Il Richiamo del sangue

di ManuFury
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Nell'oscurità ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1: Apri gli occhi ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2: Verso il Tramonto ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3: Come Fuoco ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4: L'Arte di Contrattare ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5: L'Arena dei Perduti ***



Capitolo 1
*** Prologo: Nell'oscurità ***




L’oscurità è totale: densa e palpabile come una coperta d’inchiostro.
Un mare di tenebra nera che mi accompagna da quando ho memoria, ma non m’importa: giungerà anche il mio momento, arriverà il giorno in cui sarò libera e potrò saziare la mia sete di vendetta, quella che per tanti, troppi anni mi è stata negata.
I miei pensieri si perdono nel forte scrosciare dell’acqua, la quale produce l’assordante fragore di una frana, rimbombando in mille infiniti echi sulle pareti lisce della prigione in cui sono rinchiusa. Il liquido che precipita dall’alto ha la forza di un martello di ghiaccio, che si abbatte con la forza di un titano sulle mie spalle nude ed esposte, pungendole con i suoi mille aghi, straziando la carne e penetrando nelle ossa, fino a togliermi sensibilità agli arti.
In questo mondo fatto di buio nero e acqua fredda è difficile per me percepire il lento scorrere del tempo. Mi sento quasi racchiusa in una bolla di pece che mi isola dal resto del mondo: dalla luce del sole che splende fuori da questa grotta, dal vento che soffia e ulula nelle notti serene dell’autunno, dalle foreste che crescono rigogliose. Mi sento lontana dal mondo e dalle misere ma dilettevoli vicende degli uomini.
A questo proposito mi domando quanto tempo sia passato da quando osarono rinchiudermi. Dieci anni? Venti? Un secolo? Un millennio?
Non mi è dato saperlo. Forse sono trascorsi solo pochi giorni che la mia prigionia e il mio isolamento hanno dilatato come anni. Il tempo è così ingannevole in questa grotta dalle lisce pareti di quarzo.
In realtà poco m’interessa, ho tutta l’eternità a disposizione e so che Loro torneranno. Esseri del genere ricompaiono sempre alla fine: ti si presentano davanti, inginocchiandosi ai tuoi piedi e implorando pietà e perdono.
Giungeranno a breve i discendenti degli uomini che mi hanno rinchiuso in questa prigione d’oscurità. Torneranno strisciando e implorando il mio perdono, me lo chiederanno con il viso affondato nella polvere, piegati come grano schiacciato a terra dal vento.
Solo uno non si piegherà, ma so che lui è diverso. È… speciale.
Un sorriso compare sulle mie labbra divenute azzurre per il gelo che attanaglia il mio corpo come una coperta di neve.
Lui verrà: è scritto nel suo Destino… e nel mio.
I tempi non sono ancora maturi, ma lo saranno presto, lo sento.
Per questo resto in silenzio, con il capo abbassato e questo sorriso tagliente che ancora non vuole lasciare il mio viso, ad ascoltare l’infinito boato di quest’eterna cascata di ghiaccio e dei suoi rimbombi che rimbalzano senza sosta su pareti inghiottite della tenebre eterne in cui sono costretta a vivere.
Scrollo a fatica le spalle intorpidite dal freddo e appoggio la fronte sull’impugnatura della spada che fu di mio padre: anch’essa è gelida, ma le basta sentire la mia presenza per scaldarsi come se fosse una cosa viva. Sorrido ancora, riconoscendo al tatto ognuna delle tacche presenti sull’elaborata impugnatura: ricordi e trofei di guerre e battaglie vinte molti secoli prima da mio padre e da me medesima.
Rassicurata da questa presenza, rilasso i muscoli tesi della schiena e delle braccia, costrette aperte come se fossero in procinto di abbracciare qualcuno e mi sistemo meglio sulle ginocchia ormai ridotte a pesanti pezzi di legno. 
Mi avvolgo nei miei pensieri come potrei fare con le lenzuola calde di un letto e ascolto gli echi che mi circondano e i mormorii fievoli della mia spada. Sussurri silenziosi eppure così rumorosi nelle tenebre dense.
Bisbigli sinistri che mi promettono libertà e vendetta.
Così, senza alcun preavviso, tra il buio nero e il rombo dell’acqua, apro i miei occhi chiari che immediatamente brillano nelle tenebre come due pietre preziose, infrangibili e freddi come diamanti. E per un solo istante avverto le tenebre stesse, da sempre, sinonimo di malvagità e crudeltà, ritrarsi, spaventate dal mio sguardo.
Così dev’essere: ogni creatura dovrà temermi poiché io sono la progenia del male nata dall’unione della spada e della morte.
Io sono La Morte nelle Tenebre.

 
[Continua...]
 


***

HOLA! ^_^

Bellissima gente mi sono buttata finalmente su qualcosa di serio, una Long su uno dei generi che più adoro, il FANTASY! *Q*
Va bene... mandiamo in pensione Capitan Ovvio e passiamo alle cose un po' più di mia competenza.
Allora... come prologo ammetto che non è un gran che, ma in fondo i prologhi non sono fatti per essere capiti, no? u_u
Se vorrete restare ancora con me... tra qualche settimana dovrei postare il primo capitolo, quindi, se avete un minimo di pazienza iniziere a scoprire lentamente personaggio dopo personaggio e l'intricato modo in cui essi si trovano, nel mentre, se il capitolo vi è piaciuto, lasciatemi una recensione, perché no, sappiate che non vi mangio! ;)
Vorrei inoltre precisare che questa storia è stata scritta per la fantastica Challenge: "L'ondata Fantasy" indetto da _ovest_ sul forum di EFP.
Ok... dovrei aver finito,
Ci sentiamo presto, spero! ^^''
ByeBye

 
ManuFury! ^_^

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Capitolo 2
*** Capitolo 1: Apri gli occhi ***


 
 
La ragazza è immobile, con le mani appoggiate alla colonna come se dovesse sostenerla. Indossa vesti candide, quasi trasparenti per quanto sono leggere: le scivolano dolcemente sul corpo sottile come se fossero fatte d’acqua pura e cristallina.
Sospira così lievemente da dare l’impressione di non averlo nemmeno fatto, è un gesto lento e delicato, accentuato solo dal movimento appena percettibile del petto e dall’aprirsi delle labbra piene e rosse che risaltano sul suo bel viso di porcellana che, con lentezza estenuante, si volta così da permetterle di appoggiare anche il petto all’alta colonna.
Il ragazzo in piedi al fondo della bassa scalinata che lo separa dalla giovane a sua volta non si muove. È ammagliato, rapito da quella visione celestiale di cui sussurra il nome a fior di labbra, come se temesse di spezzare per sempre quel sogno, parlando troppo forte.
Lei non gli sorrise e tantomeno gli parla, si limita ad esporre ancora un po’ il viso e con esso le spalle, facendo così scivolare lungo il corpo le vesti come una cascata, scoprendosi così la pelle, meravigliosamente pallida e morbida, quel genere di pelle che non hanno le ragazze comuni, ma le principesse.
Duncan respira profondamente a quella visione, prima di chiudere gli occhi, volendo raccogliere a sé tutto il coraggio di cui dispone per procedere di un passo, solo per starle più vicino. Ma quella dote che sul campo di battaglia non gli manca mai, adesso sembra carente in lui, risucchiata così come la sua forza dai pozzi neri e infiniti che sono gli occhi di quella ragazza, lasciandolo così immobile, incapace di muoversi e di parlare proprio come un neonato.
La giovane di nuovo non gli parla, non bada ai suoi pensieri che si manifestano così vivamente sul volto di lui. Lei si limita a scrutarlo con quel suo sguardo di pece, profondo come un abisso; non sembrano gli stessi occhi che hanno stregato il guerriero tempo addietro.
In un nuovo movimento lento, la ragazza stacca il petto dalla colonna e vi appoggia un ginocchio, facendo così scorrere lungo la coscia soda il tessuto trasparente: questo fluttua nell’aria, disegnando volute sottili mentre accarezza la pietra della colonna, prima di toccare il suolo.
Ed è solo in quel momento che Duncan realizza che quelle colonne hanno qualcosa di strano, qualcosa di così sbagliato. Non sono di marmo bianco o rosa come quelle che formano il colonnato della Cittadella d’Oro, al contrario queste sono scure, un color ruggine sbiadito e usurato da mille anni d’intemperie. Il capitello che s’innalza non è decorato con le insegne reali, né con quelle delle prestigiose casate nobiliari, rappresenta invece le orrende facce ghignanti di mostri leggendari che lo deridono con le loro mute bocche dalle quali guizzano nella loro immobilità lunghe lingue di pietra. Esse reggono volte altissime e buie che forse mai videro la luce del sole.
È un attimo, il tempo di un battito di ciglio quando il giovane ricorda un giorno di fine autunno: lui e la sua guarnigione si erano accampati all’estremo confine Est del regno, là dove, sfocate, si potevano scorgere i profili imponenti delle alte montagne della catena dei Titani, enormi giganti incaricati di reggere la volta celeste. Ai piedi di quei monti lontani avevano scorto una costruzione vagamente circolare, di un colorito bruno spento, lo stesso che assume il ferro di una spada se non viene curata a dovere. Il giovane Duncan, all’epoca comandate del plotone, aveva chiesto spiegazioni e gli era stato riferito da un veterano pieno di cicatrici che quella era l’Arena dei Perduti: luogo di morte e divertimento, di battaglie senza onore condotte da individui disperati che uomini ormai più non erano. C’erano state parole mormorate riguardo a quel luogo oscuro ove venivano spediti traditori e condannati a morte di mezza Drakkas. E nessuno di essi era mai uscito.
Con quel ricordo nelle mente, il ragazzo si ritrova a guardare con sospetto attono a sé, confusione e sorpresa che si mischiano nei suoi occhi mentre in lui si fa largo la sgradevole sensazione che quelle pareti si stringono sempre di più su di lui, volendolo schiacciare come un insetto.
“Apri gli occhi, Duncan.” Gli dice la bella ragazza abbracciata a quella colonna con il capitello ghignante.
Lo sguardo azzurro e quasi trasparente del guerriero si alza su di lei, di nuovo confuso, ma quel viso pallido è così terribilmente serio, tanto da non sembrar appartenere alla principessa con la quale passava le serate chiare e calde di fine estate. Era come trasformata, mutata in qualche clone privo di sentimenti.
“Apri gli occhi.” Ripete, appoggiando una guancia sulla colonna. Alle spalle della sua figura sottile si apre una sorta di piccolo balconcino con corrimano dando su uno spiazzo indistinto, ora pervaso da una luce sempre più forte, così candida e potente da far dolore gli occhi.
Duncan cerca di schermirsi gli occhi sensibili con una mano, come meglio riesce, avanzando di qualche gradino, nel tentativo di raggiungere la ragazza ancora immobile. Ne urla il nome, tendendole la mano libera che ha smesso di cercare la spada solitamente appesa al fianco. Ma lei non si muove.
“Apri gli occhi, Duncan – si ostina a ripetere. – Lui verrà.” In un secondo la sua figura viene inghiottita dal bianco e dalla luce assieme a quella più imponente e mostruosa di un demone cornuto che ridacchia, mostrandogli la lunga lingua biforcuta.
 
“Apri gli occhi, bastardo! – Inveì con rabbia una voce, battendo sulle sbarre della cella con una certa insistenza, quella di chi sta perdendo molto in fretta la pazienza. – Forza lurida bestia, in piedi!” Ruggisce ancora.
Duncan aprì lentamente gli occhi, tornando a contatto con la realtà e con il suo corpo intorpidito dal freddo, nelle orecchie lievemente appuntite sentì le stesse urla disperate che lo aveva cullato mentre si lasciava abbracciare dalle scure e rassicuranti braccia del sonno. Erano grida forti e strazianti, ormai prive di ogni umanità e sapevano, con il loro immenso carico di angoscia, far perdere la sanità mentale a chiunque anche dopo poche ore.
Il ragazzo sospirò, passandosi stancamente una mano tra i capelli biondi, negli occhi chiari ancora guizzavano le immagini di quel sogno splendido: su una ragazza e una vita che adesso era perduta e lontana. Tutto era stato solo un sogno che si sfilaccia al risveglio come la nebbia dell’autunno. Eppure era così reale.
Arrivò un tonfo a distrarlo dai suoi pensieri e ricordi così lontani da essere sbiaditi come una vecchissima pergamena. Un rumore di qualcosa gettato a terra e conseguente tintinnio: nella sua cella era stato fatto cadere con ben poca grazia uno sgangherato vassoio metallico praticamente mangiato dalla ruggine. Sopra doveva esserci qualcosa che definivano cibo, ma non lo era: c’era un pezzo di carne quasi tutto nervi e grasso giallastro, accompagnato da una poltiglia ocra che un tempo doveva essere stata una zuppa. Insieme c’era una brocca d’acqua che aveva riversato quasi tutto il suo contenuto a terra.
“Sbrigati a mangiare, traditore. – Lo ammonì l’omone fuori dalla sua cella, guardandolo truce con il suo unico occhio buono. – Hai molti incontri da disputare, quest’oggi!”
Duncan annuì stancamente, alzandosi in piedi: non lo si poteva definire altissimo e nemmeno forte, non guardandolo, almeno. Aveva un corpo gracile, con spalle strette e vita sottile, eppure aveva una resistenza fisica e una velocità nel combattere che pochi possedevano. Anche il viso aveva dei tratti quasi dolci, principeschi li aveva definiti una volta una ragazza: i capelli erano biondi e corti, ma abbastanza lunghi da coprirgli la fronte sulla quale aveva un segno azzurro fosforescente, una grande goccia d’acqua contornata da altre più piccole, le quali si perdevano poi in sottili fili che formavano una sorta di corona. Nessuno aveva mai capito che fossero, ma aveva sentito dire che anche sua madre le aveva e quindi non aveva mai fatto domande al riguardo. Sapeva che non era l’aspetto che distingueva un guerriero.
Si avvicinò alla sua colazione, guardandola con una vena di disgusto mentre l’uomo fuori dalla cella gli intimava di muoversi. Bastò un suo attimo di distrazione affinché il giovane buttasse in un angolo quella carne tutta nervi e grasso, si rifiutava categoricamente di mangiare quell’oscenità. Tentò con la poltiglia, ma non fu molto meglio: gli si appiccicava alla gola come colla e dovette buttarla giù con la poca acqua rimasta nella brocca.
Solo al termine del pasto si alzò di nuovo mentre la porta della sua cella veniva aperta.
L’uomo con un occhio solo si fece da parte, imbracciando una lunga frusta nera. Gli fece cenno di uscire e Duncan uscì. Gli fece cenno di proseguire lungo il corridoio e Duncan si avviò.
Il ragazzo passò davanti a molte altre celle simili alla sua, dentro alla quale uomini ridotti a scheletri si trascinavano fino alle sbarre, porgendo le mani ossute nella speranza di ottenere un po’ di cibo, ma venivano prontamente respinti dalla frusta del ciclope che commentava quelle scene un po’ imprecando e un po’ ridendo. Duncan osservava in silenzio consapevole che, nella disperazione, si poteva considerare un privilegiato: otteneva tre pasti al giorno e una cella singola, ma solo perché faceva divertire gli spettatori, ergo era un investimento da mantenere in vita; o almeno, da conservare meglio degli altri.
Continuò ad avanzare finché le celle non scomparvero per lasciare posto ad un corridoio scuro scavato nella roccia: portava alla Sala delle Attese, dove poteva vestirsi e armarsi. L’omone alle sue spalle blaterava sui suoi incontri del giorno, lo ammoniva di offrire un bello spettacolo come sempre e molto altro, ma il giovane non lo ascoltava. La sua mente vagava in altri luoghi: visitava il sogno appena fatto della sua amata, rivedeva il suo corpo sottile abbracciato a quella colonna, osservava le sue labbra che si dischiudevano a parlargli. Gli aveva detto di aprire gli occhi, ma quello non aveva senso. O meglio, nulla aveva più senso dopo quello che era successo alla Cittadella d’Oro, vivere non aveva più senso, eppure si ostinava a farlo, a sopravvivere come un’animale messo alle strette, mordendo e graffiando come una fiera selvaggia pur di vedere un altro giorno.
Una frustata sulla schiena lo rapì dai suoi pensieri, strappandogli un lieve lamento dalle labbra mentre il dolore si irradiava nella sua carne come un fiume di lava. Si rese conto di essere ormai giunto alla Sala delle Attese: un enorme salone posto proprio sotto gli spalti principali costruiti diversi metri sopra di lui; le pareti ruvide erano incrostate di sporcizia e coperte a tratti da rastrelliere contenenti ogni genere di armi. La cosa peggiore, però, non era l’aspetto di quel posto, ma era l’odore: sangue e violenza, morte e putrefazione, unite al sudore e alla disperazione di tutti coloro che avevano varcato quella soglia senza alcuna speranza e avevano lasciato la propria vita sulla sabbia dell’arena soprastante.
“Veloce, traditore. – Lo spintonò in avanti l’uomo. – Hai cinque minuti, poi è il tuo turno.” Disse solo, lasciandolo lì mentre chiudeva la porta dalla quale erano venuti a chiave.
Duncan guardò in quella direzione una sola volta, prima di sciogliersi le spalle per valutare i danni inferti dalla frustata: faceva ancora male, ma era sopportabile, di certo nessuna ferita grave o invalidante.
Ovviamente, perché rovinare così gratuitamente una delle loro maggiori fonti di reddito? Pensò con una vena di amarezza mentre si avvicinava ad una delle rastrelliere: vi erano appoggiate armi di ogni tipo, dalle spade agli archi, dalle mazze ai coltelli, forse non erano tutti di prima scelta, ma erano ottime per l’intrattenimento che doveva riservare agli spettatori.
Il giovane fece per afferrare una spada, ma ritrasse la mano quando si accorse che l’elsa e l’impugnatura erano ancora intrise di sangue, probabilmente del precedente gladiatore che aveva imbracciato quell’arma.
Optò per quella a fianco che pareva più pulita, anche se la lama aveva la punta spezzata. Ignorò quel dettaglio e si avvicinò alla rastrelliera successiva, quella degli scudi: molti erano rotti, altri crepati e praticamente tutti ammaccati. Scelse il suo solito scudo di legno scheggiato con le insegne rosse, lo aveva accompagnato in altri combattimenti: era resistente e leggero, ciò che faceva al caso suo.
Per ultimo, dopo aver fatto quasi un giro completo della sala, arrivò là dov’erano poste le armature. Mentre ne indossava una di cuoio scuro fece vagare lo sguardo per la stanza, in particolare verso la l’enorme portone che conduceva allo spiazzo sopra di lui: l’Arena dei Perduti. Notava delle lame di luce rossastra penetrare tra le lamine di ferro poste a rinforzo della porta e i primi urli di gioia della folla. Già se li vedeva tutti accalcati per ottenere il posto migliore così da godersi meglio lo spettacolo di sangue e morte che si preannunciava.
Duncan scosse la testa disgustato, come potevano esistere persone che si eccitassero a tal modo con la violenza? O con la morte altrui?
Lui le aveva sperimentate entrambe quando prestava servizio militare: ne aveva conosciuto i suoi lati più oscuri e atroci, arrivando a disprezzarle ambedue. Nuovamente nella sua mente fiorì il ricordo della sua amata, questa volta gli sorrideva solare e tendeva le braccia verso di lui.
Ma i sogni sono fatti per non durare, tanto che, mentre il giovane tendeva a sua volta le braccia per accettare quell’abbraccio immaginario, fu chiamato il suo nome.
Scosse la testa e si calò l’elmo sul viso, avviandosi a passi spediti verso il portone rinforzato. Subito una goccia di sudore andò a formarsi sulla sua tempia sinistra, colando poi sulla pelle. Faceva caldo, troppo caldo e questo significava una sola cosa… Tessitori di Fuoco.
Fantastico. Lui quelle bestie le odiava!
Sbuffò sonoramente, traendo poi un lunghissimo e profondo respiro. Cos’è che gli aveva detto la sua amata?
Apri gli occhi. Gli suggerì una voce. Il ragazzo, invece, li chiuse, per concentrarsi, per svuotare la mente dai pensieri e focalizzarsi sullo scontro imminente. Sapeva poco sui Tessitori di Fuoco: venivano dall’estremo Nord, dalle terre più calde del regno, era a conoscenza che fossero bestie disgustose e orrende, ma a parte questo, aveva poche altre informazioni. Le aveva viste una sola volta in vita sua e gli era bastato.
Apri gli occhi. Sussurrò nuovamente la voce della sua amata. Eseguì nel momento in cui i grandi cardini mangiati dalla ruggine gemettero, aprendo lentamente le grandi porte.
 
[Continua…]
 
 
***
 
HOLA di nuovo! ^_^
 
Mese nuovo, capitolo nuovo! ^^
Scusatemi se vi ho fatto aspettare tanto, ma purtroppo è periodo di esami e quindi ho avuto poco tempo per scrivere, senza contare che il mio Contest a Turni su Hunger Games è finalmente partito… quindi, immaginate.
Allora, allora… che posso dire? Visto che Duncan sembra piacere a molti di voi, ho deciso di iniziare da lui. Ammetto che come capitolo è un po’ descrittivo e lento, ma mi serve per introdurre bene il suo personaggio, spero che non mi vogliate male. ^^’’
Adesso sembra ancora tutti confuso, ma vedrete che si chiarirà presto più o meno! XD
Provate a indovinare chi sarà il prossimo a entrare il gioco, chi azzecca si ritroverà un ringraziamento speciale al fondo del prossimo capitolo! ;)
Vi avviso che prima di metà marzo non uscirà il capitolo (esami, sorry! >.<). Ma cercherò comunque di aggiornare più o meno regolarmente almeno ogni due mesi, ok?
Beh… grazie a tutti voi che mi seguite, attendo le vostre recensioni e le vostre critiche! ^^
Grazie ancora e a presto! ;)
ByeBye
 
ManuFury! ^_^
 
 
Ah, giusto… per orientarvi un minimo con la geografia di questo mondo passate a leggere questa storia DRAKKAS, che parla proprio del mondo in cui vivono i nostri eroi.
Grazie di tutto e a presto! ;)

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Capitolo 3
*** Capitolo 2: Verso il Tramonto ***




Lo sbattere della porta alle sue spalle zittì di colpo le voci che provenivano dallo studio di suo padre. Dal legno giunse un lieve scricchiolio, che diede quasi l’impressione di spaccarsi a metà, per quanta potenza era stata usata nel colpo. Ma l’ira del giovane era lungi dall’essere sedata.
Warren avanzò di paio di passi appena, prima di colpire la parete di pietra al suo fianco con così tanta forza da strapparsi il guanto di pelle scura e ferirsi le nocche, le quali presero presto a sanguinare.
Imprecò rabbioso, scuotendo la mano mentre proseguiva per il lungo corridoio: non badando alle goccioline rosse del suo sangue che macchiavano i raffinati tappeti o ai preziosi quadri che ornavano le pareti di roccia, la collera che l’animava era così potente e ruggente da renderlo cieco alla bellezza che aveva attorno. Non prestò nemmeno attenzione alle persone che incontrava sul suo cammino, che spintonava rudemente a lato per farsi strada.
Qualcuno aveva anche tentato di protestare, infastidito dal poco educato comportamento del ragazzo, ma riconoscendo in lui l’ultimo figlio del nobile Orson Velenodikobra tutti avevano concordato sull’ignorare quegli spintoni, soprattutto alla luce delle ultime notizie giunte dal fronte.
A Warren non importava che pensavano gli altri, anche se ammetteva che non era il suo comportamento abituale quello, ma la rabbia per la notizia appena riferita da suo padre era stata troppo grande e troppo ingiusta per non farlo reagire in quel modo.
Dopo un dedalo di corridoi raggiunse un’altra porta, più alta e spessa di quella varcata in precedenza; l’aprì con un solo e sonoro calcio, quasi scardinandola dalla sua sede e fu fuori.
La luce fortissima e calda del sole gli accarezzò il viso incredibilmente glabro per la sua età, il vento s’insinuò tra i suoi capelli neri con dita invisibili. Chiuse gli occhi scuri, respirando a pieni polmoni e sedando la sua ira, anche se solo in parte. L’aria calda e bollente del deserto, che sembrava un infinito e stanco respiro della terra, aveva il potere di calmarlo.
Ma le velenose parole di suo padre ancora gli ronzavano nella testa, tanto che dovette scuoterla diverse volte prima di riuscire a cacciarle del tutto. E in quei momenti, in cui il malessere lo coglieva impreparato, attanagliandogli le viscere, il giovane sapeva che c’era un solo posto in grado di rilassarlo veramente, e non era nemmeno lontano.
Sì, era quello che gli serviva dopo quella discussione.
Alzò le palpebre e si avviò a passo svelto, anche se leggermente appesantito dall’armatura che indossava. Camminò per qualche manciata di minuti, scivolando per le strette vie della Torre di Addestramento che si estendevano tutto attorno alla sua dimora. Tutta la città, in verità, era un po’ condensata: sia per la continua crescita demografica sia per la posizione in cui era stata costruita, su un solitario e imponente sperone di roccia che si stendeva a strapiombo su un burrone nero e infinito. Era una posizione strategica visto che potevano essere aggrediti solo frontalmente e in tempi bui come quelli in cui gli attacchi non mancavano mai, le alte mura di pietra rossa erano una difesa che non era mai stata abbattuta. Purtroppo, questa scelta di isolarsi in un angolo aveva costretto gli architetti a costruire le case l’una attaccata all’altra, riducendo al minimo lo spazio vitale di ogni cittadino e creando il caos tra le vie sempre troppo affollate di gente.
La Torre di Addestramento faceva una piccola eccezione: era un'altissima torre costruita proprio sull’orlo del crepaccio e godeva di un ampio spiazzo centrale dedicato agli allenamenti. Inoltre lì vi erano le stalle e proprio quest’ultima era la meta del giovane.
Aveva appena svoltato l’angolo di una costruzione quando avvertì un lievissimo movimento, come uno spostamento d’aria.
Per istinto, Warren balzò indietro giusto in tempo per vedere un bastone calare là dove prima c’era il suo corpo; nell’aria una risatina.
“Sei diventato veloce, sai?”
“O sei tu che sei diventato lento, Jansen.” Ridacchiò il ragazzo, riconoscendo in quella voce quella dell’amico d’infanzia e di tante scorrerie adolescenziali. Questi si fece avanti, il sorriso che aveva stampato in faccia era nascosto da spessi strati di stoffa che gli fasciavano interamente il viso, com’era d’usanza per quelli del suo rango sociale, lasciandogli scoperti solo i bellissimi occhi verdi, eredità di un padre straniero. Indossava la solita e sgualcita armatura di cuoio sbiadito di sempre e si passava il lungo bastone di legno scuro da una mano all’altra.
“Sentiamo War, cosa ti turba?” Domandò, abbassando lo sguardo sul legno, non gli serviva guardare l’amico negli occhi per capirne lo stato d’animo, gli bastava la sua sola presenza: era un legame che avevano sempre avuto, che aveva avuto modo di rafforzarsi con gli anni e con le avventure che i due avevano vissuto assieme.
“Cosa ti fa credere che io sia turbato?” Rispose Warren, subito sulla difensiva, alzando il mento con fare quasi indignato e incrociando le braccia al petto. Odiava la capacità di Jansen di capirlo così a pelle, era una cosa che non aveva nessun’altro. E in certe circostanze risultava estremamente fastidiosa.
“Per il semplice fatto che sei qui. – Affermò il ragazzo dal viso coperto. – Se tutto andasse bene o saresti chiuso nella tua camera a esercitarti a tirar di spada, oppure saresti sulla piazza centrale, ad aiutare la carovana nei preparativi per la partenza.” Alzò gli occhi verdi in quelli neri dell’altro, appoggiando una spalla contro la parete al suo fianco. Non aggiunse altro, sapeva che se Warren avesse voluto parlare l’avrebbe fatto e senza pregarlo. Confidarsi; era una cosa che faceva sempre con lui.
Un minuto di silenzio, forse due, di certo non di più prima che le labbra sottili del giovane cavaliere si aprissero.
“Non andrò in battaglia nemmeno questa volta. – Rassegnazione nella sua voce e una nota di sconfitta che si sentiva raramente. – Mio padre teme per la mia vita, da… beh, dalla morte dei miei fratelli.” Il tono della sua voce, solitamente sempre così forte e possente, calò un attimo al ricordo: era accaduto quattro mesi prima, eppure, non riusciva ancora a farsene una ragione, anche perché non c’era stato onore nella loro morte, non c’erano state possibilità di scampo; non c’era stato nemmeno uno scontro diretto, ma una semplice rappresaglia da vigliacchi.
Jansen lo guardò, il verde accesso delle sue iridi appena oscurato, rattristato dalla notizia, non ne sapeva niente, le informazioni che arrivavano dal fronte erano scarse, quasi sempre incomplete. Si avvicinò di qualche passo, a dargli una pacca sulla spalla.
“Andiamo War, non fare così. Devi capire tuo padre: con questa guerra ha perso tutti i suoi figli tranne te, è normale che cerchi di proteggerti.” Sospirò piano, almeno l’amico aveva un padre che si preoccupava per lui, Jansen non sapeva nemmeno dove fosse il suo, o che faccia avesse; sua madre diceva che era bello, che aveva gli occhi così verdi che ti rapivano al primo sguardo, ma lui non l’aveva mai conosciuto.
Ma a quelle parole, che volevano essere di conforto, l’ira tornò ad animare gli occhi neri del giovane cavaliere.
“Ma io non ho bisogno di protezione! Io voglio andare su quel campo di battaglia e sterminare quei bastardi che hanno ucciso i miei fratelli!” Ruggì con forza, la mano sull’elaborata impugnatura della spada.
“Ahn, certo. Ottimo piano, grande stratega. – Lo canzonò l’amico. – E in che modo intenderesti raggiungere il fronte, se posso saperlo?”
“Che domande, ho un rettile che dovrebbe servire anche a quello, no?”
“A proposito di lui…” Iniziò Jansen, lasciando la frase un po’ a metà visto che non era certo di saper proseguire nel modo giusto, l’argomento era spinoso.
Alzò lo sguardo e si trovò gli occhi neri del giovane e ultimo Velenodikobra fissi nei suoi, gelidi come potrebbero esserlo due diamanti neri e seri, terribilmente seri.
“Che fine ha fatto il rettile?” Pose quella domanda piano, con tutta la calma del mondo e quello non era un bene, non lo era mai; quel tono non era da Warren.
“Beh… - Jansen si passò una mano dietro al collo, si stava già arrampicando sugli specchi e non aveva ancora nemmeno iniziato, grandioso. – Sai, la stagione secca è appena iniziata. E… insomma… sai che i Falsi Draghi in questo periodo… fanno la muta.”
Silenzio.
Attimi interminabili che si dilatavano come ore.
“Un modo molto raffinato per dirmi che il mio drago non c’è!” Ringhiò Warren.
“Ehi, non prendertela con me, chiaro? Non sono io il cavaliere.”
“Infatti sei lo stalliere e come tale dovevi badare al mio drago!” Il ragazzo si morse la lingua troppo tardi: vero, Jansen non era un cavaliere e non lo sarebbe mai nemmeno stato, il massimo cui quelli come lui potevano aspirare era di fare gli scudieri, guardando i terribili Cavalieri del Deserto sempre dal basso, senza mai poter alzare il viso in loro presenza.
Warren fece per parlare, per chiedere scusa all’amico di sempre; ma rimase in silenzio, mordendosi appena il labbro inferiore, era il solito idiota che parlava a sproposito, almeno su quello suo padre aveva ragione da vendere.
Il silenzio che si era creato tra di loro era più freddo del gelo dell’inverno. Solo dopo diversi istanti Warren riuscì a parlare.
“Scusa.” Disse semplicemente. Avrebbe voluto aggiungere di più: dirgli che era il solito demente che parlava senza collegare la bocca al cervello, che era frustrato per la situazione in cui viveva, che trovava ingiusto il fatto che Jansen avesse quel rango sociale, senza possibilità di cambiarlo, benché potesse dare tanto, tantissimo. Ma nessuno di questi pensieri varcarono le sue labbra dopo quella banale e semplice parola.
Gli occhi verdi dell’altro si alzarono lentamente e da sotto la stoffa che gli copriva il volto, nacque un sorriso invisibile.
“Scuse accettate. – Gli diede una pacca sulla spalla. – Anche se meriteresti di essere punito per la tua insolenza nei mie confronti, ma non ne ho voglia.”
“Come se riuscissi a tenermi testa.” Sorrise a sua volta l’altro, facendogli cenno di seguirlo mentre si avviava in uno stretto vicoletto appena visibile tra due basse stalle. Era molto angusto, tanto che gli spallacci dell’armatura di Warren stridevano appena contro i muri di pietra, ma sapeva che ne valeva la pena.
Raggiunse un piccolo spiazzo di roccia rossa largo poche decine di metri, se non di meno, che dava sull’immenso e nero strapiombo che proteggeva la loro città. Il sorriso sul viso del giovane cavaliere si allargò, mentre nuove invisibili e calde dita d’aria gli accarezzavano capelli e pelle; respirò a pieni polmoni, chiudendo un attimo gli occhi, quello era il posto che più adorava. Alzando le palpebre vide in lontananza, oltre le sconfinate e piatte distese delle Rosse Lande del Nord, il sole, immenso globo di luce, iniziare la sua lenta parabola discendente, prendendo a insanguinare ancora di più il paesaggio. Era uno spettacolo già visto, ma ogni volta era come se fosse la prima. Lì era il luogo dove Warren riusciva veramente ad annullare se stesso, ritrovando la sua calma interiore; ed era da lì che aveva salutato l’ultima volta i suoi fratelli.
“I tuoi piani per il futuro, War?” Domandò il compagno, affiancandosi e schermendosi gli occhi con una mano, il colore chiaro delle iridi era spesso un problema, specie in quella stagione dove i raggi solari tagliavano più di mille spade.
“Come?” Si voltò verso Jansen, con un’espressione assente, gli occhi scuri ancora pieni di quel paesaggio che era rosso come il sangue e infinito come l’orizzonte.
“Non m’inganni, sai? Quando mi porti qui è sempre per confidarmi qualcosa. – E ci tenne a sottolineare quel sempre. – Avanti, sputa il rospo.” L’incitò l’amico, osservandolo a sua volta, appoggiandosi al bastone.
Warren prese un bel respiro, chiudendo ancora una volta gli occhi. Nel farlo, si ritrovò a passare in rassegna tutti gli avvenimenti degli ultimi mesi: la malattia di sua madre, che sembrava procedere di pari passo con la guerra, fiaccando il suo corpo non più giovane, aggredendola come nemici che assaltano il fronte. La morte ingloriosa e orrenda dei suoi fratelli, il ricordo dei loro cadaveri straziati sotto il sole, con le bocche spalancate come a urlare vendetta. Ancora una volta sua madre, il suo viso un tempo così bello, deformato dal dolore e dalla malattia che la stava facendo cedere. E ancora il veleno nelle parole di suo padre e nel Comandante Lungalancia, che spezzavano definitivamente i suoi sogni.
Quando riaprì gli occhi e puntò lo sguardo verso l’orizzonte comprese una cosa e la decisione che aveva deciso di prendere si rafforzava istante dopo istante.
“Voglio andarmene.” Affermò con la sicurezza che da sempre lo caratterizzava, sicuro dell’appoggio del suo amico.
Jansen, al suo fianco, sussultò appena, sgranando leggermente gli occhi e guardandolo con un’espressione che avrebbe potuto mandare a un vecchio pazzo che chiede l’elemosina a bordo strada, ma lo sguardo del nobile figlio di Orson Velenodikobra era così fermo e sicuro da fargli comprendere che quelle parole non erano state dette così a caso.
“Tu sei pazzo!” Sentenziò lo stalliere.
“Affatto, semplicemente sono stanco di aspettare, di stare qui ad attendere che qualcuno mi giudichi pronto. Io voglio dimostrare loro che sono pronto, così da fargli rimangiare quella parole da serpe.” Si riferiva in particolare a suo padre, si capiva dal tono. La sua approvazione era ciò che ricercava da una vita, ma che non era mai arrivata.
“Non hai una cavalcatura.” Gli fece notare l’altro. Avrebbe trovato mille validi motivazioni per riportare il cavaliere sulla retta via, quello in cui voleva buttarsi era una follia.
“La recupererò. Il rettile sarà sicuramente alla Piana, là dove i suoi simili fanno la muta, mi dirigerò lì e lo troverò.”
“E dopo? Cos’hai intenzione di fare dopo? Sii realistico Warren, non hai mai combattuto seriamente, non hai mai ucciso nessuno, non puoi buttarti in quest’impresa suicida.” Tentò di dissuaderlo, voleva fargli tornare quel minimo di buon senso.
“E dopo? – Gli fece eco l’altro ragazzo, sorridendogli. – Andrò verso il tramonto.”
Perché sentiva che quello era il suo posto, l’aveva sempre creduto ogni volta che alzava lo sguardo verso l’orizzonte, ogni volta che pensava a quello che c’era oltre la sua caotica città.
Sorrise, dando le spalle allo splendido spettacolo del sole che iniziava la sua lenta parabola decrescente. Si avviò con sicurezza; aveva preso la sua decisione e nemmeno le imprecazioni urlate del suo migliore amico l’avrebbero dissuaso, non questa volta.
Sentì Jansen bestemmiare come mai aveva fatto prima, buttando con stizza il bastone in terra.
“Warren! No-non puoi farlo! Dannazione a te! Questa è una vera…!”
 
[Continua…]
 
 
***
 
HOLA! ^_^
 
Tesori miei siete ancora qui?
Visto come la Manu è cattiva?
Vi fa aspettare una vita per un capitoletto che non ha nulla d’interessante (tranne quel bell’imbusto del mio War! *Q*).
Ma ho una spiegazione logica, lo giuro! ^^’’
Anzi, più di una… u___u
Ho l’università che non mi da pace (stupido Diritto Amministrativo! -.-‘’) e due Contest (di cui uno a Turni) che non mi lasciano respiro, per non parlare della Musa Ispirazione che ogni tanto mi saluta e mi lascia un bigliettino con scritto: “Scusami cara, sono ai Caraibi, torno presto!” … quindi, portante pazienza, ve ne prego.
Allora, che ne dite del prode Warren Velenodikobra? Vi piace? È un antipatico? Volete Dagh, vero?
Warren: ma! è_____é
Beh… dovrete portare pazienza ancora un pochino che ho ancora mille cose da fare, ma vi assicuro che il prossimo capitolo è già in fase di stesura e ci sarà un po’ più di sangue e qualche nuovo personaggio.
Se avete voglia di lasciarmi il solito commentino mi farete felice! ^^
Grazie dell’ascolto e a presto! ;)

P.S: i primi tre capitoli di questa Long si sono Classificata UNDICESIMI (a pari merito con Shallo) al Contest: "Contest dei primi capitoli" indetto da Mitsuki91.
Finito per davvero! :P

ByeBye
 
ManuFury! ^_^

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Capitolo 4
*** Capitolo 3: Come Fuoco ***


[Questo Capitolo si è Classificato QUARTO al Contest: "Le basi del fantasy: Guerriero, Mago o Ladro?" indetto da Dragone 97
Classe Scelta: ovviamente Guerriero!]
[Questo Capitolo partecipa anche al Contest: "
.:Eroi nel Vento:." indetto da Releeshahn e si è Classificato QUINTO]
 

 

 

Pazzia!
Quella fu l’ultima parola pronunciata dal vecchio Dirk, prima che la sua testa fosse violentemente staccata dal collo, rotolando poi per alcuni metri a terra, fino ai piedi dei suoi ex uomini, facendoli congelare sul posto.
Per qualche breve istante, lo scontro che imperversava sembrò sedarsi, quasi in rispetto per quella morte avvenuta così violentemente; anche se la morte su un campo di battaglia non era mai pacifica. E nell’immobilità che sembrava pervadere il campo, c’era qualcuno che era più fermo di altri: Sasha aveva osservato tutta quella scena al rallentatore, come se qualche mago avesse invischiato il tempo, per farlo scorrere più lentamente così da prolungare la sofferenza della ragazza; aveva visto il vecchio Dirk parare un colpo e alzare la spada, per abbattere il suo nemico, ma quello era stato più lesto di lui e, schivando l’attacco scartando a lato, aveva  sollevato la spada e ucciso Dirk con un solo fendente, preciso e letale, falciando via la sua testa come una falce taglia il grano maturo.
Il respiro della giovane si era bloccato, il cuore contratto e stretto in una morsa gelida che non aveva mai provato prima di allora per la morte di qualcuno. In fondo era una mercenaria e ancora prima era stata un Tributo di Sangue, la morte era la sua macabra compagna di giochi d’infanzia e la sua unica amante nel periodo dell’adolescenza. Ne aveva vista tanta nei suoi quasi ventuno anni di età: ricordava ogni viso, corrotto dalle smorfie più orrende di chi incontra la Nera Signora dell’Aldilà, ricordava il sangue, il metallo e il sudore e il colore di ogni paio d’occhi che aveva visto spegnersi davanti ai suoi, diventando vitrei come quelli di una di quelle belle bambole che non aveva mai avuto. Quantità infinite di amici e nemici l’avevano salutata o maledetta mentre fredde e ossute braccia di scheletro avvolgevano i loro corpi, che andavano a privarsi della vita.
Nonostante i suoi occhi verdi come smeraldi avessero visto così tante atrocità, così tanto sangue e così tanta morte, mai si erano inumiditi di lacrime come ora, a vedere la testa di Dirk a terra, circondata da un lago di sangue.
Il suo sangue.
L’aria rientrò con prepotenza nei suoi polmoni quando si ricordò che per vivere, doveva respirare. Anche il cuore sembrò riprendere a battere, ma i suoi muscoli erano ancora di freddo marmo, gli occhi ancora puntati verso quel corpo muscoloso abbandonato nella polvere, coperto di sangue, calpestato dalla battaglia che le imperversava di nuovo attorno, ora nuovamente incurante di un altro morto tra i morti.
Restare così immobile poteva renderla un bersaglio facile, come se la corporatura gracile e il viso angelico non contribuissero già di loro, l’unica cosa che stonava, risultando in netto contrasto con tutto il resto era l’enorme spadone a due mani grondante di viscido sangue rosso acceso; la giovane lo stringeva quasi spasmodicamente tra le dita, rese appiccicose dal sangue dei nemici già abbattuti.
Una singola e gelida lacrima lasciò gli occhi smeraldini di Sasha; scivolò lenta lungo le gote appena arrossate, brillando nel sole come un solitario diamante liquido, giungendo poi fino al mento, dove rimase sospesa per qualche attimo prima di cadere a terra, tra la polvere e il sangue.
In quello stesso momento un movimento repentino attirò lo sguardo della ragazza, che scartò prontamente a lato per puro automatismo, vedendo subito una lama macchiata di vermiglio tagliare l’aria, schiantandosi poi al suolo, dove sollevò una piccola nube di polvere rossiccia. A impugnare l’arma un soldato con l’armatura scintillante alla luce del sole; su uno spallaccio aveva inciso un grosso teschio ghignante, simbolo di chi aveva ucciso almeno cento nemici, all’altro aveva un grosso cavallo rampante con due code nere.
Il soldato la guardò con occhi nerissimi che non tradivano emozioni, lo sguardo di un Guerriero Gelido che punta a una preda azzoppata. Sorrise lievemente, un sorriso che la ragazza conosceva, lo sguardo di chi non ti crede al suo stesso livello.
Idiota. Commentò solo mentalmente.
Sasha strinse l’impugnatura della sua spada, così forte da farsi sbiancare le nocche e scricchiolare i guanti di pelle, non badando al sangue che poteva rendere viscida la presa. I muscoli, finalmente, si risvegliarono dal loro torpore, irradiandosi di un calore nuovo, di quello che sentiva sempre durante ogni battaglia.
Guardandolo, la ragazza decise di non dare tempo all’uomo di comprendere niente, di non fargli nemmeno capire che la morte aveva posato su di lui i suoi occhi. Gente che etichettava senza aver visto il proprio avversari all’opera, non meritava una sola possibilità.
Scattò con velocità impressionante, alzando la sua enorme e pesante arma come se pesasse niente, come se non fosse altro che un prolungamento del suo corpo. Bastò un colpo solo per tranciare di netto la testa al nemico che aveva di fronte, passando subito dopo al seguente e poi a quello dopo ancora; senza pause, senza interruzioni.
Il respiro era irregolare e il caldo che sentiva atroce; ma combattere sembrava essere l’unico modo di sfogare la sua frustrazione per la morte di Dirk, abbattere un nemico dopo l’altro, era come se potesse riportare in vita il vecchio capo dei mercenari. Un pensiero stupido, da bambinetta, ma Sasha non voleva essere coerente in quel momento. La mente era vuota come lo stomaco di un mendicante e gli occhi fissi, come quelli di un cane che punta la preda; la sua personalità sembrava annientata, lasciando posto a un involucro di carne ricolmo di rabbia, perfetta macchina da guerra.
E più avversari abbatteva, più sangue le sporcava il viso, l’armatura, il corpo e forse anche l’anima; più sentiva l’ira che l’aveva assalita scemare, abbandonandola.
Fiumi di sudore presero a scorrerle sulla pelle non più chiara, offuscandole a tratti la vista, facendole bruciare gli occhi. I muscoli, gementi, imploravano qualche attimo di pausa per ripristinarne il vigore ormai esaurito. Senza contare il caldo: quello che aveva iniziato a provare fin da subito, che le avvolgeva il corpo come un incendio, amplificando oltre ogni limite la frustrazione e la rabbia che sentiva dentro.
Abbatté un nuovo avversario, scostandosi dall’attacco a tradimento di un secondo, ritrovandosi ai limiti del piccolo campo di battaglia. Con un gesto secco si strappò dalla testa il bell’elmo elaborato, gettandolo con malagrazia tra la polvere rossa; immediatamente una cascata di riccioli dorati le scivolarono in dolci boccoli sulle spalle atletiche, incorniciando il suo viso e facendolo parere quello di una bambola di porcellana macchiata da troppo sangue.
Sasha prese di nuovo fiato, iniziando ad avvertire la stanchezza che le incatenava il corpo, rallentandone i movimenti e i riflessi, l’aveva sforzato troppo e lo sapeva; aveva ragionato senza alcuna logica, in preda alla rabbia più bruciante e al dolore per la morte di un amico, che più volte aveva considerato un padre.
Guardò dritto davanti a sé, scorgendo due uomini che le si avvicinavano minacciosi, più indietro, oltre le loro spalle, poté osservare l’andamento di quella battaglia: le forze di Dirk erano in inferiorità numerica, ma ogni mercenario stava combattendo come un leone, forse anche di più; ma le forze degli Eserciti della Cintura del Nord erano decisamente più numerose delle loro, parevano formiche per quanto erano numerosi.
Forse il vecchio mercenario aveva avuto ragione ad affermare che quell’attacco era stato una pazzia.
La ragazza scosse la testa, facendo ondeggiare i lunghi riccioli chiari e bagnati di sudore, concentrandosi sullo scontro imminente, doveva riportare ordine nella baraonda che aveva in testa, doveva fare come Dirk le aveva insegnato: mantenere la mente in ordine, era quello il segreto che permetteva la sopravvivenza.
I due avversari si avvicinarono subito, camminando praticamente all’unisono, mentre un terzo rimase indietro, probabilmente per dare man forte in caso di problemi, anche se dal suo atteggiamento sembrava abbastanza sicuro che non ce ne sarebbero stati.
Sasha li osservò entrambi, mentre le camminavano attorno, studiandola come due bestie che valutano il momento migliore per attaccare la loro preda, credendola indifesa, senza nemmeno immaginare che questa aveva denti e artigli e che li sapesse usare bene.
Qualche istante di attesa, di studio dell’avversario, prima che entrambi attaccassero in perfetta sincronia: uno da un lato e l’altro da quello opposto, con la precisione che solo due combattenti allenati a combattere assieme potevano avere.
La giovane evitò entrambi i colpi con un abile e lungo balzo indietro, alzando di nuovo la sua lunga e pesante spada, per colpire a sua volta. Sentì il clangore del metallo su metallo: uno dei due soldati aveva parato il suo colpo, lasciando libertà di azione al compagno, che si spostò rapidamente a lato, pronto a sferrare a sua volta un fendente contro il fianco della ragazza, privato di ogni difesa.
Evidentemente entrambi erano convinti di avere la vittoria già in pugno, per questo l’espressione stupita che si disegnò loro in faccia fu uno spettacolo decisamente piacevole per Sasha, quando si accorse che il colpo diretto a lei era stato abilmente deviato da una spada amica, che non esitò a far forza sull’arma, per far indietreggiare il nemico. A sua volta, spintonò in avanti il suo avversario, retrocedendo subito dopo, trovandosi con la schiena contro una ben conosciuta.
“Ce ne hai messo di tempo, Floryan.” Borbottò la ragazza. A rispondergli, una risatina che sembrava un piccolo tuono in lontananza.
“Avevo da fare, a differenza tua, scricciolo.” Tuonò una voce che conosceva fin dall’infanzia.
Floryan Due Lame era un Tributo di Sangue come lei e fin da bambini avevano lavorato in coppia, imparando ad apprezzarsi l’uno con l’altra, benché il divario nelle tecniche di combattimento che li separavano: lui che prediligeva la forza bruta e l’attacco e lei che amava di più la velocità nelle azioni e una breve difesa, prima del fendente decisivo.
“Certo. – Sasha alzò gli occhi al cielo, odiava quel dannato nomignolo, solo perché lei era… leggermente più piccolina di lui. Portò poi gli occhi verdi all’avversario che aveva di fronte, che sembrava avere il chiaro intento di attaccare, volendo lavare via l’affronto appena subìto. – Bisogna ordinare la ritirata o ci massacreranno.” Affermò, appoggiandosi maggiormente alla schiena del compagno e avvertendo i lunghi capelli di lui, accarezzarle dolcemente le spalle. Da bambina amava quei capelli, passava ore a intrecciarli.
“Lo so, scricciolo. Me ne stavo occupando, poi ti ho visto in difficoltà e sono accorso, da buon fratello maggiore, non credi?” Sorrise appena, portando a sua volta gli occhi scuri verso il suo di avversario, che sembrava decisamente adirato, come il compagno, per la parata che aveva fermato il suo attacco.
“Come se tu fossi veramente mio fratello.” Sussurrò a fior di labbra la giovane. Non negava che le sarebbe piaciuto: se avesse condotto un’altra vita e avesse avuto un’infanzia, Floryan sarebbe stato un fratello perfetto per lei, aveva fantasticato alle volte su come sarebbe stata la sua vita in quel caso. Scosse leggermente la testa, facendo ondeggiare i lunghi capelli biondi, che per qualche attimo le oscurarono la visuale; inutile fantasticare ora su certe cose, il suo destino era stato diverso da quello di tante bambine che crescevano tra genitori amorevoli e bambole, invece che tra morti e spade. Lei era destinata alla guerra, era nata per quello, lo sapeva.
Ogni volta che si trovava su un campo di battaglia, sentiva il sangue ribollire e il cuore cavalcarle nel petto come un puledro impazzito, pompando più sangue nei suoi muscoli scolpiti dagli anni di allenamento e dall’esperienza maturata in mille scontri. Il corpo le s’incendiava letteralmente e, alcuni dicevano, che i suoi capelli diventavano come fuoco quando si lanciava nel combattimento, caricando a testa bassa come un toro infuriato, ma ritrovando la lucidità un attimo prima di giungere alle file nemiche; evitando abilmente le picche avversarie e penetrando nelle loro difese come un incendio in una foresta secca, compiendo stragi su stragi.
Come quella volta in cui era la rabbia a muovere le sue azioni, rendendola al pari di una leonessa ferita e stretta in un angolo.
“Ordina la ritirata, Floryan. Qui finisco io.” Affermò Sasha e, senza aspettare neppure la risposta dell’altro, si lanciò sul suo avversario, abbassandosi in tempo per evitare un colpo troppo alto e affondare il suo spadone nel fianco dell’altro, giù, in profondità nella carne. Un getto vermiglio macchiò l’aria con il suo odore acre eppure così inebriante, capace di esaltarla come nessun’altra cosa. Così come il grido di dolore che ne seguì, andando poi a spegnersi in un gorgoglio sanguinolento. Quello era uno dei combustibili che accendeva il suo fuoco interiore e che le permetteva di bruciare ogni cosa attorno a sé.
Ritirò la lama dal corpo del nemico appena abbattuto per concentrarsi sul successivo, mentre sentiva gli occhi pungerle per il sudore che scendeva in fiumi, mentre i muscoli di nuovo si lamentavano per lo sforzo sostenuto.
La ragazza sorrise appena, ignorando quelle sensazioni e buttandosi di nuovo nel combattimento, mettendoci tutta se stessa come ogni volta, ma soprattutto sforzandosi di scaricare la rabbia residua per la morte di Dirk, che ancora le aleggiava nella mente, ben sapendo di doverla mettere da parte.
Avvertì Floryan abbattere il suo nemico e avviarsi al centro del campo, gridando con la sua voce imponente la ritirata incondizionata per i pochi superstiti. Non era un ordine che si sentiva spesso, ma quello era un caso speciale: non avevano più un capo e gli avversari erano troppo numerosi per poter continuare in quel modo.
Con un fendente preciso, Sasha eliminò un nuovo avversario che aveva osato pararsi davanti a lei e alzò lo sguardo al compagno: si trovava proprio al centro del campo di battaglia, imponente e bellissimo, con i capelli lunghi e neri sciolti al vento, il fisico atletico messo ben in mostra da un abbigliamento ridotto all’osso, le cicatrici che solcavano la sua pelle erano portate con orgoglio, quasi come medaglie a indicare ai nemici che non era facile abbatterlo.
Non fino a quel momento, almeno.
A guardarlo, la ragazza sorrise per un istante appena, prima di rabbuiarsi quando vide un soldato avanzare verso Floryan, che gli dava le spalle e come per la morte di Dirk, le parve di vedere tutto a rallentatore: il soldato che avanzava e Floryan che lo ignorava, la spada del primo che si alzava lentamente.
“Floryan!” Urlò il suo nome sopra il caos che si era creato in quella ritirata disordinata, allungando una mano verso il compagno, come se con quel gesto potesse veramente evitare l’inevitabile; non poteva perdere anche lui, non Floryan e Dirk lo stesso giorno, non avrebbe potuto sopportare tanto!
Un singhiozzo le uscì involontario dalle labbra mentre a sua volta non si accorgeva di un nemico che si era portato anche alle sue spalle.  
Le spade calarono quasi contemporaneamente, come se volessero unire i due combattenti come veri fratelli.
Sasha non avvertì subito il colpo: la prima cosa che il suo corpo avvertì fu il calore del sangue che sgorgava in mille viscidi fiumi vermigli dalla nuca, scivolando poi sul collo e lungo la schiena, spegnendo pian piano le fiamme che l’avvolgevano. In un secondo tempo arrivò il dolore, così forte e lancinante da spegnerle lo sguardo, impedendole di vedere il destino di Floryan, che immaginava così simile al suo.
Scesero le tenebre: dense e scure, capaci di inglobare la luce e ogni altra cosa o sensazione.
I muscoli si fecero molli, come fossero di fango e il corpo intero cadde a terra con un tonfo sordo, così simile a quelli che aveva sentito prima, quando era lei ad abbattere i suoi avversari con un solo fendente; ma il suo era sempre uno sconto frontale, mai aveva colpito alle spalle.
Il respiro si mozzò, occludendole i polmoni, gli occhi si chiusero lentamente, anche se ancora tentava di lottare per tenere le palpebre aperte, o almeno socchiuse.
Sussurrò qualcosa, muovendo debolmente le labbra, mentre ogni rumore attorno a lei andava via via spegnendosi, proprio come le fiamme che l’avevano avvolta.
 
[Continua…]
 
 
***
 
HOLA! ^_^
 
Salveeeeeeeee!
Ragazzi e ragazze… visto che la disgraziata è tornata? XD
No, seriamente… sono stata in Università dalle 9 del mattino e uscivo alle 18… quasi non sapevo cos’era la luce del sole… O___O … poi ho i miei Contest da gestire e mille milla altre cose…
Ma… a voi non interessa… quindi, taccio qui e vi chiedo… ma vi è piaciuto questo capitolo? Visto che c’era un po’ di azione e sangue?
Il prossimo è tutto da ridere… visto che entrerà in scena il mitico Dagh! XD
Che posso dirvi… spero che vi sia piaciuto e che continuiate a seguirmi anche se aggiorno un po’ a momenti… ^^’’
Fatemi sapere che ne pensate… e se avete consigli, sono tutti ben accetti! ;)
Ci si sente presto!
ByeBye
 
ManuFury! ^_^
 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4: L'Arte di Contrattare ***




Le tenebre che li avevano accompagnati fino a quel momento presero a schiarirsi pian piano con il sorgere del sole, che illuminava loro il cammino, come la torcia di una guida.
Il silenzio che era stato perfetto fino a qualche giorno prima, aveva iniziato lentamente a mutare, riempiendosi di rumori che si erano accresciuti con l’accorciarsi della distanza che li separava dal mercato. Incredibile come, in così pochi anni, quel piccolo avamposto avesse aumentato la sue dimensioni, arricchendosi di banchi e popolandosi di persone, sembrava di assistere all’espansione di una micosi o di una Pianta-Non-Verde del Sud.
Da lontano, all’ombra dell’enorme costruzione che sovrastava il mercato, le genti che vi si affrettavano parevano tanti piccoli insetti che zampettavano veloci da un banco all’altro, alla ricerca chi di un oggetto chi di un altro.
Dagh dagli Occhi d’Argento sorrise leggermente a quella visione, accelerando il passo, giungendo finalmente alle prime casupole di fango che si alzavano come montagnole di terra dal terreno.
“Incredibile come anche all’ombra della morte possa proliferare così in fretta la vita, sei d’accordo con me, Ake?” Domandò al suo silenzioso compagno di viaggio, che camminava al suo fianco, indietro rispetto a lui di un passo, in segno di reverenziale rispetto. Il viso basso e celato da un lungo mantello di bianche squame di drago ne nascondeva i tratti affilati e gli occhi così diversi da quelli della “Gente Normale”.
L’uomo rallentò il suo passo, voltando indietro il viso per poter guardare il compagno di viaggio.
“Sai, è sempre un piacere quando ci troviamo entrambi d’accordo su qualcosa.” Ridacchiò, ricevendo solo un lieve sbuffo dall’altro, che alzò lo sguardo chiaro al cielo azzurro e limpidissimo.
Dagh rise ancora una volta: passavano i giorni, i mesi, persino gli anni, ma il buon vecchio Ake restava sempre il solito cavaliere solitario, di quelli che non si fermano in ogni osteria per provare il vino, che non badano ai sospiri delle dame che passano loro a fianco o a tutte quelle altre cose che, nel loro piccolo, rendono migliore la vita di tanti. No, lui era quasi come una bestia da soma: con i paraocchi sul viso, perché proseguisse sempre nella stessa direzione.
Certe volte l’uomo provava a comprenderlo, ma gli risultava così terribilmente difficile a causa dell’enorme vuoto che li separava per il quale Dagh aveva iniziato, lentamente e con tutta la pazienza del mondo, a costruire un ponte per poter finalmente raggiungere l’animo dell’amico che era sempre così vicino eppure così… distante.
Distanza che ormai era quasi nulla dal mercato vero e proprio: era proprio vero che gli esseri umani sapevano fiorire anche all’ombra della morte e della violenza, anche se, in quei tempi bui anche la morte era diventata una moneta di scambio come poteva esserlo una buona spada.
Non persero tempo a guardare i bei braccialetti d’oro o i gioielli esposti come molte donnine, oppure a fermarsi ai banchi di armi e armature come gli uomini, non erano venuti fin lì per quelle sciocchezze, avevano una missione ben più importante da portare a termine e il tempo stringeva. Erano filati dritti tra la folla rumorosa come uno sciame di api infuriate e si erano avvicinati sempre di più all’Arena, scorgendone l’immenso ingresso di pietra che si apriva come la fauce di un demone, pronto a ingoiare chiunque osasse varcarne la soglia. Proprio lì davanti, impegnati a discutere sotto l’alta volta, avevano riconosciuto un gruppetto di uomini con il viso coperto da sgargianti e colorate stoffe, un’usanza quella di nascondere i propri tratti, molto diffusa tra i mercanti.
Non era stato difficile individuarne il capo: emergeva tra i suoi compagni per stazza decisamente più massiccia, ma era carne la molle la sua, grasso e pelle, non muscoli; si distingueva anche per abiti, dai colori più scuri quali il viola, l’indaco e il blu, tappezzati di pietre preziose come turchesi, zaffiri e ametiste che ne impreziosivano la tunica a ostentare tutta la sua ricchezza.
Dagh aveva sorriso leggermente, avvicinandosi con passi lenti e calcolati al piccolo gruppo; sapeva di aver fatto centro, quello era l’uomo che cercava, in tanti glielo avevano descritto e a quel punto non doveva fare altro che sfoggiare tutto il suo fascino e la sua abilità nella contrattazione, perché quella sì che era un’arte.
“Vorrei contrattare.” Esordì una volta vicino, con voce ferma, occhi socchiusi e braccia conserte, attirando subito su di sé le attenzioni degli uomini: quando si parlava di affari e di conseguenza di moneta, certi individui erano sempre pronti a drizzare le loro orecchie come predatori che avvertono il camminare ignaro di una qualche preda.
Quando il guerriero annunciò la merce su cui voleva trattare, il capo dei mercanti mandò via gli altri e si dedicò all’uomo dagli occhi argentati, sotto lo sguardo vigile di Ake che non si perdeva una sola parola, una sola espressione, attento come un gatto, assorto come se stesse osservando rapito un combattimento.
Fu una contrattazione particolarmente difficile: c’erano pro e contro da valutare, prezzi di mercato corrente, interessi per il futuro e mille altre cose più o meno utili, ma Dagh si sentiva sicuro, quello era pane per i suoi denti e poi, era troppo interessato alla merce per demordere, doveva assolutamente averla vinta. Passarono i minuti, forse persino un’ora buona di tira e molla sul prezzo, di botta e risposta sulle conseguenze che quella possibile vendita avrebbe apportato, prima che l’uomo incappucciato annuisse, finalmente convinto.
“Mmm… d’accordo, mi hai convinto, Daghanod dagli Occhi d’Argento. – Annunciò, incrociando a sua volta le braccia e socchiudendo gli occhi, muovendo leggermente il capo in un cenno affermativo. – Posso vendertelo per centoventicinque ori.”
Dagh si trattenne a stento dal sorridere, ormai tutto era nelle sue mani, aveva ottenuto quello che voleva con meno fatica di quanto avesse immaginato; ma se era stato così facile, ragionò, poteva ottenere ancora di più; chiuse a sua volta gli occhi chiari, chinando un po’ il capo in avanti.
“Io ho solo centoventi ori, va bene lo stesso?” Chiese con noncuranza, mentre Ake, silenzioso e guardingo alle sue spalle, alzò leggermente un sopracciglio sottile e bianco: che avessero solo centoventi ori non era proprio esatto, soltanto che Dagh aveva il brutto vizio di andare sempre al risparmio.
“No, centoventicinque. Assolutamente non trattabile.” Affermò il mercante, irritandosi appena mentre alzava le palpebre, per guardare con occhi neri come ossidiana il suo interlocutore, si stava privando di un bene estremamente prezioso per lui e non voleva venderlo a meno di quel prezzo.
Dagh rimase perfettamente in silenzio, immobile come una splendida statua di sale, un’espressione indecifrabile gli deformava il viso: era a metà tra la sorpresa e la neutralità, era però chiaro che nascondesse qualcosa di non meglio identificato, giudicò Ake, studiandolo con occhio critico, lo conosceva troppo bene per non sapere che stava per compiere una delle sue solite pazzie.
Silenzio, talmente denso e gelido da chiudere fuori il continuo borbottio del mercato poco distante, avvolgendo i tre uomini come in una bolla d’aria. Dagh non era mai stato un uomo che amasse perdere in certe situazioni, ne andava del suo orgoglio da uomo dell’Est; ed era sempre più difficile per lui rinunciarci.
Altro silenzio, carico di tensione e di dubbi, in cui l’espressione dell’uomo mutò attimo dopo attimo, modificandosi come una maschera di cera lasciata al sole, prima che le gambe gli cedessero e lui finisse in ginocchio di fronte al mercante: il capo rasato chino, le mani robuste tese in avanti, artigliate all’orlo dei vestiti sgargianti dell’altro, a strattonarlo appena come un bambino che desidera ardentemente attirare l’attenzione di suo padre.
“Non li ho centoventicinque ori, lo giuro. Ne ho solo centoventi. – Si giustificò con tono lamentoso, come una ragazzina che fa i capricci per ottenere qualcosa a tutti i costi. – Ti prego.” Alzò solo allora il leggendario sguardo argentato, quello che negli anni della sua giovinezza stendeva ogni donna per quanto era affilato e fiero oltre che terribilmente seducente, anche se adesso era sottomesso alla situazione, falsamente supplicante, quasi come un cane ingiustamente bastonato che chiede spiegazioni al proprio padrone. Il mercante rimase interdetto e imbarazzato da quel gesto, ma ovviamente, da buon commerciante qual’era, non poteva farsi impietosire da certe scenate, ne aveva viste di peggiori nei suoi ormai ventidue anni di lavoro.
Scacciò il lieve alone di pietà mista a imbarazzo passato come una nuvola nera in un bel giorno di sole, a corrompergli per qualche istante il gelido sguardo scuro; strappò le vesti dalla presa di Dagh in un gesto nervoso e stizzito, sul poco viso visibile si era dipinta un’espressione di collera.
“No!” Sbraitò, prima di allontanarsi con passo svelto e indignato, non volendo mai più trattare con un pazzo come quello con cui aveva appena parlato.
Dagh rimase di nuovo in silenzio, inginocchiato nella polvere che gli sporcava le gambe nude, forse senza parole per la prima volta in vita sua mentre osservava il grasso mercante allontanarsi, lievemente stupito dal suo comportamento sgarbato, ma il suo stupore era calmo, forse troppo giudicò Ake. E quel genere di calma è quella che anticipa la furia di una tempesta.
Il guerriero si alzò di scatto, un pugno chiuso ed enorme proteso verso il mercante ormai lontano e pura ira a dipingersi sul viso, deformandone i tratti sempre rilassati o comunque contenuti.
“C’è un posto all’inferno anche per te, ricordatelo!” Minacciò Dagh, agitando il pugno e sbuffando come un toro infuriato, talmente imbarazzante da far passare una mano sul viso del suo compagno che, chiudendo gli occhi bianchi, desiderò non averlo mai conosciuto.
Ake sospirò rumorosamente, vergognandosi per Dagh per il triste teatrino che aveva messo in atto mentre, con la coda nell’occhio, non si perdeva le occhiate sospette e quelle lievemente derisorie della gente che stava loro attorno.
“Forza, Ake. Muoviti, abbiamo da fare.” Annunciò Dagh, afferrando rudemente il compagno per una spalla, non mancando di sfiorare con le dita callose il suo magnifico mantello di squame di drago, una vera rarità in quel periodo, in cui i draghi preferivano vivere da eremiti piuttosto che diventare prede di cacciatori senza scrupoli e di avventurieri in cerca di gloria. Le squame erano lisce e tiepide al tatto e per esperienza Dagh sapeva che erano leggere come piume e dure come diamanti.
Si spostarono dall’ingresso dell’Arena, allontanandosi da quella fauce spalancata e nera, verso una zona d’ombra un po’ più appartata, lontani da occhi e orecchie indiscreti; ricordavano vagamente due traditori che s’incontrano in un luogo affollato per destare pochi sospetti, ma scambiarsi comunque informazioni di vitale importanza.
Ake si lasciò trascinare senza opporre troppa resistenza, studiando attentamente lo splendido spadone dalla lama ondulata e biforcata del compagno, sapendo che armi del genere non ne facevano più e ogni volta che ci posava gli occhi sopra non poteva fare a meno di chiedersi che storia ci fosse dietro. Non che fosse curioso per natura, al contrario; ma Dagh era sempre espansivo e parlava a raffica il più delle volte, ma mai aveva menzionato come si era procurato quell’arma, tanto da far germinare la curiosità del compagno.
Si fermarono dopo un tempo indefinito e un numero ragguardevole di passi e solo allora Ake dischiuse le labbra sottili per parlare.
“Siamo al punto di partenza” Precisò, come se ce ne fosse stato veramente bisogno. Dagh lasciò la presa al suo mantello, scrutandolo attentamente come un maestro potrebbe osservare il proprio allievo.
“Felice di sapere che parli ancora la mia lingua, Ake! Pensavo te la fossi dimenticata!” Ruggì, prendendo a passeggiare nervosamente avanti e indietro, non lo faceva di sovente, solo quando era molto, molto, molto, molto agitato; cosa che, conoscendolo, accadeva assai di rado.
“Se non fosse per la tua cupidigia…” Iniziò a mezza voce Ake, voltando il viso a destra, aveva notato un movimento in quella direzione e un rumore che sembrava un lieve ringhiare, ma sembrava tutto tranquillo, la gente ancora affollava le bancarelle, non badando più a loro.
“La mia cupidigia? – Gli fece eco l’uomo con tono vagamente offeso da quell’accusa che reputava senza alcun senso. – Ma se siete voi quelli che amano sguazzare nell’oro.” Aggiunse, incrociando le braccia, arrabbiato come poteva esserlo un bambino ingiustamente sgridato da un genitore o da un fratello maggiore. Dall’altro un suono a metà tra lo sbuffo e il sibilo, simile a quello prodotto dall’acqua bollente quando schizza fuori dal terreno, arrivando a perforare perfino la roccia.
“È una credenza popolare del tutto errata. – Si difese, alzando lentamente le spalle. – E stavamo parlando di cose serie, non delle usanze dei miei simili. Tra meno di un’ora ci sarà l’incontro e noi siamo sempre al punto di partenza. Che pensi di fare?” Riportò gli occhi sul guerriero che aveva finalmente smesso di passeggiare sul posto e adesso era impegnato a passarsi una mano dietro al collo e sulla testa rasata.
“Ancora non lo so… - Ammise guardandolo. – Ma qualcosa mi verrà in mente, mi conosci, no?” Tentò di sfoderare un mezzo sorriso rassicurante, di quelli che aveva sempre pronti anche nelle situazioni peggiori, sorrisi che, anche se non esteriormente, facevano sempre piacere ad Ake. Appoggiò poi una spalla sulla fredda e ruvida pietra della costruzione dietro di lui, chiudendo gli occhi mentre abbassava il capo, assorto nella meditazione. Quando pensava intensamente il respiro rallentava tanto da sembrare che il petto nudo e muscoloso nemmeno si muovesse.
Ake lo osservava in silenzio: era uno spettacolo raro quello di vedere Dagh così assorto nella meditazione, persino per lui che lo conosceva da una vita. Era intento a studiare il suo spallaccio di metallo ammaccato dove era stata rozzamente incisa una “D” quando avvertì di nuovo quel movimento, accompagnato questa volta da un cigolio, come di ruote non ben lubrificate. Si voltò, questa volta di scatto: notando che non si era sbagliato, un piccolo convoglio composto da tre grossi carri emergeva in quel momento dalle vie del mercato, scordato da una decina di uomini malamente armati, che sembravano più banditi che mercenari. I tre carri, tutti di legno massiccio e con le ruote rivestite di metallo, erano trainati da cavalli dal manto color della sabbia che sbuffavano rumorosamente, con il sudore che scorreva loro sul corpo a scurire il manto solitamente chiaro; ogni carro portava delle grandi gabbie di ferro all’interno delle quali si agitavano delle feroci fiere che ancora tentavano invano di liberarsi, graffiando, mordendo, ruggendo per esternare la loro furia per quella cattura che aveva privato loro della libertà.
Dagh e Ake osservarono quella processione in silenzio come la maggior parte della folla, puntando gli occhi su quegli animali così ingiustamente imprigionati che si rivoltavano in ogni modo per tentare la fuga. Erano bestie splendide e non meritavano quella fine: l’essere strappate dai loro luoghi natale per venir mandate a morte in un’Arena.
Il carro a capo del convoglio trasportava una grossa Lince Ocra, originaria dalle alte montagne dell’Est, che ruggiva e graffiava la gabbia che la tratteneva, mostrando le lunghe zanne color dell’avorio, e sbattendo il corpo grande quasi quanto quello di un cavallo, ma decisamente più massiccio, sulle sbarre, come se sperasse di abbatterle con quel semplice gesto. Aveva la spessa pelliccia macchiata di sangue vermiglio e un orecchio nero mozzato, probabilmente era stata ferita durante la sua cattura; era risaputo quanto le Linci Ocra fossero animali selvaggi, difficili da trovare e avvicinare, e ancora più difficili da catturare. Nella seconda gabbia, che aveva una forma più rettangolare e allungata della precedente, posata sul secondo carretto, quello con la ruota cigolante, era rinchiuso un giovane Falso Drago, probabilmente nato da qualche settimana appena visto che le sue dimensioni ancora contenute e il colore chiaro delle squame ancora membranose e non del tutto formate; aveva il muso appuntito coperto da una museruola di ferro e le uniche due zampe erano legate tra loro con delle catene che ne limitavano i movimenti. Sbuffava irritato per quella situazione, frustando il piccolo ambiente con la coda sottile e facendo tintinnare le sbarre della sua prigione.
Ake osservò quel piccolo drago assottigliando leggermente gli occhi quando questi incrociarono lo sguardo dorato della bestia rinchiusa che, se possibile, si rivoltò ancora di più, battendo all’impazzata gli abbozzi delle ali, come un pulcino che desidera già spiccare il volo. Dalla gola di Ake si alzò un basso ringhio, mentre i pugni si chiudevano sotto al mantello, facendo scricchiolare leggermente i guanti di pelle. Ebbe l’istinto, forte e graffiante, di scattare in avanti, verso quel drago. Una mano sulla sua spalla, era Dagh.
“Rilassato, Ake.” Gli sussurrò, osservando a sua volta quella scena, non ricordando se l’editto del Nord sulla caccia ai Falsi Draghi fosse stato sospeso; non dubitava però che quella fosse caccia di frodo, anzi, sicuramente doveva essere così.
Guardò quelle prime due creature sfilare lentamente a diverse braccia da loro, mentre un’idea si accendeva nella sua mente come un fulmine nella tempesta.
“Ake… che ne diresti di…”
“No!” Sibilò l’altro, voltandosi verso di lui e gelandolo sul posto con i suoi occhi bianchi: era così vicino che poteva vederne l’iride, talmente chiara da confondersi con la cornea e la pupilla, un piccolo puntino nero che galleggiava in un mare di spuma. Con quel gesto secco, per una frazione di secondo, la pupilla si dilatò, diventando una sottile ellissi al centro dell’occhio, prima di ritrarsi, tornando normale.
“Va bene, va bene. Non c’è bisogno di fare tutta questa scenata.” Protese le mani in avanti, in un gesto d’innocenza, in fondo gli aveva solo chiesto una cosa, non era il caso che il compagno reagisse così male.
Ake stava per aggiungere qualcosa, magari un insulto in una lingua ormai dimenticata dai più, quando si bloccò, volgendo lo sguardo verso la misera carovana, concentrandosi sull’ultimo carro che stava sopraggiungendo solo in quel momento.
Dagh seguì il suo gesto, identificando subito la gabbia trasportata, all’interno della quale, però, la bestia rinchiusa non si stava agitando, anzi, dimostrava un gelo e una fierezza che solo le creature dell’Ovest potevano avere. Occhi più azzurri del ghiaccio si posarono su di loro, a osservarli attentamente con un’algidità degna di un re del passato. Il Guerriero Artico segregato in quella prigione di ferro doveva essere molto giovane, visto che erano pochi gli speroni di ghiaccio che emergevano dal suo candido corpo da lupo, il pelo bianco rifletteva la poca luce, accecando quasi come la neve d’alta montagna. Le lunghe zampe erano distese in avanti, gli artigli neri ritirati, la folta coda dalla cui pelliccia emergeva qualche spuntone di ghiaccio che disegnava pennellate d’azzurro nel candore del pelo, era immobile, abbandonata a lato del corpo, le orecchie lunghe e sottili dritte e attente, così come lo sguardo, benché vi si potesse chiaramente leggere dentro una certa rassegnazione, la consapevolezza di non poter più tornare a corre libero tra i ghiacci eterni in cui era nato.
Il carro a capo della processione virò leggermente una volta giunto a poche braccia dall’Arena, proseguendo per una manciata di minuti, seguito a breve distanza da tutti gli altri, fino a giungere a un portone di modeste dimensioni incastonato nel muro, questo si spalancò all’arrivo dei carri, per permettere loro di entrare nella struttura di pietra, trasferendo così le bestie appena catturate nelle stalle, oppure direttamente sul campo circolare dell’Area.
Il Guerriero Artico volse la testa verso i due guerrieri rimasti indietro, piegando le orecchie, lanciando loro un’ultima occhiata prima di tornare a guardare dritto davanti a sé, sempre con quell’orgoglio che lo distingueva da ogni altro animale di Drakkas.
“Magnifica creatura, non trovi?” Domandò Dagh all’amico, che annuì piano.
“Più fiere di loro non se ne trovano.” Aggiunse, stringendosi nel mantello come a volersi nascondere.
“Già. – Un attimo di pausa, abbastanza lungo da permettere al secondo carro di sparire, ingoiato dalla pietra che componeva l’Arena. – Su di lui potresti farci un pensierino, forse?” Sorrise lievemente.
Ake impiegò secondi lunghi come ore per voltarsi verso il guerriero, squadrandolo di nuovo attentamente prima che un angolo della sua bocca si sollevasse di qualche centimetro, in quello che doveva essere uno dei suoi migliori sorrisi.
“Sì, questo si può fare.” Non aspettò oltre prima di scattare rapidissimo verso il portone che, ospitando all’interno l’ultimo carro, iniziava a chiudersi cigolando sui grandi cardini arrugginiti. Sfruttando la forma slanciata del suo corpo, Ake s’infilò nella fessura tra le due porte giusto qualche istante prima che queste si chiudessero, sollevando uno sbuffo di polvere.
Dagh sorrise in quella direzione, senza nemmeno augurare al compagno buona fortuna, sapeva che non serviva a uno come lui. Rimase fermo giusto il tempo di formulare qualche pensiero, qualche blando piano d’azione, tornando sui suoi passi per raggiungere l’ingresso dell’Arena. Sapeva che l’incontro stava per cominciare e i più avevano già preso posto, ma era ancora in tempo per pagare per lo spettacolo e prendere posto assieme al resto della folla urlante e assetata di sangue.
Questa volta non contrattò sul prezzo e pagò senza aprire bocca, aveva già fatto abbastanza danni quel giorno in fatto di contrattazioni, per una volta mise da parte il suo orgoglio e proseguì.
Mosse un passo avanti e poi un altro, avanzando senza timore all’interno della struttura, ad accoglierlo solo le tenebre che lo ingoiarono nelle loro fredde viscere di pietra.
 
 
[Continua…]
 
 
***
 
HOLA! ^_^
 
Pensavate di esservi liberati di me o che io mi dimenticassi di questa Long, vero?
Beh… sbagliato… o meglio, più o meno! :P
No, seriamente… ho problemi in questo periodo, ma voi non siete qui per ascoltare i miei piagnistei, quindi vi vorrei chiedere… allora, che ne pensate del caro Dagh?
Inaspettato come personaggio, eh? XD
Beh, se pensate che sia pessimo adesso, non avete ancora visto niente! XDXDXDXDXDXD
Detto questo, se avete ancora cinque minuti, date un’occhiata al bellissimo disegno che c’è qui sotto: prodotto dalla
LunAngel – Disegni – 4ever! ® … e ditemi che non è bellissimo, le facce di Dagh erano proprio quelle! XD
Eh niente, non ho altro da dire…
Visto che avrò tutti gli esami a settembre, adesso mi prendo un po’ di vacanze per continuare la storia… u_u
Ci vediamo tra due settimane (promesso e giuro, questa volta) … con
Duncan! ;)
A presto e grazie a chi continua a seguire con pazienza questa Long, tanti baci! ^^
ByeBye
 
Vostra ManuFury! ^_^

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Capitolo 6
*** Capitolo 5: L'Arena dei Perduti ***




La luce investì Duncan così forte da accecarlo per una manciata di secondi: era così brillante e calda da sembrare un inno alla vita, piuttosto che alla morte.
Il gladiatore si schermì gli occhi sensibili con una mano, mentre la folla esplodeva in un urlo poderoso alla sua vista, al suo gesto scambiato dai più per un saluto. Non era quello che il giovane voleva far credere, cercava sempre di mantenere un certo distacco, perché quella massa scalpitante e rumorosa, che allungava il collo e si spintonava per godersi al meglio lo spettacolo, non meritava la sua attenzione: la morte non doveva essere vista come un divertimento, perché non lo era.
Sospirò, avanzando ancora nella luce che lo abbracciava con dolcezza e nell’afa che invadeva l’Arena dei Perduti: il calore e la luce erano sprigionati da grandi bracieri che ardevano un po’ ovunque. Con lo sguardo spaziò per l’enorme area ovoidale coperta da sabbia del deserto divenuta rossa per il troppo sangue versato su di essa.
Qualcuno parlò, sovrastando il tornado di voci che vorticava come impazzito attorno a Duncan, presentando il giovane gladiatore: descrivendolo come tra i più abili che avesse mai visto, giurando che vederlo combattere era un piacere per gli occhi e per il cuore e tante altre parole, un fiume che sembrava infinito e che il ragazzo non sentì per intero.
La sua attenzione era per altro: al fondo dell’Arena un grosso portone di legno e piastre rinforzate di ferro si stava lentamente aprendo, emettendo qualche gemito, rivelando dietro le sue porte spesse un antro buio, ma fremente di vita.
Gli occhi di Duncan si assottigliarono leggermente, mentre la presa sulla spada si faceva più salda e i primi rivoli di sudore gli scorrevano sulla fronte e sulle braccia scoperte come tanti serpenti d’acqua tiepida. Fissava quell’oscurità come se si aspettasse che emergesse qualcosa di spaventoso, un incubo a occhi aperti, persino peggiore di quello che stava vivendo in quel momento, in quella vita che non era più vita.
Qualche minuto di attesa, quasi ad aumentare maggiormente la tensione che aveva fatto zittire il pubblico, con il fiato sospeso per lo scontro imminente; poi, nel nero dell’antro che sembrava un passaggio per gli Inferi, presero ad accendersi tanti piccoli bracieri rossi come il sangue e pericolosi come il fuoco. Pochi secondi dopo due Tessitori di Fuoco zampettarono avanti, mostrandosi alla luce del sole in tutta la loro orrenda forma: erano ragni enormi e repellenti, con il corpo scuro coperto da una peluria ispida e brillante, intervallata solo a momenti da strani tribali rossi, brillanti come lava fusa. Erano poco più grandi di un cavallo, ma le loro otto robuste e lunghe zampe li facevano sembrare molto più alti… e decisamente pericolosi.
Cosa che erano, in realtà.
Duncan provò un moto di disgusto a trovarsi faccia a faccia con quelle belve sputate dal più oscuro e remoto angolo di Drakkas, dimenticato dagli uomini e, forse, persino dagli Déi.
Le due creature avanzarono ancora di qualche passo, guardinghe, sondando la zona con i loro tanti occhietti rossi e vuoti; solo dopo un largo giro del perimetro dell’Arena, il loro sguardo si puntò sul giovane.
Quello li osservò con astio, avanzando con calma, la spada con la punta spezzata stretta nel pugno destro, lo scudo saldo al braccio sinistro.
Un passo… stringi la spada e chiudi gli occhi, gli suggerì la voce di suo padre e lui eseguì.
Due passi… svuota la mente e ascolta il tuo corpo, gli ordinò la voce del suo istruttore dell’accademia, emergendo da ricordi sepolti sotto strati e strati di polvere.
E il ragazzo eseguì, sentiva la folla scalpitare, trattenendo con lui il fiato, gli occhi incollati sull’Arena mentre i Tessitori di Fuoco iniziavano ad agitarsi, emettendo fischi acuti e fastidiosi, per allontanare quella minuta creatura che osava avvicinarsi così tanto a loro.
Tre passi… apri gli occhi, disse la sua amata e Duncan li aprì.
Scattò in quello stesso istante, letale e preciso come un Mastino da Guerra, veloce come un Sauro del Sud, tanto che furono in pochi a seguire il suo movimento.
Arrivò con la rapidità di una folgore tra i due grandi ragni, così vicino da sentire il loro odore ripugnante quasi al pari dell’aspetto: odore di morte e putrefazione, di vittime intrappolate, private di ogni difesa e uccise nel modo più disonorevole e immondo mai conosciuto. Quelle sensazioni gli fecero storcere con disgusto e rabbia il naso, tanto che non esitò a tirare un primo fendente all’addome rigonfio e pulsante come un cuore di una delle creature; la spada si fece largo facilmente tra la carne tenera dell’animale, lacerando più che tagliando e facendo emergere dalla ferita appena inflitta del sangue che sembrava più una linfa densa, di un giallo malato, come di pus vomitato da una ferita infetta.
Il Tessitore di Fuoco urlò dal dolore, un lamento lungo e acuto che aveva un qualcosa di simile a quello di un lupo ferito, ma che fu in parte sovrastato da un primo applauso di incoraggiamento dalla folla. Un attimo dopo, l’animale si avventò con forza contro il giovane, solo che quello si era già abilmente allontanato con una capriola, prevedendo un colpo.
Duncan ebbe giusto il tempo di riprendere fiato che dovette schivare un colpo inferto dall’altra creatura, una delle sue zampe si schiantò al suolo, sollevando una nuvola rossa di polvere. Il gladiatore approfittò di quel gesto impetuoso e istintivo per menare un fendente, colpendo l’animale alla zampa, coprendosi subito il viso con lo scudo.
Un altro grido di dolore, acuto e lamentoso come il primo seguito quasi immediatamente da un altro suono: come di una pioggerella che picchiettava sul legno dello scudo, seguita poi da un lieve crepitare.
Duncan indietreggiò, guardando frettolosamente lo scudo: sulle insegne rosse e sbiadiate dal tempo si erano aperte delle larghe macchie nerastre dalle quali si levava un sottile filo di fumo, la superficie sembrava corrosa da un qualche acido.
L’occhio gli cadde con sospetto sulla lama della spada, coperta da quella linfa giallastra che ancora colava lenta sul metallo, deformandolo velocemente.
Imprecò a denti stretti, continuando a indietreggiare, cercando di scavare nella propria memoria le parole dei vecchi veterani che avevano prestato servizio sotto di lui e che avevano affrontato e sconfitto quelle bestie più di una volta. Ma i ricordi pesavano come macigni e non tornavano a galla, bensì restavano sepolti nei mari più oscuri della sua memoria.
Evitò un colpo inferto con furia dal primo Tessitore di Fuoco che aveva colpito: l’animale attaccava alla cieca, come una qualsiasi fiera ferita e come tale era molto pericoloso, troppo imprevedibile nei suoi movimenti.
Per levarsi da quella situazione, Duncan eseguì un’altra capriola, trovandosi proprio sotto al corpo della creatura, che si mosse frenetica alla sua ricerca, zampettando in maniera scomposta. Il giovane si portò lo scudo davanti al viso e affondò la spada fino all’elsa nel corpo dell’animale. Strinse i denti quando lo sentì stridere dal dolore e si morse le labbra per non urlare a sua volta quando avvertì la linfa vitale della bestia fluire dal suo corpo orrendo, scorrendo sulla lama della spada, poi sull’elsa, sull’impugnatura consumata e sulla sua mano, bruciando la pelle, penetrandogli nella carne a voler far ribollire il midollo delle ossa. Ma non lasciò la presa, nonostante il dolore, tenne l’ama ferma e affondata in quel corpo rigonfio.
Il Tessitore di Fuoco gridava, si agitava e più lo faceva, più la sua pancia si lacerava e il suo sangue fuoriusciva incandescente, privandolo a poco a poco della vita. In un ultimo spasmo tentò di colpire il giovane con una zampa, ma senza successo e, cacciato un ultimo grido, si accasciò su un fianco, come una grande pietra.
Duncan tossì dal tanfo del sangue che lo stava soffocando, prendendolo alla gola con il suo odore di putrefazione e morte. Rotolò a lato per qualche metro, gettando lo scudo ormai inservibile, dispiacendosi di quel gesto: quell’arma l’aveva protetto durante molti scontri e si era quasi rattristato nel doverlo sacrificare così. Provò subito a prendere fiato, per scacciare il capogiro che l’aveva colto impreparato quando aveva tentato di alzare il capo, l’odore che emanava il cadavere del Tessitore di Fuco era insopportabile e gli dava alla testa.
Chiuse gli occhi, sentendo gli spettatori esplodere in un coro di acclamazioni e complimenti per il suo splendido combattimento.
Strinse istintivamente la presa attorno all’impugnatura della spada e subito saette rosse come il fuoco gli serpeggiarono davanti agli occhi, costringendolo ad aprirli, mentre il braccio urlava dal dolore.
“Attento!” Scandirono all’unisono tutti gli uomini e le donne che componevano la folla sugli alti gradini dell’Arena, ma non fu quell’avvertimento a salvarlo, bensì l’istinto: il suo corpo, la cui schiena era distesa a terra dopo l’attacco, si mosse e con un colpo di reni eseguì un mezzo giro, trovandosi così prono sulla sabbia, evitando così il corpo inferto dall’altro Tessitore di Fuoco. Con quel movimento brusco e per la bruciatura che gli debilitava la mano, la spada gli sfuggì dalle dita.
Gli occhi chiari subito scattarono alla ricerca dell’arma, come quelli di un segugio che cerca la selvaggina. La individuò a pochi metri da lui, metà buona della lama che affondava nel sangue giallastro della bestia abbattuta, poteva quasi vedere il filo dell’arma corrodersi, deformandosi ogni istante di più.
Strisciò in avanti, immergendo le dita della mano offesa tra la sabbia rossa, sia alla ricerca di conforto per il calore insopportabile che trasudava dalla pelle, sia alla disperata ricerca dell’impugnatura della sua spada, sapeva di avere poco tempo.
Era a una spanna dall’arma quando sentì qualcosa di caldo e viscido avvolgersi alle gambe, costringendole unite. Voltò il capo, facendo ondeggiare i capelli biondi bagnati di sudore e coperti dalla polvere solo per sgranare appena gli occhi quando si accorse che il Tessitore di Fuoco rimasto gli aveva sputato contro sottili fili di seta biancastra, intrappolandogli la parte inferiore del corpo.
La creatura lo guardò: con occhietti piccoli e brillanti, colmi di rancore forse per la ferita inferta, forse per l’uccisione del suo compagno; ma per qualsiasi cosa fosse quella bestia voleva solo una cosa, la sua morte.
Duncan provò ad artigliarsi al terreno, tentando di avanzare nella sabbia, per raggiungere la sua arma; percepì un movimento, come uno strattone e si sentì tirare indietro mentre quei fili si stringevano con sempre maggior forza, facendolo lamentare piano.
Dal pubblico si levò un coro di incoraggiamenti che il ragazzo quasi non sentì; la sua mente annaspava alla disperata ricerca di una soluzione, come un naufrago che si dibatte benché sia consapevole della sua imminente dipartita. Almeno un naufrago poteva trovare un pezzo di legno cui aggrapparsi, lui invece…
Si bloccò per una frazione di secondo, alzando il viso arrossato per lo sforzo sostenuto fino a quel momento e imperlato di sudore per il caldo. Si gettò di peso a lato, per quanto concesso, affondando le dita nella sabbia, sperando di non essersi sbagliato.
Dal canto suo il Tessitore di Fuoco continuò a tirare il giovane a sé con movimenti esperti del piccolo capo: voleva ucciderlo, affondare le mascelle nel suo gracile corpo da essere umano e bere il suo caldo sangue mentre il cuore ancora gli batteva e lui si divincolava; voleva farlo per vendicare il compagno ucciso così ingiustamente.
Il gladiatore, dopo quel brusco movimento, attese con pazienza che l’animale lo trascinasse a sé, come se si fosse rassegnato a quella fine e continuò a non muoversi finché la schiena fu a brevissima distanza dalle mascelle della creatura, ora spalancate per morderlo.
Duncan chiuse gli occhi e attese. Tutto ciò che aveva attorno si dissolse: le urla, il crepitare dei bracieri, il vento, l’Arena, l’odore di sangue e sudore, quello nauseabondo dell’animale ucciso, perfino il pulsare ritmico della fronte scomparve. Ogni cosa svanì, tranne il proprio corpo e il capo della creatura: la sua bocca spalancata come un portone, le sue mascelle che calavano.
Riaprì gli occhi, girandosi supino e alzando le braccia, stringendo tra di essere ciò che restava dello scudo: un’asse che lo componeva si era spezzata, creando una punta acuminata che con poche difficoltà si fece largo nella bocca del ragno, penetrando a fondo nella gola, stroncando sul nascere i suoi stridii. La creatura si buttò pancia all’aria, stringendo le zampe al petto nel vano tentativo di levarsi lo scudo dalla gola già piena di sangue.
Il ragazzo si rialzò con calma dopo essersi liberato le gambe dalla seta, con passo traballante si avvicinò alla sua spada; una volta recuperata si voltò verso il Tessitore di Fuoco che ancora si contorceva tanto da sembrare una falena intrappolata in una ragnatela.
Gli si avvicinò con calma e sferrò il suo colpo migliore, staccando la testa del ragno e c’era così tanto silenzio in quell’istante da sentire chiaramente il rumore prodotto dai tessuti che si sfilacciavano, lacerandosi come un bel taglio di carne di manzo comprata dal macellaio.
Respirò a fondo mentre il silenzio veniva interrotto dall’urlo animalesco della folla che lo applaudiva per quella splendida vittoria.
Quella era l’Arena dei Perduti: luogo di morte e divertimento.
 
Dieci minuti dopo, Duncan era pronto per il secondo incontro del giorno: aveva avuto abbastanza tempo per riprendere fiato e bendarsi blandamente la mano in una zona d’ombra, lontano dagli occhi indiscreti degli spettatori, osservando una mezza dozzina di uomini trascinare via i corpi senza più vita dei Tessitori di Fuoco.
Aveva capito che era il momento di riprendere con i combattimenti quando aveva sentito il portone in fondo all’Arena aprirsi cigolando.
Si era subito alzato, stringendo nella sinistra la spada e nella destra ciò che restava dello scudo: sapeva combattere anche così, gli era stato insegnato come usare entrambe le mani, in caso una fosse stata messa fuori uso, o peggio mozzata com’era successo a suo padre, il primo giorno che aveva calcato un campo di battaglia.
Portò lo sguardo chiaro verso il portone, trovando il solito muro di tenebre da cui, sapeva, stava per emergere qualcosa di ben più pericoloso di un Tessitore di Fuoco: i bracieri erano stati tutti spenti e portati via, così che la temperatura tornasse relativamente mite.
Dall’oscurità, ancora niente, se non una vaga sensazione di freddo e di pericolo. Il giovane strinse con più forza la spada, come sempre faceva prima di uno scontro.
Duncan. La voce della sua amata in testa che lo chiamava. Scosse il capo, per allontanarla, doveva resta concentrato.
Duncan. Continuò imperterrita quella. Apri gli occhi, Lui verrà. Sussurrò. In un istante il sogno che aveva fatto gli si riaffacciò nella mente che doveva tenere sgombera e quasi per istinto si voltò verso gli spalti, passando in rassegna le colonne a una a una, fino a individuare quella che cercava: alta, immensa, con demoni ghignanti a ornarla, avvolta dal buio e dal mistero. Aguzzando la vista intravide una figura lì appoggiata, nera ombra tra le altre ombre.
Il cuore del ragazzo perse un colpo quasi senza motivo a vedere quella figura, non riusciva a capire chi o cosa…
Un urlo giunse alle sue orecchie lievemente appuntite per richiamarlo all’attenzione, facendolo quasi sobbalzare per quanto era stato improvviso. Riportò lo sguardo fisso di fronte a sé, notando solo allora il grande lupo che aveva fatto il suo ingresso nell’Arena e che lo fissava con una fierezza e una freddezza che potevano appartenere a una sola creatura.
Un Guerriero Artico, gli suggerì la sua mente mentre lo guardava in tutta la sua bellezza: era una bestia imponente, molto più di quanto ricordava dalla favole e dalle storie dei soldati attorno al fuoco.
Sono morto. Era un pensiero semplice quanto terribile, ma sapeva essere vero, non aveva alcuna speranza contro quella creatura: un Guerriero Artico non avrebbe mai attaccato con furia cieco o istinto, aveva un’intelligenza al pari di un essere umano e una forza che andava aldilà delle sue possibilità. Non aveva speranza di sopravvivere.
Benché quel cupo pensiero, Duncan fece un mezzo passo avanti, ma subito il grande lupo gli ringhiò contro, esponendo i lunghi canini d’avorio e fissandolo con le sue iridi chiarissime, prima di spostarle in alto, verso gli spalti, nemmeno stesse aspettando un qualche segnale. Il gladiatore l’osservò, trattenendosi dal voltarsi a sua volta, poteva essere un trucco.
Le orecchie dell’animale scattarono indietro, ringhiò leggermente riportando gli occhi sul ragazzo e solo per ultimo abbassò il muro in avanti, quasi a volerselo nascondere tra le zampe.
Duncan lo guardava e non ne capiva le intenzioni, ma non aveva perso la sua concentrazione: gli occhi non si staccavano da quella figura candida e i muscoli erano sempre pronti e scattanti. Tutti i sensi erano tesi al massimo: vista, udito, tatto, olfatto e fu proprio quest’ultimo che captò qualcosa, sembrava un lieve odoro di fumo, abbastanza forte da pungergli le narici. Sentì il Guerriero Artico emettere un mugolio di dolore mentre affondava il muso appuntito tra le zampe, le spalle gli tremavano spasmodicamente.
Dalla folla che assisteva allo scontro gli giungeva un vociare confuso, qualche urlo carico di terrore, ogni tanto, ma gli occhi del ragazzo erano tutti per il lupo tanto da non accorgersi di una lieve cortina di fumo grigio che si era formava come una muro sugli spalti. La sua attenzione era totale e solo per il Guerriero Artico: dopo qualche secondo ancora di tremore la carne sulle spalle si lacerò, macchiando il pelo candido di vermiglio, i muscoli esposti pulsavano ritmicamente, finché da essi, accompagnato da un lungo mugolio, emersero due enormi ali chiuse, di un bianco abbagliante, benché venato dal sangue. Qualche attimo, prima che le ali si aprissero in tutto il loro splendore, sottili e delicate come carta eppure resistenti e forti come il ferro.
Il lupo le spiegò con calma, come per stilarle, mostrando le innumerevoli venatura che le percorrevano e i piccoli artigli ricurvi alle estremità; impossibile confondersi, quelle erano ali di drago.
Duncan non staccava gli occhi da quella scena, ammutolito e stupito come mai prima di allora, la spada che rischiava di scivolargli dalla dita. Aveva sentito delle storie sulle Ibridazioni, ma mai avrebbe creduto che fossero vere.
Tutto quello cui stava assistendo non aveva senso.
Con le labbra socchiuse dallo stupore cercò con lo sguardo quello del Guerriero Artico, che trovò senza sforzo: vedeva i suoi occhi di ghiaccio schiarirsi, sbiancando a poco a poco, mentre la pupilla si allungava, divenendo una sottile striscia al centro dell’occhio.
Si guardarono per attimi che parevano interminabili mentre il fumo li avvolgeva come una coperta calda. D’improvviso i muscoli del lupo si tesero e l’animale scattò in avanti con velocità formidabile.
Duncan non ebbe né la forza né il tempo di alzare la spada; sapeva che doveva stare attento, lo sapeva, eppure si era lasciato ingannare da quegli occhi magnetici che gli avevano parlato.
Quegli occhi. Gli occhi dell’animale gli dicevano di fidarsi.
Quando finalmente il ragazzo riuscì ad alzare la spada il Guerriero Artico era già sfrecciato al suo fianco, le sue zampe correvano veloci sulla sabbia e terminarono quella breve corsa contro il portone rinforzato da cui era giunto Duncan, sfondandolo con una sola e sonora spallata.
Il gladiatore rimase di nuovo ammutolito a osservare quella scena, senza capirne il gesto.
La creatura si voltò verso di lui, guardandolo e voltando poi la testa verso l’entrata in parte scardinata e di nuovo verso il combattente.
Vuole che me ne vada.
Il giovane impiegò qualche secondo ad arrivare a quella consapevolezza insensata: come poteva un Guerriero Artico volere che fuggisse? Perché aveva fatto tutto quello?
A meno che…
Gli occhi azzurrissimi del ragazzo si alzarono a quella colonna che aveva visto in sogno, verso quella figura avvolta dalla tenebre che ora, approfittando del velo sottile del fumo, era sparita.
Duncan non sapeva più che pensare: aveva smesso di porsi tante domande in vita sua, di capire le azioni e gli avvenimenti che si abbattevano su di lui come un’onda si abbatte su uno scoglio, aveva semplicemente smesso di lottare per capire e si limitava a farsi trascinare dalla corrente.
Corse verso il portone, lanciando un’ultima occhiata al Guerriero Artico prima di farsi inghiottire dalla tenebre.
Percorse in pochi secondi la Sala delle Attese e continuò poi lungo i corridoi di pietra, passando oltre le celle degli altri gladiatori, non facendosi impietosire dai loro lamenti e dalle loro mani tese in cerca di aiuto.
Attraversò un dedalo di corridoi che aveva percorso solo una volta, tanto tempo prima finché lo schiocco di una frusta non lo bloccò sul posto, facendogli bruciare di dolore una spalla.
“Tu, bastardo traditore!” Ringhiò il suo carceriere, il gigante senza un occhio, la frusta che si contorceva in terra come un serpente ferito, mossa da lievi e calcolati gesti del polso.
Duncan non proferì parola, avvertiva solo una grande rabbia ribollirgli in petto e scaldargli la fronte, lì dove aveva quella goccia azzurra che era stata uguale a quella di sua madre. Ricordava l’umiliazione di ogni frustata che si abbatteva sulla sua schiena, ogni risata o insulto che sottolineavano la sua impotenza.
Strinse tra le dita la spada corrosa e scattò in avanti.
Il suo avversario tentò di colpirlo con un’altra frustata, ma l’arma fu tagliata di netto da un fendente del giovane, ora vicinissimo all’uomo.
Lo inchiodò alla parete alle sue spalle, prendendolo per la gola e puntandogli la spada al petto.
Per tutta risposta il ciclope rise, rise forte e di gola.
“Puoi dire quello che vuoi, tanto le Guardie Dorate della Cittadella d’Oro avevano ragione. Sei e sempre resterai un assassino!” Gli sputò contro quello.
Un misto di emozioni s’impadronirono del corpo del gladiatore, ma solo una vinse. Strinse le dita attorno all’impugnatura della spada e sorrise.
“Sì, hai ragione.” Rispose e affondò la lama nel suo petto. Mille fiumiciattoli vermigli fuoriuscirono dalla ferita, allentata la presa, il corpo cadde a terra con un tonfo sordo.
Duncan prese fiato a guardarlo, respirando forte.
Rabbia.
Aveva vinto di nuovo lei.
Abbassò la spada, voltandosi e solo allora si trovò di fronte un’ombra: alta e imponente che si avvicinò a lui con velocità e forza disarmanti, gli tappò la bocca con una mano, spingendolo a sua volta contro il muro.
Gli intimò il silenzio a fior di labbra e quando il giovane alzò gli occhi verso quello che doveva essere il viso del suo aggressore fu inghiottito dall’argento.



 
[Continua…]
 
 
***
 
TA - DAAAAAAAAAN!!!!
 
Essì, sono proprio io e sono tornata! *Q*
Prima di tutto vorrei scusarmi con tutti voi per il ritardo clamoroso con cui ho postato questo capitolo (che era già pronto da Agosto, giusto per...) ... ma ho avuto mille problemi: Contest da portare a termine, università, lavoro, problemi in famiglia... sì, tutto durante la vacanze e solo adesso sono stata un po' tranquilla da poter rileggere la storia, correggere gli errori e postarla.
Spero comunque di aver fatto un lavoro quantomeno decente, a me il risultato piace abbastanza... :D
Che ne dite? Duncan combatte benino? E chi sarà mai la misteriosa ombra che l'ha bloccato al muro? Che vuole da lui?
Curiosi...?
Beh, se non mi avete mollato (cosa che spererei di no! T_T) ... fatemi sapere cosa ne pensate con una recensione, ok? ^u^
Io cercherò di tornare ad aggiornare il più di frequente possibile... 
Continuate a seguirmi, mi raccomando... tra poco si torna da
Warren! ^u^
A presto,
ByeBye
 
Vostra ManuFury! ^_^

 

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