potevo darti tutto ciò che avrei voluto. Poi... »

«Poi ti sposasti.»

Kim sorrise, lieta suo malgrado che anche Winter avesse considerato importante la loro amicizia e che, a quanto pareva, anche per lui avesse significato qualcosa di più.

Winter scosse il capo, mesto, e precisò: «Zia Brigidh si fece carico di prendere in mano le redini della famiglia quando i miei genitori morirono e, tra le altre cose, questo volle anche dire addestrarci al potere e trovare una moglie al primogenito della famiglia Hamilton, che nel caso specifico sarei io, in quanto primo nato.»

Kim si irrigidì tra le sue braccia, presagendo ciò che Win le avrebbe detto a breve e, tesa, lo ascoltò in silenzio.

«Trasferirsi in America, per i miei genitori, aveva significato allontanarci da antiche e inutili usanze, che loro ritenevano ingiuste e lesive della nostra libertà. Scelsero Washington per la rete di potere che si trova nelle sue stesse fondamenta, e che è in grado di amplificare i nostri doni, come di tenerci al riparo da coloro i quali hanno i nostri stessi geni. Ci sono poche città, al mondo, dotate di questa peculiarità. Avrebbero potuto scegliere Praga, San Francisco, Torino,… sarebbe successa la stessa cosa. I padri fondatori  di Washington iscrissero un pentacolo di potere per benedire la nascita della novella capitale degli Stati Uniti e, così facendo, crearono un luogo ideale per persone come me.»

«Quindi, tutto ciò che si dice sui massoni e sugli ipotetici simboli che si possono scorgere nella pianta della città... è tutto vero?» gracchiò Kim, stupefatta.

«Sì. E questo ci riporta al mio matrimonio» le spiegò Winter. «La nostra magia si basa sui quattro Elementi, che noi governiamo grazie ai doni ricevuti da Arianrhod, ma esiste un quinto vertice, nel pentacolo.»

«E' vero. Il pentacolo ricorre spesso nei riti druidici.»

Kimberly cercò disperatamente di ricordarsi qualcosa sulla mitologia celtica, ma ci pensò Winter a dissipare i suoi dubbi.

«Da sempre, il primogenito della mia famiglia ha il dovere di creare il quinto vertice, che rappresenta lo Spirito» ammise Winter, sorridendo amaramente nell’oscurità.

Kim impiegò qualche attimo per comprendere le infinite ripercussioni di quelle parole e, rabbrividendo tra le braccia di Winter, esclamò sgomenta: «Malcolm! Lui è... oh, Santo Cielo!»

Annuendo, Winter mormorò: «Per dare vita al Guardiano dello Spirito, occorre che entrambi i membri della coppia abbiano sangue dei Tuatha de Danann, e la famiglia di Erin è imparentata con la mia da secoli. Lei era un’Accolita di Arianrhod, conosceva il mito e ne seguiva gli insegnamenti. Quando fu il tempo, zia Brigidh si mise in contatto con i suoi genitori, attuali Capiclan della Famiglia, e cercarono la donna adatta a me.»

«Proprio quello che i tuoi genitori non volevano» sospirò melanconicamente Kim.

«Esatto. Si erano allontanati dall'Irlanda proprio per evitare la prosecuzione di questa tradizione e speravano che, portandoci a Washington, loro non ci trovassero. E ci saremmo anche riusciti, se zia Brigidh non ci avesse smascherati» ironizzò senza alcuna allegria Winter, sfiorando con la fronte quella di Kim.

«Perché lo fece?»

«Perché noi eravamo giovani, senza una vera guida, e lei era terrorizzata all'idea di sbagliare, così si vide costretta a contattare i suoi genitori. Pensava realmente di fare la cosa giusta... non la biasimo per questo. E' già stato difficile, per lei, crescere quattro ragazzini come noi senza farci cadere nei guai a causa di poteri così enormi e non più sotto controllo.»

C'era affetto, nelle sue parole, ma anche un lieve accenno di rammarico.

«Eravate come dei bambini lasciati liberi di scorrazzare in un negozio di dolciumi» cercò di ironizzare Kim, sorridendo mesta.

«Qualcosa del genere. Inoltre, eravamo quasi senza soldi, perciò rischiavamo di essere portati via dai servizi sociali e spediti in famiglie diverse. Zia Brigidh non poteva permetterlo. Quando compii diciannove anni, mi disse quello che sarebbe stato il mio destino... e non ti dico come mi incavolai con lei.»

Ridacchiò, e aggiunse: «Su Washington si scatenò un tale nubifragio che, per poco, non mandò in tilt l'intera rete della metropolitana.»

Kim sorrise, immaginandosi un giovane e prestante Winter che, messo di fronte a responsabilità del tutto nuove e che, di certo, non avrebbe mai voluto assumersi, scatenava i suoi poteri per rabbia.

Accostandosi a lui, appoggiò il capo contro il suo torace.

«Quando ti presentarono Erin?»

«Qualche giorno dopo. Ero a casa in quel periodo, e mi stavo godendo una vacanza tra un semestre e l’altro di università. Ci frequentammo per un po', trovandoci vicendevolmente simpatici, ma dall'essere amici all'amarsi, ce ne corre» ammise Winter, chiudendo un momento gli occhi nel ripensare a quegli anni ormai chiusi nei suoi ricordi.

«L'amicizia è una buona base per creare un rapporto, però» gli fece notare Kim.

«Sì, ma ti fa sentire anche tremendamente a disagio, quando sai di impedire all'altro di trovare la vera felicità. Io ero quel genere di ostacolo, per Erin» replicò mestamente Winter.

“Sei sempre stato così testardamente cocciuto, Win...” sussurrò una voce nell'oscurità.

Kim sobbalzò tra le braccia di Winter, spaventata e, nello scostarsi da lui per guardarsi intorno nonostante il buio totale che li avvolgeva, gracchiò affannata: «Oddio! Quella voce! E' lei! E' lei!»

Win la attirò nuovamente a sé carezzandole la schiena per calmarla e, con tono vagamente ironico, celiò: «Certo che fai delle entrate...»

“Perdonami, Kimberly... avrei dovuto annunciarmi in qualche modo. Sono troppo abituata a sbucare all'improvviso, e Win ci è abituato, perciò... insomma, scusa.”

Una risatina contrita avvolse il corpo di Kim che, vagamente più tranquilla, mugugnò: «Sei Erin?»

“Il mio nome mortale era quello, sì. Ora sono una delle fate della bruma di Winter ed il mio nome è troppo complicato perché possa essere pronunciato dalla bocca di un essere umano, perciò puoi usare quello, se ti va.”

«Beh... piacere.»

Le sembrava la cosa più sciocca da dire, ma non le venne in mente nient’altro.

“Il piacere è reciproco... cugina.”

«Come?» esclamarono all'unisono i due, scrutando nel buio alla ricerca della figura di Erin.

I cristalli di ghiaccio che componevano il corpo fluttuante della fata divennero iridescenti e, mentre Kim sibilava per la sorpresa, Winter le domandò con ansia: «Che intendi dire?»

“Il legame è labile, ma esiste. Una sua pro-prozia era imparentata con la mia famiglia. E anche lei nacque a Yule. Mi ci è voluto un po' per scoprirlo e, purtroppo, non sono arrivata in tempo per... scusami, Win.”

«Non è colpa tua, Erin. E poi, in qualche modo l’ho pezzata. Da quel che riesco a percepire, Tim e gli altri dovrebbero essere più o meno arrivati a destinazione. E, se non altro, sappiamo perché Kimmy è in grado di vederti e sentirti» scosse il capo Winter, come per liquidare le scuse della fata.

La figura evanescente, che emanava una luce debole sufficiente per rendere visibili i corpi dei due giovani – oltre al proprio – , si accomodò a terra a gambe intrecciate, come se un simile gesto le venisse naturale.

Curioso, pensò Kimberly, che a farlo fosse una creatura formata di cristalli di ghiaccio.

“Per il momento, coloro che vi cercano sono fermi a meno di sei miglia da voi, discostati di otto gradi a nord, ma hanno motoslitte più potenti e si avvicineranno di sicuro, se non intervieni. Gli inseguitori dei vostri compagni sono più lontani, ma non di molto.”

Imprecando, Winter ringhiò: «Devono aver preso quelle dei tipi che ci hanno sparato. Avrei dovuto distruggerle.»

“Ormai il guaio è fatto. Io posso fare ben poco, senza il vento. Posso muovere solo i cristalli che compongono il mio corpo e poco altro. Perché non avverti Autumn? Sono sicura che...”

«Non ti ci mettere anche tu, con lui! Non voglio neppure sentirlo nominare!» sibilò Winter, stringendo maggiormente a sé Kim.

Erin si volse a fissare la donna, che sorrise imbarazzata sotto il suo sguardo e, inclinando un poco il capo, ammiccò e asserì: “Oh, ho capito. Anche Kimberly te l'ha detto, e la cosa ti fa infuriare. Eppure, dovresti darle retta, sai? Questa vostra faida interna alla famiglia è assurda.”

«E' stato lui a cominciare, e non ho neppure la più pallida idea del perché ce l'abbia a morte con me ma, di certo, non sarò io a finire!» ringhiò contrariato Winter.

“E metteresti a repentaglio la vita di Kimberly solo per il tuo stupido orgoglio? Ti facevo più intelligente, Win.”

«Lei non corre pericoli» sbuffò per contro lui, cocciuto.

«E' interessante sentirvi parlare della sottoscritta come se non ci fossi» ironizzò Kim, sorridendo complice a Erin. «Perché non dai retta a tua moglie, visto che anche lei la pensa come me?»

“Oh, ma questo non conta... dovrebbe invece...” iniziò col dire Erin, prima di venire azzittita da un'occhiataccia di Winter. “Uffa, che zuccone senza speranza! Sei proprio un irlandese!”

«Come te, riccioli d'oro» ironizzò allora l’uomo, ammiccando per diretta conseguenza.

«Lo state rifacendo.»

Kim sorrise nel farglielo notare, suo malgrado divertita da quello strano battibecco.

Se non fosse stata così spaventata dall’intera situazione, probabilmente avrebbe urlato come una pazza, a sentir parlare qualcosa di molto simile a uno spirito, ma in quel momento non ne aveva davvero la forza.

E poi, Erin le piaceva.

“Non posso contattare Autumn e lo sai, Win. Ma tu sì. Avvertilo del pericolo e fatti aiutare. Sono certa che lo farà” lo pregò allora Erin, avvicinandosi a Kim fino a sfiorare un suo braccio con una mano di cristalli di brina.

Kim la scrutò sorpresa, chiedendosi perché si stesse schierando in sua strenua difesa.

Quando la udì parlare nuovamente, si stupì ulteriormente della sua veemenza: “Andiamo, Win, è la tua mo chuisle!

«Erin, smettila. Lo so benissimo, e proprio per questo non metterò mai la sua salvezza nelle mani di Autumn. Non mi posso fidare di lui. Baderò io a lei. Punto» sentenziò senza mezzi termini Winter, chiudendo così l'argomento.

Erin sospirò, carezzò debolmente il braccio di Kim prima di levarsi in piedi con un movimento praticamente istantaneo e sussurrare spiacente: “Non volevo ferirti, Win... e capisco cosa vuoi dire. Sarò nei dintorni, se avrete bisogno di me.”

Detto ciò, svanì come era giunta e la luce emanata dal suo corpo traslucido scomparve in un battito di ciglia, riportandoli immediatamente nell'oscurità più totale.

Winter allora sospirò stancamente, reclinando il capo fino a sfiorare la spalla di Kim che, turbata dalle ultime parole di Erin, domandò all'uomo: «Win, cos'ha voluto dire, Erin?»

Sfiorando il viso della donna col proprio, Winter le sussurrò all'orecchio: «Sei il mio cuore, Kimmy. Ecco cos'ha voluto dire. Per questo si è infuriata tanto... perché pensa che io non stia facendo tutto il possibile per salvare il mio cuore.»

Kim esalò un sospiro di pura sorpresa prima che il suo respiro venisse inghiottito dalla bocca di Winter, premuta sulla sua in un bacio che sapeva di possesso, di ricordi e di sollievo.



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1 tong (cinese): è il termine orientale con cui si  identifica la mafia.

N.d.A: spero, a questo punto, di aver chiarito qualche dubbio su tutta la faccenda.

Approfitto di questo spazio per ringraziarvi per avermi seguito fino a qui. Buon Natale e Buon Anno!!

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Capitolo 11
*** X. ***


10.
 





Era sveglia, o stava sognando?

Doveva essere desta, perché difficilmente avrebbe sognato di baciare Winter nel bel mezzo di un igloo di fortuna, inseguiti da assassini armati di tutto punto e aiutati da uno spirito fatto di brina.

Eppure... le sembrava tutto così irreale. Così fuori dal mondo.

La bocca morbida e fredda di Winter solleticava la sua, dolce, carezzevole, quasi restia a impossessarsene completamente, come se temesse un suo rifiuto.

Pensò lei a chiarirgli le idee.

Avvolse le braccia attorno al collo di Winter e lo attirò a sé per approfondire il bacio. 

Quanto si era trasformato, il suo sentimento nei confronti del vecchio amico d’infanzia, in quei lunghi anni di separazione?

Quanto era cresciuto?

Le loro lingue giocarono, si inseguirono, guizzarono lievi come battiti d'ali di farfalla fin quando la passione non prese il sopravvento e Winter la spinse schiena a terra, schiacciandola sotto il suo peso ed esigendo di più, molto di più.

Kim ansimò, si aggrappò ai capelli folti di Win attirandolo ancor più a sé, sussurrò il suo nome più e più volte prima di cominciare a comprendere cosa stava succedendo tra loro e, soprattutto, dove si trovavano in quel momento.

«Win...» ansò lei, scostando la bocca un secondo per riprendere fiato.

«Kimmy...»

«Win, aspetta!»

«Cosa? Che succede?» mormorò lui, affondando il viso nel suo collo per scoccarle un bacio morbido e sensuale.

«Oh... mio … Dio...» esalò la donna, sgranando gli occhi e reclinando il capo all'indietro per facilitarlo nel suo compito esplorativo.

Un attimo dopo, tornò a risollevare il viso, ben decisa a non farsi distrarre da lui e, puntate le mani sul suo torace, mormorò quasi senza fiato: «Non possiamo! Non ora!»

«Scusa, scusa, scusa... ma è da tanto che...» ansò lui, crollando su un fianco per attirarla vicino a sé.

Kim ridacchiò, suo malgrado divertita dalla passione a stento controllata di Winter e, poggiandogli una mano sulla guancia per carezzarla, la donna gli domandò: «Da tanto che non lo fai, o da tanto che avresti voluto farlo con me?»

«Entrambe le cose» ammise lui, scoppiando a ridere e passandosi una mano tra i folti capelli neri. «Dio! Mi sono comportato davvero come un maniaco! Saltarti addosso a quel modo!»

Lei sollevò maliziosa un sopracciglio, replicando: «Non mi sembra di essermi tirata indietro... per lo meno, non finché non mi sono accorta che ci stavamo spingendo su un campo minato.»

«Non è certamente il luogo adatto per amoreggiare, questo è sicuro» ammise Winter a malincuore.«E io devo innanzitutto pensare a tenere in salute te e badare ai nostri nemici.»

«E alla tua salute chi ci pensa?» si informò preoccupata Kim, sollevandosi su un gomito per indirizzargli uno sguardo ansioso.

Non lo avrebbe visto comunque ma sperava che, per lo meno, avvertisse il suo sguardo su di sé.

«Tu.» 

Sorrise nell’oscurità e la attirò a sé per un altro bacio, stavolta più dolce, più delicato. 

«Ricordi quando ti diedi quel bacio sotto il ciliegio?»

Ridacchiando, Kim annuì e, tornando a sdraiarsi, asserì: «Avevo undici anni, e tu tredici. Era il tuo compleanno, e ti domandai che regalo desiderassi. Tu mi dicesti che avresti voluto sapere che sapore avevano le mie labbra. Fui così sciocca da accettare la tua richiesta e mi sollevai sulle punte dei piedi per stamparti un bacio con lo schiocco sulla bocca, e fui perduta.»

«Sapevano di miele e fragole, esattamente come adesso» mormorò Winter, perso nei suoi ricordi. 

«All'epoca non sapevo quanto quel bacio innocente mi avrebbe tenuto sveglio la notte, negli anni a venire. Ripensavo a te, a come stavi crescendo, a quanti ragazzi avresti baciato, a chi avresti concesso il tuo dono più prezioso... e stavo male, male da impazzire, perché io non ero con te a condividere tutto ciò.»

«Ti ritenevi, a torto, indegno di me?» gli domandò dubbiosa e sorpresa.

«Sì, perché tutto il mio tempo lo passavo a studiare, lavorare e imparare ad essere un bravo Guardiano. Non avrei potuto darti che l'ombra di me stesso, all'epoca, ed io volevo che avessi solo il meglio. Così lasciai che solo i ricordi di te riempissero i miei sogni» le spiegò con sincerità.

«Forse, è stato meglio così. Se ci fossi stata io, per te sarebbe stato ancora più difficile sposare Erin, e avreste finito con l'odiarvi. Così, invece, avete vissuto una bellissima amicizia e avete dato vita a un bimbo adorabile» rimuginò a voce alta Kim, stringendosi a Winter per dare maggiore enfasi alle sue parole.

«Non ti da noia che io abbia avuto una moglie?» le domandò allora lui, godendo della sua presenza, delle sue dita che giocherellavano con i bottoni della giacca. Di tutta quanta lei.

«Per quel poco che ho capito di Erin, è stata una persona fantastica in vita, e anche adesso ti vuole un mondo di bene. E' raro trovare amicizie simili, ed io sono felicissima che tu abbia potuto dividere una parte della tua vita con lei» gli spiegò Kimmy, non provando in alcun modo invidia per ciò che avevano condiviso.

«Sì, Erin era... è fantastica. Per questo avrei voluto che potesse amare l’uomo dei suoi sogni con tutta l'anima» sospirò lui, scuotendo afflitto il capo.

«E per questo ti sei negato la felicità, fino ad ora. Encomiabile, ma stupido. Non si può aggiustare un uovo rotto, e lei non ti fa una colpa per ciò che è successo» replicò Kim, sorridendo.

«Ora so che, da questo momento in poi, vi coalizzerete sempre contro di me.»

Winter ridacchiò lieto e sereno, attirandola in un abbraccio. 

«Tá mé chomh mór sin i ngrá leat, Kimmy...»

Quelle parole le suonarono oscure quanto dolcissime e, pur non comprendendone il senso, Kim seppe che dimostravano senza ombra di dubbio la forza dei sentimenti di Winter nei suoi confronti.

L'aveva visto allontanarsi, pensando che sarebbe stato un addio definitivo, e aveva tenuto nel suo cuore di bambina l'affetto incondizionato, l'amore ingenuo e la speranza di fanciulla intrinsecamente legati alla figura di Win.

Era diventata adulta lasciando che quei ricordi si sedimentassero dolcemente nella sua mente, come un memento di ciò che avrebbe potuto essere tra loro.

Aveva avuto le sue esperienze, si era fatta nuovi amici, aveva avuto qualche amante, ma nessuno aveva scalzato Winter dalla sua mente. 

Quando infine lo aveva incontrato nuovamente, cambiato e ferito nello spirito, tutto era tornato a galla ed i ricordi di un tempo si erano scontrati con la realtà dei fatti.

Aveva cercato di non confondere il Win bambino con il dottor Hamilton del NOAA ma, inevitabilmente, le due figure si erano fuse assieme non appena lui le aveva sorriso per la prima volta.

Sotto lo strato di ghiaccio che aveva ricoperto il suo cuore, il bambino che aveva adorato esisteva ancora.

Ed era divenuto un uomo da amare con tutta se stessa.

Sotto la scorza dura che si era creato attorno per sopravvivere, Winter era un uomo buono, pieno di passioni, innamorato del figlio e della famiglia.

Kim non aveva potuto nulla di fronte a quell’uomo così pieno di emozioni sopite e, come una calamita, era stata attirata dal suo centro di gravità. Ancora una volta.

Sorridendo nella notte, Kim mormorò: «Non so che vuol dire, ma il suono è bellissimo.»

«Ti amo tantissimo» sussurrò allora Winter. 

«Preferivo dirtelo in gaelico... mi piaceva di più.»

«Suona meglio, sì» assentì Kim sulle sue labbra. 

«Ti amo anch'io. Forse, da sempre. E' stato così difficile capire quanto c'era del passato a confondermi e quanto, del presente, mi stesse attirando a te.»

«E cosa ti ha fatta decidere?» le chiese allora lui.

«Winter bambino e Winter adulto sono la stessa persona, e le due Kimmy che sono dentro di me li amano entrambi.» 

Si sporse per baciarlo e, chiudendo gli occhi, sussurrò: «Ora riposa, mio dolce Iceman. Ne hai bisogno.»

Win ridacchiò e, nel darle un bacio sulla guancia, mugugnò: «'Notte, Kermit.»

 
≈≈≈
 
Il cielo plumbeo non prometteva nulla di buono quando, la mattina seguente, Kim e Winter ripresero il cammino verso Wales.

Le nubi ribollivano come furibondi sciami di vespe incontrollate e Win, nel lasciare la guida a Kimmy, le spiegò turbato: «I nostri inseguitori sono vicini e, se continua così, dovrò tenere a bada anche la tempesta. Dovrai guidare tu.»

La donna annuì nell'avviare la motoslitta e, scrutando l'orizzonte cupo, dichiarò: «Dovrai dirmi dove dirigermi. Io non posso percepire il ghiaccio come te.»

«Ti darò le correzioni di rotta mentre viaggiamo, non temere. Ora, però, muoviamoci.»

«Non potresti semplicemente... farli sprofondare nello Stretto come hai fatto al campo, con Tim e gli altri?» buttò lì Kim, scrollando le spalle.

Winter ridacchiò e, chinandosi a darle un bacio fuggevole sulle labbra rosee, chiosò: «Piccola distruttrice! Certo che potrei, ma in questo caso stanno procedendo in ordine troppo sparso per poter essere precisi e, se facessi saltare una porzione così grande di ghiaccio, i satelliti se ne accorgerebbero immediatamente. E come potremmo spiegare un'enorme voragine nel bel mezzo dello Stretto di Bering? Per come sono messi adesso i ghiacci, rischierei di riaprire il passaggio a Nord-Ovest, causando problemi non da poco all'ecosistema. No. Devo agire con prudenza» le spiegò con dovizia di particolari Winter, abbracciandola.

«Ma non temere. Tu sarai sempre al sicuro.»

«Veramente, starei più tranquilla se pensassi anche a te stesso, ogni tanto» precisò Kim, storcendo la bocca.

«Tenere al sicuro te è la priorità, per me.»

Sbuffando, Kim salì sulla motoslitta e ringhiò: «Erin ha ragione. Sei un testone senza speranza.»

Winter  allora scoppiò a ridere e, nel sedersi dietro di lei, le avvolse la vita con le braccia.

«Sono irlandese.»

«Oh, credimi! Ce ne siamo accorti tutti!» ridacchiò lei, prima di tornare seria. «Gli altri come stanno, adesso?»

«Stanno raggiungendo Wales,… non dovrebbe mancare molto, ormai. Questione di minuti» la informò Winter.

«Bene. Così, quando arriveranno, potranno correre in nostro aiuto» sorrise debolmente lei, cercando di confortare entrambi.

«Se tutto va come deve, sì» sospirò lui, mentre Kim iniziava ad accelerare.

«Cerca di essere ottimista, per favore. Non ho bisogno che tu faccia l’uccellaccio del malaugurio mentre abbiamo dei tipacci con i mitra dietro di noi» ci tenne a dire lei, immaginando solo a stento come potesse sentirsi.

Poteva ben immaginare che quella situazione lo stesse facendo vedere più nero del normale; aveva la sua vita da proteggere, dei nemici da controllare, un potere da tenere a bada e la sua identità da mantenere segreta.

Ne aveva a sufficienza per perdere le staffe quanto e come voleva.

«Sapere di poter fare cose incredibili e accorgersi di avere dei limiti è dura, credimi» ammise Winter, roco.

«Beh, vedrò di farti passare il senso di colpa, in qualche modo» gli promise con veemenza. «Da che parte?»

«Mantieniti sul grado e mezzo a est rispetto alla direzione indicata dal GPS. Basterà per trovare ghiaccio in abbondanza» le spiegò lui, parlandole all'orecchio.

«Signorsì, comandante.» 

Sorrise, e accelerò il passo.

Win si guardò indietro per un attimo, sapendo già che la loro velocità non sarebbe bastata a tenerli lontani dai loro inseguitori ancora per molto, ma era inutile spaventare Kimmy.

Come era inutile pensare a quanto, la tempesta sopra le loro teste, li avrebbe messi in difficoltà.

Maledizione, Autumn! Sei davvero uno stronzo!, pensò tra sé, deciso più che mai a non chiedere aiuto al gemello.

 
≈≈≈
 
Il tempo era pessimo, a Washington, D.C., e l'ansia di Malcolm era direttamente proporzionale ai fiocchi di neve che stavano cadendo sulla capitale degli Stati Uniti.

Erano giorni che non riusciva a parlare con suo padre, precisamente dal compleanno di Kimberly, che lui aveva voluto festeggiare in diretta Skype per omaggiare la sua nuova amica.

Le aveva fatto vedere con orgoglio, attraverso la webcam, il regalo che le aveva fatto – un portamatite in legno, decorato con una miriade di paillettes colorate – e, dopo averle fatto gli auguri, le aveva promesso una cioccolata al suo ritorno.

Subito dopo aveva parlato con suo padre, trovandolo più allegro e gioviale del solito e, da lui, aveva saputo del regalo che aveva fatto all'amica.

Malcolm ne era stato felicissimo, e si era complimentato con il padre per la bellissima opera.

Quelle erano state le ultime parole che si erano rivolti. 

Ogni volta che aveva tentato di mettersi in contatto con il campo base sull'Isola Piccola Diomede, dopo quel giorno meraviglioso, il segnale era risultato inesistente, come se fossero stati inghiottiti da un buco nero.

Anche quella mattina non fu diversa dalle altre e Summer, che stava preparando la colazione assieme a Spring, lo chiamò a gran voce dalla cucina esclamando: «Ehi, Mal, le cupcakes sono pronte!»

«Arrivo, zia!» replicò lui, spegnendo il computer prima di dirigersi mogio verso la cucina.

Quando vi mise piede, le due donne si volsero sorridendo verso di lui prima di perdere del tutto qualsiasi traccia di allegria, non appena si resero conto delle condizioni del nipote.

Materna e protettiva, Spring lo raggiunse in pochi, rapidi passi e, ansiosa, gli domandò: «Tesoro, che succede?»

«Papà non risponde neppure stamattina» borbottò Malcolm, accomodandosi al tavolo per poi fissare accigliato le meravigliose cupcakes preparate da Summer.

«Quell'uomo sa essere insensibile come un pezzo di legno, quando vuole» brontolò la vulcanologa, dando una pacca sulla spalla al nipote. 
«Scommetto che ti richiamerà nel pomeriggio, tutto contrito e spiacente.»

«Non so, zia... mi sembra così strano. E sento un peso qui, sul cuore» replicò tristemente Malcolm, appoggiando le mani sul torace con aria spaurita.

Accigliandosi immediatamente, Summer si piegò per incrociare lo sguardo del bambino e, fissandolo con i penetranti occhi verde e oro, gli domandò ansiosa: «Percepisci un pericolo, Mal?»

«Sai che non può ancora agire per mezzo del suo Elemento» protestò Spring, fissando malissimo la gemella.

Sbuffando, Summ scosse il capo di ribelli capelli rosso fuoco e lanciò un'occhiata venefica alla sorella.

«E' suo padre, coniglietto dei miei stivali! Il legame è forte a sufficienza perché possa ugualmente avvertire qualcosa!»

Infuriandosi immediatamente, Spring sospinse la gemella e sibilò: «Non chiamarmi coniglietto!»

«Ma lo sei, tesoruccio» ironizzò Summer, tornando a prestare la sua attenzione al nipote. «Mal, concentrati e dimmi cosa senti.»

«Se starà male, sarà solo colpa tua» si lagnò Spry, aggrappandosi alle spalle del bambino per dargli forza.

Malcolm però sorrise alla zia, replicando: «Non preoccuparti per me, zia Spry. Voglio farlo.»

«Bravo il mio campione! Tu sì che sei un Hamilton con i contro... beh, insomma, con gli attributi» balbettò Summer, scoppiando a ridere per la gaffe a stento evitata.

Malcolm ridacchiò mentre Spring sbuffava disgustata; era sempre così, quando erano insieme.

Summ era un'autentica forza della natura, a volte un po' sboccata, ma andava detto che avrebbe smosso mari e monti per il nipote, e di certo con maggiore veemenza rispetto a Spring che, di carattere, era più docile e mansueta.

Sorridendo alle due zie, Malcolm chiuse gli occhi e si concentrò su ciò che avvertiva nell'animo, ben sapendo che era lì che doveva cercare le sue risposte.

Mordendosi un labbro per il nervosismo, il bambino avvertì solo un profondo freddo nel cuore, oltra a una vaga luce calda provenire da una persona che non era il padre. Kimberly? 

Non poteva esserne sicuro, ma gli sembrava che fosse lei.

Riaperti gli occhi dopo quella che gli sembrò un'eternità, afferrò il bicchiere del latte per scolarselo tutto in un colpo solo e, con un certo impeto, esclamò: «Il papà è freddo come il ghiaccio. Non è come al solito. E con lui ci deve essere anche Kimmy. Mi è sembrato di riconoscere la sua aura, ma non posso esserne certo.»

«Sei stato bravissimo, caro. Ora mangia la tua cupcake mentre io e zia Summer vediamo di raccapezzarci.»

Senza dare il tempo a Summ di aggiungere altro, Spring trascinò la gemella nel salotto e, dopo essersi sincerata che la porta della cucina fosse ben chiusa, esalò spaventata: «Win sta combinando qualcosa che non va bene, non va affatto bene.»

La gemella annuì, turbata non meno della gemella, e asserì torva: «Sappiamo benissimo che lo spettro spirituale di Winter non è freddo, bensì caldo e pulsante, perciò ne deduco che tutto il suo potere, o quasi, lo stia usando per proteggere Kimberly da qualcosa.»

«Resta da capire cosa possa averlo costretto ad una simile contromisura. Cosa può essere successo?» mormorò dubbiosa Spring, passeggiando avanti e indietro per il salotto.

«Andrò al NOAA oggi stesso e chiederò a Big Mama se hanno ricevuto chiamate dal campo base. Tu, intanto, vedi di sentire Autumn e obbligalo ad intervenire. Non me ne frega un cazzo se quei due imbecilli hanno litigato. Lui è un Hamilton e, per Dio, deve ricordarselo ogni tanto!» 

Il tono di Summer non ammetteva repliche, ma Spring si sentì comunque in dovere di dire: «Guarda che, anche se non ti esprimi come uno scaricatore di porto, ti capisco lo stesso.»

La vulcanologa sogghignò  di fronte a quel rimbrotto e Spry, sospirando esasperata, prese il cordless per digitare il numero del fratello che, ormai da quattro anni, viveva stabilmente a Tulsa, in Oklahoma.

Dopo una serie quasi infinita di squilli, Autumn levò il ricevitore e mugugnò: «Che diavolo vuoi, Spring?»

Accigliandosi immediatamente a quel tono strafottente, la gemella assottigliò le iridi color cielo e sibilò: «Un 'ciao, sorellina, come stai?' è troppo, per te?»

«Mi stai chiamando dal telefono di casa di Winter, perciò ne deduco che lui non c'è. Quindi, ti chiedo nuovamente; cosa vuoi?» 

Il suo tono non cambiò di una virgola.

Summ sospirò esasperata di fronte all'espressione sempre più infuriata della gemella e, strappatole il telefono dalla mano, borbottò: «Sentimi bene, bello. Qui la faccenda è una sola; o ti decidi a scendere dal pero, e ti comporti da vero Hamilton, oppure resta pure lì a rassodarti le chiappe dietro ai tuoi tornado.»

«Summer! Sai che ti amo, vero?» scoppiò a ridere Autumn, graffiando l'aria con il suo tono sardonico. 

«Dimmi perché diavolo dovrei comportarmi da vero Hamilton, sentiamo...»

«Winter sta morendo.»

 
≈≈≈

Il primo colpo sibilò nell'aria quando, secondo l'orologio digitale del GPS, scoccarono le tre del pomeriggio.

Winter, parandolo con abilità grazie a uno scudo di ghiaccio, urlò a Kim: «Non rallentare per nulla al mondo e, soprattutto, tieniti a tre gradi a est rispetto al tracciato del GPS!»

«Va bene!» gridò lei di rimando, girando la manopola dell'acceleratore verso di sé mentre il suo cuore, che ormai correva a mille all'ora, balzò nel petto per la paura non appena percepì degli strani movimenti alle sue spalle. 

«Che stai facendo?!»

«Devo vederli, per proteggerti meglio!» le spiegò a gran voce, scavalcando il sellino della motoslitta per poggiarsi schiena contro schiena con Kimmy.

«Guai a te se ti fai un solo graffio! Non ho fatto la figura della donna sdolcinata solo per perderti ora!» sbottò Kim provando autentico, puro terrore all'idea che a Winter potesse anche solo scalfirsi un'unghia.

Win scoppiò a ridere, suo malgrado inorgoglito dalla preoccupazione della donna e dalla sua tempra che, nonostante il pericolo, balzò fuori come una furia.

Senza provare paura alcuna, dichiarò: «Ti rinfaccerò tutte le paroline dolci di questa mattina per il resto della tua vita!»

«Antipatico!» urlò lei, strillando subito dopo non appena un secondo colpo venne sparato nella loro direzione.

Winter parò con agilità anche quello, ma dovette fare i conti con un problema che aveva lasciato da parte fin da quando aveva iniziato a passare la sua energia a Kim.

Il suo corpo si stava prosciugando come una spugna strizzata con forza. 

Ma non poteva evitare di riscaldare il corpo di Kimmy, come non poteva esimersi dal tenere sotto controllo  lo spessore del ghiaccio sotto di loro, o la tempesta sulle loro teste. 

Se si fossero sbagliati nel transitare sulla calotta, sarebbero finiti in un crepaccio e, da lì, nell'acqua gelida che li avrebbe mandati in shock termico nel giro di pochi secondi.

Lasciare che i quintali di neve, che si stavano accumulando sulle loro teste, crollassero sullo Stretto con la virulenza di un Diluvio Universale non sarebbe stato meglio, ma contenerla era sempre più difficile.

No, il suo potere doveva essere spremuto fino all'ultima goccia per proteggerla.

Non gli importava se di lui non sarebbe rimasto che un guscio vuoto; Kim aveva toccato il suo cuore, con lei aveva assaporato il vero amore e, anche se per un attimo, si era sentito finalmente  e nuovamente completo. 

Il ghiaccio intorno a lui si era finalmente spezzato.

Perciò, non avrebbe permesso a niente e a nessuno di infierire sulla creatura che, assieme a Malcolm, era per lui la più preziosa al mondo.
I colpi degli AK-47 si fecero sempre più vicini e, per Winter, divenne più complesso pararne i proiettili col ghiaccio; doveva essere rapido non solo nel creare barriere, ma anche nello stabilirne lo spessore.

Non si poteva permettere di sprecare neppure una stilla di energia, e creare scudi troppo spessi sarebbe stato inutile quanto controproducente.

Muoverli in sincronia con i colpi inferti era già abbastanza complesso, destreggiarsi con scudi di ghiaccio troppo grandi sarebbe perciò stato sciocco.

E lui non lo era di sicuro.

Quando, però, uno dei proiettili perforò la crosta trasparente dell'ultimo scudo, che aveva letteralmente trascinato fuori dalla calotta di ghiaccio su cui stavano viaggiando, Winter comprese di essere al limite.

Non era più in grado di controllare adeguatamente i suoi poteri.

Lentamente, la neve iniziò a cadere in fiocchi sempre più grandi, sempre più fitti, non più tenuti a bada dalla gabbia di energia che Winter aveva espanso attorno a tutta l'enorme nube temporalesca.

Kim se ne accorse immediatamente e, urlando per farsi sentire da Winter, esclamò: «Tutto bene, lì dietro? La visibilità si sta facendo pessima!»

«Tutto a posto! Preparati a ballare, perché farò un po' di danni!» le rispose a gran voce lui, volgendo poi lo sguardo accigliato in direzione dei loro nemici che, ormai, si trovavano a poco meno di un quarto di miglio da loro.

Ligia all'avvertimento lanciatole da Win, Kimmy strinse con maggiore forza le manopole del manubrio della motoslitta mentre, tutt'intorno a lei, il ghiaccio iniziò a tremare.

Come preda di un terremoto dalla magnitudo sempre più forte, la calotta di ghiaccio che ricopriva lo Stretto iniziò a incrinarsi in corrispondenza delle motoslitte dei loro nemici.

Limitarsi a far tremare il ghiaccio senza spezzarlo era un autentico inferno, ma non poteva far esplodere metà calotta dello Stretto solo per salvarsi.

Sarebbe stato un autentico disastro.

«Che succede, Win!? Riesco a malapena a tenere la motoslitta diritta!» urlò spaventata la donna, tentando senza grosso successo di frenare il tremore folle che faceva ballonzolare la motoslitta.

Lui non rispose, troppo preso a respirare per non perdere conoscenza. 

Dopo aver controllato con lo sguardo ed i suoi sensi amplificati che gli inseguitori fossero caduti nei seracchi formatisi nel ghiaccio, gracchiò: «Prosegui... il tremore dovrebbe smettere tra...»

Le palpebre calarono senza che lui lo avesse ordinato, le ultime forze scivolarono via dal suo corpo senza che la sua mente potesse far nulla per fermarle. 

Come una marionetta senza più fili a trattenerla, si afflosciò su se stesso, urtando la spalla di Kim prima di rovinare a terra, ruzzolando più e più volte sulla neve ghiacciata.

Kimberly non fece in tempo a rendersi conto dell'improvviso cedimento di Winter, se non quando non percepì più il suo corpo accanto al proprio.

Spaventata, fermò di colpo la motoslitta, facendola sbandare sul ghiaccio prima di spegnerla e discenderne di corsa.

Urlando più e più volte il nome di Win, mentre il ghiaccio sotto di lei pareva sbatacchiato dai colpi di un martello infernale, Kimberly scivolò, cadde e si rialzò più volte prima di raggiungere il corpo immobile dell’uomo.

In lontananza, creste di ghiaccio spuntavano dalla calotta come i denti di uno squalo, bloccando di fatto qualsiasi avanzata nemica. 

Nel mezzo di quell’inferno di avvallamenti, guglie e seracchi, le motoslitte dei loro inseguitori non avrebbero più potuto uscirne intere, e questo li avrebbe rallentati a sufficienza… forse.

Senza badare minimamente a quello spettacolo della natura, Kim crollò in ginocchio al fianco di Winter e, terrorizzata, ne tastò il collo per controllare le sue pulsazioni.  

Lacrime calde le pungevano gli occhi nel tentativo di debordare, ma lei non vi badò. 

Con efficienza, iniziò a slacciargli la giacca per sincerarsi che non vi fossero ferite all'addome.

Ben decisa a non crollare di fronte alla paura che la stava divorando come una fiera assetata di sangue, Kim continuò nel suo esame preliminare prima di sollevargli la testa in grembo e mormorare tremante: «Win, ti prego, svegliati... Win...»

L'uomo non le rispose, pallido tra le sue braccia e privo di sensi.

Mordendosi un labbro, la donna si guardò finalmente intorno, mentre la neve continuava a cadere fitta. 

Fu a quel punto che comprese ciò che aveva prosciugato le ultime energie di Winter.

Quella muraglia di ghiaccio li aveva salvati dall’attacco dei loro inseguitori, ma lo aveva debilitato a tal punto da farlo crollare.

Ora era sola, tremendamente sola in quella landa gelata, lontana dal primo barlume di civiltà, possibile preda di orsi bianchi e, Dio non volesse, di altri uomini inviati da coloro che volevano ucciderli.

Chinandosi a baciare le labbra fredde di Winter, Kim mormorò tenace: «Non ti lascerò qui... non morirai. Tu. Non. Morirai.»

Aggiustando il colletto della giacca dell’amato, si chiese come avrebbe potuto fare a caricarlo sulla motoslitta. 

Winter era ben più alto di lei, e decisamente più robusto. E, di certo, Kim non era famosa per il sollevamento pesi.

Non potendo fare altro, lo lasciò steso a terra per tornare alla motoslitta e, dopo averla avvicinata a lui fin quasi a sfiorarlo, lo afferrò sotto le ascelle e iniziò a tirare.

«Dio! Perché non ho fatto palestra più spesso!?» sbottò, ritrovandosi a tirare inutilmente quel corpo enorme e completamente a peso morto.

«Maledizione, maledizione, maledizione! Win, svegliati! Non riesco a spostarti da sola!» 

Urlò a gran voce, ben decisa a non scoppiare a piangere, nonostante ne avesse una gran voglia, ma a nulla servirono le sue preghiere.

Si ritrovò a guardarsi intorno frenetica, controllando nuovamente che non vi fossero nemici in arrivo e, nell'osservare le guglie di ghiaccio che avevano bloccato le motoslitte che li avevano inseguiti fin lì, rabbrividì.

Non aveva davvero idea di cosa sarebbe successo, se non ci fosse stato Winter a creare quella protezione di ghiaccio.

«Pensa, Kim, pensa... e soprattutto, non piangere. Ti si congelerebbe la faccia» borbottò tra sé, continuando a strattonare il corpo esanime di Winter, steso inerme sulla neve.

Il punto non era tanto avvicinarlo quanto bastava per caricarlo. Il punto era sollevarlo.

Lei era sola e...

«Aspetta un momento...» esalò, spalancando gli occhi speranzosa. «Erin! Erin, mi senti?!»

Lo sapeva, era follia chiamare una fata composta di cristalli di brina perché l'aiutasse, ma...

In uno scintillare di acqua ghiacciata e all'apparenza fragile come cristallo, Erin comparve lì accanto a lei, iridescente e simile ad un arcobaleno e, sgomenta, sussurrò: “Cos'è successo?”

«Doveva essere allo stremo. Ha creato quella specie di seracco di ghiaccio come estrema risorsa per bloccare i nostri inseguitori, poi è svenuto. E' così freddo, Erin!» le spiegò succintamente Kim, stringendosi al petto il capo bruno dell’uomo.

Annuendo pensosa, la fata si volse per controllare i danni causati da Winter e asserì ombrosa: “Deve aver faticato non poco per circoscrivere l'energia e divellere solo quel poco ghiaccio laggiù. Non mi stupisce che sia svenuto, specie considerando tutto il potere che ha usato fino a qui.”

«Che intendi dire?» gracchiò sgomenta Kimberly, impallidendo in viso.

“Non voglio mentirti, perciò sarò franca. Il solo fatto di mantenerti calda sarebbe stato un peso sufficiente, per lui, visto che era già impegnato a scandagliare col suo potere la calotta di ghiaccio dello Stretto. Ma no, lui ha voluto fare l'eroe, come suo solito, e ha deciso di strafare. Teneva bloccata la tempesta impedendo alla neve di cadere e al tempo stesso, da quel poco che ho potuto capire, ha anche usato il suo dono per farti da scudo, giusto?”

Kim mormorò ansiosa: «Non so esattamente cosa stesse facendo ma, di sicuro, i colpi rimbalzavano contro qualcosa.»

Erin annuì ancora prima di sorridere a Kim e dichiarare: “Sei una donna coraggiosa... sono felice che Winter ti abbia ritrovata, alla fine.”

«Perché... dici così?»

“So che ha tenuto un quaderno con i tuoi successi, per anni. Me lo fece vedere, una volta. Al liceo, scrivevi per il giornalino scolastico, giusto?”

Sempre più allibita, Kimberly annuì debolmente e la fata, parcellizzando la sua figura per scivolare sotto il corpo di Winter, iniziò a sollevarlo sotto lo sguardo sconvolto della donna.

“Ti ha seguita per molto tempo, collezionando tutti gli articoli che scrivevi. Una volta mi disse che, per recuperare uno dei  giornalini, aveva addirittura frugato nei cestini davanti al tuo vecchio liceo. Era così orgoglioso, quando mi raccontava queste cose su di te.”

«Ma non eri...»

“Gelosa? No. Io e Winter siamo sempre stati molto chiari sui nostri rispettivi sentimenti, e sapevamo entrambi che nessuno dei due sarebbe mai arrivato ad amare l'altro così profondamente da cancellare qualsiasi altra persona dalla propria mente. Ci volevamo bene come amici, tutto qui. Anche per questo ascoltavo volentieri ciò che aveva da dirmi su di te. Anch’io avevo un innamorato, che lasciai in Irlanda per diventare la sposa di Winter. Anche per questo, ci capimmo al volo… provavamo le stesse pene d’amore.”

«Win mi ha detto che non mi ha mai cercata perché... non si riteneva degno di me. Non capisco cosa volesse intendere» le spiegò Kim, mentre aiutava le mani di bruma di Erin a posizionare Winter sulla motoslitta.

Era tutto così assurdo, ai suoi occhi, eppure stava accadendo sul serio!

Stava parlando con un fantasma di ghiaccio – il fantasma della moglie dell'uomo che amava – , e quel fantasma la stava aiutando a salvare Winter.

“Diventare ciò che è ora è stato difficile. Non si padroneggiano i poteri degli Elementi come se nulla fosse. Il training è durato quasi un decennio e, nel frattempo, tutti i gemelli hanno dovuto convivere con il fatto di non avere più la loro casa, i loro genitori, di dover crescere in un ambiente nuovo, dove non conoscevano nessuno. Dovevano aiutare Brigidh a tirare avanti così, quando non erano impegnati a scuola o nell'addestramento, lavoravano dove e come potevano per portare a casa un po' di soldi. Non hanno avuto un'adolescenza facile. L'università se la sono pagata grazie alle borse di studio conseguite per merito delle pagelle eccelse che avevano ottenuto, ma non fu facile... per nessuno di loro.”

Kim si sedette velocemente dietro il corpo di Winter, interamente addossato contro di lei ed Erin, per darle una mano, si mise tra l’uomo ed il manubrio dicendole: “Parti pure. Sosterrò parte del peso mentre raggiungi un punto in cui posizionarti per la notte.”

La donna annuì, preferendo non badare troppo al fantasma di brina che sorreggeva l'uomo che amava e, girata la chiave di accensione, diede gas.

Niente di niente.

Il motore non ne volle sapere di partire.

Accigliata, riprovò, ma nulla successe.

Erin a quel punto si guardò intorno al pari di Kimberly e, quando entrambe puntarono lo sguardo sul serbatoio, uguali espressioni di sconcerto e rabbia si dipinsero sui loro volti.

Uno dei proiettili aveva perforato il serbatoio, finendo con l’aprire un foro nella parte più bassa della parete d’acciaio, prosciugando letteralmente qualsiasi loro tentativo di fuga da quella landa.

«E adesso?» esalò Kim, lanciando un’occhiata verso il cielo scuro e purulento.

La neve non la smetteva di cadere e, entro breve, sarebbero congelati.

Doveva assolutamente trovare un posto dove far riposare Winter e, nel frattempo, sperare che nessun altro li stesse cercando per ammazzarli.

Pregava solo che Tim e gli altri avessero già messo in moto la cavalleria.

«Aiutami a sdraiarlo, Kimberly, poi monta la tenda del tuo zaino. Per ora, la cosa più importante è tenerlo al riparo dalla tempesta. Non sarà come l’igloo fatto da Win, ma è sempre meglio di niente» mormorò Erin, pensierosa.

Kimmy annuì e, con l’aiuto della fata, sistemò l’uomo accanto alla motoslitta.

In fretta, preparò la tenda e, sempre con l’aiuto di della fata, vi infilò all’interno Winter dopodiché, chiusi i lembi, osservò la sua spirituale compagna di avventure e sospirò tremula.

Lei le concesse un cauto sorriso, cui però non riuscì ad aggiungere parola. Anche Erin non sapeva cosa fare, in quel momento.

Stringendo a sé Win, Kimberly si chiese quanto tempo avrebbero potuto resistere, a quel modo e, tra sé, iniziò a pregare un Dio a cui, solitamente, si era rivolta ben poco, negli anni.

 
≈≈≈
 
La notte doveva essere calata, o almeno così lei pensava, ma era difficile dirlo in quell’uniforme oscurità che cancellava forme, spazio e tempo.

L’unica cosa che conosceva con certezza era il freddo pungente che tentava di trapassare le pareti della tenda, oltre alla totale mancanza di interventi esterni da parte dei soccorsi.

Nessuno li aveva ancora trovati. Né tra i buoni, né tra i cattivi.

«Quindi, sapeva che avevo studiato geologia?» chiese ad un certo punto Kim, cercando di rimanere sveglia nonostante sentisse le palpebre pesanti.

Aveva sfruttato la presenza di Erin per tutto il giorno nel tentativo di non perdere conoscenza e la donna, con somma pazienza, aveva risposto a tutte le sue domande e le aveva raccontato aneddoti della sua vita con Winter.

“Quando andasti all'università perse le tue tracce e, con la faccenda del nostro fidanzamento e tutto il resto, lasciò perdere. Una volta gli chiesi come mai non ti avesse più cercata e lui, con il suo solito sorriso generoso, mi disse che io ero sua moglie e che tutte le sue attenzioni dovevano andare a me. Avrei voluto picchiarlo, ma capii il suo punto di vista. Avrebbe sofferto, non potendoti avere, perciò sarebbe stato crudele insistere perché riallacciasse i rapporti con te o, quanto meno, che si interessasse della tua carriera.” 

Sorrise imbarazzata, e aggiunse: “Forse, avrei dovuto insistere di più, ma poi mi ammalai e...”

«Deve essere stato tremendo... per voi tutti» mormorò Kim, non sapendo bene come sentirsi.

Stava discorrendo piacevolmente con la moglie – morta – di Winter e, cosa ancor più sconvolgente, ora sapeva che Win non l'aveva mai realmente abbandonata e che, addirittura, Erin era lieta di sapere che entrambi si amavano.

Doveva per forza trovarsi in un mondo parallelo.

“La parte più difficile fu far capire a Mal che non si poteva fare nulla per me. Sapeva già, per quanto può capirne un bambino così piccolo, che la nostra era una famiglia speciale, perciò accettare che non si potesse intervenire con la magia fu dura, per lui. Win fu bravissimo. Gli spiegò cosa sarei diventata e che, quando lui fosse stato in grado di padroneggiare a sua volta il suo dono, avrebbe potuto vedermi. Fu felice di saperlo, e si tranquillizzò un po'. Quando oltrepassai le Soglie, ristetti mesi interi accanto alla mia casa per capire in che condizioni avevo abbandonato mio marito e mio figlio, e fui lieta di vedere che Spring, Summer e Brigidh  erano loro vicini.”

«Non hai menzionato Autumn. So che sono parecchio in rotta» le fece notare Kim, sistemando meglio contro di sé il corpo freddo d Winter. Il suo battito cardiaco era così fievole, sotto le sue dita!

Sospirando afflitta, Erin annuì e, debolmente, ammise: “Autumn non aveva neppure accettato il matrimonio di suo fratello, figurarsi la mia morte.”

«Oh, e perché?» borbottò sorpresa Kim.

La fata esitò un attimo prima di rispondere ma, alla fine, ammise ogni cosa.

“Era innamorato di me. Odiò Winter fin dal primo istante in cui si rese conto di questo sentimento. Si trasferì a Tulsa alla mia morte per evitare di impazzire e, da quel momento, non ha più parlato con Win. Si è tenuto in contatto solo con le sorelle, per non perdere i contatti con il nipote.  Quando morii,  accusò Win di non aver fatto abbastanza per me, di non avermi amata come meritavo. Se prima avevano convissuto nella stessa città più o meno civilmente, da quel giorno non si parlarono più.”

Kim non riuscì ad aprire bocca ma capì fin troppo bene, purtroppo, che Autumn non li avrebbe mai e poi mai aiutati.

«Autumn sapeva ciò che Win provava per me, all'epoca?» si arrischiò comunque a domandare, pur immaginando la verità.

“Fui così sciocca da parlargliene, una volta, non comprendendo quanto male avrei potuto fargli... fare loro. Perciò sì, lo sa.”

Kim annuì, sospirando tremula e tra sé pensò che, sapendolo, non avrebbe mosso un dito.

Come avrebbe potuto sapendo che, lì con suo fratello, c'era lei?



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Capitolo 12
*** XI. ***


11.
 
 
 
 
 
La tenda non reggeva il confronto con lo spesso igloo che Winter aveva costruito dal nulla per loro solo la sera precedente, ma di certo li avrebbe protetti dalla tempesta che stava sfogandosi sopra le loro teste.

Quando, a notte inoltrata, Kimberly si lasciò andare ad un sonno convulso e leggero, ne fu ridestata poco tempo dopo da Winter, febbricitante e scosso da tremori violenti.

A nulla valsero gli sforzi di Erin e Kimberly per farlo bere.

Non ci fu verso.

Ora, semi sdraiato e con il capo poggiato sui seni di Kim, Winter stava bofonchiando qualcosa su un passato che la donna non conosceva, ma che fece sospirare afflitta Erin.

Lei sapeva più che bene quali demoni stessero squassando l'animo di Win, in quel momento, ma non voleva affrontare con Kimmy quell'argomento, non quando era già così in ansia per lui.

Galleggiando come nebbia all'interno della tenda, Erin prese forma umana per rendere più agevole alla donna parlare con lei e, sfiorando il viso contratto dell'ex marito, mormorò: “La motoslitta è rimasta troppo danneggiata durante l’assalto e, anche usando il ghiaccio, non riesco a trattenere il combustibile. Purtroppo, i miei poteri non sono come quelli di Winter.”

«Di certo non è colpa tua» replicò Kim, sospirando stanca. «Lo squarcio nel serbatoio è bello grosso, dopotutto.»

Levando il viso di cristalli di brina per incrociare lo sguardo della donna dinanzi a sé, Erin disse: “Te la senti di rimanere da sola, mentre io cerco aiuto?”

«Puoi farlo?» esalò sorpresa Kimberly, stringendo maggiormente a sé il capo di Winter.

Immediatamente, l'uomo si calmò ed Erin, sorridendo fiera alla donna, annuì.

“Ormai Mal riesce a percepire abbastanza bene il suo potere, perciò posso tentare di avvicinarlo per avvisarlo di ciò che sta avvenendo qui.”

«Non sarà doloroso, per lui? Sì, insomma... vederti dopo tutto questo tempo, e per un motivo così grave?» le domandò turbata, immaginandosi il piccolo Malcolm e l'incontro con il fantasma della madre.

Mordendosi l'inconsistente labbro di ghiaccio, Erin reclinò il capo e ammise: “Non sarà facile, questo è certo, ma il rischio che lui perda entrambi i genitori, oltre al rischio che tu muoia, sono alti. E questo sarebbe davvero troppo, per lui. Devo tentare.”

«Posso farcela a rimanere da sola. Domattina, nel frattempo, vedrò di capire se riesco a combinare qualcosa con la motoslitta. Papà ha cercato di inculcarmi un po’ di meccanica… chissà che non riesca a ricordarmi almeno l’ABC.»

“Tentar non nuoce. Ora esco... non voglio raffreddare troppo l'ambiente.”

Detto ciò, lanciò loro un'ultima occhiata e si apprestò a dissolversi.

«Erin!» la richiamò all'improvviso Kim.

Volgendosi con uno scintillio iridescente, la donna la fissò preoccupata e Kimberly, sorridendole, mormorò: «Grazie... di tutto.»

La fata allora scosse il capo, sorridendo di rimando e, in uno sfolgorio argentato, scomparve.

«Kimmy... il ciliegio... è alto...» balbettò debolmente Winter, sorprendendola.

Kim, reclinando il viso per guardarlo, gli sorrise dolcemente e, sfiorando la sua fronte febbricitante con un bacio, sussurrò: «Ti ho fatto davvero spaventare, quella volta. Perdonami. Perdonami, Win, se puoi.»

 
≈≈≈

Al NOAA erano stati laconici, ma avevano promesso loro che avrebbero inviato nel più breve tempo possibile un biplano nei pressi del campo base, onde capire che problemi vi fossero con la connessione satellitare.

Summer era infastidita dalla burocrazia, ma poteva fare ben poco per sveltire l'iter e richiedere un intervento più importante, a meno di non ammettere con loro che qualcosa di ben più grave stava avvenendo tra quelle lande.

Ma come fare, senza dichiarare a tutti la verità?

Impossibile.

Anche avendo Big Mama a capo della loro sezione.

Pure lei, con tutto il suo potere, aveva dei limiti, e non poteva pretendere la luna da quella donna.

La riservatezza era un obbligo, all'interno della loro famiglia, o avrebbero rischiato di dover scappare non solo dai nonni, come era avvenuto in passato, ma da forze ben più forti e ramificate che il Concilio dei Saggi.

Certo, avere a che fare con nonna Shayna era quasi peggio che parlare con Big Mama quando era inferocita, ma essere presa dalla CIA e usata come cavia da esperimenti, era qualcosa che voleva evitare grandemente.

Anche se questo metteva a rischio la vita di Winter.

«A volte vorrei sventrare quel cavolo di ufficio» ringhiò Summ, chiudendo la comunicazione prima di guardare accigliata la gemella.

«Ti capisco. Ci vorrebbe poco per smuovere le due o tre faglie più superficiali che ci sono in zona, ma sai che macello, se lo facessi? Cadrebbe a terra mezza Washington, D.C.» sospirò Spring, scuotendo mestamente il capo.

«Lascia perdere i terremoti, sorellina. Potrei benissimo far scoppiare un incendio utilizzando i fornelli dei laboratori, se volessi, ma non ha senso sfogarsi a questo modo, lo so benissimo» sbottò la gemella, passeggiando nervosamente per il salotto. «Quel che mi fa veramente imbestialire è Autumn. Non appena gli ho detto che Winter e Kimmy erano in pericolo, e c'era bisogno che lui li individuasse, è scoppiato il putiferio. Dopo avermi insultata, mi ha sbattuto il telefono in faccia. Che stronzo!»

«Davvero non lo capisco...si comporta come se non gliene importasse nulla di suo fratello» ruminò infuriata la fulva gemella, agitando le braccia come un uccello impazzito.

«Se avessimo almeno una vaga idea dei motivi per cui hanno litigato, potremmo intervenire in qualche modo ma, quanto a riservatezza, non c'è nessuno che possa battere quei due. Sono più ermetici di un bunker» brontolò a sua volta Spry, portandosi alla finestra per curiosare dabbasso, dove Malcolm stava giocando con la neve.

Lo squillo improvviso del telefono di casa le fece entrambe sobbalzare e, in fretta, Summer corse sui suoi tacchi vertiginosi per afferrare il cordless e accenderlo.

Trafelata, esalò: «Hamilton. Chi è?»

«Summ, sono John. Ho notizie da Wales» mormorò il suo amico e collega, rimasto al NOAA per avere notizie fresche.

Trattenendo il respiro al suono strozzato e roco della sua voce baritonale, la donna strinse con maggiore forza il telefono.

«J.C., ti prego, non dirmi che…»

«Tim, Malick e Rowena sono arrivati circa sei ore fa a Wales e hanno sporto denuncia. Sono stati attaccati da un gruppo armato, presumibilmente contrabbandieri, e sono riusciti a scappare solo per pura fortuna. Stanno preparando una squadra di salvataggio per andare a cercare Winter e Kimberly, ma lassù c’è una tempesta tremenda e…»

La voce dell’uomo morì sulle ultime parole, lasciando in sospeso una sentenza che sapeva di gelo e di terrore.

Summer, scuotendo il capo con veemenza, dichiarò lapidaria: «Non sono morti.»

«Sono sicuro che Win è riuscito a scappare assieme a Kimberly ma, per il momento, non c’è traccia di loro, a Wales. Ma non preoccupatevi. Gli alaskiani sono in gamba, e di tempeste simili ne vedono tutti i giorni. Li troveranno» asserì John con una sicurezza che non sentiva affatto nel cuore.

La vulcanologa annuì mesta, lo ringraziò per il disturbo e chiuse la comunicazione.

Quando Spring la scrutò ansiosa, Summ non seppe che dire e, d’impulso, la abbracciò.

Fu questo che spinse la gemella bionda a piangere in silenzio; Summer non si lasciava mai andare a simili gesti.

 
≈≈≈

Dopo l'avvertimento iniziale che aveva messo in allarme le due zie, Mal non era più riuscito a captare nulla e, sconsolato, aveva passato un'intera notte insonne nel vano tentativo di percepire i pensieri residui del padre o di Kim, senza riuscirci.

Si era svegliato, la mattina seguente, con gli occhi pesti e il muso lungo.

Ad una silenziosa colazione era seguito un mutismo prolungato e così, non sapendo che altro fare, si era rifugiato in giardino per fare un pupazzo di neve, isolandosi da tutto e da tutti.

In questo, somigliava già tremendamente al padre.

Scostando la tenda per meglio osservarlo, Summer mugugnò stancamente: «Non credi che dovremmo raggiungerlo?»

«Lasciamolo fare. A volte, ognuno di noi ha bisogno di rimanere da solo. Quando vorrà la nostra compagnia, ci cercherà.»

Sfiorandole una spalla con la mano, le sorrise comprensiva e la gemella, pur essendo poco propensa alle smancerie, rispose al sorriso e diede un bacio sulla guancia alla sorella.

«Zia Brigidh che dice? E' riuscita a combinare qualcosa con la sua sfera di cristallo?» le chiese poi Summer, tornando a scrutare il nipote.
Spring scosse il capo, spegnendo subito le speranze della gemella.

«Lo sai anche tu che la Vista non viene a comando, specialmente quando si è in ansia per qualcuno. E la zia è super agitata, per non dire che è ai limiti dell'isteria. Non potrebbe avere una visione neppure se si trattasse di scoprire cosa preparerà oggi per pranzo.»

«Vero» ammise Summ, sbuffando.

«Quando si tratta di Win, non capisce più niente. Finisce sempre per esagerare.»

«Rimorsi repressi che saltano fuori» brontolò a sua volta la sorella. «Dopotutto, se i nonni ci hanno trovato è stato per causa sua e, sempre per causa sua, Win si è sposato con Erin. Per forza che, ora, sia iperprotettiva con lui.»

«Win l'ha già perdonata non si sa le volte... quando si darà una calmata?» replicò scocciata Summer, passandosi una mano tra la massa ribelle di onde ramate.

«Quando il sole sorgerà ad ovest» sentenziò Spring, tornando ad osservare preoccupata il nipote.

 
≈≈≈

Malcolm lanciò di soppiatto uno sguardo verso l'alto, avvertendo su di sé gli sguardi ansiosi delle zie e, tra sé, le ringraziò mentalmente per avergli lasciato la possibilità di rimanere da solo.

Si sentiva così inutile!

Era ancora piccolo per poter usare il suo dono e, senza la Cerimonia di Iniziazione, non poteva neppure mettersi d'impegno per imparare per i fatti suoi.

La vecchia Mæb era stata lapidaria quanto testarda, asserendo quanto ancora fosse giovane e acerbo per padroneggiare simili poteri.

Chiedere alle zie di portarlo da lei era altrettanto assurdo.

Erano impegnate, in ansia non meno di lui per le sorti del fratello e, di sicuro, non avrebbero trovato la sua richiesta di risvegliare il suo dono un'arma adatta a risolvere la situazione.

No, avrebbe dovuto attendere non meno degli altri.

«Ma perché deve stare a New Orleans?!» sbottò Mal, buttando a terra il sasso che aveva raccolto per fare l'occhio al suo pupazzo.

“Perché New Orleans è un Crocevia di Spiriti molto potenti, il luogo ideale per una Guardiana dello Spirito” mormorò una donna, nelle vicinanze.

Quella voce, a lui così familiare e aliena al tempo stesso, accarezzò le sue orecchie con dolcezza, portandolo a voltarsi di scatto per comprendere chi si trovasse in giardino assieme a lui.

Nulla vedendo, si stropicciò gli occhi per essere certo di non stare sognando e, quando scorse solo un leggero strato di bruma levarsi nel giardino, arricciò il naso, confuso.

Era sicuro di aver udito qualcuno, eppure...

Tornò a guardare verso l'altro, dove Summer e Spring lo salutarono con piccoli gesti delle mani, sorridendo allegre.

Lui le ricambiò, già pronto a dimenticare l'accaduto quando, nuovamente, la voce gli disse: “Ascoltami, Malcolm... ho bisogno di te, Picachu1.”

C'era stata una sola persona che lo aveva chiamato così...

Irrigidendosi, Malcolm si volse nuovamente e, stavolta, la bruma che circondava il giardino si solidificò a sufficienza per prendere le forme di una donna alta e sottile, del colore dell'arcobaleno.

Lanciato uno sguardo veloce verso le finestre, il bambino si accorse che nessuna delle sue zie, al momento, lo stava guardando e, per qualche strano motivo, la cosa gli fece piacere.

Quella faccenda, voleva affrontarla da solo.

Deglutendo a fatica, Mal esalò: «Mamma?»

“Sapevo che saresti riuscito a sentirmi, anche senza il risveglio dello Spirito.”

Lacrime prepotenti sorsero negli occhi grigio ghiaccio ma, a forza, lui le respinse per poter guardare la figura iridescente che gli stava davanti, a pochi metri di distanza.

Era bella come la ricordava, anche se non poteva scorgerne il colore degli occhi, o la brillantezza dei capelli.

Era come osservare una statua di ghiaccio, ma era ugualmente bellissima... ed era sua madre.

Avanzò di un passo, poi di due e, alla fine, si allungò verso di lei per abbracciarla ed essere abbracciato. 

Pur avvertendo solo freddo attorno a sé, l'amore che lo toccò nel profondo lo tranquillizzò, confermandogli che la fata della bruma che lo stava stringendo era veramente sua madre Erin.

Non seppe se scoppiare a ridere o piangere a dirotto, perciò rimase immobile in quell'abbraccio ghiacciato, assaporando il calore nel suo animo e le parole sussurrate al suo orecchio, che sapevano di amore mai dimenticato e di gioia sconfinata.

«Perché... non sei venuta... prima?» balbettò a fatica Malcolm, scostandosi di malavoglia da lei, ma desiderando guardarla in viso.

“Non eravamo pronti... nessuno dei due. Ma ora è necessario che mi ascolti, Mal. Papà e Kimberly sono in pericolo.”

Sgranando gli occhi, Malcolm gracchiò: «Cos'è successo? Papà è ferito? E Kimmy? Perché conosci Kimmy? Cos'ha?»

Sfiorando la bocca del figlio per azzittire il suo fiume di domande, Erin mormorò pressante: “Ti racconterò tutto più tardi, ma ora devi ascoltarmi bene e riferire tutto ciò che so alle zie. Sono stati attaccati da alcuni contrabbandieri d’armi, e tre dei loro colleghi si sono già salvati, mandando avanti una squadra di ricerca per trovarli, ma senza guida non riusciranno ad arrivare in tempo! Papà ha dovuto usare molto del suo potere per proteggere Kimmy e per mettere entrambi in salvo, ma ora è stremato e non ce la fa a proseguire e, ben presto, verranno raggiunti da chi vuol fare loro del male.”

Malcolm annuì frettolosamente, le lacrime che gli punteggiavano gli occhi ben trattenute dalla forza di volontà del piccolo.

Erin, sorridendogli orgogliosa, aggiunse: “Si trovano sud-ovest rispetto a Wales. Dovrebbero mancare ancora sei o sette di miglia, ma dubito che riusciranno a percorrerle, visto che la motoslitta ha dei seri problemi.”

«Glielo dico subito. Mamma...»

“Dimmi, piccolo mio?”

«Tornerai da me, adesso?»

“Quando ci saranno le condizioni, sì. Ora, però, vorrei tornare da Kimberly e Winter. Lei è sola, e potrebbe aver bisogno di me. Ma ti prometto che tornerò da te ogni volta che potrò, d'ora in poi.”

«Di' a Kimmy che veniamo a prenderli» le disse Malcolm, passandosi una mano sotto il naso. «Ti voglio bene, mamma.»

“Anch'io, tesoro... e te ne vorrò sempre.”

In uno sfolgorio argentato, Erin scomparve e Malcolm, lasciando che finalmente le lacrime scivolassero sul suo volto, corse verso casa urlando i nomi delle zie.

Con una frenesia che rasentava il panico, spiegò loro della visita di sua madre e di ciò che gli aveva detto sul padre e su Kimmy.

Se Spring e Summer furono sorprese dell'intervento a inaspettato di Erin, non lo diedero a vedere; solo una cosa era importante. Avvisare le autorità.

 
≈≈≈

Sbuffando irritata, Kim lanciò l’ennesima occhiata al di fuori della tenda, nella mera speranza di veder giungere qualcuno in loro soccorso.
Quel che le riuscì di vedere, invece, fu neve, neve e ancora neve.

La tempesta non aveva smesso di scaricare quel biancore soffice e freddo per tutta la notte e, dinanzi alla tenda, ormai ce n’era almeno un piede e mezzo.

Anche volendo, non ce l'avrebbe mai fatta a trascinare Winter in mezzo a quell'inferno bianco per le miglia che li separavano da Wales, senza vedere a un palmo dal naso e senza nessuno ad aiutarla.

Inoltre, il freddo l’avrebbe portato ben presto all'ipotermia; stava ancora riversando i suoi poteri residui su di lei, e questo era solo un danno, per l’uomo.

Sapeva benissimo che avrebbe battuto i denti e imprecato contro i geloni ai piedi, se lui non le avesse imposto quell'incantesimo, ma questo non la esentava dall'essere incavolata a morte con Win.

Non voleva che si sacrificasse così per lei, non l'aveva mai voluto.

L'unica cosa che al momento poteva fare era tenerlo accanto a sé, sperando che almeno un po' del suo calore corporeo lo raggiungesse permettendogli di rimanere in vita e, nel frattempo, sperare che Erin riuscisse nel suo intento.

Non voleva neppure pensare a quello che avrebbe potuto succedere, se non fosse riuscita a mettersi in contatto con Malcolm.

Di quel passo, senza un intervento divino – era proprio il caso di dirlo – i soccorsi sarebbero partiti in tremendo ritardo, e di loro non avrebbero trovato che ghiaccioli.

Se mai li avessero trovati.

Inoltre, rimaneva ancora aperta la questione inseguitori.

In quelle ore concitate, non aveva chiesto ad Erin di controllare se qualcun altro li stesse seguendo, ma la faccenda era solo rimasta in sospeso.

Non era per nulla scontato che i loro problemi fossero solo quelli che aveva innanzi.

Tutto poteva andare a rotoli da un momento all'altro.

E lei non era in grado di difendere se stessa e Winter come, invece, avrebbe fatto lui.

«Ti prego, Erin... dimmi che...»

Una lieve brezza ghiacciata si incuneò all'interno della tenda e, dinanzi agli occhi speranzosi di Kim, Erin si materializzò in pochi attimi.

“Dirti che cosa, Kim?”

«Sei riuscita a parlare con Malcolm?» le domandò immediatamente lei, sorridendole speranzosa. Ormai aveva imparato a non fare più caso alle sue entrate improvvise.

Cosa poteva fare, la necessità!

“Sì, e farà in modo di...”

Interrompendosi di colpo, Erin si fece seria in viso mentre Kim, irrigidendosi non meno della fata, esalò sconvolta: «Dimmi che sono i soccorsi, ti scongiuro.»

“Stanno arrivando dalla parte sbagliata” sentenziò Erin, torva in viso.

“Non uscire per nessun motivo. Cercherò di tenerli a bada finché non arriveranno i nostri.”

«Cos'hai intenzione di fare, Erin?» mormorò ansiosa Kim, afferrandole una mano di ghiaccio cristallizzato.

La fata le sorrise, asserendo tranquilla: “Non può capitarmi nulla, Kimberly, non aver paura. Quel che portano quegli uomini non mi può nuocere, mentre a voi sì. Vi proteggerò finché ve ne sarà bisogno.”

«Stai attenta in ogni caso» si premurò di dirle lei, sdraiandosi poi a terra e ponendosi dinanzi a Winter per proteggerlo col suo corpo.

Dopo un ultimo sguardo ai due, Erin uscì dalla tenda e, raccogliendo attorno a sé i cristalli di ghiaccio della nebbia che galleggiava sullo Stretto, aumentò a dismisura le sue dimensioni.

Non poteva fare di più, come fata della bruma, ma quello l’avrebbe fatto eccome.

Una volta fatto ciò, fissò astiosa i mezzi che stavano giungendo da est e, a gran voce, ululò: “Non avanzerete oltre! Non ve lo consentirò!”

Non poteva usare il ghiaccio e l'acqua come Winter, ma anche lei conosceva qualche trucchetto.

 
≈≈≈

Sbandando di colpo quando una folata improvvisa giunse dal bel mezzo della tempesta, Boris bloccò il mezzo e strabuzzò  gli occhi, sconcertato.

Dinanzi al suo gruppo, in spregio a qualsiasi legge della fisica, vide ammassarsi una coltre di cristalli di ghiaccio sempre più fitta, sempre più spessa.

E sempre più simile ad una figura umana... gigantesca.

Non aveva la più pallida idea di cosa fosse ma, di certo, non si sarebbe fatto spaventare da qualche fiocco di neve troppo cresciuto.

Ormai aveva raggiunto i membri fuggitivi della stazione americana perciò, anche a costo di lottare contro la tempesta stessa, lui li avrebbe fatti fuori.

Sperava soltanto che i suoi compagni avessero fatto lo stesso con gli altri, ma di quello non poteva interessarsi in quel momento.

Quella maledetta tempesta aveva mandato all’aria qualsiasi possibilità di comunicare, così aveva potuto solo sperare che il resto dei suoi avesse avuto fortuna.

Ci sarebbe stato tempo per ogni cosa, a partire dalla ricerca del fratello e dei suoi uomini.

Non li avevano ancora incrociati, e questo poteva voler dire tutto e niente.

La sua missione comunque, al momento, era oltrepassare quello sbarramento di nebbia ghiacciata e ammazzare quegli americani ficcanaso.

«Capo... ma che diavolo è quella cosa?!» esclamò l'uomo al suo fianco, pallido come un morto.

«Nebbia, idiota. Cosa vuoi che sia?» ringhiò Boris, accelerando.

Ci si sarebbe buttato in mezzo come se nulla fosse, e avrebbe spinto il suo mezzo proprio sopra la tenda che si intravedeva oltre quello sbarramento di cristalli di ghiaccio.

Un bel filetto di sogliola. Ecco cosa li avrebbe fatti diventare.

Quel che non si aspettava di certo, però, fu di sentir scivolare il mezzo come se fosse finito sul ghiaccio vivo, e non sulla neve secca e compatta che aveva calpestato fino a quel momento.

Nonostante i cingoli, l'automezzo iniziò a sbandare violentemente, finendo in testacoda proprio mentre, dietro di loro, il secondo autoarticolato procedeva a pochi metri di distanza.

L'impatto fu violento quanto imprevisto.

Il parabrezza esplose a causa dell'urto con i roll-bar del mezzo guidato da suo cugino Vladimir, e una miriade di frammenti di vetro crollarono loro addosso come pioggia.

Mentre Boris imprecava a gran voce nel vano tentativo di riprendere il controllo del veicolo, una brina gelida li avvolse tutti, facendoli quasi svenire per lo shock termico.

Erin non stava affatto risparmiando le forze.

Continuò a far mulinare la bruma per non permettere agli uomini di riprendere il controllo dei mezzi e, nel contempo, abbassò via via la temperatura dei suoi cristalli di ghiaccio per portarli al limite della sopportazione umana.

Avrebbe voluto fare molto di più, avrebbe voluto aprire un varco nel ghiaccio e farli sprofondare negli abissi, ma questo non rientrava nei suoi poteri.

“Non vi permetterò di avvicinarvi!” urlò ancora, continuando a muovere i due mezzi con le sue enormi mani ghiacciate.

Boris, all'interno dell'abitacolo, non prestò ascolto al tuono che rimbombò sulla distesa di ghiaccio e, lasciato il volante perché ormai del tutto inutile, afferrò il fucile di precisione e ringhiò: «Non sai con chi hai a che fare, tempesta!»

«Cosa vuoi fare?!» gli urlò il collega, ghermendo il volante ormai sguarnito, pur senza ottenere risultati soddisfacenti.

Sistematosi il fucile di precisione contro la spalla, Boris socchiuse un occhio e prese la mira.

«Faccio quello per cui sono venuto qui.»

Mentre il veicolo continuava a scivolare senza freni sul ghiaccio, sospinto dal turbine di ghiaccio che li teneva bloccati a poche centinaia di iarde dal loro obiettivo, Boris attese il momento più opportuno e, alla fine, fece fuoco.

Un tuono nella tempesta, ed il proiettile perforò il telo della tenda.

Soddisfatto, Boris attese che il mezzo compisse un altro giro per poter avere nuovamente la possibilità di fare fuoco.

A sorpresa, però, il turbine si bloccò di colpo, il veicolo si fermò con un sobbalzo e, tutt'intorno a loro, il gelo si fece sempre più pressante.

Le mani, pur inguantate, iniziarono a tremare.

L’AK-47 crollò a terra sul pavimento del veicolo e Boris iniziò a percepire il freddo polare penetrargli nelle ossa, nelle carni intirizzite, nei bulbi oculari sgranati e terrorizzati.

Il metallo si ricoprì di brina sempre più spessa, mentre una nebbiolina iridescente si materializzò dinanzi a lui fino a prendere le sembianze di una donna.

Donna che, accigliata come una furia, strinse la sua mano di cristallo ghiacciato attorno al suo collo e, muovendo la bocca senza emettere alcun suono, iniziò a stringere con sempre maggiore forza.

Il rombo sempre più forte di diversi veicoli a motore, però, portò la donna di ghiaccio a bloccarsi.

Con un movimento flessuoso e simile a un'onda marina, fluttuò via dopo un ultimo sguardo iroso rivolto a Boris.

Aveva ben altro a cui pensare, in quel momento, che non a quel pazzo scellerato.

“Spero non sia successo nulla” mormorò tra sé, accorrendo in direzione della tenda mentre, in lontananza, diversi mezzi terrestri stavano giungendo in aiuto dei due scienziati.

Avrebbero pensato a tutto loro, si rassicurò Erin, svanendo in una nuvoletta scintillante.

Lei, per il momento, non poteva fare più nulla.

 
 
 
________________________________
1 Picachu: personaggio dei Pokemon (cartone animato giapponese)

N.d.A.: Se qualcuno si chiedesse come mai Autumn non è intervenuto, nonostante sapesse del pericolo corso dal fratello, posso solo dirvi che qualcosa l'ha fatto. Non è così evidente, ma l'ha fatto. Non avrebbe mai aiutato direttamente il fratello. ^_^

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Capitolo 13
*** XII. ***


12.
 
 
 
 
 
Galleggiava leggero, senza peso, immerso in un vuoto senza fine, dove l'ombra e la luce non esistevano, dove i colori sembravano mille e più, eppure non ve n'era nessuno.

Percepiva voci diffuse, melodie ancestrali, il suono di un gong in lontananza, il pizzicare leggero di un'arpa dalle corde in rame, come quella che si divertiva a suonare a casa, per la gioia di Malcolm.

Malcolm.

Il suo dolce bambino... lui, più di tutti, avvertiva intorno a sé, da ogni direzione possibile.

Il suo odore, la sua voce, le sue risatine. Tutto.

Eppure non scorgeva nessun volto, non percepiva il tocco di alcuno, né riusciva in nessun modo a smuoversi da quel lento galleggiare nel nulla.

Dov'era?

Kimmy!

Dov'era, lei? Perché non era lì con lui?

Alla fine, non aveva mantenuto la promessa? Gliel'avevano portata via?

«K-Kymmy...» gracchiò flebilmente mentre tutto il corpo, squassato da mille e più scosse elettriche, riuscì finalmente a muoversi, a padroneggiare l'uso dei muscoli, dei nervi, delle ossa.

Una mano fresca e liscia gli sfiorò la fronte, mentre un sussurro delicato e familiare mormorò accanto a lui: «Sono qui, Winter... tranquillo.»

La mano, che tanto delicatamente l'aveva accarezzato al volto, scivolò via per raggiungere la sua, protesa e tremante e, con forza, la strinse per poi accompagnarla fino ad un corpo caldo e solido.

Non stava sognando.

A quel punto, Winter spalancò gli occhi, li volse per cercare il volto tanto amato e, trovandolo, sorrise spontaneamente prima di esalare quasi senza voce: «Sei tu... sei viva.»

Kim annuì, il volto un po' pallido e dove profonde occhiaie ne segnavano gli occhi color giada. Appariva stanca, ma anche sollevata.

A quel punto, Win si guardò intorno e, sempre più sorpreso e confuso, si rese finalmente conto di trovarsi in una camera d'ospedale, attaccato ad un monitor ECG e ad una flebo di quella che gli sembrò essere soluzione fisiologica.

Dietro la figura di Kimmy, semi sdraiato su una poltrona, l’uomo vide Malcolm.

Completamente addormentato, stringeva al petto un pupazzo di Picachu e quello, più di qualsiasi altra cosa, lo mandò in confusione.

Dalla morte della madre, non aveva più voluto giocare con quel pupazzo in particolare, perché Erin lo chiamava sempre a quel modo e, per lui, era diventato doloroso anche il solo vederlo.

Perché, allora, Mal aveva quel peluche? E cosa ci faceva lì?

Stordito e annebbiato dalla stanchezza, Winter mormorò roco: «Kimmy, cos'è...»

Bloccandosi a metà della sua strascicata richiesta, sgranò gli occhi non appena vide una stampella accanto alla poltrona di Kimberly e lei, seguendone lo sguardo, sorrise e si accomodò sul bordo del letto.

«Quella è mia. Mi servirà ancora per una settimana o due.»

Cercando senza successo di mettersi a sedere, Win fu costretto a utilizzare la pulsantiera elettronica del letto per alzarne la testiera.

Dopo aver lasciato a Kimmy il compito di sprimacciargli il cuscino, le domandò torvo: «Perché hai bisogno di una stampella? Cos'è successo?»

La donna gli sfiorò il petto con una mano, massaggiandolo delicatamente come per chetarne l'ansia e, sorridendo appena, asserì: «Diciamo soltanto che, mentre tu eri svenuto e febbricitante, io ed Erin ci siamo date da fare per salvarti.»

«Erin?» esalò lui, sempre più confuso.

«Abbiamo collaborato alla grande. E quando si sveglierà, dovrai ringraziare anche Malcolm, perché è merito suo se ci hanno trovati al momento giusto» sorrise spontaneamente lei, lanciando un'occhiata adorante al bambino.

«Che intendi dire?»

Ora seria in volto, Kim mormorò: «Non sapevamo come fare. Il carburante era uscito da un foro procurato da un colpo di fucile, così siamo rimasti bloccati a poche miglia da Wales. Con la tempesta in atto, non avremmo mai potuto raggiungere a piedi la costa, così Erin ha provato a contattare Mal, riuscendovi. E' stato lui a indirizzare i soccorsi dove ci trovavamo noi, proprio mentre il resto del gruppo dei nostri inseguitori ci attaccava.»

«Cosa?» esalò Win, impallidendo visibilmente.

«Calmati. E' andato tutto bene, no? Siamo qui, siamo vivi e nessuno dei cattivi ci cercherà più. Erin li ha tenuti impegnati fino all'arrivo della cavalleria.»

Sorrise nuovamente, e si chinò a baciarne le labbra secche.

«Hai bisogno di burro cacao, sai?»

«Se tutto è andato bene, a te cosa serve la stampella?» replicò lui, sospettoso, pur avendo apprezzato il bacio.

Sospirando esasperata, Kim ammise: «Uno dei tizi che ci inseguiva è riuscito a sparare un colpo, ed io sono stata colpita ad un polpaccio, tutto qui.»

«Tutto qui?! Perché diavolo...» cominciò col dire Winter, prima di esalare un grugnito di dolore non appena sentì esplodergli il cervello in mille piccoli pezzettini fumanti.

«Stai buono, campione. Hai avuto un arresto cardiaco, mentre ti portavamo a Wales, quindi non fare tanto il brillante» lo redarguì lei, aggrottando la fronte.

Winter si stupì non poco, ma avrebbe dovuto comprendere fin da subito che qualcosa di strano doveva essere avvenuto.

Kim non aveva più su di sé il suo incantesimo, e lui era più che certo di non aver apportato alcuna modifica a ciò che aveva fatto, prima del suo svenimento.

L'arresto cardiaco, però, aveva annullato di fatto ciò che aveva compiuto. Per alcuni attimi, era stato come morto, perciò l'incantesimo era scomparso.

Saperlo non lo rese affatto felice, ma almeno lei era salva, ora.

Entrambi lo erano.

«Non avrei mai permesso che ti colpissero mentre eri inerme, Winter, ficcatelo bene in testa. Non sei il solo che è capace di fare il grande eroe» gli fece notare lei, sorridendogli divertita.

«Io non volevo...»

Interrompendolo con un gesto della mano, la donna replicò seccamente: «Non raccontarmi balle. Erin mi ha detto cosa stavi facendo e perché ti sei esaurito, quindi chiariamo subito una cosa finché siamo all'inizio.»

«All'inizio di cosa?»

Arrossendo suo malgrado, Kim ammiccò e aggiunse: «Della nostra relazione, mio caro. Ficcati bene in quella testaccia dura come il granito che io non voglio, né vorrò mai, un eroe con l'armatura, al mio fianco. Siamo alla pari, poteri o no. Ci si protegge a vicenda, all'occorrenza. Niente 'io sono l'uomo di casa', tra noi. O così, o non se ne fa nulla.»

Winter trovò la forza di sogghignare e, passandosi una mano tra i capelli morbidi – glieli avevano lavati? – esalò: «Ha tutta l'aria di essere un ultimatum, sai?»

«E' esattamente questo, mio caro. Io voglio Winter. Non mi interessa il Guardiano dell'Acqua, anche se la cosa mi intriga molto. Puoi accettare che io sia più interessata all'uomo, che al mago?» gli domandò lei, sorridendo maliziosa.

Attirandola a sé per un bacio, lui mormorò sulle sue labbra: «Sarò tutto ciò che vorrai.»

«Allora, sii te stesso. Non strafare solo per essere perfetto ai miei occhi. Mi piaci, pregi e non. Ti amo, pregi e non.»

Kimmy lo baciò delicatamente dopodiché, con un sorriso, gli sfiorò la fronte con le labbra e annuì soddisfatta.

«Non dovresti più avere la febbre.»

«Non me la sento. A proposito… dove siamo?» si interessò a quel punto Winter, tornando a guardarsi intorno con curiosità.

«Siamo all'ospedale di Nome. Al Norton Sound Regional Hospital. Ti abbiamo portato qui in elicottero non appena ti hanno stabilizzato, dopodiché ti hanno tenuto sotto monitor per quattro giorni prima di sciogliere la prognosi. Siamo qui da sei giorni. Pensavamo ti saresti svegliato ieri... avevi detto qualcosa nel sonno, ma poi nulla.»

Nel dirlo, l'ansia e la preoccupazione turbinarono negli occhi verdi della donna e Winter si sentì rimordere la coscienza al solo pensiero di averle fatto del male, pur inconsapevolmente.

«Malcolm?» riuscì a chiedere Win, pur avvertendo un pesante groppo in gola.

«Spring e Summer sono giunte qui con lui. Credo che ora stiano saccheggiando la mensa. Summ è diventata davvero una bellissima donna. Non che Spring non lo sia, ma Summer... Wow. Beh, è … focosa, in tutti i sensi. Tim e gli altri sono già tornati a Washington, D.C. per stilare un primo rapporto assieme alla polizia federale e, ben presto, toccherà anche a noi. Ti fanno tutti i loro migliori auguri.»

Ridacchiò, si sistemò una ciocca dei capelli mossi dietro un orecchio e aggiunse: «Non hai idea degli insulti che ti ha rifilato Summer, mentre ti portavano in radiologia per la TAC. E le lacrime che ha versato di nascosto, credendosi non vista.»

Winter ridacchiò, annuendo.

Con tono leggero e affettuoso assieme, ammise: «Summer è così. Tutta fuoco fuori, ma tanto dolce dentro. Sono contento che tu non sia stata tutta da sola, mentre attendevi il mio risveglio. La gamba come va?»

«Il proiettile è entrato e uscito. Ha fatto un gran male, ma non è stato difficile rimettere a posto la gamba. Hanno controllato che il tessuto della tuta non fosse penetrato dopodiché mi hanno ricucita, bendata, messa sotto antitetanica e via, più veloce di prima!»

Rise allegra, ma una lacrima le sfuggì ugualmente e Win la raccolse con un dito, spiacente.

Sospirando tremula, Kim abbozzò un sorrisino.

«Ho avuto paura, pur sapendo che Erin era lì fuori a difenderci. Non volevo morire, dopo averti finalmente ritrovato. Quando ti abbiamo portato qui, vederti inerme in quel letto, apparentemente indifeso, mi ha quasi spezzato in due. Non voglio mentirti proprio su questo. Non voglio apparirti più coraggiosa di quanto non sia.»

«Dimostri un coraggio immenso anche solo ammettendolo. E così, mi hai protetto con il tuo corpo, prendendoti una pallottola al posto mio... che dire?» le sorrise Winter, carezzandole il viso con il dorso della mano libera dalla flebo.

«Come si può non amare una donna così?»

Kimmy rise sommessamente, commossa più di quanto volesse apertamente ammettere dalle parole proferite dell'uomo.

In quel mentre, Malcolm aprì gli occhi e li scrutò insonnolito per alcuni attimi prima di balzare come una molla dalla poltrona e strillare: «Papà! Papà, sei sveglio!»

Win si illuminò in viso, mentre Kimberly si scostava un poco per permettere a Mal di avvicinarsi per abbracciare l'uomo.

Un attimo dopo, Spring e Summer fecero il loro ingresso nella stanza, armate di ogni genere alimentare mai inventato sulla faccia della Terra.

Non appena la bionda gemella vide il fratello ormai desto, e Mal tra le sue braccia, lanciò in aria tutte le merendine e le patatine fritte confezionate e si catapultò a sua volta verso il letto con uno strillo eccitato. 

Summ, più contenuta, si piegò per sistemare il disastro appena operato dalla sorella e, strizzando un occhio a Kim, sorrise lieta e sollevata.

Vi furono baci, abbracci, battute e gomitate e, dopo aver ricevuto un quadro completo di ciò che era avvenuto mentre lui era stato privo di conoscenza, Winter esalò impressionato: «Beh, siete stati bravissimi, non c'è che dire.»

Tutto contento, e con il suo enorme Picachu stretto tra le braccia, Mal disse eccitato: «La mamma ha detto che Kimmy è stata molto coraggiosa. Ti ha protetto per tutto il tempo in cui è rimasta da sola e, anche quando lei è tornata, non ti ha mai lasciato un attimo.»

Kimmy carezzò la testolina bruna del bambino, che le sorrise spontaneamente quanto affettuosamente e, ammiccando all'indirizzo di Winter, commentò: «Beh, mi hai scoperta. In effetti, ho preso la tua armatura ed il tuo scudo e ti ho protetto fieramente.»

«Non ne dubito» sorrise fiero l’uomo, prima di notare lo sguardo accigliato di Summer, in piedi alle spalle di Spring.

«Kimmy, perché tu, Mal e Spring non andate a cercarmi qualcosa che non abbia acidi grassi e conservanti di dubbia origine? Vorrei sgranocchiare qualcosa di cui ci si possa fidare e, da quel che hanno portato le mie sadiche sorelle, sembra vogliano spedirmi al Creatore prima del tempo.»

Recependo al volo il messaggio, Kim annuì con un gran sorriso e, circondate le spalle del bambino, ammiccò a Spring.

«Vedrai che qualcosa ti troveremo. Pronto per la missione, Mal?»

«Prontissimo!» esclamò il bimbo, tutto contento di potersi rendere utile.

«Riusciremo di sicuro a scovare qualcosa, Win. A dopo» gli sorrise Spring, accodandosi al gruppo.

Rimasti finalmente soli, Summer si avvicinò al letto e, dopo essersi sistemata nervosamente una ciocca di capelli ondulati dietro l'orecchio, accostò le mani al capo del fratello per aggiustargli il ciuffo con gesti secchi e meccanici.

«Di certo, se volevi testare le nostre coronarie, ci sei riuscito.»

«Scusa» mormorò lui, sorridendo sghembo.

Sedendosi sul bordo del letto, la sorella sospirò pesantemente e ammise: «Non pensavo che Erin avrebbe contattato Mal. Temevo che una cosa del genere avrebbe potuto ferirlo, invece guardalo. Tutto contento di averla vista, e non molla mai Kimmy. Le sta perennemente accanto.»

«Si piacciono» assentì Winter, suo malgrado soddisfatto.

«A Kimmy non pesa l'aver saputo di Erin, a quanto pare. E neppure l'aver saputo di noi» decretò Summ, giocherellando con le unghie tagliate cortissime.

Quel giorno, portava lo smalto rosso fuoco che più le piaceva.

«Da quel che ho capito, Erin le ha parlato molto di voi due, e del rapporto che vi legava. Voleva essere sicura che non si sentisse a disagio, e credo ci sia riuscita» gli spiegò la gemella, meditabonda.

«Ed io ne sono lieto.»

«Sei felice, quindi? Kimmy è quella giusta?» volle sapere Summer, ancora dubbiosa.

Winter scoppiò a ridere e, attirando a sé la permalosa gemella, le baciò le guance dopo averla stretta in un forte abbraccio, mormorandole poi all'orecchio: «Lei è sempre stata la sola, Summ. Non avere timore per il mio cuore, non stavolta.»

«Oooh, e piantala!» sbottò la sorella, sciogliendosi imbarazzata dall'abbraccio. «Volevo solo...»

«Lo so, Summer. Non c'è bisogno che tu dica nulla.»

Conosceva fin troppo bene la scorbutica gemella, tanto tenace e forte da apparire indistruttibile, quanto dolce e generosa nel momento stesso in cui la famiglia aveva bisogno di lei.

Non era mai stata d'accordo con il matrimonio combinato tra lui ed Erin e, i primi tempi, era stato quasi impossibile trattenerla dall'insultare zia Brigidh.

Alla fine, però, aveva accettato la donna che gli Anziani avevano posto al fianco del gemello, e aveva iniziato ad apprezzarla e amarla come una sorella.

Aveva pianto senza ritegno, alla sua morte, e aveva giurato su quanto aveva di più sacro che, a costo della sua vita, avrebbe sempre difeso Malcolm, che lei adorava.

Ed ora era lì, ligia alla promessa di prendersi cura del nipote a qualunque costo.

Ma era turbata, e Winter glielo fece notare.

Accigliata, Summer ammise: «Ho provato a contattare Autumn per bloccare la tempesta sullo Stretto e per farci dire da lui dove ti trovavi, ma mi ha sbattuto il telefono in faccia non appena ha saputo di Kimmy. Mi spieghi, una volta per tutte, cosa c'è stato tra voi due?»

Sbuffando, Winter scrollò le spalle e mugugnò: «Lo sa il cielo cosa passa per la testa di Autumn. So soltanto che lui ce l'ha con me da dieci anni a questa parte, anche se il fattaccio è accaduto poco tempo dopo la morte di Erin. Non chiedermi di più, Summ, perché non ho idea del perché sia così inferocito con me.»

«Ti avrà pur detto qualcosa, mentre vi prendevate a pugni sotto il portico, quella primavera di tanti anni fa, quando Erin morì» precisò Summer, cocciuta.

«Che mi odiava, che io avevo avuto tutto e lui niente, che il Fato era stato ingiusto e cose così. Se tu ci capisci qualcosa, spiegamelo, perché io non lo so.»

Sbuffò, si passò una mano sul volto stanco e mormorò: «Schiaccerò un pisolino, ora. Poi mi spiegherai cos'è successo ai cattivi.»

«Riposa, fratello, per quello ci sarà tempo» gli promise lei, chinandosi a baciarlo sulla fronte.

Win chiuse gli occhi, sorridendo leggermente e, nell'uscire dalla stanza, Summer mormorò: «Autumn, ascoltami bene. Fai un'altra cazzata simile e, gemello o non gemello, io ti ammazzo.»

Neppure cinque secondi dopo, il cellulare della donna squillò e, fermatasi che fu in un angolo della sala d'aspetto, accettò la chiamata.

«Se vuoi replicarmi qualcosa, sappi che non te lo permetterò. Abbiamo rischiato di perderli entrambi. Dici di voler tanto bene a Malcolm, eppure hai permesso che suo padre ci lasciasse quasi le penne. Non me ne frega un cazzo di quello che c'è stato, o c'è ancora, tra te e Win. Se uno di noi ha un problema, ci si coalizza.»

«Non siamo i quattro moschettieri, Summ, ricordalo» sentenziò gelido Autumn.

«No, siamo molto di più, cretino che non sei altro! E ora che Mal sa di poter usare il suo dono, verrà Iniziato. Sarà l'apice che mancava al Pentacolo di Potere, la quadratura del cerchio, la congiuntura finale. E io ti impedirò di dargli un ulteriore dolore, credimi. Tu evocherai il potere degli Antichi, quando Malcolm riceverà l'investitura a Guardiano dello Spirito, a costo di trascinarti per i capelli fino a New Orleans.»

«Winter come sta?» le chiese per contro Autumn.

«Dovresti saperlo, visto che governi l'Aria,… e qui è pieno di normali!» gli ringhiò contro, inferocita.

Il gemello allora le rispose serafico.

«Non hai detto tu che devo comportarmi bene? E le persone per bene chiedono sempre come stanno i propri cari.»

«Fai pure il furbo, Autumn, ma prima o poi avrai bisogno di noi, e allora pregherai che Winter sia più generoso di quanto non lo sei stato tu con lui. E sta bene, ora, ma di certo non grazie a te! Per fortuna, Erin è riuscita a contattare Mal, altrimenti non saremmo mai arrivati in tempo.»

Imprecò senza tanti complimenti, mentre Autumn cadeva in un silenzio sospettoso.

«Ora ti saluto, fratello.»

«Come può...» gracchiò il gemello, ora non più spavaldo come in precedenza.«... Erin... è morta...»

«Se non ti fossi allontanato così bellamente dalla famiglia come invece hai fatto, e nel momento di maggior bisogno, aggiungerei io, avresti saputo che Winter ha legato il suo spirito all'acqua. Ora è una fata della bruma e, a quanto pare, può parlare sia con Malcolm che con Kimmy, oltre che con Winter» gli spiegò gelida Summer, tamburellando un piede sul linoleum verde e nero che ricopriva il pavimento.

«Non... capisco...»

Com'era possibile una cosa del genere? E perché mai Kimberly poteva udirla?

Scrollando una spalla con noncuranza, Summer mugugnò infastidita: «Da quel che mi ha detto Kimmy, sono cugine neppure troppo lontane e, grazie a questa stretta parentela, è in grado di parlare con lei.»

Autumn non disse nulla, si limitò a bofonchiare un saluto alla gemella prima di sbatterle il telefono in faccia.

Anche quello aveva avuto. Il Fato era stato davvero troppo generoso, con suo fratello.

E questo non poteva davvero sopportarlo.

Con rabbia, scagliò contro il muro dell’ufficio il suo nuovo cellulare – che si frantumò in mille pezzettini – e imprecò al cielo tutta la sua frustrazione ed il suo dolore.

Neppure il conforto di poter ancora udire la sua voce. O di incrociare il suo sguardo.

In tutti quegli anni, Erin non era mai apparsa a lui.

Ma appariva – e parlava! – a Kimberly.

No, non gliel'avrebbe mai perdonata. Neppure in mille anni.

 
≈≈≈
 
Magdaleine Bennett, alias Big Mama, alias capo sezione del reparto spedizioni scientifiche del NOAA, scrutò per diversi secondi i due scienziati dinanzi a sé senza nulla dire.

Si limitò unicamente a tamburellare pensosa le unghie laccate sulla lucida scrivania di tek.

Tutto, nell'ufficio della donna, rispecchiava il carattere di chi vi risiedeva.

I bellissimi paesaggi dipinti in stile neoclassico si miscelavano perfettamente coi mobili dalle linee raffinate, che richiamavano in tutto e per tutto quelli scelti da Nancy Reagan per il marito, ai tempi in cui era stata First Lady.

E questo la diceva lunga anche su quanta autostima potesse contare Big Mama.

Seduti entrambi su comode poltroncine in elegante broccato color crema, Winter e Kimberly attesero pazienti che Magdaleine parlasse per prima.

All'improvviso, l'interfono suonò e la voce della segretaria di quest'ultima interruppe quel silenzio opprimente.

«Ho in linea suo marito. Glielo passo?»

«Digli che lo richiamo io. Prima, devo finire qui.»

Spense l'interfono, intrecciò le mani fresche di manicure e, infine, si rivolse ai suoi due sottoposti asserendo: «Di certo, non mi aspettavo un simile risultato, inviandovi sullo Stretto. Ho appena saputo dalle autorità competenti che il presunto capo della banda di trafficanti d'armi, in cui siete incappati per mera sfortuna, è uscito dal coma. Blaterava su una donna di ghiaccio che li ha attaccati, e robe simili. Di certo, avrà ben altre visioni, una volta rinchiuso in un carcere federale americano. Altro che fatine delle nevi.»

La notizia sollevò entrambi e Kimberly, incuriosita, domandò alla donna: «E' sopravvissuto solo lui?»

«In quattro, stando a quel che sappiamo. Il resto della banda è sparpagliato per mezza calotta artica, chi dinanzi al campo base, chi sotto il ghiaccio, chi incastrato in un autentico dedalo di denti di ghiaccio. Di certo, questa campagna illegale gli è andata decisamente male. Pare che quei tizi contrabbandassero da tempo, e che le autorità russe fossero sulle loro tracce già da un bel po'» spiegò loro Big Mama, battendo una mano su una sottile carpetta giallognola.

«Qui c'è un resoconto sintetico di ciò che possiamo sapere di loro, oltre a quello che hanno raccontato alle autorità i vostri colleghi.»

Rivolgendo poi uno sguardo orgoglioso a entrambi, aggiunse: «Grazie alle chiavette USB che avete portato con voi, ci sono prove sufficienti per incriminare Boris e la sua ghenga per almeno mille anni di carcere, e quella riguardante i dati ricavati dalle carote di ghiaccio è già nelle mani dei tecnici. Nonostante tutto, siete riusciti a portare a termine il lavoro, e non ci avete rimesso la vita.»

«Avrei preferito una noiosa spedizione, a questo» sospirò stancamente Winter, scuotendo il capo con aria esasperata.

Big Mama ridacchiò comprensiva, annuendo.

«Lo avremmo voluto tutti, Hamilton, ma possiamo almeno dire che il vostro lavoro non è andato perduto e, per merito vostro, i cattivi sono stati presi. Quanto al processo, e alla conseguente notorietà, beh… durerà qualche mese, poi ve ne libererete per qualche altro scandalo. Ci vorrà solo un po’ di pazienza.»

Afferrando la mano di Win, Kimberly annuì  nell'osservare il volto del loro capo farsi di nuovo imperscrutabile e non più divertito e, con calma, ammise: «Cercheremo di fare finta di niente e di essere estremamente professionali.»

«Hamilton?» domandò allora Big Mama, fissandolo con i suoi penetranti occhi scuri.

Annuendo a sua volta, Winter asserì convinto: «Vedrò di non sbarellare, promesso. Come la mettiamo, però, con quel che ho combinato?»

Kim lo fissò basita, chiedendosi se per caso l’incidente avesse lasciato degli strascichi nella mente dell’uomo.

Turbata, guardò di sottecchi Big Mama, chiedendosi cos’avrebbe detto in merito.

Magdaleine ricambiò quello sguardo curioso e, aprendosi in un sogghigno divertito, intrecciò nuovamente le mani sotto il mento.

«Oh… e così la dottoressa Clark è al corrente di tutto.»

«Sì» assentì Winter, sorridendo a Kim, che sgranò sconvolta gli occhi.

«Bene, meglio così. Comunque, quel che compare nei resoconti sono spaccature nel ghiaccio e crepacci, tutto perfettamente compatibile con l’ambiente in cui vi trovavate. Nessuno ipotizzerà mai che quel che è avvenuto fosse di origine… soprannaturale. Inoltre, basto io ed il mio intuito eccezionale, per attirare l’attenzione.»

Win sorrise divertito, bene sapendo a cosa si riferisse.

Dopo la segnalazione ottenuta da Malcolm, Big Mama si era impuntata come un panzer in carica contro il nemico e aveva letteralmente obbligato i soccorritori a puntare in un’unica direzione.

Quando infine li avevano trovati, le lodi per lei si erano sprecate e, quando qualcuno le aveva chiesto come avesse capito dove cercare, si era limitata a nicchiare.

Magdaleine se lo poteva permettere.

Con un sogghigno, la donna smosse una mano davanti a sé con noncuranza e borbottò: «Ora sparite dalla mia vista, piccioncini. Non dico che non mi faccia piacere vedervi così felici e sorridenti, ma troppo miele mi fa alzare la glicemia, e non ne ho di certo bisogno! Fuori!»

Non appena furono fuori, di fronte alla piccola scrivania di Melanie Ann, la segretaria personale di Big Mama, Winter esalò un sospiro a metà tra l'esasperato ed il sollevato.

 Kim, al contrario, lo prese sottobraccio e commentò a voce bassissima: «Ma come fa, lei, a saperlo?»

Winter attese di essersi allontanato a sufficienza prima di dirle: «Forse non sai che Big Mama è una strega.»

«Eeeh?!» gracchiò Kim, facendo a scoppiare a ridere il suo uomo.

Nel prendere l’ascensore per recarsi ai piani inferiori, dove si trovavano i garage sotterranei della struttura, Win ammise con un sorrisino: «Ebbene sì. Sai, vero, che Magdaleine è argentina? Beh, a quanto pare, è qualcosa di più di una semplice nativa del sud America. E’ legata al culto del candomblé, un’antica religione proveniente dall’Africa e, per quel che ne sappiamo io e Summer, lei è una sacerdotessa o qualcosa di simile. Con noi non si è mai voluta sbottonare molto, in merito, ma ci ha riconosciuto subito come persone… speciali, così abbiamo dovuto vuotare il sacco, almeno con lei.»

Kim, semplicemente, si limitò a spalancare la bocca con aria scioccata e, quando raggiunsero finalmente il parcheggio sotterraneo del NOAA, Winter la accompagnò alla sua auto.

«Naturalmente, lei non ha dei veri e propri poteri, è più una spiritista, una consultatrice di oracoli, per così dire.»

«Oh. Mio. Dio» esalò Kimmy, raggiungendo con passo caracollante la sua auto per poi aggrapparvisi con forza.

Lui le sorrise benevolo, dandole un bacetto sulla tempia, e la donna lo fissò senza sapere bene cosa dire, o come reagire.

Non era ancora del tutto convinta di comprendere pienamente la portata del suo potere e cosa significasse, per lui, trattenersi dal fare con esso tutto ciò che desiderava.  

Ma aveva iniziato a capire e, con il tempo, anche quel lato oscuro di Winter sarebbe stato limpido, per lei.

Sapere che anche Big Mama era legata alla magia, però, la sgomentò un po’.

Quante altre persone, nel suo universo personale, non erano ciò che sembravano?

Scosse il capo, preferendo non rimuginarci proprio in quel momento e, sorridendo debolmente a Winter, mormorò: «Facciamo che ne parliamo un’altra volta, eh?»

«Tutto quel che vuoi» le promise lui, aprendo per lei la portiera dell’auto.

Meglio badare al suo lato umano, piuttosto che al suo lato divino e indistruttibile. Era decisamente più semplice da trattare.

Alle stregonerie avrebbe pensato più tardi.

Salita che fu sulla Ford, ammiccò a Win – che la stava osservando dall’esterno della vettura – e gli domandò: «Mal è già a casa, o deve ancora tornare da scuola? Non ricordo che lezioni aveva, stamattina.»

L’uomo le sorrise brevemente prima di dire: «Arriverà alle quattro. Perché?»

Lei si limitò a scrollare le spalle, ma Win decise di insistere.

«Dovete fare qualcosa?»

«No, è che...»

Tentennò un attimo, ma alla fine ammise: «Mi piace averlo attorno. E' un bambino adorabile, e gli voglio molto bene.»

Win non poteva che essere lieto della cosa, e sapeva perfettamente che anche Malcolm adorava Kimmy.

Nonostante le sue paure più recondite, aveva apprezzato il fatto che lei avesse iniziato a dormire qualche volta da loro.

Winter aveva temuto che un cambiamento del genere potesse ferirlo, visto soprattutto il ritorno nella sua vita della madre – anche se solo come fata della bruma.

La reazione di Mal, come al solito, lo aveva sorpreso. E in positivo.

Non solo si era dichiarato felicissimo ma una mattina particolarmente uggiosa, con il cielo che ribolliva minaccioso, si era presentato insonnolito e turbato alla porta della sua camera da letto e aveva chiesto di poter entrare.

Si era infilato in mezzo a loro subito dopo aver ricevuto un invito caloroso da parte di Kim e, con un sospiro e un sorriso, si era stretto a lei mormorandole un 'ti voglio bene, Kimmy' che, per poco, non aveva spezzato il cuore a Winter.

Non aveva più parlato con Erin per chiederle come si sentisse nel vederlo assieme a Kimberly, né aveva più accennato a Kimmy di lei, della moglie-fata che poteva interagire con loro e, adesso, anche con Mal.

Era bastato vederle una mattina, nel giardino di casa, in una giornata nebbiosa e fredda.

Avevano riso e scherzato assieme, sorridenti entrambe e accomodate su un cumulo di neve fresca e ammucchiata su un lato della casa.

Non aveva mai domandato a Kimmy di cosa avessero parlato, lei ed Erin; gli era bastato scrutare i loro volti.

Sereni.

Fieri.

Complici.

In quel momento, però, Winter le domandò: «Tu ed Erin... va tutto bene?»

Kimmy gli lanciò un rapido sorriso, annuendo e, giocherellò con i guanti di pile bianchi e blu.

«Ho rimuginato parecchio sulla cosa perché, dopo la situazione di pericolo in cui ci siamo trovati, tutto era tornato alla normalità, e la sua presenza mi metteva in qualche modo a disagio. Così le ho parlato per chiarirmi alcuni dubbi. Non volevo che lei pensasse che io volessi usurpare il suo posto in famiglia, o nel cuore tuo o di Mal.»

«Ebbene?» si informò lui.

A quel punto Kim ridacchiò e ammise: «Mi ha dato dell'idiota.»

Winter strabuzzò gli occhi, sinceramente basito.

«Primo, mi ha detto che tu sei vedovo, e quindi il ruolo di moglie è vacante, indipendentemente dal fatto che lei sia una fata e che tu,... noi possiamo vederla quando vogliamo. Secondo, Mal mi vuole bene come io ne voglio a lui, e di questo lei è felice. Indipendentemente dal fatto che Mal potrà sempre vedere lei, e non me, come madre, il punto focale è un altro. C'è amore tra di noi, e questo era ciò che lei desiderava più di tutto.»

«Perciò, sei tranquilla?» insistette lui, giusto per stare tranquillo.

Annuì, sicura di sé, e asserì: «Sì. Il fatto che Erin sia nelle nostre vite, in qualche modo, completa il quadro, non lo guasta. A volte, magari, mi imbarazzerò lo stesso, ma sarà piacevole parlare con lei, quando qualcosa del vostro essere così speciali mi lascerà dei dubbi. No, non ci saranno problemi, davvero.»

«Ne sono felice. Quando legai il suo spirito alla bruma, desideravo che un giorno Mal potesse di nuovo parlare con lei, interagire con sua madre. Davo per scontato che io non avrei mai più avuto una compagna al fianco che potesse aiutarlo a crescere, che potesse fargli da madre. Quanto mi sbagliavo!»

Rise, quasi scioccato all'idea di non dover passare il resto della sua vita da solo.

«Per questo lo portavi in luoghi con l'acqua?» si informò allora lei, sorridendogli dolcemente.

«Te lo ricordi» mormorò lui, annuendo. «Era più facile vederlo, per Erin. Inoltre, speravo che prima o poi capitasse anche a lui. Evidentemente, la paura ha permesso al suo dono di risvegliarsi prima del tempo, permettendogli di vedere Erin e percepire me.»

«Mal ha detto di aver sentito anche me. E' possibile?» gli domandò Kim, incuriosita.

Annuendo, Winter le spiegò ciò che significava essere il Guardiano dello Spirito. «Quando Mal sarà Iniziato e potrà cominciare a padroneggiare il suo dono, potrà percepire ogni essere vivente su questo mondo, sia esso animale o vegetale. Inoltre, sarà in grado di leggerne i pensieri – se parliamo di fauna, s’intende – e, nel caso, plasmarli. In qualche modo, è affine al potere di Spring, anche se lei può agire sul corpo, non sulla mente. E' un dono dalla portata immensa, e crea un equilibrio con i quattro Elementi che governiamo noi gemelli. Il suo sarà un training davvero massacrante, lo so già adesso, ma sono contento di poter dire che avrà anche te, al suo fianco.»

«Ce la metterò tutta per essergli d'aiuto perché credimi, dal tuo fianco non me ne andrò mai più. Quando te ne andasti la prima volta, ero troppo piccola per oppormi. Ora sfodererò gli artigli se qualcuno tenterà di frapporsi tra noi, fossero anche i tuoi nonni o i parrucconi che ti obbligarono a sposarti.»

Lo disse con tono così perentorio, definitivo, che Winter non poté che scoppiare a ridere, felice che lei la pensasse a quel modo.

Neppure lui avrebbe permesso che qualcuno si intromettesse.

Già una volta si era lasciato manipolare, e tutto perché era stato troppo giovane e ligio al dovere per affrontare pienamente il problema.

Ora, aveva al fianco la donna che, fin da bambina, aveva amato.

Era cambiata nell'aspetto, ma dentro di sé portava ancora quella serenità d'animo e quella forza che l'avevano affascinato fin dalla prima volta.

Era la sua Kimmy.

«Non mi preoccuperei per quello, non al momento, almeno» la rassicurò lui, sorprendendola.

«Oh… e perché?»

«Qualcuno pensa che sia ora di cambiare… e non sto parlando della mia famiglia» le disse lacunoso lui, chinandosi per baciarla. «Metti in moto e fila a casa. Tra poco scoppierà una bella nevicata e preferirei saperti al riparo, piuttosto che in giro per strada.»

«D’accordo. Ci vediamo domani, allora» gli promise lei, mettendo in moto per uscire dal parcheggio sotterraneo.

Lui la osservò andare via, prendere lo svincolo a destra per uscire e infine svanire dietro il muro di cemento armato.

Fu solo la consapevolezza che presto l’avrebbe rivista a permettergli di salire a sua volta in auto con il cuore leggero; nessuno li avrebbe divisi, mai più.

Preso il cellulare, compose un numero in particolare e, dopo alcuni attimi, sentì una voce a lui familiare e cara.

Sorridendo spontaneamente, disse: «Ehi, Colin. Tutto bene, lì?»

«Se intendi dire che non è ancora scoppiata mezza Irlanda, sì. Per ora, abbiamo potuto agire nell’ombra senza essere beccati» assentì l’amico, ridacchiando. «Va da sé che, se uno qualsiasi dei Guardiani ci beccasse, finiremmo nei guai. Sai come la pensa, tua nonna, su tutta la faccenda.»

«E’ proprio perché lo so che quello che state facendo è di vitale importanza. Sean è venuto a capo di qualcosa?» si informò a quel punto Winter, inserendo il bluetooth nell’orecchio prima di mettere in moto l’auto per uscire dal garage sotterraneo del NOAA.

«Non lo so. Si è chiuso nel suo studio di Limerich e non mi ha più detto nulla. Sai come sono, questi letterati» ridacchiò il giovane irlandese, facendo sorridere Win.

«So com’è scrupoloso Sean, quando vuole. E Miranda sta bene? Mi aveva detto che avrebbe dovuto andare dal medico all’inizio dell’anno ma, tra la missione e tutto il resto, non l’ho più sentita.»

«Sta benissimo, per la verità» assentì Colin, tutto contento. «Proveremo ad avere un bambino.»

La notizia colse di sorpresa Winter che, per un attimo, restò senza parole.

«Beh, sono felice per entrambi.»

«Grazie. Anche se non credo che Lady Shaina ne sarà altrettanto lieta. Non pensi, comunque, che dovremmo mettere al corrente anche Spring e Summer di quel che stiamo combinando? Dopotutto, interessa anche a loro» gli fece notare a quel punto Colin, dubbioso.

«Non voglio che ci perdano il sonno. Sai come sono fatte» scosse il capo il climatologo, infilandosi nel traffico cittadino di quel pomeriggio inoltrato di gennaio.

«Come vuoi tu. Sei il capofamiglia, perciò ci atterremo a quel che vuoi tu, anche se penso che Mir ne abbia parlato con Autumn» ammise Colin, cauto.

Sentir nominare il gemello fece irrigidire Winter ma, il più pacatamente possibile, lui replicò: «Credo abbia fatto bene. Per quanto io e lui non andiamo d’accordo, so che non danneggerebbe mai Spry o Summ. Tenetelo pure al corrente degli sviluppi, e fatemi sapere se avete bisogno di qualcosa. Se nonna Shaina fa i capricci, dimmelo. Posso sempre dire a Summer di indebolirla, se serve.»

«Non credo che la Guardiana del Fuoco sarebbe contenta di saperlo» celiò l’altro, ghignando.

«Ci sono un sacco di cose che a Shaina non piacciono, una tra queste il potere spaventoso di Summ. Sua nipote è molto più potente di com’era lei alla stessa età, e questo la infastidisce non poco. Potrebbe tornare a nostro vantaggio già questo, visto che la indebolisce dal punto di vista emotivo, ma a volte non basta per fargliela in barba. Se avete problemi con le barriere sul grimorum , fatemelo sapere subito, e agirò» lo ragguagliò Win, tranquillo.

«Contatterò Sean e glielo dirò. Per ora grazie, Winter» asserì Colin.

«Grazie a voi. Il lavoro sporco è nelle vostre mani, dopotutto» replicò sorridente il climatologo.

«Già, ma in fondo questa Cerca serve più a noi, che a voi» gli fece notare a quel punto Colin, ridacchiando.

«Farà piacere a tutti riuscire a trovare una fine a quest’assurda bega millenaria, credimi» sottolineò Win, sbuffando.

Fin troppe persone avevano sofferto, nel corso dei secoli. Era ora di finirla.




__________________________
N.d.A.: ormai siamo arrivati alla fine di questa prima avventura. Spero di avervi fatto passare almeno qualche momento di svago, e di avervi divertito con questi nuovi personaggi.
Per chi di voi si chiedesse chi sono Colin, Miranda e Sean, verranno presentati nel corso dei prossimi racconti e avranno un ruolo abbastanza importante, pur se marginale, nel percorso portato avanti dai nostri gemelli.
Per ora vi saluto e vi ringrazio :)

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Capitolo 14
*** Epilogo ***


2

Epilogo.

 

 

 

 

Le scarlet carson che aveva fatto preparare a Spring erano perfette e, all'interno del vaso di cristallo in cui le aveva messe, splendevano come rubini sotto il sole marzaiolo che scintillava sulle loro teste.

Il marmo freddo e grigio della tomba di Erin non sminuiva per nulla la loro bellezza e Kim, nel poggiare il vaso dinanzi alla lapide, sorrise soddisfatta tra sé e annuì a Malcolm, in piedi al suo fianco.

«Direi che dovrebbero piacerle. Che ne pensi?»

«La mamma le adorava» annuì il bambino, sorridendo nell'afferrare saldamente la mano della donna.

Un lieve venticello batteva la collina del cimitero dove era stata tumulata la madre di Malcolm e, nel cielo terso, rade nubi si rincorrevano tra loro come puledri lasciati liberi di correre nella prateria.

Piccoli passerotti ballonzolavano qua e là beccando il terreno erboso, e graziosi pettirossi pigolavano sui rami dei frassini che adombravano quella porzione di cimitero, allungando sul terreno sinuose ombre scure.

Nel complesso, la giornata era splendida.

Winter si era recato ad una riunione con le alte sfere del NOAA perciò, in occasione dell'anniversario della morte di Erin, Kim si era presa l'impegno di accompagnare Mal al cimitero al posto suo.

E, in fondo, era una cosa che desiderava fare da tempo.

Era strano, visto che potevano parlarsi ogni qualvolta c'era la nebbia, o se lei si recava nei pressi di stagni o laghi, eppure sentiva che quella era la cosa giusta da fare.

Le sembrava che renderle omaggio a quel modo fosse una maniera carina di far evolvere il loro curioso rapporto.

«Kimmy...»

Riscuotendosi dai suoi pensieri, la donna si volse per osservare il visino pensieroso del bambino e, vagamente sorpresa, mormorò: «Cosa succede, Mal?»

«Tu e il papà state insieme, vero?»

Levando un sopracciglio con aria curiosa, replicò: «Sì, Mal. Siamo fidanzati. Sai cosa significa, vero?»

Il bambino annuì, ancora dubbioso, e le domandò ancora: «Un giorno vi sposerete?»

Cominciando a subodorare qualcosa, Kim lo attirò verso una panchina di pietra posta nelle vicinanze di un carpino bianco e, dopo averlo fatto accomodare, gli sistemò il colletto della giacca.

«Un domani, sì. Perché?»

Storcendo la bocca a cuore, Mal mugugnò: «E la gente che si sposa vuole dei bambini, giusto?»

A quel punto Kim sorrise, intuendo dove volesse andare a parare e, avvolte le spalle del bambino con un braccio, lo attirò a sé e disse sinceramente: «Io e tuo padre non ne abbiamo parlato. Per il momento, stiamo imparando a conoscere ciò che negli anni, di noi, è cambiato e/o scomparso. Inoltre, è divertente uscire a cena, o andare al cinema, e tenersi mano nella mano, come se fossimo due adolescenti. Questa parte, noi non l'abbiamo mai vissuta.»

«Cosa c'è di divertente?» borbottò dubbioso Malcolm, fissandola stranito.

Ridacchiando, Kim replicò: «Lo capirai tra qualche anno. Comunque, visto che amo tuo padre, e amo te, non me ne andrò da nessuna parte e sposerò Winter. Ma per quello abbiamo tempo. Come abbiamo tempo per pensare a un figlio. Qualora lo volessimo, però, tu rimarrai sempre il mio Mal, non temere. Nel mio cuore c'è posto a sufficienza per te, per un fratellino o una sorellina, per ciò che verrà. E, se non dovesse arrivare nessuno a tenerti compagnia, ci sarò comunque io. E tuo padre.  Siamo e saremo una famiglia.»

Non ancora del tutto convinto, Malcolm le domandò mogio: «Non è che, perché io ho ancora la mamma, tu...»

«Oh, tesoro!» esalò Kim, stringendolo a sé con forza per poi dargli un sonoro bacio sui neri capelli. «Avrai sempre due mamme, credimi. Certo, ai tuoi amichetti non potrai mai dire di poter parlare ancora con Erin, ma saprai sempre di poter contare su me e lei, e penso sia una bella cosa, ti pare? Chi altri può dire di avere due mamme?»

Malcolm ci pensò su un momento prima di dire: «Peter. Ma la sua matrigna è insopportabile... e non fa i biscotti.»

Kim scoppiò a ridere e, nel tornare a levarsi in piedi, sollevò anche Malcolm per allontanarsi dalla collinetta del cimitero.

A mezza voce, poi, commentò ironica: «Allora, mettiamola così; chi può dire di avere due mamme che adorano il proprio figlioletto?»

«Per te lo sono? Un figlio, intendo» le domandò il bimbo, aprendosi in un sorriso speranzoso.

«Denoto in te la stessa testardaggine di tuo padre, sai, Mal?» gli fece notare lei, levando un sopracciglio con evidente sarcasmo.

Malcolm sghignazzò.

«Comunque, sì. Per fugare ogni tuo dubbio, te lo ripeterò fino allo sfinimento... e ti bacerò tutte le volte che ti lascerò davanti a scuola, prima di andare al lavoro.»

A quel punto Malcolm impallidì, sinceramente turbato e, scuotendo mani e testa con veemenza, esclamò terrorizzato: «No, ti prego! Ci credo! Ma non farlo, ti supplico! Mi prenderebbero in giro un casino!»

Kim ghignò serafica e chiosò: «Sapevo che avresti capito.»

Malcolm tirò un sospiro di sollievo e, nell'afferrare la mano di Kimberly, tornò a sorriderle dicendo: «Quando siamo soli, però, non mi dispiace.»

«Speravo lo dicessi» ridacchiò Kim, chinandosi per dargli un bacio sulla guancia.

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N.d.A: e con questo capitolo ho concluso la storia di Winter. La settimana prossima ripartirò con "Mille Petali Rossi", la storia dedicata a Spring.

Vi ringrazio per avermi seguita fino ad ora, e spero vorrete proseguire questo viaggio con me e la famiglia Hamilton. Ci sono ancora un sacco di avventure da vivere! :)

Spero che, come prima storia, vi abbia appassionato.

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