It's elementary, Watson. The fact that I love you di millyray (/viewuser.php?uid=69746)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindici ***
Capitolo 1 *** Capitolo uno ***
CAPITOLO
UNO
Quando
John quella mattina si svegliò ed entrò in
cucina con i capelli ancora spettinati e gli occhi gonfi per il sonno,
trovò
Sherlock seduto al tavolo del salotto a fissare qualcosa sullo schermo
del
computer, l’attenzione rivolta soltanto a quello. Niente di
nuovo, insomma e
anzi, doveva ringraziare il cielo che non si fosse messo a strimpellare
col
violino che, per quanto bravo fosse a maneggiarlo, non era affatto
piacevole
sentirlo la mattina presto quando lui aveva fatto tardi na notte prima.
Peggio
ancora sarebbe stato se si fosse messo a sparare contro il muro. Almeno
aveva
qualcosa da fare.
“Hai
comprato il latte?” gli chiese John senza
nemmeno voltarsi a guardarlo, ma tutto quello che ricevette in risposta
fu un
mugugno poco chiaro. Tanto la risposta la ottenne da sé,
aprendo il frigo e
notando che non c’era il latte. Anzi, non c’era
quasi niente, a parte un limone
ammuffito, una scatola di carote, una bistecca e un barattolo con delle
cose
strane dentro sui cui evitò di indagare; sicuramente era
qualche parte umana su
cui Sherlock doveva fare degli esperimenti e meno ne sapeva meglio era.
E ora
dopo il lavoro gli toccava pure fare la spesa. Mica si aspettava che la
facesse
Sherlock, no, assolutamente no.
E si sarebbe pure dovuto accontentare di bere il tè senza
latte. A meno che non
fosse sceso giù per chiederlo alla signora Hudson, ma non ne
aveva voglia.
“Fai
il tè anche per me”, sentì dire dalla
voce del
suo coinquilino che ancora non aveva distolto gli occhi da quello che
stava
guardando. Sicuramente si trattava di un caso.
John
sospirò rassegnato, rinunciando a qualsiasi
obiezione avesse voluto porre, tanto era inutile. Finì di
preparare il tè e,
con due tazze in mano si diresse, verso il salotto alla postazione di
lavoro di
Sherlock. Ne posò una sul tavolo accanto al moro e poi si
appoggiò sul bordo
del suddetto sorseggiando dalla sua.
“Stai
lavorando su un caso?” gli chiese, più per
educazione che non per vero interesse. Era ancora troppo addormentato
per
concentrarsi su uno dei complicatissimi casi del detective.
Sherlock osservò il suo profilo con la coda
dell’occhio, soffermandosi sulle
pieghe dei pantaloni della tuta che indossava e su una piccolissima
porzione di
pelle che si intravedeva sul fianco sinistro perché aveva
indosso una canottiera
che gli stava un po’ piccola forse. C’erano solo
due soluzioni piuttosto
plausibili: o non aveva più canottiere pulite e della sua
taglia corretta
oppure aveva indossato la prima cosa che aveva trovato, senza fare caso
a come
gli stesse addosso. Non che gli stesse male, certo… Ma non
era John che doveva
studiare, piuttosto era quel caso, che richiedeva tutta la sua
attenzione e
concentrazione.
“Non
è niente di importante”, rispose, le mani che
digitavano qualcosa sulla tastiera.
“Ah
no?” John si allontanò dalla scrivania per poter
vedere il computer e constatare che sembrava essere il progetto di un
edificio
o qualcosa di simile. Che Sherlock volesse costruire una casa? Non se
ne
sarebbe stupito… ma no, di certo si trattava di un caso.
“D’accordo, allora io vado al lavoro”. Si
diresse di nuovo verso la cucina per
mettere giù la sua tazza di tè, e poi
tornò nella sua stanza. Sherlock lo
guardò andare via nel riflesso dello schermo.
Era
un’altra mattinata noiosa, fin troppo noiosa. Da
quando abitava con Sherlock trovava noiose molte cose e ormai niente lo
divertiva abbastanza quanto una sana fuga da terroristi, assassini,
psicopatici
o chiunque li volesse uccidere. Cominciava a temere di star diventando
come il
suo coinquilino, ovvero una persona con istinti suicidi e amante del
pericolo.
Ma no, ce ne voleva per diventare come Sherlock. In ogni caso, non
voleva
diventare come lui e non perché il suo atteggiamento non gli
piacesse – be’,
qualche lato del suo carattere era decisamente terrificante –
ma perché di
Sherlock ce ne poteva essere uno solo. Era unico nel suo genere,
diverso,
particolare e questa era una cosa… bella. Sì,
bella, per quanto certe volte
fosse insopportabile. Ma di un’insopportabilità
divertente.
Chissà cosa stava facendo adesso. Forse era ancora impegnato
su quel caso di
cui non aveva voluto dirgli niente o forse stava facendo qualche
esperimento in
cucina. Magari avrebbe potuto mandargli un messaggio.
Prese il cellulare dalla scrivania e rimase a fissare lo schermo. Ma
no, perché
avrebbe dovuto? Non erano affari suoi, qualsiasi cosa stesse facendo.
Potevano
stare per qualche ora senza sentirsi, giusto?
Giusto…
“John”.
Sarah bussò alla porta del suo ufficio,
infilando solo la testa dentro. Da quando si erano lasciati il loro
rapporto era
andato incrinandosi e ora si trattavano solo come dei normalissimi
colleghi che
si rispettano ma che non provano alcun interesse l’uno nei
confronti
dell’altro. “E’ arrivata la signora
Turner”.
“Falla
accomodare”.
Il
dottore sospirò e si preparò ad
un’altra solita e
banalissima diagnosi.
Sherlock
sedeva in salotto sulla sua poltrona, lo
sguardo fisso in un punto che non vedeva. Cercava di mettere ordine nel
suo
palazzo mentale e ciò richiedeva non poca concentrazione.
Il quiz televisivo che aveva visto ieri sera in cui un signore aveva
sbagliato
tutte le risposte, persino le più banali…
inutile, da eliminare. La signora
Hudson che gli chiedeva notizie di suo fratello perché non
lo vedeva da un po’…
anche quello inutile. John che gli chiedeva di comprare il
latte… poco
rilevante perciò poteva archiviarlo. John che quella mattina
molto gentilmente
gli portava il tè e sempre molto gentilmente gli chiedeva
informazioni su quel
caso e poi la sua figura che si allontanava e… no, no, stava
divagando. Però
quello non era tutto da buttare. Magari avrebbe potuto conservarlo.
E ora… ora poteva concentrarsi su quel nuovo mistero
affidatogli da Mycroft. Il
suo caro fratello sospettava che un ramo della mafia inglese stesse
spacciando
droga e i suoi occhi da ragno avevano
notato diverse persone muoversi attorno ad un edificio abbandonato che
si
trovava poco fuori Londra. Doveva innanzitutto verificare che i suoi
sospetti
fossero fondati e capire che interesse potesse avere la mafia nel
spacciare
della droga. Per questo aveva bisogno dell’aiuto di Sherlock,
perché non sapeva
mai risolvere niente
da solo.
Il
solito vecchio Mycroft, pensò il consulente
detective alzandosi di scatto dal divano.
Inizialmente
era stato un po’ titubante ad accettare
il caso, ma alla fine aveva deciso che poteva essere divertente. E poi
aveva
iniziato ad annoiarsi e una qualsiasi distrazione gli sarebbe andata
bene.
Più tardi ne avrebbe anche parlato a John, sicuramente lo
avrebbe trovato
divertente anche il dottore e non avrebbe esitato a farsi trascinare
con lui.
Magari poteva telefonargli immediatamente per informarlo e dirgli di
tornare a
casa così potevano mettersi subito al lavoro, ma
cambiò idea subito dopo; non
era una buona soluzione, sicuramente lo avrebbe fatto innervosire visto
che era
al lavoro e che detestava essere interrotto mentre lavorava,
specialmente se
era qualcosa di importante. Per quanto dei pazienti con le emorroidi
potessero
essere importanti. Glielo ripeteva sempre, che il suo lavoro era
noioso.
E poi perché doveva lavorare? Poteva bastare lo stipendio
che prendeva lui come
consulente detective, così poteva rimanere a casa e seguirlo
nelle missioni. Era confortante
averlo
accanto.
Ma tanto John era cocciuto. E va be’, che cosa ci poteva
fare? Era meglio
mettersi a lavorare a qualche esperimento in cucina, piuttosto che
scervellarsi
su queste questioni senza capo né coda.
Quando
John rientrò a casa quel tardo pomeriggio,
scoprì che il suo coinquilino non era in casa. Si tolse la
giacca e poggiò la
borsa sul suo letto, poi gli mandò un messaggio per
chiedergli che fine avesse
fatto.
Si guardò un po’ attorno, costatando che
c’era bisogno di mettere ordine
nell’appartamento. Sherlock aveva combinato qualche
esperimento, a giudicare
dalla confusione che regnava sul tavolo della sala da pranzo.
Stava
proprio per mettersi a sistemare, quando la
Signora Hudson venne a bussargli alla porta.
“Tok,
tok, John. È permesso?”
“Sì,
certo, Signora Hudson!” la accolse lui, sempre
col solito sorriso gentile che non poteva fare a meno di riservarle
ogni volta
che la vedeva. “Come sta?”
“Oh,
caro, mi fanno un po’ male le giunture. Tu stai
bene?”
“A
parte la stanchezza, non mi lamento. Preparo del
tè, le va?”
“Non
rifiuto mai una buona tazza di tè”.
John
corse subito in cucina a mettere il bollitore
pieno d’acqua sulla fiamma del fornello. Non aveva molta
voglia di
chiacchierare con la Signora Hudson, però non poteva nemmeno
cacciarla via. E
in ogni caso un po’ di distrazione non gli avrebbe fatto male.
“Sherlock
non c’è?” chiese lei, quando il dottore
le
ebbe messo in mano la tazza di tè caldo e lei si fu
accomodata sulla poltrona
solitamente occupata dal detective.
“No,
è uscito prima che io tornassi. Non so dove sia
andato”. In quel momento si ricordò di aver
mandato un messaggio a Sherlock,
perciò tirò fuori il cellulare per controllare e,
notando che non aveva
ricevuto risposta, faticò a non lasciar trapelare dal volto
un broncio di
disappunto e di delusione. La signora Hudson comunque non se ne sarebbe
accorta, visto che era tutta intenta a raccontare delle sue avventure
del
passato col defunto marito, un’espressione estasiata e gli
occhi fissi al
soffitto.
Tutto quello che fece John fu annuire e sorridere quando vedeva ridere
lei. In
realtà non stava ascoltando neanche una parola. Era
completamente distratto da
altri pensieri, tra cui i motivi per cui Sherlock non gli aveva
risposto. Di
solito lui leggeva subito i messaggi. Se avesse saputo dove fosse
andato
sarebbe corso da lui. Ma non poteva nemmeno trattarsi di un caso
perché
altrimenti il detective gli avrebbe chiesto di raggiungerlo. Lo faceva
sempre.
Fortuna
che la Signora Hudson non si trattenne molto
e dopo mezz’ora decise di scendere nel suo appartamento.
Ringraziò John per la
tazza di tè e lo lasciò coi suoi pensieri.
Il dottore allora si mise subito a riordinare, cercando di scacciare
via il
pensiero di Sherlock chissà dove.
C’erano
dei vestiti del suo coinquilino sparsi sul
divano. John prese in mano una camicia e, cercando di piegarla, se la
portò al
naso senza nemmeno accorgersene, inspirando il buon odore che emanava.
Ma che
cosa diamine stava facendo? Doveva essere molto stanco per mettersi ad
annusare
le camicie di Sherlock.
Mise in un cesto tutti i vestiti che trovò sparsi in giro
così da poterli
portare in lavanderia in un secondo momento, e andò a
mettere in ordine la
cucina.
A dispetto di quello che aveva pensato, non ci mise molto a sbrigare
queste
noiose faccende domestiche. Però non poteva neanche negare
che la casa avesse
bisogno di una spolverata da cima a fondo, ma decisamente non era
quella l’ora
in cui mettersi a farlo.
Alle
sei uscì di nuovo di casa per andare a fare la
spesa. Il supermercato non era molto lontano, perciò decise
di andarci a piedi.
Comprò tutte le cose di prima necessità, tra cui
il latte, e alla fine si
ritrovò nel reparto dei dolciumi. Vide, poggiate su uno
scaffale in basso,
alcune confezioni di caramelle Kitsy e, sapendo che a Sherlock
piacevano molto,
ne prese una senza neanche pensarci. Infine, con il cesto pieno di
cibo, si
diresse alla cassa a pagare. Per fortuna non era affollata come si era
aspettato.
Quando
rientrò, Sherlock non era ancora tornato. E
il suo cellulare era rimasto silenzioso tutto il tempo.
Il
detective tornò a casa verso le nove, con un’aria
stanca e piuttosto tesa. John lo notò subito ma, seduto
sulla sua poltrona a
leggere un libro, lasciò che fosse l’altro a
incominciare. Sherlock si buttò
sulla poltrona che occupava sempre, col cappotto ancora adesso, e
poggiò la
testa sullo schienale dietro, chiudendo gli occhi.
“Dove
sei stato?” gli chiese a quel punto il
dottore, rendendosi conto che il suo amico non avrebbe affatto aperto
bocca.
“Da
Mycroft”.
Ahia.
“Per
un caso?”
“Sì”.
Sherlock
non era di molte parole quella sera e ciò
non prospettava nulla di buono. Di solito non avrebbe esitato un attimo
a
raccontargli ogni minimo dettaglio del caso su cui stava lavorando.
“Interessante?”
“Potrebbe
essere”.
Il
moro, che per tutto quel tempo se ne era rimasto
con gli occhi chiuso e il viso rivolto al soffitto,
raddrizzò il capo per
guardare John in viso e parve rimanere un attimo a studiarne i
lineamenti. Il
dottore cercò di pensare velocemente a
qualcos’altro da chiedere o da dire,
senza rischiare di far innervosire l’altro, ma il trillo del
campanello della
porta e il rumore dei passi della signora Hudson lo distrassero.
Sentì
delle voci provenire dal piano di sotto e poi
altri passi che si avvicinavano. L’anziana proprietaria del
221 B aprì di nuovo
la porta del loro appartamento.
“C’è
una persona che chiede di Sherlock”.
John
si alzò immediatamente dalla poltrona per
accogliere la nuova ospite, sicuro che fosse una cliente.
Gli apparve davanti agli occhi una donna abbastanza giovane, avvolta in
un
lungo cappotto blu scuro e un borsone a tracolla poggiato sulla spalla
destra.
Il volto pallido e gli occhi verde acqua esprimevano tutta la sua
stanchezza.
Un
momento!, pensò John. Quegli occhi erano identici
a…
“Connie?!”
Sherlock, dietro di lui, scattò in piedi
e guardò la ragazza come se non potesse credere ai propri
occhi. E
probabilmente era così.
Lei
allora increspò le
labbra in un sorriso debole ma contento. “Ciao,
fratellino”.
MILLY’S
SPACE
Ed
eccomi qui a devastare anche questo fandom. Milly
docet.
Ok,
l’ora è tarda perciò
cercherò di essere breve
altrimenti comincerò a sparare minchiate a raffica. Non
è la prima fanfiction
che pubblico e chi mi segue lo sa bene, ma è la prima
fanfiction su Sherlock e
devo confessare che non è da tanto che lo seguo, ma
già lo adoro. Ammetto anche
che mi ero promessa di non scrivere mai una fanfiction su questo
telefilm
perché il personaggio di Sherlock è difficile da
rendere e non volevo
rovinarlo. Tuttavia, mi è venuta l’idea per questa
storia leggendo un’altra
fanfiction e non ho potuto fare a meno di scriverla, così
come non ho potuto
fare a meno di pubblicarla (nonostante io abbia altre quattro
fanfiction ancora
da concludere).
Cos’altro
devo aggiungere? Be’, è decisamente una
Johnlock. Per quanto io ami Mary non posso fare a meno di shippare
questi due
personaggi e li vedo perfettamente bene insieme. Perfettamente bene?
Mah.
Non so con quanta regolarità riuscirò ad
aggiornare, considerando anche i
diversi impegni che ho, ma cercherò di essere abbastanza
regolare.
Detto
questo direi che posso salutarvi : ) vi segnalo la
mia pagina facebook dove potete vedere anche le altre storie che ho in
cantiere
(https://www.facebook.com/MillysSpace)
e
lasciatemi anche una recensione. Va bene anche se negativa.
Un
bacione,
Milly.
P.S. il titolo è ispirato a una canzone dei The Cranberrie
che adoro però è probabile che in seguito decida
di cambiarlo.
|
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Capitolo 2 *** Capitolo due ***
CAPITOLO
DUE
“Cosa?!”
gridò John con voce quasi isterica,
spostando freneticamente lo sguardo da Sherlock alla ragazza che aveva
appena
varcato la soglia del loro appartamento. La signora Hudson se ne stava
ferma
sull’uscio, immobile come una statua, ma il suo viso
esprimeva tutta la
perplessità che stava provando in quel momento.
Fratellino?
Davvero l’aveva chiamato fratellino?
Il
detective, invece, se ne stava in piedi, a poca
distanza dalla sconosciuta e la fissava… semplicemente la
fissava, con le labbra
serrate e gli occhi chiari aperti e vigili. O la stava studiando oppure
era
immerso in qualche sua elucubrazione intensa.
“Be’,
non mi fai accomodare?” chiese allora la
ragazza che ricambiava lo sguardo del moro senza battere ciglio, per
niente
intimorita o confusa, come di solito capitava agli altri quando si
vedevano
osservare così da Sherlock Holmes.
John,
allora, si schiarì la gola e decise di
prendere in mano la situazione e fare il bravo padrone di casa, visto
che il
suo coinquilino non sembrava assolutamente intenzionato a farlo.
Nonostante
quello fosse affar suo, sicuramente affar suo.
“Ehm…
sì, accomodati”, le disse, indicandole il
divano appoggiato al muro e spostandosi per permetterle di passare. Lei
obbedì
ma non ringraziò, impassibile e imperturbabile. John, quando
quella strana tipa
gli passò accanto, si sentì quasi raggelare dal
suo sguardo freddo e
scrutatore. Eppure lei non gli rivolse altro che una rapida e breve
occhiata,
giusto il tempo per vederlo un attimo in volto.
Appoggiò la borsa a terra e si sedette dove le era stato
detto di fare, rigida
e dritta con la schiena.
Soltanto
allora Sherlock parve reagire: si destò
dallo stato catatonico nel quale sembrava essere caduto e si sedette
sulla
sedia dove di solito faceva accomodare i suoi clienti, di fronte al
divano e di
fronte alla ragazza. Ma non disse niente. Continuò a
fissarla. E lei faceva
altrettanto; si era sporta in avanti con i gomiti appoggiati alle
ginocchia e
il mento sorretto dal dorso delle mani.
“Oh
be’, vado a fare un po’ di
tè”, disse a quel
punto la signora Hudson, interrompendo il silenzio. Nessuno le rispose
né fece
intendere di averla sentita, così lei si ritirò
nella sua tana. Poi il silenzio
calò di nuovo. John invece andò in cucina e si
appoggiò col didietro al tavolo,
osservando i due e chiedendosi che cosa mai quello strano scambio di
sguardi
poteva significare. Che stessero comunicando mentalmente? Ma questo era
impossibile… o forse no. Dopotutto si trattava di Sherlock.
No, veramente non avrebbe saputo darsi una spiegazione, purtroppo lui
non era
così deduttivo.
Ma
dopo cinque minuti in cui non si sentì volare
nemmeno una mosca, il dottore ne ebbe abbastanza. “Oh, ma
insomma! Avete
intenzione di continuare così per tutta la notte?”
Le
labbra della ragazza si piegarono in un sorriso,
lo stesso sorriso che aveva mostrato quando aveva visto Sherlock.
“Il tuo amico
non è molto perspicace”.
Il moro ricambiò quel sorriso, nella stessa identica
maniera. “No, però
potrebbe sorprenderti”.
“Non ne dubito”.
E a quel punto entrambi scoppiarono a ridere. Solo un po’ e
soltanto per un
po’. Non si lasciarono andare a una risata troppo sguaiata
né troppo solare,
come se volessero mantenere un certo contegno, però
c’era… c’era una strana
complicità e forse persino qualcosa di molto…
molto dolce. John lo notò o
almeno credette di averlo notato, per questo non se la prese nonostante
stessero ridendo di lui.
“Che
ci fai qui, Connie?” chiese allora Sherlock,
quando il silenzio fu calato di nuovo.
“Anche
io sono felice di vederti”, fu la risposta
dell’altra, le labbra piegate in una smorfia sghemba che
chiaramente faceva
intendere che stava nascondendo qualcosa.
“E’
da molto che non vieni a Londra”, commentò il
moro.
“Più
di dieci anni”, confermò la ragazza, in tono
indifferente. “Ho perso il conto. O forse non l’ho
mai tenuto”.
Il
detective ridacchiò, abbassando lo sguardo.
“Quando sei tornata?”
“Il
mio aereo è atterrato un’ora fa. Ho preso il
taxi e sono venuta subito qui”.
“Come
hai fatto a trovarmi?”
“Ho
i miei metodi”. Connie socchiuse gli occhi in
un’espressione malevola, ma davanti al volto confuso e
sbigottito di Sherlock,
sospirò e spiegò: “Ho semplicemente
cercato su Google. Sei famoso”.
“Ma
insomma, Sherlock! Mi vorresti spiegare?” sbottò
allora John, spazientito. Possibile che il suo dannato coinquilino si
fosse
dimenticato di lui?
Il
detective scattò in piedi, pareva effettivamente ricordarsi
del dottore soltanto in quel momento, e si affiancò a lui
che lo aveva
raggiunto in salotto. “Connie, lui è John. John,
lei è mia sorella Connie”.
“Molto
piacere, John”, disse lei in tono gentile, ma
senza alzarsi dal divano o porgergli la mano. Lui restò a
guadarla sbigottito,
come se vedesse un fantasma. “Tua…
sorella?”
Sherlock
lo guardò come se tutto d’un colpo si fosse
rimbambito: “Sorella è il termine che indica una
persona di sesso femminile…”
“So
cosa diavolo è una sorella, Sherlock!” lo
interruppe il dottore spazientito. A volte si chiedeva se lo stesse
semplicemente prendendo in giro o se veramente il suo cervello,
così
intelligente e così perspicace, non riuscisse a capire certe
cose elementari.
“Non mi hai mai detto di avere una sorella!”
“Come?
Non hai detto al tuo fidanzato di me,
Sherly?”
Sherlock
ormai si sentiva messo alle strette, ma non
capiva il reale motivo di tutti quei sconvolgimenti. John,
d’altro canto, era
troppo… oh, non sapeva nemmeno lui cos’era, ma
sicuramente era qualcosa di
molto forte visto che non si accorse che la sorella
di Sherlock lo aveva scambiato per il suo fidanzato.
Il
detective era ammutolito di nuovo e certamente
non era una cosa che capitava tutti i giorni, che il grande Sherlock
Holmes
rimanesse senza parole per ben due volte nella stessa ora.
“Be’,
poco male, direi”, concluse alla fine Connie,
ma parve rassegnata. “Devo chiederti un favore”,
aggiunse, riportando gli occhi
sul moro.
In
quel momento, però, vennero interrotti dalla
signora Hudson che portava un vassoio carico di tazze di tè.
“Vi ho portato
qualcosa da bere”.
Connie
sorrise e un velo di malinconia parve
attraversare i suoi occhi verde acqua, veloce come un fulmine.
“Tè. Avevo
scordato queste confortevoli tradizioni inglesi”.
“Oh,
allora serviti, cara”, la invitò
l’anziana
proprietaria del 221B con un sorriso cortese.
“Grazie
mille, signora…”.
“Hudson!
Sono la proprietaria di questo
appartamento”.
“Oh,
è molto carino. Comunque, io sono Connie, la
sorella di Sherlock”.
“E’
un piacere conoscerti, cara”.
“Anche
per me”.
Aveva
un sorriso radioso quella ragazza, pensò John,
un sorriso dolce e tenero e tutto quello che aveva visto prima in lei,
il velo
di malinconia, il gelo negli occhi, non sembravano nemmeno
appartenerle.
Era una tipa… particolare, sì. Questo era certo.
Be’, dopotutto era la sorella
di Sherlock. Di Sherlock e quindi anche di Mycroft. Strano che nemmeno
lui
l’avesse mai nominata. Ciò significava che
rappresentava qualcosa di
significativo per i due fratelli Holmes.
“Che
cosa mi dovevi chiedere?” chiese a quel punto
il detective, tornando sul punto della situazione. La ragazza, seduta a
bere il
suo tè al tavolo della cucina, sembrò riscuotersi
improvvisamente da un sogno.
“Sì, giusto”, iniziò e il suo
tono questa volta era molto più indeciso. “Vorrei
che mi ospitassi per qualche giorno, giusto il tempo di
sistemarmi”.
Il
detective restò a guardare per qualche attimo,
come se stesse cercando di assimilare le sue parole.
“Mi
andrà bene anche il divano”, aggiunse lei a
mo’
di supplica.
“Ok”,
rispose semplicemente lui, senza alcuna
espressione. “John ti darà delle
coperte”.
John,
chiamato in causa, si voltò verso di lui e lo
guardò perplesso. “Cosa? Sherlock!”
Cercò di aggiungere qualcos’altro, tipo che
non era gentile far dormire sua sorella su un divano scomodo, primo
perché era
una donna e secondo perché era l’ospite, ma non
fece in tempo visto che quello
se ne sparì con uno svolazzo del suo lungo cappotto.
Il dottore riportò lo sguardo sulle due donne con un sospiro.
“Ti
va del tè, caro?” chiese la signora Hudson.
Il
mattino dopo John entrò in cucina come suo solito
e per poco non saltò contro il soffitto nel trovarsi di
fronte una donna seduta
al loro tavolo.
Ah, giusto! Connie… se n’era quasi scordato.
“Buongiorno”,
la salutò trascinandosi ai fornelli.
“’Giorno”,
ricambiò lei senza guardarlo, troppo
impegnata a mettersi lo smalto sulle unghie. Il dottore si
preparò la colazione
e si voltò a osservare la ragazza; l’altra sera
non aveva avuto modo di vederla
bene, dato che indossava il cappotto, ma ora poteva notare che aveva un
fisico
snello e atletico. Sicuramente si teneva in forma. Il seno non era
molto grande
però era ben fatto, così come i fianchi e le
gambe lunghe. Il volto pallido,
poi, aveva degli zigomi piuttosto pronunciati, ma non le stavano male,
e su di
esso spiccavano due occhi identici a quelli di Sherlock. Tutto in lei
ricordava
Sherlock e John avrebbe potuto scommettere che anche i suoi capelli,
ora
raccolti in uno chignon in cima alla testa, avevano gli stessi boccoli
del
fratello. Somigliava a lui più di quanto Sherlock non
somigliasse a Mycroft. Ed
era molto bella.
C’erano solo un paio di cose che la differenziavano dal
detective: le braccia
piene di tatuaggi – John non avrebbe proprio saputo dire
quanti e quali tipi di
animali e creature mitologiche ci fossero disegnate – e il
piercing sul naso.
Il che faceva dedurre che era una persona differente da Sherlock.
Sorrise tra
sé e sé per questa deduzione; abitare col
consulente detective migliore del
mondo portava anche i suoi frutti.
“Lo
sai che non è gentile fissare la gente?” La sua
voce gli raggiunse le orecchie come una stilettata e per poco non si
strozzò
con il tè. “S – scusa”.
“Non
ti preoccupare. Mi piace quando la gente mi
fissa”. Connie non aveva ancora tolto gli occhi dalle sue
unghie che ora stava
accuratamente passando con la lima; sembrava che fosse
un’operazione di vitale
importanza. “Dai, fammi compagnia”, gli disse poi,
indicandogli la sedia di
fronte a sé.
John
obbedì senza protestare, portandosi dietro la
sua tazza di tè. “Vuoi del
tè?”
“Oh
no, grazie. Stanotte mi sono alzata due volte
per pisciare”. Soffiò sulle unghie per spazzare
via la polvere e dispiegò le
dita di fronte a sé per ammirare il proprio capolavoro.
Aveva fatto un bel
lavoro, ammise John tra sé e sé, e ci aveva
disegnato dei ghirigori piuttosto elaborati.
Infine portò lo sguardo su di lui e rimase a scrutarlo per
qualche secondo. “Scusa,
mi potresti ripetere il tuo nome?”
Ecco,
quella domanda non se l’aspettava. Tuttavia il
dottore rispose, anche se con voce un po’ roca:
“John, John Watson”.
“Bene,
John Watson. Scusa, ma non sono brava a
ricordarmi i nomi comuni”.
“Anche
Connie è un nome comune”, le fece notare
l’uomo.
“Sì,
ma Connie sta per Constance”.
Be’, certo:
Mycroft, Sherlock e Constance. I
loro genitori dovevano essersi
sbizzarriti nella scelta dei nomi.
“E’
un bel nome, Constance”.
“A
me non piace”. La ragazza sembro notare un
piccolo dettaglio sull’unghia dell’indice che non
le piaceva perché aprì di
nuovo la boccetta dello smalto e intinse il pennello.
“E
sei più piccola di Sherlock, Connie?”
“Sì,
ma solo di un paio di anni”.
John
non l’avrebbe mai detto, sembrava molto più
giovane. Ma
dopotutto, nemmeno Sherlock
mostrava più di quei trent’anni che aveva.
“E
tu che lavoro fai, John?” chiese lei a quel
punto, guardando il dottore di sottecchi.
“Sono
un medico”.
“Capisco.
Be’, certo, mio fratello sa scegliere bene”,
commentò, ma sembrò parlare più a
sé stessa che non a lui. “E da quanto tempo
state insieme?”
L’uomo
la guardò confuso. “Come, scusa?”
Lei
sospirò quasi esasperata. “Da quanto tu e
Sherlock state insieme?”
“Io
e lui non… non stiamo insieme. Viviamo insieme,
ma siamo solo amici”.
“Oh,
quindi, non fate sesso?”
Decisamente
quella era la sorella di Sherlock,
nessuno poteva averla scambiata nella culla. Fare domande di quel
genere senza
provare il minimo imbarazzo doveva essere un vizio di famiglia.
“No”.
“Ah,
peccato”.
John
ora avrebbe voluto chiederle che cosa intendeva
con quell’ultima esclamazione, ma preferì tenere
la bocca chiusa e lanciarle un’occhiata
indagatrice senza che lei se ne accorgesse. A Sherlock di solito non
faceva mai
troppe domande e cercava di non indagare mai sulle sue elucubrazioni,
perciò
con Connie doveva essere lo stesso.
Avrebbe però voluto restare a chiacchierare con lei ancora
per un po’ e magari
farle domande sul fratello, ma era tardi e lui doveva andare al lavoro.
Quando
John abbandonò l’appartamento e lei rimase da
sola – Sherlock se n’era andato prima che lei si
alzasse e lo aveva sentito
benissimo che si defilava fuori dalla porta – Connie si
abbandonò contro la
sedia e tirò un sospiro. Sentiva una strana pesantezza
all’altezza dello
stomaco e non era affatto dovuto a qualcosa che aveva mangiato, ne era
certa.
Non si era aspettata quel benvenuto da parte del fratello, si era
aspettata
piuttosto… a dire la verità non sapeva nemmeno
lei che cosa si fosse aspettata.
Di certo no baci e abbracci, non era da Sherlock, certo,
però… non si aspettava
nemmeno quella freddezza. No, decisamente no. Dopo tutti quegli anni
che non si
vedevano, poi. Se la sarebbe aspettata di più da parte di
Mycroft, lo doveva
confessare, con lui il rapporto è sempre stato un
po’ teso, ma con Sherlock…
Sentì
le sue viscere e il suo stomaco agitarsi
dentro di lei e fu costretta ad alzarsi di scatto e a correre in bagno
per
vomitare nella tazza del water quel poco che aveva mangiato a
colazione.
Connie,
sei una stupida,
si disse.
MILLY’S
SPACE
Di
solito non sono così veloce ad aggiornare, però
visto
che ora ho un po’ di tempo ho deciso di concederlo un
po’ a questa fanfiction a
cui tengo molto.
Qui si scopre qualcosa di più su questa Connie, spero che
come personaggio vi
piaccia. Ovviamente lei appartiene a me, tutti gli altri invece sono di
quel
genio di Arthur Conan Doyle : )
Volevo specificare una cosa che l’altra volta mi sono
dimenticata: questa
storia è ambientata dopo la seconda stagione,
però non tiene conto di quello che
è successo nella terza.
Ecco,
penso sia tutto. Presto posterò delle foto di
Connie sulla mia pagina facebook, così vi fate
un’idea di come dovrebbe essere
; ) perciò venitemi a trovare anche lì.
Un
bacione grande grande e notte a tutti.
Milly.
ERULE:
grazie per la recensione, sono contenta che il primo capitolo ti sia
piaciuto. Spero
continuerai a seguire. Un bacione, M.
|
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Capitolo 3 *** Capitolo tre ***
CAPITOLO TRE
Mycroft
guardò
il fratello con un'espressione impassibile e imperturbabile, eppure dal
suo volto
traspariva tutta la sorpresa che stava provando in quel momento;
sorpresa mista
a un certo scetticismo.
"Tornata?
Come tornata?"
Sherlock
sospirò; ma perché la gente faceva domande
stupide?
"È
tornata",
ripeté infine, puntando gli occhi sul bordo della scrivania
del fratello.
"Ne
sai il motivo?"
Il
consulente
detective rialzo lo sguardo sull'uomo che aveva di fronte e con un
semplice sguardo
cercò di comunicargli quello che pensava. Com'era abbastanza
prevedibile Mycroft
non recepì il messaggio.
"Non
lo so".
Il
maggiore
alzò gli occhi al cielo e, anche se fu un gesto
impercettibile, Sherlock se ne accorse
ma non disse nulla.
"Non
glielo hai chiesto?"
"Certo
che no", rispose come fosse la cosa più ovvia del mondo ma
dallo sguardo del
fratello capi che per lui non era cosi. Perciò aggiunse:
"Nostra sorella è
appena tornata a Londra dopo ben dieci anni. Scusami se non le ho fatto
il terzo
grado".
Il
terzo
grado? Da quando Sherlock si preoccupava di fare il terzo grado a
qualcuno? Pensò
Mycroft. Questo non era mai stato un problema per lui.
"Be'
io te l'ho detto", concluse il detective alzandosi in piedi. Non vedeva
l'ora
di uscire da quel posto. "Ora posso andare".
Il
fratello
decise che era inutile insistere. "E con il caso come procede?"
Il
più giovane
attese un attimo prima di rispondere. "Ci sto lavorando". Raggiunse la
porta in poche rapide falcate e vide il fratello muoversi per
raggiungerlo. Ma Sherlock
lo blocco lì dov'era: "Conosco la strada".
Quando
il
fratello abbandonò il suo ufficio, Mycroft si accascio sulla
sua sedia girevole
e si passò le mani sul viso con aria stanca. Nonostante non
avesse fatto niente
quella mattina si sentiva spossato. E come se non bastasse aveva una
bruttissima
sensazione. Già
il fatto che Sherlock fosse
venuto a trovarlo era di per sé strano visto che non lo
faceva mai e ora veniva
pure a sapere che Connie era tornata a Londra. Non sarebbe venuto fuori
nulla di
buono, ne era certo.
Doveva saperne di più.
John
salutò
i due simpaticissimi vecchietti che
avevano occupato il suo studio per quasi un’ora e
tirò un sospiro di sollievo. Aveva
seriamente temuto che non se ne sarebbero più andati; il
signore aveva dei
normalissimi problemi alla prostata, ma sua moglie non aveva fatto
altro che
tartassarlo di domande, dubbi e preoccupazioni, mettendo quasi in
dubbio la sua
carriera di medico militare. Detestava quel tipo di persone, erano
così asfissianti
e… noiosi. Sì, noiosi era la parola giusta.
Oddio, si stava Sherlockizzando!
Aveva
bisogno di un caffè, uno forte.
Uscì dal suo ufficio, salutò Sarah e raggiunse la
macchinetta nella
salta d’attesa. Per fortuna non c’era
nessuno, così non gli toccò nemmeno fare la fila.
Inserì le
monete nella fessura e schiacciò un paio di numeri, poi
aspettò che il suo
caffè si preparasse.
Finché aspettava, la sua mente cominciò a vagare
per conto suo, destreggiandosi
tra i vari pensieri incasinati che lo stavano assillando dalla sera
precedente
e il tutto chiaramente riguardava Sherlock… Sherlock e
Connie a voler essere
precisi. Perché il detective non gli aveva parlato di sua
sorella, perché non
gliel’aveva nemmeno accennata? Invece, come al solito, era
venuto a scoprirlo
così, come se si trattasse semplicemente del suo piatto
preferito.
Doveva confessarlo, si era sentito ferito, molto. Sapeva che
c’erano molte cose
che Sherlock non gli aveva detto del suo passato e John lo rispettava,
davvero,
capiva benissimo che alcune cose potevano risvegliare in lui sofferenze
e
ricordi spiacevoli, però pensava che avesse iniziato a
fidarsi e che le cose
importanti, come l’avere una sorella, si potessero anche
raccontare. E la cosa
peggiore era che sicuramente era l’unico a non averlo mai
saputo. Era un po’
come quando non gli aveva detto di essere vivo, mentre
c’erano almeno una
trentina di persone che lo sapevano. No, anzi, questa volta era peggio
perché
almeno, nell’altra occasione, l’aveva fatto per un
motivo valido, o comunque un
motivo che poteva accettare. Ma adesso…
La
macchinetta
emise un suono lungo indicandogli che il suo caffè era
pronto.
Meglio se
si rimetteva al lavoro o sarebbe veramente andato fuori di testa.
Quando
Mycroft
salì nell’appartamento di John e Sherlock, rimase
piuttosto sbigottito di
fronte a quello che si trovò davanti: Connie, in pantaloni
di pigiama e
reggiseno, si dimenava per tutta la stanza, cantando a squarciagola una
canzone
che lui non conosceva. Ma anche se l’avesse già
sentita, di certo non l’avrebbe
riconosciuta; la ragazza non era propriamente intonata. Anzi, sembrava
più il
gracchiare di un corvo. Tuttavia non tentò di fermarla, ma
rimase sulla soglia
a guardarla.
Quando
lei
si girò verso la porta e lo vide lì, si
bloccò di colpo, nella posizione in cui
era, piuttosto scomoda e ridicola, e si tolse immediatamente le cuffie
dell’i-pod
dalle orecchie.
“Myky!”
esclamò Connie, sorpresa di trovarlo lì.
“Constance”,
salutò lui con voce inespressiva. Continuava a fissarla
però, come se avesse di
fronte una pazza scappata dal manicomio.
Lei
sospirò:
“Uff, lo sai che odio il mio nome”.
“Però
ti
chiami così”.
“Sei
noioso”.
La
ragazza
poggiò sul tavolo del salotto il suo i-pod e andò
in cucina a prendersi da
bere. Mycroft la seguì, rimanendole comunque a debita
distanza, quasi la
temesse. Oppure era solo la solita reazione esagerata che assumeva
quando si
trovava con qualcuno che non conosceva.
“Come
mai sei qui, Connie?”
Lei svuotò
il bicchiere e lo poggiò sul tavolo, non curandosi di non
farlo sbattere. “Anche
io sono contenta di vederti, fratellone”.
Ecco,
non era cambiata affatto; aveva ancora quel fastidioso e snervante modo
di
cambiare argomento quando quello di cui si stava parlando non le
piaceva.
“Sono
serio”.
“Anche
io lo sono!” Questa volta la ragazza gli aveva puntato
addosso i suoi occhi
chiari, sostenendo il suo sguardo, orgogliosa e prepotente.
“Dico solo che
potresti mostrare almeno un minimo di contentezza nel vedermi. Sono tua
sorella”.
Mycroft
sospirò e distolse per un attimo lo sguardo. “Hai
ragione. Sono contento di
vederti”.
Lei
si
morse il labbro inferiore e ritornò in salotto, buttandosi
sulla poltrona di
Sherlock. “Lo so che non è vero, ma
farò finta di crederci”.
Rimasero
in silenzio per un po’, Connie a osservare il fratello con
fare indifferente e
lui a guardarsi attorno per evitare il suo sguardo.
“Allora
mi dici come mai sei qui?”
La
ragazza sbuffò gonfiando le guance e si sedette a gambe
incrociate. “Non posso
semplicemente venire a trovare la mia famiglia”.
Lui
le
lanciò un’occhiataccia come per dirle che non ci
cascava.
“Perché
pensi che debba avere altri scopi?”
“Perché
tu li hai sempre”.
“Hai
così poca stima di me?” L’espressione
ferita della sorella gli parve sincera e
l’uomo si sentì leggermente in colpa per averla
trattata così. Si sedette sulla
poltrona di fronte a lei e cercò di sorriderle teneramente,
ma lui non era in
grado di sorridere teneramente, anzi, non era proprio in grado di
sorridere,
perciò quello che ne uscì fu una cosa piuttosto
inquietante. Ma Connie decise
di non farci caso e apprezzò il gesto. “Sei
invecchiato, Mycroft”, notò.
“Anche
tu”, le rispose. Però non era vero; il tempo non
sembrava averla segnata e non
aveva nessuna ruga in volto. Era rimasta bella ed esuberante come la
ricordava.
Era rimasta uguale in tutto, forse.
Quando
John
quella sera tornò a casa, trovò Connie dalla
signora Hudson; le due donne
sedevano al tavolo rotondo davanti a una tazza di tè per
ciascuna e sembravano
divertirsi molto per qualcosa, a giudicare dalle risate che si
sentivano
persino nell’ingresso.
“Oh,
ciao, John!” lo salutò l’anziana donna,
rivolgendogli un largo sorriso. “Vuoi
unirti a noi?”
Lui
le
guardò dalla soglia della porta, inarcando le sopracciglia.
“Connie
mi stava raccontando di quando lei e Sherlock erano bambini”,
spiegò la signora
Hudson intuendo la sua muta domanda.
“Davvero?”
chiese lui interessato.
“Sì. Sapevi
che Sherlock ha tentato di rubare le mele dall’albero del
vicino e quello lo
aveva seguito brandendo un bastone per tutto il vicinato?”
fece la donna,
emozionata come una bimba il giorno di natale. Adorava sentire quelle
storie.
“Sherlock
diceva che voleva fare un esperimento”, aggiunse Connie.
“Ma quell’uomo era
matto, tutti i bambini ne avevano paura e persino qualche
adulto”.
John
avrebbe ascoltato volentieri quelle storie, ma si sentiva piuttosto
stanco e
voleva solo farsi una doccia rilassante. Perciò
salutò le due donne e andò al
piano di sopra, dove trovò Sherlock intento a qualche
esperimento in cucina.
“Ciao,
Sherlock”, lo salutò buttando la giacca sulla
poltrona. Il detective gli
rispose con un debole mugugno, troppo concentrato sul suo lavoro.
“Vado
a
fare la doccia”, lo informò il dottore dirigendosi
in bagno.
“John!”
lo chiamò l’altro, puntandogli gli occhi sulla
schiena. “Le hai comprate tu le
caramelle Kitsy?”
“Sì”.
“Perché?”
John
lo
osservò perplesso non capendo il motivo di quella domanda.
“Perché so che ti
piacciono”.
“Ah,
ok”,
rispose semplicemente il moro, tornando poi sulle sue boccette da
chimico e l’altro
capì che l’interrogatorio era finito. Mah,
Sherlock era proprio strano. E lui
si era persino scordato di aver comprato quelle caramelle.
John
finalmente poté entrare nella doccia e lasciar scorrere
l’acqua sul proprio
corpo, cercando di liberare la testa da ogni pensiero. Era da un
po’ che lui e
Sherlock non si trovavano immischiati in qualche caso e cominciava a
pesargli
tutta quella monotonia. Be’, eccetto per Connie.
Ad
un
tratto sentì la porta del bagno aprirsi e vide qualcuno
entrare. Per un attimo
temette che fosse Connie, ma poi riconobbe, attraverso il vetro opaco
della
tenda, la siluette e la statura alta del suo coinquilino e si
rilassò. Ma in ogni
caso era coperto e di certo nessuno avrebbe potuto vederlo
dall’altra parte.
Sherlock,
silenziosamente, si chinò per prendere qualcosa da sotto il
lavello e rimase lì
per un po’, cercando di trovare quello che gli serviva.
E allora, senza che lui riuscisse in qualche modo a fermarla, la mente
del
dottore iniziò ad andarsene per conto suo, spogliando il
detective con lo
sguardo, immaginandolo nudo sotto la doccia. Magari insieme a lui.
Ma
che
gli saltava in testa?
Sherlock
finalmente uscì dal bagno e John tirò un sospiro
di sollievo. Ormai però il
guaio era fatto e il suo amichetto lì sotto ne era la prova.
MILLY’S
SPACE
Wow!
Non l’avrei mai detto ma sono riuscita ad aggiornare
di nuovo ^^ due sere di fila. È che questa fanfiction mi
ispira proprio e spero
ispiri anche voi. Lo so che ora è un po’ troppo
tranquilla e che non succede
nulla ma non preoccupatevi, presto ci saranno delle succulente
novità.
Intanto,
ditemi cosa ne pensate, se vi piace o se secondo
voi dovrei rinunciare.
E
fatemi una visita anche sulla mia pagina face:
(https://www.facebook.com/MillysSpace)
Bacioni,
M.
|
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Capitolo 4 *** Capitolo quattro ***
CAPITOLO
QUATTRO
“Sherlooooock!
Sherlooooock! Sheeeeeeeeerly!”
“Per
favore, smettila di urlare! Stai svegliando
tutta Baker Street!”
“Allora
accontentami”.
Il
detective si voltò verso Connie e la guardò come
se fosse appena caduta dal cielo. Sbatté due volte le
palpebre e aprì la bocca
per dire qualcosa, ma non gli uscì niente. Allora la
richiuse.
“Hai
dimenticato come si parla, fratellino?”
“Stavo
cercando di ricordare per quale inutile
motivo tu mi stessi chiamando a voce così alta”.
La
ragazza sospirò frustrata; possibile che Sherlock
dovesse sempre essere così… così
dannatamente frustrante, ecco.
“Ti
avevo chiesto dei soldi”, gli ricordò lei.
“Soldi?”
“Sì,
soldi. Per fare shopping”.
“Shopping?”
“E’
quando una persona va in giro per negozi a
comprare qualcosa che…”.
“Sì,
sì, so cosa vuol dire fare shopping. Perché
dovresti
fare shopping?”
“Perché
ho bisogno di vestiti”.
“Ma
non ne hai già?”
“Sono
vecchi”.
“Puoi
usare i miei”.
Connie
si buttò sul divano coprendosi il volto con
le mani. A volte sospettava che il fratello facesse apposta ad essere
così
ottuso. Insomma, un uomo intelligente e con tutto quel spirito di
osservazione
non poteva non capire certe cose che persino un fungo avrebbe capito.
“D’accordo,
tieni”, le disse infine il detective,
allungandole alcune banconote da cinquanta. La ragazza le prese in mano
e
rimase sorpresa di fronte a tutti quei soldi.
“Così tanti? Sei sicuro?” gli
chiese.
“Li
vuoi o no?” gridò lui, spazientito.
“Sì,
sì, sì!” rispose la ragazza saltando
dal divano
e afferrando la sua borsetta. “Grazie, fratellino”,
lo salutò, dirigendosi
verso la porta con la giacca infilata a metà.
Proprio
quando lei usciva John, invece, rientrava. “Dove
sta andando?” chiese al coinquilino, in piedi vicino al
caminetto.
“A
fare… shopping”, biasciò il moro
pronunciando l’ultima
parola come fosse una parolaccia.
“Oh,
perché non l’hai accompagnata?”
“Perché
avrei dovuto?” Sherlock si girò verso
l’amico
e rimase a osservarlo come se gli avesse appena chiesto di risolvere
un’equazione
particolarmente difficile.
“Perché
è tua sorella e… niente lascia
perdere”.
John sapeva che era inutile fare certi ragionamenti con il detective,
perciò
era meglio se ci rinunciava fin da subito, avrebbe risparmiato fiato e
un bel
po’ di nervi. “Piuttosto, cosa vuoi
mangiare?”
Connie
stava girando da circa un’ora per il centro
di Londra senza successo. Era stata sia da Harrods sia a Covent Garden,
ma non
aveva trovato niente che le piacesse. Forse a Picadilly avrebbe avuto
più
successo.
Lungo la strada però si era comprata una ciambella e ora la
stava mangiando con
gusto. Ogni volta che sentiva profumo di cibo o vedeva qualcosa di
buono non
riusciva a resistere e il suo stomaco la avvertiva di avere fame,
benché magari
avesse già mangiato mezz’ora prima. Be’,
era normale nel suo stato delle cose,
giusto? Ed era per lo stesso motivo che ora stava cercando dei vestiti
nuovi;
ne aveva già diversi in borsa e non aveva un bisogno urgente
di fare shopping,
però presto le sue camicette attillate e i suoi jeans
stretti non le sarebbero
più andati bene. Doveva comprare qualcosa di più
largo.
A questo pensiero sentì una morsa stringerle lo stomaco. Non
aveva ancora detto
niente a Sherlock e Mycroft e si chiedeva come avrebbe fatto.
Finì
di mangiare la sua ciambella e si leccò lo
zucchero dalle dita. Poi si fermò di fronte alla vetrina di
un negozio un po’
vintage. Forse faceva al caso suo, sembrava avere vestiti parecchio
colorati.
La ragazza entrò dentro, seguita dallo squillante trillo del
campanello alla
porta. La commessa, una ragazza bassa e minuta ma dal viso molto dolce,
le
sorrise cordiale e le chiese se poteva aiutarla. Connie
declinò l’offerta, dicendo
che prima avrebbe guardato un po’ quello che c’era.
Trovò
una maglietta rosa primaverile con qualche
volant e le sembrò abbastanza larga. Era molto bella, giusto
il genere di cose
che indossava lei. Chissà, magari sarebbe piaciuta anche a
Sherlock; gli erano
sempre piaciute le sue magliette strampalate, soprattutto quelle con
delle
scritte significative.
Ma Sherlock era cambiato, non era più lo stesso, non era
più il suo Sherlock. Quel
Sherlock era… era un Sherlock freddo, indifferente. Forse
aveva chiuso il suo
cuore dentro una scatola, come il personaggio di una fiaba che avevano
letto da
piccoli.
Ce l’avrebbe fatta a farlo tornare come prima? Sperava di
sì perché se no…
Sherlock,
John e Connie scesero dal taxi che li
aveva accompagnati fino a un edificio abbandonato che probabilmente
prima era
stato una fabbrica.
Appena aveva ricevuto la telefonata da Lestrad che gli diceva di venire
subito
lì, il consulente detective non aveva esitato un attimo,
trascinandosi dietro
John, come sempre. Purtroppo per lui in quel momento stava rincasando
pure
Connie che non lo aveva affatto ascoltato quando le diceva di restare a
casa e
li aveva seguiti.
“Che
cosa succede?” chiese John quando si trovò di
fronte al detective investigativo.
“Abbiamo
trovato il cadavere di un ragazzo…”,
iniziò
questi, ma fu subito distratto dalla visione di Connie che gli si
avvicinava e
si accostava accanto al medico completamente a suo agio.
“Oh,
lei è Connie, la sorella di Sherlock”,
presentò
John, indicando la ragazza. “Connie, lui è Greg
Lestrade”.
“Piacere”,
disse la ragazza sorridendo.
“La
sorella di Sherlock?”
John
rimase sorpreso dello sbigottimento di
Lestrade, ma al tempo stesso anche sollevato perché
ciò significava che non era
l’unico a non saperne niente.
“Oh,
dobbiamo ricominciare con questa pantomima?”
chiese lei alzando gli occhi al cielo.
“Dov’è
questo corpo?” fece Sherlock, sbucato al loro
fianco senza farsi sentire.
Il
detective si voltò verso di lui e sembrò
fulminarlo con lo sguardo. “Tu hai una sorella?!”
Sherlock
inclinò il capo e inarcò le sopracciglia.
“Sì,
è lei. Ora, dov’è questo
corpo”.
Lestrade
rimase a boccheggiare spostando lo sguardo
da John a Sherlock, ma alla fine decise di accontentare il moro.
“Di qua”. Lo accompagnò
dentro l’edificio, su per delle scale di ferro fino a un
corridoio col soffitto
retto da delle colonne quadrate. Verso il fondo giaceva scomposto il
cadavere di
un giovane di quasi trent’anni, fisico magro e capelli corti.
Il
consulente gli si chinò affianco e lo guardò
senza toccarlo. Poco dopo venne raggiunto da John e Connie.
L’uomo si affiancò
all’amico e prese ad analizzare il corpo. In quel momento
sopraggiunse anche
Sally col solto cipiglio accigliato.
“A
prima vista sembra essere andato in overdose”, li
informò Lestrade. “Ma quelli della scientifica
dicono che è…”.
“Stato
strangolato”, concluse John per lui indicando
i segni sul collo che indicavano una strangolatura.
“C’è della sporcizia sotto
le unghie perciò deve aver lottato”.
“Lo
mandiamo da Molly”, disse Greg. “Comunque
abbiamo trovato questo nelle sue tasche”.
Sherlock
allungò una mano verso il sacchetto che gli
stava porgendo il detective contenente delle piccole pillole color
rosa.
“E’
droga”.
“Grazie,
Sally, ci arrivavo anche da solo”.
Connie,
che per tutto quel tempo se n’era rimasta in
disparte appoggiata ad una colonna, lanciò una strana
occhiata di sottecchi al
fratello ma nessuno parve accorgersene. Be’, eccetto Sherlock
che solo per
qualche istante ricambiò il suo sguardo, reggendo la droga
tra le mani.
“Conclusioni,
Sherlock?” chiese Lestrade, le mani
sui fianchi, in attesa che l’altro lo illuminasse con le sue
brillanti
deduzioni.
“Oh,
ma possibile che debba
sempre dirtelo io?”
E
anche delle sue offese gratuite.
“Di
certo non è stata una rissa provocata dalla
droga, l’omicidio era volontario. L’aggressore
doveva essere più forte di lui
altrimenti tutta quella sostanza nel corpo avrebbe permesso alla
vittima di
difendersi. Ha lottato, il che ci fa dedurre che non è morto
sul colpo. Be’, è
stato soffocato, probabilmente con una corda, visti i segni sul
collo”.
Sherlock bloccò la sua arringa durante la quale aveva
continuato a camminare su
e giù per il corridoio. “A prima vista sembra un
classico caso di omicidio,
forse per qualche vendetta o…”. Il detective
improvvisamente smise di camminare
e, con lo sguardo fisso di fronte a sé, esalò
quasi impercettibilmente. “O
forse sapeva qualcosa che non doveva sapere”. Si
voltò di scatto verso gli
altri presenti e puntò l’indice contro il corpo.
“Portatelo da Molly”.
Sherlock
si precipitò fuori dall’edificio e gli
altri furono costretti a seguirlo quasi di corsa.
“Ti
serve altro, Greg?” chiese John, più per cortesia
che altro.
“No,
è tutto”. Lestrade si voltò verso
Connie,
intenta a guardare gli altri poliziotti che si aggiravano sulla scena
del
crimine. “E’ stato un piacere conoscerti,
Connie”.
“Oh!”
esclamò lei con una certa sorpresa negli
occhi. “Anche per me…”.
“Greg”.
“Greg”.
Sherlock
in quel momento fece fermare un taxi e i
suoi accompagnatori capirono che era il momento di andarsene. Quando
Connie si
allontanò dietro a John e il fratello, Lestrade rimase per
un po’ a guardarla
con una strana espressione sulle labbra.
“Ehi!”
lo riscosse Sally poggiandogli una mano sulla
spalla.
Dentro
il taxi, invece, i tre occupanti erano
piombati in silenzio: John non sapeva che dire, Sherlock era immerso
nei suoi pensieri
e Connie digitava qualcosa al cellulare.
All’improvviso il silenzio venne interrotto dal telefono di
Sherlock che aveva
emesso due squilli prolungati. Il consulente lo estrasse dalla tasca e
lesse il
messaggio.
Da
Connie: quindi mi hai completamente bannata dalla
tua vita?”
Molly
Hooper, impegnata a esaminare il corpo che le
era stato spedito quel giorno, quello del ragazzo trovato morto nella
fabbrica
abbandonata, lanciava ogni tanto occhiate alla sorella di Sherlock.
Sorella di
Sherlock. Non aveva idea che ne avesse una, non l’aveva mai
nemmeno nominata.
Perché? Be’, le stranezze del moro erano tante, ma
di solito non nascondeva di
avere un parente, specialmente se era così vicino.
Connie,
invece, si era accorta che quella dottoressa
la stava puntando e resistere alla tentazione di urlarle di smetterla
era
piuttosto difficile.
Ma perché tutti facevano così? E, soprattutto,
perché Sherlock non aveva detto
a nessuno di lei? Nessuno sapeva della sua esistenza. Questo
era… faceva male.
Ecco. Soprattutto dopo tutto quello che loro due aveva passato insieme,
sapere
che per lui lei non significava niente era peggio… peggio
che non avere un
posto dove dormire.
Perché? Le veniva da chiedergli soltanto questo, ma
sicuramente non le avrebbe
risposto. Non le aveva risposto nemmeno a quel messaggio. Se solo
avesse potuto
leggergli nella mente come faceva con tutti gli altri. Tutti gli altri
erano un
libro aperto per lei, ma lui non lo era mai stato. E pensare che
Sherlock era l’unica
persona che veramente contava per lei.
“Sherlock?”
lo chiamò, allungandosi sul lungo tavolo
al quale era seduta.
“Hmm?”
mugugnò lui senza spostare gli occhi dal
microscopio su cui stava analizzando qualcosa.
“Dimmi
che mi vuoi bene”.
MILLY’S
SPACE
Non
credevo che avrei aggiornato oggi visto che di pomeriggio
non avevo molta ispirazione. Ma come ai migliori scrittori, le idee
vengono di
sera ^^ e quindi eccomi qui, dopo una puntata di
“Braccialetti Rossi”, ad aggiornare
questa storia per voi.
Fatemi
sapere che ne pensate e se volete ditemi pure le idee
che vi siete fatti leggendo.
Kiss
kiss.
M.
MONKEY_D_ALICE:
ehi : ) sono contenta che la storia ti piaccia, spero continuerai a
seguirla. Siamo
solo agli inizi ma ho già delle belle ideuzze in mente ^^
fatti sentire ancora.
Un bacione, Milly.
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Capitolo 5 *** Capitolo cinque ***
CAPITOLO
CINQUE
Maledizione!
Ma doveva proprio essere così sfigata? Non
solo aveva perso l’autobus, ma aveva pure dimenticato
l’ombrello a casa. Una cosa
che assolutamente non le era mancata di Londra era il tempo. Il cielo
era stato
coperto da nuvole per tutto il giorno, ma non si era certo aspettata
che si
mettesse a diluviare in così poco tempo, come se fossero in
amazzonia. E lei
era bagnata fradicia perché, nel tempo che aveva impiegato a
fare una rapida
corsa fino alla fermata dell’autobus più vicina,
la pioggia le era entrata
persino nelle mutande. Ed ora aveva solo voglia
di imprecare. Era pure tardi, era stanca, aveva fame e si
trovava in una
strada completamente deserta. Ma la pioggia non aveva certo intenzione
di
smettere, così come un taxi non sembrava intenzionato a
venire a soccorrerla.
Aveva persino chiamato suo fratello al cellulare perché la
venisse a prendere,
ma com’era ovvio non le aveva risposto. Sicuramente era
impegnato a fare
qualcosa di più importante e per lui tutto era
più importante della sua
famiglia, giusto?
Maledizione anche a lui!
Connie
si sedette sulla panchina sotto alla tettoia
della fermata e si strinse nel cappotto. Chiuse gli occhi per un attimo
prendendo un grosso respiro. Doveva restare calma. Non serviva a niente
agitarsi. Sicuramente ora sarebbe passato un altro autobus o comunque
avrebbe
smesso di piovere presto. Questi acquazzoni non duravano mai a lungo.
Ma
passarono altri dieci minuti e ancora niente era
cambiato rispetto alla situazione precedente e lei stava per farsi
prendere dal
panico nuovamente.
Tirò fuori il cellulare per chiamare ancora una volta suo
fratello, quando vide
una bella macchina metallizzata accostarsi al marciapiede. Non era
decisamente
un autobus, ma non era nemmeno un taxi. E quello che ne stava scendendo
fuori
non somigliava per niente a suo fratello. Ecco, magari era qualcuno che
la
voleva rapire. Ci mancava solo questa! O forse no.
Assottigliò gli occhi per
distinguere meglio la figura che si avvicinava perché con il
buio e la pioggia
fitta faticava a riconoscerla. Le era familiare e per un attimo
pensò che si
trattasse di John, ma questo era più alto e aveva dei
lineamenti più marcati.
“Ciao”,
la salutò lui non appena la raggiunse sotto
la tettoia chiudendo l’ombrello. Un’improvvisa
lampadina si accese nella mente
della ragazza. Era quell’amico di Sherlock che aveva
conosciuto sulla scena del
crimine.
“Connie,
giusto?”
“Sì,
esatto”, rispose lei con un sorriso. Poi storse
la bocca in una smorfia dispiaciuta.
“Greg”,
le ricordò l’uomo intuendo il suo problema.
“Greg
Lestrade”.
“Oh
sì!” Doveva fare qualcosa per risolvere quel
problema della dimenticanza dei nomi troppo comuni. “Scusami,
sono…”.
“Non
fa niente”, le sorrise Greg dolcemente. Poi con
lo sguardo percorse tutte le direzioni, come a controllare che non ci
fosse
nessuno. “Hai… hai bisogno di aiuto? Che ci fai
qui… da sola?”
Lei
ridacchiò leggermente imbarazzata. O forse più
sentendosi stupida. “Ero andata a fare un giro e…
il temporale mi ha colta, non
ho l’ombrello e ho perso l’autobus. Non ci sono
nemmeno dei taxi e mio fratello
non risponde”.
“Tipico
di lui”.
“Sì,
ma sono sua sorella e…”, Connie sospirò
frustrata. “Va be’, lasciamo perdere. In poche
parole, non so come tornare a
casa”. Lo guardò con un sorriso imbarazzato e
scrollò le spalle.
“Posso…
posso accompagnarti io”, si offrì il
detective senza distogliere gli occhi da quelli della ragazza di fronte
a lui.
“Sei
gentile, ma non vorrei disturbarti”.
“Ma
figurati! Non è un disturbo. E poi sono di
passaggio”. Non era affatto vero, lui abitava da
tutt’altra parte. Però lei era
lì da sola, sotto un acquazzone, al freddo. Non poteva mica
lasciarla lì. E poi
era… era la sorella di Sherlock.
“Questo
sarebbe davvero magnifico. Ma sei sicuro?”
“Assolutamente
sì. Dai, vieni!”
Connie
non se lo fece ripetere un’altra volta e, al
riparo sotto l’ombrello di Greg, corse con lui fino alla sua
macchina, salendo
sul lato del passeggero.
“Baker
Street, giusto?” le chiese lui mettendo in
moto.
“Sì”.
Il
detective si immise nelle strade della città
senza andare troppo veloce, anche se con tutta quella pioggia pochi
avevano
avuto il coraggio di uscire. Teneva lo sguardo fisso sulla strada, ma
ogni
tanto lanciava qualche occhiata alla ragazza seduta accanto a lui.
Connie di
aspetto somigliava molto a Sherlock, ma di carattere era completamente
diversa,
si poteva vedere fin da subito. Era diversa anche da Mycroft. Era
più… più
normale, forse, più umana. A volte, osservando i due
fratelli Holmes, per
qualche fugace attimo gli era passato per la mente che potessero essere
due
robot o degli alieni. Ma con lei non era così. Era sicuro
che lei fosse al
cento per cento umana. Di questo ne era certo, anche se non la
conosceva così
bene.
Connie,
invece, fissava la strada di fronte a sé anche
se in verità non la vedeva. Era immersa nei suoi pensieri,
come le capitava
piuttosto spesso. Il torpore dell’auto, la
tranquillità e il rumore ticchettante
della pioggia che
batteva contro i finestrini
erano confortevoli e rassicuranti. Non vedeva l’ora di
stendersi sul divano e
mangiare qualcosa. Sperava che John e Sherlock non avessero ancora
cenato.
“Allora,
com’è che Sherlock non mi ha mai parlato di
sua sorella?” sbottò ad un tratto Greg, ponendo la
domanda in tono quasi
disinteressato. In realtà la risposta gli interessava
eccome, ma non voleva
apparire troppo invadente, né rischiare di dire qualcosa di
sbagliato.
Connie
piegò le labbra in un debole sorriso, ma in
realtà non vi erano nessuna allegria né
divertimento; c’erano piuttosto una
strana tristezza e una certa malinconia.
“Non
saprei. Sherlock non ama parlare molto di sé e
dei suoi affari”, rispose senza guardarlo.
“Non
hai tutti i torti. E poi, io e lui non siamo
così in confidenza”.
“Ma
sei suo amico”. Improvvisamente aveva girato la
testa verso di lui per osservarlo nella debole luce
dell’abitacolo.
“Non
siamo amici. Almeno, lui non mi considera suo
amico”.
“Pff!”
soffiò lei, voltando il capo verso il
finestrino. “Nemmeno lui sa quello che prova. Sherlock e i
sentimenti hanno
sempre viaggiato su due rotaie diverse”.
“Perché?
Lui ha dei sentimenti?” scherzò Greg mentre
rallentava per svoltare in un incrocio.
Connie
però parve prenderlo sul serio perché rispose
in tono grave. “Ceto che li ha. Solo che non li vuole
usare”. Ma la frase non
sembrava averla indirizzata tanto all’uomo, quanto
più a sé stessa.
Lestrade
parcheggiò vicinò al marciapiede e spense
l’auto.
La ragazza si voltò a guardarlo confusa.
“Sei
arrivata”, le fece notare. Lei vide la porta
col numero 221B e sbatté le palpebre sorpresa. Non se
n’era affatto accorta.
“Oh,
be’, allora…”, iniziò senza
sapere esattamente
che dire. Non voleva risultare troppo banale e non voleva lasciarlo
così, però
non era certa che Sherlock avrebbe voluto che salisse da loro.
“Grazie per il
passaggio”, concluse infine optando per il solito
cliché.
“Figurati”.
La
ragazza girò il busto per aprire la portiera e
uscire, quando qualcosa la frenò. Non poteva lasciare Greg
così e non voleva
nemmeno che lui serbasse di lei un ricordo così banale e
scontato. E poi… e poi
aveva bisogno di parlare con qualcuno.
“Greg?”
chiamò, voltandosi dall’altra parte e
incontrando i suoi occhi scuri che la guardavano.
“Sì?”
L’uomo
poté leggere dell’incertezza nello sguardo
chiaro di Connie, un’incertezza che in Sherlock non aveva mai
trovato, ma anche
dolore. Ecco qual era la differenza tra lei e i suoi fratelli: lei
aveva dei
sentimenti o comunque li mostrava.
“Sono
incinta”, sbottò infine. “Sono incinta e
non
so come dirlo a Sherlock e Mycroft”.
Nell’auto
calò il silenzio tutto d’un colpo. Il detective
era sorpreso per quella confessione, ma soprattutto non aveva idea di
che cosa
dirle. Che cosa si aspettava? Che la consolasse e
l’abbracciasse? Che le desse
un consiglio? Non era bravo in nessuna delle due cose. Be’,
forse abbracciarla
non sarebbe stato male, ma qualcosa gli diceva che non era quello che
lei
voleva.
“Cazzo!”
fu l’unica cosa gli uscì, ma se ne
pentì
subito. Connie però non sembrava essersela presa.
“Già”.
“C’è…
c’è qualcosa che posso fare?” le chiese
e
dovette confessare a se stesso che quella frase gli era uscita dal
cuore e che
sinceramente avrebbe voluto fare qualcosa per aiutarla.
“Non
credo. Te l’ho detto perché avevo bisogno di
dirlo a qualcuno e vorrei che tu non dicessi niente a Sherlock o a
Mycroft”.
“No,
non dirò niente. Te lo prometto”.
“Grazie.
Ora posso andare”. La ragazza si girò di
nuovo per andarsene, ma Lestrade la prese per un braccio e la
bloccò.
“Connie…”,
iniziò, improvvisamente incerto delle sue
parole. “Se… se hai bisogno di qualcosa
chiamami”. E le porse il suo biglietto
da visita. “Qui c’è anche il mio numero
di telefono. Qualunque cosa… a
qualunque ora”.
Lei
gli sorrise dolcemente. “Grazie. Sei gentile. Mio
fratello se li sa scegliere bene gli amici”.
Stava
per risponderle che lui non era amico di
Sherlock, ma ci ripensò e alla fine la lasciò
andare. La osservò correre sotto
la pioggia fino alla porta di casa e non distolse lo sguardo nemmeno
dopo che
fu sparita dentro l’appartamento. Rimase lì ancora
per un po’, poi rientrò di
nuovo nel traffico.
Quella ragazza gli piaceva. Era particolare, non come Sherlock o
Mycroft, ma
particolare a modo suo. Ed era anche carina e sicuramente intelligente.
Ma appunto, era la sorella di Sherlock e Mycroft. E poi era incinta. Il
suo
intuito da investigatore gli diceva che doveva essere tornata a Londra
proprio
per questo. Chissà chi era il padre. Sicuramente qualcuno
che non aveva voluto
quel bambino. Un bastardo.
Doveva averne passate tante, Connie, lo poteva leggere nei suoi occhi e
in
tutti quei sorrisi finti privi di qualsiasi allegria.
Sperava di incontrarla di nuovo e sperava con tutto il cuore che lei lo
chiamasse.
John
continuava a rigirarsi nel letto senza alcuna
voglia di dormire. Erano quasi le due di notte e lui non aveva ancora
chiuso
occhio. In quel momento gli ci voleva una di quelle avventure con
Sherlock, una
fuga notturna da qualche malfattore o un qualsiasi caso che gli tenesse
lontano
tutti quei pensieri.
Non
aveva fatto altro che pensare a Sherlock, al
lavoro, al supermercato, in taxi e persino quando era con lui. Lo aveva
osservato, guardato, studiato e non ce la faceva più.
Davvero, sentiva che
sarebbe scoppiato.
Non pensava di poter provare una cosa simile per lui. Erano migliori
amici,
coinquilini, tutto qui.
O
era quello che tu ti sei sempre imposto di pensare, John?
Aveva
sempre pensato che Sherlock fosse un uomo
attraente, con quegli zigomi, quei capelli e quegli occhi, con buon
gusto nel
vestire ed estremamente intelligente, ma chi altri non
l’aveva pensato?
Da dove gli venivano tutte quelle fantasie? Ma non era solo questo. Non
era
solo attrazione sessuale… ogni tanto si scopriva a come
sarebbe stato stare fra
le sue braccia, accarezzarlo, coccolarlo, baciarlo e…
A volte il cuore gli batteva forte quando lo vedeva e
sentiva una strana sensazione pervaderlo
tutto. Una bella sensazione.
E
poi, quando l’aveva creduto morto era morto anche
qualcosa dentro di lui. E quando aveva scoperto che invece era vivo,
qualcosa
era improvvisamente rinato. E sentiva che se l’avesse perso
di nuovo non si
sarebbe più ripreso.
Si
passò le mani sulla faccia e si girò su un
fianco. Ma che diamine gli stava succedendo? Lui non era gay e non
aveva mai
provato attrazione verso gli uomini. Ma verso Sherlock sì,
fin da quando l’aveva
conosciuto aveva provato qualcosa per lui, ma l’aveva sempre
attribuito alla
ammirazione che provava nei suoi confronti e a quella sorta di invidia
per il
suo essere sempre così impeccabile.
Non
poteva provare queste cose per Connie? Lei era
una ragazza ed era carina… ma soprattutto sarebbe stato
più facile, con lei.
Da
quanto, poi, non
usciva con qualcuna? Troppo… forse era proprio per questo
che sentiva queste
sensazioni per Sherlock.
Bene, allora domani si sarebbe rimesso sulla pista.
MILLY’S
SPACE
Sarò
breve visto che è tardi.
Ebbene, si è scoperto il segreto di Connie, ma immagino che
qualcuno di voi l’avesse
già intuito. Ma le sorprese non finiscono qui ^^
Purtroppo
noto che non mi lasciate delle recensioni, il
che mi dispiace. Potete anche dire che non vi piace o darmi consigli,
quello
che volete : ) accetto
tutto (be’, quasi).
Be’, detto questo, vi ricordo solo di venirmi a trovare sulla
mia pagina
facebook così potete vedere le altre storie che ho
pubblicato e a breve ci
metterò le foto di Connie.
Un
bacione,
M.
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Capitolo 6 *** Capitolo sei ***
CAPITOLO
SEI
“Ma
possibile che non ti abbia detto niente?”
“Che
cosa avrebbe dovuto dirmi?”
“Be’,
perché è qui, per esempio”.
Sherlock
cercò di non lasciar trapelare tutta la
frustrazione che stava provando in quel momento e faticò a
trattenersi dal sbattere
la testa contro il muro. Ma perché Mycroft doveva essere
così frustrante? E,
soprattutto, così insistente?
“Me
l’hai già chiesto un centinaio di
volte”, gli
fece notare il detective, appoggiato con i gomiti sul camino, lo
sguardo fisso
sul suo teschio.
“Tu
non me lo vuoi dire”.
“Non
so perché sia tornata”.
“Tu
che non sai qualcosa?” abbaiò Mycroft con un
sorrisetto sardonico. “Da quando?”
Il
fratello, allora, si voltò di scatto verso di lui
e lo fulminò con lo sguardo. “Ma perché
ti ostini? Magari è tornata perché
voleva tornare”.
“Lei
non fa niente senza un motivo!” L’unica cosa
che tratteneva il fratello maggiore dall’urlare erano le
buone maniere. E perché
non gli andava che tutti in Baker Street sapessero dei loro affari. In
quel
momento sopraggiunse anche John che, da quando i due Holmes si erano
messi a
litigare, aveva fatto in tempo a farsi la doccia e cambiarsi.
“Lo
dici tu questo? Non sei mai stato buono nelle
intuizioni”.
“Lo
dico perché la conosco”.
“Ne
sei sicuro?”
Mycroft
si zittì di colpo, non tanto per le parole
del fratello ma per lo sguardo che gli aveva lanciato. Aveva
assottigliato gli
occhi, come se lo volesse minacciare o come se cercasse di fargli
capire che
nascondeva qualcosa. Il che era più probabile, ormai aveva
capito che c’era
qualcosa che non gli diceva.
“Lei
non è una brava persona”.
“Non
lo sono nemmeno io”.
“Lo
sai di cosa parlo”.
“No,
non lo so. E nemmeno tu lo sai. Non sai un bel
niente, Mycroft”.
Sherlock
si buttò sulla sua poltrona e fissò lo
sguardo di fronte a sé per far capire all’altro
che voleva essere lasciato in
pace.
“Cerca
di scoprire perché Constance è qui”,
concluse
infine Mycroft voltandosi verso la porta per andare via. Ma qualcosa lo
lasciò
completamente paralizzato lì sul posto.
“Connie!” esclamò, gli occhi
spalancati. “Da quanto sei qui?”
“Da
un po’”, rispose lei con voce ferma e in tono
duro. La sua espressione lasciava chiaramente intendere che non era
rimasta del
tutto indifferente, sembrava per lo più arrabbiata, ma il
corpo avvolto nel
lungo cappotto era scosso da alcuni tremiti.
“Hai
sentito?”
“Ho
sentito quello che bastava, Mycroft”.
“Meglio
che me ne vada”.
“Sì,
vattene. Scappa, l’hai sempre fatto bene”. Lo
disse in modo tagliente, ma non lo urlò. Il che rese la
frase ancora più
terribile.
Mycroft raggiunse la porta d’ingresso in poche falcate e le
passò accanto senza
guardarla. Lei invece lo squadrò da cima a fondo coi suoi
occhi di ghiaccio.
John corse dietro all’uomo prima che questi se ne andasse.
“Mycroft,
aspetta!” lo richiamò quando era già in
strada. L’altro si voltò a guardarlo piuttosto
stizzito. "Perché ce l’hai
con lei? E’ tua sorella”.
Holmes
roteò gli occhi da una parte all’altra poi
riportò lo sguardo sul dottore. “Non intrometterti
in affari che non ti
riguardano”.
John
avrebbe voluto rispondergli che quelli erano
affari che lo riguardavano, visto che ormai faceva parte della vita di
Sherlock, ma Mycroft sparì dentro la sua auto che si immise
nel traffico. Ma in
ogni caso sarebbe stato fiato sprecato.
Perciò tornò di sopra dove trovò
l’amico ancora seduto sulla poltrona e lo
sguardo perso nel vuoto. Connie invece non c’era.
“Dov’è
andata?” chiese al moro.
“Dalla
Signora Hudson”, rispose lui come se fosse la
cosa più normale del mondo e lei frequentasse abitualmente
la Signora Hudson.
“Dalla
Signora Hudson? Dovresti parlarle tu!”
“Alla
Signora Hudson?” Sherlock alzò gli occhi su di
lui, confuso.
“No,
a tua sorella!” rispose John, aggiungendoci un idiota,
mentalmente. “Dovresti
consolarla”.
Il
detective sembrò soppesare le sue parole con
certo interesse, poi si alzò e uscì anche lui
dall’appartamento.
“Immagino
che vogliate parlare”, disse la Signora
Hudson quando vide Sherlock fare capolino dalla porta. “Vi
lascio soli”. L’anziana
abbandonò la sua cucina e uscendo scambiò uno
sguardo d’intesa con Sherlock che
ricambiò sorridendo. Poi lui si sedette al posto della sua
padrona di casa,
accanto a Connie che stringeva tra le mani una tazza di tè
caldo.
Restarono per qualche tempo in silenzio, ognuno che evitava
accuratamente lo
sguardo dell’altro, anche se ogni tanto si guardavano di
sottecchi.
“Mycroft
è stupido”, sbottò infine Sherlock
interrompendo il silenzio.
“Questo
lo avevamo capito già da piccoli”.
Il
detective pensò che forse doveva dire qualcosa di
un po’ più confortante, ma proprio non gli veniva
in mente niente. Lui non era
bravo in quelle cose. Perché non poteva pensarci John?
“Non
devi dargli ascolto”.
“Ho
smesso di farlo da molto tempo”.
Ok,
non stava funzionando.
In
quel momento, però, Connie poggiò una mano sulla
sua e fissò i suoi occhi in quelli del fratello, identici ai
suoi. “Non devi
preoccuparti per me, Sherly”.
Sherlock
si morse il labbro inferiore, sentendo una
strana e poco piacevole sensazione afferrargli lo stomaco.
“Devo invece. Tu l’hai…”.
“Non
importa”, lo interruppe la ragazza con un
sorriso rassicurante. “Non importa. E in ogni caso Mycroft ha
ragione”.
Il
detective inclinò il capo confuso.
“C’è
un motivo se sono qui”, ammise infine Connie
con un sospiro. Ormai era arrivato il tempo di rivelarlo.
“Aspetto un bambino”.
Sherlock
sbatté le palpebre un paio di volte
cercando di assimilare le sue parole. Poi strinse più forte
la mano della
sorella tra le sue, senza rendersene conto.
“Oh”.
“Già.
Pensavo lo avresti capito”.
Capire?
Perché avrebbe dovuto capirlo? Quando Connie
voleva, sapeva nascondere bene le cose, persino a lui. E comunque non
si era
impegnato a capire come mai lei fosse tornata a Londra, né
se ci fosse qualcosa
di diverso in lei. In tutti i sensi. Non come aveva fatto Mycroft,
almeno.
“John!
Smettila di origliare, ti ho sentito!” gridò
a quel punto, rivolto alla porta. John, con l’espressione
tipica di un bambino
quando viene colto con le mani nella nutella prima di cena,
uscì fuori dal suo
nascondiglio e sorrise mesto. Connie scoppiò a ridere, forse
più per la sua
espressione che per altro.
“Raccogli
quella faccia da cucciolo maltrattato e
vai a ordinare la cena. Ho voglia di cinese. E anche il pargolo che sta
dentro
a mia sorella”.
Il
dottore non se lo fece ripetere due volte e
scattò come una molla.
La
ragazza intanto si asciugava le lacrime per le
risate. “John è una bella persona”.
“Sì,
è vero”.
“Ti
piace?”
“Sì”.
Connie
gli sorrise e lui ricambiò, ma non intuì che
nel suo sorriso c’era molto di più di quello che
lei volesse fargli intendere. Aveva
capito quello che il fratello nascondeva persino a se stesso. In fondo,
il suo
fratellino era ancora recuperabile.
“Sherly?”
“Sì?”
“Dimmi
che mi vuoi bene”.
Sherlock
guardò l’orologio a cucù appeso al muro
senza in realtà vederlo, e poi si alzò in piedi.
“Andiamo a mangiare”.
“Dove
sei stata dopo che hai lasciato Londra?”
chiese John, mettendo in bocca un po’ di riso. Lui, Sherlock
e Connie erano
seduti attorno al tavolo della cucina e mangiavano la cena ordinata dal
dottore
chiacchierando del più e del meno.
“In
giro”, rispose la ragazza. “In Francia, in
Italia, in Germania, ma soprattutto negli Stati Uniti, a New
York”.
“Pff,
l’America, terra del consumo e del cibo
confezionato”,
commentò il consulente detective.
“Il
cibo inglese non è tanto meglio”, gli fece
notare la sorella.
“Almeno
noi non siamo grassi come gli americani”.
“No,
ma gli americani sono più virili”,
ridacchiò
lei maliziosa. “O almeno quello con cui uscivo io lo era. Per
l’appunto mi ha
messo incinta”.
E
a quel punto calò il silenzio, nemmeno una mosca
si sentiva ronzare.
“Chi
era?” chiese Sherlock.
“Uno
stronzo. Gli piaceva scopare per lo più, bere e
guardare il football. Però era passionale”. Lo
sguardo di Connie sembrò
perdersi da qualche parte, lontano, in ricordi piacevoli ma anche
dolorosi. “Sapeva
come farmi ridere e divertire, mi emozionava. E aveva un modo di vedere
le cose
che mi piaceva”.
Ti
somigliava, Sherlock, da questo punto di vista.
“Ma
era uno stronzo”.
“Sì,
era uno stronzo. Mi ha lasciata dopo che ha
scoperto che sono incinta”.
Mycroft
correva sul suo tapirullan quando vide il
cellulare illuminarsi. Scese dal macchinario e lo afferrò
dal tavolo, scoprendo
che era un messaggio.
Sherlock:
Connie è incinta.
L’uomo
assottigliò le labbra e rispose velocemente. “Lo
sapevo, che nascondeva qualcosa”.
Sherlock:
Resta il fatto che tu non sai niente di
lei.
Capiva
perché Sherlock
si ostinasse a volerla difendere tanto; aveva sperato che in quegli
anni se la
fosse dimenticata, che quella strana… cosa che provava per
lei fosse andata
via. E invece, scopriva che non era così. E forse non lo era
mai stato.
Avrebbe dovuto fare qualcosa, adesso.
MILLY’S
SPACE
Salve.
Aggiorno
di nuovo. Volevo farlo prima di partire per la
Spagna e spero di trovare qualche recensione al mio ritorno. Vi lascio
anche il
link per la mia pagina facebook
(https://www.facebook.com/MillysSpace?ref=hl)
perché
adesso metto le foto
di Connie.
Un bacione,
M.
|
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Capitolo 7 *** Capitolo sette ***
CAPITOLO
SETTE
Quando
John Watson rientrò nel 221B quella sera
trovò Sherlock e Connie seduti sul divano, al buio, di
fronte alla tv che
discutevano su un programma che stavano trasmettendo sulla BBC.
“Secondo
me è stata la moglie”, disse la ragazza in
tono deciso.
“No”,
la contraddisse Sherlock.
“No?”
“No.
È troppo banale e poi il vicino di casa ha
tutti i motivi per ucciderlo”.
“Oh,
fratellino quanto sei ingenuo! Questi stupidi
programmi televisivi sono il massimo della
banalità”.
Il
dottore, passando in cucina, lanciò un’occhiata
al televisore e vide che stavano guardando quel nuovo programma che
avevano
iniziato a trasmettere da poco in cui veniva inscenato un omicidio con
diversi
indagati e il pubblico da casa doveva cercare di capire chi era stato.
Una cosa
divertente, Sherlock aveva passato diverse serate guardandolo.
“John,
facci il tè”, urlò Sherlock senza
togliere
gli occhi dallo schermo. L’uomo era convinto che non si fossero nemmeno
accorti del suo
arrivo, tuttavia non era così e in un certo senso gli fece
piacere che Sherlock
se ne fosse accorto, anche se la sua mente era concentrata su altro.
Così si
mise a fargli il tè esattamente come piaceva a lui, con due
zollette di
zucchero e un po’ di latte.
Quando lo ebbe servito sia a lui che a Connie, il detective gli
indicò il posto
accanto a lui sul divano e gli disse di sedersi.
John si accomodò e soffiò sulla propria tazza di
tè caldo, poi rimase a
guardare il profilo di Sherlock. Era seduto come sedeva al solito, ma
meno
composto e più rilassato e aveva una spalla appoggiata a
quella della sorella,
il che era strano perché di solito evitava contatti con le
persone, a meno che
non fosse necessario.
Rimasero
a guardare il programma finché non fu conculso,
scoprendo alla fine che Sherlock aveva avuto ragione, ma John non si
concentrò
molto sulla televisione. Era più preso dal detective e ogni
tanto aveva avuto
la tentazione di poggiargli una mano sulla gamba o di abbandonare la
testa
sulla sua spalla, ma aveva sempre resistito.
Almeno finché non lo trovò addormentato col capo
poggiato sullo schienale.
Connie aveva acceso la luce ed era andata a lavarsi i denti in bagno.
John era
rimasto ad osservare il coinquilino per un po’, beandosi
dell’espressione che
aveva mentre dormiva. Quella era la prima volta che lo vedeva dormire e
doveva
ammettere che era una visione che non si sarebbe mai scordato. E anzi,
prese il
cellulare dalla tasca e gli scattò una foto. Poi si sedette
sul bordo accanto a
lui e gli accarezzò i riccioli molto delicatamente
perché non si svegliasse.
Tuttavia Sherlock aveva un sonno leggerissimo e subito
cominciò a muoversi.
John
spostò velocemente la mano e lo osservò
stiracchiarsi. Sherlock sbatté un paio di volte le palpebre
e rimase a guardare
l’altro con occhi assonnati. Era la scena più
tenera che il dottore avesse mai
visto e cercò di memorizzarla in ogni più piccolo
dettaglio perché sicuramente
non gli sarebbe più ricapitato.
“Mi
sono addormentato?” chiese il consulente con
voce impastata.
“Sì”.
“Oh”.
“Perché
non vai a dormire?”
“Sì,
lo farò”. Sherlock si alzò lentamente e
con
passo strascicato arrivò fino alla soglia del salotto. Poi
si girò di nuovo
verso John e, col capo inclinato da un lato, gli chiese:
“Vieni a rimboccarmi
le coperte?” sparendo prima che l’altro potesse
dire qualcosa. John rimase a
guardare il punto da cui l’altro era sparito pensando che
sì, gli avrebbe
rimboccato le coperte e anzi, se gliel’avesse chiesto avrebbe
anche dormito
accanto a lui tenendolo stretto tra le braccia.
La
sera dopo, visto che era sabato, Connie, John,
Lestrade, Anderson, Sally e Molly si erano ritrovati in un pub a bere e
a
chiacchierare del più e del meno. Erano seduti attorno a un
tavolino dove la
musica arrivava leggermente più attutita mentre tutte le
altre persone attorno
a loro erano impegnate a ballare.
“Dai,
raccontaci qualcosa su Sherlock”, esclamò ad
un certo punto Sally guardando in direzione di Connie. E subito gli
altri
ammutolirono, l’attenzione tutta rivolta a lei.
“Non
mi piace raccontare i fatti di mio fratello”,
disse lei però, lasciandoli tutti un po’ delusi.
“E poi lui è sempre molto
riservato”.
“Questo
sì, ma com’era da bambino?” chiese
Lestrade
finendo la sua birra.
“Be’…”,
iniziò la ragazza esitando. “Era un bambino
un po’ complicato”.
“Perché?
Adesso non lo è?” scherzò Anderson ma
nessuno
rise e, anzi, Connie gli lanciò un’occhiata storta.
“Avevamo
un bel rapporto io e lui. Ci capivamo, ci
confidavamo…”, lo sguardo della ragazza si perse a
fissare una macchia sul
tavolo e un improvviso velo di malinconia sembrava esserle sceso
davanti. “Era…
bello. I nostri genitori non erano molto presenti così
dovevamo contare l’uno
sull’altro”.
“E
Mycroft?” chiese John, ora molto curioso di
sapere com’era l’infanzia del suo migliore amico.
“Mycroft
era… era il classico figlio prediletto,
quello che faceva sempre le cose come dovevano essere fatte e che non
sbagliava
mai niente. Era duro, serio, distaccato”.
“Oh”.
“La
nostra infanzia non è stata molto bella e
l’adolescenza ancora meno. Almeno per me e
Sherlock”.
“Mi…
mi dispiace”, sussurrò Molly facendosi udire
appena. Ma Connie riuscì a sentirla bene lo stesso e le
sorrise dolcemente.
“Non importa. Ora non è più
così. Ora siamo entrambi felici e abbiamo tutto
ciò
che ci serve”.
La
ragazza cercò di smorzare la tensione che si era
venuta a creare ma gli altri difficilmente si sarebbero dimenticati di
queste
parole. Forse per questo Sherlock era così
com’era, complicato, indifferente e
sociopatico.
E John avrebbe voluto saperne di più.
“Molly?”
chiamò ad un tratto Connie. “Ti va di
venire a ballare?” La ragazza accettò volentieri e
si diresse con la mora verso
la pista da ballo.
“Sally,
andiamo anche noi?” chiese Anderson porgendo
una mano alla ragazza seduta accanto a lui.
“D’accordo”.
John
e Greg si ritrovarono soli seduti al tavolo, il
silenzio sceso di colpo. “Per quanto io possa conoscerlo,
Sherlock per me
rimarrà sempre un mistero”.
“Già”.
In
quel momento videro sbucare la chioma riccioluta
e il lungo cappotto di Sherlock che si sedette accanto a loro sulla
sedia
lasciata libera da Molly.
“Sherlock!”
esclamò John sorpreso. “Che ci fai qui?”
“Dove
sono i tizi mascherati che hanno sbarrato il
locale minacciando di uccidere tutti?” chiese il detective
guardandosi attorno
con fare schifato.
“Quali
tizi?”
“Di
che stai parlando?”
Sherlock
aprì la bocca come per dire qualcosa ma
rimase semplicemente a boccheggiare come un pesce fuor
d’acqua. Connie gli
aveva mandato un messaggio dicendogli che il locale era stato preso
d’assalto
da dei pazzi assassini e lui si era precipitato lì. Ma a
quanto pareva era solo
una scusa per farlo venire in quel posto puzzolente e pieno di persone.
E
infatti, ballando insieme a Molly tra la moltitudine di persone, la
sorella lo
guardava con un sorrisetto beffardo salutandolo con la mano.
“Non
importa”, concluse il moro allungando la mano
verso la birra di John e trangugiando l’ultimo sorso senza
neanche chiedergli
il permesso. “Avete trovato chi ha ucciso quel
ragazzo?” chiese rivolto a
Lestrade.
“Ci
stiamo lavorando. Sotto le unghie della vittima
ci sono delle tracce di pelle che forse appartengono
all’assassino. Molly le
deve analizzare e poi lo scopriremo”.
“L’ho
sempre detto che voi siete lenti a fare il
vostro lavoro e che perdete un sacco di tempo”,
commentò Sherlock in tono
impassibile. Ma né John né Greg lo rimbeccarono,
ormai abituati alle sue
offese, soprattutto quest’ultimo.
“Ti
va se andiamo a mangiare qualcosa? Sto morendo
di fame”, chiese Connie in tono vivace affiancandosi a John
che l’aspettava sul
marciapiede di fronte al Bart’s. La ragazza doveva fare
un’ecografia al bambino
e John aveva deciso di accompagnarla al posto di Sherlock visto che, il
detective, aveva detto di avere una cosa importante da fare. A Mycroft
non
aveva nemmeno osato chiederlo.
“D’accordo.
Ti va la cucina italiana?”
“Sì,
perché no?”
Camminando
con passo tranquillo, si diressero lungo
il marciapiede costeggiando l’ospedale e passando poi accanto
a un negozio di
antiquariato. Durante la passeggiata rimasero in silenzio, ognuno
immerso nei
propri pensieri, mentre Connie lanciava occhiate alle vetrine, ogni
tanto.
Quando
finalmente giunsero da Angelo, il dottore
aprì la porta alla ragazza trovando subito due posti
appartati per sedersi.
“John!
Lei è la tua nuova conquista?” esclamò
il
proprietario non appena lo vide, avvicinandosi al loro tavolo con il
blocco
delle prenotazioni.
John gli sorrise imbarazzato. “Veramente lei non è
la mia… ragazza. È la
sorella di Sherlock”.
Angelo
guardò la ragazza per qualche secondo, poi le
sorrise amabilmente. “Incantato di conoscerla,
Milady”, fece l’uomo con fare
teatrale. “Non sapevo che il signor Holmes avesse una
sorella. Soprattutto così
bella”.
Connie
ridacchiò divertita. “Lei è troppo
gentile. Se
continua così potrei cadere accidentalmente tra le sue
braccia”, disse con fare
civettuolo e uno sguardo malizioso.
“No,
meglio di no. Altrimenti poi chi lo sente quell’altro.
Che cosa prendete?”
I
due ospiti ordinarono il loro pranzo e poi si
rilassarono sulle proprie sedie. “E’ una bella
giornata oggi”, commentò John
guardando attraverso la vetrina. Non aveva voglia di passare altro
tempo in
silenzio, ma non sapeva nemmeno di cosa avrebbe potuto parlare. O
meglio, lo
sapeva ma non poteva introdurre quell’argomento come nulla
fosse.
“Sì,
ottima per fare una passeggiata”, confermò
Connie.
John
improvvisamente si voltò verso di lei e,
torturando un tovagliolo, le chiese. “Cosa hai intenzione di
fare adesso? Col bambino,
intendo?”
La
ragazza sembrò rimanere piuttosto sorpresa di
quella domanda, almeno per qualche momento. “Non…
non lo so. È mio figlio e non
voglio darlo via. Immagino che mi dovrò trovare un lavoro e
un posto dove
abitare. Non posso restare sempre da voi”.
“Per
me non c’è problema. E nemmeno per Sherlock. Solo
che il divano non è così comodo”.
“Sto
bene sul divano. Ma non voglio gravare te e mio
fratello della presenza di un bambino”.
John
abbassò lo sguardo sul proprio piatto vuoto,
pensieroso. Non gli dava fastidio che Connie vivesse con loro, gli
piaceva ed
era una brava persona. Solo che gli mancava un po’
quell’intimità che aveva con
Sherlock, quel loro confabulare insieme sui casi bevendo il
tè ognuno sulle
proprie poltrone. Adesso, invece, ogni volta che tornava a casa, doveva
aspettarsi di trovare una seconda persona che magari avrebbe preso il
suo
posto. E oltretutto gli pareva che Sherlock fosse diventato ancora
più
misterioso e cupo di quanto non lo fosse prima. La presenza della
sorella non
gli era del tutto indifferente.
“Comunque…”,
sospirò il dottore. “Se hai bisogno di
qualcosa, qualsiasi cosa, io ci sono. E anche Sherlock”.
“Lo
so”, gli sorrise Connie. “Lo so. Ma dimmi una
cosa”.
“Cosa?”
“Da
quanto tempo conosci mio fratello?”
“Da
circa quattro anni?”
“Ed
è sempre stato così?”
“Così
come?” Non capiva dove la ragazza volesse
andare a parare, ma intuiva che voleva chiedergli qualcosa di serio.
“Be’,
così come è”.
John
parve pensarci un attimo. “Direi di sì. Sherlock
è sempre stato Sherlock. Un sociopatico
iperattivo”.
Sul
viso di Connie passò una smorfia fugace. “No,
non è così. Sta dando un’idea sbagliata
di sé”.
L’uomo
aggrottò le sopracciglia confuso. “E
com’era
da giovane?”
“Era…”,
di nuovo un velo di malinconia coprì gli
occhi della ragazza. “Era il ragazzo più fragile
che avessi conosciuto,
sensibile, un po’ arrogante, ma… speciale.
Sì, Sherlock è sempre stato speciale
e chissà perché tutti sembravano averne
paura”.
Forse
un giorno avrebbe convinto Connie a
raccontargli tutta la storia o forse l’avrebbe fatto Sherlock
stesso. Stava di
fatto che ne sarebbe venuto a conoscenza perché sapeva che
nella giovinezza del
detective c’era qualcosa… qualcosa di
fondamentale, qualcosa che aveva cambiato
tutto.
“E
dimmi un’altra cosa, John”.
“Cosa?”
“Sei
innamorato di mio
fratello?”
MILLY’S
SPACE
Hola
a todos : ) confesso che non sono molto soddisfatta
di questo capitolo, ma non volevo farvi attendere troppo e oltretutto
credo di
non avere modi migliori per scriverlo. In ogni caso, me lo direte voi.
Ho in
mente un sacco di idee, ma devo trovare la maniera adatta per metterle
insieme
e, soprattutto, mi devo ricordare di non affrettare le cose ^^ almeno
tra John
e Sherlock.
Spero
mi lascerete qualche recensione, per me sono molto
importanti.
Un
bacione,
M.
MONKEY_D_ALYCE:
ehi, mi fa piacere che lo scorso capitolo ti sia piaciuto : ) cosa mi
dici di
questo. Comunque sì, Connie è incinta ed il primo
che l’ha saputo è stato
Lestrade. Vorrà dire qualcosa? Mah ^^ e Sherlock
è più tenero di quello che si
pensa xD
Un bacione, Milly.
|
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Capitolo 8 *** Capitolo otto ***
CAPITOLO
OTTO
Quando
Connie rientrò a casa quel pomeriggio, trovò
Sherlock e John seduti sulle loro poltrone, come al solito, e una donna
che lei
non aveva mai visto accomodata su una sgangherata sedia di legno di
fronte ai
due uomini. Sembrava piuttosto sconvolta, cercava di trattenere le
lacrime con
un fazzolettino di cotone in mano. Di aspetto era piuttosto
insignificante, era
una di quelle donne di cui ti scordi appena smetti di guardarla, e
parlava, o
meglio, singhiozzava, di un cane dalmata a cui lei voleva bene come ad
un
figlio.
Sherlock non la stava guardando e pareva che non la stesse nemmeno
ascoltando.
John sembrava essere nella stessa situazione; aveva un braccio
appoggiato al
bracciolo della poltrona e con la mano si reggeva la testa. fissava la
donna, ma
sembrava non vederla.
Connie
si diresse quatta quatta verso la cucina e
rimase ad osservare la scena. Nessuno si voltò verso di lei,
il che le fece
dedurre di non essere stata notata o quantomeno di non aver attirato
l’interesse. Meglio così, voleva godersi lo
spettacolo e capire che cosa
esattamente stesse succedendo.
Ad
un tratto la sconosciuta tirò un singhiozzo
decisamente più lungo e più fastidioso degli
altri, il che fece spazientire
parecchio Sherlock che si riscosse tutto d’un colpo ed
esclamò: “Non mi
interessa! Il prossimo!”
L’espressione
che assunse la donna era forse la più
comica che Connie avesse mai potuto vedere e sarebbe scoppiata a ridere
se non
avesse espresso così tanta drammaticità. Era
rimasta a fissare il detective con
la bocca spalancata e le mani a mezz’aria.
Con qualche scusa molto gentile e dispiaciuta, John riuscì a
mandarla via
facendo accomodare subito dopo un altro ospite, un uomo sulla trentina
ma già
calvo in cima alla testa ed evidenti problemi di alitosi.
“Cinque
anni fa la mia fidanzata è morta”,
iniziò
l’uomo non appena si fu seduto sulla sedia ed ebbe ricevuto
tutta l’attenzione
dei due. “Tutti dicono che si sia trattato di suicidio ma io
non ci credo. La
mia Betty non l’avrebbe mai fatto. È vero, aveva
qualche problema di fiducia e
piangeva spesso ma non si sarebbe mai suicidata. Qualcuno
l’ha uccisa, ne sono
sicuro, ma la polizia non ha voluto indagare”.
“Forse
si è uccisa per non dover sopportare il suo
alito”, commentò Sherlock sottovoce e solo John
riuscì ad udirlo.
“Come?”
chiese l’uomo che l’aveva sentito
borbottare.
“Niente,
niente. Vada avanti”.
“Betty
è stata uccisa”, ripeté
l’altro cercando di
mostrare un’espressione convinta. Poi non aggiunse altro e
Sherlock rimase ad
osservarlo aspettandosi che parlasse ancora.
“Quindi?” gli intimò.
“Betty,
la mia Betty è stata uccisa”.
“Sì,
questo lo ha già detto”.
L’uomo
abbassò il capo, imbarazzato.
“Che
cosa glielo fa credere, che sia stata uccisa?”
chiese John a quel punto.
“Ecco…
niente di concreto a dire il vero. Solo il
mio sesto senso”.
“Il
suo sesto senso?” ripeté Sherlock quasi
istericamente. Poi prese un grosso sospiro e cercò di
calmarsi. “Per caso la
sua fidanzata andava da un analista?”
“Sì,
ma…”.
“E
prendeva degli antidepressivi?”
“Sì,
ma…”.
“Allora
si è trattato di un suicidio. Mi dispiace.
Il caso è chiuso”.
“Ma…”.
Sherlock
mostrò all’uomo il palmo aperto della sua
mano e con uno scatto la chiuse a pugno, al che l’altro
ammutolì di colpo.
John lo accompagnò alla porta e rientrò di nuovo,
ma questa volta da solo.
“Non
ci sono altri clienti, Sherlock”.
“Maledizione!”
esclamò il detective alzandosi dalla
poltrona. “Possibile che non accada niente di interessante?
Che me ne faccio di
cani scomparsi e fidanzate suicide? Mi annoio!” Si
buttò sul divano e rimase a
fissare il soffitto.
Il
dottore raggiunse Connie in cucina e si versò il
tè ormai freddo in una tazza. “Che cosa
succede?” chiese la ragazza. “Chi era
tutta quella gente?”
“Possibili
clienti. Ma ora non più. Mettiamo degli
annunci su internet e a volte la gente gli chiede se può
risolvere qualche
crimine a cui sono andati incontro e che non si sono mai risolti. Ma i
più
vengono solo per incontrare Sherlock”.
“Capisco…”,
annuì la ragazza mettendo enfasi sulla
parola.
Raramente
però capitava che, tra i clienti che
venivano nel loro appartamento, riuscissero a trovare qualche caso
interessante. E adesso la situazione si faceva preoccupante
perché era da un
po’ che Sherlock non si trovava con qualcosa di interessante
tra le mani e John
temeva che si sarebbe messo a sparare al muro per la noia, o magari a
qualcos’altro.
“E
tu?” gli chiese ad un tratto Connie, guardandolo
con un’espressione che sembrava intenderla lunga.
“Io
cosa?”
“Incontrare
Sherlock?” disse a voce bassa.
“Di
che stai parlando?”
“Lo
sai benissimo”. La ragazza lo guardò maliziosa e
l’uomo voltò immediatamente il capo. Preferiva
evitare quel discorso, non
sapeva quanto fosse buono che proprio la sorella dell’uomo di
cui era
innamorato sapesse questa cosa.
“Vado
a farmi una doccia”, concluse John, lasciando
la tazza nel lavello e dirigendosi in bagno.
Connie
sospirò e andò dal fratello, sedendosi
accanto a lui sul divano.
“Ti
piace John?” gli chiese ad un tratto, col tono
più innocente possibile. Voleva farla passare come una
domanda casuale, ma
stava parlando con Sherlock, colui che deduceva sempre tutto. Infatti
il
fratello aprì gli occhi e la guardò perplesso.
“Perché mi chiedi questo?”
“Così,
tanto per parlare”.
Il
detective attese un attimo prima di rispondere.
“Sì, mi piace”.
“Ti
piace… quanto?”
L’uomo
si mise a sedere si scatto e reclinò il capo
osservando la sorella. “Mi piace. E’ mio amico. Non
ho voglia di rispondere a
domande inutili”. Non hai voglia di
rispondere a domande compromettenti, Sherlock. La
verità era che sì, John
gli piaceva, ma non sapeva come, né quanto. O meglio, non
voleva saperlo. Era
un pensiero che cercava di evitare il più possibile, ma
risultava sempre più
difficile farlo, specialmente quando John gli stava
d’attorno. Eppure voleva
sempre averlo attorno. Se ne era reso conto già da un
po’, da quella sua finta
morte, quando l’aveva dovuto lasciare. Prima si era abituato
alla sua presenza,
era diventato normale, quotidiano, una di quelle cose che lo
rassicuravano. Ma
poi… poi qualcosa era cambiato… e….
Il
suo cellulare squillò. Era un messaggio di
Lestrade: “Stiamo interrogando l’uomo che ha ucciso
quel ragazzo. Non vuole
parlare. Nasconde qualcosa”.
Il
detective alzò lo sguardo sulla sorella. “Vieni
con me?”
A
Sherlock non piaceva stare chiuso negli uffici
investigativi di Scotland Yard, non tanto per la presenza di tutte
quelle
persone che considerava inutili o stupide, quanto più
perché gli parevano
angusti e mal arieggiati. Non che soffrisse di claustrofobia, ma era
solo una
sensazione psicologica poco piacevole.
Perciò
ora, mentre parlava con
Lestrade, non vedeva l’ora di andarsene da lì e
non cercava nemmeno di evitare
di farlo capire. Passeggiava avanti e indietro per la stanza e lanciava
occhiate alla porta ogni trenta secondi.
“Avete
risolto il vostro caso. Non riesco a vedere
il motivo per cui io dovrei stare qui”.
Greg
sbuffò appoggiandosi contro lo schienale della
sedia. “Certo, l’omicidio è stato
chiaramente un incidente, ma…”.
“Ma
tu credi che ci sia dell’altro”, concluse
Sherlock per lui. Il detective investigativo allargò le
braccia facendogli
capire che aveva indovinato. In quel momento Sally Donovan
entrò nella stanza
portando una tazza di carta piena di tè che pose davanti al
viso di Connie,
seduta alla scrivania di Lestrade.
“E
hai bisogno del mio aiuto, come sempre”, aggiunse
il moro con un sorrisetto tronfio.
“Il
geniaccio ha parlato”, commentò Sally acida.
“Non
capisco perché continui a rivolgerti a lui”,
sospirò in direzione del suo capo.
“Donovan,
torna a leccare il culo ad Anderson. Nessuno
ha chiesto la tua opinione”.
Sally
lo guardò sconvolta e aprì bocca per
ribattere, ma venne interrotta da Connie che lo rimbrottò:
“Non essere
scortese, Sherlock!”
“Ha
iniziato lei”, si difese il fratello in tono
quasi infantile.
“La
vogliamo smettere con questi giochetti?” si
intromise Lestrade prima che la ragazza avesse il tempo di dire altro.
“Mettiamoci
a lavorare piuttosto”.
Sherlock
allora si parò di fronte al detective, a
qualche passo di distanza dalla scrivania e, con il tono più
autoritario che
gli uscì e uno sguardo glaciale, pronunciò:
“Fammi parlare con il tizio che
avete preso”.
“Non
capisco come tu abbia fatto a sopravvivere
tutto quel tempo con Sherlock”, sbottò Donovan
mentre lei, Connie e Lestrade
aspettavano fuori dalla stanza degli interrogatori che Sherlock finisse
di
parlare con l’uomo che era stato arrestato quella mattina.
“Non dirmi che da
piccolo era uguale”.
Connie
ridacchiò divertita. “No, non era
così”.
“Ah,
meno male. Ma che trauma ha subito per diventare
uno psicopatico?” La domanda di Sally era retorica e ironica,
ma la mora
abbassò lo sguardo e cercò di non far trapelare
quello che stava pensando,
ovvero che una risposta a quella domanda in verità
c’era, ben chiara e precisa.
Ma la detective non era certo la persona giusta a cui raccontarla.
“Comunque,
con Mycroft e lui non ci si annoiava mai.
Era sempre una competizione tra loro”.
“Povera
signora Holmes”.
Calò
il silenzio per qualche minuto, interrotto
soltanto dal ronzio del riscaldamento e dal vocio che proveniva dalla
stanza
affianco.
“Senti,
Connie…”, iniziò a un certo punto Greg,
avvicinandosi alla ragazza e abbassando la voce. “Non
è che… sì, insomma… mi
chiedevo se ogni tanto, quando hai tempo, ti andrebbe di bere qualcosa.
Dico così,
tanto per passare il tempo”.
Connie
restò a guardare il detective per qualche
attimo, poi gli sorrise teneramente. “Sì,
perché no? Tanto non ho niente da
fare”.
“Davvero?”
L’espressione di Lestrade mostrava una
certa sorpresa e forse anche un pochino di sollievo.
“Sì.
Ti lascio il mio numero, così mi chiami, se
vuoi”. La ragazza tirò fuori dalla borsa un foglio
di carta e una penna e si
mise a scrivere. Sally lanciò loro un’occhiata, ma
era parecchio distante per
udire di cosa stessero parlando. “Ma dimmi una
cosa…”, continuò Connie,
consegnando il foglietto all’uomo. “E’ un
caso difficile, questo?”
“Non…
non saprei. Abbastanza. Ma non posso parlarne
con te, mi spiace, sono informazioni riservate”.
“Oh,
certo, certo. Non volevo intromettermi. Solo…”.
La ragazza restò a fissare un punto di fronte a
sé, come incantata, poi sorrise
di nuovo al detective. “No, niente. Lascia
perdere”.
“C’è
qualcosa che ti preoccupa?”
“No,
non è niente”. Greg avrebbe voluto investigare
di più, ma in quel momento Sherlock uscì dalla
stanza con un’espressione di
pura soddisfazione.
“Allora,
che ti ha detto?” chiese Sally.
“Tasso”.
“Tasso?
Cosa vuol dire?”
“Non
lo so”.
Connie,
seduta sul sedile posteriore di un taxi
assieme al fratello, controllò l’ora sul cellulare
e lo ripose in borsa. Poi si
avvicinò di più a Sherlock e gli
appoggiò la testa sulla spalla.
“Sherly?”
chiamò.
“Hmm?”
“Sei
sicuro di voler lavorare su questo caso? È
pericoloso”.
“Ho
lavorato su casi più pericolosi”, le
ricordò il
detective, gli occhi chiusi e la mente concentrata.
“Sì,
ma… qui c’è di mezzo la
droga”.
Sherlock
capiva la preoccupazione della sorella, ma
era assolutamente infondata. Non sarebbe successo niente, non
più, glielo aveva
promesso. Non poteva deluderla. E non poteva nemmeno farsi sfuggire un
caso
così. Si prospettava qualcosa di difficile, di esaltante,
forse persino meglio
del caso Moriarty.
“Non
ti preoccupare, sorellina”.
E
allora Connie si
rilassò. Sì, ora poteva stare tranquilla,
perché glielo aveva detto Sherlock. Ma
soprattutto perché l’aveva chiamata sorellina.
MILLY’S
SPACE
Buonasera…
finalmente riesco ad aggiornare qualcosa. Purtroppo
la scuola mi porta via un sacco di tempo ed è difficile
destreggiarsi tra le
varie cose. Spero non avervi fatti arrabbiare troppo.
Ancora non siamo arrivati al clou della storia, ma non preoccupatevi,
ci sarà e
si scopriranno un sacco di scheletri nell’armadio ^^.
Voi
però, nel frattempo, lasciatemi qualche commento che
mi fa sempre piacere.
Un
bacione,
M.
MONKEY_D_ALYCE:
eh, Sherlock è bravo a dedurre l’esterno delle
persone, ma quando si parla di
sentimenti… mah, chissà ^^ vedremo. Sono contenta
che lo scorso capitolo ti sia
piaciuto. Fammi sapere cosa pensi di questo. Baci…
|
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Capitolo 9 *** Capitolo nove ***
CAPITOLO
NOVE
Connie
compiva gli anni quel giorno e così, alla
sera, aveva deciso di dare una piccola festicciola invitando le poche
persone
che aveva conosciuto nella sua breve permanenza a Londra. La signora
Hudson
aveva cucinato una torta e alcuni pasticcini e ora si trovava
nell’appartamento
che aveva affittato a Sherlock e John insieme a Molly, Lestrade e Sally
Donovan. Avevano appena finito di mangiare la pizza e chiacchieravano
amabilmente del più e del meno. Gli unici che,
però, mancavano all’appello erano
Sherlock e Mycroft, il primo sparito, come suo solito,
chissà dove e l’altro
perché, come ormai era chiaro a tutti, non voleva avere
troppi contatti con la
ragazza. La signora Hudson trovava davvero ignobile da parte loro non
presentarsi al compleanno della sorella e già si era
preparata un bel
discorsetto da fare ad entrambi quando li avesse visti. Connie invece
non
sembrava essersela presa tanto.
“E’
ora di mangiare la torta”, disse ad un certo
punto la proprietaria della casa, alzandosi scattante dalla sedia.
“Non
dovremmo aspettare Sherlock?” fece John,
pulendosi la bocca con un fazzoletto. Gli dispiace che
l’amico non ci fosse,
avrebbe reso la serata più divertente. Gli dispiaceva
ammetterlo, ma si
divertiva a volte a sentirlo offendere.
“Tanto
non verrà”, gli rispose Sally con una
smorfia.
“Be’,
si sta perdendo una festa magnifica”, aggiunse
la signora Hudson, poggiando il suo capolavoro sul tavolo. Al vedere la
torta,
tutti i presenti si leccarono i baffi, persino il bambino in grembo a
Connie
che ancora non aveva iniziato a notarsi.
Proprio
in quel momento, come se li avesse sentito,
Sherlock spalancò la porta e fece il suo ingresso entrando
come un’ombra scura
e minacciosa. Si girò verso la cucina e inclinò
il capo perplesso al vedere
tutta quella gente.
“Alla
buon’ora!” esclamò Lestrade, guardando
il moro
dall’alto in basso. Il consulente detective poggiò
il lungo cappotto sulla
poltrona e si accomodò al tavolo sull’unica sedia
libera, quella che avevano
tenuto per lui.
La
signora Hudson aveva appena finito di mettere le
candeline sulla torta, trent’uno per la precisione, e ora
John l’aiutava ad
accenderle.
“Dove
sei stato, Sher?” chiese Connie osservando
attentamente il fratello e notando che aveva gli occhi leggermente
rossi.
“In
giro”, rispose lui laconico, evitando il suo
sguardo. “Avevo delle faccende da sbrigare”.
“Così
importanti da saltare il compleanno di tua
sorella?” lo rimbrottò la signora Hudson. Al che
il moro mugugnò qualcosa di
incomprensibile.
“Forza,
Connie, esprimi un desiderio!” esclamò Molly
eccitata. Connie decise di lasciare perdere il fratello per quella sera
e puntò
gli occhi sulla torta illuminata da tutte quelle candele. Per qualche
secondo
piombò il silenzio nell’appartamento, poi la
ragazza gonfiò le guance e soffiò
con tutto il fiato che aveva, spegnendo le candeline in un colpo solo.
Gli invitati
applaudirono e qualcuno scattò le foto.
E poi, naturalmente, ci fu il taglio della torta e tutti i presenti se
ne
servirono una bella fetta, facendo i dovuti complimenti alla cuoca.
“Perché
non giochiamo a obbligo o verità?” propose
la festeggiata, mandando giù l’ultimo boccone di
torta. “Così vi conosco un po’
meglio”.
“E’
dal liceo che non faccio questo gioco”, disse
Sally improvvisamente illuminatasi.
“Io
mi astengo”, disse Sherlock, le braccia
incrociate sul petto.
“Oh,
avanti fratellino! Ti piaceva questo gioco da
piccoli. Facevi sempre domande imbarazzanti a Mycroft”.
“Sì,
ma Mycroft non c’è, quindi non mi
diverto”.
“Ci
divertiamo lo stesso”.
“Credo
che mi asterrò anche io”, disse la signora
Hudson. “Sono troppo vecchia per questo gioco”.
“Non
dica sciocchezze, Signora Hudson”, la
contraddisse Connie eccitata come una bambina. “Forza,
iniziamo!” Percorse con
lo sguardo tutti i presenti al tavolo due volte finché non
si fermò su Molly. Questa,
accorgendosene, tremò leggermente. Anche lei conosceva bene
questo gioco e
sapeva per esperienza che portava sempre a situazioni poco piacevoli.
“Molly. Qual
è il tuo film preferito?”
La
ragazza sembrò rimanere un attimo perplessa a
quella domanda, ma alla fine sospirò sollevata. Quella era
una domanda a cui
poteva rispondere facilmente. “Direi… Love
Story”.
“Oh,
troppo melenso”, fu il commento di Sherlock. “E
inutile”.
“Io
invece lo trovo un bel film”, gli rispose John,
guardandolo un po’ storto.
“Ah
sì?” Il detective pareva stranito.
“Sì.
Intenso”.
“Se
lo dici tu”.
“E
qual è il tuo film preferito, Sherlock?” chiese
allora Molly, interrompendo quello scambio di battute. L’uomo
parve pensarci un
po’. “Non credo di averne uno. I film sono
inutili”.
I
presenti sospirarono rassegnati. “Qualcuno faccia
una domanda imbarazzante a Sherlock!” disse allora Sally che
non vedeva l’ora
di prendere in giro il collega e magari vendicarsi di tutte le volte
che lo
faceva lui.
“Io
non rispondo a nessuna domanda”.
“Posso
dire io una cosa imbarazzante su Sherlock”,
esclamò allora Connie, ridacchiando già. Il
fratello, dal canto suo, alzava gli
occhi al cielo, ma non gli andava di rovinare l’entusiasmo
della sorella.
“Spara!”
Connie
ammutolì di colpo creando l’effetto
dell’attesa.
Poi sbottò: “In quarta liceo Sherlock è
stato bocciato”.
Questa
volta ad ammutolire furono tutti gli altri,
rimasti a fissare la ragazza come se improvvisamente le fossero
spuntate due
teste. Poi, come un sol uomo, scoppiarono
a ridere. “Nooo! Non è
vero”.
“E’
vero, invece!”
“Ma
come?! Non eri un genio?” Adesso gli sguardi
erano puntati tutti su Sherlock.
“Sì,
ma gli insegnanti lo odiavano”, rispose Connie per
lui. “Li contraddiceva sempre e diceva che erano
stupidi”.
“Insomma,
non eri tanto diverso da come sei adesso”,
fece notare Greg.
Le
labbra di Sherlock si piegarono in una smorfia
infastidita ma non disse niente. Sembrava essere di poche parole quella
sera
stranamente e ancora non aveva offeso nessuno. In un’altra
occasione forse
qualcuno se ne sarebbe anche accorto, ma erano tutti brilli ed eccitati
per
farlo.
Improvvisamente, però, il detective si alzò
facendo scricchiolare la sedia
contro il pavimento e, poggiate le mani sul tavolo, si protese verso
Connie
puntando i propri occhi chiari in quelli di lei. Allora la ragazza si
rese
conto di aver appena provocato un drago che dorme.
“Perché
non rispondi tu a qualche domanda?” ringhiò
l’uomo. “Che cosa sei venuta a fare qui?
Perché sei tornata? Cosa vuoi da me? E
perché non te ne vai?”
Gli
altri presenti restarono gelati sul posto, quasi
paralizzati.
“Io
non ti voglio qui e non ti vuole nemmeno
Mycroft. Tornatene a New York o dovunque to voglia andare, è
meglio. Stavo bene
senza di te e posso continuare benissimo!”
Dopo
di che calò il silenzio. Sherlock si ritirò e
tornò a sedersi, come un attore che ha finito di recitare la
propria parte e
ora si riposava, tranquillo. John, Molly, Sally, Lestrade e la signora
Hudson
scorrevano con lo sguardo da uno all’altro, sconvolti e
confusi. Volevano dire
tante cose ma non sapevano da che parte iniziare.
Connie, dal canto suo, sembrava altrettanto scioccata. Era abituata
alle
provocazioni del fratello, aveva capito che la sua presenza
lì non era tanto
gradita, però non si aspettava che arrivasse a questo punto.
Si
alzò lentamente dalla sedia e, guardando il
fratello come fosse un insetto schifoso, sputò in tono
gelido: “Se volevi
vendicarti ci sei riuscito”. Poi, senza guardare nessuno,
uscì dalla porta
senza neanche prendere la giacca.
Soltanto
allora gli invitati presero a muoversi e a
guardarsi attorno imbarazzati, senza sapere che fare. Anche Greg si
alzò dalla
sedia e decise di seguire Connie. Molly si mordeva il labbro e Sally
guardava
il detective con espressione delusa e contrariata.
“Sherlock”,
sospirò la signora Hudson, ma anche lei
stavolta era rimasta senza parole.
Sherlock,
invece, decise che era ora di levare le
tende e velocemente andò vero la sua stanza, senza dare
spiegazioni a nessuno.
“Stai
bene?”
Connie,
seduta sull’ultimo gradino davanti alla
porta d’ingresso, con la coda dell’occhio vide Greg
sedersi accanto a lei. Era venuto
a consolarla? Non aveva bisogno di essere consolata, non avrebbe certo
pianto. Però
le faceva comunque piacere che le tenesse compagnia.
“Sì.
Direi di sì”, sospirò la ragazza,
fissando una
macchia sul tappeto.
“Non
ascoltarlo. Sherlock è uno stronzo e davvero
non so come fai a sopportarlo. Non merita una sorella come te.
È perfido e non
ha rispetto. Non ha sentimenti”.
“Non
è vero”, lo contraddisse Connie con voce
debole, senza voltarsi a guardarlo. “Non è
vero”, ripeté. “Non è
perfido. Vi
sbagliate tutti su di lui, non è come mostra di
essere”.
Ma
come faceva quella ragazza ad essere così… buona
o forse ingenua? Lo perdonava sempre, infine e l’avrebbe
fatto anche questa
volta. Eppure Sherlock non se lo meritava, non questa volta. Ma magari
aveva
ragione lei, forse c’era qualcosa che gli altri non vedevano.
“Forse
però dovrei stargli lontana un po’”,
aggiunse
dopo un po’, malinconica.
“Be’”,
iniziò allora il detective. “Se ti va
puoi…
puoi venire da me. Ho una stanza degli ospiti. Sempre se ti va,
eh”.
Solo
allora Connie si voltò verso Greg,
sorridendogli dolce. “Va bene. Lasciami prendere le mie
cose”.
“Sherlock?”
chiamò John entrando cautamente nella
stanza dell’amico. Lo trovò seduto sul bordo del
letto, le spalle che davano
alla porta, la luce spenta e la stanza illuminata solo dalla debole
luce del
lampione fuori.
Il dottore gli si avvicinò cautamente, come se temesse di
scatenare di nuovo la
sua ira.
“Perché
hai detto quelle cose? E’ tua sorella
e…”.
John non sapeva esattamente che dire. Sherlock era stato cattivo,
certo, ma…
voleva provare a capire anche lui, prima di saltare a conclusioni
affrettate,
ma era sicuro che il detective non gli avrebbe detto niente. Era sempre
stato
un mistero e da quando era arrivata Connie il mistero si era infittito
ancora
di più e questo gli dava sui nervi. Soprattutto ora che
aveva capito di essere
innamorato di un uomo che di certo non lo ricambiava.
Si
sedette sul letto anche lui, a poca distanza dall’altro.
Poi si protese per vederlo meglio in viso e sentì come uno
schianto nel proprio
petto. Sherlock aveva un’espressione tormentata, la
più tormentata che gli
fosse mai capitato di vedere sul viso di qualcuno,
un’espressione capace di
intristire anche la persona meno sensibile.
“Sherlock”,
pronunciò il suo nome come a volerlo
assaggiare. Gli pose una mano sul braccio per fargli sentire la sua
presenza e
si avvicinò un po’ di più.
E in quel momento, proprio in quel momento, il detective si
voltò verso di lui
e, approfittando del fatto che era decisamente più alto, lo
travolse buttandolo
di schiena sul letto. Poi, reggendosi sulle mani, si chinò
su di lui e poggiò
le proprie labbra su quelle di John. Questi si trovò ad
accogliere la sua
lingua prepotente senza quasi potersi opporre e, in realtà,
neanche avrebbe
voluto. Ma per un attimo pensò di star sognando. Non poteva
essere che Sherlock
lo stava baciando, era assurdo… e perché lo
baciava?
Eppure era lì. Sentiva il suo fiato che sapeva di sigaretta,
il suo buon odore
e quei capelli… quei capelli in cui aveva affondato la mano
erano così soffici
e…
“Scusa”,
soffiò il detective a pochi centimetri
dalle sue labbra. John non si era nemmeno accorto che si erano
staccati. “Vattene”.
E
l’ultima cosa che
John vide prima di lasciare l’amico nella sua solitudine,
furono i suoi
chiarissimi occhi tormentati, cerchiati da profonde occhiaie rossastre.
MILLY’S
SPACE
Ed
ecco finalmente una svolta tra John e Sherlock. Che dite?
Non è peccato se lasciate recensioni, eh, non vi mangio.
Ho bisogno di sapere se vi piace o no, altrimenti è inutile
continuare.
Un
bacione a tutti,
M.
|
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Capitolo 10 *** Capitolo dieci ***
CAPITOLO
DIECI
Quando
Connie uscì dall’ascensore, impegnata
com’era
a guardare il cellulare, non si accorse di star andando a sbattere
contro John,
che proprio in quel momento era sbucato davanti a lei, senza notarla
nemmeno
lui.
Finirono fianco contro fianco e per il contraccolpo rimasero qualche
attimo a
boccheggiare sorpresi.
“John!”
esclamò la ragazza spalancando gli occhi
chiari, sorpresa stranamente di trovare lì il dottore.
“Connie”,
fece l’uomo restando più composto. “Che
ci
fai qui? E’ successo qualcosa?”
“Niente,
ho solo fatto una visita”.
“Il
bambino sta bene?” l’espressione allarmata
dell’uomo
fece piacere alla ragazza, ma lei cercò subito di
rassicurarlo stampandosi sulle
labbra il sorriso più allegro che le potesse venire.
“Sì, stiamo bene tutti e
due. Stanotte ho avuto dei leggeri crampi, ma il medico ha detto che
è tutto a
posto. E’ solo un po’ di stress”.
John
parve subito dispiaciuto. La tirò in disparte,
accanto a una pianta, perché non venissero travolti dai
medici e dai pazienti
che passavano. “Oh, mi spiace. C’è
qualcosa che posso fare?”
Connie
aprì la bocca per dire qualcosa, ma all’ultimo
ci ripensò. Dopotutto, era John. A lui poteva chiederlo.
“Come sta Sherlock?”
È
incorreggibile, pensò il dottore. E’ incinta, non
ha un lavoro né una casa ma pensa solo al fratello. Non sapeva come gli fosse
venuto quel pensiero
ma lo pensava e pensava anche che fosse una cosa…
meravigliosa. Perché il
legame che c’era tra lei e Sherlock era qualcosa
che… qualcosa che lui non era
mai riuscito ad avere con sua sorella e forse nessun altro fratello. E
gli
faceva un po’ invidia, ma gli faceva anche piacere
perché c’era qualcuno in
grado di capire e di aiutare il suo amico. Perché questo era
chiaro, era chiaro
che Sherlock prima o poi avrebbe avuto bisogno di qualcuno che lo
conoscesse
meglio di quanto si conosceva lui.
Forse sarebbe stato lui, ma… sarebbe stato troppo bello. Non
sperava così
tanto, gli bastava soltanto sapere di avere ancora un pezzettino nel
mondo di
Sherlock, nel suo palazzo mentale, se lo sarebbe fatto bastare. Ma
ormai
sembrava star scomparendo anche quello.
“Sta…
sta bene”.
La
ragazza inarcò un sopracciglio guardandolo
storto. Aveva notato la sua esitazione.
“E’
solo un po’ nervoso. Tutto qua”.
La
verità è che mi evita. Ma
questo non glielo disse. Avrebbe
significato ammettere qualcosa che faceva male pure a lui. Dopo quel
bacio
Sherlock aveva iniziato ad evitarlo, a uscire più spesso, a
chiamarlo sempre di
meno ed evitava persino di guardarlo negli occhi, di parlargli se non
quando
era indispensabile.
Quel poco che erano riusciti a costruire si era incrinato e aveva
paura, paura
di perderlo totalmente. E la cosa che gli dava ancora più
fastidio era che con
Sherlock era difficile, se non persino impossibile, comunicare in
maniera
normale, guardarsi dritto in faccia e dirsi tutto. Ma forse non era
soltanto
colpa del detective, forse era anche sua, perché non aveva
il coraggio di
prendere veramente in mano la situazione. L’aveva rifuggita
anche lui.
“Sicuro?
Sono preoccupata”.
“Perché
non torni? Secondo me non è arrabbiato con
te, solo…”, rifletté, in cerca delle
parole giuste. “Gli è passata. Sai
com’è
fatto”.
“E’
meglio di no”, rispose Connie con un debole
sorriso. “Lasciamo passare ancora un po’ di tempo.
Anzi, forse non sarei
nemmeno dovuta tornare. Aveva ragione lui, io non ho più
niente a che fare con
questo posto o con lui. Non so cosa avessi sperato di
ottenere”.
Abbassò lo sguardo evitando anche lei lo sguardo
dell’amico. Ma si vedeva che
soffriva, che quello che aveva appena detto la turbava. Poteva
somigliare al
fratello quanto voleva, ma non era brava a nascondere le sue emozioni
come lui.
“Non
è vero”, la contraddisse John in tono deciso.
“Ha
bisogno di te solo che non lo ammetterà mai. Ti vuole bene.
E’ solo complicato”.
“Sì,
Sherlock è molto complicato”. La ragazza si
incantò a fissare un punto in distanza, mentre il dottore
rimase a tormentarsi
le mani non sapendo che altro aggiungere sull’argomento.
Così decise che era
meglio cambiarlo. “Ti trovi bene con Greg?”
“Sì,
certo. Ma se ho intenzione di rimanere qui mi
dovrò cercare un lavoro”.
“Spero
che tu rimanga”.
Si
sorrisero entrambi, come due complici. “Sai,
John, dovresti dirglielo”.
John la
guardò con espressione confusa. “Dire che cosa a
chi?”
“A
Sherlock che sei innamorato di lui”, gli rispose
lei come fosse la cosa più ovvia del mondo. Questa volta fu
il turno dell’uomo
abbassare lo sguardo. Non ne era tanto convinto, avrebbe potuto
rovinare le
cose ancora di più. “E a quale scopo? Lui non
prova lo stesso per me”.
“Sono
sicura che questo non è vero. Anche lui ti ama”.
“Lui
mi ama?” Non avrebbe mai pensato di sentire le
parole amare e Sherlock
nella stessa frase. Si sarebbe aspettato un “anche lui ci
tiene a te”, o “anche lui ti vuole bene”.
Ma amare era forte. E come facesse
Connie ad esserne così sicura era un mistero. O forse glielo
diceva perché le
faceva troppa pena.
“Certo!
E se facessi un po’ più di attenzione te ne
accorgeresti”.
Già,
forse, peccato che ora come ora era un po’
difficile. Era passata quasi una settimana e ancora non avevano parlato
di quel
bacio. Ma John era sicuro che per il detective non era significato
niente; non
era nemmeno in sé quando glielo aveva dato.
Evitò anche di dire a Connie che da un paio di giorni aveva
iniziato a
frequentare un’altra persona, un’infermiera che, da
quando le aveva chiesto di
uscire, non faceva che lanciargli occhiatine ogni volta che gli passava
davanti. E a volte lo faceva apposta, a passargli davanti. Ma la cosa
peggiore
era che per lei non provava niente. Certo, era carina, aveva anche
senso dell’umorismo,
ma… non era Sherlock. Che poi, per carità, non
usciva con lei solo per far
ingelosire l’amico, non era mica una teenager in piena crisi
ormonale, voleva
solo… non sapeva nemmeno lui che cosa voleva. Sfogarsi?
Autoconvincersi di
qualcosa di cui nemmeno lui era più convinto? Disinnamorarsi
di Sherlock? Impossibile…
ma com’era successo tutto questo? E quando era iniziato? Se
glielo avessero
detto tempo fa ci avrebbe riso sopra per giorni. Il bello, poi, era che
non era
nemmeno gay. Era solo Sherlocksessuale come
una volta gli aveva fatto notare Connie. Non si trattava di tutti gli
uomini,
si trattava solo di uno.
Ma
basta, doveva scacciare tutti quei pensieri o non
sarebbe più riuscito a pensare ad altro. Con la scusa di
avere tanti pazienti
da visitare, che poi tanto scusa non era, John salutò Connie
e corse nel suo
studio, sorridendo imbarazzato alla sua nuova conquista quando la vide
appoggiata al bancone della caposala. Era provocante, con quei capelli
biondi e
quelle curve. Ma non era Sherlock.
Forse
avrebbe potuto chiedere qualcos’altro a
Connie. Peccato che anche lei avesse la tendenza a lasciare sempre le
cose in
sospeso, a non concludere mai i propri discorsi, come in uno di quei
film in
cui devi cercare di capire le cose da solo e scoprire solo al finale se
hai
indovinato oppure no.
Lei, Mycroft e Sherlock. Ma cosa aveva quella famiglia? Il morbo del
mistero?
Connie
finì di preparare la tavola e infine appoggiò
i due cartocci colmi di cibo cinese in mezzo al tavolo. Aveva persino
acceso
due candele per creare un’atmosfera romantica. Non aveva
l’idea esatta del
perché, le andava di farlo. Sperava di distrarsi un
po’ e di scacciare i brutti
pensieri.
Quando
Greg rientrò dal bagno rimase piuttosto
sbigottito nel vedere tutto quello.
“Wow!
A cosa lo devo?”
“E’
per ringraziarti dell’ospitalità e del fatto che
sei mio amico nonostante sia poco tempo che ci conosciamo”.
“Figurati!”
All’uomo non venne nient’altro da dire e
rimase come un baccalà fermo sulla soglia. Era sorpreso,
sì, ma in modo
positivo.
Connie allora gli scostò la sedia e gli fece cenno di
accomodarsi. Greg non se
lo fece ripetere due volte. “Ci siamo scambiati i
ruoli?”
“E
che c’è di male?” Anche lei si
accoccolò sulla sua,
prendendo le bacchette e mettendo gli involtini di riso nel piatto.
“Com’è
andata la giornata?” gli chiese poi, come una brava
mogliettina che cena col
marito.
E nonostante l’intimità inaspettata, entrambi si
sentivano a proprio agio.
“Bene.
Niente di che”.
“Nessun
omicidio su cui indagare?”
“Per
fortuna no”.
“Per
sfortuna di mio fratello”.
“A
proposito, l’hai visto?”
Lo
sguardo della ragazza si fece più cupo. Meno
male che voleva pensare ad altro “No”.
“E
Mycroft? Con lui hai parlato?”
Ecco,
di male in peggio. Sperava solo che Lestrade
non la volesse mettere di cattivo umore. “No. Nemmeno lui mi
vuole parlare”.
Greg
sapeva che forse non era il caso e che non
erano affari suoi, tuttavia doveva chiederlo: “Ma
cos’è successo tra te e
Mycroft? Perché ce l’ha tanto con te?”
Connie
lasciò ciondolare le bacchette tra le dita e
rimase a fissare il proprio piatto vuoto. Che cos’era
successo tra lei e
Mycroft? Già… era una bella domanda. Di fatto tra
lei e Mycroft non era
successo niente. Era quello che era successo tra lei e Sherlock.
“Tanti
anni fa…”, iniziò, senza guardare
l’amico. “è
successo che…”. No, non era il caso.
“Senti, ti dispiace se te lo racconto in
un altro momento? Mi…”.
“D’accordo”,
la interruppe l’uomo. “Non voglio farti
pressione. Quando ne avrai voglia, se vorrai, mi puoi dire quello che
vuoi”.
La
ragazza gli sorrise teneramente. “Grazie”.
“Figurati”.
Aveva
cominciato a rivalutare molte cose, Greg, in
quei pochi giorni che aveva passato con Connie. Aveva cominciato a
rivalutare
il comportamento di Sherlock, persino, perché capiva, dal
suo legame con la
sorella, che c’era qualcosa di più, qualcosa che
andava ben aldilà dell’atteggiamento
distante e superbo del detective.
Forse qualcosa che lo avrebbe spaventato. O sconvolto. O
chissà.
Osservò
la ragazza portare alla bocca il proprio
cibo, quando si accorse che si era sporcata leggermente con la salsa.
La sua
mano reagì prima che potesse farlo il cervello.
Afferrò una salvietta e le pulì
il punto in cui si era sporcata. Lei restò a guardarla
confusa e sbigottita.
Poi lui le passò il pollice sul labbro morbido, molto
delicatamente, come se
stesse toccando un oggetto molto fragile.
Il suo cervello aveva perso ogni cognizione.
“Greg?”
sussurrò lei, gli occhi azzurri in quelli
dell’uomo.
“Hmm?”
mormorò lui, godendo della sua voce e
delle sue labbra
che pronunciavano il
suo nome.
“Sono
incinta”:
“Questo
lo so”.
Lo
sapeva, ma questo non gli impedì di avvicinarsi a
lei e di baciarla. E a lei non impedì di ricambiare, quel
bacio.
“Sherlock,
vado a fare la spesa. Ti serve qualcosa?”
chiese John, avvicinandosi all’amico steso sulla poltrona.
Aveva gli occhi
chiusi ma era chiaro che non dormiva. Pensava, probabilmente.
“Abbiamo
finito il latte”, gli rispose.
“D’accordo”.
Il
dottore fece per allontanarsi, ma un mugolio dell’altro
lo fece tornare sui suoi passi. “Come?”
“Come
si chiama?”
John
inarcò un sopracciglio. “Chi?”
“La
ragazza che frequenti”.
“Come…”.
Rinunciò a concludere la frase. Era Sherlock,
scopriva sempre tutto. Probabilmente aveva letto i suoi messaggi.
“Hai
un odore diverso. Sei stato con lei”.
Ok,
forse non aveva letto i suoi messaggi. Ma avrebbe
di gran lunga preferito che l’avesse scoperto
così. E invece era stato il suo
odore… il suo maledettissimo profumo di Chanel. E Sherlock
se n’era accorto. Questo
significava che Sherlock sapeva com’era il suo odore senza
quello forte e quasi
nauseante di lei.
Perché lo faceva impazzire così?
Perché desiderava soltanto buttarglisi addosso
e abbracciarlo, stringerlo forte a sé?
Gli sembrava così ferito, Sherlock. Non c’era
nessuna vena derisoria nella sua
voce quando gli aveva posto quella domanda, né di scherno o
di disapprovazione.
Solo… accettazione. Una triste e malinconica accettazione. E
tanta stanchezza.
“Si
chiama Cindy. E sì, sono stato con lei”.
Riuscì ad
abbandonare l’appartamento prima che il suo corpo facesse
qualcosa di
completamente stupido.
Ma
avrei preferito stare con te.
MILLY’
SPACE
Wow,
ho scritto questo capitolo praticamente di getto, in
poco più di un’ora e spero sia venuta una cosa
decente. È un po’ particolare,
lo so, forse diverso dai precedenti, ma ho cercato di metterci
passione. Spero
sia riuscito ^^
Non pensavo nemmeno che avrei aggiornato questa sera ma le vostre
recensioni mi
hanno convinta a farlo.
Allora è vero che vi devo minacciare per ottenere qualche
commento ^^ ahaha.
Va be’, spero commenterete anche questo.
Un
bacione,
Milly.
P.S.
ma cosa ne pensate della coppia Greg/Connie?
Potrebbe funzionare? Io ho delle ideuzze in mente per loro, ma ditemi
un po’
voi se ne vale la pena.
MONKEY_D_ALICE:
eh, è bravo chi capisce Sherlock. Ma noi lo amiamo lo stesso
^^ ahaha XD eh, vediamo
che succederà più avanti. Grazie della
recensione, a presto. M
GINALEXY:
eccoti accontentata. Ma ancora molti nodi devono venire al pettine.
Continua a
seguire. Un bacione, M.
AMAYAFOX91:
nemmeno a me piacciono le storie raccontate da personaggi interni,
quindi nelle
mie non ne dovresti trovare. A meno che non faccia proprio qualche
eccezione ^^
Mycroft è un personaggio che piace anche a me ed
effettivamente forse sono stata
un po’ cattiva e affrettata a renderlo quasi un antagonista.
Ma non ti
preoccupare, si rifarà. Mi dispiace per gli errori di
battitura, ma ho sono
pigra e non ho voglia di rileggere i capitoli ^^
P.S. spero di riuscire ad aggiornare presto anche “Human
love…”, ma non
prometto niente perché il lavoro è ancora in
cantiere e ci sono ancora un sacco
di cose da scrivere. MI fa piacere però sapere che mi segui
anche qui.
Baci, M.
|
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Capitolo 11 *** Capitolo undici ***
CAPITOLO
UNDICI
John
quella mattina si svegliò col suono del violino
di Sherlock che, proveniente dal piano di sotto, accarezzò
le sue orecchie in
maniera piuttosto… piacevole. Adorava quando Sherlock
suonava il violino, non
solo ascoltarlo, ma persino guardarlo. In quei momenti il suo viso e
tutto il
suo corpo sembravano come… accendersi. Emanavano una tale
passione che era
impossibile non venirne trascinati. In quei momenti Sherlock mostrava
il suo
vero io, quello che di solito nascondeva dietro la corazza
indistruttibile che
si era costruito. Perché c’era un vero Sherlock,
di questo John ne era sicuro. C’era
un Sherlock che il detective non voleva mostrare ma che prima o poi
sarebbe
venuto fuori. Almeno lo sperava.
Scalciò
via le coperte e si alzò dal letto. Si stropicciò
gli occhi e mugugnò con voce roca. Più
invecchiava e più faceva fatica ad
alzarsi presto. Chissà come diamine faceva Sherlock ad
andare sempre a letto a
orari indecenti e a svegliarsi la mattina fresco come una rosa. O
soffriva di
qualche strana malattia che gli permetteva di dormire poco oppure
prendeva
qualche pozione magica.
Con passo pesante scese le scale trovando il coinquilino in piedi di
fronte
alla finestra, perso a guardare il grigio panorama londinese. Aveva
appoggiato
il violino sul tavolino del salotto, ma teneva la bacchetta ancora in
mano.
John restò per un po’ a guardarlo. Gli piaceva la
forma del suo corpo, la sua
siluette. Era… era così elegante, così
modellata. Sembrava quasi che qualcuno
lo avesse scolpito.
No,
John, smettila con questi pensieri. È meglio che te la fai
passare questa cotta
o sarà peggio per te.
“Non
volevo svegliarti. Mi dispiace, John”, sentì
dire dalla voce di Sherlock, bassa e calma. Il dottore rimase piuttosto
basito
e gli ci volle qualche secondo per assimilare la frase. Sherlock che
chiedeva
scusa? Da quando? No, quello non era Sherlock… o forse lo
era. Mah, chi poteva
dirlo con quell’uomo?
“Non
ti preoccupare. Tanto mi dovevo alzare”,
rispose John andando in cucina e mettendosi a fare il tè.
Sherlock
rimase fermo dov’era, senza spostarsi di un
millimetro. Doveva esserci qualcosa di veramente interessante fuori
dalla
finestra. O forse era semplicemente immerso nel suo palazzo mentale.
Una
volta finito di preparare il tè, John versò il
liquido ancora fumante in due tazze e ne portò una a
Sherlock. Questi la prese
senza però guardare l’amico.
Aveva qualcosa che non andava quella mattina, questo era chiaro. Ma se
voleva
scoprirlo, doveva indagare cautamente. A volte parlare o trattare con
Sherlock
era più difficile che farlo con un bambino.
Il
dottore prese la sua tazza e si sedette sulla sua
poltrona, aprendo il giornale di quella mattina. Ma continuò
a tenere un occhio
sull’amico, senza porre attenzione a quello che stava
leggendo.
Sherlock allora decise che ne aveva abbastanza del panorama esterno e
si girò
per riporre il violino nella sua custodia. Poi sorseggiò
ancora un po’ del suo
tè e tirò fuori il cellulare, digitando
velocemente. John, da dietro il
giornale, lo osservava attentamente.
“Ti
ha scritto Lestrade? C’è un nuovo caso?”
chiese
il medico cercando di non apparire troppo interessato.
“No,
non è Lestrade. E no, non ho nessun caso”.
“Ok”.
Provò a lasciar perdere il discorso, sperando
che il detective stesso gli avrebbe detto qualcos’altro, ma
quello sembrava
essere concentrato nel messaggio che stava scrivendo.
“Sherlock?”
“Hmm?”
“Stai
bene?”
Soltanto
allora il detective si decise ad alzare lo
sguardo sull’amico. Uno sguardo che John avrebbe preferito
non vedere, non sul
moro. I suoi occhi sembravano così…
così malinconici, come se stesse soffrendo
per qualcosa. Ma cosa? E poi pareva così stanco,
così giù. E… era una sua
impressione o quelle sotto gli occhi erano delle occhiaie?
Molto probabilmente, se non si fosse deciso a dormire come una persona
normale,
si sarebbe ammalato.
“Sì,
sto bene”.
Quella
era proprio la risposta che, paradossalmente,
non voleva sentire. Perché era chiaro che Sherlock non stava
bene e se lo
avesse ammesso o se ne avesse voluto parlare sarebbe stato meglio. Ma
lui
ovviamente non ne aveva la minima intenzione.
“Sei
sicuro?” cercò di insistere John.
“Sì”,
fu la risposta secca dell’amico. Eccolo lì, il
solito Sherlock: freddo, distaccato, impassibile. Aveva di nuovo messo
su la
sua maschera impenetrabile, la sua maschera da duro, da sociopatico. Si
alzò di
scatto, mise via il cellulare e afferrò il capotto e la
sciarpa.
“Dove
vai?” fece John a quel punto, mostrandosi un
po’ contrariato.
“Esco”.
“Vuoi
che venga con te?”
“No.
Vado solo… a fare delle cose”. E prima che il
dottore potesse dire o fare qualcosa, quello se ne scomparve fuori
dalla porta.
John rimase a osservare il corridoio d’ingresso come uno
stoccafisso. E rimase
così finché non vide la Signora Hudson comparire
dal punto nel quale il
detective era scappato poco prima. “Dove andava
così di fretta?” chiese la
donna in tono gentile.
“Vorrei
tanto saperlo”.
Sherlock
camminava velocemente per le strade di
Londra, cercando di evitare le persone il più possibile.
Aveva tirato su più
che aveva potuto il colletto del cappotto e teneva lo sguardo fisso per
terra, le
mani strette a pugno in tasca e il pensiero rivolto soltanto alla sua
meta.
No, in realtà no. Aveva la testa piena di pensieri.
C’era John, intanto, che sicuramente si era accorto che
qualcosa non andava in
lui quella mattina. Non andava già da un po’ e
nemmeno lui capiva che cosa
fosse andato storto. O forse lo capiva, solo che non lo voleva
ammettere. Come aveva
fatto a ricaderci? Pensava… pensava che fosse tutto finito,
che avrebbe potuto
ricominciare da capo, una nuova vita, che avrebbe potuto dimenticare
tutto
quanto era successo prima.
John, il buon John. Che cosa avrebbe fatto? Che cosa avrebbe detto? Non
lo
voleva deludere, non John. John era la sua ancora in tutto quel caos
eppure lui
non aveva fatto in tempo a lanciarla. O meglio, a prenderla.
Sicuramente sarebbe stato deluso da lui. Così come Connie.
Connie… non sarebbe
mai dovuta tornare. Però non aveva un altro posto dove
stare, non aveva un
lavoro, né una casa e ora aveva pure un bambino da crescere
da sola. E quello
era colpa sua, sicuramente colpa sua, sempre colpa di Sherlock. Le
aveva
rovinato la vita perché ovviamente non gli era bastato
rovinarsi la sua.
E poi c’era Lestrade e c’era la Signora Hudson e
c’era Mycroft e tutto il
resto. La sua vita era un gran casino e questo solo per colpa sua.
Perché, a
dispetto della sua enorme intelligenza, aveva agito da idiota. Sempre,
fin da
quando era giovane.
Cercò
di riscuotersi da tutti quei pensieri,
svoltando in una piccola via secondaria tra due vecchi palazzi dai muri
scrostati.
Lì, seduto su un cartone, con un paio di jeans sdruciti e
mezzo nascosto dal
cappuccio della felpa, c’era l’uomo che stava
cercando.
“Allora,
ce l’hai?” gli chiese il detective in tono
glaciale.
“Sempre
così diretto”, rispose l’altro che non
poteva avere più di trent’anni, anche se la barba
sfatta lo faceva apparire più
vecchio. Si guardò un po’ attorno, poi
sospirò. “Non qui. Seguimi”. Si
alzò dal
suo giaciglio e rientrò nella strada principale. Sherlock lo
lasciò precederlo
e poi lo seguì standogli a mezzo metro di distanza. Il
giovane lo portò in una
palazzina in costruzione, sotto ad una tettoia. Diede di nuovo
un’occhiata
attorno a sé, con fare circospetto.
“E’
questa”, disse, porgendogli qualcosa che teneva
nascosto nel pugno. Sherlock allungò la mano e si fece
passare l’oggetto. Restò
a guardarlo per un po’, come per assicurarsi che fosse quello
che voleva. Poi
lo infilò in tasca e dall'altra estrasse un bel
po’ di banconote, allungandole
al tipo.
“E’
tutto?” chiese lo sconosciuto.
“Sì”.
“Mi
fido”.
“Sì”.
Il
detective cominciò ad allontanarsi.
“Ci
rivediamo presto?” gli gridò l’altro da
dietro,
ma non ottenne alcuna risposta.
Era
al lavoro solo da un paio di ore e già
cominciava ad essere stanco. Fortuna che c’era la pausa e che
i pazienti quel
giorno non erano tanti.
Decise di andare a trovare Molly, magari scambiare due chiacchiere con
lei lo
avrebbe tirato un po’ su di morale. Varcò la porta
del laboratorio e vide l’amica
seduta davanti al computer e Connie vicino al tavolo che osservava un
microscopio.
“Oh
ciao, John”, salutò quest’ultima.
“Ciao,
Connie. Che ci fai qui?”
“Mi
annoiavo, così sono venuta a trovare Molly”.
“John,
Sherlock non è con te?” chiese Molly,
alzandosi dalla sedia.
“No.
È uscito stamattina”.
“E
dov’è andato?” fece la mora, ora
improvvisamente
allarmata.
“Non
lo so. Non me l’ha detto”.
“Oh”.
Connie
abbassò lo sguardo, osservando una macchia
sul tavolo.
“Perché
non lo chiami?”
“Gli
ho mandato un messaggio, ma non mi risponde”. La
ragazza tirò fuori il cellulare controllando gli ultimi
messaggi in arrivo, ma
niente. Poi rilesse quello che aveva mandato lei: dimmi
che mi vuoi bene. perché io te ne voglio. Ma
nessuna
risposta, ovviamente. E ora aveva ben due fratelli che non le volevano
più
parlare. In che razza di famiglia era finita?
“E
Mycroft?”
“Lasciamo
perdere Mycroft”.
“Che
cos’è successo tra te e Mycroft perché
lui non
voglia più parlarti?” domandò Molly,
rimettendosi il camicie bianco.
Connie
sospirò. “Tra me e lui non è successo
niente”.
“Ah
no?”
“E’
per quello che è successo tra me e Sherlock”. Ora
aveva decisamente attirato l’attenzione degli altri due.
“E che cosa è
successo?” Adesso finalmente avrebbero scoperto qualche
segreto della famiglia
Holmes.
“In
realtà niente”, la ragazza continuava a
tormentare un pezzo di filo che teneva tra le mani. Quel segreto
sicuramente la
metteva a disagio. “E’ solo che Mycroft
credeva… credeva che tra me e Sherlock ci
fosse qualcosa… sì, insomma, qualcosa di
più di una semplice relazione tra fratello
e sorella”. Connie alzò lo sguardo sugli altri due
solo per vedere le loro
espressioni sconvolte e le bocche spalancate. “Credeva che
noi due… facessimo…
sesso”. Fece una pausa aspettandosi che gli altri due
commentassero. E invece
non uscì un lamento né un commento.
Così lei continuò. “Ovviamente non era
vero. O meglio… sì, una volta Sherlock mi ha
baciata, ma solo perché mi trovavo
lì e lui non era in sé e stava male. Mycroft
casualmente ci ha visti e da quel
momento ha iniziato a farsi strane idee. Io e Sherlock eravamo molto
intimi, ma
non abbiamo mai fatto… quelle cose. Ci aiutavamo, ci
confidavamo, stavamo
spesso in compagnia, ma nulla di più”.
“Gliel’avete
mai spiegato?” esclamò a quel punto
John, davvero, davvero incredulo.
“Certo,
ma lui non ci credeva. E poi sono successe
molte altre cose e la situazione si è aggravata
e… sì, insomma. Ormai non ha
più importanza. È storia vecchia”.
“Non
mi sembra storia vecchia se Mycroft non ti
parla”.
Connie
si allontanò dal tavolo e afferrò la sua
borsa appesa a un attaccapanni. “No, ragazzi,
guardate… lasciate perdere. Fate finta
che non vi abbia detto niente, d’accordo?” E, senza
attendere risposta,
abbandonò la stanza.
John
si voltò verso Molly, incredula tanto quanto
lui. “Tu l’avresti mai detto?” Lei
negò con la testa. “No, assolutamente
no”.
John
continuava ad andare su e giù per il salotto,
preoccupato e ansioso. Aveva continuato a controllare il cellulare per
l’intera
giornata, sperando di ricevere qualche messaggio da Sherlock che gli
chiedeva
di venire a indagare con lui su qualche caso, come capitava molto
spesso. E invece
niente. L’unica che gli aveva scritto era Cindy e solo per
dirgli che si
masturbava pensando a lui. La cosa lo aveva disgustato più
che averlo eccitato.
Era
quasi mezzanotte e Sherlock non era ancora
tornato. Certo, era normalissimo che se ne stesse fuori anche fino a
tardi, ma
non senza mai tornare a casa e soprattutto non senza farsi mai sentire.
E come
se non bastasse fuori pioveva. Anzi, diluviava.
Forse gli era successo qualcosa. Forse era stato rapito o magari era
rimasto
ferito, trascinato in un angolo e picchiato e nessuno lo aveva trovato
e…
No,
no. Smettila di pensare a queste cose, John. Vedrai che
starà bene.
Improvvisamente
sentì sbattere la porta d’ingresso e
dei passi che si avvicinavano. La porta venne aperta e sulla soglia
comparvero
Connie e Lestrade.
“Non
è ancora tornato?”
“No”.
“Cazzo!”
“Quand’è
stata l’ultima volta che l’hai visto?”
chiese
Greg, vistosamente preoccupato anche lui.
“Questa
mattina, quando mi sono alzato”.
I
tre rimasero per qualche attimo in silenzio,
pensando a come affrontare meglio la situazione.
“D’accordo.
Vado a cercarlo”, annunciò Lestrade
allora, guardando Connie. Lei annuì semplicemente e
l’uomo se ne andò
velocemente.
“Pensiamo
a dove potrebbe essere”, sospirò Connie,
sedendosi sul divano. Stava cercando di non farsi prendere dal panico,
ma la
verità era che aveva una bruttissima sensazione e avrebbe
soltanto voluto
mettersi a piangere. “Conosci dei posti che frequenta
abitualmente?”
“Non
credo ce ne siano. Il St. Bart’s di solito, ma
non credo sia là a quest’ora”. John si
portò le mani sul viso, cercando di
calmarsi. Solo in quel momento si accorgeva quanto in realtà
poco sapesse dell’uomo
che amava.
Passarono
un quarto d’ora a pensare ai posti in cui
poteva essere e a scriverli a Greg per messaggio. Ad un certo punto,
però,
sentirono dei passi nell’ingresso. Pensarono si trattasse
della Signora Hudson,
ma quando la porta venne aperta videro una figura alta e scura
stagliata in
controluce. Subito dopo capirono che era Sherlock. Era spettinato,
bagnato
fradicio di pioggia e… stanco. No, non
sembrava solo stanco…
“Sherlock?”
lo chiamò
Connie quando il fratello si fu buttato sulla sua poltrona.
“Oh mio Dio!”
esclamò la ragazza, osservando l’aspetto
completamente sfatto dell’uomo e gli
occhi rossi. “Tu sei completamente fatto”.
MILLY’S
SPACE
Salve.
Mi scuso per non aver aggiornato prima, ma con gli
esami che incombono è stato piuttosto difficile. Mi sono
concessa una pausa dai
libri oggi, ma finché non finiscono gli esami mi sa che non
mi risentirete.
I’m so sorry.
Non
mi trattengo molto visto che è tardissimo. Spero vi
sia piaciuto il capitolo e vi prego, recensiteeeeeeeeeeeee!!!!
Baci,
M.
MONKEY_D_ALICE:
bene, mi fa piacere che la storia ti piaccia. Ecco qui un piccolo
segreto di
Connie e Sherlock ^^ che e pensi? Un bacio a te, Milly.
|
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Capitolo 12 *** Capitolo dodici ***
CAPITOLO
DODICI
“Dio
mio, Sherlock. Che cos’hai preso?!”
gridò
Connie a pochi centimetri dalla faccia del fratello. “Che
cos’hai preso?”
Rimase a guardarlo negli occhi annebbiati, aspettando una risposta e,
non
ottenendola, si rivolse a John che se n’era rimasto
leggermente in disparte,
sconvolto e confuso. Aveva capito che cosa Sherlock avesse fatto ma non
riusciva a crederci.
“Controllagli
le tasche!” ordinò la ragazza
all’amico, spostandosi dalla poltrona su cui era mezzo steso
il detective.
John non se lo fece ripetere due volte e sfilò il cappotto
al moro senza che
questi opponesse alcuna resistenza. Frugò prima in una
tasca, trovandola
completamente vuota, poi l’altra e…
tirò fuori un piccolo sacchettino
trasparente, di plastica, pieno di una polvere bianca che…
John spalancò gli
occhi, il cuore che ora batteva all’impazzata.
Lo mostrò a Connie che però non restò
particolarmente sorpresa. Abbassò lo
sguardo sul fratello lanciandogli un’occhiata che trasmetteva
diverse emozioni:
delusione, rabbia, preoccupazione, frustrazione…
“Cos’altro
hai preso?” gli chiese, questa volta in
tono più tranquillo. “Che cos’altro hai
preso?” Si inginocchiò di fronte a lui,
le mani appoggiate sui braccioli della poltrona. Sherlock
aprì gli occhi e li
puntò nei suoi. Ma quello che vide in essi le fece quasi
male. “Ok, allora… io
ti nomino alcune droghe e tu mi fai un cenno con la testa per dirmi se
le hai
prese oppure no, d’accordo?”
Sherlock
non rispose e nemmeno diede segno di aver capito.
Restò semplicemente a guardarla come un bimbo spaurito.
Connie iniziò lo stesso. “Quella cocaina che avevi
in tasca, l’hai presa?”
Sherlock
lentamente annuì.
“Hai
preso delle pillole?”
Sherlock
annuì di nuovo.
“La
marijuana l’hai fumata?”
Sherlock
annuì una terza volta.
“E
l’eroina?”
Il
detective annuì ancora.
Connie
sospirò. Si rialzò in piedi passandosi una
mano tra i capelli. John teneva la fronte appoggiata alla finestra, gli
occhi
fissi in un punto che in realtà non vedeva.
Com’era possibile? Com’era potuto
succedere tutto quello? Non aveva notato comportamenti strani
nell’amico in
quegli ultimi giorni, forse era solo un po’ più
distratto e schivo, ma nulla di
più.
E invece… come diamine aveva fatto a non accorgersene?
“John?”
lo chiamò Connie gentilmente. “Chiama Greg e
digli di tornare. Io aiuto Sherlock a farsi un bagno. È
fradicio e sporco”.
“D’accordo”,
rispose il dottore, mentre la ragazza
aiutava il fratello ad alzarsi. Non era molto stabile e faceva fatica a
reggersi, così la sorella lo dovette sostenere
finché non arrivarono in bagno.
Strano però che non avesse opposto alcuna resistenza nemmeno
stavolta.
John
afferrò il suo cellulare e mandò un messaggio a
Greg dicendogli di raggiungerli in Baker Street.
A un certo punto si sentì bussare alla porta. Di certo non
era Lestrade, non
poteva aver fatto così presto. E infatti, non appena
l’uomo aprì la porta, si
trovò la Signora Hudson in vestaglia con sguardo preoccupato.
“Che
cosa sta succedendo qui? Che cos’era tutto quel
chiasso?” chiese la donna, notando subito
l’espressione sconvolta di John.
“Mi
scusi se l’abbiamo svegliata”.
“Oh,
non ha importanza. Ma è successo qualcosa?”
“No!”
rispose il dottore un po’ troppo
frettolosamente e l’anziana signora si insospettì
ancora di più. “Cioè... uno
dei soliti pasticci di Sherlock. Tutto qua. Niente di…
grave”. L’uomo le sorrise
per mettere più enfasi alle sue parole e tranquillizzarla.
Non ricordava di
aver mai sorriso in modo così falso e più che un
sorriso, gli pareva che sulla
sua faccia fosse dipinta una smorfia. La verità era che non
gli andava di
spiegare, di dire che cos’era successo. Persino lui doveva
ancora digerire
quella situazione e già doverla spiegare a Lestrade sarebbe
stato troppo.
“Sei
sicuro?”
“Sì”.
“D’accordo,
allora ci vediamo domani”.
John
ringraziò il cielo che la Signora Hudson non avesse
voluto insistere di più, forse era troppo stanca per farlo,
ma non aspettò
nemmeno che scendesse la prima rampa di scale per di sbattere la porta
dell’appartamento.
Ed ecco che dieci minuti dopo, forse persino meno, la dovette aprire di
nuovo
perché Lestrade era tornato.
“Allora?
Cos’è successo?” chiese subito
l’uomo,
togliendosi la giacca di pelle bagnata dalla pioggia. Ancora non aveva
smesso
di diluviare.
“Siediti”,
gli disse John, accomodandosi anche lui
sulla sua poltrona. Greg si sedette sul divano quasi inconsciamente,
cercando
di prepararsi per la brutta notizia che avrebbe ricevuto.
Perché era certo che
avrebbe ricevuto una brutta notizia, la faccia di John non diceva
altro.
Quest’ultimo seduto di fronte all’amico,
incrociò le mani sulle ginocchia. “A
quanto pare…”, iniziò senza sapere come
dargli la notizia. “A quanto pare
Sherlock ha… ha fatto uso di droga”.
Il detective spalancò gli occhi proprio come aveva fatto lui
poco prima.
“Guarda”, aggiunse il dottore, passandogli il
sacchetto di cocaina che avevano
trovato nel cappotto di Sherlock. “L’ho trovato
nelle sue tasche”.
Lestrade prese il sacchetto, lo aprì e annusò da
lontano la polvere bianca. Ma
non c’era bisogno di controllare, era perfettamente chiaro di
che cosa si
trattasse. Il detective posò la droga sul tavolo e si
pulì i palmi sulle
ginocchia.
“Adesso
dov’è?”
“In
bagno con Connie. Era fradicio quando è tornato
qui”.
Greg
sospirò e si alzò in piedi andando fino in
cucina. Qui si appoggiò sul tavolo da pranzo, le braccia
incrociate sul petto.
Sembrava che stesse cercando di controllarsi per non lasciar trapelare
troppe
emozioni dal viso, ma si vedeva chiaramente che anche lui era
preoccupato.
“Sapevo
che aveva avuto dei problemi con la droga
precedentemente, ma… pensavo lo avesse superato”,
mormorò l’uomo a bassa voce,
quasi come se non volesse che qualcun altro udisse le sue parole, anche
se lì
c’erano solo lui e John.
Sherlock
era seduto al centro del letto, in penombra,
quando John entrò nella sua stanza per cercare una coperta
in più nell’armadio.
Il detective aveva ancora i capelli bagnati, ma questa volta non per
l’acqua
della pioggia bensì per quella della doccia. Indossava solo
i pantaloni di una
tuta e una maglietta a maniche corte, ma sembrava molto più
sveglio e cosciente
di prima.
“Non
capisco perché tu l’abbia fatto”,
sbottò John
dirigendosi subito all’armadio. Aprì la prima anta
quasi con violenza e si mise
a scorrere con lo sguardo tra le varie camicie dell’amico.
“Davvero non lo
capisco. Sei sempre così cocciuto, ostinato, pensi di saper
fare tutto da solo.
Ma sai, a volte dovresti avere il coraggio di chiedere aiuto. Ci sono
un sacco
di persone che ti vogliono bene, che ci tengono a te. Non puoi
semplicemente
mandare a puttane tutto, fare l’egoista e comportarti come se
non ti
importasse. Se hai bisogno di aiuto lo chiedi”. John si
girò di scatto verso
Sherlock che non si era mosso di un millimetro, la testa rivolta verso
il
basso, le gambe incrociate e le mani che tormentavano un piede. Il
dottore fu
pervaso da un senso di tenerezza; gli ricordava un bambino che era
appena stato
scoperto ad aver detto una bugia bella grossa.
Rimase a guardarlo per un po’, insospettito dagli scatti
involontari della sua
schiena. Era strano che Sherlock non lo stesse guardando, di solito era
sempre
capace di sostenere gli sguardi.
“Sherlock?”
lo chiamò, questa volta in tono più
dolce. Si avvicinò al letto e poi vi salì sopra.
“Sherlock?” ripeté, non
ricevendo alcuna risposta. Cercò di guardarlo in viso, ma
l’amico abbassò
ancora di più il capo e un ciuffetto dei capelli ricci gli
cadde davanti agli
occhi. Allora John gli mise un dito sotto il mento e lo costrinse a
girarsi
verso di lui. Si scontrò con due occhi grigi resi ancora
più chiari dalle
lacrime che li inondavano e che scivolavano copiose lungo le sue
guance,
infrangendosi sul lenzuolo. “Oh, Sherlock”,
sospirò John sbigottito e
sconvolto. Allora lo attirò verso di sé lasciando
che affondasse il viso
nell’incavo del suo collo. Lo strinse forte, cullandolo tra
le proprie braccia.
L’amico ricambiò l’abbraccio
aggrappandosi alla maglietta dell’altro e si
lasciò andare. John non
disse niente, lo lasciò solo sfogare.
Dopo
un po’, cercando una posizione più comoda, il
dottore si stese di schiena sul letto trascinando Sherlock con
sé che ancora si
teneva aggrappato alla sua maglietta e non aveva smesso di versare
lacrime.
Fu proprio così che li trovò Connie, entrando
nella stanza. John poté leggere
dello sbigottimento sul suo volto non appena li vide. Dietro di lei
c’era anche
Greg che rimase sulla soglia quando lei si sedette accanto ai due sul
letto.
La ragazza passò una mano tra i capelli umidi del fratello,
in una carezza
amorevole e poi lanciò un’occhiata a John
chiedendogli spiegazioni. Il dottore
semplicemente scrollò le spalle senza sapere che dirle.
“Ti…
ti dispiace se io e Greg restiamo qui a
dormire?” chiese a bassa voce.
“No,
no, fate pure. Potete prendere la mia stanza.
Io resto con lui”.
“D’accordo”.
Connie si alzò e raggiunse Lestrade
alla porta. “Chiama se hai bisogno di qualcosa”.
“Buonanotte,
ragazzi”.
John
rimase da solo con Sherlock. Il detective non
si era ancora addormentato, il dottore sentiva il suo respiro caldo
contro la
propria spalla e il suo corpo tremante spingersi contro quello
dell’amico. Nel frattempo,
fuori la pioggia continuava a cadere e le gocce battevano contro la
finestra
creando una sorta di ritmo musicale. Sembrava quasi che il cielo avesse
deciso
di fare compagnia a Sherlock quella notte e che stesse piangendo con
lui, come
a voler condividere il dolore.
Era così tremendamente romantico e poetico e…
doloroso.
John
afferrò un lembo
delle coperte e le rovesciò sopra il proprio corpo e quello
dell’amico, ormai
dimentico della coperta che stava cercando. Si sarebbero tenuti al
caldo da
soli.
Non era certo di quanto avrebbe dormito quella notte, tuttavia era
meglio
almeno tentare. In un’altra situazione avrebbe gioito nel
trovarsi abbracciato
all’uomo che amava, ma non così, non con Sherlock
in quelle condizioni.
In ogni caso, quella notte non l’avrebbe affatto dimenticata.
MILLY’S
SPACE
Hola
a todos!!
Lo
so, il capitolo è più breve del solito, ma
considerando che sono stata rapida ad aggiornare, potete anche
perdonarmi ^^
Che
dire? Temo che in questo capitolo Sherlock sia un po’
OOC ma questa scena ce l’avevo in mente da un po’ e
avrei avuto i rimorsi di
coscienza se non l’avessi messa. Lo trovo tenerissimo e voi?
Dai, ditemi qualcosa. Non abbiate timore di recensire e di dire la
vostra
opinione, non vi mangio mica. Non sono Sherlock xD al massimo mando
Moriarty a
uccidervi. Ahaha, no scherzo.
Un
bacione a tutti e ricordatevi di passare sulla mia
pagina facebook, Milly’s Space.
Ciaoooo.
MONKEY_D_ALYCE:
spero tu non abbia rotto il computer questa volta ^^ comunque ce ne
saranno
tanti altri di segreti che verranno fuori, forse già nel
prossimo capitolo. Ammetto
che Mycroft qui non si è fatto molte belle figure, ma non
preoccuparti, prima o
poi si rifarà.
Un strasuperbacione anche a te.
Milly.
|
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Capitolo 13 *** Capitolo tredici ***
CAPITOLO
TREDICI
John
si svegliò dopo uno strano sogno. Non era sulla
guerra in Afghanistan questa volta, era su qualcos’altro.
C’era Sherlock nel
suo sogno e succedeva qualcosa di spiacevole, di brutto, ma si
dimenticò quasi
tutto non appena aprì gli occhi. E forse era meglio
così.
Gli ci volle qualche secondo per riprendere completamente coscienza e
quando lo
fece si accorse che qualcosa pesava sul suo corpo. Abbassò
lo sguardo e si
scontrò subito coi neri ricci dell’amico che gli
solleticavano il mento.
Non ricordava quando si era addormentato esattamente, sapeva solo di
non aver
chiuso occhio finché Sherlock non si era completamente
rilassato contro il suo
corpo facendogli capire di aver esaurito tutte le lacrime a sua
disposizione
per quella notte. E poi erano rimasti in quella posizione fino a quella
mattina, John disteso sulla schiena e il detective con la testa
poggiata sul
suo petto e una mano sul suo fianco, lì dove gli aveva
stretto la maglietta.
Il
dottore gli affondò una mano nei capelli e prese
ad accarezzarlo dolcemente. In fondo era questo che gli serviva, no? Un
po’ di
conforto, di rassicurazione… di coccole. Se voleva dargli
una dimostrazione di
essere umano, be’, ci era riuscito alla grande. John non se
la sarebbe più
scordata quella notte, non solo per le lacrime di Sherlock, ma anche
per la
sensazione di impotenza che aveva provato, e di dolore, di…
Basta,
John, alzati da ‘sto letto e fai qualcosa di concreto per
aiutare Sherlock.
Cercò
di scivolare da sotto il corpo dell’amico
senza svegliarlo. Quest’ultimo doveva essere veramente stanco
perché non sembrò
aver sentito niente, dormiva della grossa. O forse faceva finta. In
ogni caso
era meglio lasciarlo riposare, chissà da quanto tempo non si
faceva un sonno
decente.
Prima
di alzarsi dal letto, poggiò una mano sulla
fronte di Sherlock constatando che era piuttosto calda. Dopo la pioggia
di ieri
sera era abbastanza normale che si fosse preso la febbre. Allora
afferrò le
coperte e lo rimboccò come avrebbe fatto con un bambino.
Poi scese al piano di sotto, incontrando Connie e Greg in salotto;
nessuno dei
due sembrava aver dormito granché.
“Ciao,
John”, salutò la ragazza seduta sul divano.
“Ti va del caffè?” chiese facendo per
alzarsi, ma John la bloccò sul posto.
“No, lascia. Faccio io”.
“Come
sta Sherlock?” fece lei allora, senza perdere
tempo.
John
si versò del tè caldo in una tazza e si
voltò
per guardare Connie. “Sta dormendo. Credo abbia un
po’ di febbre”.
La
ragazza annuì, ma non sembrava molto attenta alle
parole dell’amico. “Non l’ho mai visto
così”, sospirò, gli occhi puntati per
terra. “Non l’ho mai visto piangere
così, nemmeno quando era piccolo”.
Greg,
che per tutto quel tempo se n’era rimasto in
piedi vicino alla finestra, si sedette accanto a Connie e
l’abbracciò per le
spalle, cercando di confortarla. E lei sembrò gradire
perché si rilassò subito
contro il suo petto.
“Non
appena si sarà svegliato cercherò tutta la
droga che tiene in casa e gliela farò buttare
via”, decise lei e il tono serio
non ammetteva repliche. Non che gli altri due avessero qualcosa da
dire. John
si sedette sulla sua poltrona e strinse forte la tazza che teneva fra
le mani,
non curandosi del fatto che scottava. “Sono un
idiota!” pronunciò senza
guardare nessuno dei presenti. “Me ne sarei dovuto accorgere
prima”.
“John,
non è colpa tua”, cercò di rassicurarlo
Connie, gli occhi puntati su di lui.
“Invece
sì. È il mio coinquilino, il mio migliore
amico ed è la persona…”. Si interruppe
all’improvviso. Non voleva dire quello
che stava per dire, non davanti a Greg. Non era ancora pronto.
“Me ne sarei
dovuto accorgere. Viviamo insieme e io…”.
“Sherlock
è bravo a nascondere le cose quando vuole.
Nessuno se n’era accorto”.
“Sì,
ma se me ne fossi accorto prima non sarebbe
arrivato a questo punto”.
Non
se la sarebbe mai perdonata una cosa del genere.
Non era solo il suo migliore amico, era anche la persona che amava e se
ne
sarebbe dovuto accorgere fin da subito, che in Sherlock qualcosa non
andava. E
invece lui era stato troppo occupato a pensare a se stesso e ai suoi
sentimenti,
al fatto che Sherlock lo evitasse perché non lo volesse
avere più attorno per
colpa di quel bacio, perché lo volesse allontanare
perché lui non provava le
stesse cose.
E invece tutto quello non c’entrava niente.
“Ascoltate!”
esclamò Connie tutto d’un tratto,
saltando in piedi come punta da una vespa. “Non dobbiamo
farne una tragedia,
non fa bene né a noi né a Sherlock. Non ha ancora
superato il limite, non come
prima, quindi si può ancora recuperare. E noi lo aiuteremo,
d’accordo?” Fece un
sorriso ai due uomini guardandoli speranzosa e loro non potevano far
altro che
essere contagiati dalla sua tenacia. In fondo, non aveva tutti i torti.
“Certo,
tesoro”, acconsentì Greg, alzandosi anche
lui e sistemandosi la camicia. “Io però ora dovrei
andare al lavoro. Ce la fate
voi due da soli?”
“Sì,
vai pure”.
“Chiamami
se hai bisogno di qualcosa”.
“D’accordo”.
Lestrade
si avvicinò alla ragazza e le diede un
rapido bacio sulle labbra. Poi afferrò la sua giacca e
uscì dall’appartamento.
Connie allora si diresse a passo spedito verso la cucina e
aprì il rubinetto
del lavello per lavare le tazze e i piatti che erano rimasti ancora
dall’altra
sera.
“Devo
chiamare Mycroft e dirgli quello che è
successo”.
“Vuoi
che lo faccia io?”
“No,
gli manderò un messaggio. Gli dirò di venire
qui così glielo dico in faccia. Sono proprio curiosa di
vedere la sua
espressione”.
John
non poté fare a meno di notare una certa nota
ironica nell’ultima parte della frase. Forse questa sarebbe
stata la volta
buona per capire che cosa non andasse tra i due. Non poteva solo
trattarsi di
quel bacio che si erano scambiati per sbaglio Sherlock e Connie.
“D’accordo.
Io vado a vedere se Sherlock si è
svegliato”.
“Portagli
una tazza di tè”.
Quando
John entrò nella stanza di Sherlock, trovò il
detective ancora addormentato, questa volta sdraiato sulla schiena, i
capelli
scuri sparsi sul cuscino. Era piuttosto pallido, tanto che quasi si
poteva
confondere con le lenzuola, se non fosse stato per i capelli.
Poggiò
la tazza di tè fumante sul comodino e si sedette
sul bordo del letto, rimanendo a guardarlo. Gli piaceva guardarlo
dormire, non
sembrava più lui. E in quel momento pareva così
piccolo e indifeso.
Dopo
poco, però, lo vide aprire gli occhi,
lentamente, come se stesse cercando di abituarsi alla debole luce che
entrava
dalle finestre. Sbatté le palpebre un paio di volte prima di
inquadrare il viso
di John.
“Ciao”,
lo salutò questi. “Come ti senti?”
Sherlock
lo guardò leggermente confuso, poi si portò
un braccio alla fronte e richiuse di nuovo gli occhi. “Ho mal
di testa”.
“Hai
la febbre. Ti porto delle pastiglie”, poggiò le
mani sul letto per aiutarsi ad alzarsi, quando ci ripensò.
“O forse è meglio di
no”.
Il detective inclinò il capo come incuriosito.
“Ti
ho portato del tè. E dovrei misurarti la febbre.
E dovrei anche…”.
“Sei
arrabbiato con me?” lo interruppe il moro
guardandolo con quei suoi penetranti occhi azzurri. John rimase
leggermente
basito. “Arrabbiato con te? No”.
“Allora
sei deluso. Il che forse è peggio. O forse
no. Non lo so”.
“Sherlock,
ma che stai dicendo? Non sono né
arrabbiato né deluso. Sono solo preoccupato e spaventato
perché tu ora hai un
problema, come qualsiasi altro essere umano, ed è
perfettamente normale. Non
c’è niente di cui vergognarsi. Ti
aiuterò… ti aiuteremo”.
Il
detective si mise seduto di scatto, le mani
poggiate sul letto perché lo sostenessero.
“Perché sei sempre così, John?
Perché… perché mi giustifichi sempre?
Avrei preferito che ti fossi arrabbiato e
che mi avessi gridato contro. Non puoi sempre essere dalla mia parte,
non
puoi…”.
John
aveva ascoltato quelle parole rimanendo
impassibile, nonostante il tono decisamente contrariato
dell’amico. Capiva
perfettamente la reazione di Sherlock. Ma al detective ancora non era
chiara
una cosa: che era ora di smetterla di avere paura.
Avvicinò
il proprio viso a quello dell’amico, così
vicino che avrebbe potuto baciarlo, e fissò i propri occhi
in quelli dell’altro.
“Sherlock, tu sei il mio migliore amico e
io…”.
“E
tu?”
Io
ti amo.
“…
ti voglio bene. Quindi, non mi interessa che cosa
farai, ti aiuterò. Sempre”.
Sherlock
aprì bocca per aggiungere qualcos’altro, ma
venne interrotto dall’arrivo di Connie che restò
perplessa per qualche attimo
nel vederli così… intimi.
“Scusate,
ho interrotto qualcosa?”
Era
tutta la mattina che la più piccola della
famiglia Holmes cercava di mettersi in contatto col fratello maggiore;
gli
aveva mandato una decina di messaggi, chiamato almeno cinque volte, ma
quello
si ostinava a non rispondere.
Sperava solo che non lo stesse facendo perché non voleva
parlare con lei. Ma se
così fosse stato, lo avrebbe preso a pugni fino a staccargli
tutti i denti. Non
poteva ignorarla, gli aveva scritto in maiuscolo che c’era un
problema e che si
trattava di Sherlock. Mycroft sarebbe accorso, per forza.
Aveva
chiamato persino Molly, pregandola di venire e
di aiutarli e la ragazza si era precipitata da loro arrivando in Baker
Street in
venti minuti. E solo perché aveva un lavoro urgente da
finire, altrimenti
sarebbe arrivata prima.
John
era di nuovo in stanza con Sherlock quando la
patologa bussò alla porta. Il detective era rimasto a letto
praticamente tutto
il tempo, troppo spossato per alzarsi a causa della febbre e del mal di
testa.
Era mezzo addormentato persino quando il dottore gli legò un
laccio emostatico
attorno al braccio per fargli un prelievo di sangue. Infilò
l’ago nella vene,
trovandola un po’ dura, ma il moro non reagì.
Doveva esserci abituato.
Riempì qualche provetta, poi estrasse l’ago e gli
attaccò un cerotto. Stava per
rimettergli il braccio sotto le coperte quando qualcosa
attirò la sua
attenzione: c’erano delle cicatrici bianche sul polso di
Sherlock. Sembravano essere
piuttosto vecchie, ma erano chiaramente delle cicatrici. Ed erano
presenti su
entrambi i polsi.
Non le aveva mai notate perché il detective portava sempre
le maniche lunghe o
i guanti. A questo punto un atroce dubbio lo assalì.
Scese
al piano di sotto dove consegnò le provette a
Molly, raccomandandole di fare in fretta nell’analizzarle.
“Non
ti preoccupare, John, farò prima che posso. Piuttosto,
come sta Sherlock?”
“Non
molto bene. Ma si riprenderà”. John
cercò di
sorridere rassicurante all’amica, ma non credette di esserci
riuscito granché.
Il
campanello della porta suonò di nuovo e Connie si
precipitò sperando che fosse Mycroft. Invece era solo
Lestrade, seguito dalla
Signora Hudson, la quale era rimasta piuttosto scioccata nello scoprire
che
Sherlock aveva fatto uso di droghe.
Mycroft
arrivò finalmente nel tardo pomeriggio,
impeccabile come sempre, con l’immancabile ombrello appeso al
braccio e quella
faccia che alla sorella faceva sempre venire voglia di prenderlo a
sberle.
“Ero
bloccato ad una riunione importante”, disse
come scusa, piuttosto incuriosito nel vedere l’appartamento
pieno di tutta
quella gente. “Che è successo?”
“Già,
il lavoro è più importante della tua dannata
famiglia”, lo riprese Connie, incrociando le braccia al petto
e guardandolo di
sbieco.
Mycroft
sembrò fare appello a tutto il suo
autocontrollo per non dire o fare qualcosa di cui poi si sarebbe
pentito. “Non
girarci troppo attorno, Constance e dimmi cos’è
successo”.
Connie
attese per un po’
prima di rispondere, guardando il fratello dritto in viso:
“Nostro fratello ha
ripreso a drogarsi”.
MILLY’S
SPACE
Lo
so, Mycroft non sta facendo una bella presentazione.
Ma si rifarà, lo prometto. È solo che mi
è uscito così, non posso farci niente
^^
Vi
ho fatto attendere troppo, scusate, ma avevo gli esami
da finire. E ora sono libera come l’aria XD
Bene,
è molto tardi, quindi non mi dilungo troppo.
Ma vi prego, lasciatemi una recensione, please :3
Ah,
prima di andare volevo chiedervi una cosa: avevo
pensato di pubblicare dei Missing Moments su questa fanfic per
raccontare
qualche episodio dell’infanzia e dell’adolescenza
di Sherlock. Vi piacerebbe?
Vi avverto già che sarà molto angst ^^
Fatemi
sapere.
Un bacio,
M.
|
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Capitolo 14 *** Capitolo quattordici ***
CAPITOLO QUATTORDICI
Mycroft osservava la sorella,
impassibile. I suoi occhi non
mostravano alcuna espressione, le sue labbra non si piegarono in
nessuna
smorfia, nessun muscolo si mosse. Non sembrava nemmeno che stesse
respirando.
Tutti nell’appartamento tacevano, non una mosca volava.
Connie si avvicinò
lentamente al fratello e piegò il capo
all’indietro per osservarlo meglio. Oh,
l’espressione di Mycroft era cambiata
eccome! Da quella superficie fredda e disinteressata che era solito
mostrare,
faceva capolino il Mycroft giovane che si preoccupava per le sorti del
fratellino.
“Da quanto?”
“Un mese”.
L’uomo strinse le mani a
pugno come se cercasse di
trattenere qualcosa. “Gli hai fatto qualcosa?”
Connie sbatté le ciglia,
la bocca semiaperta in
un’espressione incredula e contrariata. “Ah, certo,
ora è colpa mia?! E’ sempre
colpa mia”. Si avvicinò al fratello tutta
infervorata; sembrava in procinto di
dargli un pugno. Invece si limitò a puntargli un indice
contro e a colpirlo sul
petto. “Non fai altro che prendertela con me. È
colpa mia per qualsiasi cosa
brutta gli succeda. È colpa mia se è
così sociopatico, se è strano, se si
droga, se non mangia abbastanza, se i bulli a scuola gli infilavano la
testa
nel cesso, se si è fatto bocciare. Ed è colpa mia
pure se ha tentato il suicidio
tagliandosi le vene, giusto?!”
La ragazza si zittì e
Mycroft l’afferrò per i polsi. Tutti
nella stanza ora erano sconvolti.
“Oh, Santo
cielo!” esclamò la signora Hudson accasciandosi
su una sedia e facendosi aria con un fazzoletto. Molly invece
scambiò un’occhiata
con John. Questi aveva appena sentito confermare il suo sospetto quando
aveva
visto quelle cicatrici sui polsi di Sherlock. Ma come aveva fatto a non
notarli
prima? Già, certo, perché Sherlock indossava
sempre le maniche lunghe e i
guanti per non farli notare. Ma non era una scusante. Diceva di amarlo
e non
era nemmeno in grado di notare queste cose?
Stupido,
stupido,
John, sei una testa di cazzo!
“Che cosa pensi di fare
ora, Mycroft?” chiese Connie, gli
occhi che sembravano perforare il fratello.
“Quello che ho fatto
l’ultima volta”.
La ragazza ridacchiò
isterica. “Metterlo in un centro di
disintossicazione? Sherlock non accetterà mai e lo
sai”.
“E tu che proponi di
fare?”
In quel momento si sentì
un rumore provenire dal corridoio.
Tutti si voltarono in quella direzione, scorgendo un ombra scura
allontanarsi.
“Sherlock!”
gridò Connie allarmata. Ma Sherlock non tornò
indietro. “Visto cos’hai fatto?!”
rimproverò il fratello, tornando a rivolgere
l’attenzione a lui. Restò a fissarlo duramente
negli occhi, indecisa su cosa
dirgli; alla fine, decise di lasciar perdere. Si voltò verso
John e sospirò.
“Vieni con me”. Poi,
girandosi verso
Mycroft: “E tu resta qui!” Nessuno osò
contraddirla in quel momento, nemmeno il
fratello maggiore.
Connie e John raggiunsero la stanza
di Sherlock, trovando l’uomo
fermo di fronte alla finestra con la schiena rivolta alla porta. La
ragazza gli
si avvicinò cautamente, come se non volesse spaventarlo; il
dottore invece
rimase un po’ più indietro, come se fosse in
attesa di un ordine.
Si agitavano diverse sensazioni dentro di lui, alle quali non riusciva
a dare
un ordine né un nome. Sapeva solo che non erano affatto
piacevoli.
Forse, riflettendoci bene, la sensazione che più dominava
sulle altre era la
rabbia, rabbia nei propri confronti, rabbia per non aver capito che
cosa stesse
succedendo a Sherlock in quei giorni, per non averlo ascoltato come
doveva, per
non essergli stato più vicino. Insomma, abitare nello stesso
appartamento non
significava per forza essere intimi e sapere tutto del proprio
coinquilino. Ma
c’era anche un certo senso di impotenza che lo tormentava
perché non aveva idea
di che cosa fare per aiutare Sherlock e, cosa peggiore, non era certo
se ne
sarebbe stato in grado. Sicuramente Connie aveva molto più
potere di lui, era
sua sorella e ci era già passata.
Sei
invidioso, John?
No.
Sicuro?
“Sherly?”
Sentì la voce di Connie, cauta e preoccupata.
“Stai
bene?”
Le rispose il silenzio; Sherlock non
disse niente e non
diede segno di averla sentita. Si limitò a rimanere a
fissare il panorama fuori
dalla finestra.
“Non dovevi sentire quello
che…”.
“Non voglio andare
via”.
“Cosa?!”
“Non mandarmi via.
Non voglio andare in quel… quel
posto”. Quando il detective si voltò
verso la sorella, John si sentì sprofondare nel vedere
quegli occhi così
sofferenti e quell’espressione abbattuta.
“Oh, tesoro. Nessuno ti
manderà da nessuna parte. Te ne
starai qui, con me e John. Non dare ascolto a Mycroft!”
Connie si sollevò sulle
punte e strinse il fratello in un abbraccio. Questi non si ritrasse ma
si
lasciò andare contro di lei, le braccia lasciate pendere sui
fianchi.
Attraverso la spalla della ragazza, lanciò
un’occhiata a John che, appoggiato
contro l’armadio, lo guardava con un piccolo sorriso
rassicurante. Non voleva
fargli capire di essere in pena per lui perché sapeva che a
Sherlock non
piaceva, ma non era molto bravo a nascondere i suoi sentimenti, non
come il
detective, almeno.
“Adesso riposati. A Mycroft
ci penso io. L’ho sempre fatto”.
John e Connie uscirono dalla stanza,
lasciando Sherlock da
solo, ma prima di tornare in salotto, la ragazza si fermò in
corridoio,
guardando il dottore gravemente. “Fagli un prelievo e poi
faremo analizzare la
provetta a Molly. È meglio che non si sappia troppo in giro,
ok?” sussurrò all’amico
per non farsi sentire dal fratello. Benché la porta fosse
chiusa, sapeva che
quando Sherlock voleva, poteva sentire tutto. “Dovremo
tenerlo sotto controllo
in questi giorni. Io non ho intenzione di metterlo in un centro di
disintossicazione”.
“Nemmeno io”,
rispose John, annuendo. “Non ti preoccupare,
ce la farà”. Era d’accordo con Connie:
per quanto fosse un medico e sapesse
comunque che i centri di disintossicazione aiutavano, non gli andava di
lasciare Sherlock in uno di quelli. Insomma, Sherlock non era una
persona
qualsiasi e quindi non era nemmeno un drogato qualsiasi. E poi,
c’era anche il
suo lato egoistico a impedirgli di fare una cosa del genere.
In quel momento i due sentirono
qualcuno tossicchiare dietro
di loro e si voltarono contemporaneamente. Mycroft li guardava col
solito
cipiglio altezzoso. “Constance, dobbiamo parlare di questo
fatto. Non credo sia
una buona idea…”.
“Sta’ zitto! Non
mi interessa che cosa credi tu. Mi occuperò
io di Sherlock e se provi a portarlo via da me e John giuro che chiedo
a Greg
di arrestarti!” Connie era in procinto di mettere le mani
addosso al fratello,
quando un improvviso trillare la bloccò. Mycroft estrasse il
cellulare dalla
tasca e lesse il messaggio che aveva appena ricevuto. Poi
alzò lo sguardo sulla
sorella e storse la bocca. “Ora devo andare. Ma dobbiamo
continuare questo
discorso. Ci rivedremo presto”.
La ragazza alzò gli occhi
al cielo e osservò il fratello
andare via. Non aveva intenzione di fermarlo e sperava di non doverlo
rivedere
troppo presto.
Quando sentì che la porta d’ingresso si chiudeva,
tornò in salotto insieme a
John che aveva appena estratto un po’ di sangue dal braccio
di Sherlock per
consegnarlo a Molly per farglielo esaminare. La ragazza sembrava
piuttosto
turbata, così come la Signora Hudson, che correva di qua e
di là per la cucina,
lavando tazze e pulendo tutti i ripiani che trovava, di modo da tenersi
occupata. John riuscì a farla calmare e la convinse ad
andare a riposarsi, assicurandole
che Sherlock non avrebbe tentato di tagliarsi di nuovo le vene e
nemmeno di
impiccarsi o qualsiasi altra cosa che poteva mettere fine alla sua
vita.
Anche Molly alla fine se ne andò, facendosi promettere che
l’avrebbero tenuta
aggiornata sulle condizioni di Sherlock.
“Che ne dite se ordiniamo
delle pizze per cena?” chiese a un
certo punto Connie, una volta che in casa furono rimasti solo lei, John
e
Lestrade. “Ho parecchia fame”, aggiunse,
massaggiandosi la pancia.
“Per me va bene”,
rispose Greg e John annuì.
Finirono di mangiare la pizza
parlando del più e del meno,
senza nominare Mycroft, la droga o qualsiasi altra cosa che potesse
rovinare l’atmosfera.
Greg parlò di un caso piuttosto semplice che stava seguendo,
al che Sherlock si
distrasse e poté unirsi alla conversazione. Sia Connie che
John furono però
molto felici di vederlo mangiare finalmente come si deve.
Mentre Connie e Lestrade buttavano
via i cartoni della pizza
e mettevano via le posate, Sherlock si alzò da tavola per
salire in camera sua.
La ragazza allora lanciò un’occhiata a John che,
senza aver bisogno di
ulteriori spiegazioni, lo seguì senza farsi notare. Quando
lo raggiunse, lo
trovò che rovistava nell’armadio.
“Non serve che mi
controlli. Non sto sniffando cocaina,
volevo solo cambiarmi la maglietta”, gli arrivò la
voce calma e profonda dell’amico.
“Non volevo
controllarti”, mentì John, ma capì
subito che
era inutile negare l’evidenza, specialmente davanti a un
consulente detective
così intelligente e perspicace. “E’ solo
che sono preoccupato”.
“Non serve nemmeno che ti
preoccupi”.
“Non posso farne a meno,
Sherlock”.
Il moro si tolse la maglietta
rimanendo a petto nudo davanti
a John che non poté evitare di farci cadere
l’occhio. Ma da quando era
diventato così gay? Maledetto il karma!
Sherlock si sedette sul letto con lo sguardo basso. “Scusa,
John”.
“Per cosa?”
“Per essermi drogato. E per
aver pianto sulla tua maglietta”.
John sorrise e si sedette accanto a
lui, poggiandogli una
mano sulla coscia. “Tutti commettono degli errori e sei
ancora in tempo per
tornare indietro. E per quanto riguarda la mia maglietta…
be’, ti lascerò piangerci
sopra tutte le volte che vorrai”.
Sherlock ridacchiò, alzando gli occhi sull’amico e
fermandosi a osservarlo. Poi
sussurrò: “Scusami anche per questo”.
John spalancò gli occhi
quando si trovò le labbra del
detective premute contro le sue, sorpreso e incredulo.
Perché, perché Sherlock
era sempre così dannatamente… così
come? Imprevedibile?
Il dottore ricambiò il bacio, affondando la mano nei capelli
del moro,
lasciandosi andare a quel bacio dolce ma intenso.
Si staccarono solo perché dovevano riprendere fiato.
“Sappi
che tu non mi
devi mai chiedere scusa”, sospirò John contro
l’orecchio di Sherlock, senza
poter evitare di sorridere come un ebete. “Tantomeno se mi
baci così”.
“Allora posso baciarti di
nuovo?”
“Tutte le volte che
vuoi”.
“Solo se stanotte resti a
dormire con me”.
Connie stava lavando i bicchieri
quando sentì Greg sfiorarle
un braccio e appoggiarsi al lavello accanto a lei. Si limitò
a rimanere in
silenzio, però.
“Che
c’è che ti tormenta?” gli chiese lei
Lestrade inarcò un
sopracciglio, maledicendo la sua ragazza
che si accorgeva sempre di tutto. Dopotutto, bastava vedere con chi era
imparentata.
“Stavo solo pensando a
Sherlock”.
“Non ti preoccupare. Si
riprenderà”.
“Questo lo so. È
solo che…”.
Connie richiuse il rubinetto e
lanciò un’occhiata
incuriosita al suo fidanzato. D’accordo che era intelligente
e perspicace, ma
non fino a questo punto. “Solo che cosa, Greg?”
“Non avrei dovuto farlo
lavorare a quel caso, quello della
droga, intendo. Scommetto che è da allora che ha
iniziato”.
La ragazza sbatté le
ciglia e lasciò cadere lo straccio. “Tesoro,
ma che dici? Non importa quando ha iniziato, di sicuro non
c’entri tu”.
“Sì,
però io…”.
“Greg, non è
colpa tua. Smettila!” Si
protese per dargli un bacio veloce sulle
labbra e spettinargli i capelli. “E in ogni caso non
è questo che conta”.
L’uomo
le sorrise e la strinse a
sé. Certo, lui non poteva saperne niente, non sapeva molto
del passato di
Sherlock e di certo non si immaginava che avrebbe ripreso a drogarsi,
ma
comunque non poteva fare a meno di sentirsi un po’ in colpa.
In fondo, lui per
primo ha lanciato il sasso.
Ma ormai il danno era fatto e dare la colpa a qualcuno non avrebbe
aiutato
nessuno.
MILLY’S
SPACE
Ok, giuro che
io non odio Mycroft, anzi, lo amo. È solo che qui
è venuto un po’ così. Ma non
preoccupatevi che si rifarà. Ma da
quant’è che lo ripeto?? Boh.
Scusate il
ritardo nell’aggiornamento ma sono veramente a corto di
ispirazione e nemmeno
questo capitolo mi convince troppo ma non volevo continuare a
rimandare. Temo di
aver fatto Sherlock un po’ OOC. Pazienza.
Prima di
chiudere volevo linkarvi una Oneshot di Torchwood che ho pubblicato
proprio
ieri, nel caso seguiate la serie mi piacerebbe che le deste
un’occhiata http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2801209&i=1
e andate
a visitare la mia
pagina facebook https://www.facebook.com/MillysSpace
E ricordatevi
anche di lasciare una recensione.
Baci,
M
P.S. ho
intenzione di pubblicare una raccolta di Missing Moments tratta da
questa
storia, ma non so ancora quando.
ALICE_D_MONKEY: Sherlock
è troppo puccio solo che
non lo vuole ammettere . Ti prego, non prendertela con Mycroft,
è solo che lui
non capisce… ^^
Alla prossima, un Bacione. Milly
|
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Capitolo 15 *** Capitolo quindici ***
CAPITOLO
QUINDICI
Quando
Sherlock si risvegliò quella mattina, la
prima cosa che fece fu controllare se John fosse ancora lì.
E nello scoprire
che la parte del letto accanto a lui era vuota e fredda si
rattristò
immediatamente. Era da diverso tempo che agognava di svegliarsi stretto
al suo
corpo caldo e sperava di essere accontentato una volta tanto, almeno
quando
stava male, come quel giorno che sentiva la testa girare.
Chissà dov’era andato!
Con
molta calma mise i piedi giù dal letto e si
sedette sul bordo, cercando di trovare le forze per alzarsi; una volta
riuscitoci, dovette aspettare un altro po’ perché
la stanza smettesse di
girare. Poi si incamminò verso l’uscita,
appoggiandosi a tutti i mobili che
trovava a portata di mano per non rischiare di cadere.
Le scale furono un’impresa più ardua, ma
riuscì a gestire anche quelle e
finalmente si trascinò fino alla cucina. I suoi occhi
andarono subito alla
ricerca di John ma nemmeno lì c’era alcuna traccia
di lui. C’era solo Connie
che stava preparando del tè.
Sherlock dovette schiarirsi la gola per farsi notare da lei.
“Sherl!”
esclamò la sorella non appena lo vide. “Ti
sei già alzato! Vieni, siediti!”
Il
moro non se lo fece ripetere due volte e si
accomodò sulla sedia più vicina. Soltanto in quel
momento, però, notò un paio
di bustine trasparenti sul tavolo e le riconobbe immediatamente. In una
era
contenuta una polverina bianca e nell’altra c’erano
un paio di pillole molto
piccole.
“Le
ho trovate tra le tue cose”, spiegò Connie,
notando lo sguardo del fratello.
“E
John dov’è?” chiese Sherlock, spostando
gli occhi
da un’altra parte.
“E’
andato a fare la spesa. Tornerà presto”. Connie
tornò ai fornelli e versò del tè in
una tazza, per poi metterla davanti al
fratello insieme a una scatola di biscotti. “Tieni, mangia
qualcosa”.
“Non
ho fame”.
“Lo
so, ma devi mangiare lo stesso”.
Sherlock
cominciava ad essere un po’ irritato dal
tono amorevole e zuccheroso che sua sorella stava usando con lui,
trattandolo
come un bambino piccolo.
E aveva bisogno di John. Aveva un disperato e forte desiderio di avere
John lì
con lui, anche solo per essere consapevole della sua presenza.
Tuttavia si sforzò di mangiare un paio di biscotti e di
svuotare la tazza. Poi
Connie lo trascinò in bagno perché voleva che
fosse lui a svuotare quella droga
giù per lo scarico.
Le mani del detective tremavano mentre svolgeva quella mansione, ma
doveva
farlo, sapeva anche lui che doveva farlo. Era giusto così.
Aveva superato il
limite.
La sorella lo aiutò quando fece fatica ad aprire una delle
bustine.
La polverina bianca scivolava davanti ai suoi occhi dritta
nell’acqua del water
e soltanto in quel momento Sherlock si accorse di quanto era stato
stupido e
pericoloso. Aveva commesso di nuovo lo stesso sbaglio, era tornata
indietro,
era tornato in quel passato che aveva cercato di rifuggire con tutte le
sue
forze.
Che cosa avrebbero pensato di lui gli altri? Che cosa avrebbe pensato
John?
“Hai
qualcos’altro?” la voce di Connie gli
arrivò
alle orecchie come un tuono che percuote una notte silenziosa e
l’uomo si
riscosse dai suoi pensieri tutto d’un colpo.
“Sherlock, hai altro che dobbiamo
buttare?”
“No”.
“Sei
sicuro?”
“Sì.
Puoi controllare”.
“No.
Mi fido”.
La
ragazza abbassò il coperchio della tazza e mando
giù lo scarico. Il detective vi si sedette sopra e
alzò lo sguardo alla
sorella. “Stanotte ho baciato John”.
Connie
si sedette sul bordo della vasca e guardò
Sherlock come se le avesse appena detto che aveva fatto un viaggio
sulla luna.
“Davvero?”
“Sì”.
“E
lui ha ricambiato?”
“Sì”.
La
ragazza all’improvviso batté le mani e
spalancò
la bocca in un sorriso a trentadue denti. “Oh mio Dio, ma
è fantastico!”
Sherlock inarcò un sopracciglio; in momenti come quello
dubitava che fosse
veramente sua sorella. Ma allo stesso tempo non poteva fare a meno di
esserne
divertito.
“Be’,
dopotutto non mi stupisco. John è pazzo di te”.
“Cosa?”
“Certo!
Come fai a non essertene accorto? Eppure sei
un detective eccezionale”.
Sherlock
scrollò le spalle. Non è che non se ne
fosse accorto, era solo che non aveva voluto illudersi. Aveva fatto
caso ad
alcuni segnali mandatigli da John, che fossero voluti o meno, ma non
aveva
voluto crederci. Aveva etichettato questi piccoli dettagli come inganni
della
sua mente, nulla di più. Ma ora era felice di essersi
sbagliato.
Almeno qualcosa nella sua vita sembrava andare nel modo giusto.
John
rientrò in casa mentre Connie stava riordinando
la cucina. La ragazza lo accolse con un sorriso entusiasta, al che il
dottore
rimase un po’ perplesso ma non fece alcuna domanda.
Probabilmente era qualche
ormone da donna incinta.
“Sherlock
è di sopra”, gli disse. “Metto io a
posto
la spesa”.
John
appoggiò i sacchetti sul tavolo e corse su per
le scale, dritto in camera di Sherlock. Lì trovò
l’uomo intento a osservare
degli spartiti, col violino ancora appoggiato dentro la custodia.
“Ciao”.
“Ciao”.
“Sei
tornato”.
“Sì”.
John,
fermo ancora sulla soglia, esitava a entrare,
maledicendosi per non aver preparato un discorso. Gli sarebbe stato
molto utile
perché un quel momento non aveva la più pallida
idea di che cosa dire, o
meglio, sembrava che tutte le parole gli si fossero incastrate in gola.
E così
stava facendo la figura del pesce lesso. Come suo solito…
Allora
cominciò a schiarirsi la gola.
“John,
dobbiamo parlare”.
Di
nuovo, il biondo rimase senza parole, a fissare
Sherlock come un baccalà.
“Per
quel bacio, io…”.
“Aspetta!”
lo interruppe il dottore, ponendo una
mano aperta davanti a sé per dare più enfasi alle
sue parole. “Aspetta”.
Abbassò lo sguardo. Non ce la faceva a guardarlo negli
occhi, tutto quello era
nuovo per lui. “Qualsiasi cosa tu stia per dire aspetta
perché se aspetto io poi
non ce la farò a dirti quello… quello che voglio
dirti”. Alzò lo sguardo solo
per vedere l’espressione di Sherlock, il quale lo guardava
incuriosito ma in
attesa delle sue parole. John esalò un sospiro e
continuò: “Io… io provo
qualcosa, per te. Non so esattamente cosa sia o forse ancora non lo
voglio
ammettere, ma… so che tengo a te più di quanto si
possa tenere a un semplice
migliore amico e so che… voglio che il nostro rapporto sia
più di una semplice
amicizia…”. All’improvviso, senza avere
il tempo di concludere, si trovò le
labbra di Sherlock premute contro le proprie e le sue braccia che lo
stringevano, come per impedirgli di allontanarsi. Non che John lo
avrebbe
fatto.
“Anche
io voglio qualcosa di più”.
Mycroft
entrò nell’appartamento con l’ombrello
appeso al braccio e l’elegante completo leggermente bagnato.
“Myc”,
lo salutò Connie cordialmente ma con una
punta di freddezza nella voce.
“Ciao,
Connie. Dov’è Sherlock?”
“E’
in camera con John”.
Fratello
e sorella si stavano fronteggiando nel
centro del salotto, come l’altra sera, però con
meno ostilità.
“Senti,
Myc, non ho voglia di litigare con te. Ma non
voglio nemmeno mettere Sherlock in un centro di disintossicazione. Gli
ho fatto
buttare via tutta la droga. Ti posso assicurare che io e John possiamo
gestire
la cosa”.
“Lo
so che potete farlo. Nemmeno io voglio chiuderlo
in uno di quei posti”.
Connie
lo guardò sconcertata. “Che cosa?”
“Ho
reagito molto male l’altra sera. Ti chiedo scusa”.
Mycroft
che chiedeva scusa? Questa se la sarebbe
dovuta appuntare.
“Quindi…”.
“Quindi
faremo a modo tuo. Ovviamente, sappiate tu e
John che anche io voglio aiutare Sherlock. E non ho intenzione di
essere messo
da parte”.
“Certo.
Assolutamente”. La ragazza sorrise contenta
e pure Mycroft non poté fare a meno di
piegare le labbra in un debole sorriso che parve più una
smorfia che un vero
sorriso.
John,
seduto sul letto, teneva il portatile aperto
sul grembo. Sherlock, sdraiato accanto a lui, col dito gli disegnava
dei
ghirigori sul braccio.
“Allora,
cosa dicono i tuoi fan?”
“La
maggior parte sono persone che chiedono di
risolvere dei casi per loro. Oh, e c’è una bambina
che vorrebbe tu le
risolvessi il mistero dell’omicidio del suo cavallo zoppo. I
suoi genitori
dicono che è stato morso da un serpente velenoso, ma lei
pensa che lo abbiano
ucciso loro perché era zoppo”.
“Probabilmente
è così”, concluse il detective,
portando
le braccia dietro la testa.
John
chiuse il
computer, lo poggiò a terra e si strinse addosso a Sherlock.
Era tutto così perfetto.
Tutto.
MILLY’S
SPACE
Ciao
a tutti,
sarete
contenti di sapere che non sono morta? ^^ *apre l’ombrello
di Mycroft in caso di lancio di pomodori*
Dopo
tutto questo tempo finalmente mi sono decisa ad
aggiornare la fanfiction. Il ritardo non è stata una cosa
voluta, semplicemente
mi sono mancati il tempo e l’ispirazione.
Spero vi ricordiate ancora di questa storia.
Va
be’, non voglio perdermi in inutili ciance che tra un
po’ devo uscire e non mi sono ancora preparata.
Vi
ricordo di visitare la mia pagina fb, Milly’s Space, e
di lasciarmi qualche recensione, anche per urlarmi contro XD
Un
bacione,
M.
MONKEY_D_ALYCE:
ciao, carissima!! Anche io voglio un Sherlock da coccolare…
e invece è solo
John ad avere questa fortuna ^^ be’, siamo felici per lui.
Yeeeah! Spero di
risentirti, un abbraccio. Milly.
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