I’ll take you down the only road I’ve ever been down

di Rota
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. I need to hear some sounds that recognize the pain in me, yeah ***
Capitolo 2: *** 2. ‘Cause it’s a bittersweet symphony, this life ***
Capitolo 3: *** 3. I can't change my mold ***



Capitolo 1
*** 1. I need to hear some sounds that recognize the pain in me, yeah ***


*Autore: Rota
*Titolo: I’ll take you down the only road I’ve ever been down
*Fandom: Shingeki no Kyojin
*Personaggi: Rivaille, Eren Jaeger, Erwin Smith, Hanji Zoe
*Generi: Sentimentale, Introspettivo, Malinconico
*Avvertimenti: What if...?, Yaoi, Lime, AU
*Rating: Arancione
*Credits: Titolo e capitolo dalle lyrics de “Bittersweet symphony” de The Verve.
*Dedica: A Shichan e Mattie, per Natale (L)
*Note: Au ambientata dapprima negli anni '30, nella bellezza degli USA, e la seconda parte nel secondo dopo guerra, circa una quindicina e oltre di anni dopo.
La prima parte dei primi capitoli è al presente perché rappresenta una sorta di “ossessione”/”sogno”, che penso più vivido nella resa se messo al presente. Il resto è al passato ma solo per un'esigenza di narrazione, non per altro.
La prima ossessione parla della solitudine, la seconda della morte, la terza della perdita.

 

Partecipante al "Pick a Prompt Contest" indetto sul forum di EFP da SamidareEFP

 

 

I’ll take you down the only road I’ve ever been down

1. I need to hear some sounds that recognize the pain in me, yeah

 

 

Well I never pray
But tonight I’m on my knees yeah
I need to hear some sounds that recognize the pain in me, yeah
I let the melody shine, let it cleanse my mind, I feel free now
But the airways are clean and there’s nobody singing to me now

 

 

 

Aria umida – si incolla ai polmoni e li rende flaccidi, costringendo persino il respiro a una sensazione di sgradevolezza continua e persistente. La gola è stretta, come se vivesse una crisi di panico senza la paura: inala poco, emette ancora meno, si irrita nel passaggio tra le due cose e rende lo sforzo senza una valida ragione che lo sostenga.
Rivaille apre gli occhi e si ritrova in un luogo bianchissimo, che non riconosce né potrebbe davvero. Vi sono ombre, attorno, che vagano come fantasmi dai labili contorni e non hanno volto se non maschere inespressive, senza lineamenti, né zigomi, né occhi. Fanno il rumore della carta che cade, ovattato e discreto, e quando gli passano vicino un brivido freddo gli attraversa la schiena per poi disperdersi in una sensazione di peli raddrizzati dal vento.
Chiude le palpebre e le riapre: il bianco è ancora lì, le ombre anche. Vaga con lo sguardo fino a incrociare i propri piedi, accorgendosi solo in quel momento di calzare i suoi soliti stivali neri militari. La punta arrotondata, opaca per la terra e la polvere, termina in una pozzanghera limpida, la cui superficie viene smossa all'improvviso dal cadere morbido di una goccia venuta da un non-luogo, che increspa in piccole onde l'immagine riflessa della sua espressione corrucciata, stranita.
Sono i suoi, gli occhi che lo stanno guardando con quella certa riluttanza tipica di chi non ha molto piacere a fare la conoscenza altrui, ora stretti nel disagio di un dubbio che non riesce a risolvere. Alzando appena lo sguardo per sfuggire a quella visione che non ha nome né spiegazione, Rivaille vede che il pavimento del bianco è costellato di altre pozzanghere, altri specchi d'acqua cristallina e limpida che le ombre non osano calpestare. Gocce di umidità sul suolo, nessuna impronta o impressione di sorta.
L'uomo inizia a camminare con passo sicuro, guardando dritto davanti a sé. Ignora volutamente quello che calpesta, anche quando nel silenzio il suo piede produce l'unico rumore degno di nota e si immerge, ben oltre il tacco del tallone, nell'acqua di una pozzanghera più profonda, schizzando freddo tutt'attorno. Riprende l'equilibrio con facilità e prosegue, verso un altro non-luogo che non sia quello.
Le ombre non lo degnano di uno sguardo – o forse sì, forse qualcuna si affaccia alla finestra della propria coscienza e sembra condensare curiosità sulla punta di un naso abbozzato o di uno sguardo puntato; c'è persino un discreto raggrupparsi dei più spigliati dietro la sua schiena, ma dopo qualche metro e senza nessuna risposta anche la temerarietà si fa labile e tutto torna come prima.
Niente cambia, su quella strada senza senso e senza direzione. Rivaille è circondato ma non c'è che il vento ad accompagnare il rumore spento dei suoi passi e il respiro che a stento esce dai polmoni raggrinziti.
Marcia, com'è solito fare, e si immerge in un bianco che più che suggerirgli la morte e la neve gli ricorda il lento cadere addormentato della testa canuta di un vecchio.
Che sia paura o altro quella che lo imprigiona, la sente accompagnarlo senza lasciarlo più in una melodia malinconica scandita dal battito del suo cuore.

 

*******

 

Scoppiò, lontano in un cielo scuro di notte e di stelle, l'ultimo dei fuochi d'artificio in ritardatario eccessivo, probabilmente troppo ubriaco della propria euforia per rendersi conto di quanto fosse anacronistico il proprio intervento. Schegge di rosso e di oro che fluttuarono, a fontana, e colorarono le curve di due nuvole per poi sparire nel nulla e lasciare solo, a terra, un odore di bruciato e di cenere che volteggiava come polvere.
Mike trattenne un singhiozzo entro le guance ispide di una barba bionda non rasata e si vide bene dal rilasciare aria puzzolente di champagne e di fumo stantio, preferendo ingoiarla. Aveva gli occhi lucidi, che brillavano anche al buio, e li abbassò nel momento in cui anche l'ultimo residuo di brillio colorato venne inghiottito dalla notte.
Hanji fece ballare un bicchiere affusolato e ancora mezzo pieno di liquore davanti ai suoi occhi – qualche goccia uscì dal bordo e andò a bagnare la pietra bianca del ballatoio di marmo di quella terrazza elegante. Rideva beata, con la mente resa eccitata da quel troppo di rum che aveva nello stomaco, ma data la situazione e la persona non sembrava né fuori luogo né così anormale: dentro, dove ancora la festa si animava di balli e di risa e di champagne e ancora altro, c'erano persone ben più rumorose di lei. Quello di Mike era il penultimo di quel suo terzo brindisi.
-Al nuovo anno!
L'uomo piegò un angolo della propria bocca a sorriso e sollevò il proprio calice del tutto vuoto al suo invito e lo alzò, a onorare una promessa e una premonizione felice per altri trecentosessantacinque giorni vivo e in salute, ancora sotto quella volta celeste. Non fece neanche finta di bere, ma la donna non se ne curò e anzi si concesse un lungo sorso, chinando nel gesto la testa un poco all'indietro. Gli occhi di lei si rivolsero a una luna timida, che sbucava come un ritaglio d'unghia da dietro il profilo di un palazzo più alto di quello; sollevò di nuovo il polso e sorrise.
-Al nuovo anno!
Erwin alzò il proprio calice e rispose all'augurio della donna, pur essendo in una posizione in cui lei non avrebbe potuto vederlo né godere della sua premura. Stava sorridendo e la curvatura che le sue labbra avevano assunto non si deformò quando il bordo del calice vi si appoggiò sopra, appena reclinato. Lo champagne era stato mantenuto fresco dalla temperatura circostante ed era piacevole sulla lingua, da gustare. Si concesse un sospiro tranquillo e sereno, prima di un brivido che gli scosse l'intera figura.
Iniziò di nuovo a scendere la neve, in piccoli fiocchi – e questo fu l'ultima delle prove che una pazienza ben poco propensa alla sfida volle sostenere.
-Non capisco perché dobbiamo restare fuori a congelare.
Smith non si curò neppure di guardarlo, in realtà, preferendo far ruotare l'alcool che aveva nel bicchiere sui lati del piccolo cilindro che lo conteneva, e divertendosi a guardare le impressioni che lasciava sul vetro. Non aveva rancore o rimprovero nella propria voce, non avrebbe potuto né si sarebbe mai permesso di rivolgersi all'altro con un tale sentimento nelle parole, ma fu delicata insinuazione quella che professe, probabilmente dettata da una confidenza e una tranquillità alle quali non riuscì a rinunciare, in quel momento.
-Dentro ti lamentavi che c'era troppa gente, fino a dieci minuti fa.
Rivaille lo guardò storto, da sotto il cappello scuro e rigido. Aveva le mani in tasca e il cappotto che gli arrivava oltre le ginocchia, ma la sensazione sgradevole del freddo gli serpeggiava lo stesso lungo tutta la superficie della pelle. E quando il primo dei fiocchi candidi andò a posarsi sulla sua spalla non volle trattenersi un secondo di più
-Dieci minuti fa non nevicava.
L'altro sorrise con ancora più sfacciataggine, mascherando il gesto in un moto di divertimento per il volteggio buffo che Mike era stato costretto a frenare prima di vedersi costretto a raccogliere da terra quel che rimaneva delle ossa di Hanji: la donna, scivolata su quella poca neve ammassatasi sulla terrazza, aveva fatto un passo più lungo della portata della gonna che le chiudeva le gambe e aveva lanciato un piccolo strillo di gioia.
Lontana dal suo laboratorio di ricerca, senza la divisa bianca da medico e senza i suoi strumenti in mano non sembrava altro che una disadattata. Un po' come Mike e lui stesso, dopotutto – Erwin era l'unico del loro gruppo che sfuggiva a questa maledizione, ritrovandosi in abiti civili più a proprio agio di quanto non fosse stato concesso a loro tre assieme.
Era ormai il primo Gennaio da qualche ora, la consueta festa di capodanno ancora racchiusa in una sala da ballo con l'orchestra, i camerieri e gli invitati tutti agghindati. I cadetti e gli alti ufficiali si godevano gli ultimi momenti di libertà di quel giorno speciale, chi con familiari chi con sconosciuti, passando il tempo e la propria allegria in quella che era l'innegabile moda del momento. C'era stato un uomo di colore a cantare, non troppo tempo prima, e la sua voce calda aveva accompagnato un ballo liscio e pacato che aveva fatto ruotare coppie sotto un lampadario dalle luci blu cobalto.
Rimanere in un angolo della sala, colpito dalle note alte e dalle luci spropositate è stata la colpa e assieme la punizione toccata a Rivaille, che non aveva mai ceduto alla seduzione dell'alcool o all'invito galante di qualche signora arricchita da una cuffietta con qualche bella piuma colorata in testa. Aveva tenuto per sé considerazioni varie su questo rito mondano, atto a festeggiare il passare del tempo con spettatori e partecipanti ipocritamente attenti, per la maggior parte dei loro giorni e in quelle ore in particolare, a dimenticare in ogni modo lo scorrere inesorabile dei giorni che approfondisce le rughe e rende i capelli radi.
Quando l'ennesimo suo sbuffo venne ignorato dal superiore biondo, che preferì suggerire a Mike di mettersi ben saldo sulle gambe prima di finire a propria volta a terra, nella primissima neve dell'anno, si strinse nel proprio cappotto con un brivido e chiuse gli occhi per qualche istante. La confusione gli rimbalzava ancora nei timpani e lo metteva a disagio.
Riaprì le palpebre e decise di rientrare da solo – quando si girò verso l'ingresso alla sala, una porta di vetro con due ante grandi dalle cornici di legno lucido e scuro, pregiato come pochi, vide per qualche istante l'immagine riflessa di un uomo piccolo e rabbuiato, dai tratti che si confondevano con il bordo della sciarpa troppo grande per lui e quella spilla colorata di metallo sul petto, in ricordo di un onore passato che non riusciva neanche a ricordare, in tutto quel rumore.
Se ne privò volentieri: fece qualche altro passo ed entrò nel trambusto.

 

Indugiò due secondi in più e Erwin si voltò a guardarlo, con uno sguardo non troppo allarmato o impaziente. Lo scrutava da lontano, con la stanchezza negli occhi e un passo lasciato a metà, in quel mezzo centimetro di neve che era riuscito ad attecchire sul marciapiede della strada che in quel momento, sotto la suola delle loro scarpe, si compattava in uno strato bianco di ghiaccio scivoloso.
Sovrappensiero, vide Mike spingere delicatamente la testa priva di gran parte dei propri sensi razionali di Hanji dentro la vettura che era venuta a prenderli, proprio all'ingresso del grande e bianchissimo palazzo.
-Tutto a posto?
Rivaille sbatté le palpebre e ricordò con un brivido di aver freddo. Si chiuse ancora, con un movimento delle spalle veloce e a scatti, nel proprio cappotto.
-Ho dimenticato il mio cappello.
L'altro uomo non sorrise ma si erse in una posizione più comoda. Le parole formavano, ogni volta, una condensa di fumo leggero davanti al naso appuntito e alla bocca sottile.
-Ti aspettiamo.
La risposta del francese arrivò troppo veloce, tanto che sembrò fermare il tempo per qualche istante – come una pallottola.
-No.
Non addolcì lo sguardo, agli occhi del proprio superiore, né si sentì in qualche modo in dovere di dare spiegazioni circa il fatto che volesse godersi quelle poche ore rimanenti in un intimo silenzio. Lui e la città, la neve e il freddo, il rumore di ogni cosa incorporato nei sogni di qualcun altro.
-Torno da solo.
Erwin non gli fece domande di alcun tipo e andò alla vettura.

 

Quando trovò, nella sala grande del ricevimento, un secondo ritardatario, non poté che provare sincera sorpresa.
Le luci principali erano state spente, si sentivano passi di scarpe lucide in lontananza: gli ultimi camerieri che sfaccendavano, veloci su quei corridoi lustri di marmo incerato, ma nessun'altra presenza era notabile. Solo quel ragazzo seduto su uno dei tavoli non più apparecchiati, in una posa poco educata. Musica spenta, tanto che sembrava tutto così irreale, senza note musicali e piene che rimbalzavano addosso e contro le pareti alte. Le tende delle grandi finestre erano state lasciate libere, e ve n'era una i cui bordi ballarono appena, per la brezza fresca che uno spiffero aveva lasciato entrare, giocosa.
Rivaille fermò i propri passi quando gli fu abbastanza vicino da definire i contorni e le linee del suo viso. L'altro lo guardò con la stessa intensità di meraviglia, con due occhi grandi e verdi – nessuno dei due mostrò imbarazzo o disagio per la presenza dell'altro, come se realmente non valesse la pena definire il movente di un tale e occasionale incontro.
Tuttavia le gambe del ragazzo si mossero, libere dal peso della gravità, e dondolarono oltre il limite spigoloso del tavolo chiaro, in un gesto che testimoniava un movimento emotivo e intimo. In questo, rivelò da subito una parte di sé all'uomo: quella più sincera e spontanea.
-È un invitato del ricevimento?
Lo guardò, con il suo collo infossato e le braccia rigide, che gli sorreggevano tutto il busto. Ebbe un guizzo vivace degli occhi quando si mosse, continuando nella propria ricerca – lo poté notare dalla testa che, seguendo lui nelle sue mosse, si inclinò appena a un suo passo di lato.
-Ho dimenticato il mio cappello.
-I camerieri lo avranno già ritirato, è inutile che lei lo cerchi. Qui sono rimasti solo i tavoli e gli strumenti dell'orchestra.
Finalmente lo guardò in viso, con un'espressione piuttosto truce che intimorì abbastanza il ragazzo. Era rabbia repressa, stanca e assonnata, che però curvò le sopracciglia scure in un modo che l'altro non aveva mai visto.
Smise persino di muovere le gambe, quando si costrinse a rispondergli velocemente.
-Non c'è modo di recuperarlo?
-No, non penso.
L'uomo non sbuffò né ebbe altro segno di impazienza o isteria: rimase semplicemente immobile nella propria postazione a pensare se fossero necessarie e indispensabili possibili soluzioni al proprio problema. L'interruzione di quel silenzio pesante, nelle parole del ragazzo, lo aiutò a decidere più in fretta.
-Ma potrei provare a chiedere...
-Lascia stare, non è così importante.
Si avvicinò appena al tavolo, senza accorgersene. Dovette fare due passi a vuoto, sentendo il rumore della suola delle proprie scarpe strisciare contro il pavimento, per alzare di nuovo lo sguardo con una certa consapevolezza.
Il ragazzo era ancora lì e lo stava guardando, con una curiosità stranita di chi studia un oggetto che però non gli è del tutto estraneo. Non pareva osar essere invadente – e infatti abbassò gli occhi quando si accorse di essere stato notato, anche solo per qualche istante – ma non frenava la propria emotività.
Era un ragazzo, lo si poteva notare dal conflitto che stava vivendo.
Tuttavia, quella che gli rivolse non fu una domanda, ma più una ferma constatazione.
-Lei è un militare.
Con questo nuovo aggancio, Rivaille decise di andargli più vicino. Si appoggiò al tavolo col bacino e incrociò le braccia al petto; lasciò che guardasse, di sé, soltanto il profilo, che limitare quello che potevano e avrebbero potuto dirsi. La sua presenza, nel silenzio e nel buio, non era poi così sgradevole, tanto che l'uomo aveva dimenticato il freddo e la neve e le gambe del ragazzo avevano ricominciato a muoversi, più lente di prima.
-Tu chi sei?
-Il primo figlio del dottor Jaeger.
-Pensavo fossi più piccolo.
-Non ho ancora raggiunto la maggiore età, signore.
-Come mai ti ritrovi qui?
-Mio padre è stato richiesto per un intervento d'urgenza e non è ancora tornato a riprendermi.
-Il signor Jaeger è stato richiamato durante la festa?
-Pare si sia sentita male una persona più importante di lui, per la quale anche il suo nome non vale niente.
Rivaille restò colpito da quelle parole, tanto che si zittì per più di dieci secondi. Il ragazzo non abbozzò neanche l'angolo di un sorriso, e questo quasi suggerì al militare una sorta di consapevolezza ormai radicata, per quanto ancora acerba.
L'esperienza, forse, avrebbe limato i giudizi, li avrebbe smussati e tolti da ogni certezza rigida, ma quello che c'era dentro quel piccolo uomo aveva già una dimensione tutta sua, ed era privo di un'innocenza spensierata. Gli fece un poco male, ma non diminuì il senso di tranquillità che aveva addosso, proprio sulla pelle e su tutto il volto.
Quello reclinò il capo, per una nuova affermazione.
-Non l'ho vista ballare con gli altri invitati, durante la festa.
-Non mi piace ballare.
-Come mai allora si trovava qui?
-Dovere. E per soffrire poche ore d'aria.
Questa volta il ragazzo sorrise, forse captando il tentativo molto poco riuscito di fare una battuta – Rivaille, da canto suo, aveva davvero fatto una smorfia a quelle parole, anche senza rendersene conto.
-Sembra quasi che la faccia soffrire la sola idea di lasciare la caserma.
Il giovane sospirò e fermò il movimento delle proprie gambe; guardò per qualche istante altrove, affossando ancora di più il capo in mezzo alle spalle: per poterlo guardare bene, Rivaille dovette voltarsi di un poco ancora, per non perdersi tutti i fantastici moti delle sue espressioni.
-Ho sempre pensato che il suo fosse un lavoro nobile e d'onore. Uno dei pochi rimasti ancora.
Tornò a guardarlo e si lasciò trasportare dalle proprie emozioni e dai propri sogni. Rivaille lo vide anche abbassare gli occhi alla spilla colorata che aveva sulla divisa, un paio di volte, e fu certo che quella che stava sentendo rotolare così rapidamente dalle labbra di lui era ammirazione genuina e non scontata.
Soffocò la tenerezza con il ricordo delle proprie reclute relegate entro quattro mura o una trincea, visi giovani e altrettanto spenti che avevano fatto marcire le proprie aspirazioni in cambio di un giorno in più di vita.
Le parole di lui non erano altro che motti già sentiti.
-Offre volontariamente protezione a chi non può provvedere da sé, si fa scudo di chi non ha difese e garantisce l'ordine in un mondo dove lo stato di diritto non ha più leggi. Penso sia ammirevole.
-Sei solo innamorato di un'idea, ragazzino.
Lo colpì ancora, quel giovane, proprio quando aveva deciso di abbassare lo sguardo – che tanto non avrebbe saputo dirgli altro. Lo rialzò poco a poco, seguendo l'ardore delle parole di lui.
-Ma le idee dirigono le azioni, se sono abbastanza forti da non smarrirsi in debolezze superficiali. E sono un valido strumento per distinguere il bene dal male. Non bisogna giustificare i mezzi con il fine, ma saper valutare cosa sia consono e cosa no fa un uomo retto e integro.
Poi aggiunse, quasi solo a sé stesso.
-Non voglio diventare un adulto gretto.
Rivaille rimase a guardarlo più del dovuto, contemplando il profilo della sua figura.
C'era qualcosa che lo rendeva consapevole che mai, proprio mai, quel ragazzo sarebbe diventato ciò che aveva in odio, come quasi incarnasse il radicale bisogno di ogni giovane generazione di credere nel bene e nella capacità delle proprie forze e delle proprie intenzioni.
Era speranza pura, alla fine, e sincera e nobile.
Ne restò ammirato, anche se per pochissimo – poi il cinismo degli adulti vinse ogni resistenza.
-Parli con parole pesanti.
Sentì il suo tono tornare allegro, all'improvviso, forse in imbarazzo per una rivelazione improvvisa.
-Da grande vorrei diventare un militare anche io.
Gli riservò, finalmente, uno sguardo scettico, che permise di trasformarsi, poco alla volta, in divertimento sottile.
-Sarai costretto a frequentare ricevimenti come questi.
-Non è un problema. La gente non mi dispiace.
-Dovrai anche ballare.
Il silenzio di lui lo divertì e un sorriso, leggero, gli arricciò l'angolo della bocca. Si tolse la giacca e i guanti e lo guardò ben dritto in viso.
-Lo sai fare?
-In realtà, no.

 

Mosse a disagio il fianco, verso l'altro, irrigidendo i muscoli coperti dal palmo della mano dell'uomo.
Forse imbarazzo colorava più del dovuto le sue guance e i suoi occhi, ma il militare non aveva ancora dato segno di curarsene più del dovuto e quindi che se ne fosse accorto o meno era davvero poco rilevante.
-Si muova piano, per favore. Non l'ho mai fatto.
D'altro canto Rivaille, più che disagio, era costretto in una posa scomoda, essendo il ragazzo più alto di lui quel tanto da fargli curvare il braccio che terminava nella sua spalla in modo non comodo. Guardò male il vuoto, per qualche istante, prima di darsi una scrollata con il busto e riprendersi.
Nonostante fosse solo in camicia, non sentiva freddo.
-Segui i miei passi, per iniziare.
Mosse di fianco un passo, il ragazzo fece lo stesso. Mosse l'altro, e il giovane lo imitò non subito ma abbastanza pronto. Seguì lo schema di un valzer, senza impegno ma con precisione.
Con il naso rivolto al pavimento, l'altro copiava nel migliore dei modi i suoi gesti.
-Bene. Fai sempre così.
Prese ritmo, arrivò a eseguire tre passi consecutivi senza che l'altro inciampasse. Sentì il petto accalorato di soddisfazione. Quindi, drizzò la schiena e lo chiamò a sé.
-Ora guardami.
Il ragazzo eseguì subito, alzando la testa di scatto. Di nuovo quegli occhi chiari, decisi ora che avevano riacquistato la giusta fiducia. Mostrava concentrazione e benché lo sguardo tendesse a scivolare in basso più volte, lo tratteneva un rispetto insito non solo nel nome ma anche nella postura, nel contegno e nella persona stessa dell'uomo che lo stava guidando in quei volteggi discreti.
L'aria nel salone prese come a vibrare attorno a loro, non ancora sopita dopo la grande festa. Li accompagnò prima stanca e poi sempre più attiva, con una melodia tutta sua. Il ragazzo la sentì e arrivò a chiudere gli occhi, con tutta la fiducia che poteva rivolgere alla mano che stava stringendo la sua.
-Mi sto immaginando la musica.
Rivaille non gli disse nulla a riguardo, ma fu punto da curiosità.
-Di che tipo?
-Lenta, un po' ripetitiva, calma.
Trovò facile immaginare anche lui, pur senza chiudere gli occhi.
Era lì, che li accompagnava.
-Mi piace.

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Capitolo 2
*** 2. ‘Cause it’s a bittersweet symphony, this life ***


2. ‘Cause it’s a bittersweet symphony, this life

 

 

Cause it’s a bittersweet symphony, this life
Try to make ends meet
Try to find some money then you die
I’ll take you down the only road I’ve ever been down
You know the one that takes you to the places
where all the things meet yeah

 

 

 

Aria secca – si incolla ai polmoni e li rende aridi, costringendo persino il respiro a una sensazione di sgradevolezza continua e persistente. La gola è stretta, come se vivesse una crisi di panico senza l'agitazione: inala poco, emette ancora meno, si irrita nel passaggio tra le due cose e rende lo sforzo senza una valida motivazione che lo giustifichi.
Rivaille apre gli occhi e si ritrova in un luogo bianchissimo, che riconosce in quel momento come potrebbe farlo un milione di altre volte. Vi sono ombre, accanto a lui, che vagano come fantasmi dai labili contorni e hanno volto e anche maschere espressive, per quanto sia solo come l'impressione su un sentiero innevato, con il colore degli occhi e il rossore delle labbra. Fanno il rumore delle foglie che cadono, ovattato e discreto, e quando gli passano vicino un brivido freddo gli attraversa la schiena per poi disperdersi in una sensazione di peli raddrizzati dal vento.
Solleva le sopracciglia e le riabbassa: il bianco si rischiara e gli ferisce gli occhi, le ombre creano un contrasto con lo sfondo che rilassa la vista e allo stesso tempo la atterrisce. Lui vaga con lo sguardo fino a incrociare i propri piedi, accorgendosi solo in quel momento di non calzare neppure i suoi soliti stivali neri. Ci sono piedi nudi, le cui dita si ritraggono una volta e si allungano di nuovo, toccando il suolo e regalandogli un'altra viva sensazione di freddo, che corre per i suoi nervi e lo attraversa, dalla radice alla punta del suo essere. L'acqua compare dal non-luogo, esplodendo in tante piccole bolle e cominciando a salire fino ad arrivargli all'altezza delle caviglie.
Sono i suoi, gli occhi che lo stanno guardando con quella certa riluttanza tipica di chi non ha molto piacere a fare la conoscenza altrui, ora stretti nel disagio di un dubbio che non riesce a risolvere. Alzando appena lo sguardo per sfuggire a quella visione che non ha nome né spiegazione, Rivaille vede che le espressioni delle ombre hanno preso più definizione, arrivando persino a muovere le palpebre e gli occhi, arrivando persino ad abbozzare il tentativo di una parola – si rispecchia anche nelle loro iridi colorate di sangue, quando vengono troppo vicine.
L'uomo inizia a camminare con passo sicuro, guardando dritto davanti a sé. Ignora volutamente il suono che produce mentre conduce la marcia, e il freddo che comincia ad arrampicarsi oltre la sua coscia per via degli schizzi che distribuisce attorno e alle proprie gambe. L'acqua tenta di rallentarlo, ma l'uomo riesce a non frenare il flusso della propria coscienza e asseconda con decisione la propria volontà.
Le ombre cominciano ad agitarsi – dai mantelli grigi che coprono i loro corpi e li avvolgono in cilindri senza personalità allungano le bozze di arti e di dita lunghe; camminano su gambe storte, sbilenche, come se qualcosa di forte le abbia immobilizzate e ora ci sia dolore, oltre che desiderio, a agitarle fino al movimento. Un discreto raggrupparsi si fa denso, dietro la sua schiena, e neppure dopo qualche metro di ostentata spavalderia la temerarietà si fa labile e si eleva la voce, intima, dell'inquietudine.
Ma niente cambia, su quella strada senza senso e senza direzione. Rivaille è inseguito da ombre ormai definite, che hanno un nome e una valenza, si raggruppano in un'unica maschera e contagiano il bianco di quel non-luogo con l'impressione mortale della paura e del rimorso, tanto che a stento riesce a sentire, ormai, il rumore spento dei suoi passi e il respiro che gli esce a fatica dai polmoni raggrinziti.
Marcia, com'è solito fare, e si immerge in un'ombra che più che suggerirgli la notte e il lieve sonno dei sogni gli ricorda il lento cadere addormentato della testa cadaverica di un soldato.
Che sia paura o altro quella che lo imprigiona, la sente accompagnarlo senza lasciarlo più in una melodia malinconica scandita dal battito del suo cuore.

 

*******

 

Le casse dell'apparecchio emisero un rumore improvviso – uno stridio acuto e annaspante, che sembrava avere una fonte profonda, come se l'urlo di disumano dolore arrivasse direttamente dalle viscere del piccolo apparecchio marroncino. Alla cameriera scappò uno strilla spaventato e le sue braccia si chiusero, veloci, attorno all'esile petto racchiuso nella divisa bianca da lavoro, nel gesto istintivo di ultima protezione. I suoi occhi sgranati rimasero a fissare per qualche istante la manopola della radio, causa di quanto era appena successo, ma prima che si rendesse effettivamente conto che nessun mostro l'avrebbe mangiata e non le sarebbe scoppiato niente in faccia, men che mai quel diabolico marchingegno, a canzonare il suo timore e a prendersi gioco della sua inesperienza si elevarono un paio di risa rauche, sguardi divertiti e giusto un paio di attenzioni in più del solito.
La giovane si girò, indecisa se assumere un'espressione mortificata e quindi chinare il capo presso la spugna del bancone oppure sgridare amorevolmente il vecchio ubriacone che, come ogni sera, le avrebbe fatto compagnia fino a tardi e in quel momento si era preso la confidenza di rivolgerle un sorriso. Hanji si issò, con entrambi i gomiti, sul legno lucido del banco, e si sporse verso di lei indicando con la mano coperta da un guanto nero la radio.
-Devi sistemare l'antenna, altrimenti non prende bene il segnale.
La ragazza la guardò un poco spaesata, avendo capito soltanto tre delle parole che la donna le aveva rivolto, e il tono gentile, di certo, ma quello non l'avrebbe di molto aiutata a risolvere il suo problema. Restò un poco in silenzio, a torturarsi le dita da sola presa dall'indecisione e dalla sorpresa di sentire la voce di una nuova cliente, tutto all'improvviso – molti le avevano già detto che quello non era proprio il mestiere adatto a lei, ma per provvedere a un fratello piccolo e una madre malata non aveva molte scelte rispettabili, e il suo padrone ne era a conoscenza. Hanji capì il suo disagio e si sistemò sulla propria sedia, prima di dirle altro.
-Posso farti vedere come si fa?
L'altra chinò il capo, per nulla intimorita dalla confidenza del tono di lei ma ringraziando con un mezzo sorriso agli angoli delle labbra; si permise persino di seguire la donna mentre questa si alzava e superava il bancone, arrivandole accanto. Hanji si alzò appena sulle punte per arrivare con la mani all'altezza dell'apparecchio elettronico, e con manovre precise e consapevoli piegò l'antenna sottile e mosse la manopola del volume finché una voce distinguibile e piuttosto chiara non uscì, integra, dalle casse della radio.
In tempo per sentire il notiziario nazionale delle otto.
Erwin fece ruotare per l'ennesima volta, tra le dita, il bicchiere dal vetro spesso che l'aveva accompagnato per tutta la sera ma quando vide l'allegria e la felicità sul viso della cameriera, nell'espressione rilassata con cui in quel momento ringraziava l'altra donna, rinunciò a sollevarlo per chiedere un altro po' di rhum. Sarebbe stato il quarto bicchiere, nel giro di poche ore, e non voleva ascoltare il proprio fegato che gli minacciava una notte d'insonnia quanto piuttosto il desiderio nascosto, da qualche parte del cervello, di spegnersi per quella notte piena di sogni. Guardò ciò che aveva in mano e lo sollevò, raccogliendo sulla lingua l'ultima goccia di liquore che era depositata sul fondo: il sapore acceso gli fece venire un brivido.
-Non ti stanchi di bere?
Rivaille non lo stava fissando direttamente ma era chiaro che la sua attenzione, pur tutta concentrata nell'angolo di un occhio chiaro, era rivolta a lui. Negli anni, nella fortuna e nella sfortuna, il tono severo delle sue parole non era sfumato di niente, e all'uomo più anziano era sempre sembrava una maledizione e una benedizione assieme. Sorrise al proprio bicchiere, come se lo stesse guardando in faccia, e sollevò in un gesto le spalle, come se dovesse mostrare un poco di indifferenza in più, per sfuggire al suo rimprovero sottile.
-Mi piace il sapore.
L'altro non fece niente per mascherare il proprio dissenso, se non portarsi il bicchiere pieno d'acqua alla bocca e togliersi un ciuffo di capelli dall'occhio – anche la pettinatura era rimasta quella, fedele al proprio portatore come l'anima e il profumo. Si mosse a disagio su quella sedia troppo alta e troppo piccola, cercando e non trovando una superficie d'appoggio maggiore.
-Anche dopo tutto quello che hai messo nello stomaco?
Smith abbassò il capo ormai pesante, socchiuse le palpebre. Finalmente, la cameriera si era accorta di loro, e al suo cenno gentile portò la bottiglia di liquore e gli riempì di nuovo il bicchiere.
-Quello non cambia, anche se bevo più volte.
Rivaille non gli risparmiò uno sbuffo, un'occhiataccia cattiva e un capo rivolto altrove. Rifiutò persino il gentile invito della cameriera, per un bicchiere in più. Non voleva bere quella sera, come mai aveva voluto.
Guardò Hanji occupare il posto accanto a lui, l'attenzione concentrata nell'orecchio teso alla voce del presidente americano che recitava, come ogni anno, un discorso accorato e pieno di meraviglia, infinite positività e tanti, tanti auguri di buon anno: che potesse essere ancora migliore di quello precedente, e di quello prima ancora.
L'uomo si stancò presto di quella vista e cercò riposo, per i propri occhi, altrove. Le luci soffuse dei lampadari che erano appesi al soffitto, come ragnatele che per scherzo e per gioco rimangono ferme nel vuoto, aiutavano a dare al caldo locale un'aria più accogliente dell'immaginato, e sfumandone i contorni lo privava di quel retrogusto di degrado che conservava come il perfetto bar di periferia che si ritrovava a essere.
Insegne metalliche erano state appese alla parete, accanto ai mobili dei liquori e il grande specchio con macchie di umidità agli angoli. Non dava un'idea di decadenza, quanto di vissuto, e i colori morbidi del legno e dei mobili cullavano lo sguardo e lo rilassavano. Le bottiglie erano, per la maggior parte, piene più della metà, tranne quella della vodka che era sparita tra le mani di un vecchio emigrato russo, che ora russava da qualche parte disteso sopra uno dei tavoli del piccolo locale, ignorando il resto del mondo e l'arrivo di un nuovo ciclo di vita.
Fuori, probabilmente, era già scesa la neve – e questa era un'altra cosa che non cambiava affatto, nel corso degli anni, anche se le rughe sul viso aumentavano e il peso della vita gravava negli anni accumulati sulle spalle di ogni essere vivente.
C'era una sorta di vecchiaia, nella stanchezza con cui Erwin strisciò alcune parole fuori dalle proprie labbra.
-A Mike piaceva il rhum.
Rivaille tornò a guardare lui, riprendendosi dai propri pensieri. Non lo volle davvero, ma non poté impedirsi di far cadere l'occhio sulla manica vuota della giacca, lasciata a dondolare lungo il fianco dell'uomo biondo. Fu solo un secondo, ma gli impresse abbastanza pietà, crudele e terribile, da chiamare la cameriera e ordinare qualcosa per sé.
-È sempre piaciuto anche a te.
Non gli sorrise, ma sollevò il bicchiere pieno di liquore per lui.
Quando Smith, con un altro sorriso, sollevò il polso per rispondere al suo invito, vide il proprio riflesso nell'angolo del proprio bicchiere. Sbatté le palpebre, abbassò lo sguardo – bevve, e la sua vista si offuscò quell'appena in grado di salvarlo.

 

Indugiò due secondi in più e Erwin si voltò a guardarlo, con uno sguardo non troppo allarmato o impaziente. Lo scrutava da lontano, con la stanchezza negli occhi e un passo lasciato a metà, sul quella spanna di gradino di pietra, smusso agli angoli, lucido di neve non attecchita ma che rendeva tutto freddo e scivoloso, nella patina di finto ghiaccio con cui ricopriva ogni superficie orizzontale.
Sovrappensiero, vide Hanji giocare a soffiare aria calda contro i fiocchi bianchissimi che volteggiavano allegri trasportati da un vento gentile, e ridere appena quando uno di quelli si schiacciò contro i suoi occhiali e scese in una goccia, fino a bagnarle la pelle dello zigomo.
Sotto quel lampione, sul marciapiede, sembrava quasi il fantasma di sé medesima.
-Tutto a posto?
Rivaille sbatté le palpebre e accolse con un brivido la nuova sensazione di freddo. Si chiuse ancora, con un movimento delle spalle veloce e a scatti, nel proprio cappotto.
-Ho dimenticato il mio cappello.
L'altro uomo non sorrise e gli rivolse uno sguardo curioso, incuriosito e indagatore. C'era una ruga, più profonda delle altre, che divideva le sue folte sopracciglia, e dava forma al dubbio che gli occupava la sua mente, rendendolo esplicito ancor prima delle sue parole.
-Non avevi un cappello, all'entrata.
La risposta del francese arrivò troppo veloce, tanto che sembrò fermare il tempo per qualche istante – come una pallottola.
-No.
Non rese più complice lo sguardo, agli occhi del proprio superiore, né si sentì in qualche modo in dovere di dare spiegazioni circa la visione che aveva appena avuto e la volontà di inseguire la vaga impronta di una memoria lontana, apparsa nel dettaglio di un'ombra all'angolo di quel locale.
Lui e il suo spirito, la memoria e il rimorso, il rumore del proprio dolore: quella era la compagnia che desiderava per sé, ancora per poche ore.
-Torno da solo.

 

 

L'odore calmo e quieto della calda aria già respirata gli impattò diretto in faccia, bloccandolo sul ciglio dell'entrata per qualche istante. Il gesto istintivo, quindi, di schiudere i bottoni del cappotto gli fece muovere le mani, ma si ricordò solo una volta alzate le braccia di non averne allacciato neanche uno, nel momento dell'uscita interrotta da pochi minuti.
Gli importò poco.
Passò accanto ai tavoli vuoti; strano come non si fosse accorto del tempo che passava, assieme alle persone che rientravano e lasciavano quel luogo di condivisione, sentendosi addosso abbastanza allegria o nello stomaco abbastanza alcool da non percepire la solitudine di un'intera esistenza personale. Già le prime sedie erano state riposte, a capo rivolto, sopra i tavoli ripuliti e passati con un panno umido: c'era del bagnato, sulle superfici lisce, visibile anche a un'occhiata un poco distratta.
Avanzò, non curandosi troppo neanche di quello. Prese una di quelle sedie e la portò, senza aggiungere una parola, a un tavolo specifico, la appoggiò sul pavimento per le gambe – fece abbastanza rumore perché la cameriera alzasse lo sguardo, per qualche istante – e vi si sedette sopra con uno sbuffo appena percettibile, ben chiuso nel proprio cappotto.
L'uomo di fronte a lui alzò lo sguardo e anche il viso.
-Si è ricordato di me?
Sorrideva, piuttosto sfacciato, e gli rivolgeva due occhi così tanto aperti da riconoscere perfettamente ogni sfumatura di colore. Sarebbe stato difficile dimenticare un tale spettacolo, ma Rivaille indicò quello che lui portava sulla testa, con un pizzico di cattiveria nel tono e nel cenno del mento che si alzò di scatto.
-Hai preso tu il mio cappello, quella volta.
Il ragazzo, ormai giovane uomo, sorrise nervoso, sentendo il peso di quell'affermazione tutta sulla visiera dura del copricapo. Se lo tolse da sopra i capelli, ancora morbidi e scuri, e lo fece girare tra le dita.
-Non l'ho rubato: me l'hanno dato i camerieri dopo che lei se ne era andato.
Alzò le spalle, cercando di sviare la severità nello sguardo che il militare gli rivolgeva, troppo serio.
-Avranno pensato fosse stato mio.
-E tu non hai detto di no.
-Non sapevo neanche il suo nome.
Lo disse con un certo divertimento giovane, che da tempo Rivaille non sentiva addosso. Fu una piacevole sensazione, per questo decise di non insistere troppo su quel punto. D'altro canto, aveva avuto un secondo cappello, rigido e nero esattamente come il primo.
-Come scusa mi pare un po' debole.
Il giovane uomo comprese di essere stato perdonato e gli sorrise, sincero e perfettamente a proprio agio.
La maturità si vedeva nella confidenza che gli riservava, come se non ne avesse timore pur conservando il rispetto di fondo per quelle tre stellette che si erano aggiunte alla prima, colorata, sul petto del caporale. Non gli aveva ancora chiesto niente e niente ancora aveva preteso, da lui.
Tuttavia, non volle farsi vincere dal suo silenzio.
-Lei non mi pare cambiato molto, nonostante gli anni.
Rivaille lo guardò, sollevando il sopracciglio.
-È davvero così?
-Me lo dica lei, io la posso guardare solo da fuori.
Lo guardò davvero, ben dritto negli occhi. Più ne osservava i particolari del viso, gli abiti eleganti ma non troppo, le borse scure sotto gli occhi e quel bottone mancante, proprio il primo di una camicia bianchissima e dal colletto alto, più il fantasma labile che aveva vissuto nelle sue fantasie per un tempo indefinito e indecifrabile, insignificante considerando il resto, prendeva sfumature attraenti, umane e vive. Come un sogno che diventa, senza alcuna previsione, una realtà improvvisa.
Considerò gli avvenimenti degli ultimi quindici anni, il lasso di tempo che separava quell'incontro dal primo. Parlò con sincerità, senza pretendere da sé stesso qualcosa di diverso.
-Mi sembra d'essere peggiorato. In tutto.
Era chiaro a cosa si riferisse: qualcosa che avevano, in qualche modo, condiviso, e aveva avvicinato il loro punto di vista in maniera decisamente inaspettata.
Il caso, come il destino, era stato capace di plasmare eventi occasionali tali da non far sembrare forzato il loro contatto, in un'ideale e in un vissuto che non era dipeso dalla loro volontà. Per questo era facile parlare: il giovane uomo si sistemò sulla propria sedia e si protese verso di lui, tranquillo.
-È ancora vivo. Gli americani hanno vinto la guerra. Il mondo non è un posto pieno di terrore e disperazione.
-Il mondo è sempre stato uguale a sé stesso. Non è stata la guerra a cambiarlo né sarebbe riuscita veramente a farlo. Gli uomini si sono odiati e uccisi fin dal principio, che lo facciano con una pistola o una clava non ha molta importanza.
-Ciò che giustifica una contesa non è forse una diversa forza di ideologia?
Rivaille non seppe subito cosa replicare, e l'altro lo comprese e ne approfittò per precisare il proprio punto di vista. Il fervore era interno, non nel tono appena agitato con cui si rivolgeva a lui. Era diviso tra il rispetto che portava e la passione che conteneva – uno spettacolo strano e piacevole, per Rivaille, abituato alla puzza di cadaveri troppo vicini.
-Penso che il mondo sarebbe diventato un posto peggiore se non avessimo vinto. Ne sono davvero convinto. Il senso di una cosa del genere sta nella realizzazione di un progetto, il raggiungimento di un fine. Per quanti sacrifici si siano fatti, quello che stiamo vivendo ora lo dobbiamo alla giustezza della nostra morale.
Era sicuro delle proprie parole, e ne brillava dentro senza esitazione. Pur non condividendo la completezza di questo punto di vista, Rivaille non poteva che rimanerne stupito e ammirato, esattamente come la prima volta. C'era quella consapevolezza aggiunta che le rendeva più forti e colorava le parole di una luce rara, precisa nei suoi confini. Era quel privilegio riservato a pochi davvero, e il militare si sentì grato per qualche secondo per esserne stato toccato come in una carezza, anche per quella volta.
L'uomo più anziano tamburellò le dita sopra il tavolo, soppesando le parole di lui. Con più precisione gli entrarono dentro e lo fecero loro, pian piano.
Non si fece vincere.
-Vaneggi su un mondo che non ha sbavature di colore, ragazzino.
-Non dico che il bene sia assoluto, altrimenti non dovrebbe esserci neppure il dolore. Ma non è riducibile neanche come giustificazione. È un'ideologia, qualcosa da cui trarre forza.
Questa volta sorrise, e si pentì di non avere niente tra le dita da bere o portare alla bocca. Qualcosa riemerse, come un relitto dalle profondità dell'oceano, alla sua memoria, e si concesse persino un complimento.
-Non sei diventato un uomo gretto.
Il più giovane sorrise, preso alla sprovvista. Si mosse un poco a disagio, a quel punto, e abbassò lo sguardo per un paio di istanti: era sorpreso, e gratificato, ben comprendendo il motivo per cui il proprio interlocutore avesse scelto proprio quelle parole. Anche nella sua mente qualcosa era diventato più definito, e questa demarcazione aveva la capacità di trasformare le sensazioni in ricordi, la memoria in concretezza.
Gli porse il cappello, per spezzare il silenzio.
-Penso che questo cappello stia meglio a lei.
-Tienilo pure: non mi serve.
Il giovane lo attirò a sé e lo mise sulla testa; si mostrò quindi all'altro, con la visiera abbastanza bassa da arrivare a quell'altezza in cui le palpebre formavano la sottile linea di separazione.
-Quest'anno non è stato invitato a nessun ricevimento?
Se Rivaille guardò altrove non fu per il disagio ma per la leggerezza raggiunta dalla conversazione. La tranquillità lo aveva colto di nuovo, arricchendo la piacevolezza che era nata dentro il petto e lo scaldava con la stessa insistenza di una stufa a legno.
-Per me e i miei colleghi è arrivato il momento in cui è buona educazione rifiutare, certi inviti, non accettarli.
Il ragazzo fece una smorfia – non si seppe contenere, pur nei suoi trent'anni.
-È una cosa brutta.
E lo guardò, sinceramente incuriosito.
-Quindi, non ha ballato con nessuno?
E l'altro ricambiò il suo sguardo, e quel mezzo sorriso nascosto nell'angolo destro della bocca.
-Ancora no.

 

A quell'ora della notte, la radio aveva cominciato a trasmettere solo nostalgiche musiche di altri tempi, temi lenti che rimandavano alla memoria giorni così pieni di festa da potersi permettere ben più di cinque minuti di abbraccio morbido, cinto da braccia molli e da corpi rilassati e tranquilli.
Lungo il corridoio che separava i tavoli dal bancone si trovavano due metri e mezzo di spazio libero, ora che i seggiolini alti erano stati rimossi e c'era solo, appena, la polvere agli angoli dei mobili da spazzare via – la cameriera, di lato, teneva già una scopa tra le mani, attendendo paziente.
Si misero uno di fronte all'altro, con serietà nelle spalle.
-Conduco io?
Rivaille gli porse la mano, il giovane la prese con un sorriso.
-Non mi ha mai insegnato a farlo!
L'altro lo guardò strano, pur prendendogli il fianco come già aveva fatto una volta. Si era allungato ancora, e non aveva più i fianchi così stretti. Riuscì a guardarlo meglio in viso, e notò anche qualche punta di barba scura ai lati del mento.
Ne fu rassicurato, avendo la conferma che il tempo non era passato solo per i suoi capelli o le sue ossa.
Intanto, l'altro rideva ancora, e decise di pungolarlo una seconda volta.
-Non ho mai potuto ballare, con quello che mi ha insegnato.
Gli strinse la mano e cominciò a muoversi, assecondando la musica.
-Dev'essere stato imbarazzante.
-Sì, lo è stato.
Qualche passo, sicuro da subito. Un volteggio, il rischio di colpire con un fianco lo spigolo del bancone, la fuga veloce e decisa.
Il giovane sorrideva, tranquillo. Chiuse gli occhi alla musica, sicuro di non dover temere alcunché. Li riaprì solo perché era scortese sottrarsi a quel contatto intimo così spudoratamente e lasciare solo l'altro, in balia dei propri pensieri.
Si tolse persino uno sfizio, dal momento che ne aveva la possibilità.
-Come si chiama, signore?
-Rivaille.
Strinse la sua mano, si fece più vicino.
-Io sono Eren Jaeger.

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Capitolo 3
*** 3. I can't change my mold ***


3. I can't change my mold

 

You know I can change, I can change

I can change, I can change
But I’m here in my mold
I am here in my mold
And I’m a million different people
from one day to the next
I can’t change my mold
No, no, no, no, no

 

 

 

Aria mancante – ruba spazio all'ossigeno e crea un vuoto incolmabile nei polmoni, costringendo il respiro in un affanno accelerato alla ricerca di qualcosa che non si trova, che si fa fatica persino a individuare. La gola si allarga, negli spasmi di tentativi sempre più isterici, e vive una crisi di panico in tutti i propri dettagli: inala poco, emette ancora meno, si irrita nel passaggio tra le due cose e rende lo sforzo senza una valida ragione che lo sostenga.
Rivaille apre gli occhi e si ritrova in un luogo bianchissimo, che paradossalmente gli è più familiare del dolore stesso. Vi sono sempre le solite ombre, qualcuna aggiuntasi nel tempo qualcuno dispersa nei meandri di una memoria mai colma di sofferenza, e nelle maschere facciali, dalle espressioni grottesche e deformi, vede tutta la conformazione della propria terribile ossessione. Fanno il rumore della carta che cade, ovattato e discreto, e quando gli passano vicino un brivido freddo gli attraversa la schiena per poi disperdersi in una sensazione di peli raddrizzati dal vento.
Sgrana gli occhi, per qualche istante: il bianco tremula, come il miraggio che è, e le ombre assieme a lui, conformandosi all'angoscia che le rappresenta nell'intima natura. Lui vaga con lo sguardo fino a incrociare i propri piedi, accorgendosi solo in quel momento di avere moncherini di carne e due gambe di legno scuro, quasi nero. Non ci sono dita; una caviglia piatta e un dorso molto liscio, danno l'idea del finto e del gelo di un oggetto da esposizione, che deve solo ingannare e far finta che la mancanza non esista – tutto è perfetto, nel non-luogo, tanto che non c'è da chiedersi il motivo di niente, la ragione di nulla: un assolutismo che placa qualsiasi curiosità o dubbio. Persino quel nodo di acqua rossa, che si sviluppa come una radice dal suolo e si dilunga come un fiume sempre più grosso, deve la propria nascita alla sola volontà della creazione, come se nella logica si trovasse sterilità e nella pazzia fantasia troppo feconda. Il rosso si arrotola, si aggroviglia, e sgorga dalla propria sorgente spruzzando ovunque, anche sui suoi polpacci.
Sono i suoi, gli occhi che lo stanno guardando con quella certa riluttanza tipica di chi non ha molto piacere a fare la conoscenza altrui, ora stretti nel disagio di un'angoscia che non riesce a risolvere. Alzando appena lo sguardo per sfuggire a quella visione che non ha nome né spiegazione, Rivaille vede che le maschere hanno cominciato a prendere persino corpo, e macchiano di impronte il suolo bianco impiastricciandolo di colore intenso; tutto diventa carminio, e il carminio ingloba tutto, in piccole onde che si increspano e, toccando i lembi dei mantelli scuri, risucchiano in un continuo vortice il nero e lo tingono di rubino terribile. Le maschere, quasi, agonizzano un nome che si fa fatica a identificare, quando anche il bianco degli occhi non esiste più
L'uomo inizia a camminare con passo sicuro, guardando dritto davanti a sé. Ignora volutamente le dita nere che, dai fluttui, sembrano galleggiare come relitti, e il suono flaccido delle sue gambe che sembrano come calpestare delle interiora molli, così poco dense da rendere difficoltosa la marcia.
Le ombre stridono, per quanto riescono ancora – ma è come riemergere, dal fiume di sangue, vivi e arsi al medesimo tempo, o scappare da un incendio che è arrivato nelle ossa e le consuma poco a poco: l'uomo interessa loro ben poco, prese da una condizione che le rende inesorabilmente tanto egoiste da non degnarlo neanche di uno sguardo. Si afflosciano sulla riva di quel fiume infernale e rimangono immobili, cadaveri mai stati vivi.
Niente cambia, su quella strada senza senso e senza direzione. Rivaille sente il rimbombo di quelle grida sempre più umane rimbalzargli tra cuore e polmoni, far vibrare il fegato e l'intestino, e riempirlo come l'aria che non riesce a respirare fino a rendersi fluido e nulla allo stesso tempo, pensiero che scivola nelle vene e nelle arterie.
Marcia, com'è solito fare, e si immerge in un rosso che più che suggerirgli la passione del fuoco e della vita gli ricorda la fine inesorabile di ogni anima, sola, che lascia quel mondo tra lamenti a una luna sorda e a un sole indifferente.
Che sia paura o altro quella che lo imprigiona, la sente accompagnarlo senza lasciarlo più in una melodia malinconica scandita dal battito del suo cuore.

 

*******

 

Un bambino dalla voce chiara diede un la alto, abbastanza lungo da suggerire la tonalità a quelle quattro persone che gli stavano attorno, nel mezzo della tormenta. Probabilmente esagerò con la forza, nel tentativo di non lasciarsi vincere dal freddo dei fiocchi di neve che gli venivano schiacciati in faccia, e dopo pochi secondi stonò e dovette abbassare la voce fino a farla diventare un gorgoglio abbastanza imbarazzato – sua madre sorrise mentre il padre della vicina rise apertamente del fallimento appena messo in atto, senza una qualche sorta o traccia di malizia che lo potesse far diventare oggetto di odio o risentimento.
Il ragazzino nascose il naso rosso sotto lo strato di lana colorato della sciarpa fatta a mano, ultimo regalo del Natale passato da poco, e si scaldò con il proprio stesso alito le labbra e il mento, l'inizio delle guance irrigidite dal freddo terribile. Alzò gli occhi quando un guanto e la mano che conteneva gli prodigò una carezza sulla cuffia a pompon che gli chiudeva la testa, in un gesto che voleva essere evidentemente di incoraggiamento e di fiducia assieme. Il suo sguardo lucido salì al viso di un uomo incontrato solo quel giorno, quello grosso con la voce profonda, che faceva così contrasto con la sua da fornirgli un invidiabile contorno. Con naturalezza infinita, riuscì a sorridergli per la prima volta.
-Tutto bene?
Hanji si strinse ancora nel proprio maglione spesso, avendo già chiuse le braccia al petto in un abbraccio a sé stessa davvero stretto, che sembrava voler trattenere ogni minima grado di calore residuo. Il sorriso le si era ghiacciato sulle labbra e, anche volendo, le sarebbe stato difficile piegare l'espressione a un altro stato emotivo: si trovava su quella soglia da troppi minuti, in attesa, per riuscire a piegare qualche muscolo del viso. E forse era per reale arrendevolezza all'impossibilità fisica, forse invece per non voler cedere alla scortesia, ma teneva ancora tra le dita strette un sacchetto di dolci fatti in casa e un'offerta per quel secchielli di latta che i guanti del bambino tenevano ben saldo per il manico. Lo sguardo del piccolo gruppo canoro si tinse, in una leggera gradazione verso la parte più esterna dell'iride, di ammirazione e rispetto.
La donna sorrise ancora e con un soffio spostò quel ciuffo grigio di capelli che le era scivolato davanti al viso.
-Forza! Fatemi sentire come cantate!
Il bambino iniziò la canzone con un la intonato, ben alto e chiaro, che venne seguito successivamente da altre quattro voci altrettanto chiare e altrettanto intonate – e benché Natale fosse passato, di poveri e carità si abbisognava sempre, come ricordavano i tanti fiocchi colorati di rosso acceso, appesi ai collo di tutti e cinque i cantanti.
Erwin, nel caldo rilassante e sicuro del salotto di casa, arricciò le labbra in un sorriso quasi compiaciuto. Si stirò i muscoli delle gambe, allungandosi verso il tavolo basso di legno che divideva i due sofà della stanza. Sopra la superficie orizzontale, vide il secondo dei piatti ormai svuotati dei biscotti che fino a un quarto d'ora prima erano caldi di forno, e tutte le briciole scure che erano sparse attorno alla sua circonferenza, sia dentro che fuori. Ma a lui, quel dettaglio importava poco.
Nascosto dal grande albero brillante che occupava il posto appena più in là rispetto al suo, poco dopo che il tappeto disteso a terra finisse e tre metri di distanza dal camino ancora acceso, l'uomo ebbe il privilegio di assistere allo spettacolo canoro da una posizione di rilievo, che gli faceva intravedere il profilo della propria compagna e la porta dell'abitazione ancora aperta. Ogni tanto, assieme a una brezza freddissima, entrava temerario anche qualche grumo di neve, che sciogliendosi entro i primi cinque metri dell'appartamento diveniva una semplice goccia sul pavimento lucido.
-Ne hanno ancora per molto?
L'uomo, per mascherare la sorpresa con cui quell'affermazione lo aveva colto in un solo movimento, distese il proprio braccio e lo appoggiò la mano nell'ultima parte del bracciolo del sofà, stringendo con le dita vecchie e un poco grigie l'angolo.
Il suo animo conservava, nonostante gli anni, quella nota di indulgenza che riservava al mondo, e quella punta di profondo paternalismo con cui trattava ogni cosa e ogni persona, specialmente lui.
Erwin era cambiato solo nel numero delle rughe della fronte e del colore più secco dei capelli, ma sentirlo parlare in quel momento era come sentirlo parlare trent'anni prima. Come il vecchio che ormai era diventato, con la guerra e il tempo, mordeva tenacemente le convinzioni da lui ritenute migliori e ne diventava servo leale fino quasi alla pazzia e al controsenso.
Sorrise persino alla sua brutta espressione.
-Non essere impaziente. Anche la gioia ha i suoi tempi.
Rivaille aveva mezzo occhio per lui e mezzo occhio per le briciole disseminate sopra il tavolino di fronte a loro – tuttavia gli riuscì benissimo di essere sgradevole ancora una volta, come sempre.
-Mi pare ostentazione, questa.
Smith mosse ancora la mano, non per il disagio ma per non essere toccato in qualche modo dal suo tono. Razionalmente, era consapevole di essere sempre più stanco, e se si soffermava troppo sul significato delle abitudini la sua mente già sofferente di insonnia avrebbe cominciato ad arrovellarsi su questioni inutili. Cristallizzò il proprio sorriso e solo poi riuscì a guardare l'altro uomo.
-Sei sempre così intransigente, con tutti.
-In questo modo ho sempre ottenuto dei risultati ottimi.
-E anche un sacco di maledizioni.
Sorrise, sorrise davvero, grato di quel particolare privilegio che la compagnia del subordinato di esercito, come poche altre cose ormai, gli riservava.
Mosse gli occhi quando Hanji chiuse la porta e sigillò il calore al solo interno dell'abitazione. Fece una faccia strana a Erwin, quando gli passò vicino, piena di confidenza e quotidianità passata assieme, e con il suo passo ancora svelto raggiunse la cucina e il giovane Eren, abbandonato per qualche minuto da solo a controllare che le patate nella pentola non si cuocessero tanto da bruciarsi. Persino da lontano si sentì, nella sua voce, il disagio di un uomo non avvezzo ai fornelli altrui, e le rassicurazioni della donna circa la salvaguardia personale presente e futura di tutti loro.
Di fronte al camino, i due uomini tornarono a guardarsi.
-Ma almeno si poteva capire cosa ti aspettassi dalle persone.
Erwin si concesse un momento di nostalgia, con lui, fiducioso di potersi consegnare interamente a qualcuno che non avrebbe in alcun modo abusato di lui.
-Sei sempre stato un vero amico, Rivaille.
Per qualche secondo, Rivaille si vide stretto in un'angoscia senza nome preciso, una di quelle intuizioni che solo la curiosità e la malizia, unite assieme, potevano far nascere dentro qualcuno. Vedere l'altro uomo in quel momento, con gli occhi lucidi e il cuore il mano, gli fece temere la confessione di un morente.
Questo fu il motivo per cui non fuggì da Erwin e anzi, si sporse verso di lui – con tutta la propria persona: fisico e cuore.
-Non hai mai dimostrato di essere di meno.

 

Indugiò due secondi in più e Erwin si voltò a guardarlo, con uno sguardo non troppo allarmato o impaziente. Lo scrutava da lontano, con la stanchezza negli occhi e un passo lasciato a metà, tra il vialetto ben pulito del giardino della sua casa e il marciapiede ancora pieno di neve, tanto alta da ricoprire i suoi passi e tutta la sua scarpa scura.
Sovrappensiero, vide Hanji muovere la propria borsetta in aria, quasi la stessa facendo roteare, e cantava la stessa canzonetta festiva che aveva ricevuto come visita non troppe ore prima, tenendo il ritmo con il suo passo. Aveva comprato da poco una macchina – rivoluzionario come una signora della sua età, di quei tempi, si permettesse di guidare l'ultimo figlio di quella generazione di tecnologia davanti a tutti. Lei, con quell'atto quasi rivoluzionario, aveva dimostrato a tutti di voler ancora sentirsi libera di provare qualsiasi emozione, anche la curiosità e l'eccitamento di una nuova scoperta.
-Tutto a posto?
Rivaille sbatté le palpebre e ricordò con un brivido di aver freddo. Si chiuse ancora, con un movimento delle spalle veloce e a scatti, nel proprio maglione.
-Non hai dimenticato niente?
L'altro uomo sorrise e chinò appena il capo in avanti, in un gesto che voleva nascondere un guizzo dello sguardo troppo evidente. Fissò la punta degli stivali, provò ad alzarne una ma vinse il freddo: non ci riuscì.
Alzò la testa e lo guardò, ancora appoggiato al lato della porta d'ingresso. Dietro di lui, Eren lo adocchiava con una certa curiosità – sorrise a entrambi.
-No, non mi sembra proprio.
La risposta del francese arrivò lenta, con lo stesso ritmo ora dolce della danza dei fiocchi di neve, e sembrò fermare il tempo per qualche istante.
-Allora scusami, devo aver sbagliato.
Non rese più dispiaciuto lo sguardo, agli occhi del proprio superiore, né lo piegò alla commiserazione o al rimpianto. Non bisognava dare spiegazione al dolore ma nessuno dei due uomini aveva intenzione di piegarsene vigliaccamente: i rimpianti non andavano esposti ad altre anime sensibile.
Si diedero l'ultimo addio nel sorriso di Erwin.
-Torno da solo.

 

Quando era rientrato in casa, avendo lasciati gli ospiti fuori dalla porta, aveva notato sull'appendiabiti dell'ingresso un cappotto scuro – il proprio, per la stagione invernale – posizionato in un modo tale da scivolare, lentamente, verso il pavimento. Prima che fosse riuscito ad allungare la mano per afferrarne un lembo e trattenerlo, era già caduto a terra, per fortuna sopra il bel tappeto dell'atrio. Si era chinato a raccoglierlo, e quando era stato a terra si era fermato per un ovattato tonfo sordo, appena qualche metro davanti a lui. Aveva alzato lo sguardo e aveva visto rotolargli incontro il cappello nero da militare, quello con il bavero scuro di pelle. Aveva fermato la sua corsa con la mano e lo aveva sollevato con sé, portando anche quello sull'attaccapanni.
In quel momento, gli riservò un'occhiata più lunga del dovuto, soffermandosi più sull'essenza del valore che sull'oggetto in sé, ormai vecchio e così rigido per essere indossabile. Lo lasciò lì, assieme ad altre memorie, e avanzò nella casa.
Nel salotto, il camino stava dando gli ultimi sbuffi di vitalità, tra la legna secca e la cenere grigia. L'attizzatoio era stato riposto in malo modo nel proprio portantino: andò lì e lo mise a posto, incapace di sopportare quello squilibrio nella propria dimora. Passando così vicino alla cucina, d'altro canto, riuscì a sentire quel vago aroma di cibo cotto e carne arrostita che ancora aleggiava in quel luogo, dopo quella insolitamente lunga serata di festa. Chiuse le braccia al petto e si incamminò veloce verso la camera da letto, unica stanza nell'appartamento ad avere ormai la luce accesa.
Eren dava le spalle, nude, alla porta, ma quando lo sentì entrare, riemergendo dal buio della notte ormai fonda, si girò verso di lui e lo accolse con un sorriso ovattato dalla stanchezza trattenuta a stento.
L'uomo più anziano cominciò a togliersi i vestiti, uno a uno.
-È sempre bello passar la festa di capodanno con il signor Smith e la signorina Hanji.
Non c'era formalità, nella sua allegria, e benché gli scappò uno sbadiglio ben udibile e dovette ricorrere a una spiegazione ulteriore, non c'erano dubbi che lui fosse sincero, su quanto stesse dicendo.
-La loro compagnia mi piace.
Riposta la camicia sopra lo schienale della sedia della scrivania, Rivaille si concentrò sulle bretelle, che sciolse con un sol gesto e una smorfia assai marcata.
-Questa casa diventa un ospizio, quando si riempie di quella gentaglia.
-Non è molto gentile da dire! Sono i tuoi vecchi colleghi, compagni di esercito!
-Un monco e una pazza: quale miglior resto la vita mi ha lasciato.
-Una mancia niente male.
-Da far invidia.
Rivaille, pronto per la notte, si volse finalmente verso il compagno che attendeva tra le lenzuola calde. Gli illuminava il fianco la lampada posta sul comodino; gli brillavano gli occhi e aveva uno sguardo caldo, accogliente.
Andò con calma al letto e sollevò le coperte, per mettersi sotto senza fretta, e solo una volta coperto permise a Eren di avvicinarlo, con un veloce movimento dell'intero corpo.
Non lo strinse: si appoggiò con il viso alla sua spalla e fu come se si fosse depositato lì, senza realmente pesargli contro.
-Mi sono sempre domandato in che modo foste riusciti a incontrarvi, tutti assieme.
Sentire la sua presenza era tutto ciò che a Rivaille serviva per sentirsi bene, in quel frangente. Alzò appena il livello delle lenzuola e guardò altrove.
-Un episodio come un altro, niente di davvero significativo.
Sospirò, sovrappensiero.
-Anche perché è stato importante quello accaduto dopo.
-Credo di poterlo capire, questo.
L'uomo più giovane si stropicciò gli occhi e sbadigliò ancora, sistemandosi con una mano i cuscini dietro la schiena. Nella sua mente stava prendendo posto il sonno, senza discrezione, e già la testa gli si faceva pesante. Dovette costringersi a stare sveglio quando l'altro tornò a parlare.
-Mi ricordo benissimo cos'è capitato la notte del nostro incontro, invece.
Rivaille lo guardò solo in quel momento in viso e lo vide più spaesato di quello che si sarebbe aspettato – non comprese il suo disagio e il suo disappunto, ma lo registrò perfettamente.
-Cos'è successo?
-Non ricordi nulla?
-Mi ricordo l'impressione che ebbi di te, molte delle parole che dicesti, ma non più di questo.
Ne rise, nascondendo in quel moto la punta di amarezza che gli era nata nel cuore. Non avrebbe pensato di scoprirlo così, ma quello che teneva nel cuore – i ricordi di una persona che si scopre dolorante e che non ha intenzione di rinunciare a quello che ha, giudicandolo già troppo poco – gli era più caro di qualsiasi altra convinzione.
-Sei incredibile.
-Ti dispiace?
Ma non era così caro quanto Eren, o forse quella di Rivaille era solo momentanea decisione. Decise, però, di non guardarlo più negli occhi.
-No, non così tanto. È solo un dettaglio, in realtà. Come tutto il ballo e la musica e il resto.
-Il ballo me lo ricordo. E il freddo.
-Il freddo è stata una cosa fondamentale.
-Probabilmente ti muovevi tanto proprio per quello!
Al suo riso tornò a guardarlo, con un'espressione corrucciata in volto.
-Non mi sono mosso tanto.
-Sì che lo hai fatto! Non te l'ho mai detto, ma come maestro di ballo sei sempre stato pessimo!
A questo non volle rispondere – e il suo cruccio non ne ebbe di sparire, in quel momento. Il più giovane rise, e si mise sotto il suo braccio, come a costringerlo in una stretta intima; l'altro lo lasciò fare, perché sentire il peso del compagno sul petto era decisamente più appagante che sentirlo sulla schiena, e in quel momento necessitava di qualche piccola certezza, e del suo sorriso che non tardò ad arrivare, contro la sua pelle.
-Mi ricordo di non averti mai dimenticato.
-Questo non ha molto senso, se lo aggiungi a quello che hai detto prima.
Al secondo bacio, il petto di Rivaille si gonfiò più del dovuto, e le sue dita scivolarono sulla nuca dell'altro, in una carezza leggera che terminò tra i ciuffi scuri del suo capo. Eren impiegò qualche secondo di silenzio per formulare una risposta adeguata, che non si lasciasse corrompere dal bacio promesso dalla sua bocca.
-Perché? Mi ricordo di te e quello che a te mi lega. Penso sia sufficiente per dare un senso al nostro rapporto. Non mi servono altri oggetti o gingilli di qualche tipo, come non relego la memoria che ho di te a nient'altro che i miei sentimenti. Questa è la base di ogni legame: quello che proviamo l'uno per l'altro.
La promessa si ruppe, sulle labbra dell'uomo più anziano, ma non per cattiveria o indivia, per sorpresa e una punta di ammirazione mai dichiarata.
Tuttavia, le carezze non terminarono.
-Parlare per te è sempre così facile.
-Non è vero. Quando ci sei tu niente è semplice.
Abbassò capo e sguardo, per vergogna improvvisa.
-Non lo è mai stato.
E rideva, quando tornò a ricambiare il suo sguardo – gli baciò persino la mano, nel tentativo dolce di rassicurarlo se mai qualche paura gli fosse sorta nell'animo.
-Hai perso l'aura da oggetto mistico che avevi all'inizio, questo sì. Sono rimasto ammaliato dalla tua figura per più di dieci anni. Ma non sei stato solo luce negli occhi, e questo pesava sulla mia coscienza.
Non poteva essere altri che lui: ciò di cui Rivaille aveva bisogno e ciò che aveva sempre cercato. Per quel motivo, dal loro primo incontro, l'uomo non aveva mai scordato il colore dei suoi occhi e la forza, la verità insite in ogni sillaba formulata dalla sua voce.
Forza che guida, forza che viene guidata, forza che non si limita all'apparenza ma diventa essenza. Quando Rivaille aveva chiesto come Eren si fosse innamorato di lui – se mai ci potesse essere motivo o ragione logica per tale avvenimento – il ragazzo aveva risposto con una frase simile, adducendo magari qualche merito alla morale di cui era esempio e alla coerenza di fondo che mai gli era stata estranea.
In quel mondo di decadenza, aggrapparsi a valori puri di passione e rigore era l'unico modo di sopravvivere e vivere assieme. E questo lo avevano capito entrambi, alla stessa maniera.
Rivaille gli sorrise e gli prese la mano saldamente.
-Hai detto che ti ricordi il ballo, vero?
-Sì, me lo ricordo.
Lo trascinò in piedi, con sé, mezzo nudo e impastato di sonno. E quando si mise in posizione volle finalmente dire una verità tanto scomoda quanto divertente.
-Anche quando eri un ragazzo eri più alto di me.
-Sì, sei sempre stato basso.
Ma Eren lo guardò stranito, adocchiando anche la stanza assonnata attorno a loro.
-Vuoi ballare qui?
-Abbiamo tutta la casa, per farlo.
-E la musica?
-Non ho bisogno di altra melodia che te, Eren.
Sorrisero, con le dita strette le une nelle altre.

 

Ci fu una sorta di ballo, che iniziò nella camera da letto e si schiantò un paio di volte lungo il muro del corridoio; minacciò anche di entrare in bagno, ma lo sbattere di un gomito contro la porta di vetro lo fece rotolare altrove, accompagnato da un'imprecazione e uno sbuffo divertito.
Incappò in qualche tappeto, minacciò di interrompersi in un inciampo e in un piede calcolato male, che calpestò quello del conducente – la realtà è che nessuno ballerini dei due era ormai pratico di tutto quello ed era più che difficoltoso mantenere integra quella sorta di dignità che avrebbe reso un senso all'insieme dei gesti.
Non arrivarono neanche al salotto: si fermarono prima, lungo distesi sul tappeto dell'atrio. Eren rideva, con la schiena contro il pavimento, mentre Rivaille aveva assunto di nuovo tutto il suo sdegno e lo guardava con un certo risentimento, nei muscoli tesi del collo.
Sentì le sue unghie aggrapparsi alla schiena, come in un ancoraggio estremo. Lo guardò, tra labbra e occhi; chiedeva solamente che la promessa fatta venisse mantenuta, si tese un poco verso di lui per incitarlo.
Lo prese per la coscia, gli allargò le ginocchia e vi si mise in mezzo, nel caldo abbraccio delle gambe. Lo baciò, con foga impaziente, e si schiacciò tanto contro di lui quasi da strizzarlo. Eren se ne lamentò, all'inizio, e gli sfuggì anche un gemito strozzato quando l'uomo cominciò a muoversi contro il suo bacino.
Quella era la dichiarazione di Rivaille, senza parole o sorrisi, senza propositi deposti nel vento o promesse profumate di lavanda e della stagione delicata e sfuggente della primavera: amore che era ruvido e scaldava il cuore, della stessa passione a cui era assoggettato.
Si tolsero il sottile intimo rimanente, rimanendo pelle contro pelle. Rotolarono, a quel punto, e non fu più chiaro chi dovette restare sopra e chi sotto; si tenevano uniti per le mani e per le labbra, concatenati in uno sguardo mai chiuso.
Si unirono al buio, nei gemiti che si alzarono come a saluto del nuovo anno – un susseguirsi dei loro nomi senza ordine e senza reale scopo, in verità, ma solo per il piacere di farlo.

 

Solo ossessioni abbandonate, non più a incrostare la mente.
La solitudine per la compagnia. La morte per la conferma della vita. La perdita per l'amore.

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