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Autore: Rota    23/12/2013    2 recensioni
-Tutto a posto?
Rivaille sbatté le palpebre e ricordò con un brivido di aver freddo. Si chiuse ancora, con un movimento delle spalle veloce e a scatti, nel proprio cappotto.
-Ho dimenticato il mio cappello.
L'altro uomo non sorrise ma si erse in una posizione più comoda. Le parole formavano, ogni volta, una condensa di fumo leggero davanti al naso appuntito e alla bocca sottile.
-Ti aspettiamo.
La risposta del francese arrivò troppo veloce, tanto che sembrò fermare il tempo per qualche istante – come una pallottola.
-No.
Non addolcì lo sguardo, agli occhi del proprio superiore, né si sentì in qualche modo in dovere di dare spiegazioni circa il fatto che volesse godersi quelle poche ore rimanenti in un intimo silenzio. Lui e la città, la neve e il freddo, il rumore di ogni cosa incorporato nei sogni di qualcun altro.
-Torno da solo.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Eren, Jaeger, Hanji, Zoe, Irvin, Smith, Mike, Zakarius
Note: AU, Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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*Autore: Rota
*Titolo: I’ll take you down the only road I’ve ever been down
*Fandom: Shingeki no Kyojin
*Personaggi: Rivaille, Eren Jaeger, Erwin Smith, Hanji Zoe
*Generi: Sentimentale, Introspettivo, Malinconico
*Avvertimenti: What if...?, Yaoi, Lime, AU
*Rating: Arancione
*Credits: Titolo e capitolo dalle lyrics de “Bittersweet symphony” de The Verve.
*Dedica: A Shichan e Mattie, per Natale (L)
*Note: Au ambientata dapprima negli anni '30, nella bellezza degli USA, e la seconda parte nel secondo dopo guerra, circa una quindicina e oltre di anni dopo.
La prima parte dei primi capitoli è al presente perché rappresenta una sorta di “ossessione”/”sogno”, che penso più vivido nella resa se messo al presente. Il resto è al passato ma solo per un'esigenza di narrazione, non per altro.
La prima ossessione parla della solitudine, la seconda della morte, la terza della perdita.

 

Partecipante al "Pick a Prompt Contest" indetto sul forum di EFP da SamidareEFP

 

 

I’ll take you down the only road I’ve ever been down

1. I need to hear some sounds that recognize the pain in me, yeah

 

 

Well I never pray
But tonight I’m on my knees yeah
I need to hear some sounds that recognize the pain in me, yeah
I let the melody shine, let it cleanse my mind, I feel free now
But the airways are clean and there’s nobody singing to me now

 

 

 

Aria umida – si incolla ai polmoni e li rende flaccidi, costringendo persino il respiro a una sensazione di sgradevolezza continua e persistente. La gola è stretta, come se vivesse una crisi di panico senza la paura: inala poco, emette ancora meno, si irrita nel passaggio tra le due cose e rende lo sforzo senza una valida ragione che lo sostenga.
Rivaille apre gli occhi e si ritrova in un luogo bianchissimo, che non riconosce né potrebbe davvero. Vi sono ombre, attorno, che vagano come fantasmi dai labili contorni e non hanno volto se non maschere inespressive, senza lineamenti, né zigomi, né occhi. Fanno il rumore della carta che cade, ovattato e discreto, e quando gli passano vicino un brivido freddo gli attraversa la schiena per poi disperdersi in una sensazione di peli raddrizzati dal vento.
Chiude le palpebre e le riapre: il bianco è ancora lì, le ombre anche. Vaga con lo sguardo fino a incrociare i propri piedi, accorgendosi solo in quel momento di calzare i suoi soliti stivali neri militari. La punta arrotondata, opaca per la terra e la polvere, termina in una pozzanghera limpida, la cui superficie viene smossa all'improvviso dal cadere morbido di una goccia venuta da un non-luogo, che increspa in piccole onde l'immagine riflessa della sua espressione corrucciata, stranita.
Sono i suoi, gli occhi che lo stanno guardando con quella certa riluttanza tipica di chi non ha molto piacere a fare la conoscenza altrui, ora stretti nel disagio di un dubbio che non riesce a risolvere. Alzando appena lo sguardo per sfuggire a quella visione che non ha nome né spiegazione, Rivaille vede che il pavimento del bianco è costellato di altre pozzanghere, altri specchi d'acqua cristallina e limpida che le ombre non osano calpestare. Gocce di umidità sul suolo, nessuna impronta o impressione di sorta.
L'uomo inizia a camminare con passo sicuro, guardando dritto davanti a sé. Ignora volutamente quello che calpesta, anche quando nel silenzio il suo piede produce l'unico rumore degno di nota e si immerge, ben oltre il tacco del tallone, nell'acqua di una pozzanghera più profonda, schizzando freddo tutt'attorno. Riprende l'equilibrio con facilità e prosegue, verso un altro non-luogo che non sia quello.
Le ombre non lo degnano di uno sguardo – o forse sì, forse qualcuna si affaccia alla finestra della propria coscienza e sembra condensare curiosità sulla punta di un naso abbozzato o di uno sguardo puntato; c'è persino un discreto raggrupparsi dei più spigliati dietro la sua schiena, ma dopo qualche metro e senza nessuna risposta anche la temerarietà si fa labile e tutto torna come prima.
Niente cambia, su quella strada senza senso e senza direzione. Rivaille è circondato ma non c'è che il vento ad accompagnare il rumore spento dei suoi passi e il respiro che a stento esce dai polmoni raggrinziti.
Marcia, com'è solito fare, e si immerge in un bianco che più che suggerirgli la morte e la neve gli ricorda il lento cadere addormentato della testa canuta di un vecchio.
Che sia paura o altro quella che lo imprigiona, la sente accompagnarlo senza lasciarlo più in una melodia malinconica scandita dal battito del suo cuore.

 

*******

 

Scoppiò, lontano in un cielo scuro di notte e di stelle, l'ultimo dei fuochi d'artificio in ritardatario eccessivo, probabilmente troppo ubriaco della propria euforia per rendersi conto di quanto fosse anacronistico il proprio intervento. Schegge di rosso e di oro che fluttuarono, a fontana, e colorarono le curve di due nuvole per poi sparire nel nulla e lasciare solo, a terra, un odore di bruciato e di cenere che volteggiava come polvere.
Mike trattenne un singhiozzo entro le guance ispide di una barba bionda non rasata e si vide bene dal rilasciare aria puzzolente di champagne e di fumo stantio, preferendo ingoiarla. Aveva gli occhi lucidi, che brillavano anche al buio, e li abbassò nel momento in cui anche l'ultimo residuo di brillio colorato venne inghiottito dalla notte.
Hanji fece ballare un bicchiere affusolato e ancora mezzo pieno di liquore davanti ai suoi occhi – qualche goccia uscì dal bordo e andò a bagnare la pietra bianca del ballatoio di marmo di quella terrazza elegante. Rideva beata, con la mente resa eccitata da quel troppo di rum che aveva nello stomaco, ma data la situazione e la persona non sembrava né fuori luogo né così anormale: dentro, dove ancora la festa si animava di balli e di risa e di champagne e ancora altro, c'erano persone ben più rumorose di lei. Quello di Mike era il penultimo di quel suo terzo brindisi.
-Al nuovo anno!
L'uomo piegò un angolo della propria bocca a sorriso e sollevò il proprio calice del tutto vuoto al suo invito e lo alzò, a onorare una promessa e una premonizione felice per altri trecentosessantacinque giorni vivo e in salute, ancora sotto quella volta celeste. Non fece neanche finta di bere, ma la donna non se ne curò e anzi si concesse un lungo sorso, chinando nel gesto la testa un poco all'indietro. Gli occhi di lei si rivolsero a una luna timida, che sbucava come un ritaglio d'unghia da dietro il profilo di un palazzo più alto di quello; sollevò di nuovo il polso e sorrise.
-Al nuovo anno!
Erwin alzò il proprio calice e rispose all'augurio della donna, pur essendo in una posizione in cui lei non avrebbe potuto vederlo né godere della sua premura. Stava sorridendo e la curvatura che le sue labbra avevano assunto non si deformò quando il bordo del calice vi si appoggiò sopra, appena reclinato. Lo champagne era stato mantenuto fresco dalla temperatura circostante ed era piacevole sulla lingua, da gustare. Si concesse un sospiro tranquillo e sereno, prima di un brivido che gli scosse l'intera figura.
Iniziò di nuovo a scendere la neve, in piccoli fiocchi – e questo fu l'ultima delle prove che una pazienza ben poco propensa alla sfida volle sostenere.
-Non capisco perché dobbiamo restare fuori a congelare.
Smith non si curò neppure di guardarlo, in realtà, preferendo far ruotare l'alcool che aveva nel bicchiere sui lati del piccolo cilindro che lo conteneva, e divertendosi a guardare le impressioni che lasciava sul vetro. Non aveva rancore o rimprovero nella propria voce, non avrebbe potuto né si sarebbe mai permesso di rivolgersi all'altro con un tale sentimento nelle parole, ma fu delicata insinuazione quella che professe, probabilmente dettata da una confidenza e una tranquillità alle quali non riuscì a rinunciare, in quel momento.
-Dentro ti lamentavi che c'era troppa gente, fino a dieci minuti fa.
Rivaille lo guardò storto, da sotto il cappello scuro e rigido. Aveva le mani in tasca e il cappotto che gli arrivava oltre le ginocchia, ma la sensazione sgradevole del freddo gli serpeggiava lo stesso lungo tutta la superficie della pelle. E quando il primo dei fiocchi candidi andò a posarsi sulla sua spalla non volle trattenersi un secondo di più
-Dieci minuti fa non nevicava.
L'altro sorrise con ancora più sfacciataggine, mascherando il gesto in un moto di divertimento per il volteggio buffo che Mike era stato costretto a frenare prima di vedersi costretto a raccogliere da terra quel che rimaneva delle ossa di Hanji: la donna, scivolata su quella poca neve ammassatasi sulla terrazza, aveva fatto un passo più lungo della portata della gonna che le chiudeva le gambe e aveva lanciato un piccolo strillo di gioia.
Lontana dal suo laboratorio di ricerca, senza la divisa bianca da medico e senza i suoi strumenti in mano non sembrava altro che una disadattata. Un po' come Mike e lui stesso, dopotutto – Erwin era l'unico del loro gruppo che sfuggiva a questa maledizione, ritrovandosi in abiti civili più a proprio agio di quanto non fosse stato concesso a loro tre assieme.
Era ormai il primo Gennaio da qualche ora, la consueta festa di capodanno ancora racchiusa in una sala da ballo con l'orchestra, i camerieri e gli invitati tutti agghindati. I cadetti e gli alti ufficiali si godevano gli ultimi momenti di libertà di quel giorno speciale, chi con familiari chi con sconosciuti, passando il tempo e la propria allegria in quella che era l'innegabile moda del momento. C'era stato un uomo di colore a cantare, non troppo tempo prima, e la sua voce calda aveva accompagnato un ballo liscio e pacato che aveva fatto ruotare coppie sotto un lampadario dalle luci blu cobalto.
Rimanere in un angolo della sala, colpito dalle note alte e dalle luci spropositate è stata la colpa e assieme la punizione toccata a Rivaille, che non aveva mai ceduto alla seduzione dell'alcool o all'invito galante di qualche signora arricchita da una cuffietta con qualche bella piuma colorata in testa. Aveva tenuto per sé considerazioni varie su questo rito mondano, atto a festeggiare il passare del tempo con spettatori e partecipanti ipocritamente attenti, per la maggior parte dei loro giorni e in quelle ore in particolare, a dimenticare in ogni modo lo scorrere inesorabile dei giorni che approfondisce le rughe e rende i capelli radi.
Quando l'ennesimo suo sbuffo venne ignorato dal superiore biondo, che preferì suggerire a Mike di mettersi ben saldo sulle gambe prima di finire a propria volta a terra, nella primissima neve dell'anno, si strinse nel proprio cappotto con un brivido e chiuse gli occhi per qualche istante. La confusione gli rimbalzava ancora nei timpani e lo metteva a disagio.
Riaprì le palpebre e decise di rientrare da solo – quando si girò verso l'ingresso alla sala, una porta di vetro con due ante grandi dalle cornici di legno lucido e scuro, pregiato come pochi, vide per qualche istante l'immagine riflessa di un uomo piccolo e rabbuiato, dai tratti che si confondevano con il bordo della sciarpa troppo grande per lui e quella spilla colorata di metallo sul petto, in ricordo di un onore passato che non riusciva neanche a ricordare, in tutto quel rumore.
Se ne privò volentieri: fece qualche altro passo ed entrò nel trambusto.

 

Indugiò due secondi in più e Erwin si voltò a guardarlo, con uno sguardo non troppo allarmato o impaziente. Lo scrutava da lontano, con la stanchezza negli occhi e un passo lasciato a metà, in quel mezzo centimetro di neve che era riuscito ad attecchire sul marciapiede della strada che in quel momento, sotto la suola delle loro scarpe, si compattava in uno strato bianco di ghiaccio scivoloso.
Sovrappensiero, vide Mike spingere delicatamente la testa priva di gran parte dei propri sensi razionali di Hanji dentro la vettura che era venuta a prenderli, proprio all'ingresso del grande e bianchissimo palazzo.
-Tutto a posto?
Rivaille sbatté le palpebre e ricordò con un brivido di aver freddo. Si chiuse ancora, con un movimento delle spalle veloce e a scatti, nel proprio cappotto.
-Ho dimenticato il mio cappello.
L'altro uomo non sorrise ma si erse in una posizione più comoda. Le parole formavano, ogni volta, una condensa di fumo leggero davanti al naso appuntito e alla bocca sottile.
-Ti aspettiamo.
La risposta del francese arrivò troppo veloce, tanto che sembrò fermare il tempo per qualche istante – come una pallottola.
-No.
Non addolcì lo sguardo, agli occhi del proprio superiore, né si sentì in qualche modo in dovere di dare spiegazioni circa il fatto che volesse godersi quelle poche ore rimanenti in un intimo silenzio. Lui e la città, la neve e il freddo, il rumore di ogni cosa incorporato nei sogni di qualcun altro.
-Torno da solo.
Erwin non gli fece domande di alcun tipo e andò alla vettura.

 

Quando trovò, nella sala grande del ricevimento, un secondo ritardatario, non poté che provare sincera sorpresa.
Le luci principali erano state spente, si sentivano passi di scarpe lucide in lontananza: gli ultimi camerieri che sfaccendavano, veloci su quei corridoi lustri di marmo incerato, ma nessun'altra presenza era notabile. Solo quel ragazzo seduto su uno dei tavoli non più apparecchiati, in una posa poco educata. Musica spenta, tanto che sembrava tutto così irreale, senza note musicali e piene che rimbalzavano addosso e contro le pareti alte. Le tende delle grandi finestre erano state lasciate libere, e ve n'era una i cui bordi ballarono appena, per la brezza fresca che uno spiffero aveva lasciato entrare, giocosa.
Rivaille fermò i propri passi quando gli fu abbastanza vicino da definire i contorni e le linee del suo viso. L'altro lo guardò con la stessa intensità di meraviglia, con due occhi grandi e verdi – nessuno dei due mostrò imbarazzo o disagio per la presenza dell'altro, come se realmente non valesse la pena definire il movente di un tale e occasionale incontro.
Tuttavia le gambe del ragazzo si mossero, libere dal peso della gravità, e dondolarono oltre il limite spigoloso del tavolo chiaro, in un gesto che testimoniava un movimento emotivo e intimo. In questo, rivelò da subito una parte di sé all'uomo: quella più sincera e spontanea.
-È un invitato del ricevimento?
Lo guardò, con il suo collo infossato e le braccia rigide, che gli sorreggevano tutto il busto. Ebbe un guizzo vivace degli occhi quando si mosse, continuando nella propria ricerca – lo poté notare dalla testa che, seguendo lui nelle sue mosse, si inclinò appena a un suo passo di lato.
-Ho dimenticato il mio cappello.
-I camerieri lo avranno già ritirato, è inutile che lei lo cerchi. Qui sono rimasti solo i tavoli e gli strumenti dell'orchestra.
Finalmente lo guardò in viso, con un'espressione piuttosto truce che intimorì abbastanza il ragazzo. Era rabbia repressa, stanca e assonnata, che però curvò le sopracciglia scure in un modo che l'altro non aveva mai visto.
Smise persino di muovere le gambe, quando si costrinse a rispondergli velocemente.
-Non c'è modo di recuperarlo?
-No, non penso.
L'uomo non sbuffò né ebbe altro segno di impazienza o isteria: rimase semplicemente immobile nella propria postazione a pensare se fossero necessarie e indispensabili possibili soluzioni al proprio problema. L'interruzione di quel silenzio pesante, nelle parole del ragazzo, lo aiutò a decidere più in fretta.
-Ma potrei provare a chiedere...
-Lascia stare, non è così importante.
Si avvicinò appena al tavolo, senza accorgersene. Dovette fare due passi a vuoto, sentendo il rumore della suola delle proprie scarpe strisciare contro il pavimento, per alzare di nuovo lo sguardo con una certa consapevolezza.
Il ragazzo era ancora lì e lo stava guardando, con una curiosità stranita di chi studia un oggetto che però non gli è del tutto estraneo. Non pareva osar essere invadente – e infatti abbassò gli occhi quando si accorse di essere stato notato, anche solo per qualche istante – ma non frenava la propria emotività.
Era un ragazzo, lo si poteva notare dal conflitto che stava vivendo.
Tuttavia, quella che gli rivolse non fu una domanda, ma più una ferma constatazione.
-Lei è un militare.
Con questo nuovo aggancio, Rivaille decise di andargli più vicino. Si appoggiò al tavolo col bacino e incrociò le braccia al petto; lasciò che guardasse, di sé, soltanto il profilo, che limitare quello che potevano e avrebbero potuto dirsi. La sua presenza, nel silenzio e nel buio, non era poi così sgradevole, tanto che l'uomo aveva dimenticato il freddo e la neve e le gambe del ragazzo avevano ricominciato a muoversi, più lente di prima.
-Tu chi sei?
-Il primo figlio del dottor Jaeger.
-Pensavo fossi più piccolo.
-Non ho ancora raggiunto la maggiore età, signore.
-Come mai ti ritrovi qui?
-Mio padre è stato richiesto per un intervento d'urgenza e non è ancora tornato a riprendermi.
-Il signor Jaeger è stato richiamato durante la festa?
-Pare si sia sentita male una persona più importante di lui, per la quale anche il suo nome non vale niente.
Rivaille restò colpito da quelle parole, tanto che si zittì per più di dieci secondi. Il ragazzo non abbozzò neanche l'angolo di un sorriso, e questo quasi suggerì al militare una sorta di consapevolezza ormai radicata, per quanto ancora acerba.
L'esperienza, forse, avrebbe limato i giudizi, li avrebbe smussati e tolti da ogni certezza rigida, ma quello che c'era dentro quel piccolo uomo aveva già una dimensione tutta sua, ed era privo di un'innocenza spensierata. Gli fece un poco male, ma non diminuì il senso di tranquillità che aveva addosso, proprio sulla pelle e su tutto il volto.
Quello reclinò il capo, per una nuova affermazione.
-Non l'ho vista ballare con gli altri invitati, durante la festa.
-Non mi piace ballare.
-Come mai allora si trovava qui?
-Dovere. E per soffrire poche ore d'aria.
Questa volta il ragazzo sorrise, forse captando il tentativo molto poco riuscito di fare una battuta – Rivaille, da canto suo, aveva davvero fatto una smorfia a quelle parole, anche senza rendersene conto.
-Sembra quasi che la faccia soffrire la sola idea di lasciare la caserma.
Il giovane sospirò e fermò il movimento delle proprie gambe; guardò per qualche istante altrove, affossando ancora di più il capo in mezzo alle spalle: per poterlo guardare bene, Rivaille dovette voltarsi di un poco ancora, per non perdersi tutti i fantastici moti delle sue espressioni.
-Ho sempre pensato che il suo fosse un lavoro nobile e d'onore. Uno dei pochi rimasti ancora.
Tornò a guardarlo e si lasciò trasportare dalle proprie emozioni e dai propri sogni. Rivaille lo vide anche abbassare gli occhi alla spilla colorata che aveva sulla divisa, un paio di volte, e fu certo che quella che stava sentendo rotolare così rapidamente dalle labbra di lui era ammirazione genuina e non scontata.
Soffocò la tenerezza con il ricordo delle proprie reclute relegate entro quattro mura o una trincea, visi giovani e altrettanto spenti che avevano fatto marcire le proprie aspirazioni in cambio di un giorno in più di vita.
Le parole di lui non erano altro che motti già sentiti.
-Offre volontariamente protezione a chi non può provvedere da sé, si fa scudo di chi non ha difese e garantisce l'ordine in un mondo dove lo stato di diritto non ha più leggi. Penso sia ammirevole.
-Sei solo innamorato di un'idea, ragazzino.
Lo colpì ancora, quel giovane, proprio quando aveva deciso di abbassare lo sguardo – che tanto non avrebbe saputo dirgli altro. Lo rialzò poco a poco, seguendo l'ardore delle parole di lui.
-Ma le idee dirigono le azioni, se sono abbastanza forti da non smarrirsi in debolezze superficiali. E sono un valido strumento per distinguere il bene dal male. Non bisogna giustificare i mezzi con il fine, ma saper valutare cosa sia consono e cosa no fa un uomo retto e integro.
Poi aggiunse, quasi solo a sé stesso.
-Non voglio diventare un adulto gretto.
Rivaille rimase a guardarlo più del dovuto, contemplando il profilo della sua figura.
C'era qualcosa che lo rendeva consapevole che mai, proprio mai, quel ragazzo sarebbe diventato ciò che aveva in odio, come quasi incarnasse il radicale bisogno di ogni giovane generazione di credere nel bene e nella capacità delle proprie forze e delle proprie intenzioni.
Era speranza pura, alla fine, e sincera e nobile.
Ne restò ammirato, anche se per pochissimo – poi il cinismo degli adulti vinse ogni resistenza.
-Parli con parole pesanti.
Sentì il suo tono tornare allegro, all'improvviso, forse in imbarazzo per una rivelazione improvvisa.
-Da grande vorrei diventare un militare anche io.
Gli riservò, finalmente, uno sguardo scettico, che permise di trasformarsi, poco alla volta, in divertimento sottile.
-Sarai costretto a frequentare ricevimenti come questi.
-Non è un problema. La gente non mi dispiace.
-Dovrai anche ballare.
Il silenzio di lui lo divertì e un sorriso, leggero, gli arricciò l'angolo della bocca. Si tolse la giacca e i guanti e lo guardò ben dritto in viso.
-Lo sai fare?
-In realtà, no.

 

Mosse a disagio il fianco, verso l'altro, irrigidendo i muscoli coperti dal palmo della mano dell'uomo.
Forse imbarazzo colorava più del dovuto le sue guance e i suoi occhi, ma il militare non aveva ancora dato segno di curarsene più del dovuto e quindi che se ne fosse accorto o meno era davvero poco rilevante.
-Si muova piano, per favore. Non l'ho mai fatto.
D'altro canto Rivaille, più che disagio, era costretto in una posa scomoda, essendo il ragazzo più alto di lui quel tanto da fargli curvare il braccio che terminava nella sua spalla in modo non comodo. Guardò male il vuoto, per qualche istante, prima di darsi una scrollata con il busto e riprendersi.
Nonostante fosse solo in camicia, non sentiva freddo.
-Segui i miei passi, per iniziare.
Mosse di fianco un passo, il ragazzo fece lo stesso. Mosse l'altro, e il giovane lo imitò non subito ma abbastanza pronto. Seguì lo schema di un valzer, senza impegno ma con precisione.
Con il naso rivolto al pavimento, l'altro copiava nel migliore dei modi i suoi gesti.
-Bene. Fai sempre così.
Prese ritmo, arrivò a eseguire tre passi consecutivi senza che l'altro inciampasse. Sentì il petto accalorato di soddisfazione. Quindi, drizzò la schiena e lo chiamò a sé.
-Ora guardami.
Il ragazzo eseguì subito, alzando la testa di scatto. Di nuovo quegli occhi chiari, decisi ora che avevano riacquistato la giusta fiducia. Mostrava concentrazione e benché lo sguardo tendesse a scivolare in basso più volte, lo tratteneva un rispetto insito non solo nel nome ma anche nella postura, nel contegno e nella persona stessa dell'uomo che lo stava guidando in quei volteggi discreti.
L'aria nel salone prese come a vibrare attorno a loro, non ancora sopita dopo la grande festa. Li accompagnò prima stanca e poi sempre più attiva, con una melodia tutta sua. Il ragazzo la sentì e arrivò a chiudere gli occhi, con tutta la fiducia che poteva rivolgere alla mano che stava stringendo la sua.
-Mi sto immaginando la musica.
Rivaille non gli disse nulla a riguardo, ma fu punto da curiosità.
-Di che tipo?
-Lenta, un po' ripetitiva, calma.
Trovò facile immaginare anche lui, pur senza chiudere gli occhi.
Era lì, che li accompagnava.
-Mi piace.

   
 
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