Crystalized

di LilithJow
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Death comes home ***
Capitolo 2: *** Truth is that truth kills. ***
Capitolo 3: *** You promised it. You broke it. ***
Capitolo 4: *** Sign. ***
Capitolo 5: *** Be aware of what you wish ***
Capitolo 6: *** Be selfish, be scared. ***
Capitolo 7: *** And it burns and I turn into dust. ***
Capitolo 8: *** Fate, it's late. ***
Capitolo 9: *** To begin and to end ***
Capitolo 10: *** My memories are screaming. ***
Capitolo 11: *** This anger is gonna consume you. ***
Capitolo 12: *** Humans are obscure. ***
Capitolo 13: *** Never gone. ***
Capitolo 14: *** I crash and I break down. ***
Capitolo 15: *** Defeated. ***
Capitolo 16: *** Always know better. ***
Capitolo 17: *** Save yourself, save myself. ***
Capitolo 18: *** No fear. ***
Capitolo 19: *** Some kind of madness. ***
Capitolo 20: *** Chosen. ***
Capitolo 21: *** No turning back. ***
Capitolo 22: *** It happened in a blink. ***
Capitolo 23: *** Feeling. ***
Capitolo 24: *** Free falling. ***
Capitolo 25: *** Everything goes black. ***



Capitolo 1
*** Death comes home ***


Capitolo 1
"Death comes home"


Non esiste cosa peggiore del silenzio. Quell'assenza di suono che congela ogni muscolo del corpo, che spegne la razionalità, che attiva ogni paura. Il silenzio, quello che distrugge, quello che è assordante, pur essendo muto.

Non è un caso che il silenzio sia sempre associato al dolore e alla morte.

 

In quella fabbrica abbandonata alle porte di Chicago, esso regnava sovrano, interrotto solo dai miei singhiozzi e dalle mie preghiere, che nemmeno più riuscivo a sentire.

«Ti prego, apri gli occhi. Ti prego, ti... Ti prego, Simon. Respira... Ti prego, respira».

Lo scuotevo appena, stringendolo tra le mie braccia. Continuavo ad accarezzargli il viso, imbrattandogli la pelle candida di rosso. Ma nulla accadeva. Lui non si muoveva, non aveva alcun tipo di reazione. Restava semplicemente ed inesorabilmente immobile.

«Scena commovente, davvero». La voce metallica di Sebastian rimbombò in quel grande spazio. D'istinto, strinsi di più Simon a me, come se in quel modo potessi proteggerlo, il che non mi era riuscito per niente bene negli ultimi tempi. Strizzai gli occhi, cercando di scacciare via le lacrime che non accennavano a smettere di colare sulle mie guance, e poi alzai lo sguardo, ritrovando mio fratello in piedi, davanti a me, con un sorriso beffardo stampato in faccia.

Sembrava compiaciuto. La mia sofferenza era il suo spettacolo preferito.

Non replicai. In tal caso, lui avrebbe solo continuato a provocarmi, così da farmi stare peggio, come faceva ogni volta. Come aveva sempre fatto in tutti quei secoli.
Tuttavia, nemmeno la mia non risposta riuscì a fermarlo quella volta. Lo vidi piegarsi sulle gambe, così da essere alla mia altezza, completamente abbandonata sulla pietra fredda e sporca che fungeva da pavimento. «Gli umani sono così effimeri» disse, osservandomi quasi con disgusto. «Basta un niente per annientarli e abbatterli. Uno schiocco di dita, direi». Fece una breve pausa, dopo di che allungò una mano. Ebbe l'intenzione di sfiorare un braccio di Simon e io scattai rapidamente indietro, impedendoglielo. «Non lo toccare» sibilai. Lui abbozzò un sorriso, ironico.

«Hai mai creduto nelle coincidenze, Hazel?» domandò. Non mi diede nemmeno la possibilità di rispondere – non lo avrei fatto comunque – e andò avanti: «Io no, ma mi sbagliavo. Tutto si svolge secondo uno schema preciso. Un grande e perfetto schema di cui tu fai parte. Anzi, voi... Sì, voi siete i tasselli fondamentali». Rise e quello sì che riuscì a rompere il silenzio, in modo violento.

«Riesci a sentirlo, sorella mia? Sta accadendo» esclamò. «Stasera è la sera e tu mi hai servito ciò che volevo su un piatto d'argento. Bella mossa».

«No... No, non può essere» balbettai. Sperai di aver frainteso le sue parole, sebbene non potessero essere più chiare.

La sera.

Quella sera.

La sera del Sacrificio ed esso era stato effettuato, in qualche modo.

«Non essere triste» disse, poco dopo. «Anche tu avrai ciò che vuoi».

Mi morsi piano il labbro inferiore. La sua euforia era irritante. «Riesci a sentire anche questo?» continuò, a gran voce. «Ricordi la leggenda trovata dalla streghetta? Beh, più che trovata, sono stato io a dirle tutto, lei ha solo recitato bene la parte. Serviva una chiave per renderti umana ed eccola qui. La chiave per l'umanità di un Divoratore e il Sacrificio per riportare in vita il nostro Creatore coincidono. Non è ironico?».

Si alzò in piedi, allargando le braccia. Aveva l'aria trionfante e mentre lui saliva la sua scala di gloria, io sprofondavo sempre di più nell'abisso, perché ciò che voleva dire era semplice.

Dannatamente semplice.


Sarei diventata umana, ciò che avevo sempre voluto, ma esserlo senza Simon non aveva alcun senso.

«In realtà» andò avanti Sebastian «non ho mai capito perché è così importante per te. Perché desiderare l'infelicità? Il dolore? L'autocommiserazione? E' questo che gli umani hanno: una vita misera, con una fine ben precisa. Perché desiderare tutto ciò?».

Non mi sorprese sentirlo parlare in quel modo. Il suo disprezzo verso gli esseri umani era sempre stato ai massimi livelli. Non aveva mai avuto compassione, per niente e nessuno, e nonostante tale aspetto, continuava a considerarsi migliore di loro.

Ragionamento ipocrita ed egoista.

«Sei un mostro» sussurrai, prima di poggiare le labbra sulla fronte di Simon. Sebastian abbozzò una risata, sarcastica. «Lo so bene, sorellina» esclamò. «Fino a qualche minuto fa lo eri anche tu, solo che io amo esserlo. Io voglio esserlo».

Si inginocchiò nuovamente e inclinò appena il capo di lato, trafiggendomi con i suoi letali occhi rossi. «Sai qual è la parte divertente?» disse. «Se solo volessi, adesso potrei toglierti di mezzo con un niente. Potrei usare un coltello, o una pistola, o spezzarti il collo oppure, il metodo che preferisco, strapparti via il cuore dal petto. Non lo vorresti? Saresti di nuovo con il tuo stupido animaletto da compagnia».

Io avevo sempre odiato la morte, così come le persone che le andavano incontro; quelle che rinunciavano alla propria vita, sperando in un'esistenza migliore, che però non c'era e io lo sapevo bene. Non capii perché nella mia mente si materializzò l'idea di permettere a Sebastian di uccidermi e non era qualcosa di simile a ciò che era successo in precedenza.
Avevo deciso di sacrificarmi per permettere a Simon di vivere e ritenevo che fosse una buona motivazione. Ma allora, una ragione non c'era, eppure lo desideravo comunque.
Sentii il mio cuore battere, per la prima volta. Fu terribilmente strano, come se il mio corpo non mi appartenesse. Tremai e il mio sguardo si posò sul viso rilassato di Simon.

Simon.

Simon se n'era andato.

Simon non sarebbe mai più tornato.

«Fallo» biascicai, in modo a malapena percettibile. E lui l'avrebbe fatto, se solo qualcosa, o meglio, qualcuno, non fosse intervenuto. Non vidi bene cosa successe, strizzai gli occhi e quando li riaprii, mi ritrovai in un posto fin troppo conosciuto.

Il salotto moderno di casa di Martha mi sembrò fin troppo fuori luogo per la situazione in cui mi trovavo. Era tutto in ordine, tutto perfetto, mentre dentro di me c'era il caos.
Percepii delle mani sulle mie spalle. Appartenevano alla mia migliore amica, me ne resi conto senza voltarmi. A dare ulteriore conferma, si aggiunse la sua voce. Sussurrò il mio nome e poi iniziò a tirarmi. Capii subito il perché lo stesse facendo.
Io stavo ancora cullando Simon tra le mie braccia e, istintivamente, strinsi la presa.

«Lascialo andare, Hazel» disse ancora Martha. Il suo tono sembrava rassegnato.

«No» mormorai. «No!». E poi urlai.

Fu allora che tutto crollò, per l'ennesima volta in così poco tempo.

“Perché il dolore non colpisce mai una sola volta. E' costante, a volte più acuto, altre volte viaggia a livelli più bassi, ma è sempre presente”.

Circa un secolo prima, una ragazza mi aveva detto quella frase. Non le avevo mai creduto, fino a quel momento.

«Hazel...».

«No... No, non... Non posso, non... Io non ce la faccio, non... Non posso... Non posso!».

Piangevo, mi disperavo e avevo il suo corpo senza vita che gravava su di me. Me lo ero portato addosso, quasi del tutto, e stavo bagnando il suo viso con le mie lacrime.
Ero ormai completamente imbrattata di sangue e nemmeno mi importava. Mi stavo lentamente annientando, annullando, con consapevolezza.
Tuttavia, Martha mi tirò nella propria direzione con più forza, afferrandomi entrambe le braccia, e riuscì a distaccarmi quel tanto che bastava da Simon per far sì che noi due ci dissolvessimo. Riapparimmo nella camera da letto, quella dalle pareti verde smeraldo, in cui rare volte ero entrata.

Ero in piedi, di fronte a lei che mi fissava con un'espressione dispiaciuta, che in quel momento odiai con tutte le forze a me rimanenti. La mia vista era offuscata dalle lacrime, ma ciò non mi impedì di tentare di scansarla e dirigermi verso la porta ricoperta di vernice bianca e ben sigillata.
Quell'intenzione, però, non giunse al termine. Martha mi bloccò di nuovo, tenendomi per le spalle.

«Devo andare» biascicai. «Non... Non posso lasciarlo da solo, lui non vuole mai stare da solo, non... Devo stare con lui».

«Hazel».

Se solo lo avesse ripetuto un'altra volta, in quel tono, per giunta, avrei seriamente iniziato ad odiare il mio nome.

«Per favore...» mormorai ancora.

«Sei ferita» replicò lei, ignorando le mie suppliche. «Hai bisogno di darti una ripulita e di riposare».

Martha: sempre lucida e razionale. Come ci riusciva?

Io nemmeno mi ero accorta di essere ferita, ma mi fece notare come un grosso taglio era aperto sulla mia fronte e sulla coscia sinistra.
Abbassai per un attimo lo sguardo, osservando le mie mani ricoperte di sangue. Quando lo rialzai, incrociai i suoi occhi azzurri, che tentavano di essere di conforto. «Sono umana» sussurrai.

«Lo so».

Come faceva a saperlo rimase un mistero, ma non me ne stupii. Non per il momento. Lei era a conoscenza di un sacco di cose prima di me.

«Martha...» biascicai. Quella mia frase nemmeno ebbe l'opportunità di venir pronunciata. Non ebbi più la forza di parlare, né di fare qualsiasi altra cosa. Nemmeno lei parlò più, si prese solo cura di me, spostandomi per la stanza quasi fossi una bambina. Io non ero mai stata trattata così, non ne avevo mai avuto bisogno, fino ad allora.

Martha mi medicò le ferite, le ricoprì con delle garze bianche e cerotti. Dopo, mi trascinò in bagno, ficcandomi nella vasca enorme che aveva. L'acqua bollente riuscì a rilassare almeno il mio corpo, almeno per qualche minuto.
La mia mente rimase costantemente rivolta a Simon, al pensiero del suo corpo steso a terra, a pochi metri di distanza da dove mi trovavo. Più volte pregai Martha di lasciarmi perdere e di permettermi di andare da lui, ma non acconsentì.
Nella mia nuova condizione, non potevo fare nulla per raggirarla. Non ci riuscivo neanche prima, con tutti i miei poteri; solo pensare di farlo allora sembrò un paradosso.

Una volta completamente ripulita e rivestita da una camicia da notte bianca, Martha mi ordinò di mettermi a letto. Seppur restia, le obbedii. La vidi sparire per qualche minuto e quando tornò, reggeva in mano una tazza di ceramica, fumante.

«Che cos'è?» chiesi.

«Qualcosa per aiutarti a dormire».

«Non ne ho bisogno».

«Io credo di sì».

«Dormire, Martha... Non so nemmeno se ne sono capace. Non ho mai dormito».

«E' più facile di quel che pensi. Bevi questo e chiudi gli occhi».

Aveva tutta l'aria di una madre autoritaria. Tuttavia, sotto gli sguardi severi che si sforzava di fare, riuscivo a scorgere in lei un velo di insicurezza e instabilità, lo stesso che ricopriva me, pesantemente.

Mi porse la tazza. La presi distrattamente tra le mani, fissando il liquido giallognolo al suo interno. Doveva essere una tisana o una camomilla. Avevo visto Simon prenderla un paio di volte, ma non lo aveva mai aiutato a dormire. Ero pressapoco sicura che non avrebbe funzionato nemmeno con me, soprattutto in un momento come quello.

Scossi appena la testa, abbandonando il piccolo recipiente sul comodino.

«Non voglio dormire» sussurrai. «Non ci riuscirei nemmeno. Voglio... Voglio andare di là e...».

«Me ne occupo io di lui» mormorò Martha, in risposta.

«No, devo...».

«Non devi fare niente, Hazel, a parte andare a letto e riposare. Dammi retta, per favore. Ti aspettano cose atroci e quel che davvero devi fare è essere pronta quando arriveranno e non stanca e spossata».

Mi fulminò con lo sguardo e mi parve che il suo tono di voce si fosse fatto più severo. Non aggiunse altro e io non potei ribattere, poiché si volatilizzò in uno sbattere di palpebre.

«Martha...» cantilenai, andando verso la porta. Ovviamente, era chiusa a chiave dall'esterno.

Ero intrappolata in quella stanza, mentre il mondo fuori iniziava a sgretolarsi completamente e, con esso, anch'io.

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Capitolo 2
*** Truth is that truth kills. ***


Capitolo 2
"Truth is that truth kills"


Era vero: addormentarsi era facile. I problemi sopraggiunsero dopo, quando gli incubi più neri mi avvolsero, senza avere l'intenzione di lasciarmi andare. E io urlavo, correvo, mi affannavo, ma niente cambiava. Volevo svegliarmi, ma le mie palpebre continuarono ad essere abbassate.

Ad un tratto, tuttavia, ogni cosa cessò. Vidi solo nero e ne fui lieta, perché trovai pace, almeno per un po'.

Quando aprii gli occhi, la luce del sole filtrava lieve tra le tende bianche della stanza. Ero confusa e la testa mi girava.

“Bella prima dormita” pensai, sfregandomi gli occhi.

Mi trascinai fuori dal letto, rabbrividendo al contatto dei piedi nudi con il pavimento gelido.

Non ci fu molto tempo per formulare qualsivoglia pensiero coerente, poiché delle voci attirarono subito la mia attenzione. Erano lontane e attutite. La differenza con il mio udito da Divoratrice era evidente.

Così, camminai lenta verso la porta. Riuscii ad aprirla. Evidentemente la mia prigionia era stata sufficiente.

Quanto era passato? Probabilmente ore.

Seguii la frequenza delle voci, che mi indirizzarono verso il salotto. Una apparteneva a Martha, non c'erano dubbi. L'altra era di un ragazzo dallo spiccato accento francese, che non conoscevo.

«Ascolta, so che tu non ci hai a che fare quasi per niente, ma ne riconosco uno se lo vedo» disse lui.

«Non l'hai visto» replicò Martha.

«No, però mi hai raccontato quel che è successo. E' in stato di shock. Shock emotivo, uno della peggior specie. Sfido chiunque a non esserlo».

Roteai gli occhi. Ero umana da neanche ventiquattro ore e già sperimentavo i lati più negativi.

Sarei rimasta ad ascoltare ancora a lungo, tuttavia, entrambi si accorsero della mia presenza sulla soglia della porta.
Il ragazzo si voltò. Era alto, capelli castani e occhi chiari. Non era solo il suo accento ad essere francese; anche dai suoi tratti lo si sarebbe capito. «Ti sei svegliata» esclamò Martha, abbozzando un sorriso nella mia direzione.
«Già» replicai, distrattamente. «Tu chi sei?» domandai allo sconosciuto. Lui non rispose, come se gli fosse stato imposto il divieto di farlo. Si limitò a fissarmi, in modo pressapoco irritante.

«Lui è Thomàs» fu Martha a fornirmi tale informazione, avanzando verso di me velocemente. «E' un mio amico».

«E' un Divoratore?».

«Ah, non direi proprio» intervenne Thomàs. Si accosto a noi, poco dopo. Mi sorrise, del tutto allegro. Probabilmente, il suo scopo era di far curvare le labbra all'insù anche a me. Io, tuttavia, rimasi pietrificata. Lo guardai per un attimo in volto e tornai con lo sguardo su Martha.

Del resto, chi fosse quel tizio non mi importava davvero.

«Dov'è Simon?» domandai.

Martha sospirò. «Il suo corpo è nella camera da letto, quella più grande» replicò. Non mi piacque per niente il modo in cui marcò le prime parole della frase.

Scossi appena la testa. «Voglio andare da lui» esclamai. Vidi Thomàs dissentire e non ne capii il motivo. Che c'entrava, poi, con me e tutta quella storia?

«Non credo sia una buona idea» disse Martha.

Feci una smorfia. «Non credo di averti chiesto il permesso».

«Hazel...».

La fulminai con lo sguardo, a quel punto. «Ti prego, smettila di ripetere il mio nome con quel tono di pietà» quasi urlai, nervosa. «Voglio andare da Simon. Ora».

Martha e Thomàs si scambiarono ancora qualche sguardo. Io stavo seriamente rischiando di impazzire.

Di nuovo.

«Non puoi vederlo, Hazel. Mi dispiace» sussurrò il francese. Sembrava davvero spiacente.

«Perché?».

«Perché...» lasciò la frase in sospeso. Non sapeva come completarla.

«Ditemi perché!» strillai e strizzai gli occhi, cercando di impedire alle lacrime di riaffiorare. Nessuno dei due rispose e io avevo voglia di picchiarli entrambi. Non che avessi davvero potuto farlo, date le mie condizioni – shock emotivo, giusto per citare Thomàs.
Scossi violentemente la testa e corsi via, verso la nostra camera da letto. Mi aspettai le braccia di Martha a fermarmi, ma, sorprendentemente, non lo fece. Forse aveva capito che sarebbe stato inutile o, forse, l'amico francese le aveva impedito di farlo. Non mi soffermai troppo a valutare le possibili motivazioni.

Ormai ero di fronte alla porta. Avevo il fiato corto, come se avessi corso per chissà quanto. I battiti del mio cuore risultarono ancora più fastidiosi rispetto alle ore precedenti. Sfiorai con le dita la maniglia, spingendola verso il basso e fui dentro.
Era buio. Dovetti sbattere più volte le palpebre per riuscire a muovermi senza sbattere contro qualcosa. Riuscii a raggiungere il letto e, successivamente, l'interruttore dell'installazione che avrebbe proiettato le città del mondo sulle pareti allora bianche e anonime. Preferii premere quello, piuttosto che accendere la grossa lampada che si trovava sul comodino.
Una luce fioca cominciò ad invadere la camera, mentre solo in quel momento mi accorgevo di quanto facesse freddo. Il profilo di New York al tramonto si delineò sui muri e scoprì il viso di Simon, disteso sul letto, con le braccia lungo i fianchi.
Avrei detto che stesse dormendo, ma, purtroppo, dei particolari non buoni attirarono la mia attenzione. Dei segni – erano tagli sulla pelle – tracciati a ricostruire simboli antichi che non conoscevo, gli marcavano il volto, partendo dalla tempia sinistra, scendendo giù per il collo e la spalla.
Tremai appena e tirai giù, di riflesso, una parte della felpa che aveva addosso. I segni continuavano per tutto il braccio e più scendevano, più erano cruenti.

«No» biascicai. «No, no, no!».

Chiusi e riaprii più volte gli occhi, sperando, pregando di aver avuto solamente un'allucinazione. Lo shock emotivo ne portava alcune, no?

Vidi altri tagli aprirsi sulla sua pelle candida, sotto il mio sguardo isterico.

«Ti ho detto che non sarebbe stata una buona idea». Martha fu al mio fianco, senza che me accorgessi. Allo stesso modo, avevo iniziato – o ricominciato? - a piangere. Mi voltai nella sua direzione, mordendomi forte il labbro inferiore. «Cosa sono?» domandai.

«Sigilli» rispose, sospirando. «Simon era il sacrificio. Il suo sangue è servito per riportare in vita il Creatore, che, essendo stato chiuso negli Inferi per tutti questi secoli, si è indebolito. Deve usare l'energia di qualcuno per essere in completa forma... O quasi».

«Si sta nutrendo della sua anima?».

«No, della sua energia vitale. Il corpo umano la conserva in sé per un po', anche dopo la morte, e la perde pian piano. Il Creatore sta solo accelerando i tempi. Una volta ristabilito, però, vorrà anche la sua anima».

Il petto mi tremò. Mi accorsi che il mio cuore stava battendo all'impazzata. Mancava poco e sarebbe scoppiato, ne ero sicura.
La visione del corpo privo di vita di Simon era stata già troppo da affrontare, ma vedere i suoi tratti martoriati in quel modo, fu un vero colpo basso. Mi passai una mano sul viso, cercando di ignorare la nausea che mi pervase. Perlomeno, credetti fosse nausea. Non ero abituata a sensazioni così forti.

«Come lo fermiamo?» chiesi.

«Dobbiamo trovarlo prima che possa completare la sua resurrezione. Per questo ho chiamato Thomàs. Può aiutarci».

«Non è un Divoratore, come può aiutarci?».

«No, infatti. E' un Cacciatore di Divoratori».

«Cosa?».

«E' una storia lunga, meglio non discuterne adesso». Fece una breve pausa, prima di proseguire. «Prima dobbiamo occuparci del suo corpo».

Di nuovo, si riferì a Simon solo come un cadavere e, di nuovo, la cosa mi irritò. «Che intendi?» domandai, retorica.

«Lo sai. Dobbiamo... Portarlo da un'altra parte, dove... Dove può riposare in pace».

«Noi non lo seppelliremo».

«Non possiamo tenerlo qui, Hazel. E' morto, il corpo inizierà a decomporsi e...».

«Simon non si muove da qui» sentenziai. «Io... Io lo riporterò indietro».

«E' umano, Hazel. Non puoi riportarlo indietro».

Anche senza la sua frase, ero già ben consapevole dell'impossibilità di tale azione. Eppure, dovetti credere che sarebbe stato possibile.

Doveva essere possibile.

«Gli umani credono che non si può fare» esclamai. «Noi... Noi viviamo in un mondo sovrannaturale, abitato da creature di ogni genere, con streghe e maghi. Perché non può accadere?».

«Perché la morte è più forte di ogni creatura sovrannaturale».

Non riuscivo a capire perché Martha mi stesse scoraggiando in quel modo. Lei era sempre quella che cercava soluzioni dove non se ne vedeva nemmeno l'ombra. Si era già arresa e risultava più che difficile per me mandare avanti quella crociata da sola. Ma lo avrei fatto comunque.

Mi voltai, evitando i suoi occhi, colmi di un misto tra rimprovero e dispiacere. «Lasciami sola, per favore» sussurrai.

«Vieni di là, Hazel».

«Ho detto di lasciarmi sola».

Martha esitò a quella mia richiesta. Aspettò almeno cinque minuti, prima di obbedirmi, forse arrendendosi alle circostanze. Non mi girai. Sentii soltanto la porta chiudersi, lentamente.

«Okay» mormorai, mentre mi passavo una mano sul viso. Salii piano sul materasso, sdraiandomi al fianco di Simon. Cercai di non smuoverlo troppo, convinta che in qualche modo potesse sentirmi e ciò potesse infastidirlo.

“Sei pazza” dissi a me stessa e probabilmente era vero.

Le mie dita tremanti raggiunsero il suo volto. Accarezzai delicatamente la sua guancia, così come facevo sempre quando lo guardavo semplicemente dormire.
«E' vero quel che ho detto, okay?» biascicai. «Io ti riporterò indietro. Non mi importa come, o a quale prezzo: tu tornerai da me». Abbassai per un attimo lo sguardo, sugli atroci segni che gli marcavano la pelle. «Questi andranno via» continuai «andranno via e tutto... Tutto si aggiusterà, d'accordo?».
Mi sporsi verso di lui e appoggiai le labbra sulle sue, immobili e fredde. «Sono umana adesso» mormorai. «A cosa mi serve esserlo se non ho te?».
Mi aspettavo che rispondesse. Speravo, pregavo con tutta me stessa che lo facesse. Supplicai affinché quello fosse un brutto sogno, sebbene non ne avessi mai avuto uno. Però nulla accadde, come sempre. A me era stata concessa solo la cruda realtà e sicuramente quell'aspetto non sarebbe cambiato.
Coprii gli orrendi sigilli tirandogli giù la felpa e tornai ad accarezzargli piano una guancia.
E allora iniziai a far ciò che più adoravo, ciò che lui adorava. Iniziai a cantare una delle ninne nanne che gli sussurravo durante le notti in cui non riusciva ad addormentarsi, quelle che conciliavano un sonno sereno, pieno di bei sogni.

 

«When the dark comes,

you don't be afraid.

When the dark comes,

you don't be scared.

'Cause I'm here with you,

baby, I'm here with you.

I'm not letting you go,

baby, I'm not letting go.

And when the light comes,

don't you wake up,

'cause I'm still here

baby, I'm...».

 

Interruppi il canto, a causa del magone che mi assalì e delle lacrime che mi riempirono gli occhi. Quanto avrei voluto essere priva di emozioni in quel momento.
 

***

 

Rimasi immobile in quella posizione, singhiozzando fino a farmi mancare il respiro per delle ore. A me parvero tali. Le tende della stanza erano chiuse, ogni cosa era avvolta nell'oscurità, eccetto per la fioca luce dell'installazione.
Avrebbe potuto essere ancora giorno o un'altra notte.

Sollevai il capo e notai, con ribrezzo e orrore, che i segni sulla pelle di Simon erano aumentati, estendendosi anche sulla guancia e raggiungendo l'angolo della bocca. Strizzai gli occhi, ormai asciutti. Probabilmente, le lacrime nel mio corpo si erano esaurite.

«Torno subito, d'accordo?» sussurrai al suo orecchio, fingendo ancora, inesorabilmente, che potesse sentirmi. Pensare che fosse così mi tenne a galla in quell'oceano di dolore.

Strisciai fuori dal letto e barcollai verso la porta. Varcai la sua soglia e me la richiusi alle spalle. A passo lento, raggiunsi il salotto. Vi trovai solamente Thomàs, seduto sul divano, quasi del tutto sommerso da fogli e libri.
Mi fermai a pochi metri da lui, che alzò lo sguardo non appena si accorse della mia presenza. «Dov'è Martha?» domandai.

Thomàs abbozzò un sorriso di circostanza e chiuse il grosso libro dalla copertina consumata che aveva appoggiato sulle gambe. «E' andata a procurarci delle cose che ci saranno utili» rispose e si mise in piedi, facendo un passo nella mia direzione. «Tu come stai?».
Feci una smorfia. Cercava di essere carino e gentile, quasi sicuramente sotto suggerimento della nostra amica in comune. «Sto bene» mormorai.

«Forse... Forse dovresti farti una doccia».

«Perché?».

«Beh... Non hai proprio un buon odore».

«Avere un profumo gradevole non rientra nelle mie priorità al momento».

«Non è per quello». Fece una breve pausa, poggiando le mani sui propri fianchi. «Insomma, hai passato le ultime tre ore accanto ad un cadavere e...».

«Non parlare di lui così» lo interruppi, bruscamente.

Thomàs accennò una risata, sarcastica. «Come ne dovrei parlare? E' morto e tenerlo chiuso dentro quella stanza non cambierà le cose. Prima accetti il fatto che se ne sia andato, meglio è per tutti».

Chi era quell'individuo per parlarmi in tono così duro, senza nemmeno conoscermi?

Era la prima volta che provavo quel genere di rabbia. Non era quella derivata dalle anime Divorate o quella che mi aveva avvolto quel maledetto giorno in ascensore.

Era qualcosa di distruttivo, che rischiò di farmi esplodere la testa.

Senza rendermene effettivamente conto, d'istinto, sollevai una mano e lo colpii con forza, con violenza, sul viso. Uno schiaffo, un colpo secco, che lo portò a girare il capo, per attutirlo.
Thomàs rimase immobile per qualche secondo, mentre io osservavo le mie dita tremanti ancora a mezz'aria.

«Scusami» sussurrai, ritraendo la mano al petto. Lo vidi voltarsi e toccarsi piano la guancia dove era già impresso un segno rosso. «Non fa niente» replicò.

«Non volevo colpirti, davvero, io non...».

«Ho detto di non preoccuparti».

Mi morsi piano il labbro inferiore. In un certo senso, l'aver colpito Thomàs era stato liberatorio.

«Lo so che è difficile» disse, poco dopo. «Lasciar andare qualcuno che ami è... Davvero difficile. Però bisogna farlo». Fece una breve pausa, poi riprese: «I miei genitori sono morti quando avevo dodici anni. Ho dovuto andare avanti dopo due ore circa e loro avevano fatto parte di ogni singolo momento della mia vita fino ad allora. Eppure ci sono riuscito. Tu conosci quel ragazzo da quanto, qualche mese?».

Avrei volentieri detto ciò che pensavo riguardo al suo modo di vedere le cose, del tutto assurdo, a mio parere, ma non ebbi il tempo. Il ritorno di Martha precedette le mie parole e il dialogo non ebbe maniera di avere un seguito.
Aveva in mano uno scatolone enorme. Normalmente, avrei chiesto informazioni riguardo al suo contenuto, ma in quel momento le mie priorità erano diverse.

«Vi lascio sole». Thomàs si congedò immediatamente. Lo vidi dirigersi verso il lungo corridoio della casa e sparire in una delle camere degli ospiti.

Quando tornai con lo sguardo su Martha, aveva poggiato lo scatolone a terra e si avvicinò lenta a me, sorridendo in maniera rassicurante.

Credeva che infondermi un briciolo di felicità funzionasse?

«Voglio contattare delle streghe» dissi, ad un tratto. «Tu sai a chi chiedere, no? Magari prima ci informiamo sul fatto che non abbia contatti con il nemico».

Martha sospirò. Senza che lo affermassi in modo diretto, aveva già capito quale fosse il mio scopo. Era pressoché impossibile non comprenderlo. «Non farlo, Hazel» mormorò.

«Col tuo aiuto, potrò muovermi più in fretta» replicai, ignorando le sue ultime parole. «Per favore».

«Non posso aiutarti, mi dispiace».

«Non puoi o non vuoi?».

Esitò. «Non voglio. Non voglio, perché so che ogni strada che prenderai, sarà un vicolo cieco che non riporterà indietro Simon e insinuerà in te delusione e altro dolore».
Mi morsi forte il labbro inferiore. Non avere l'appoggio di Martha in quella situazione fu terribile. Lei era sempre stata la mia ancora, attraverso i secoli. Non mi aveva mai abbandonata e se in quel momento si stava allontanando da me, voleva dire che le cose erano davvero irrimediabili e ciò mi sconfortava in modo inesorabile. Eppure, non glielo diedi a vedere. O meglio, cercai di fingere che mi andasse bene. «Okay» esclamai, recitando in tono duro. «Vuol dire che devo iniziare subito a muovermi, se voglio fare in fretta».
Martha, a tal punto, non osò replicare. Molto probabilmente mi avrebbe fermata, ma ero pressapoco sicura che prima mi avrebbe lasciato fallire. Sperai, tuttavia, che il fallimento rimanesse solo una remota possibilità. Dovetti sperare ciò. Dovetti aggrapparmi a qualcosa.

Mi congedai in quel modo, senza aggiungere altro, e tornai in camera, da Simon.

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Capitolo 3
*** You promised it. You broke it. ***


Capitolo 3
"You promised it. You broke it"



La quiete della campagna aveva insinuato in me una strana armonia. Giocherellavo con i fili d'erba, seduta sul prato, con lo sguardo fisso ad ammirare il paesaggio di quel luogo: alberi in fiore, cespugli verdi e rigogliosi; lo scroscio dell'acqua di fiume si mischiava al canticchiare dei passeri.

«Mi piace questo posto. Dovremmo venirci più spesso» esclamai. Sentii Sebastian ridere, dietro di me. Mi voltai, facendo ondeggiare i miei lunghi capelli biondi e incrociai facilmente i suoi occhi color cioccolato.
Avevamo preso l'aspetto di due ragazzi, non troppo cresciuti. Purtroppo per loro, erano morti di fame, a causa della carestia dell'epoca. Per noi, ovviamente, quel genere di cibo non era un problema.

«Oppure, potremmo rimanere» disse Sebastian, raggiungendomi e prendendo posto seduto al mio fianco. «Sai che non possiamo» replicai.

«Perché no?».

«Perché questo è un paesino dove tutti conoscono tutti e desteremmo dei sospetti, non invecchiando».

«Parli come se fossimo vampiri».

«Beh, abbiamo l'immortalità in comune».

«E a te questo non sta bene».

«Non l'ho mai detto».

«Non c'è bisogno che tu lo dica. Si vede da come ti comporti in presenza degli umani».

«Non capisco».

«Avanti, Hazel. Ti comporti come se provassi qualcosa nei loro confronti».

«E questo è un male?».

Esitò a rispondere, fissando altrove per un attimo. «Non lo so» sussurrò, infine. «Devo ancora deciderlo».

«Oh, Sebastian» dissi e mi alzai in piedi, compiendo mezzo giro su me stessa. Il vento lieve di primavera fece ondeggiare il mio vestito azzurro. Lui mi seguì, di riflesso. «Non temere gli umani» gli sussurrai, accarezzandogli entrambe le guance con i polpastrelli.

«Non li temo» replicò. «Tu resti sempre la mia sorellina, no?».

Sorrisi. «Sempre e per sempre».
 

***

 

Il rumore del clacson di un camion dietro di me mi fece sobbalzare, interrompendo il flusso dei miei ricordi.
Mi trovavo sulla strada statale, guidando un fuoristrada arancione che avevo rubato. Non volevo farlo, ma sarebbe stato difficile noleggiarne uno, dal momento che non possedevo la patente. In realtà, non me la cavavo nemmeno bene a guidare, considerando il fatto che le poche volte in cui mi ero messa al volante, risalivano ad almeno un secolo prima o giù di lì, quando la macchina era una novità assoluta. Poi avevo semplicemente lasciato perdere. Non mi serviva un mezzo del genere e, per i miei standard, era fin troppo lento. La mia nuova condizione da umana, tuttavia, non mi concedeva altro.
Ero terribilmente lenta in tutto quello che facevo e ciò mi infastidiva. Fui dell'idea di aver sviluppato di già un tic nervoso e non fu difficile constatare che le mie unghie erano quasi del tutto scomparse.
Thomàs mi aveva suggerito di calmarmi, Martha aveva smesso di parlarmi, se non attraverso sguardi minatori e poco rassicuranti. Il problema era che la calma era lontano anni luce da me.

Erano passati tre giorni e non ci eravamo mossi: né loro, nella crociata per fermare il Creatore e Sebastian, né io, nella mia battaglia personale per riportare indietro Simon.

Simon.

Il suo aspetto era peggiorato visibilmente.

La pelle aveva perso tutto il suo colore e, su di essa, i sigilli erano aumentati, arrivando a ricoprire metà del suo petto e avevano iniziato ad apparire anche sul braccio destro. A breve, avrebbero riempito tutto il suo corpo e la resurrezione sarebbe stata completata. La sola idea mi metteva i brividi.
Per questo ero sempre più motivata nei miei obiettivi, per quanto una neo-umana con crollo emotivo potesse esserlo. 
Avevo frugato tra i contatti di Martha, furtivamente, per ottenere qualche indirizzo. Purtroppo, niente numeri di telefono, ma la cosa non mi sorprese.
Ero da ore in quella macchina, col piede premuto sull'acceleratore e, della mia meta, nemmeno l'ombra. Non avevo smesso un secondo di pregare affinché trovassi qualcuno che mi potesse aiutare.
«E' impossibile» avevano detto Martha e Thomàs. La parte più ragionevole di me, dava loro retta. Purtroppo, però, non era quella a comandare. Una volta lo avrebbe fatto e in quel momento capii benissimo quanto gli umani fossero schiavi delle proprie emozioni; però ancora non avevo deciso se questo fosse un male o un bene.

 

La villetta dalle pareti scrostate, persa nella zona più sconfinata dell'Illinois, apparve sul lato della strada con asfalto eccessivamente consumato dopo cinque ore di viaggio. Probabilmente, se solo avessi saputo guidare meglio, sarei arrivata prima. Infierii contro me stessa, mentre accostavo come meglio potevo accanto alla casa e scendevo goffamente dall'auto.

Goffamente. Io, goffa.

Attribuire tale caratteristica al mio modo di muovermi fu pressapoco sconcertante.

Mi fermai, d'un tratto, chiudendo gli occhi e respirando a fondo. Avevo sempre sentito dire che era così che ci si calmava. Su di me, non ebbe poi chissà quale effetto, purtroppo.
Scossi appena la testa, sollevando le palpebre, e una mia mano scivolò nella tasca del giubbotto di pelle che indossavo. Lì dentro, si trovava il ciondolo che avevo dato a Simon, qualche mese prima. Glielo avevo donato per proteggerlo, prima di tutto, e poi era diventato qualcosa di più.
Una sorta di nostro simbolo o qualcosa del genere. Era stato lui a definirlo tale, una delle poche notti tranquille, dopo il nostro ritrovo.
Fissai la pietra verde con nostalgia, sospirando. «Sei sempre con me, vero?» sussurrai, ponendo una domanda per cui non avrei ottenuto risposta. Strinsi il ciondolo in una mano, nel pugno, e mi diressi verso l'entrata della casa.

Già da fuori, erano udibili rumori a testimonianza della presenza di più di un individuo nell'abitazione. Avrei bussato alla porta, ma la trovai aperta. Ne approfittai per sgattaiolare dentro e seguii la frequenza delle voci, che mi condusse in una grossa stanza – evidentemente era il salotto – dove vidi tre donne. 
Chiacchieravano, sedute a terra su un tappeto ricco di decorazioni floreali. L'odore di incenso riuscì a stordirmi e dovetti trattenere il respiro più di una volta, prima di abituarmici. Loro non si accorsero di me, non subito.
Ci vollero almeno cinque minuti prima che una si voltasse. Sembrava essere la più grande delle tre. Mi guardò per un frazione di secondo. «Posso aiutarti?» disse, portandosi i lunghi capelli scuri su di un lato. Mi sorrise e diede l'impressione di essere un gesto quasi confortante.
Stranamente, non avevano l'aria di essere sconvolte dal fatto che qualcuno di sconosciuto fosse entrato tranquillamente nella loro casa.

«Sì, io...» balbettai. «Sono un'amica di Martha».

«La nostra tenera Divoratrice. Perché ti ha mandato da noi?».

«Non mi ha... Mandato. Insomma, mi ha parlato di voi e di quello che siete in grado di fare e... Eccomi qui».

A quel punto, la strega si alzò. Solo lei. Le altre due rimasero sedute e ripreso a chiacchierare, come se niente fosse cambiato.

La vidi avvicinarsi a passo lento a me e mi si fermò davanti, incrociando le braccia. Spalancò gli occhi verdi e abbozzò una risata, che però troncò di netto, divenendo seria e a tratti inquietanti. «Qual è il tuo nome?» chiese.

«Hazel. Mi chiamo Hazel».

«Nome affascinante. Io sono Evangeline». Fece una breve pausa, scrutandomi. Era una donna bellissima. Scintillava, in quel posto così decadente.

«Di cosa avresti bisogno?» domandò poi.

Esitai nel rispondere. Sapevo bene che ciò che stavo per chiedere non era cosa poco. Non era nemmeno qualcosa di usuale, era difficile, era complicato.

«Devo riportare indietro qualcuno» sussurrai.

«Indietro?».

«Sì, lui è... Lui è morto». Era la prima volta che lo dicevo ad alta voce e, per un momento, percepii una fitta al petto a causa di ciò.

«Morto?» cantilenò e dopo scoppiò a ridere, come se trovasse quel particolare divertente. «Scusami, dolcezza» disse, portandosi una mano alla bocca e tentando di tornare seria. «Non so cosa ti abbia raccontato Martha, ma... Riportare qualcuno in vita dalla morte non è competenza di nessuno».

«Ma so che voi siete streghe potenti e...».

«Non è una questione di essere streghe potenti, e lo siamo. E' la morte, tesoro. Sebbene potenti, su di essa non possiamo agire».

«Questo vuol dire che non ci proverete nemmeno?».

«Non ne vale la pena». Mi fissò ancora e io stavo per scoppiare per l'ennesima volta a piangere. Ormai, farlo era naturale e quasi abitudinario. Le mie nuove e fresche emozioni si stavano divertendo con me. «Torna a casa e saluta per me chiunque tu abbia perso» concluse Evangeline. Non si sforzò di sorridere allora e fece per tornare dalle due compagne.

Tuttavia, non potevo permetterle di lasciarmi fallire così in fretta, in quel modo.
Mi passai una mano sul viso. C'erano sicuramente cose che la strega non sapeva. Perlomeno, dedussi che Martha non le avesse messe al corrente di ciò che era successo e, se non lo aveva fatto lei, non c'erano altri intermediari.

«Si chiamava Simon Clarke» esclamai e, alle mie parole, lei si fermò, ma mi tenne ancora le spalle. Io andai avanti: «Era uno splendido ragazzo di sedici anni, ne avrebbe compiuti diciassette tra poco. E' morto per colpa mia. Si è innamorato di me e io di lui, e questo lo ha reso il Sacrificio per resuscitare il Creatore dei Divoratori».

Riuscii a catturare l'attenzione di Evangeline. La vidi voltarsi e tornarmi vicino. «Il Sacrificio è stato compiuto?» disse, nervosamente. Mi limitai ad annuire.

«E io sono diventata umana» aggiunsi.

«Tutto questo è...».

«Assurdo. Lo so».

«No, non assurdo. E' totalmente fuori logica». Posò le mani sui fianchi. Aveva assunto un'aria nervosa, il che stonò sui lineamenti del suo viso.

«Ti prego, aiutami» biascicai.

«No!». Lo urlò e ciò richiamò nettamente l'attenzione delle sue compagne, che si alzarono in piedi e mossero qualche passo nella nostra direzione.

«Quel che dovresti fare, adesso, è nasconderti, ex Divoratrice. E' ciò che tutti noi dovremmo fare».

«Perché? Non voglio. Non voglio nascondermi, non voglio scappare. Voglio trovare una soluzione a... Ad ogni cosa».

«E' un po' troppo tardi per questo. Quando il Creatore tornerà a calcare questa Terra, probabilmente il genere umano rischierà l'estinzione, non considerando il modo atroce in cui tratterà i superstiti».

«Ma se Simon torna vita, il processo di resurrezione potrebbe interrompersi e...».

«Hai la tendenza a considerare le cose come troppo facili» mi zittì e sgranò gli occhi. «Dammi retta: trova un nascondiglio, proteggi chi ti è vicino e fatti proteggere. E ora vattene».

«Io...».

«Va' via!».

Aver saputo del ritorno – o quasi – del Creatore, provocò in Evangeline una spaccatura evidente. Se la mia prima impressione di lei era stata quella di una donna sicura e schietta, allora potei dire con certezza di aver davanti un'altra persona, in preda all'agitazione e all'ansia.

Nemmeno mi sorprese.

Il Creatore mi atterriva da Divoratrice. Da umana, la situazione era mille volte peggio.

Normalmente, sarei rimasta lì fino allo sfinimento. L'avrei addirittura minacciata, con la forza. Ma mi sentivo debole, sia fisicamente che mentalmente, e non ce la feci.

Fu come ricevere un duro colpo in pieno stomaco quando anche la mia unica speranza si rifiutò di aiutarmi.

Che mi succedeva?

La risposta era più che evidente. Seppur crudele e spietato, Sebastian aveva ragione su una cosa: le emozioni umane rendono deboli e io, in quel momento, lo fui più che mai.

Ero diventata debole.

Lo avevo fatto dall'esatto istante in cui il cuore di Simon aveva cessato di battere e il mio aveva intrapreso quel ritmo costante per la prima volta.

Non dissi niente. Quasi mi sembrò di essere a corto di fiato, quando mi voltai e abbandonai quella villetta. Mi trascinai verso l'auto e salii a bordo. Rimasi per minuti ferma, con le mani sul volante, a fissare il vuoto.
Ero distrutta perché dopo millenni di esistenza, ero totalmente sola. Avevo completamente perso mio fratello, anche se per molto tempo mi ero illusa che non fosse così.

Non avevo l'appoggio di Martha, che cercava in tutti i modi di portare avanti crociate ben diverse dalle mie.

Non avevo neppure più me stessa.
 

***

 

Il viaggio di ritorno fu molto più breve rispetto a quello di andata. Non seppi perché: forse mi ero abituata alla guida, forse c'era meno traffico.
Parcheggiai l'auto in un vicolo buio e nascosto da occhi indiscreti. Anche se la macchina era stata rubata, dubitavo del fatto che qualcuno potesse risalire a me. Del resto, agli occhi di tutti, io ero ancora la dolce e innocente Johanna Wilkinson, che riusciva a cavarsela anche se i genitori erano lontani. Ci aveva pensato Martha, come sempre, bloccandoli in Europa per lavoro.

Raggiunsi lentamente l'attico all'ultimo piano di quel palazzo moderno. La porta non era chiusa a chiave, riuscii ad entrare nell'appartamento senza dover per forza bussare o usufruire di una delle finestre. Avevo già imparato a scartare quest'ultima opzione: la mia nuova e fresca goffaggine mi impediva di arrampicarmi sui cornicioni.
Tuttavia, ciò non mi impedì di imbattermi in qualcuno. Prima che potessi sgattaiolare in camera da letto, da Simon, trovai Thomàs sulla mia strada. Reggeva una tazza di ceramica, fumante, probabilmente, dall'odore, contenente tè. Abbassai lo sguardo, cercando di evitare i suoi occhi color nocciola. Lui si mosse a passo moderato nella mia direzione e si fermò solamente ad un metro da me.

«Missione fallita?» domandò, alzando un sopracciglio.

«Che ti importa?» sbottai e incrociai le braccia.

«Oh, era giusto per chiedere».

«Non dirai nulla a Martha, vero?».

«Nulla che lei non sappia già?».

Sospirai sommessamente. «Sa tutto, come sempre».

«Esatto. E tu sai che non ti rimprovererà per questo».

«Sta solamente aspettando che mi passi, non è così?».

«No. Sta aspettando che tu capisca».

Stavo seriamente iniziando a non sopportarlo. Non che fosse colpa sua: cercava di essere razionale, cose che io, evidentemente, non ero più in grado di fare. Il punto era che potevo accettare il fatto che Martha si comportasse in quel modo, ma non lui. Perché Thomàs non mi conosceva, non conosceva Simon, non conosceva la nostra storia. Non sapeva assolutamente nulla.
Sorrisi, amara e sarcastica, scuotendo appena la testa. «State tutti aspettando che io capisca» esclamai, acida. «Ma io non vedo cosa c'è da capire. Non ci riesco, okay? Non...».

Strizzai gli occhi. Non volevo piangere davanti a lui. Non sarebbe certo stata una novità vedermi in lacrime, comunque.

«Okay, ascoltami» sussurrò Thomàs e lo vidi poggiare la tazza sul basso tavolino di vetro del salotto. Senza accorgermene, avevo iniziato a tremare. Lui portò le mani sulle mie spalle e io mi costrinsi ad incrociare il suo sguardo. «Quel che ti ho detto l'altro giorno» mormorò «riguardo ai miei genitori, lo ricordi?».

Annuii, distrattamente. «Sono morti a causa di alcuni Divoratori» continuò. «Non quelli buoni. Divoratori come Sebastian, che disprezzano l'umanità e si divertono ad abbattere persone una dopo l'altra. Io ero il loro prossimo bersaglio, stavano per prendermi e Martha mi ha salvato. Ha combattuto contro i suoi simili e mi ha portato via. Aveva l'aspetto di una ragazza dai lunghi capelli rossi e gli occhi verdi. Mi sono fidato subito di lei, pur sapendo la sua natura. Mi è stata vicino e mi ha aiutato ad andare avanti. Perché non le permetti di fare lo stesso con te?».

«Perché fa troppo male». Presi un respiro profondo. I singhiozzi aveva iniziato a tormentarmi. «Come ci riuscite?» domandai. «Come si fa a sopportare tutto questo dolore? Io, prima, odiavo le persone che si toglievano la vita a causa di esso, perché credevo fosse facile. Credevo fossero semplicemente troppo codarde per combattere, ma non è così. Ci sono dolori opprimenti e... E insopportabili».

«Non si sopporta il dolore» mormorò lui. «Ci si abitua e basta».

Thomàs rimosse le mani, lasciando ricadere le proprie braccia lungo i fianchi. Solo a quel punto, io abbassai lo sguardo.

A modo suo, aveva tentato di confortarmi – per quanto la sua affermazione potesse esserlo – e gliene fui grata.

Cercai di nascondere e mascherare la mia espressione stravolta e completamente distrutta come meglio potevo.

«Hazel...». Il suono della voce di Martha si espanse nella stanza, ma, per la prima volta in quei giorni, non aveva tono di rimprovero o eccessivo dispiacere.

Mi voltai e lei era lì, in piedi a pochi metri da me, con un mezzo sorriso sul volto. Non fu necessario ragionarci troppo su: con due soli passi la raggiunsi e la abbracciai. Perché ne avevo bisogno. Perché anche se eccessivamente razionale, Martha era la mia migliore amica, la mia ancora, il mio punto fisso e sapevo bene che, qualsiasi cosa faceva, era per il mio bene.
Rimasi rifugiata tra le sue braccia e per un attimo, l'angoscia, il panico e il dolore si dissolsero, perché mi sentii protetta e al sicuro.

«Stai bene?» sussurrò al mio orecchio. «No» biascicai. «Però sto raccogliendo i pezzi».

Martha si staccò a quel punto e mi accarezzò una guancia con il pollice. «Troveremo una soluzione» disse, a bassa voce. «Io ne ho sempre una, no?».

Annuii distrattamente e mi sforzai di sorridere.

«So quanto è importante per te riportarlo indietro, okay?» continuò. «E mi dispiace se ti ho subito sbarrato la strada. Il problema è la resurrezione del Creatore va fermata e in fretta. Se non lo blocchiamo immediatamente, non ci sarà più un posto per far tornare Simon. Lo capisci questo?».

«Sì, lo... Lo capisco».

«Allora permetti a me e Thomàs di occuparcene e non fare scelte azzardate. Per favore».

«Non farò nulla di azzardato se mi prometti di stare dalla mia parte, Martha, perché... Perché ho terribilmente bisogno di te, ora più che mai».

«E io sono qui per te. Sempre e per sempre».

Avevo necessità di tale promessa, per quanto vera o meno potesse essere. Io ne avevo fatta una del genere, eppure, le cose erano andate diversamente dai nostri progetti.

«Non vorrei interrompere questo momento toccante tra di voi» si intromise Thomàs ed entrambe, a quell'affermazione, lo guardammo; io, ovviamente, più perplessa di Martha. «Forse dovresti dirle quella cosa» aggiunse.

«Che cosa?» domandai, subito, e i miei occhi ricaddero subito sulla mia migliore amica. La vidi maledire Thomàs: la delicatezza, forse, non era il suo forte.

«Niente, io...» esitò Martha.

«Tu cosa?».

Sospirò. «Ho spostato il corpo di Simon».

«Spostato? Dove?».

Si morse appena il labbro inferiore e iniziai seriamente a temere il peggio. Probabilmente, se mi avesse detto di averlo sepolto, sarei impazzita ancor più di quanto non lo fossi già. «Dove?» chiesi ancora, con isterismo.

«Nel congelatore» disse lei. «In cantina».

«Come?».

«Non potevamo lasciarlo in camera, Hazel. Il freddo terrà il corpo parzialmente intatto e...». smise di parlare, lasciando la frase in sospeso, mentre io portavo una mano sulla bocca, per non urlare. In fondo sapevo che quello era il comportamento più sensato. Tenere il corpo su di un letto non era una saggia decisione; eppure, il pensiero di lui chiuso in una cella frigorifera, mi strinse una morsa intorno al cuore e mi fece venire la nausea.

«Mi dispiace, Hazel, non...» mormorò Martha.

«No, va bene...» mi sforzai di dire. «E'... E' giusto così». Feci una breve pausa e, d'istinto, una mano mi scivolò in tasca, a sfiorare il ciondolo verde. «Ho bisogno di vederlo, solo per un attimo» sussurrai. «Devo dargli una cosa».

«Vuoi davvero vederlo in quello stato?».

«No, ma... Portami da lui».

«D'accordo» sospirò Martha. Mi tese una mano e io l'afferrai subito. Senza che lo chiamassimo, ci raggiunse anche Thomàs, imitando il mio gesto. Avrei voluto dirgli di non venire, ma prima che potessi parlare, ci eravamo già dissolti.
Riapparimmo nei corridoi sotterranei di quel grande palazzo. Sembrava di essere in un altro mondo, confrontato quel posto decadente e sudicio, con la modernità degli appartamenti superiori.
Martha fece strada fin quando non ci ritrovammo tutti e tre davanti ad una porta di legno, cigolante e visibilmente antica. La aprì poco dopo e solo in quell'istante le lasciai la mano.
La sola visione del grosso freezer, ancora chiuso, mi fece salire il magone. Mi morsi forte il labbro inferiore e rischiai di farlo sanguinare. Ero ancora in tempo per tornare indietro ed evitarmi quello che Thomàs avrebbe definito un ulteriore trauma psicologico: l'immagine di Simon – del corpo di Simon – livido e inerme, contuso in quella scatola.
Strizzai gli occhi e, poco dopo, percepii le dita di Thomàs sulla mia spalla. Forse lo fece per darmi coraggio o, più semplicemente, sostegno. Quel ragazzo era l'emblema della contraddizione, a mio parere.
Non riuscivo a vedere cosa stesse facendo Martha, complici i metri di lontananza che erano arrivati a dividerci e la semi oscurità del posto. Tuttavia, riuscivo a sentirla trafficare, mentre cercava di aprire il congelatore. Con mia sorpresa, mi accorsi che era più facile e veloce del previsto. Come mai non si era preoccupata del fatto di sigillare ogni cosa? E se qualcuno fosse sceso in quella cantina e avesse trovato il corpo?

Solo in quel momento mi soffermai su quei dettagli, sbagliati e privi di logica. Dubbi e stranezze, che si marcarono quando scorsi Martha irrigidirsi e la sentii mormorare: «Oh, Dio mio».
Temetti il peggio, perché lei non era una di quelle che si impressionava facilmente. Anzi, non si impressionava affatto. 
Pensai ai sigilli, pensai al modo in cui avrebbero potuto deturpare il suo viso e una marea di altre cose angoscianti e terrificanti, che rischiarono di farmi esplodere la testa.

«Che succede?» urlai e, d'istinto, mi buttai in avanti, raggiungendo il congelatore aperto. E fu in quell'istante che mi sembrò di non avere, di nuovo, un cuore vivo.

Perché in quella scatola di metallo non c'era nulla.

«Qualcuno lo ha preso» esclamai, in preda al panico, senza nemmeno chiedere o cercare spiegazioni. Martha scosse la testa. «Nessuno lo ha preso» sussurrò. «Lui è scappato».

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Capitolo 4
*** Sign. ***


Capitolo 4
"Sign"


«Scappato? Cosa vuol dire che è scappato?». Mi ritrovai ad urlare freneticamente. Non capii più nulla di ciò che stava accadendo e Martha non mi dava risposte. Sembrava spaventata e atterrita. Da quando lei era quella divorata dalla paura?

L'espressione che Thomàs aveva assunto non era da meno. Il panico stava più addosso a lui che a me. «I graffi» lo sentii dire, a bassa voce.

«I graffi?» ripetei. «Cosa... Che diavolo succede?!».

Thomàs serrò la mascella e mi guardò con occhi spenti. «Ci sono segni di graffi sulle pareti interne del congelatore» disse, con inquietante calma. «Vuol dire che... Che Simon si è svegliato ed ha lottato per uscir fuori».
Non seppi come reagire. Una parte di me, gioì, perché Thomàs aveva espressamente affermato che lui si era svegliato, che lui era vivo. Eppure, non riuscii ad esserne del tutto entusiasta. Il motivo era semplice: se fosse stato vero, Simon era tornato in vita e si era ritrovato al freddo e al gelo, chiuso in uno spazio ristretto. Molto probabilmente, aveva urlato e aveva avuto paura. Tutto ciò bastò a farmi essere più preoccupata che lieta.

«Dobbiamo trovarlo» esclamai, subito. E corsi via, anche se nemmeno conoscevo quel luogo. Corsi tra i corridoi che sembravano tutti uguali, immersi nell'oscurità e lui... Lui aveva fatto lo stesso, in preda al panico e al terrore. Se si era davvero svegliato. Come potevo esserne certa?
Sbucai, dopo soffocanti minuti, all'aria aperta, ritrovandomi in strada, dove regnava una calma assurda, a quell'ora della sera. L'opposto di ciò che accadeva nella mia testa: il caos totale.

Thomàs e Martha mi avevano già raggiunta. Dalle espressioni stampate sulle loro facce, era evidente che nemmeno loro ci stavano capendo qualcosa di tale situazione.

«Non può essere andato lontano!» dissi ancora, passandomi nervosamente una mano tra i capelli. Presi a fare su e giù sul marciapiede, senza uno schema fisso. Loro due, invece, rimasero immobili. «Dobbiamo... Dobbiamo cercarlo!» urlai. «Sarà... Sarà spaventato e... Si sentirà perso, noi... Noi...».

«Ha ragione». Stranamente, Thomàs mi accordò. Martha, invece, era ancora restia, o forse, sconvolta. Del resto, come si poteva darle torto.

«Sì, lo so» disse, poco dopo. Cercò di tornare lucida e razionale: sapeva che era l'unica a poterlo essere per davvero. «E' meglio dividerci» aggiunse. «E' vero che non può essere andato troppo lontano, in quelle condizioni». Fece una breve pausa, e poi riprese: «Voi due controllate la zona ovest della città, io mi occupo delle altre. Sono più veloce».
«D'accordo». Fu Thomàs a rispondere per me. Prima che potessi acconsentire anch'io, Martha si era già dissolta, non preoccupandosi di aver dato nell'occhio. Non c'era molta luce, comunque, solo quella fioca dei lampioni, e nemmeno molta gente nei paraggi.

«Muoviamoci» disse lui e iniziò a camminare, a passo svelto. Io gli arrancai dietro. Mi ritrovai, stranamente, ad essere scoraggiata, sin dalla partenza, per un'infinità di motivi.
Perché avevo paura, perché ero confusa, perché ero stanca, dopo aver viaggiato tutto il giorno e temevo che da un momento all'altro, le mie gambe avrebbero ceduto; perché Chicago era una città immensa, perché Sebastian avrebbe potuto raggiungere Simon prima di noi, se non lo aveva già fatto, perché la Resurrezione avrebbe potuto essere già compiuta o avrebbe potuto compiersi di lì a pochi secondi, perché non sapevo in che stato Simon fosse effettivamente tornato.

Perché tutto era ignoto e non c'era nessuna certezza.

Continuai a seguire Thomàs solamente per inerzia. In realtà, era come se non capissi dove fossi o cosa stessi facendo. Era attivo solo lui, che si affannava e chiedeva addirittura a persone sconosciute se avessero visto un ragazzo con capelli scuri e occhi azzurri, aggirarsi confuso.
Lui, che neanche lo aveva mai conosciuto Simon, si stava impegnando così tanto nella sua ricerca e io... Io non riuscivo a fare niente, nonostante lo volessi, con tutte le mie forze.

Tutto l'opposto di poco prima, quando ero partita dritta e spedita in quella nuova missione. Una scarica di adrenalina, soppressa dall'incapacità di fare.

«Tutto bene?» mi chiese d'un tratto Thomàs, facendo scoppiare la bolla d'aria in cui mi ero inconsapevolmente rinchiusa. Mi guardai un attimo attorno, prima di rispondere. Eravamo fermi in una zona della città che non conoscevo bene. Ma da quanto, poi, stavamo camminando?

«Tutto okay» replicai, distrattamente.

«Possiamo fare una pausa, se vuoi».

«Non possiamo permetterci pause».

«Tu ne avresti bisogno».

«No, sto bene».

Mi guardò storto, come se si aspettasse che glielo dimostrassi. Non ci sarei riuscita, nemmeno mettendomici d'impegno. «Andiamo avanti» esclamai, fingendo decisione che, di fatto, non avevo.
Ripresi quella nostra ricerca, camminando per prima e fu lui a dovermi seguire, tale volta.
Avevo un diverso approccio, rispetto a Thomàs, ed ero anche piuttosto seccata, poiché prima, da Divoratrice, sarei riuscita a percepire Simon più facilmente. Martha non aveva la stessa nostra connessione, quindi avrebbe fatto comunque fatica.

«Dove sei?» era solo un pensiero, ma mi ritrovai a sussurrarlo ripetutamente. «Dove sei? Dove sei? Simon, dove sei?».

Pian piano, tuttavia, quei sussurri diventarono più forti. Acquistarono tono e come essi crescevano, cresceva la mia ansia, aumentavano i battiti del mio cuore, il mio respiro si faceva corto.

Era qualcosa su cui non avevo il controllo, un po' come tutto il resto, in quei ultimi giorni.

Probabilmente, sarei collassata a terra, se Thomàs non fosse intervenuto. Lo sentii stringermi da dietro, facendo aderire la mia schiena al suo petto. Mi fece incrociare le braccia sul petto e mi premette contro di sé.

«Calmati» mormorò al mio orecchio. «Stai avendo un attacco di panico. Se non ti calmi, peggiorerà e basta».

Calmarmi. Sembrava essere una possibilità troppo remota per essere raggiunta, tanto che, ad un tratto, credetti di soffocare, come se qualcuno mi stesse tenendo la testa sott'acqua, se davvero quella era la sensazione umana alla mancanza d'ossigeno.

Tuttavia, grazie al contatto con Thomàs, che continuava a stringermi forte, ritornai a respirare normalmente. Socchiusi gli occhi, buttando la testa all'indietro, che finì appoggiata alla sua spalla.

«Va meglio?» sussurrò. Annuii rapidamente, ed ancora non ebbi il coraggio di sollevare del tutto le palpebre.
Saremmo rimasti così ancora a lungo, se il suo telefono non fosse squillato. 
Thomàs si staccò delicatamente da me, per rispondere.
«Sì. Sì, okay... D'accordo... No, va bene... Arriviamo... Okay, okay... A tra poco». Ovviamente, non riuscii a capire quale discorso si stesse svolgendo tra lui e l'interlocutore, anche perché non lasciò trapelare nulla. Solo quando riattaccò, mi spiegò ogni cosa. «Era Martha» disse. «Lo ha trovato».

Spalancai gli occhi e, ancora, non seppi esattamente come sentirmi. «Come?» chiesi.

«Non me lo ha detto, ma lo ha portato a casa. Dovremmo raggiungerla».

«Certo che sì».

«Andiamo». Thomàs fece per rimettersi in cammino, ma lo fermai, trattenendolo per un braccio. Lui mi guardò, con aria confusa. «Grazie» sussurrai «per poca fa».

«Già... Figurati».

Abbozzai un sorriso e, dopo tanto, non fu solo per circostanza.

Ci avviammo verso l'appartamento di Martha e mi accorsi quanto ci fossimo davvero allontanati da esso. Ci impiegammo quasi un'ora per raggiungerlo, a passo svelto e senza soffermarci su niente e nessuno.
Realizzai quanto la mia ansia stesse crescendo, ma, quella volta, in positivo, perché... Beh, perché ad aspettarmi c'era Simon. Mi convinsi a pensare che lui stesse semplicemente bene e non vidi l'ora di abbracciarlo, di baciarlo, sussurrandogli di non provare a lasciarmi mai più. Nemmeno mi importava di sapere come ciò fosse stato possibile, come fosse riuscito a tornare dalla morte, battendo l'impossibilità che tutti avevano proclamato. In realtà, in quel momento, se il responsabile si fosse presentato alla nostra porta, non avrei fatto altro che ringraziarlo.

In ascensore, il tempo diede l'impressione di essere bloccato. Fissavo i numeri del quadrante illuminarsi l'uno dietro l'altro, ad una lentezza micidiale. Stavo torturando il mio labbro inferiore con i denti; a breve, mi sarebbe sanguinato.
Quando le porte dell'abitacolo si aprirono, corsi fuori e mi precipitai verso l'entrata dell'appartamento di Martha. Bussai energicamente alla porta e lei aprì poco dopo.

«Dov'è?» chiesi, valicando la soglia. Thomàs mi raggiunse quasi subito.

«E' in camera da letto» disse Martha, chiudendosi la porta alle spalle. Sorrisi, improvvisamente gioiosa, oscurando per un attimo tutti i miei dubbi e tutte le mie paure precedenti. Ero pronta a recarmi da lui, ma l'espressione stampata sul viso di Martha riuscì a farmi esitare.
«Che c'è?» domandai, allora. Lei sospirò e rivolse uno sguardo distratto a Thomàs. Da ciò che aveva dipinto in volto, presunsi che, evidentemente, era già stato informato per telefono.

Ma di cosa? Sembrava non esserci nessuna buona notizia, a giudicare dalle loro espressioni.

Dannazione.

«Che succede?» esclamai. L'essere sempre l'ultima a sapere le cose era diventato piuttosto irritante.

«Prima che tu lo veda» replicò Martha «c'è una cosa di cui dovresti essere a conoscenza».

«Una cosa? Che cosa?».

Esitò per qualche secondo, prima di proseguire: «Non so cosa sia successo. Non so cosa o chi l'abbia riportato indietro. Rimane un mistero e, sinceramente, mi spaventa, perché esiste qualcuno in grado di battere la morte e se sa fare questo, chissà di quali altre cose è capace».

«Ma lui sta bene?».

«Sì. Sta bene, se non fosse per...».

«Per...?».

Si prese un ulteriore pausa e rischiò di farmi avere un'altra crisi di panico. «Per cosa, Martha?» quasi urlai.

La sentii sospirare ancora e i suoi azzurri si persero nel vuoto. «Simon non ricorda nulla, Hazel» mormorò.

«Nulla? Che... Che significa nulla?».

«Nulla. E' come un... Un bambino di cinque anni intrappolato nel corpo martoriato di un sedicenne. L'ho trovato rannicchiato in un angolo, spaventato e scosso. Non sa nemmeno il proprio nome».

Il mio cuore si bloccò di nuovo. Non ci fu panico, o angoscia, o terrore, o dolore. Non ci fu nulla. Solo il vuoto, che mi cadde addosso, pesante, mi schiacciò, mi annullò del tutto; perché Simon era tutto ciò che avevo, ma “noi” eravamo stati cancellati, almeno dalla sua mente.
Non ebbi reazioni spropositate. A giudicare dalle facce di Martha e Thomàs, dedussi si aspettassero un altro mio crollo. Sarebbe stato scontato e logico.
Invece, mi passai una mano sul viso e nemmeno piansi. «Si è svegliato chiuso in un congelatore, al freddo e al buio» sussurrai. «E' normale che sia confuso». Tentai di auto-convincermi di ciò, che la perdita di memoria fosse solo un fattore temporaneo. Dovetti farlo, soprattutto per me stessa e i miei lati umani negativi, sebbene la consapevolezza del fatto che non fosse come proclamavo, mi stava già uccidendo. «Vado da lui» conclusi.

Loro non provarono a fermarmi. Non ce ne sarebbe neanche stato motivo.
 

***

 

Rimasi ferma con le dita strette sulla maniglia della porta per minuti interi, prendendo respiri regolari e profondi, prima di avere il coraggio di entrare nella stanza. Essa era illuminata solo da una fioca luce proveniente dalla lampada sul comodino.

Simon era lì, seduto sul letto, con le spalle ricurve e il capo abbassato. Strano fu pensare che solo ventiquattro ore prima, su quello stesso materasso, giaceva il suo corpo morto.

Percepivo le gambe come due ammassi di ferro, pesanti e difficili da muovere. Dovetti strascicare i piedi a terra per avvicinarmi a lui; lui che, appena si accorse della mia presenza, alzò la testa e vidi i suoi grandi occhi splendere anche nella semi oscurità.
Erano micidiali: azzurri, splendenti, penetranti. Molte volte lui mi aveva confessato di essere schiavo dei miei di occhi e io non gli avevo creduto del tutto, perché non credevo possibile che qualcosa di così relativamente piccolo potesse avere tanto potere. E invece mi sbagliavo e nemmeno avrei dovuto esserne sorpresa.
Purtroppo, però, mi accorsi che i segni sul viso e sulle braccia non erano scomparsi e alcuni stavano addirittura sanguinando.
Simon mi guardò esattamente come avrebbe fatto un bambino spaventato, alla presenza di persone estranee. Tremai appena, cercando di scacciare il magone che improvvisamente mi aveva assalito.

«Ciao» biascicai, con un nodo in gola. Lui non rispose. Si limitò a guardarmi, smarrito. Sembrava... Era perso e impaurito.

Notai, allora, come le sue dita fossero impegnate a praticamente scorticare il braccio sinistro. «No, ehi» dissi e allungai una mano a rimuovere la sua, interrompendo così quel gesto. «Non grattarti, okay? Se lo fai, resta il segno». Strinse il pugno, ritraendolo a sé. Mi inginocchiai davanti alle sue gambe e lui tremò appena.

«Non avere paura» sussurrai. «Nessuno, qui, vuole farti del male».

Avevo l'impressione di essere tornata al momento in cui aveva scoperto la mia natura e non c'era modo di tranquillizzarlo. Al confronto, tuttavia, quella volta era stato tutto relativamente più semplice e meno doloroso. Forse il fatto di avere vere emozioni, in quel momento, non giocò esattamente a mio vantaggio.

«Chi sei tu?» domandò, con voce impastata.

Quanto era tremendamente assurda quella situazione? Io, che lo amavo con tutta me stessa, e lui che nemmeno mi conosceva.

«Il mio nome è Hazel» replicai, cercando di rimanere lucida e di non crollargli davanti.

«Io... Io non ti conosco e...» balbettò, nel panico. «Non... Non conosco nessuno e... E niente, io non...».

«Shh, è tutto okay». Avrei voluto abbracciarlo, ma temetti le sue reazioni. Era incredibilmente scosso e quasi fuori dal mondo, che avrebbe potuto scappare ancora. Non osai nemmeno toccarlo, nonostante lo volessi e lo volessi così tanto.

Afferrai, distrattamente, un asciugamano imbevuto d'acqua che era stato lasciato sul comodino lì vicino. Molto probabilmente, Martha glielo aveva dato per tamponare le mani sanguinanti, ma lui non lo aveva usato. Sapeva come usarlo, poi? Quanto della sua mente era stato raso al suolo?
Lo rigirai tra le dita e, con esso, gli accarezzai delicatamente le nocche martoriate. Simon osservò i miei gesti, senza scattare indietro – per fortuna.

C'erano così tante domande a cui rispondere. Per esempio, i sigilli sul corpo stavano ancora nutrendo il Creatore? Essendo lui tornato in vita, aveva interrotto la Resurrezione? Chi lo aveva riportato indietro? E perché lo aveva fatto?

Non ci volli pensare, solo per un attimo, o avrei rischiato di impazzire, a meno che non fossi già pazza.
In quella mia nuova condizione da umana, ero finita sull'orlo del baratro già fin troppe volte. Così, lasciai le cose peggiori chiuse fuori da quella stanza, almeno per quella sera.

Mi presi solamente cura di Simon, fingendo che tutto fosse normale e lui fosse solamente ferito.

Ne ebbi la necessità, solo per una notte.

Una notte di calma apparente, prima della tempesta che, inevitabilmente, avrebbe distrutto tutto ciò che rimaneva di me.

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Capitolo 5
*** Be aware of what you wish ***


Capitolo 5
"Be aware of what you wish"


«When the dark comes,

you don't be afraid.

When the dark comes,

you don't be scared.

'Cause I'm here with you,

baby, I'm here with you».

 

Sussurravo quella canzone da ore. Simon si era addormentato, rannicchiato sul materasso, con le ginocchia flesse al petto, quasi dovesse per forza risultare più piccolo.
Nemmeno in quella condizione ebbi il coraggio di abbracciarlo. Mi limitai a fissarlo e cantargli la sua ninna, seduta a terra, accanto al letto. Il mio viso era quasi all'altezza del suo, vicino, ma non troppo.
Molto probabilmente, il mio canto non avrebbe più avuto lo stesso effetto su di lui e non avrei mai più potuto farlo sognare. Forse, quella era la parte che di più mi sarebbe mancata dell'essere una Divoratrice.
Nel tempo trascorso, non aveva parlato e nemmeno io l'avevo fatto. Il silenzio era stato nostro compagno in quella notte e, da una parte, fu meglio così, perché se Simon avesse detto qualcosa, inevitabilmente mi avrebbe ferita, perché avrebbe ricalcato il fatto che la sua memoria fosse del tutto inesistente e che la situazione in cui ci trovavamo era al di là del tragico.
 

***

 

Era notte inoltrata, quasi mattina. Da lì a poco, sarebbe sorto il sole e la città sarebbe ripiombata nella frenesia quotidiana.
Mi misi in piedi a fatica, a causa delle gambe indolenzite – una sensazione estremamente fastidiosa. Fosse stato per me, non mi sarei mossa da quella stanza, ma il mio stomaco brontolava, essendo a digiuno, in pratica, da giorni.
Non mi ero abituata al fatto di dover mangiare cibo umano per sostentamento che quasi non ci pensavo; era il mio corpo a farlo per me.
Avevo intenzione di recarmi in cucina, afferrare qualcosa al volo e tornare subito in camera da letto, sperando che Martha avesse qualcosa in dispensa.
Percorsi a passi lenti il corridoio infinito dell'attico, barcollando in alcuni tratti. Ero stanca e avevo sonno. Insomma, ero uno straccio, incredibilmente debole e spossata. Sperai che il cibo riuscisse a rimettermi in sesto, almeno un po'.
Giunta in quella cucina moderna, mi accorsi della presenza di Thomàs. Era seduto al tavolo, rigirando tra le mani una tazza di ceramica rossa. «Sei già sveglio?» sussurrai.
Lui alzò lo sguardo e abbozzò un sorriso di circostanza. «Non sono mai andato a dormire» replicò e mi fece cenno di prendere posto lì vicino. Esitai per un momento, prima di accomodarmi su una delle sedie.
Presi a fissarmi le mani. Stavo premendo le unghie contro i palmi. Dedussi che quello era ciò che gli umani definivano “nervosismo”. Ecco, sì, ero nervosa e nemmeno ero a conoscenza della ragione per cui lo ero. «Posso chiederti una cosa?» esclamai.
«Dimmi» replicò.

«Martha mi ha detto che sei un Cacciatore di Divoratori».

«Già, ho una certa fama».

«E come fai? A cacciarli, intendo. I Divoratori non possono morire, a meno che tu non abbia il Pugnale. Ne hai uno?».

«No, non ce l'ho».

«E allora come?».

«Li intrappolo».

«Che intendi?».

«E' una cosa un po' macabra, Hazel. Non credo ti faccia piacere sentirla».

«Beh, ho ancora lo stomaco vuoto. Di certo non posso vomitare».

Thomàs accennò una risata. «Sei testarda» commentò.

«No, ti ho solo fatto una domanda e tu non hai risposto».

«E tu vuoi comunque una risposta. Questa è testardaggine».

Sbuffai. «Me ne darai una o no?».

Sorrise ancora e scorsi un briciolo d'entusiasmo poco prima assente. «La decapitazione è il metodo ottimale» disse. «Ovviamente, bisogna poi staccare anche le mani, così da impedire al Divoratore di riattaccare la testa e permettere al proprio corpo in affitto di rigenerarsi».
Avevo torto: mi venne la nausea, ma cercai di non darlo a vedere. Lui continuò: «Poi, si seppelliscono corpo, testa e mani in posti diversi, o anche nello stesso, basta che non siano troppo vicini, circondati da una polvere speciale, la stessa che ha creato quei pugnali che ho dato a Martha per la vostra difesa. Questo tiene a bada anche il più potente dei Divoratori».

«Imprigioni i Divoratori nel loro corpo?».

«Sì. In pratica, sì».

«Lo hai fatto con molti?».

«Parecchi». Fece una pausa e si alzò in piedi. Lo vidi andare verso il frigorifero e aprirlo. Trafficò con qualcosa che non vidi e, quando tornò, mi mise davanti un piatto con un sandwich sopra.

«Te l'ho detto che sarebbe stato macabro» commentò, sedendosi di nuovo.

Guardai il panino, facendo una smorfia. Probabilmente, lo aveva preso di proposito.

Insomma, dopo una tale rivelazione, si aspettava davvero che mangiassi?

«Ora posso chiederti io una cosa?» disse, subito dopo. Scossi appena la testa, allontanando di qualche centimetro da me il piatto. «Chiedi» ribattei.

«Perché ti sei battuta così tanto per diventare umana?».

In un primo momento, la sua domanda mi spiazzò. Nessuno me lo aveva mai chiesto per davvero. Nemmeno Simon, ma forse perché, in cuor suo, aveva già una risposta.
«Volevo provare qualcosa» sussurrai, abbassando lo sguardo. «Quando sei un Divoratore, vivi attraverso gli altri. Provi ciò che la tua vittima proverebbe e per molti va bene così. Per me no. Ho sempre voluto di più, ho sempre desiderato smettere di essere solo un riflesso».

«E ora che sei umana? E' tutto come avevi immaginato?».

Sospirai e abbozzai un sorriso, spento. «Per niente» mormorai, con un fil di voce. «Ma andrà meglio. Insomma... Deve andare meglio... No?».

Lo guardai, con occhi lucidi. La mia era una domanda alla quale nessuno, tanto meno lui, avrebbe potuto dare risposta.
Mi passai una mano sul viso, stanca. Mi alzai lentamente in piedi. Non avevo neanche più fame. Probabilmente, la spossatezza aveva rimpiazzato ogni altra sensazione.

«Ehi, aspetta» disse Thomàs e mi fermò. Lo vidi sollevarsi ed essermi di fronte in due passi. «Voglio farti vedere una cosa» sussurrò.

«Cosa?».

«Vieni con me». Fece un cenno del capo e mi invitò a seguirlo. Prese a camminare verso l'uscita dell'appartamento, incitandomi ancora a muovermi. Non avevo propriamente voglia di obbedirgli, anche perché, di lì a poco, sarei crollata, sfinita, sul pavimento.

Non seppi con quale forza riuscii a stargli dietro e a salire due rampe di scale, le quali ci condussero sull'enorme tetto piano del palazzo.

«Che ci facciamo qui?» chiesi. Thomàs abbozzò un sorriso. «Guarda laggiù» esclamò, indicando l'orizzonte. «Il sole sta sorgendo».

Mi venne quasi da ridere, anche se, probabilmente, era solo a causa dell'isterismo dovuto alla mancanza di sonno. «Ho visto miliardi di albe in tutta la mia esistenza» commentai.

«Nella tua esistenza da Divoratrice» puntualizzò. «Da umana, ti sei mai fermata a guardare l'alba?».

«No, non... Non ci ho nemmeno pensato».

«Lo immaginavo. Vedi, gli umani sono soliti darle estrema importanza, dal punto di vista poetico, o romantico, o altro. Qualunque sia il caso, è simbolo di speranza: per un nuovo inizio, per un nuovo sogno, per... Per qualsiasi cosa». Fece una breve pausa e puntò il dito verso il cielo, come se con esso potesse davvero toccare il sole che cominciava a spuntare timido tra gli alti edifici di Chicago.

«Speranza» continuò. «E' ciò a cui ci aggrappiamo per tutta la nostra vita. Senza di essa, probabilmente moriremmo prima del previsto. Ci lasceremmo semplicemente andare perché non riusciremmo a vedere che più in là, in un futuro non molto lontano, le cose andranno per il meglio».

Fissai il disco giallo all'orizzonte, vedendolo sollevarsi lentamente in cielo. Socchiusi gli occhi, per un istante.

Io avevo speranza? Non sapevo nemmeno come avrei dovuto sentirmi avendola. Probabilmente, ne era presente una piccola quantità in me, solo che non riuscivo a controllarla. Oppure, a causa di ciò che mi era successo nella mia estremamente breve esistenza da essere umano, non ero assolutamente in grado di percepirla.
Quando sollevai le palpebre, vidi Thomàs sorridermi. Era diverso dai suoi soliti sorrisi. Era qualcosa che avrei definito... Rassicurante.
Thomàs mi stava rassicurando. Perché, poi?

«Come si spera?» domandai, con voce roca. Lui abbozzò una risata, sospirando. «Col cuore» disse. «Si fa praticamente tutto col cuore, in realtà».

Fui io a sorridere, allora. Un'altra piccola cosa che aveva così tanto potere.
 

***


Rientrammo in casa dopo qualche minuto, oppure, forse, era passata un'ora intera. Il sole era già alto nel cielo quando tornammo nell'appartamento.
Trovammo Martha in piedi, davanti al tavolo della cucina, sommersa da fogli di carta e libri che prima lì non c'erano. Probabilmente, qualcuno glieli aveva dati – o prestati – dal momento che lei preferiva farsi dare direttamente informazioni, su qualsiasi cosa, anziché cercarsele.

«Oh, siete qui!» esclamò, non appena ci vide. «Svegli e attivi, naturalmente» commentò Thomàs.

“Parla per te” pensai; io stavo ancora per crollare e il sonno si era improvvisamente fatto più insistente.

«Ho trovato alcune cose interessanti» proseguì Martha. Agitò le mani tra i fogli sparsi sul tavolo, in cerca di chissà cosa. Thomàs pareva esser sulla sua stessa lunghezza d'onda, mentre io riuscii a carpire solo qualche parola del suo discorso.

«Creatore... Sebastian... Nascosto... Tempo». Nulla più.

Dopo solo un paio di frasi, non sentii nemmeno più una lettera. Non ci vidi più e uno strano senso di smarrimento mi avvolse. La vista si appannò, mi girò la testa e, prima che potessi sospirare per chiedere cosa stesse succedendo o per richiedere aiuto, le mie gambe cedettero e mi ritrovai a terra, svenuta.

 

Quando riaprii gli occhi, ero distesa sul divano dai cuscini marroni del grande salotto dell'attico. Una coperta di pile era adagiata su di me e nell'aria si era diffuso uno strano odore.

Cibo, molto probabilmente.

Anzi, sicuramente era cibo: carne alla griglia e uova fritte.

Mi sollevai appena, appoggiandomi sui gomiti. Mi sentivo ancora abbastanza debole, ma meno intontita di poco prima.

Poco. Temetti che non fosse passato proprio poco tempo, poiché la luce del sole che proveniva dalle finestre era tenue ed evidentemente era già passato il mezzogiorno. Avevo davvero dormito delle ore?

«Ben svegliata!». La voce di Thomàs mi fece sussultare. Mi misi meglio seduta sul divano, flettendo le ginocchia al petto. Lui era in piedi, con una scodella di ceramica in una mano e un cucchiaio nell'altra, intento a masticare qualcosa, a pochi metri da me.

«Sono svenuta?» domandai, portandomi una ciocca di capelli dietro ad un orecchio.

«Già» replicò. «Succede se digiuni e non dormi per giorni, sai... E' abbastanza normale».

Scorsi del sarcasmo nel suo tono.

Scorgevo sempre del sarcasmo quando Thomàs parlava con me, quasi volesse prendermi in giro.

«Non ho mai pensato al cibo in quel senso» dissi, in mia difesa. «Insomma, quando sei un Divoratore, è superfluo. Devo ancora abituarmi all'idea che mi serve per restare in piedi».

«Dovrai accelerare i tempi, se non vuoi rischiare di perdere i sensi in momenti poco opportuni».

«Sì, grazie. Ci sto lavorando».

Mi sorrise, ironico, trangugiando altri – mi sembravano – cereali.

«Simon dorme ancora?» chiesi, cambiando argomento. Thomàs scosse appena la testa. «No, è sveglio da parecchio» rispose.

«E dov'è?».

«In cucina. Martha sta preparando la cena per tutti».

«Cena? Quanto sono stata priva di coscienza?».

«Praticamente tutto il giorno».

Dannazione.

Mi passai rapidamente una mano sul viso e cercai di alzarmi. Ebbi successo dopo tre vani tentativi e rifiutai più volte l'aiuto di Thomàs. Come mi aveva definito quella mattina? Testarda.

Sì, lo ero.

Arrancai fino alla cucina, da dove proveniva quell'odore – allora - delizioso. Simon era seduto a tavola, con le mani premute sulle cosce e lo sguardo basso. Vederlo mi provocò una fitta al cuore. Sarebbe stato sempre così, da quel momento in poi? Io che mi sentivo morire ogni qualvolta che lo guardavo?
Mi sedetti al suo fianco, rivolgendo una rapida occhiata a Martha, che mi sorrise, rassicurante, mentre trafficava con le padelle. Non osai parlare, perché ogni cosa che avrei potuto dire, nella mia mente suonava terribilmente fuori luogo.
Simon sollevò gli occhi, fissandomi per un solo istante, prima di guardare altrove, in un punto vuoto del tavolo apparecchiato. «Stai bene?» mormorò. Me lo stava davvero chiedendo? No, non stavo bene, affatto.

«Sì, sto bene» risposi, pizzicandomi la lingua con i denti.

«Mi hanno detto che sei stata male».

«Solo un calo di zuccheri. Ho saltato la colazione».

Alzò di nuovo lo sguardo, allora, e sforzò un sorriso nella mia direzione. Era così bello, così innocente, così dolce. E la morsa al cuore si strinse sempre più, mentre mi perdevo lentamente nei suoi occhi color oceano.
Senza pensarci, d'istinto, sollevai una mano e le mie dita raggiunsero la sua fronte, a scostargli i capelli ad essa incollati.
Tuttavia, differentemente da ciò che era accaduto la sera prima, quando mi aveva permesso di prendermi cura di lui, il contatto diretto con la mia pelle gli provocò una strana reazione.
Non appena i miei polpastrelli lo sfiorarono, Simon scattò all'indietro, alzandosi in piedi e facendo cadere a terra la sedia d'acciaio. Trattenni il respiro, evitando di piangere, evitando di crollare, ancora una volta. Per l'ennesima volta. Avrei mai smesso di farlo?

«Mi dispiace» biascicò Simon, stringendosi nelle spalle. «Mi... Mi dispiace, io... Non volevo, io...».

«Non fa niente» mi sforzai di dire.

«Mi dispiace, mi...».

«Va tutto bene, Simon, davvero». Scossi appena la testa e mi alzai, lentamente. Per quanto avessi voluto consolarlo, perché vederlo in quello stato non faceva altro che peggiorare la situazione, dovetti uscire da quella stanza.
Percepivo le lacrime sulle mie guance, mentre barcollavo per il corridoio immerso nella semi oscurità. Martha riuscì a raggiungermi in una manciata di secondi, prendendomi per le spalle e costringendomi a fermare.

«Ehi» sussurrò.

«Sto bene» esclamai, rispondendo alla domanda che non aveva posto.

«No, non stai bene» disse lei, asciugandomi il viso con i pollici. «Hai bisogno di mangiare e rimetterti in forze».

«Non è quello il problema».

«Lo so, ma è qualcosa».

Sospirai. «Sono innamorata di qualcuno che mi ha dimenticato» mormorai. «Il mondo sta per crollare a pezzi e tutto fa schifo».

«Noi impediremo al mondo di crollare a pezzi e insieme rimetteremo a posto quelli del tuo cuore».

«Vorrei che tutto fosse così facile».

Martha non replicò, allora. Prese il mio viso tra le mani e depositò un lieve bacio sulla mia fronte. Si distaccò piano, abbozzando un sorriso. «Prima che perdessi i sensi» disse «vi stavo informando di ciò che ho scoperto. Non è molto, in realtà, ma è un punto di partenza. E' molto probabile che la Resurrezione si sia fermata col ritorno di Simon. Il Creatore potrebbe trovarsi in una fase di stallo, al momento, tra la vita e la morte. E' uno stato altamente vulnerabile, il che vuol dire che può essere ucciso con facilità. Qui, però, arriva la parte più difficile».

«Trovarlo» completai la sua frase e lei annuì.

«Thomàs è dell'idea che trovando Sebastian, possiamo giungere a lui» continuò. «Non ne siamo certi, ma è la persona più vicina possibile».

«Sebastian potrebbe avere un incantesimo di protezione su di sé. Come facciamo?».

«E' questo il problema. Se ha trovato il modo da sparire da qualsivoglia radar, sarà come cercare il tutto nel niente. Però, penso di aver trovato una soluzione anche a questo».

«E cioè?».

«Un contro-incantesimo. Devo solo contattare delle persone, diverse da quelle che sei andata a trovare tu». Alluse ad Evangeline e le compagne, e mi fece l'occhiolino. Evidentemente, avevo sbagliato del tutto le persone a cui era possibile chiedere aiuto.

«Ti stai dando davvero da fare» commentai, abbozzando una risata.

«Come sempre» replicò lei e mi portò una ciocca di capelli dietro ad un orecchio. «Vieni a mangiare qualcosa, d'accordo?».

Mi limitai ad annuire e ad obbedirle, almeno in parte. Trangugiai uova e carne arrostita, ma preferii farlo in camera da letto e non in cucina. Martha ne capì il motivo senza che io glielo spiegassi.
Rimasi chiusa in quella stanza per il resto della serata, che non era poi molto. Anche volendolo, senza le informazioni delle nuove streghe – decisi di chiamarle così per distinguerle da Evangeline ed amiche – non potevo fare molto.
Uscii da lì solamente quando fui assolutamente certa che Simon dormisse. Si era accovacciato sul divano poco dopo la mia fuga – se in quel modo si poteva definire – e là era rimasto per tutto il tempo, finché non era crollato. Perlomeno, questo fu ciò che mi raccontò di sfuggita Thomàs sbadigliando. Alla fine, era caduto nel sonno anche lui.
A causa dello svenimento, io non riuscii a dormire. Martha non era in casa, così decisi di salire sul tetto. Avevo visto l'alba, ora mancavano le stelle. Sapevo che anche quelle erano tanto considerate dagli umani e una volta mi avevano raccontato che, alla vista di una stella cadente, si è soliti esprimere un desiderio.
Io ne avevo parecchi in quel momento, ma dubitai del fatto che uno di quei puntini luminosi si staccasse dal cielo appositamente per me.
Mi strinsi nelle spalle, varcando la soglia della porta di ferro, tanto pesante da aprire, almeno per me, e subito un'ondata d'aria gelida mi investì. Era estate, ormai, ma a Chicago la temperatura non era salita più di tanto.
Fissai il cielo della notte, socchiudendo appena gli occhi. Era limpido, cristallino e costellato da tanti granelli bianchi. Improvvisamente, al contrario delle mie previsioni, una scia luminosa prevalse su tutto il resto.

Eccola, la mia stella cadente.

Abbozzai un sorriso. Dovevo scegliere solo un desiderio, no?
Ne avevo così tanti, ma optai per uno solo: desiderai che Simon si ricordasse di me e di noi. Una parte di me mi ammonì, sostenendo che tale desiderio era fin troppo egoistico per essere espresso. Tuttavia, almeno per quella volta, volli esserlo, sebbene me ne pentii quasi subito.

Essere egoisti porta sempre a delle conseguenze non buone, non piacevoli.

Un brivido mi pervase e non era il freddo della notte, né una brezza estiva. Era qualcosa di estremamente diverso e spaventosamente riconoscibile.
Trattenni il respiro e voltai la testa, quel poco che bastava per scorgere i capelli biondi e gli occhi azzurri, intermittenti col rosso.

Sebastian era lì.

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Capitolo 6
*** Be selfish, be scared. ***


Capitolo 6
"Be selfish, be scared"



Una volta, nei quaderni di Simon, avevo letto qualcosa riguardo alla paura e alle fobie – lui non ne aveva mai saputo niente, ma ero piuttosto convinta che se gli avessi detto che avevo sbirciato tra i suoi scritti, non se la sarebbe presa.
Mi era sembrato tutto così esagerato, perché le sensazioni descritte erano troppo profonde, troppo dolorose, che non credevo possibile che potesse esistere una cosa del genere. Lo trovavo, semplicemente, troppo crudele.

Solo allora, al cospetto di Sebastian, in quella decadente condizione da umana nella quale mi trovavo, realizzai quanto tale descrizione fosse solo superficiale e appena accennata, e lontana anni luce dall'effettiva realtà.

Mi sentivo debole, minuscola, impotente e fragile.

Estremamente fragile e inutile.

«Non sono qui per ucciderti» disse lui, serrando la mascella. Si trovava a qualche metro da me, in piedi, con le mani nelle tasche dei pantaloni scuri che aveva addosso. Per quel che ne sapevo, avrebbe potuto uccidermi nel tempo di un battito di ciglia, saltando clamorosamente l'invito a farlo.

«Di questo ne dubito». Avrei voluto tenere un tono duro e spavaldo, ma, purtroppo, la mia voce si incrinò a metà frase.

«Dico sul serio, Hazel» replicò.

«Che cosa vuoi, allora?».

«Parlare».

«Parlare? Sul serio?». Allargai le braccia, esasperata. «Sono secoli che non vuoi parlare con me e, quando lo fai, accadono solo brutte cose».

«Non incolpare me di tutto» sentenziò, fulminandomi con lo sguardo. «Ho fatto ciò che volevi anche tu».

«Lo volevo quando c'era ancora una piccola possibilità che lui fosse clemente, Sebastian. Ma non lo è più e forse non lo è mai stato».

«Per ovvie ragioni».

Sorrisi, sarcastica. «Tu e il tuo dannato odio per gli umani».

«Non è odio. E' solo che non ho mai voluto rispettare ciò che per me è solo cibo».

«Uccidere interi villaggi solo per divertimento, come lo definiresti? Non certo mancanza di rispetto».

«Nostra madre era d'accordo a farlo».

«Nostra madre era solo una Divoratrice tradita che ce l'aveva col mondo intero». Feci una breve pausa, osservando i tratti tesi del viso di Sebastian. Quella era la prima volta che prendeva l'aspetto di un ragazzo con la faccia da vero duro. In precedenza, si era nascosto dietro a visi giovani ed innocenti. «Ha ucciso molti di noi, solo per ira» aggiunsi.

«E' solo una leggenda».

«Molte leggende si sono rivelate più che vere, ultimamente, non trovi? Forse, per farlo, ha usato proprio quel pugnale che custodisci così gelosamente. Noi non eravamo lì quando è accaduto. Potrebbe essere successo di tutto».
Sebastian forzò un sorriso amaro. «Immagino dovrò chiederlo a lui, allora» sibilò. Mi morsi il labbro inferiore e rischiai di farlo sanguinare. Voleva dire che la Resurrezione era completa? Che il Creatore era tornato, a tutti gli effetti?

«Buona fortuna con le menzogne, allora» replicai, cercando il più possibile di essere acida, ma ero piuttosto convinta di non essere credibile. «Quella è una priorità umana» commentò lui. «Dovresti sapere che lui è molto più simile a te di quanto tu creda».

Su quello aveva ragione e non potei negarlo.
Il nostro Creatore si era innamorato di un'umana ed era stata la sua condanna, un po' come era successo a me. Perlomeno, così diceva la leggenda.
Le somiglianze, tuttavia, si fermavano lì, perché lui aveva trasformato il suo amore in odio, col tempo, e a me ciò non sarebbe mai accaduto.

«Cosa hai intenzione di fare, ora?» chiesi, retorica. A me non interessava davvero saperlo. Volevo solo che sparisse dalla mia vita, dalla mia esistenza. Volevo vivere.
Tuttavia, mi ero permessa di essere egoista già una volta in quella serata e la sua visita era stata la mia amara ricompensa. Dovevo pensare al bene di tutti ed essere a conoscenza dei piani di Sebastian sarebbe stato un enorme vantaggio, ammesso e concesso che lui mi avesse rivelato qualcosa, e di ciò dubitavo.
Una parte di me mi stava spingendo a pensare che dentro Sebastian esistesse ancora mio fratello, colui che rischiava tutto per proteggermi e non per farmi fuori.

«Sarei davvero uno stupido se te lo dicessi, non ti pare?» esclamò, abbozzando un sorriso tirato.

Scossi appena la testa. «Di cosa volevi parlare, esattamente?».

Sebastian mosse un passo nella mia direzione e la distanza tra noi si ridusse spaventosamente. Sollevò una mano e le sue dita riuscirono a sfiorarmi una guancia. Lo scansai bruscamente, prima che potesse andare oltre.

«Penso che questo sia il migliore aspetto che tu abbia mai preso, sorellina» sussurrò.

Serrai la mascella. «Di cosa, Sebastian?» domandai ancora.

Lui sospirò, lasciando ricadere il braccio lungo un fianco. «Nostro padre vorrà incontrarti, presto o tardi» disse e io storsi le labbra. «Del resto, senza di te non sarebbe mai riuscito a tornare».

«Beh, puoi dirgli che rifiuto l'invito».

«Non credo sia molto propenso ad accettare un no come risposta».

Socchiusi gli occhi.

Paura, paura, paura.

Oppure fobia?

Simon sarebbe riuscito a calmarmi.

No, il vecchio Simon... Il mio Simon lo avrebbe fatto.

«E' tornato davvero?» chiesi, in un sibilo. Sebastian accennò il sorriso. «Lo scoprirai» disse e, prima che potessi ribattere, scomparse nel nulla, lasciandomi sola, sotto le stelle cadenti.

 

***

Ancora domande. Ancora niente risposte.
Era così facile, da umana, farsi venire il mal di testa. Da Divoratrice, ogni cosa sembrava semplice e scontata, che nemmeno avevo il bisogno di pensarci.
In quel momento, invece, trovando la soluzione ad un problema, meccanicamente e sistematicamente, ne spuntavano altri mille.
Come era avvenuta la Resurrezione? Sebastian sapeva che Simon era tornato in vita? Che cosa voleva il Creatore da me? Io non ero responsabile del Sacrificio, io non volevo farlo.Voleva ringraziarmi per una cosa che non avevo fatto? Oppure voleva solo togliermi di mezzo perché era a conoscenza della mia contrarietà a tutta quella faccenda, tale da considerarmi una traditrice o, addirittura, una minaccia?

Dannazione.

Avrei dovuto raccontare a Martha o a Thomàs ciò che era accaduto sul tetto, ma lo tenni per me.
Tornai in casa e mi rifugiai in camera. Mi misi a letto, sotto il lenzuolo fresco e, mentre una vocina nella mia testa – era la mia coscienza, forse? - continuava a inveire contro di me, dandomi dell'egoista e io non potevo darle torto, caddi nel sonno.

 

Quando riaprii gli occhi, l'alba era passata da un pezzo, ma non era troppo tardi.
Mi passai una mano sul viso, tirandomi su, sul materasso. La stanza era avvolta nella semi oscurità, ma riuscii comunque a scorgere una sagoma lì presente. Sulle prime, pensai fosse di nuovo Sebastian, già pronto a punirmi per il mio secco no. Poi, però, scrutando meglio, mi accorsi di come ciò non fosse possibile, poiché la figura era troppo esile e sottile per appartenere a mio fratello.

Quello era Simon, seduto sul bordo del letto, proprio accanto ai miei piedi. Sobbalzai appena e fu grazie a questo che lui si accorse del mio risveglio. Lo vidi voltarsi lentamente e trattenere il respiro.

«Simon» sussurrai. «Che ci fai qui?».

Lui rigirò qualcosa tra le mani. Non riuscii a capire cosa fosse, a causa della posizione in cui entrambi ci trovavamo.

«Credo si chiami muffin» disse. «Forse mi sbaglio, ma la ragazza coi capelli biondi me ne ha dato uno, ieri, ed è davvero buono».

In situazioni normali, avrei sorriso. In quel momento, tuttavia, non ci riuscii. La mia espressione rimase impassibile, mentre mi mettevo meglio seduta sul materasso.
«E' per te» aggiunse e mi porse quel muffin al cioccolato, dall'aspetto delizioso. Lo afferrai, distrattamente, e lo rigirai tra le mie dita. «Evita i cali di zuccheri» concluse e sforzò un sorriso.

«Grazie» dissi.

Quel gesto era tenero, un po' come lo era il suo animo: gentile, buono, delicato. Tale parte era rimasta intatta, per fortuna, e non potei non esserne lieta.

«Mi dispiace davvero per quello che è successo ieri sera» disse Simon, mordendosi appena il labbro inferiore.

«Lo so» replicai. «Non l'hai fatto di proposito, lo capisco».

«No, certo che no». Fece una breve pausa, sfregandosi le nocche di entrambe le mani. «Ho sentito dire che è possibile che io recuperi la memoria, col tempo».

«Sì, è possibile».

«Mi piacerebbe tanto ricordare».

«Ricorderai ogni cosa, te lo prometto».

«Mi ricorderò di te?».

Fui io a trattenere il respiro. «Lo spero» affermai, sebbene non ne fossi sicura.

Per niente sicura.

Simon mi guardò in quello stesso modo in cui faceva sempre, come quando era innamorato. Quel modo che mi mancava così tanto e vederlo in tale momento, con la consapevolezza addosso che niente fosse vero, mi aprì una voragine nel petto.
Sforzai palesemente un sorriso e mi alzai in piedi, posando il muffin sul comodino, dandogli le spalle e cercando invano qualche occupazione. Non ebbi successo e, nel frattempo, lui mi aveva imitato, raggiungendomi. Mi voltai piano e Simon era di fronte a me, con gli occhi dentro ai miei.
Io non feci nulla, per paura delle sue reazioni. Se avessi osato toccarlo, avrebbe potuto scattare ancora o letteralmente impazzire. Fu lui ad agire, sporgendosi verso di me. Le sue braccia mi strinsero a sé. Le sentii sulle mie spalle e la mia testa finì sul suo petto.

Mi stava abbracciando.

Tastai la sua schiena con le dita per realizzare il fatto che stesse davvero accadendo.

E stava sul serio succedendo.

Per la prima volta da quando ero umana, fui felice. Era una strana sensazione, come essere sospesi per aria, senza forza di gravità. Era come se, nelle sue braccia, ci fosse il mio rifugio sicuro e io non potevo chiedere di meglio.

«Ti amo così tanto» sussurrai, ad un tono così basso che lui non mi poté percepirmi. Ma andava bene così.

Per quel momento, andava tutto bene così.

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Capitolo 7
*** And it burns and I turn into dust. ***


Capitolo 7
"And it burns and I turn into dust"


Lo scoprirai.
Lo scoprirai.
Lo scoprirai.

Era un ritornello che continuava a martellarmi la testa. Cosa dovevo scoprire?

Dannazione.

Erano passati due giorni dalla visita di Sebastian e ancora non avevo trovato il coraggio di confessarlo a Martha, né a Thomàs, né tanto meno a Simon, che del sovrannaturale non sapeva assolutamente nulla.
Era già abbastanza fragile così, a confronto con il mondo reale. Metterlo davanti a Divoratori e demoni non era l'ideale a favorire la sua riabilitazione, se in tal modo poteva essere chiamata. Non sapevo se glielo avrei mai detto; sicuramente non prima di essermi preparata come rivelargli ogni cosa.
Volevo evitare avesse qualche crisi simile a quella avvenuta la volta precedente. Ero quasi crollata anche io, al tempo, e i miei sentimenti, allora, era attutiti.
 

***

 

L'alba era ancora lontana da Chicago. Quella notte non avevo dormito quasi per niente. Stesa sul materasso, con gli occhi fissi sul soffitto, non mi ero mossa di molto da quando mi ero messa a letto. Martha aveva preparato una cena squisita, con maccheroni al formaggio e ali di pollo fritte. Ancora mi chiedevo dove avesse imparato a cucinare e soprattutto perché lo avesse fatto, dato che il cibo non era una sua priorità da Divoratrice.
Avevo mangiato parecchio e mi stavo abituando all'idea di avere appetito e di mangiare per tenermi in forze. Per mia fortuna, non ero più svenuta, nonostante lo stress – così lo definiva Thomàs – e i cattivi pensieri.
Mi rigirai più volte. Faceva caldo, inspiegabilmente. Che l'estate, alla fine, avesse seriamente toccato anche Chicago, la città del ghiaccio?
Dovetti alzarmi, per non cadere in un bagno di sudore. Mi ritrovai, nel giro di poco, a rigirare per la casa, a piedi nudi sulle mattonelle fresche, che mi donarono un po' di sollievo. Scorsi Martha in salotto, sul divano. Si era concessa un po' di riposo, dato che stava pasticciando con il suo nuovo Ipad – almeno, così pensavo si chiamasse; con la tecnologia non ci ero mai andata molto d'accordo, fin dal suo inizio. Non volli disturbarla, sebbene mi avrebbe fatto comodo una nostra chiacchierata, come i vecchi tempi – potevo definirli “vecchi”, poi?
Le avrei sicuramente raccontato della visita di Sebastian ed ero ancora restia sul farlo oppure no. Qualunque decisione avessi preso, ero pressapoco sicura che me ne sarei pentita subito dopo.
La porta della stanza di Thomàs era chiusa. Probabilmente stava dormendo o, molto più sicuramente, stava studiando nuovi piani di ricerca e di attacco. Era più operativo di Martha e ancora non mi spiegavo come ci riuscisse. Vagai ancora per la casa e, seppur la mia ragione continuasse a suggerirmi che fosse una pessima idea, capitolai davanti alla camera dove si era sistemato Simon.
Sarebbe stato dannatamente sbagliato entrarvi. Io avrei rischiato di cedere ai miei impulsi: ne avevo parecchi; baciarlo, abbracciarlo, stringerlo forte a me, primi tra tutti, e con lui... Con lui, non potevo permettermelo, non in quella situazione.
Dopo l'abbraccio dato di sua spontanea volontà, non c'erano stati altri contatti tra noi, di alcun tipo; nemmeno quelli distratti nei gesti quotidiani. Sentire la sua pelle sulla mia mi mancava enormemente. Inoltre, mi mancava guardarlo dormire. Dal giorno del suo ritorno, non lo avevo più fatto.

Indugiai, con la mano sul pomello della porta, ad occhi chiusi.
E se avessi aperto e lo avessi trovato sveglio? Che spiegazione avrei potuto dargli? Del resto, Simon non sapeva che noi stavamo insieme nella sua passata vita. Forse mi riteneva solo un'amica, una conoscente, una sorella. Mi morsi forte il labbro al pensiero.
Una parte nascosta di lui mi amava ancora o si era tutto dissolto, inesorabilmente?

Altre domande. Dannazione.

Sospirai e mi decisi ad entrare nella stanza. Non era immersa nell'oscurità, ma una tenue luce, proveniente da una lampada sul comodino accanto al letto la rendeva abbastanza luminosa, per quell'ora della notte, perlomeno.
Simon dormiva, steso sul materasso, con addosso solo dei pantaloni di tuta blu scuro. Il suo petto era scoperto ed erano evidenti i segni dei sigilli su di esso. Non sanguinavano più, ma erano rimaste delle cicatrici, presenti anche sul braccio destro, sulla spalla, sul collo e una piccola parte del viso. Nonostante ciò, lui rimaneva bellissimo ai miei occhi.
Camminai lenta per la stanza e, senza rimuginarci troppo, salii sul letto, sdraiandomi al suo fianco.
I nostri volti si trovarono a pochi centimetri di distanza. Ancora una volta, non osai toccarlo, sebbene, nel sonno, non potesse sentirmi.
Rimasi immobile, a fissare i suoi tratti, perdendomi in essi: nei lievi segni attorno agli occhi, che lo facevano apparire più grande di quanto in realtà fosse; nelle labbra schiuse e sottili, i capelli neri e spettinati e quel lieve accenno di barba. Sorrisi lievemente.
Lui era mio. Che fosse nella sua memoria o no, non importava.

***

 

Aprii gli occhi lentamente e il sole già filtrava abbondantemente dalla finestra. Non ricordavo di essermi addormentata. Stavo sussurrando una ninna nanna e, evidentemente, essa aveva agito su di me.

Non ricordavo nemmeno di essermi messa in quella posizione.

Ero sdraiata a pancia in giù, appoggiata sulla schiena di Simon. Il mio orecchio si trovava in mezzo alle sue scapole e riuscivo a percepire chiaramente i battiti regolari del suo cuore.
L'odore della sua pelle era inebriante e non ebbi la forza di scostarmi, per quanto, ancora, fosse sbagliato. Sfiorai piano, con le dita, la linea della spalla e...

«Sei sveglia» sussurrò lui. Sobbalzai, tirandomi via immediatamente. Mi misi seduta sul materasso e lo vidi girare piano il capo e abbozzare un sorriso.

«Già» biascicai. «Anche tu e...». Mi morsi piano il labbro inferiore. «Insomma, tu sei... Sveglio da molto?». Nervosamente, portai una ciocca di capelli dietro ad un orecchio.
Non avrei neanche dovuto vergognarmi, dopo tutto. Più che altro, avevo paura delle sue reazioni, come sempre negli ultimi tempi, del resto. Eppure, Simon sembrava tranquillo e rilassato. Era davvero la stessa persona che era quasi impazzita quando gli avevo sfiorato la fronte?

«Da un po'» replicò e mi imitò, mettendosi seduto.

Cercai di tenere lo sguardo altrove. Come diceva sempre? I miei occhi erano bellissimi? Aveva mai visto i suoi? Due calamite, due diamanti.

«Dormivi tranquilla» spiegò «mi pareva un crimine muovermi».

«No, tu...» balbettai. «Hai... Niente. Grazie».

Sorrise appena. «Di nulla».

Imbarazzo. Simon era colto da esso numerose volte, soprattutto le prime volte che ci eravamo incontrati. Io ci giocavo spesso, lo rendeva adorabile. Non lo avrei fatto se avessi saputo che provocava un nodo allo stomaco difficile da sciogliere.
Finsi un colpo di tosse e mi sforzai di guardarlo in viso, sopprimendo ogni altro istinto, perché, prima, lo avrei baciato, dandogli il buongiorno.

«Come stai, Simon?» domandai. Nessuno glielo aveva ancora chiesto, a differenza mia. Martha e Thomàs mi ponevano tale quesito praticamente ogni mezz'ora.

«Sto bene» rispose lui, forse con troppa fretta, rispetto al normale. «Insomma, a parte la mia memoria scadente».

«Sai, tu... Scrivevi molto».

«Lo facevo?».

«Già. Eri sempre con un quaderno e una penna in mano, ogni volta che ti vedevo».

«E cosa scrivevo?».

«La tua vita». Feci una breve pausa, abbozzando un sorriso. «I tuoi pensieri sugli altri, sulle cose che ti succedevano».

«Il mondo su carta».

«Una cosa del genere. Non so, magari... Magari leggendo quelle righe, può tornarti in mente qualcosa e può aiutarti».

«Tu credi lo possa fare?».

«E' un'ipotesi».

Annuì distrattamente e in quel momento, inconsciamente o meno, allungai una mano nella sua direzione, ripetendo il medesimo gesto di qualche sera prima: gli sfiorai la fronte, scostando i capelli da essa. Lui non si mosse e non potei che esserne lieta.

«Non scappi più» sussurrai. Simon scosse appena la testa. «Tu non vuoi farmi del male» disse. «L'ho capito».

Fargli del male non mi sarebbe mai passato per la testa, nemmeno se gli eventi non ci avessero portato a stare insieme, anche se io fossi rimasta una totale sconosciuta per lui. Abbozzai un sorriso, provando un briciolo d'entusiasmo.

Avrei potuto restare lì tutto il giorno, semplicemente seduta a guardarlo. Non avrei avuto bisogno di dialoghi intensi, sarebbe bastato il silenzio. Purtroppo, però, data la situazione, non potevo permettermi troppa mancanza di inerzia.
Così, dopo esserci alzati e aver fatto colazione, tutti seduti attorno al tavolo della cucina – anche Martha, sebbene non avesse la necessità di mangiare cibo vero e proprio – mi misi qualcosa di pulito addosso, optando per un paio di jeans stretti e una maglia blu a maniche lunghe, e feci per uscire di casa.
Tuttavia, dovetti fare i conti con Thomàs, che mi bloccò sulla soglia della porta, impedendomi di uscire. «Dove vai?» chiese, alzando un sopracciglio. Osservai il suo braccio teso, intendo a tenere ben chiusa la porta blindata d'ingresso, proprio sopra la mia testa.

«Devo fare una cosa» risposi, distrattamente.

«Cosa?».

«Non sono propriamente affari tuoi».

«Lo sono se esci e scompari e diventi qualcun altro da cercare disperatamente».

Sbuffai. «Devo prendere delle cose a casa di Simon».

«Ti accompagno».

«Non ce n'è bisogno».

«Beh, sì, dato che tu non hai una macchina, a parte quella che hai rubato qualche giorno fa e che non puoi più usare e, non per infierire, il tuo passo è abbastanza lento».

Feci una smorfia. Avrei dovuto prendermela, ma mi ero in un certo senso abituata alle sue prese in giro. Probabilmente, non ci pensava neanche mentre parlava. Roteai gli occhi. «D'accordo» esclamai. «Ma solo perché hai la macchina ed è lontano da qui».
Thomàs sorrise soddisfatto e, poco dopo, fummo già in strada, a bordo della sua jeep verde.

 


Fu faticoso orientarmi in quella prospettiva. Abituata a smaterializzarmi da una parte e l'altra, non sapevo a memoria il percorso da casa di Martha a quella di Simon, per cui, dovetti andare per tentativi e, per un solo attimo, ringraziai il fatto che Thomàs si fosse forzatamente aggregato, poiché, sicuramente, da sola mi sarei persa.
Sospettai che lui, in realtà, conoscesse meglio di me la strada, ma si stesse divertendo a vedermi inciampare sulle mie stesse convinzioni.
A causa mia o a causa del traffico, ci impiegammo un'ora a raggiungere il grande e grosso palazzo di lusso dove sia io che Simon abitavamo.
Mi sembrava passata un'eternità dall'ultima volta che ci ero stata, anche se, effettivamente, era passata solo qualche settimana, o meno. Attraversando l'elegante atrio, il portiere mi salutò con un sorriso e fece un cenno anche a Thomàs, che replicò col medesimo gesto. L'ascensore, invece, mi sembrò più lento del solito a salire.
«Quindi» esclamò Thomàs, fissando i pulsanti dell'abitacolo. «Cos'è che devi prendere, esattamente?».

Dovevo aspettarmi quella domanda. Strano che non me l'avesse posta prima. «Il diario di Simon» replicai, distrattamente.

«E perché?».

«Perché lì dentro c'è la sua vita. Ho pensato che può essergli utile a recuperare la memoria».

«Mh, sì, interessante, ma non credi che abbia scritto anche di te?».

«E' proprio questo il punto».

Lui abbozzò una risata. «Intendo te come Divoratrice».

A quel punto, mi voltai nella sua direzione, giusto in tempo per vedere che aveva fatto lo stesso, poco prima. E aveva ragione: Simon, in tal momento, non sapeva nulla del sovrannaturale e se ne fosse venuto a conoscenza a causa di ciò che aveva scritto in quelle pagine, sarebbe impazzito. Avevo già trascorso una pessima esperienza in campo diari e non ci tenevo a riviverla.

«Toglierò quelle parti» dissi, allora.

«Toglierai praticamente tutto di voi, quindi».

«No». Scossi appena la testa. «La mia natura non c'entra con ciò che siamo stati».

Thomàs si limitò a roteare gli occhi, mentre un lieve suono dell'ascensore ci avvisava dell'arrivo al piano.
Fu facile entrare in casa, sebbene all'ingresso fossero appiccicati i nastri della polizia – era pur sempre un luogo di un delitto; avevo le chiavi, recuperate dalle tasche di Simon.
L'appartamento era vuoto, spoglio o, perlomeno, fu così che lo percepii. Non c'era più quel calore che mi accoglieva ogni volta che ero tra quelle mura; ma era ovvio che accadesse. Del resto, entrambi i proprietari di quella casa erano morti.
Mi diressi verso la camera da letto di Simon e Thomàs mi venne dietro a passo lento. Quella stanza non era stata toccata. C'era ancora la sua maglia grigia appoggiata sul materasso, tra le coperte stropicciate in malo modo. C'erano ancora fogli sparsi sopra la scrivania, la borsa a tracolla abbandonata a terra e la divisa della scuola piegata malamente su una sedia.

«Wow. Disordinato il ragazzo» fu il commento di Thomàs. Mi voltai e lo vidi fermo sulla soglia della porta, con le mani appoggiate agli stipiti. Sbuffai, ignorandolo, e raggiunsi la scrivania, cercando di mettere insieme più fogli possibili. Spostandoli e girandoli, tra di essi, scorsi qualcosa.
Una foto. La presi tra le mani; ritraeva me, che sorridevo in camera e Simon che, invece, mi guardava. Non ricordavo quando era stata scattata. Era bellissima, su questo non c'era dubbio. Sorrisi, sfiorando con i polpastrelli i contorni del suo viso.

«Sei venuta bene» esclamò Thomàs. Senza che me ne accorgessi, si era avvicinato a me e mi era accanto, in quel momento. «Grazie» dissi, distratta. In realtà, ero ancora focalizzata sulla foto e sul fatto che la tenesse lì o il solo fatto che l'avesse.

«Posso restare da sola?» esclamai, poco dopo.

«Perché?».

«Per favore, Thomàs».

Lo sentii sbuffare, ma già non lo guardavo più. Lui si allontanò e io continuai, con la foto in mano, a frugare tra i vari fogli, infilandoli nel diario nella maniera più ordinata che riuscivo, sebbene fosse un'impresa.
Poco dopo, tuttavia, sentii dei passi nella stanza e roteai gli occhi. «Tu e lo stare lontano proprio non andate d'accordo» dissi. Mi voltai, convinta che Thomàs fosse tornato, ma bastò un battito di ciglia per accorgermi che non era così. Davanti a me, invece, stava in piedi Tamara – perlomeno, quello era l'aspetto che la Divoratrice aveva assunto.
Il mezzo sorriso sul mio volto scomparve e mi sforzai per far sì che al suo posto non comparisse quella dannata maschera di paura.
«Din-don, la stronza è tornata a casa» cantilenò. Il mio primo istinto fu quello di scappare. Avrei facilmente potuto tenerle testa, da Divoratrice, ma, come già appurato, da umana le cose erano nettamente diverse. Così, mi gettai verso la porta; lei, tuttavia, riuscì a precedermi, e mi afferrò per il collo. Mi sbatté con forza contro la parete e mi sollevò, tanto che i miei piedi non toccarono più terra.
Avrei voluto urlare, però la sua presa era troppo forte per farlo. Mi mancava il fiato e non riuscivo a liberarmi, sebbene le stessi graffiando le braccia con le unghie.
«Mi avevano detto che eri stupida, ma non pensavo così tanto» sibilò, a pochi centimetri dal mio viso. «Senza protezione, Hazel? Se non fosse stato per la biondina o per quel codardo di tuo fratello, ti avrei già fatta fuori».

Feci una smorfia, sia per il dolore alla gola, sia per ciò che aveva appena detto.

Per Sebastian? Era stato il primo a tentare di uccidermi, più e più volte, e ora tentava anche lui di proteggermi?

«Tuttavia» continuò Tamara «lui adesso non è qui e tu sei tutta sola. Sapevo che saresti tornata nella camera del tuo ragazzo carino. Ti manca, eh? Potrei aiutarti facilmente a raggiungerlo».

Non sapeva del ritorno di Simon e questo riuscì a rassicurarmi. Se mi avesse davvero ucciso, lui sarebbe stato al sicuro, perlomeno.

Mi portò più in alto, stringendo la presa. A causa della mancanza di respiro, non riuscii più a ribattere e a tentare di divincolarmi. La debolezza mi avvolse e le mie braccia ricaddero lungo i fianchi.
Ero sul punto di perdere i sensi, quando qualcuno tirò via Tamara. Seppur con la vista offuscata, la vidi capitombolare dall'altra parte della stanza, sbattendo con violenza contro il muro. Io ricaddi a terra, a corto di fiato.

«Stai bene?». Thomàs mi era accanto, in ginocchio. Avrei voluto rispondere, ma Tamara si era alzata e aveva nuovamente preso la rincorsa, nella nostra direzione.

Non realizzai subito ciò che accadde. Vidi Thomàs scattare, sentii Tamara urlare e poi un fascio di luce mi accecò. Chiusi gli occhi, per difesa e, quando li riaprii, Thomàs era tornato in ginocchio al mio fianco.
I suoi occhi mi fissavano, ma erano... Erano diversi. Erano chiari, azzurri, di ghiaccio. Erano ipnotici, quasi quanto quelli di Simon, ma con lui era abitudine esserne attratta.

«Tu...» sospirai. Thomàs sbatté le palpebre in quell'istante e i suoi occhi tornarono alla normalità.

«Non è sicuro qui» disse. «Dobbiamo andarcene».

Non feci in tempo a replicare in qualche modo. Mi tirò per un braccio, costringendomi ad alzarmi e ad arrancargli dietro, mentre correva giù per le scale.

«Thomàs!» implorai, ma continuò ad andare avanti. Avevo il fiatone, quando raggiungemmo la strada. Mi fece salire in auto con poca delicatezza e, una volta messo alla guida, partì sgommando.

«Che cavolo!» urlai. Thomàs aveva smesso di accelerare, in mezzo al traffico. Si voltò distrattamente verso di me, per un secondo. «Scusa» replicò «ma dovevamo andarcene».

«Già, questo l'avevo capito». Mi massaggiai il braccio per cui mi aveva tirato. Molto probabilmente, sarebbe apparso sulla pelle un bel livido, in aggiunta ai segni delle dita di Tamara sul collo.
Nella fretta della fuga, il diario, insieme alla foto, era rimasto in quella stanza e dubitai del fatto che mi sarebbe stato permesso di tornare indietro, dopo quel maledetto incontro.

«Che è successo là dentro?» domandai. Thomàs sospirò. «Beh, noi cerchiamo loro, loro cercano noi. Mi pare evidente» rispose.

«Non intendevo questo».

«E cosa, allora?».

«Come hai... Come hai fatto a mandarla via?».

Abbozzò una risata, sarcastica. «Sono un cacciatore, Hazel. E' una domanda abbastanza stupida».

«Il fatto di essere un cacciatore presuppone che tu abbia delle armi e, poco fa, non ne avevi. E poi...». Feci una breve pausa, mordendomi piano il labbro inferiore. «E poi, i tuoi occhi sono cambiati. Hanno cambiato colore, li ho visti».

Lui fece una smorfia. «Deve averti fatto prendere un bel colpo alla testa quella tizia» commentò.

Fui io a storcere le labbra, allora. «Non ho preso nessuna botta in testa!» mi lamentai. «So quello che ho visto».

«Sì, certo, i miei occhi che cambiano colore». Scosse appena la testa. «Lasciamo perdere».

Ero certa che quel discorso non avrebbe portato a niente. Thomàs sapeva come sviare un argomento e io non ero altrettanto brava a insinuarmi tra le sue debolezze.
Perciò, come mi aveva detto, lasciai perdere. Mi girai dall'altra parte, in silenzio, guardando fuori dal finestrino. Pensai che, forse, era giunta l'ora di raccontare sia a lui che a Martha della visita di Sebastian. Non ero brava con i segreti e dovevo ancora capire se questo fosse un bene o un male.

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Capitolo 8
*** Fate, it's late. ***


Capitolo 8
"Fate, it's late"



«Perché accidenti non mi hai detto nulla?».

Martha si era arrabbiata. Non avevo nemmeno dovuto formulare più frasi complete e coerenti, che lei aveva già capito tutto. Era fenomenale, a livelli quasi inquietanti.
«Non lo so» replicai, sfregandomi le nocche delle mani, nervosamente. «In realtà, non sapevo che fare. Volevo capirci qualcosa, ma non sono stata così brava a farlo».

Lei continuava a fare su e giù per il salotto, sotto il mio sguardo e quello di Thomàs, rimasto in piedi, con le braccia incrociate, accanto al divano sul quale ero seduta. Non ero riuscita a riaprire il discorso sui suoi occhi in quelle ore trascorse e, probabilmente, non ci sarei riuscita nemmeno nei giorni a seguire.

«Oh, certo che no!» gridò Martha, fermandosi e alzando le braccia, con fare plateale. «Avrebbe potuto ucciderti! O peggio, prendere la tua anima! Ne hai una tutta tua, adesso, lo sai questo, vero?».

«Non voleva uccidermi». Dal tono che usai, sembrò che lo stessi difendendo. Così, finsi un colpo di tosse per evitare che i due si focalizzassero troppo su tale aspetto. «Ha detto che voleva parlare» continuai «per quanto sia assurdo tenere una civile conversazione con Sebastian e poi...». Feci una breve pausa, guardando verso il corridoio. Quasi sperai di veder comparire Simon, ma lui non c'era, dormiva ed era meglio così. Scossi appena la testa e proseguii: «Poi ha aggiunto che il Creatore voleva vedermi».

«Per ucciderti!» sbraitò Martha.

«No» la ammonii. «Per ringraziarmi».

«Ringraziarti?».

«Già. Tecnicamente, senza di me non sarebbe potuto tornare, perciò...».

«Wow. Da quando certi prototipi di Divoratori seguono il Galateo?» commentò Thomàs. Martha lo fulminò con lo sguardo e lui alzò le spalle, per tutta difesa. «E Tamara, allora?» esclamò lei, subito dopo. «Perché ti ha attaccato?».

«Non lo so» rispose. «Forse non è del tutto d'accordo con il Creatore, anche se... Beh, ha detto che è stato Sebastian a insistere per non farmi fuori».

«Sebastian. Lo stesso Sebastian che ha, di fatto, cercato di farti fuori almeno un centinaio di volte negli ultimi tempi?».

«Già. L'essere coerente non rientra propriamente nelle sue corde».

«Una cosa è certa: il nostro piano è andato a rotoli». Martha sbuffò, posando le mani sui fianchi. «Davvero, non ci capisco più nulla».

Abbozzai un sorriso, stanco. Non era la sola ad essere a corto di risposte. «E se accettassi?» dissi, ad un tratto.

«Come?».

«L'invito. Se accettassi di incontrare il Creatore».

«Non essere sciocca, sarebbe un suicidio».

«Beh, non mi sembra che abbiamo altre strade».

«Beh, non mi sembra che l'ultima volta che hai provato ad offrirti volontaria, sia andata una meraviglia». Usò un pizzico d'acidità e scosse la testa subito dopo. «Scusa, era per... Puntualizzare».

«Non fa nulla» esclamai. «Starò bene, okay? E se la cosa può farti stare tranquilla, puoi venire con me».

«Quello era scontato».

Sospirò sommessamente e mi raggiunse, sedendosi al mio fianco. «Ho paura di incontrarlo» sussurrò e, d'istinto, le afferrai una mano, sfiorandole il dorso con i polpastrelli. «Lo sai, ci hanno detto così tante cose su di lui, alcune buone, ma molto di più cattive. Non riesco a immaginarlo un mondo in cui è al potere. Un mondo dove ci comanda a bacchetta. In realtà, non riesco nemmeno a immaginare lui».

«Lo so» mormorai. «Ho la stessa paura anche io».

«E se ci distruggesse? A quanto ne sappiamo, può distruggere ogni cosa».

«Può farlo, ma noi... Non lo scopriremo mai, restando immobili».

«Ha ragione» intervenne Thomàs, che era rimasto in silenzio fino a quel momento. «Verrò anche io».

«Stai scherzando?» ribattei.
Lui fece una smorfia. «Non posso permettere che voi due andiate in quel covo di Divoratori senza una benché minima difesa. Sono un Cacciatore, ricordi? Sono più che utile».

«Sì, ma...».

«Non era una proposta, Hazel».

Discutere con lui fu pressoché impossibile. In realtà, mi risultava arduo tener testa a chiunque; in quella situazione, tuttavia, recarmi dal Creatore con il loro appoggio mi confortava, e parecchio.
Purtroppo, però, se fossimo andati tutti all'incontro, Simon sarebbe rimasto solo, il che significava “non al sicuro”, specialmente con Tamara ancora in giro.
Alla fine, decidemmo che la scelta più saggia – o meglio, obbligata – fu quella che prevedeva Martha a casa con Simon, e io e Thomàs all'incontro.
Saremmo, comunque, rimasti in contatto con casa, in caso di qualsivoglia difficoltà.
 

***

 

Non era nemmeno l'alba quando salimmo sul tetto. L'aria era gelida, l'autunno alle porte.
Camminai davanti a Thomàs, rischiando di inciampare nei miei piedi negli ultimi passi, probabilmente a causa dell'agitazione. Mi fermai, proprio davanti alla porta di metallo pesante, socchiudendo gli occhi e fu in quel momento che percepii le dita di Thomàs intrecciarsi alle mie. E fu strano.
Avevo sempre considerato quel gesto simbolo di intimità e, molto spesso, avevo l'impressione che Thomàs mi odiasse. Ma, come avevo già dedotto, era anche l'emblema della contraddizione, per cui, la mia sorpresa non durò molto.
Sollevai le palpebre e lo guardai. Lui abbozzò un sorriso, rassicurante. «Sono con te, d'accordo?» sussurrò. Io mi limitai ad annuire. Strinsi per un attimo la sua mano, solo per un attimo, e mi distaccai, facendo qualche passo in avanti. Presi un respiro profondo, quasi dovessi prepararmi ad un'immersione – in realtà, più o meno, era così, dal momento che affrontare il Creatore equivaleva ad affogare.
Tastai distrattamente il pugnale infilato nei passanti dei jeans, dietro alla mia schiena. Non sapevo nemmeno se avrebbe funzionato contro di lui, ma era meglio non presentarmi lì del tutto disarmata.
«Sebastian» mormorai, con voce flebile. Non ero propriamente sicura che ciò fosse efficace, ma era l'unico mezzo che avevo per contattarlo, andare nell'ultimo luogo dove lo avevo visto.
Poco dopo, nonostante i miei dubbi, lui apparì, a qualche metro da me, vestito di nero e con il capo leggermente piegato di lato. «A quanto pare, hai accettato l'invito» esclamò.
«Sì, l'ho fatto» replicai. Sebastian sorrise apertamente, ma la sua espressione tornò seria quasi immediatamente. Guardò oltre le mie spalle e mi accorsi, allora, che Thomàs mi aveva raggiunto.
«Lui chi è?» domandò Sebastian, con tono brusco. «E' un mio amico» risposi. «Verrà con me».

«L'invito è singolo».

«Beh, credo si possa fare un'eccezione».

«No, non credo».

«Se lui non viene, non vengo nemmeno io».

Sbuffò. «Non sei propriamente credibile nei ricatti, Hazel».

Deglutii rumorosamente. Del resto, dove stavo prendendo tutta quella spavalderia? Ero piuttosto certa che Simon l'avrebbe definita “scarica di adrenalina”.

«Non è un ricatto» dissi, dunque. «E' una condizione. Io incontrerò il Creatore se, e solo se, Thomàs verrà con me».

Sebastian fece una smorfia e mosse qualche passo nella mia direzione, finché non mi fu distante meno di un metro. «Questo lo definisco comunque un ricatto, sorellina» sibilò. «Comunque, posso anche accordarti, ma se lui non è d'accordo, di certo non gli impedirò di ucciderlo».

Serrai la mascella. I suoi occhi erano fissi nei miei e le intermittenze rosse, da quel punto di vista, erano strane e inquietanti. Non dissi nulla. Gli porsi solo una mia mano, aspettando che la afferrasse. Lui abbozzò un sorriso e me la strinse, con forza, tanto da farmi male.
Trattenni un urlo. Thomàs si aggiunse a noi, posando le dita sopra una mia spalla. Ci dissolvemmo nel nulla dopo qualche secondo.
Smaterializzarsi, da umana, fu quasi un trauma. Quando lo avevo fatto con Martha, non mi ero soffermata sulle strane sensazioni che ne derivavano, come il giramento di testa e la vista appannata. 
Dovetti sbattere le palpebre più volte, per tornare a vedere nitidamente, per quanto fosse possibile farlo nell'oscurità. Le uniche luci presenti in quel posto provenivano da delle fiaccole, poste ad almeno dieci metri di distanza le une dalle altre. Ero pressapoco sicura che ci trovassimo in un lungo corridoio di un sotterraneo, considerata l'umidità e l'aria gelida.

«Seguimi» esclamò Sebastian e la sua voce rimbombò tra le mura di pietra. Mi lasciò con nessuna delicatezza la mano e feci fatica a stargli dietro, poiché arduo seguire la sua ombra con quel briciolo di luce. Thomàs rimase sempre dietro di me, con entrambe le mani sulle mie spalle, un po' per riuscire a non perderci, un po' per rassicurarmi con la propria presenza.

Camminammo per parecchio. Alla fine, non sentii più le gambe.

Sbucammo in un grande salone, più luminoso rispetto al labirinto attraverso il quale eravamo appena passati. Era un enorme stanza ovale, con un alto soffitto di pietra. Non c'era nulla lì dentro, eccetto una sedia, ricoperta di velluto rosso, all'esatto centro, non occupata da nessuno.
«Dove siamo?» domandai. Sebastian non mi rispose. Andò avanti nella grossa stanza e i suoi passi riecheggiarono. Proseguì e si fermò solo in prossimità della sedia. Mi tenne le spalle per tutto il tempo. Ero sul punto di esplodere, dato il suo pragmatismo, ma un suono – un colpo di tosse – prevenne un mio successivo intervento.

Mi voltai e, da un'altra entrata, proprio accanto a quella di cui noi avevamo usufruito, nella semi-oscurità, intravidi un uomo... O meglio, un ragazzo.
L'aspetto era giovane, fresco; la pelle pallida e lucente, seppur con poca luce. Gli occhi rossi scintillarono, ma le ombre si fecero da parte, per lasciare spazio a due fari azzurri, chiari come il cristallo. I riccioli biondi incorniciavano i lineamenti rifiniti e proporzionati.

«Lieto che tu abbia accettato l'invito». La sua voce era profonda e riuscì a farmi tremare.

Il Creatore.

Il Creatore era davanti a me, l'opposto di come me l'ero immaginato.

Lo vidi accennare un sorriso e venirmi incontro. Strinsi i pugni lungo i fianchi, tesa, in ansia, e non poteva essere diversamente. «Volevi vedermi» dissi e il mio tono si spezzò prima del previsto.

«Già» replicò. «A volte mi adeguo anche io alle buone maniere. Non che ne abbia bisogno, ma faccio del mio meglio».

Mi fu di fronte, mi squadrò. Era molto più alto di me, mi fissava dall'alto in basso e la sua espressione era indecifrabile. «Ti volevo ringraziare, Hazel» proseguì. «Senza di te, io non sarei qui adesso».
Fui io a sorridere, allora, sarcastica. «Non era propriamente mia intenzione farlo». Mi pizzicai la lingua, dopo tale frase. Tanto valeva mettermi un cartello addosso con su scritto “avanti, uccidimi”.
Tuttavia, il Creatore non ebbe alcuna reazione spropositata. Anzi, tutt'altro: allargò il sorriso, compiaciuto. «No, certo che no» disse. «Perlomeno, non consapevolmente».

«Come?».

Scosse appena la testa e rimase in silenzio. Mi sorpassò e finì per sedersi su quel trono di velluto al centro della stanza. Sebastian restò in piedi, al suo fianco. Lanciai un'occhiata a Thomàs, ma lui non mi stava guardando, troppo intento a osservare ogni minimo movimento degli altri due.

«Lo sai, Hazel, ci sono tante cose che tu e tutti i tuoi fratelli e le tue sorelle non sapete» esclamò il Creatore «ma è giusto, dopo ciò che è successo, che tu venga a conoscenza di certe cose».

Mi fece un cenno, con il capo, invitandomi ad avanzare, nella sua direzione. Ero restia, ma, alla fine, obbedii. Mi fermai a qualche metro da lui, in piedi, stretta nelle spalle.

«Ci sono così tante leggende su di me, ho letteralmente perso il conto. La più gettonata è quella secondo la quale potevo risorgere solo se un umano innamorato di un Divoratore veniva sacrificato». Rise e non seppi perché. «Già, magari fosse stato così semplice. Sarei tornato secoli fa, non credi? No, è tutto più complicato di così. L'amore c'entra, ovvio che c'entri: è una delle poche cose che, di fatto, ammiro degli umani».

«Cos'è diverso?» domandai, a bassa voce.

«Tutto il resto». Fece una breve pausa, appoggiando i gomiti sulle ginocchia. «Vedi, i Divoratori non sono stati sempre così apatici. C'era un tempo in cui provavamo sentimenti nostri, tempi in cui non eravamo solo dei riflessi. Non sarebbe avvenuto ciò che è avvenuto, se fosse stato il contrario».

Guardai Sebastian per un momento: il Creatore sapeva che il suo prediletto aveva idee ben diverse rispetto alle proprie?

Andò avanti: «La vostra Creatrice era un tipo molto suscettibile. Anzi, oserei dire, altamente suscettibile. La parte dell'umana la sai già, arriviamo al dopo. Sono stato chiuso negli Inferi per migliaia di anni e lì il tempo è relativo, davvero. La Creatrice non ha mai posto condizioni per riportarmi alla luce, l'ho fatto io. In realtà, ho sempre avuto poche speranze sul fatto che tutto ciò funzionasse, ma evidentemente mi sbagliavo. Voi lo avete sentito, avete sentito il mio richiamo, voi avete creato la leggenda. Una versione con pochi dettagli, ma pur sempre una leggenda».

Feci una smorfia. Le sue parole mi confondevano, ma non osai interromperlo.

«Un umano può facilmente innamorarsi di un Divoratore e può accadere, forse con meno facilità, anche il contrario. Lo considero normale. Il punto è che solo pochi legami sono destinati ad essere, solo pochi legami hanno il potere. E' stato difficile, ma ho mandato sulla Terra delle chiavi, sotto forma umana, in grado di liberarmi dagli Inferi. Ovviamente, la Creatrice ha cercato di ostacolarmi, sperdendole nel mondo, quasi impossibili da recuperare. Ed ecco perché io ho reso alcuni dei miei figli dei Cercatori». A quella parola, i suoi occhi si illuminarono e il rosso scintillò.
Si alzò in piedi e, smaterializzandosi, mi fu di fronte, a pochi centimetri di distanza, in meno di mezzo secondo. «Tu, mia dolce figlia, sei una Cercatrice».

Trattenni il respiro, mentre lui mi sfiorava una guancia con due dita. «A quanto pare, la migliore in circolazione» disse, ancora.
Non riuscii a sottrarmi al suo tocco, sebbene lo volessi. Forse, ero stata paralizzata dalle sue ultime rivelazioni, che il mio cervello non passò rapidamente a rassegna. Se ci avessi ragionato su, mi sarei accorta di quanto fossero assurde e prive di logica e sconcertanti. Invece, di getto, ritenni vera ogni cosa e, subito, crollai.

«Io non ho fatto nulla» biascicai. «No, certo che no» replicò il Creatore. «E' una cosa naturale, mia cara. Tu cantavi le tue canzoncine e, lentamente, spianavi il terreno al mio ritorno, costringendo l'umano a innamorarsi di te. Non te ne sei nemmeno resa conto».

«Vuoi ringraziarmi per una cosa che non ho avuto intenzione di fare?».

«Te l'ho detto: ci tengo alle buone maniere».

Strinsi i pugni lungo i fianchi. In quel momento, ebbi la sensazione di essere sul punto di perdere me stessa. Ero triste, ma al contempo, arrabbiata; avrei voluto urlare, eppure ero abbastanza certa del fatto che le mie urla sarebbero state silenziose.
Ovviamente, la ragione aveva già smesso di accompagnarmi, altrimenti non avrei fatto quel che accadde.

Bastò poco, vacillavo da parecchio.

Mentre la mano del Creatore accarezzava il mio viso, la mia scorreva dietro, a tastare il manico del pugnale sotto la maglietta. Lo afferrai, con fermezza, e mossi il braccio, velocemente, ma non senza precisione.
Riuscii a colpirlo in viso. Sulla sua guancia si aprì un taglio, profondo, dal quale sgorgò sangue. Mi pentii quasi subito di tale azione, ma ormai era successo e non potevo tornare indietro, anche se lo avrei voluto.

«Immagino che tu le buone maniere non le conosca affatto». Il Creatore sogghignò, toccandosi lievemente il volto con le dita e imbrattandosele di rosso. Accennò un sorriso, soddisfatto e cinico.

«Sono deluso, Hazel. Avevo grandi progetti per te».

Feci un passo indietro, rischiando di inciampare nei miei stessi piedi. Andai subito a sbattere contro Thomàs, che arrestò il mio cammino. Mi girai solo per un attimo, per incrociare il suo sguardo di rimprovero, perché... Beh, perché non avrei dovuto fare quel che avevo fatto, lo sapevo bene.

«Ma ora mi hai sbarrato la strada e a me non piace quando succede» continuò.

La sua voce riuscì a raggelarmi, così come aveva fatto non appena apparso. Lo vidi sorridere ancora e poi sollevare un braccio. Schioccò le dita e, non appena lo fece, la stanza si riempì di Divoratori, tutti vestiti di nero, tutti seri, impassibili, con gli occhi rossi e fissi.

«Prendeteli» disse, ancora. I Divoratori non esitarono. Si scagliarono subito addosso a noi; ma nemmeno io rimasi troppo ferma ad aspettare.

«Corri» esclamai e scappai via, non controllando nemmeno se Thomàs mi stesse seguendo. Tanto lo avrebbe fatto o, comunque, si sarebbe difeso, in qualche modo. Era un Cacciatore, no?

Scossi la testa, mentre mi aggiravo in quei sotterranei umidi e freddi. Sentivo i passi pesanti di coloro che una volta erano miei compagni proprio dietro di me e, con loro, quelli di Thomàs, che mi afferrò per un braccio e cominciammo a correre insieme.
Alcuni Divoratori si materializzarono proprio davanti a noi. Ebbi successo a ferirli col pugnale, mentre Thomàs puntava più sulla forza fisica.
Nessuno di noi due conosceva quel posto. Non sapevamo dove fosse l'uscita, ma il mio istinto mi guidava verso l'alto, sebbene avremmo potuto essere anche a chilometri di profondità.
Prendevo a caso nuove strade, nuovi vicoli che, per mia fortuna, non furono mai ciechi. Anzi, tutto l'opposto. Uno di questi, ci condusse ad uno strapiombo. L'aria gelida si abbatté sul mio viso, mentre, sotto di noi, l'acqua dell'oceano si infrangeva sugli scogli.

«Dobbiamo saltare» urlai. Thomàs strabuzzò gli occhi. «Sei pazza? E' andare incontro a morte certa!» si lamentò.

Sì, lo era. Era un suicidio, ma, in fondo, preferivo morire su quelle rocce, che per mano del Creatore. Così, nemmeno quella volta pensai. Mollai il braccio di Thomàs e saltai, nell'acqua gelata.

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Capitolo 9
*** To begin and to end ***


Capitolo 9
"To begin and to end"



Cadere nell'acqua gelida è come essere infilzati da mille aghi, sparsi in tutto il corpo. Il respiro si blocca e, con esso, sembra farlo anche il cuore. Non c'è modo peggiore di morire. Davvero, non c'è.

Le onde mi sbattevano da una parte all'altra. Riuscivo a malapena a stare a galla. Urtai più volte le rocce attorno a me. Trattenni il respiro, quando l'acqua mi sommerse. Tenere gli occhi aperti lì sotto fu difficile, tanto che fu persino inutile tentare di combattere, sebbene volessi farlo.
Sarei annegata, in breve tempo, se Thomàs non mi avesse afferrato. Sì, lo vidi: era saltato anche lui e, in quel momento, mi stava salvando la vita.
Annaspando, cominciai a muovere rapidamente le gambe. Mi sforzai di resistere all'acqua, aggrappandomi alle spalle di Thomàs e, insieme, riuscimmo nell'impresa di raggiungere la terra ferma. Con mia sorpresa, mi accorsi che la dimora del Creatore si ergeva su un'isola composta e circondata da enormi massi e scogli puntigliosi. Intorno ad essa, si trovavano altre macchie di terra – prevalentemente sabbia. Su una di esse, c'eravamo noi.
Nessun Divoratore ci aveva seguito. Non mi spiegai il motivo, per loro l'acqua non era un problema, ma fui lieta del fatto che non ci fossero più addosso.
Cercai di rimettermi in piedi, combattendo contro la sabbia bagnata e il peso dei vestiti che, nel frattempo, mi si erano appiccicati addosso. Thomàs aveva preferito trascinarsi sulle ginocchia fino alla parte asciutta dell'isola. Lo vidi a carponi, fermo, mentre riprendeva fiato, a qualche metro da me. Mi morsi piano il labbro inferiore e lo raggiunsi. «Stai bene?» chiesi, anche se quella domanda sembrava così da idioti, fatta a qualcuno che era appena saltato nell'acqua gelida da venti metri d'altezza.
Lui non rispose. Tossì – il che parve finto – e si alzò, barcollando. Allargò le braccia, sarcastico. «Oh, sì, va tutto meravigliosamente bene, Hazel!» gridò.

«Perché stai urlando?» replicai e, non consapevolmente, usai il suo stesso tono elevato.

«Perché?!» ripeté. «Perché se sei di fronte a qualcuno che può ucciderti solo schioccando le dita, tu NON lo attacchi con un pugnale!».

«Io ho dovuto!».

Ci stavamo, letteralmente, urlando addosso.

«NO! No, tu non dovevi, Hazel! Lo hai attaccato e chissà cosa potrebbe fare ora!».

«Io avevo bisogno che la smettesse di parlare, perché ha reso privo di senso tutto ciò in cui ho sempre creduto!». Trattenni un singhiozzo, ma ormai stavo piangendo. Strizzai gli occhi e strinsi i pugni, lungo i fianchi. «Era tutto falso. Quello che ho passato con Simon era falso, perché lui non c'è mai stato. Era solamente... Schiavo di qualcosa che io non sapevo di controllare e... E non ce la facevo più. Io non riuscivo a starlo ad ascoltare». Portai, istintivamente, le mani al petto. Era quasi certo che avrei avuto un altro attacco di panico e mi sforzai di respirare a fondo e in modo regolare, proprio come Thomàs mi aveva suggerito la prima volta.

«Come lo accetti?» mormorai. «Non puoi... Non posso solo accettarlo, io non posso...».

Thomàs sospirò e io smisi di parlare. Mi abbracciò, stringendomi a sé, proprio come avrebbe fatto con una bambina con le ginocchia sbucciate. Quelle, però, sarebbero guarite; il mio cuore a pezzi e calpestato, no.
Mi lasciai completamente andare al pianto. Le lacrime mi riempirono il viso, che affondai nel petto di Thomàs. Avrei voluto sparire, avrei voluto annullarmi. Avrei voluto che tutto si annullasse.
Lui non disse nulla per consolarmi; nemmeno ci sarebbe riuscito. Rimase semplicemente in silenzio e mi diede la possibilità di sfogarmi, per quanto mi era concesso.
Mi distaccai solo quando sentii che le mie lacrime si erano esaurite. I miei occhi si erano gonfiati e avevo mal di testa. «Cosa facciamo adesso?» domandai, quasi non volessi sul serio una risposta.
Thomàs si morse piano il labbro inferiore. «Torniamo in città e...» sussurrò. Scosse appena la testa, passandosi una mano tra i capelli. In realtà, non sapeva cosa fare, proprio come me. «Casa di Martha non è più un luogo sicuro, evidentemente» aggiunse, poco dopo. «Dovremmo spostarci».

«Il Creatore potrebbe trovarci anche nell'angolo più remoto degli Inferi».

«Mhm, non se siamo bravi a nasconderci».

Abbozzai una risata, priva d'entusiasmo, e non aggiunsi nulla.


***


Abbandonare un luogo, per me, era sempre stato difficile, sebbene, dopo un'esistenza passata da nomade, avrei dovuto farci l'abitudine.
Invece no; ogni volta era arduo, ma mi convincevo del fatto che andasse fatto per la mia sopravvivenza e, in tal caso, delle persone a cui volevo bene.
La nostra nuova casa era una villa in piena campagna, in Florida, isolata, praticamente, da tutto e tutti, il che non mi dispiaceva affatto. Dovevamo nasconderci e quello sembrava proprio essere il luogo ideale per farlo.
L'arredamento rustico, con tanto di camino nel salotto, dava un'idea di pace e benessere. Ero lieta del fatto che l'ambiente attorno a me fosse così; serviva a lenire il devasto che si celava dentro di me.
Lo spazio a nostra disposizione era raddoppiato ed era dire tanto, considerato il fatto che l'attico di Martha era già enorme. Mi chiesi come avesse fatto a rimediare un rifugio – così lo aveva chiamato – in tempi relativamente brevi, ma lei, non sapevo in che modo, riusciva sempre a trovare una soluzione e mai impiegandoci troppo.

 

Era notte fonda e io sedevo a terra, davanti al camino acceso. Guardare il fuoco scoppiettare fu ipnotico e, seppur per poco, servì a distrarmi dai cattivi pensieri.
La casa era immersa nel silenzio; sia Simon che Thomàs dormivano e, probabilmente, avrei dovuto farlo anche io. Il mio problema erano gli incubi: mi assalivano non appena chiudevo gli occhi e riuscivano sempre a smorzarmi il respiro.

«Problemi d'insonnia?».

Mi bastò girare di poco il capo per vedere lo sguardo vispo di Martha, già seduta al mio fianco, senza che io me ne fossi, prima, resa conto.

«Già» replicai, distrattamente.

«Potrei prepararti una tisana».

«Non credo servirebbe».

La sentii sospirare. «Lo credo anche io» sussurrò. «Vorrei poterti essere più d'aiuto, ma al momento, più di una tisana non posso offrirti».

«Tu stai facendo tantissimo, Martha, sul serio».

Sorrise appena, ma fui abbastanza certa che lo fece solo per rassicurarmi. Lei era la mia ancora, dopo tutto.

«Da quando il Creatore ti ha detto quelle cose, stai...» disse Martha, dopo qualche secondo. «Mi sembra che tu stia evitando Simon».

Ovviamente se ne era accorta. Era difficile nasconderle qualcosa. «Lo sto facendo» ammisi, rivolgendo una rapida occhiata al fuoco davanti a noi.

«Perché?» mi chiese, allora.

Sforzai un sorriso e il mio fu solo di circostanza. «Lo sai perché. Lui non... Non ha mai provato niente e non proverà mai niente per me e... Dato che lui, invece, per me significa tutto, fa... Fa male stargli vicino».

«Questo è un ragionamento assurdo».

«Non lo è».

«Sì, lo è. Ascolta, non cambia niente, rispetto a prima. La memoria di Simon è pressoché inesistente. Non ricorda nulla della sua vita passata, nulla di ciò che accaduto. Perché stai scegliendo di lasciarlo andare, senza nemmeno provarci?».

«Non so nemmeno cosa dovrei tentare».

«Di farlo innamorare, Hazel. Fallo innamorare di te».

Scossi appena la testa, perplessa. «E come si fa?».

«L'amore è in te. Tu sei così umanamente pura e lo eri anche quando la tua natura non era umana. Daresti la tua vita per lui e credo che Simon questo dovrebbe saperlo».

«Non so se basta».

«Basterà».

Martha si mise in ginocchio e con le dita mi sfiorò le guance, portandomi poi delle ciocche di capelli dietro alle orecchie. «In tutti questi secoli con gli umani, una cosa l'ho capita: non hanno mai una seconda possibilità» mormorò. «Sarebbe da pazzi se tu ne rifiutassi una così grande».

Mi sforzai di sorridere, quella volta in maniera più sincera. Martha, allora, allargò le braccia e mi permise di rifugiarmi tra di esse, come avrebbe fatto una bambina. In realtà, non ero così certa del fatto che avesse ragione. Sebbene mi sforzassi di crederci, la mia mente mi ostacolava in ogni modo, dicendomi che avevo cosa più importanti a cui pensare, per esempio la mia sopravvivenza, dato che avevo sfidato il Creatore nel momento esatto in cui l'avevo ferito con quel pugnale.
Eppure, un'altra parte dentro la mia testa, anche se più debole, mi spingeva a provarci, perché tanto ciò che avrei potuto perdere, l'avevo già perso, e così era facile.


La notte passò in quel modo. Tra le braccia di Martha, riuscii ad addormentarmi e quel briciolo di sonno fu rigenerativo. Quando aprii gli occhi, la mattina, tutto aveva l'aria di essere diverso. Non che effettivamente lo fosse – ci voleva ben altro per risolvere ogni minimo problema – ma, nonostante ciò, mi concessi il lusso di essere positiva e di buon umore.

Perlomeno, mi sforzai di farlo, mi sforzai di provarci, anche se sarebbe stata tutta un'illusione.

Simon me lo aveva detto, una volta, che gli umani tendono ad illudersi, ad immaginare ciò che non può avvenire, con il solo intento di stare bene. E io avevo estremo bisogno di stare bene.

Il sole era sorto già da parecchio, quando mi intrufolai nella camera di Simon, quella volta senza perdermi in troppi dubbi e alternative alquanto sciocche. Lui dormiva ancora e la luce filtrava lieve tra le tende di velluto verde.
Sorrisi appena, vedendolo così rilassato, tra le lenzuola candide che si intonavano al pallore della sua pelle. Salii sul materasso, tenendo in mano il muffin al cioccolato che ero appositamente andata a comprare dall'unica tavola calda nei paraggi, che in realtà distava trenta minuti a piedi, a passo svelto.
Restai ferma, per un po', prima di sporgermi nella sua direzione e poggiare delicatamente le labbra su una sua guancia. Avrei voluto osare di più, ma era meglio tenere sotto controllo la mia illusione. Lui non si svegliò subito. Passò qualche minuto prima che aprisse gli occhi e si accorgesse della mia presenza. «Ehi» sussurrò, con voce impastata, passandosi una mano sul viso.

«Ehi» replicai, con lo stesso tono. «Ti ho portato un muffin».

Abbozzò un sorriso. «Non ho avuto cali di zuccheri».

«Lo so, ma una persona, una volta, mi ha detto che aiuta ad evitarli».

Lo feci ridere. «Persona molto intelligente».
Prese delicatamente il muffin dalla mia mano e gli diede un morso, sorridendomi poi. Sembrava sereno: l'innocenza e l'ingenuità che lo avvolgevano lo rendevano tale. A volte, avrei voluto dimenticare tutto anche io. Tutto, tranne lui, questo era certo.

«Ti va di...» balbettai. «Insomma, di... Uscire un po', oggi?».

Simon alzò un sopracciglio, ancora masticando. «Per andare?».

«Fuori. Non molto distante, ma... Possiamo divertirci anche stando nei paraggi e poi potresti... Prendere un po' di sole».

«Sono così pallido?».

«No, sei perfetto». Mi pizzicai appena il labbro inferiore con i denti e lui arrossì. Proprio come prima della sua perdita di memoria, Simon non andava d'accordo con i complimenti.
Mi alzai lentamente dal letto, portandomi una ciocca di capelli dietro ad un orecchio. «Vestiti, ragazzo carino» dissi. «Ti aspetto di sotto». Mi congedai con quella frase e mi sembrò di essere tornata indietro col tempo, quando tutto andava bene; ammesso che nella nostra storia ci fosse stato un momento in cui tutto era a posto.
Scesi in salotto e aspettai che lui fosse pronto, da sola. Martha e Thomàs non c'erano. Probabilmente, erano andati a recuperare cibo e altre necessità dall'altra parte del mondo – letteralmente. Quando Simon mi raggiunse, gli sorrisi e lo invitai ad uscire. Non avevo esattamente un piano per la giornata. Martha mi aveva suggerito di farlo ri-innamorare di me, ma, come avevo detto, non avevo la benché minima idea di come si facesse.

Passare il più tempo possibile con lui mi parve un buon inizio, anche senza fare molto; stare seduti sull'erba, camminare tra gli alberi, ridere, scherzare. Era quello che una normale coppia di adolescenti avrebbe fatto.
Alla fine, quando il sole stava per calare, ci ritrovammo sul tetto della casa, sdraiati l'uno accanto all'altra, a fissare le nuvole tinte d'arancio che di lì a poco avrebbero lasciato spazio alle stelle.

«Ho paura» sussurrò Simon, ad un tratto e, per un attimo, pensai fosse a causa dell'altezza. «Di cosa?» chiesi, allora, voltata col capo verso di lui, che intanto fissava il cielo.

«Di questo» mormorò. «Di me, del fatto che non ricordo nulla. Hanno detto che col tempo avrei recuperato la memoria, ma a me sembra di ricordare sempre meno».

«Non dipende da te, Simon».

«Lo so. E' che è ingiusto. Insomma, io non ricordo nemmeno i volti dei miei genitori o com'era essere un bambino. Non so quand'è il mio compleanno o dove sono nato. A volte mi sembra persino di non esistere».

«Tu sei Simon Clarke» esclamai, lasciando perdere parole consolatorie che non sarebbero servite a nulla. Non era ciò che voleva. Lui si voltò lentamente alla mia frase e io andai avanti: «Il tuo compleanno è il 19 dicembre. Compirai diciassette anni. Sei nato a Mansfield, nel Missouri, e ti sei trasferito a Chicago quasi un anno fa. Non hai mai avuto una vita facile, ma te la sei sempre cavata, anche quando tutto era sul punto di crollare. Non sono sicura di volere che ricordi le brutte cose che ti sono capitate. Da un lato, sono contenta che siano state rimosse dalla tua testa. Per quanto riguarda le cose belle, come i tuoi genitori, io, purtroppo non posso ridartele, però posso aiutarti a costruire altri ricordi felici e spero che, almeno per un po', ti possano bastare».

Simon assunse un'espressione indecifrabile per qualche secondo e sperai non desse di matto in quel momento per ciò che gli avevo detto. Non lo fece, anzi, accadde l'opposto: mi sorrise genuinamente, socchiudendo gli occhi. «Grazie» sussurrò.

«Non c'è di che» replicai e tornai a fissare le nuvole.

Forse non sarebbe stato così difficile farlo innamorare. O forse, il mio amore sarebbe bastato per entrambi. Mi piacque vederla così, almeno in quel momento, sotto le stelle che, timide, iniziarono a riempire il cielo.

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Capitolo 10
*** My memories are screaming. ***


Capitolo 10
"My memories are screaming"



Le luci di Chicago brillavano davanti a me. Dal tetto di quel grattacielo, sembrava tutto così piccolo. Forse perché, in fondo, gli uomini lo erano davvero. Piccoli, eppure capaci di grandi cose.

«Il ragazzino ha scoperto tutto, allora». La voce di Sebastian, alle mie spalle, mi fece sussultare, ma non mi girai e continuai a fissare la città davanti a me. «Vattene» sentenziai, con tono fermo. «Gentile invito, però rifiuto l'offerta». Lo sentii abbozzare una risata e, poco dopo, mi fu di fianco, in piedi sul cornicione. «Glielo avresti dovuto dire, prima o poi».
Non risposi; sbuffai solamente. «Peccato, vero? Questa volta era davvero carino» aggiunse.

«Sta' zitto».

«Sorellina, sto solo cercando di darti una mano».

«Stai solo cercando di rovinarmi l'esistenza, da secoli ormai. Lo fai ogni volta. Ogni volta che trovo qualcuno, tu distruggi tutto».

Sebastian serrò la mascella. «Se tu la smettessi di sentire la necessità di aver accanto un insulso umano per sentirti completa, forse non dovrei intervenire ogni volta».

Roteai gli occhi e solo allora mi girai nella sua direzione, per incontrare la sua espressione dura. «Intervenire» ripetei, sarcastica. «Nessuno te lo ha mai chiesto, Sebastian».
Lui si morse appena il labbro inferiore. «Cosa non ti andava bene prima, Hazel?» sussurrò. «Quando eravamo io e te, sempre e per sempre».

«A me? A me niente. Sei tu quello che se n'è andato e adesso mi perseguiti».

«Ti ho chiesto di venire con me».

«E io di scegliere tra me e loro. Sai com'è finita».

Sebastian si irrigidì e strinse i pugni lungo i fianchi. «Dovresti accettare la tua natura, sorellina. Non puoi cambiarla».

«No, certo che no, ma posso non essere un mostro».

«Non siamo mostri. Facciamo solo ciò che occorre alla nostra sopravvivenza».

«Oh, ma per favore. Molte delle vostre vittime conservano l'anima, non vi nutrite di tutte. Uccidete per il gusto di farlo».

«Non atteggiarti da santa. Tu non hai un secondo fine in ciò che fai?».

«Sai che non c'è».

«Ah, no? Quindi tu non hai alcun interesse nel compiere il Sacrificio».

«Nessuno. Sebastian, che tu ci creda o no, voglio provare qualcosa di vero e mio per qualcuno, senza che ciò coinvolga il soprannaturale e tutta questa pazzia».

Abbozzò un sorriso, ironico. «Certo».

Io roteai gli occhi. «Forse ti dà fastidio il fatto che con te non potrà mai funzionare. Tu non riusciresti a smuovere neppure il più docile animo umano».

Quella mia frase lo fece scattare, probabilmente a causa dell'acidità con cui la pronunciai. Mi afferrò per il collo e, con violenza, mi lanciò sul tetto, facendomi capitolare addosso alla porta di ferro delle scale del palazzo. Mi venne da ridere, mentre mi rialzavo lentamente. «Oh, tu guarda. Ti ho fatto arrabbiare. Sai che anche questo è un sentimento, vero?».

«Sta' zitta» sbraitò lui. Si smaterializzò nell'aria e mi riapparve davanti, con quell'espressione dura e odiabile ancora stampata in volto.

«Cosa c'è? Ti ho ferito?». Finsi un broncio, solo per prenderlo in giro.

Sebastian sbuffò. «Spero tu abbia detto addio al tuo ragazzo carino».

Aggrottai le sopracciglia a quella sua affermazione. Lui sorrise, soddisfatto e, poco dopo, lo vidi correre verso il cornicione e saltare nel vuoto.

 

***


Colpivo con forza il sacco nero da boxe, immaginandoci la faccia di Sebastian sopra o quella del Creatore, era lo stesso.
Nella cantina della nuova casa, da accordo con Martha, avevo allestito una specie di palestra, per allenarmi. Gli attrezzi non erano molti: qualche peso e, per l'appunto, il sacco da boxe, ma potevo farmelo bastare.
Non avevo mai fatto ginnastica, prima di allora, e mantenere in forma un corpo umano era più difficile del previsto. I miei muscoli erano pressoché inesistenti e, in tale condizione, sarei stata estremamente facile da battere in uno scontro fisico. Dovevo stare attenta persino a quel che mangiavo, a quanti litri d'acqua bevevo, a... A tutto, praticamente. Ancora mi chiedevo come non scoppiasse a tutti la testa.
Troppe cose a cui pensare e a cui prestare attenzione. Da Divoratrice, tutto era più semplice e qualcosa, addirittura, superfluo.

«Cosa ti ha fatto di male quel povero sacco?». La voce di Thomàs rimbombò nella cantina. Diedi l'ultimo pugno al mio finto nemico e, voltandomi, lo vidi sulla soglia della porta, con in mano una tazza di ceramica verde. Una parte di me cominciava a pensare che quella tazza facesse parte del suo braccio.
«Lui niente» replicai, posando le dita sui fianchi e cercando di riprendere fiato. «Ma ci sono molte persone là fuori che vorrei seriamente prendere a calci».

«Già, lo immagino». Thomàs compì qualche passo nella stanza e mi fu più vicino.

«Non ti ho ancora ringraziato» esclamai, allora.

«Per cosa?».

«Beh, sei saltato da venti metri nell'acqua gelida, solo per seguirmi. Non tutti lo avrebbero fatto».

«Non ci tenevo a finire nelle grinfie di quei Divoratori».

Sforzai un sorriso: cercare di avere un discorso serio con lui – a meno che non fosse proprio lui ad iniziarlo – era pressoché impossibile, soprattutto in quei ultimi giorni. «Avanti, sai che intendo».

«Sì, che dovrei smetterla di seguirti in missioni suicide. Questa è già la seconda, lo sai?». Abbozzò una risata dopo l'ultima frase e fece ridere anche me.

«Non ne ho in programma altre, lo giuro» dissi, allora.

«Ah, no? E perché ti stai allenando?».

«Perché sono fragile quanto una bambola di porcellana. Letteralmente. La mia forza si è del tutto dispersa da quando sono umana. Voglio essere in grado di difendermi da sola, se accadrà qualcosa di brutto».

«Sicuramente hai avuto la meglio su quel sacco». Senza distogliere lo sguardo da me, Thomàs allungò la mano, a riporre la tazza sulla panca di legno proprio accanto a noi, unico elemento di mobilio nella stanza. «Vediamo come te la cavi con un vero avversario».

«E chi sarebbe?» domandai, accigliata.

«Io».

«Tu?».

«Sì. Anche se mi ingozzo di cereali e cioccolato fondente, non vuol dire che non so combattere. Sono un Cacciatore, ricordi?».

Già, era un Cacciatore, sebbene avessi pensato, più di una volta, al cambio di colore dei suoi occhi. Non volevo fargli pressione, perché, in tal modo, non me ne avrebbe mai parlato. Avevo deciso di aspettare, finché non fosse stato lui a rivelarmi la verità, se mai avesse voluto dirmela.
Thomàs si era già messo in posizione di combattimento, piegando le braccia e portandosele parzialmente davanti al viso. Iniziò a spostare il peso del corpo da un piede all'altro, con enfasi, fin troppa, dato che mi venne da ridere.

«D'accordo» esordii. «Proviamoci».

In un primo momento, pensai stesse scherzando sul fatto di allenarmi con lui, ma quando iniziò a sferrare colpi che non riuscii ad evitare, rimediando un labbro spaccato, capii che stava facendo sul serio.
Mi asciugai distrattamente il sangue sul mento, con il dorso della mano, e mentre Thomàs rideva soddisfatto, fui io ad attaccare: prima lo distrassi, fingendo un calcio nello stomaco e, con un movimento rapido del braccio, ebbi successo a colpirlo sullo zigomo destro. Lui non si arrese nemmeno per un secondo e reagì. Evitai due suoi colpi mirati alla mia faccia e uno alle gambe, saltando. Quell'ultimo gesto, tuttavia, fu causa di ciò che accadde dopo. Thomàs mi afferrò per un braccio e lo bloccò dietro alla mia schiena, che aderì al suo petto. Il suo di braccio, invece, finì attorno al mio collo e, allora, non potei più muovermi.

«Te l'avevo detto che sono bravo» mi sussurrò all'orecchio e riuscii chiaramente a percepire il suo fiato sulla mia pelle.

Rimasi immobile per un attimo, pensando che davvero non ci fosse modo di liberarmi. In realtà, però, c'era, e sorrisi. Feci leva sul peso del mio corpo, riuscii a ribaltare la situazione e non fui più oppressa dalla sua presa. Anzi, tutt'altro: Thomàs sbatté con la schiena sul pavimento di cemento e io a cavalcioni di lui, tenendolo fermo per i polsi. «Non sottovalutarmi, Cacciatore» dissi, con ironia.
Soddisfatta, mi rialzai in piedi. Lui rimase per qualche secondo disteso a terra, prima di imitarmi.

«Siamo pari» esclamò, riprendendo in mano la sua tazza di tè. «Oh, non direi» replicai. «Ti ho stracciato».

Ridacchiai. Era strano a dirsi, ma l'aver picchiato – in un certo senso – Thomàs, mi giovò molto di più dello scaricare la tensione su un sacco da boxe.

«Posso chiederti una cosa?» disse ad un tratto lui. Io annuii e basta.

«Tra te e Sebastian è sempre stato così?».

«Così come?».

«Beh, intendo, tra te e lui non è mai...».

Roteai gli occhi, mentre un senso di disgusto mi avvolse. «Ti prego, è mio fratello».

«Oh, lo so, ma considerata la sua innata ossessione nei tuoi confronti...».

«Non c'è mai stato nulla. E poi...». Interruppi per un attimo la frase e sospirai. «Sebastian è l'essere più apatico e spietato che esista su questo pianeta». Pronunciai quelle parole mordendomi il labbro inferiore e gravando sul taglio che mi ero appena procurata.. In fondo, tuttavia, sapevo che Sebastian non era sempre stato un mostro, lo era diventato.

«Di sicuro tiene a te, però. In un modo terrificante e contorto, ma lo fa».

«Ha tentato di uccidermi almeno tre volte solo negli ultimi mesi».

«Però non è mai andato fino in fondo o sbaglio?».

«Per caso lo stai difendendo?».

«No, non mi permetterei mai. Sto solo cercando di capire».

«Capire che cosa?».

«La natura dei Divoratori».

«Perché ti interessa?».

«Sono solo curioso. Sai, ho incontrato tanti Divoratori, diversi tra loro, ma tutti d'accordo sul fatto che gli esseri umani fossero complicati. Io non penso che gli esseri umani siano complicati, tutt'altro. Siamo molte cose, ma non complicati. Ma voi, quel che tu una volta eri... Voi siete complicati. Dite di essere senza sentimenti, però provate lo stesso qualcosa, avete degli affetti tra di voi e mi chiedo come sia possibile».

Lo ascoltai in silenzio, senza interromperlo. La sue domande erano legittime, dopo tutto. «Abbiamo un diverso concetto dell'amore e degli affetti» dissi, dunque. «Quello tra Divoratori è considerato più un rapporto di lealtà e fedeltà reciproca, ma anche questo è un fattore variabile. Per gente come Sebastian, avere contatti con gli umani significa non essere leali. Altri, invece, la vedono come una cosa del tutto normale».

«Quindi ti considera una traditrice».

«Qualcosa del genere».

«E vuole fartela pagare».

«Già. Il problema è che la vendetta, per gli umani, ad un certo punto cessa. La mia è sempre stata un'eterna tortura». Sospirai sommessamente. Dirlo ad alta voce dava un diverso senso a tutto, per prima cosa alla mia esistenza.
Sebastian si stava davvero vendicando da sempre, senza mai ammetterlo, mascherandosi con il fatto che lo stesse facendo per il mio bene. Ma non era così. Come poteva essere così?
Thomàs, per mia fortuna, non aggiunse né chiese nient'altro e fui grata per ciò. Sicuramente non avrei retto un secondo di più all'interno di quel discorso, perché avrebbe solo aumentato a dismisura la malinconia che mi opprimeva, senza che potessi fare nulla per scacciarla.
 

***

Quel giorno pioveva. Chiusa in quella cantina, non me ne ero quasi resa conto, finché lo stimolo della fame non mi spinse in cucina, per racimolare qualcosa da mangiare. La casa era silenziosa, come sempre, del resto. Thomàs mi aveva lasciato finire il mio allenamento in tranquillità e mi aspettavo di trovarlo lì, con una ciotola di cereali tra le mani, ma non c'era. Dando una rapida occhiata in giro, non c'era nemmeno Martha. Optai per una loro uscita. Ultimamente ne facevano molte, insieme.
Recuperai dal frigorifero un sandwich al formaggio che avevo preparato per pranzo, saltandolo poi. Ebbi il tempo di dargli un solo morso, tuttavia, che un rumore proveniente dal piano di sopra catturò la mia attenzione.
Mollai il panino sopra il tavolo, distrattamente, e mi precipitai su per le scale, tutto ad un tratto allarmata, perché quando né Thomàs né Martha erano in casa, mi sentivo più vulnerabile del solito.
Il rumore proveniva dalla camera che aveva occupato Simon. Mi avvicinai lentamente ad essa, fermandomi davanti alla porta socchiusa. Attraverso quella piccola fessura, lo vidi lì, circondato da teli di nylon e barattoli di vernice. Uno di quest'ultimi si era rovinosamente rovesciato a terra e uno strato celeste si stava propagando su uno dei teli. Della tracce della stessa vernice e altra, bianca, erano anche quella sua faccia e sui suoi vestiti.
Sorrisi, per un attimo. Avevo sempre trovato adorabile la sua goffaggine e quella era un'altra cosa che non era scomparsa.
In quei ultimi giorni, avevo trascorso molto tempo con lui, un po' per mandare avanti il fantomatico piano per farlo re-innamorare di me, un po' perché trascorrere momenti in sua compagnia era ciò che mi donava attimi di vera e pura felicità, anche senza fare nulla di eclatante.

Aprii lentamente la porta, dopo aver passato qualche secondo ad osservarlo. Lui si accorse subito della mia presenza e si affannò a sistemare il danno che aveva combinato. «Che stai facendo?» domandai.
Simon cercò ancora, disperatamente, di mettere tutto in ordine, ma poco dopo, lasciò perdere, allargando le braccia. «Martha mi ha detto che potevo personalizzare questo posto» disse. «Cercavo di far entrare il cielo qui dentro».
Mi guardai attorno. Sulla parete opposta a dove ci trovavamo, su una distesa azzurra spuntavano leggeri soffi bianchi, come se fossero nuvole. Era fatto bene e pensai che davvero fosse riuscito a rinchiudere il cielo in quella stanza. «L'hai fatto tu?» chiesi ancora, indicando con lo sguardo quella che era, per me, un'opera d'arte.

«Sì» rispose. «Ci ho provato».

«E' bellissimo».

«Tu credi?».

Annuii, muovendo qualche passo avanti, nella sua direzione.

«Dipingevo, prima?». Fu lui a porre una domanda.

«Non che io sappia. Forse era un tuo piccolo segreto».

Simon abbassò lo sguardo. I miei pensieri erano ripetitivi, ogni volta che lo guardavo, e ne ero perfettamente consapevole; non riuscivo a fare a meno di ritenerlo bello, dolce e ingenuo.

«Perché non mi insegni?» esclamai. I suoi occhi guizzarono su di me e mi parve di vederli scintillare, più azzurri del solito. «Non so se ne sono capace» sussurrò.
Non replicai. Mi limitai ad afferrare un pennello e a girargli attorno, così da ritrovarmi di fronte alla parete ancora immacolata. Simon esitò qualche secondo, prima di muoversi. Lo percepii alle mie spalle, mentre lentamente le sue dita sfioravano il mio braccio, che piano si sollevava. La sua mano si chiuse sulla mia, quella che impugnava il pennello e, delicatamente, picchiettò sul muro bianco, iniziando a riempirlo di chiazze celesti, di diversa intensità.
Ma mi bastò poco per perdere di vista la pittura, perché sentivo il petto di Simon attaccato alla mia schiena e il mio cuore che aumentava i battiti, insieme al suo, e l'altra sua mano che si era posata sul mio fianco sinistro e che non potei fare a meno di sfiorare con le mie dita.

Perché furono attimi in cui mi parve che il tempo si fosse fermato.

Perché averlo così vicino era ciò che desideravo in ogni minuto del giorno.

Lui stava sussurrando qualcosa di a malapena percettibile al mio orecchio. Io mi voltai lentamente, incrociando i suoi occhi, due diamanti che non poterono fare a meno di ipnotizzarmi, come sempre. Le punte dei nostri nasi si sfiorarono e io lo avrei baciato, di lì a poco.
Stavo morendo dalla voglia di baciarlo, anche a costo di confonderlo; avrei trovato un modo per rimediare.

Purtroppo, però, non riuscii a farlo. Un urlo mi precedette, proveniente dal piano inferiore.

E non era un urlo qualsiasi.

Quella era la voce di Thomàs.

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Capitolo 11
*** This anger is gonna consume you. ***


Capitolo 11
"This anger is gonna consume you"



Per un attimo, mi auto-convinsi di aver immaginato quell'urlo, che il mio inconscio mi avesse ingannato in modo da prevenire qualcosa che mi avrebbe ostacolato in ciò che tentavo di ricostruire con Simon.
Purtroppo per me, non era così. Era tutto terribilmente vero e l'espressione di ansia e panico che proprio Simon assunse, me ne diede conferma.
Non seppi che fare. Non ero a conoscenza della ragione per cui Thomàs stesse urlando. Se qualcuno ci avesse trovati e lo stesse attaccando, io, in quelle condizioni, avrei potuto fare davvero poco per aiutarlo, nonostante i miei allenamenti.
Una parte di me mi suggeriva di fuggire da quella casa, lontano dall'eventuale pericolo che si trovava al piano inferiore, ma un'altra parte nella mia testa non era d'accordo.
“E' saltato da venti metri, rischiando di rompersi l'osso del collo per te, razza di idiota” mi rimproverava tale parte. Strizzai gli occhi e, in quel momento, all'urlo di Thomàs si aggiunse un'altra voce, ancor più riconoscibile: Martha gridava, implorava qualcuno di fermarsi, di smetterla.

Abbandonare entrambi non era nemmeno un'opzione.

«Non muoverti da qui» dissi, prendendo tra le mani il viso di Simon, che intanto era spaventato e perso, come un bambino. «Qualsiasi cosa succeda, resta qui, finché non torno. Intesi?».

«Hazel...» biascicò.

«Intesi?» ripetei. Lui annuì e basta. Mi distaccai lentamente e tenni gli occhi fissi sul suo volto finché non fui fuori dalla stanza e dovetti chiudere la porta.

Percepivo il mio cuore battere più forte di quanto avesse mai fatto. Avevo ben presente la sensazione avvertita in caso di terrore: tremavo tutta, avevo freddo e non avevo la benché minima idea di ciò che avrei fatto. Le urla, incessanti, amplificavano ogni cosa.
Scesi lentamente le scale. Avrei voluto essere più veloce, ma le gambe mi pesavano, come se qualcuno si fosse aggrappato a me, impedendomi di proseguire.

Quando, alla fine, riuscii a giungere nel grande salone, ciò che mi si presentò davanti fu addirittura peggio di quello che, fino ad allora, avevo solo lontanamente immaginato.
Nessuno ci aveva trovato, nessuno ci aveva attaccato, ma Martha era accovacciata a terra, in un angolo della stanza, indifesa e impaurita, come mai l'avevo vista. E dall'altra parte, poco distante da lei... Poco distante da lei, c'era Thomàs, che urlava e ringhiava, con un'espressione irriconoscibile stampata in volto, i denti digrignati e gli occhi azzurri, color ghiaccio, che scintillavano; gli stessi occhi che avevo visto chiaramente quel giorno, a confronto con Tamara.
Avevo ancora paura. Ero terrorizzata, perché sarebbe forse stato più facile affrontare un Divoratore che Thomàs in quelle condizioni. Quali condizioni, poi? Non sapevo cose gli fosse preso e non sapevo perché Martha non si stesse difendendo. Di sicuro avrebbe avuto più possibilità di fermarlo, che io.
Mi precipitai da lei, rischiando di inciampare nei miei stessi piedi, facendolo, ma non ebbi il tempo di esserle effettivamente accanto che Thomàs mi afferrò per un braccio e, con forza, mi spinse a ridosso della parete opposta. Mi provocò un dolore lancinante alla schiena, che mi smorzò il respiro, mentre ricadevo violentemente sul pavimento.
Cercai di rimettermi subito in piedi, però, per ovvie ragioni, lui fu molto più veloce e, prima che io potessi anche solo muovere un muscolo, aveva già stretto le dita intorno al collo di Martha, tirandola su di peso.
Lei, ancora, non si difese, a parte qualche strattone che non la portò affatto a liberarsi. In fondo sapevo che, per quanto le avesse fatto del male, non l'avrebbe uccisa ed era qualcosa che anche lei sapeva bene. Il punto, tuttavia, era proprio quello: io non sopportavo l'idea che le venisse fatto del male ed ero piuttosto certa che la parte razionale di Thomàs, sebbene in quel momento sembrava esser dissolta, fosse della stessa idea. Da lucido, non si sarebbe mai perdonato qualcosa del genere.
Così mi alzai e corsi verso di loro. Tentai di allontanare Thomàs da Martha, strattonandolo per un braccio, ma fu un tentativo vano. Fisicamente, non lo avrei mai battuto, non con la sua coscienza chissà dove.

«Ti prego, smettila». Mi ritrovai a sussurrare, a supplicare, con le lacrime agli occhi, ancora tirando il suo braccio, stringendo le dita attorno ad esso. «Smettila» ripetei, la mia voce si incrinò, ma lui non si smosse. Restò saldo, deciso, ringhiò, come se ogni sua parte buona si fosse volatilizzata, come se mi trovassi davanti ad un perfetto sconosciuto.

E ancora suppliche, e ancora preghiere, finché i lamenti, da soli, acquisirono forza e allora urlai.

«THOMAS!».

Ebbi la sensazione che quella voce in realtà non mi appartenesse. Fu forte, stridula, penetrante.
Percepii i muscoli del braccio di Thomàs rilassarsi sotto le mie dita. Si voltò verso di me: i suoi occhi rimasero color ghiaccio per un solo istante, poi, in un battito di ciglia, tornarono ad essere nocciola. Socchiuse le labbra e lasciò andare Martha, che ricadde in ginocchio sul pavimento, tossendo.
Io avevo il fiatone, quasi come avessi corso per chilometri, senza mai fermarmi, e lo stesso lui, che mi fissò con sguardo perso e non consapevole di ciò che era appena accaduto.
Avrei voluto dire qualcosa, qualsiasi cosa, per spezzare quel silenzio che si era fatto assordante, ma nessun muscolo del mio corpo ne volle sapere di muoversi.
Ad un tratto, tuttavia, Thomàs cedette. Sembrava essere tornato quello di sempre, solo un po' più fragile. Si buttò tra le mie braccia, nascondendo il viso tra i miei capelli e io non potei fare a meno che stringerlo e tentare di rassicurarlo, per quanto effettivamente fossi in grado di farlo. Il mio sguardo si incrociò, solo per un attimo, con quello di Martha, ancora a terra, confusa e a corto di fiato. La vidi scuotere leggermente la testa, ma anche lei non trovò una parola utile da dire in quel momento.

E così rimanemmo tutti e tre in silenzio, in quella stanza messa a soqquadro.
 

***



Mezzanotte era passata. Avevo sentito il grande orologio del salotto scandire dodici rintocchi, puntuali e precisi, pochi minuti prima. Avrei dovuto dormire già da parecchio, considerato tutto ciò che era successo durante quella giornata, ma, come sempre, non riuscii a prendere sonno. Era impossibile per me farlo, finché la mia mente continuava a tempestarmi di domande e a non fornirmi plausibili risposte.
Mi rigirai nel letto più e più volte. Davanti ai miei occhi tornava sempre l'immagine di Thomàs, inghiottito da qualcosa di oscuro e pericoloso e poi, in successione, l'espressione piatta di Martha e lo sguardo smarrito di Simon quando ero tornata in camera, da lui, e avevo dovuto inventarmi storie per nascondergli ciò che era appena accaduto. A volte, il fatto che sapesse così poco del mondo tutto intorno, tornava utile.
Decisi di alzarmi, tanto stare lì non serviva a nulla. 
La casa era immersa nel silenzio, come sempre, durante la notte. Sebbene Martha fosse perennemente sveglia, non produceva il benché minimo rumore.
Ero sul punto di scendere le scale e trovare qualcosa da mangiare. Avevo scoperto che il cibo, oltre a servire al sostentamento del corpo, era anche un ottimo mezzo per eliminare la tristezza o stati d'animo troppo pesanti. Era consolatorio, ecco. Tuttavia, prima che scendessi un solo gradino, la figura di Thomàs seduto sul davanzale di marmo di una delle finestre del corridoio, catturò la mia attenzione.
Accantonai, allora, per un momento la mia idea di consolazione e lo raggiunsi a passo lento.

«Ehi» sussurrai. Lui si voltò per un solo secondo, lanciandomi un'occhiata distaccata e veloce. Dopo, tornò a fissare fuori dal vetro, quasi io fossi già scomparsa.

Aggrottai le sopracciglia, perplessa. «Hai intenzione di non parlarmi più?» esclamai e, ancora, non ottenni risposta. «Andiamo, è ridicolo non rivolgermi la parola, soprattutto perché non credo di aver fatto qualcosa per meritarmi un trattamento del genere».

A quel punto, Thomàs sbuffò e si girò verso di me, serio, come se un briciolo di quell'oscurità che lo aveva soffocato quel giorno, fosse rimasta.

«Che pretendi?» sbottò. «Vuoi che ti chieda scusa?».

«Beh, sarebbe un punto di partenza, dato che mi hai scaraventato contro un muro e la schiena mi fa ancora male».

Abbozzò una risata, ironica. «Okay, scusa» disse, con fare sarcastico.
Io roteai gli occhi. Dava l'impressione di essere un bambino capriccioso in quel preciso istante. «Tutto qui?» replicai. «Non hai intenzione di spiegarmi cosa ti è successo oggi?».

«Non c'è nulla da spiegare».

«Per me sì». Feci una breve pausa, incrociando le braccia. «Ti ho visto, Thomàs. Era come se fossi più tu e i tuoi occhi erano diversi. Erano azzurri, scintillanti, come quella volta con Tamara e...».

«Non hai niente di meglio da fare che sottopormi ad un interrogatorio?». Mi interruppe bruscamente e, per un secondo, mi sembrò di parlare con Sebastian. L'atteggiamento era lo stesso.

«No» dissi «sto solo cercando di capire e vorrei davvero evitare che ciò che è successo oggi si ripeta».

«Non si ripeterà».

«Oh, davvero? Come fai a dirlo?».

«Lo so e basta». Il suo tono di voce si alzò bruscamente nell'ultima frase. Lui scese dal davanzale e mi scansò con poca delicatezza, colpendomi la spalla con la sua.

Mi innervosii ed ebbi seriamente voglia di picchiarlo, anche se voleva dire rimediare un ulteriore grande livido sulla mia pelle. «Smettila di fare così» urlai e riuscii a fermarlo prima che raggiungesse la sua camera da letto. Si fermò, in piedi, a qualche metro da me, che ancora mi reggevo la spalla già dolorante. «Se c'è qualcosa che non va» continuai «puoi dirmelo. Posso aiutarti, io...».

«Quante persone vuoi aiutare, Hazel?». Troncò la mia frase di netto. «Forse fin troppe e, forse, prima ne eri in grado. Adesso... Beh, adesso puoi a stento salvare te stessa».

Thomàs che fino a quel momento mi aveva spinto e aiutata a vivere da umana, distrusse ogni cosa con poche e taglienti parole. Mi riteneva inutile, come, del resto, io avevo sempre pensato.

«Sei un... Grandissimo stronzo» mormorai. Lui accennò un sorriso. «Sì, lo so» esclamò. «Torna dal tuo ragazzino, prima che venga ucciso di nuovo».

Si congedò in quel modo, entrando nella stanza e chiudendosi la porta alle spalle.
Io rimasi lì, immobile, in piedi, finché le ginocchia non mi cedettero, e allora, scivolai lentamente sul pavimento, addossandomi al muro. Avrei voluto piangere, per sfogo, per rabbia, ma nessuna lacrima uscì fuori. Quando ne avevo bisogno, il pianto volava lontano.

Flessi le gambe al petto, stringendole a me, come se in quel modo riuscissi a risultare più piccola di tutto il resto. Fissai il vuoto, davanti a me, nel buio che avvolgeva quel corridoio, nel silenzio che ormai mi era entrato anche dentro, fino a quando qualcuno riuscì a spezzarlo, sussurrando il mio nome.

«Hazel?».

Sollevai lo sguardo e vidi Simon, a piedi scalzi, con addosso una maglietta bianca e dei pantaloni di tuta troppo lunghi per lui.

«Ehi» biascicai, passandomi una mano sul viso, anche se non c'erano lacrime da asciugare.

«Ti ho sentito gridare e allora io...» balbettò. «Non ho proprio sentito cosa hai detto, ma mi sei sembrata... Arrabbiata, credo. Quindi mi sono alzato e... Tutto okay?».

No, ovviamente non era tutto okay. «Va tutto bene» mi ostinai a dire, perché non volevo che lui portasse alcun peso scomodo.
Simon sospirò e, senza aggiungere nulla, si sedette al mio fianco, distendendo le gambe. «Quello che stavamo per fare prima» disse «cioè, quello che penso stavamo per fare prima... L'ho visto fare anche in quella scatola magica che c'è di sotto».

«Scatola magica?» domandai, perplessa. Poi capii: «Oh, la tv».

«Sì, la... Tv». Annuì alle proprie parole e io non potei fare a meno di sorridere, perché il suo non sapere le cose lo rendeva ancora più ingenuo e quindi adorabile. «Lì ho visto due persone che...» continuò e iniziò a gesticolare, come se in quel modo potesse spiegarsi meglio. «Insomma, le loro bocche si toccavano e accarezzavano e... E loro sembravano davvero... Felici».

«Quello si chiama 'bacio'» spiegai, per quanto potesse essere ridicolo farlo.

«Bacio» ripeté, con enfasi. «Prima noi stavamo per... Sai...».

«Sì, stavamo per». Ridacchiai, osservando i tratti del suo viso. Anche se con poca luce, sapevo che era arrossito.

«Mi sarebbe piaciuto se nessuno ci avesse interrotti».

“Sì, sarebbe piaciuto anche me” pensai, ma non lo dissi ad alta voce. Ciò che mi uscì dalla bocca fu: «Perché?».

«Perché ti avrei vista felice».

Sorrisi e non seppi se con entusiasmo o meno. Probabilmente, un suo bacio avrebbe davvero fatto scomparire l'angoscia che mi portavo dentro da forse fin troppo tempo e, probabilmente... Sì, mi avrebbe davvero reso felice. Non per sempre, ma almeno per un po'.

«E' importante per te che io lo sia?» chiesi, a bassa voce. Simon scosse appena la testa. «Credo di sì» rispose. «Non lo so, io ti ho vista sorridere, più volte, ma non mi è mai sembrato... Vero... Come se sorridessi per far piacere a qualcuno... Per far piacere a... Me».
Mi pizzicai piano il labbro inferiore con i denti. «Ci sono tante cose che impediscono ad una persona di essere felice» sussurrai.
«Lo so. Cioè, credo di saperlo. A parte le cose che ho visto alla tv, non sono a conoscenza di molte altre cose, però questo credo di saperlo».

«Dovresti anche sapere che delle volte si sorride per rassicurare una persona alla quale si vuole bene. Nella maggior parte dei casi, anche se sforzato, un sorriso aiuta molto».

«Serve a fare felice qualcun altro, allora?».

«Qualcosa del genere».

Distolse lo sguardo da me per un attimo, fissandosi le mani chiuse in due pugni che fino a quel momento aveva sfregato l'uno contro l'altro. Io ero sul punto di aggiungere qualcosa o magari cambiare del tutto discorso, ma lui mi sorprese, letteralmente. Si sporse nella mia direzione e poggiò le labbra sulle mie. Non mosse un altro muscolo del corpo e, sebbene volessi accarezzarlo, non riuscii a far nulla nemmeno io. Rimasi ferma, a percepire il suo respiro che si mescolava col mio.
Quando si staccò, rimase vicino al mio volto. Chiusi e riaprii lentamente gli occhi, come per accettarmi che non stessi immaginando ogni cosa, perché con lui ogni cosa bella sembrava solo un sogno.

«Sei felice, adesso?» biascicò.

Quello era il suo semplice modo di fare le cose: lui che non conosceva il mondo esterno e che pensava che bastasse così poco per risolvere ogni problema.
Avrei dovuto contraddirlo, dirgli che per essere davvero felice, mi mancava tenerlo con me per sempre, mi mancava che mi amasse sul serio e non per costrizione, mi mancavano un sacco di altre cose. Però non me la sentii di spezzare le sue convinzioni, poiché quei momenti di sua dolcezza erano tutto ciò che, per quel momento, potevo avere. Così annuii solamente, osando muovermi solo allora: una mia mano andò a posarsi sul suo braccio e mi aggrappai ad esso per essergli ulteriormente vicino.

«Grazie» mormorai.

Sorrise, in risposta, e nessuno dei due aggiunse nient'altro. Rimanemmo, semplicemente, immersi nel silenzio e nel buio della notte, fino a quando entrambi ci addormentammo, appoggiati l'uno all'altro.

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Capitolo 12
*** Humans are obscure. ***


Capitolo 12
"Humans are obscure"


Caro – nuovo – diario,
mi sembra passato un secolo dall'ultima volta in cui ho tenuto una penna in mano. Tante cose sono cambiate, fin troppe, me compresa. Sono umana, adesso.
Non so come sia successo, non lo credevo possibile. La mia mente è piena di teorie, leggende, parole poco credibili e io sono sempre più confusa.
C'è Simon, tornato miracolosamente in vita per opera di uno sconosciuto benefattore, e che ora non ricorda nulla sul suo passato – o sul mondo, in generale; c'è Thomàs, questo nuovo cacciatore misterioso, che ha smesso di parlarmi e, addirittura, di guardarmi; e infine c'è Martha, divenuta sempre più criptica negli ultimi tempi.
E' come se fossi sola, non considerando Simon, che cerca di essere dolce, ma la sua concezione delle cose è più simile a quella di un neonato dotato di parole. Non sa niente, di niente, e questo, a volte, mi fa male, perché ho estremo bisogno di conforto. Ho bisogno dei suoi abbracci, dei suoi baci, dei suoi “andrà tutto bene”, anche quando tutto, in realtà, va male, e so che se me lo dicesse ora, in quelle condizioni, non sarebbe lo stesso. Lui c'è, ma al contempo non c'è, ed è la parte peggiore.
Per di più, come se non bastasse, siamo in fuga, da un Creatore che io stessa, consapevolmente, ho fatto arrabbiare, e qualcosa dentro di me mi suggerisce che tra non molto ci troveranno e, a quel punto, sarà la fine.
Eppure, non ho paura.

Ho imparato, stranamente, a controllare quel senso di terrore che mi assaliva solo pronunciando la parola “Creatore”. Probabilmente, essere triste rafforza, perché pur di non focalizzarmi troppo sui miei problemi, penso a come affrontare quel giorno, a cosa fare, a cosa dire, ad architettare nuovi piani di fuga e di salvezza.
Ovviamente, non sono mai giunta a nulla di assolutamente sicuro, ma è già qualcosa.

 


Chiusi il quaderno dalla copertina blu sulle gambe, lasciandoci la penna in mezzo. Chissà dov'era finito il mio vecchio diario, quello nero, con racconti di millenni dentro.
Avevo perso la cognizione del tempo, letteralmente, e ciò non accadeva solo in quella giornata. Da quando ci eravamo trasferiti in quella nuova casa, non avevo la benché minima idea di quanto fosse passato, forse perché ogni giorno era uguale all'altro, sempre pieno d'angoscia e di cattivi pensieri.

Ero seduta sui gradini davanti alla porta d'ingresso. Faceva freddo, gli alberi di fronte a me erano spogli e il cielo era completamente bianco. «Inverno» sussurrai, mentre della brezza gelida mi sfiorava le guance. Socchiusi gli occhi: stranamente, quel freddo mi donò sollievo.
«Non hai intenzione di indossare quella roba, stasera, vero?». La voce squillante di Martha mi fece sussultare e, prima che me ne rendessi conto, era già seduta al mio fianco, con le spalle scoperte nonostante la stagione.

«Perché?» domandai, retorica. «Cosa c'è di diverso stasera, rispetto alle altre sere?».

Lei roteò gli occhi e mi guardò, con aria di finto rimprovero. «E' il compleanno di Simon».

«Di già?».

«Sì. Quando dici di aver perso la cognizione del tempo, non scherzi».

«No, è che... Non pensavo fosse passato così tanto».

«Beh, sì. E io ho intenzione di festeggiare, dato che non posso festeggiare il mio, né il tuo, poiché nessuna delle due sa quando è effettivamente nata».

«Mh, probabilmente non esistevano nemmeno le date, all'epoca».

«E' possibile». Accennò una risata e feci lo stesso anche io.

«Che hai in mente?» chiesi, poco dopo.

«Oh, lo vedrai» rispose e scattò in piedi, girando su se stessa un paio di volte. Era brava a prendere le cose alla leggera, a sviare argomenti scomodi. Per esempio, su ciò che era successo con Thomàs, non aveva proferito neanche mezza parola, come se non fosse mai successo.
Era una qualità che le ammiravo, sebbene per lei fosse tutto più facile. Ricordavo bene il modo in cui si poteva sopprimere ogni cattiva sensazione, da Divoratrice.

«Però, devi prepararti per bene» esclamò, quando si fermò. «Nella tua stanza, troverai ogni cosa, compreso il vestito».

«Mi hai comprato un vestito?».

«Non esattamente. Ho convinto un po' di persone a farmelo dare e sono sicura apprezzerai molto».

«Martha...».

«Non voglio discussioni e non accetto frasi tipo 'non sono dell'umore'». Posò le mani sui fianchi e sorrise, entusiasta, in quel modo che nell'ultimo periodo aveva abbandonato.
Dovetti arrendermi, anche perché con Martha qualsiasi tipo di discussione era inutile, l'avrebbe sempre avuta vinta.

E fu così che, un'ora dopo, mi ritrovai nella mia stanza da letto, con addosso un vestito di raso blu, lungo fin sopra al ginocchio, che mi lasciava la schiena scoperta; i capelli, per l'occasione acconciati in delicati boccoli, mi ricadevano sulle spalle e un leggero rosa mi colorava le guance. A truccarmi non ero mai stata brava, tendevo sempre a esagerare, così, per quella volta, optai per qualcosa di decisamente leggero e pressoché invisibile.
Mi parve strano vedermi sistemata in tale modo. Dal giorno del ballo scolastico, mesi prima, non avevo mai provato a conciarmi in maniera così decente. Sorrisi, guardandomi allo specchio.
Una festa quando tutto ci marciava contro: tipico atteggiamento di Martha. Ero pressapoco sicura che avesse costretto anche Simon e Thomàs a tirarsi a lucido e non volevo nemmeno immaginare il lavoro compiuto su se stessa.

Salii su quei trampoli neri che mi erano stati presentati come scarpe col tacco e, barcollando su di essi, abbandonai la stanza. Dal piano di sotto proveniva un chiacchiericcio calmo e insolito, qualcosa che sarebbe stata impossibile da produrre in sole tre persone; e poi, c'erano voci che non conoscevo. Iniziai a scendere le scale, cercando e sperando di non capitombolare a terra.
Quando mancavano pochi gradini, mi accorsi della presenza di qualcuno proprio in fondo alla rampa, facilmente riconoscibile. Mi fermai, sorrisi e tossii appena.
Simon, allora, si voltò. Indossava un completo giacca e cravatta, nero, con sotto una camicia bianca e candida. Sì, Martha aveva tirato a lucido anche lui. «Ehi» disse, abbozzando un timido sorriso.

«Stai benissimo» replicai. Abbassò la testa, imbarazzato, e mi parve di vederlo arrossire. «Già, io...» balbettò «Non ho la benché minima idea di quello che ho addosso o di quello che sta succedendo, in realtà. Martha mi ha detto di aspettarti qui e l'ho fatto».

«Sì, a lei piace occuparsi delle cose nei minimi dettagli».

«L'ho notato». Accennò una risata. «Anche tu stai molto bene. Il blu... Ti dona».

«Grazie».

Sorrisi anche io, allora, completando la discesa delle scale. Osai sporgermi nella sua direzione e aggiustargli la cravatta, sistemando il nodo che molto probabilmente Martha gli aveva fatto.
Non avevo più timore delle sue reazioni: sapevo che si fidava di me, sapevo che non sarebbe scattato se solo lo avessi toccato. Lo avrei anche baciato, in quel momento, a dire il vero, ma forse era meglio non spingersi troppo oltre. Le labbra mi formicolavano ancora da quando era stato lui a poggiare la bocca sulla mia.

«Andiamo».

Lo presi per mano, delicatamente, e insieme ci dirigemmo verso il salotto, lì da dove il chiacchiericcio non aveva smesso di provenire.

Non mi sbagliavo sul fatto che in casa ci fosse qualcun altro, oltre noi quattro. Notai subito due volti a me sconosciuti, un ragazzo e una ragazza. Lei era molto alta, con i capelli castani e gli occhi dello stesso colore. Indossava un completo pantaloni e maglia, nero e lucido, con dei tacchi almeno il doppio dei miei. Lui era più basso, moro e il suo abbigliamento era molto più casual rispetto a quello di tutti gli altri, me compresa. Il suo jeans e t-shirt si contrapponevano al completo gessato di Thomàs, abbandonato sul divano, con un bicchiere di birra in mano, e al vestitino rosso luccicante che Martha aveva scelto per sé.
«Oh, eccovi, finalmente!» esclamò, proprio quest'ultima. Batté le mani come una bambina al parco giochi, mentre ci veniva incontro. «Ecco il festeggiato!». Abbracciò Simon e poi me con fare fin troppo enfatico: evidentemente, l'idea di quel mini-party l'aveva sopraffatta e a me stava bene. Si meritava un po' di spensieratezza, dopo tutto ciò che aveva fatto per me e per noi.
«Oh, vi presento Katie e Luke» disse. «Due miei amici». Marcò di proposito la parola 'amici' e mi bastò quel suo cambio di tonalità di voce per capire cosa intendesse: erano due Divoratori. Per un attimo, mi passò per la testa l'idea di cacciarli immediatamente da quella casa, perché, nella situazione in cui vivevamo, non potevamo prenderci il lusso di riporre la fiducia in chiunque; ma fu un dubbio che durò relativamente poco. Se Martha li aveva invitati, voleva dire che li riteneva affidabili e che non rappresentavano un pericolo per noi e io... Beh, io mi fidavo di Martha, perciò non ebbi reazioni sconsiderate.

Sorrisi e salutai entrambi con un cenno della mano.
Simon, intanto, sembrava spaesato: l'arrivo di due estranei lo aveva pressapoco confuso. Non ebbi il tempo di avvicinarmi e tranquillizzarlo in qualche modo, perché Martha lo trascinò, letteralmente, via, verso un lungo tavolo addossato alla parete che aveva imbandito con ogni genere di leccornia, dolce e salata, compresa di torta di compleanno, sulla quale spuntavano, in ordine, diciassette candeline celesti già accese.
Dove avesse trovato il tempo e la voglia di organizzare tutto, rimaneva un mistero.

«Allora, sei tu». Katie mi bloccò prima che potessi dirigermi verso il banchetto. Teneva un bicchiere di plastica ormai vuoto in mano e lo rigirava tra le dita, distrattamente.

«Sono io» replicai, perplessa. Lei abbozzò un sorriso, soddisfatta. «La nuova umana» spiegò.

Guardai rapidamente verso Simon. Non sapeva nulla del soprannaturale che lo circondava e non volevo che lo scoprisse da qualcuno che non fossi io. Per fortuna, Martha lo stava tenendo impegnato e la sua voce eclissava di gran lunga quella di Katie e Luke.

«Sono un fenomeno da baraccone, adesso?» esclamai, allora.

«Direi più qualcosa di raro, da ammirare».

«Credimi, nessuno mi ammirerebbe se conoscesse tutta la storia».

«Che vuoi che ci importi della storia? Eri una Divoratrice, ora sei umana. Tu sai in quanti desiderano una cosa del genere?».

«Io non...».

«Tanti. Davvero tanti. E se non ti rendi conto della fortuna che hai avuto, forse hai bisogno che qualcuno ti aiuti a farlo». Usò un tono duro, quasi di minaccia, tanto che percepii la rabbia salire, ormai avevo imparato a riconoscere quasi tutte le mie sensazioni. Tuttavia, Katie scoppiò a ridere improvvisamente, fermando ogni mia reazione. «Sto solo scherzando» disse.
«Già, non prenderla sul serio» intervenne Luke «soprattutto quando minaccia». Si avvicinò a noi, cingendo i fianchi di Katie. Mi fece strano pensare che fossero una coppia, se mai avessero potuto esserlo. Tra Divoratori, dopo ciò che era successo tra il Creatore e la Creatrice, non c'erano state altre unioni, se non quelle familiari.

«Siamo felici di essere qui. Con tutto quello che sta succedendo, sono poche le occasioni per incontrare altri come noi» aggiunse Luke.

«Perché?» domandai, allora.

«Siamo tutti in fuga» rispose Katie. «Sai, con il ritorno di Tu-sai-chi, le cose si sono un po' movimentate e... O ti schieri con lui oppure...».

«Fai ciao, ciao a questo mondo» Luke finì la sua frase e completò il tutto con una risata.

Io non trovavo che tale storia fosse divertente. Il solo pensare a Divoratori buoni, un tempo i miei migliori amici, in fuga per colpa mia, mi provocò un tuffo al cuore.
Ma per quella sera, la sera del compleanno di Simon, forse era meglio gettarsi ogni cosa alle spalle. In una notte, non avrei certo risolto i problemi del mondo intero. Del resto, non ero nemmeno capace di risolvere i miei.

Scossi appena la testa e mi congedai con i due Divoratori nostri ospiti, per raggiungere finalmente il tavolo imbandito. Davanti ad esso, Simon stava fermo con un piatto di plastica in mano, che Martha gli aveva riempito con, praticamente, ogni cosa. Lo fissava, senza fare nulla.

«Mangerai tutto?» esclamai e lui sobbalzò appena. Poi abbozzò un sorriso. «Non credo» replicò e aggiunse qualcos'altro, che però non recepii. Il mio sguardo era scivolato su Thomàs, ancora seduto sul divano, con occhi vuoti e assenti, come se non si trovasse propriamente in quel salotto.

In pochi secondi si accorse di me che lo guardavo e si alzò di scatto, attraversando tutta la stanza a grandi passi. Lo persi di vista e tornai su Simon, che intanto attendeva una mia risposta a una domanda che non avevo sentito.

«Come?» dissi, allora, sbattendo rapidamente le palpebre. Lui rise. «Dicevo» esclamò «tu non mangi nulla?».

«Oh» replicai e cercai di ridere anche io, seppur nervosamente. «No, non ho molta fame ora».

Ero confusa. Thomàs mi confondeva con il suo silenzio e io non potevo distrarmi. Era assurdo: riuscivo ad escludere dalla mia testa il Creatore e tutte le altre minacce e non lui che si rifiutava di parlarmi.
Mi sforzai enormemente di ignorarlo per il resto della sera, parlando con Katie, con Luke, con Simon, con Martha, ridendo con loro, mangiando, scartando regali che non erano nemmeno miei.
Thomàs rimase fermo in un angolo della stanza, buttando giù un bicchiere di birra dietro l'altro. Ne contai quattro nel giro di un'ora. Martha cercò di coinvolgerlo in quello che stava accadendo, ma la respinse, più di una volta.
Nemmeno la musica riuscì a smuoverlo.

Katie e Luke si erano già avvinghiati l'uno all'altro, sulle note di una canzone lenta che non avevo mai sentito prima. La voce era di una donna, profonda e acuta, a seconda dell'esigenza.
Io sedevo sul bracciolo del divano, osservando i due Divoratori comportarsi come una normale coppia di adolescenti umani e quasi riconobbi la vecchia me stessa, in loro: quella voglia di normalità, seppur costretti ad essere diversi.

«Vuoi ballare?». Il sussurro di Simon raggiunse le mie orecchie e, spostando lo sguardo, me lo ritrovai di fronte, mentre mi porgeva una mano. Abbozzai una risata. «Te l'ha suggerito Martha?» domandai.

«No». Scosse appena la testa. «In realtà l'ho visto in tv».

«Avrei dovuto sospettarlo». Risi ancora e afferrai la sua mano, alzandomi.

Mi strinsi a lui, al centro del salotto. Simon mi cinse i fianchi e sorrise, dolcemente.

«Sai, lo abbiamo già fatto, una volta» mormorai. «Ballare, intendo. A scuola, in una stanza almeno cento volte questa e cento volte le persone qui presenti».

«Ah, sì?».

«Già. E tu avevi paura di non muoverti bene».

«Beh, in realtà sono piuttosto un pezzo di legno».

«Hai usato esattamente queste parole».

«Oh, allora è una conferma».

Sorrisi di nuovo e feci scivolare le mani dalle sue spalle al suo viso, sfiorandogli le guance con i polpastrelli. «Sei fantastico, Simon Clarke» dissi, a bassa voce.

«Non ho fatto... Nulla» balbettò.

«No, tu hai fatto tutto». Allusi a me, al mio cambiamento. Seppur cosa combinata e progettata dal destino, la ritenevo la più grande fortuna al mondo. Ero umana per merito suo, avevo provato qualcosa per merito suo, consapevolmente o meno, e non avrei mai smesso di ringraziarlo per ciò.

«Buon compleanno» sussurrai. Tornai ad abbracciarlo, poggiando la testa sull'incavo del suo collo, dopo aver depositato un bacio sul suo mento. Il suo profumo mi inebriò: era bellissimo stare lì con lui, in quel modo, dentro quella bolla di sapone che rischiava di scoppiare da un momento all'altro.
C'era Simon, la sua dolcezza e quella leggera speranza che tra noi sarebbe tornato tutto come – o meglio – di prima, senza problemi e senza minacce.

E ovviamente... E ovviamente non era così.

Socchiusi gli occhi per un momento e, quando li riaprii, vidi Thomàs precipitarsi fuori dal salotto e uscire di casa, sbattendo violentemente la porta. Le note della canzone, allora nel punto più alto, riuscirono ad attutire il tonfo che, nella mia testa, fu fin troppo forte.
Mi strinsi di più a Simon, per impedire a me stessa di seguirlo e di urlargli contro di tutto, sfogando, in quel modo, la mia rabbia repressa degli ultimi giorni.


***
 

Se fosse stato per Katie e Luke, la festa si sarebbe protratta per giorni interi. Per mia fortuna, c'era Martha sempre diligente e attenta, che quando vide Simon addormentato sul divano, mise la parola fine a quella serata. Ne fui lieta, da un lato, mentre dall'altro... Dall'altro no, perché tornò il silenzio, che non faceva altro che creare nuovi pensieri, e ripescarne vecchi.
Ero inginocchiata sul tappeto, proprio accanto al divano. Accarezzavo delicatamente la fronte di Simon, scendendo, con le dita, sul suo zigomo. Katie e Luke si erano dissolti, salutandomi in modo veloce e avevo perso di vista Martha.
Thomàs era ancora fuori, ammesso che non se ne fosse andato in maniera definitiva. Non sapevo se sperare che restasse o pregare affinché se ne andasse.

Mi alzai lentamente in piedi, decidendomi a togliermi i tacchi alti e abbandonarli sul pavimento. Senza scarpe, camminai verso la porta d'ingresso e la aprii lentamente, facendola cigolare. Subito, un vento gelido mi paralizzò. Mi strinsi nelle spalle, provando a resistere, anche se stavo già battendo i denti.
Thomàs non se ne era andato: era seduto sui gradini che io quel pomeriggio avevo occupato, con una sigaretta tra le dita e il fumo tutto intorno.

«Ti sei perso quasi tutta la festa» sussurrai, fermandomi a meno di un metro da lui. Lo percepii sorridere, ironico, sebbene mi tenesse le spalle. Non rispose, come sempre.

Sbuffai. «Questa cosa del non parlarmi sta diventando un po' noiosa».

«Allora, forse, dovresti smettere di cercare di cambiarla, non credi?» sbottò. Lanciò la sigaretta ancora accesa lontano e la vidi spegnersi sull'ultimo gradino.

Cercai di non scattare subito e strinsi i pugni lungo i fianchi, rischiando di farmi male ai palmi con le unghie. «Se è per quello che è successo l'altro giorno» esclamai «non importa. Insomma, hai promesso che non accadrà di nuovo e mi fido. Non voglio sapere tutto nei dettagli».

Thomàs rise e si alzò in piedi, voltandosi verso di me. «Psicologia inversa?» disse. «Ti prego, ne sono il re. Con me non funziona».

«Cosa? Non so nemmeno cosa sia la psicologia inversa».

«Bene, lascia perdere».

«No!» quasi urlai. «Non voglio lasciar perdere. Voglio solo che tu smetta di comportarti così, di evitarmi o, perlomeno, sapere che cosa ho fatto per meritarmi un trattamento simile».

«Perché diavolo ti importa?».

«Perché tu sei stato l'unico a impedirmi di cadere anche quando tutto intorno stava crollando, che mi ha insegnato ad essere umana quando ogni cosa per me era nuova e difficile e vederti respingermi e trattarmi in questo modo mi fa solo stare male». Feci una breve pausa e mi ritrovai ad avere il fiatone, pur essendo ferma. «A volte ho addirittura i sensi di colpa che mi affliggono e non so neanche perché... Perché io non credo di aver commesso qualche errore con te, io non...».

Le mie parole furono interrotte, come se fossero una corda appena recisa: di netto, all'improvviso, di pari passo col mio respiro. Le mani di Thomàs strinsero con forza il mio viso, premuto contro il proprio, mentre le sue labbra toccavano le mie, quasi con violenza, riempiendomi la bocca di sapore di tabacco.

Mi stava baciando.

Mi stava seriamente baciando, dopo avermi fatto penare e dannare per giorni.

Lo distaccai subito, spingendolo via e, per fortuna, lui non oppose molta resistenza, altrimenti non sarei mai riuscita nell'intento. E d'istinto, senza nemmeno pensarci un attimo, il mio palmo colpì la sua faccia, con uno schiaffo.
Thomàs rise, quasi si aspettasse quella mia reazione, quasi l'avesse desiderata. Si toccò la guancia con tre dita e mi rivolse uno sguardo soddisfatto. «Buonanotte, Hazel» disse, con voce tagliente. Poi mi scavalcò e rientrò in casa, lasciandomi sola, sotto al portico.

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Capitolo 13
*** Never gone. ***


Capitolo 13
"Never gone"



Sapevo quanto la psicologia umana fosse complicata: dopo tutti quei secoli passati a cercare di imitarla, qualcosa avevo imparato. Il punto era che mi ero appena resa conto che la mia immaginazione si fermava fin troppo distante dalla realtà dei fatti perché c'erano una marea di azioni che non mi spiegavo, riguardante gli altri e, soprattutto, me stessa.
Il mio cervello continuava ad essere tempestato da immagini e parole su cosa avrei potuto dire e fare in una determinata situazione, creando vincoli e ipotetici bivi e dimensioni parallele, su come le cose avrebbero potuto svolgersi se avessi cambiato anche un solo particolare del mio atteggiamento o delle mie azioni.
Per esempio – non seppi nemmeno perché – mi ritrovai a pensare a cosa sarebbe successo se avessi ricambiato il bacio di Thomàs. Ci saremmo spinti oltre? Dopo un po', avrei capito che era qualcosa di sbagliato? E se invece fosse stato giusto?
Tutto ciò era assurdo, poiché, razionalmente, ero ben consapevole di quanto non volessi nulla di tutto quello. Per me, Thomàs era un amico e basta.

Simon, invece, era ogni cosa.

Da Divoratrice, era più chiaro e nitido.

Essere umana era come vivere in un perenne stato di offuscamento, sempre di fronte ad una scelta da compiere e sempre divisi tra la certezza di aver compiuto quella giusta e il rimorso per non aver optato per la seconda alternativa.

Dannazione, perché doveva essere così?

Avevo cose ben più importanti a cui pensare e invece la mia mente si divertiva a deviarmi e confondermi.

 

Rimasi ferma, immobile, sotto quel porticato per almeno trenta minuti, uno più, uno meno. Ero letteralmente congelata e il calare della notte accentuava il gelo.
Decisi di rientrare in casa, allora, probabilmente spinta da un briciolo di spirito di autoconservazione. Stavo inconsapevolmente tremando quando mi chiusi la porta alle spalle.
Sarei salita subito in camera, per buttarmi sotto le coperte e per dormire, sperando di sognare qualcosa di gradevole e di liberarmi di tutto il resto.
Tuttavia, prima che salissi anche solo un gradino, la figura di Martha, davanti alla finestra del salotto, richiamò la mia attenzione. Durante la serata appena trascorsa, non avevo avuto modo di ringraziarla per ciò che aveva fatto per me e per Simon e mi parve l'occasione giusta.
Mi avvicinai, lentamente, sforzando un sorriso che sicuramente lei avrebbe riconosciuto, ma non me lo avrebbe rinfacciato. Però, quando fui a meno di un metro da dove si trovava, mi accorsi che la sua espressione non era più quel ritratto d'euforia che aveva tenuto su – che teneva sempre su – nelle ore precedenti.
Era tutt'altro, qualcosa che non faceva mai: Martha stava piangendo e nemmeno si affannò a nascondermelo.

«Martha...» sussurrai.

«Sto bene, Hazel» disse, seria. «Va' a dormire».

Scossi appena la testa, in cenno di diniego. «E' evidente che non è così» replicai. «Che è successo?».

«Nulla».

«So che non è così. Andiamo, tu... Stai piangendo. E tu non piangi mai».

Martha rise, ma senza entusiasmo; anzi, sembrava essere sull'orlo dell'isterismo.

«Avanti, io ti butto addosso sempre tutto e tu ci sei sempre per me» dissi, allora. «Che è successo?» ripetei. Martha si asciugò rapidamente il viso con il dorso della mano e spostò gli occhi su di me. Neanche quello sguardo le apparteneva: vuoto, spento, come se avesse cessato di esistere.

«Vuoi sapere una cosa?» esclamò e quella non era una domanda di cui voleva la risposta, perciò non feci, né dissi nulla e lei continuò: «Il giorno in cui ho salvato Thomàs da quei Divoratori, era solo un bambino. I suoi genitori erano morti, non aveva più nessuno. Mi sono presa cura di lui per mesi, prima di trovargli una nuova famiglia, che potesse accudirlo. Ma ciò nonostante, dal primo momento in cui l'ho visto, ho provato qualcosa. Ho provato quella stessa scintilla di cui tante volte mi hai parlato e prima di incontrare lui, nemmeno credevo esistesse. Però, era troppo piccolo per me e troppo innocente per essere coinvolto in qualcosa più grande di tutto il resto. Così ho aspettato, anni ed anni. Ho aspettato un momento che forse non sarebbe mai giunto, perché più passava il tempo, più mi accorgevo che sarebbe stato inutile piombare nella sua vita e condannarlo a passare attraverso dolore e lacrime, solo a causa mia, perché non avrei mai saputo amarlo come merita e non sarei mai stata in grado di crescere con lui e donargli una propria famiglia. Ma poi... Poi è successa quella cosa tra te e Simon, e tu sei diventata umana, e allora... Allora, ho pensato “perché se è successo a lei, non può succedere anche a me?”. Ho sempre tenuto un occhio su Thomàs, sapevo che era diventato un Cacciatore, e quindi l'ho chiamato, usando come scusa il fatto che potesse aiutarci. In realtà, volevo solo averlo vicino e... E tentare di iniziare ciò a cui avevo rinunciato anni prima. Il punto è che... A me non spetta niente. A me non accadrà mai quello che è accaduto a te, perché... Perché Thomàs, dal primo attimo in cui ti ha vista, ha cominciato a innamorarsi di te e... E adesso io non ho nemmeno più quella speranza che mi teneva a galla».

Ascoltai il suo discorso in silenzio e, ad ogni parola, percepivo uno strano peso gravare sempre più sul mio cuore. Mi sentivo uno schifo, mi sentivo in colpa per qualcosa che non avevo deciso, né controllato. Qualcosa che non dipendeva da me, eppure mi stava riducendo in mille pezzi.
Strizzai gli occhi, cercando di non scoppiare in lacrime, perché sarebbe stato patetico. Mi sforzai di restare lucida e calma, di essere io la sua roccia e non viceversa.

«Thomàs non è innamorato di me» dissi. «E anche se fosse così, non è ricambiato. Io amo Simon. Lui lo sa e lo sai anche tu».

«Ti ha appena baciata, Hazel. L'ho visto».

«Hai visto anche come l'ho spinto via e come gli ho tirato uno schiaffo».

«Questo non cambia le cose».

«E invece sì». Sospirai. «Martha, io non farei mai nulla per ferirti e spero che tu lo sappia, perché sei la mia migliore amica, da secoli e secoli».

«Io lo so, Hazel. Il problema è che non posso cambiare ciò che prova Thomàs e...».

«Glielo hai mai detto?».

Fece cenno di no. «No, ma lo ha capito».

«Come puoi esserne certa?».

«Non ne ho idea, ma... Non ci riesco. Mi sembra così stupido. Io sono una Divoratrice, sono nata per non sentire nulla. Perché, dannazione, lui scombussola tutto?».

«Perché è quello che fa l'amore: vince l'apatia, anche se innata».

Martha non replicò. Distolse solamente lo sguardo, di nuovo fuori dalla finestra, a fissare la notte. Io osai sporgermi nella sua direzione e la abbracciai. La strinsi a me, poggiando il mento sulla sua spalla. Lei non si mosse.
Rimasi lì, ferma in quella posizione, finché non fu lei a sparire, dissolvendosi tra le mie braccia, che si ritrovarono a circondare il vuoto.
Sperai non ce l'avesse troppo con me. Non avevo compiuto sbagli, esclusi i miei pensieri, ma essi sarebbero sempre restati tali. Probabilmente, però, in quel momento voleva rimanere sola e la capii.
Salii in camera mia, allora, e, senza svestirmi o struccarmi, mi buttai tra le coperte, addormentandomi nel giro di poco.

***


«Hazel. Hazel, svegliati, per l'amore del cielo! Hazel!».

Fu la voce prima lieve, poi molto forte, di Martha a svegliarmi, quella mattina. Mi sfregai gli occhi, distrattamente, e fui pressapoco sicura di aver ricoperto il mio viso di mascara nero con quel gesto. «Cosa? Che... Che succede?» biascicai, con voce impastata. Martha mi era praticamente addosso. I suoi occhi erano un faro nella semi-oscurità della stanza. «Simon» disse. «E' scomparso».
L'associamento di quelle due parole mi allertò e mi sedetti sul materasso, cercando di liberarmi da lenzuola e coperte il più velocemente possibile. «Che cosa?!» quasi urlai.
«Lo avevo lasciato dormire sul divano e volevo portarlo in camera sua, quando sono tornata» spiegò Martha con tono pacato. «Ma non c'era. Non è da nessuna parte. Hazel, l'ho cercato, ma in casa non c'è».

Mentre parlava, mi alzai dal letto e mi tolsi di dosso il vestito blu indossato alla festa, sostituendolo molto rapidamente con un normale jeans stretto e una t-shirt bianca.

«Ho controllato anche fuori e nei dintorni, perché ho pensato che, nel caso fosse uscito, non si sarebbe allontanato troppo e non l'ho trovato e...». A quel punto, la sua voce si incrinò. La vidi passarsi una mano sul viso e le lacrime tornarono sulle sue guance.

Perché, improvvisamente, mi sembrava che anche Martha fosse in grado di crollare?

Mi avvicinai; avrei tanto voluto che fosse lei a consolarmi, a dirmi di non andare nel panico, ma in quel momento dovevo cercare di essere io quella forte e calma. «Lo troveremo insieme, allora» dissi, mettendo le mani sulle sue spalle.

«Il Creatore potrebbe averlo trovato, Hazel, ed è... E' colpa mia, avrei dovuto restare qui e proteggerlo, come ti avevo promesso e...» singhiozzò.

«Shh» sussurrai. «Non è colpa tua. Non pensarlo nemmeno per un secondo, intesi?».

Martha esitò per un istante e dopo annuì, strizzando gli occhi. Tirai un sospiro di sollievo, ma non potei reprimere ancora per molto l'angoscia e il terrore che mi assalirono per l'incolumità di Simon. Quando si trattava di lui, ogni mia sensazione veniva messa sottosopra e io perdevo la ragione, perché il solo pensiero che gli potesse succedere qualcosa – di nuovo – mi atterriva.
E se il Creatore lo avesse davvero trovato, sarebbe stata la fine. Era tornato in vita a causa della sua morte e sicuramente il fatto che Simon fosse di nuovo parte di questo mondo, non gli andava bene. Ci sarebbero state conseguenze, per lui non piacevoli, e avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di non essere rispedito negli Inferi.
Io non ero pronta a perderlo. Sarei morta io, piuttosto. Sì, avrei preferito rinunciare alla mia vita, in cambio della sua, perché il mio desiderio che Simon vivesse una lunga e felice vita da umano era rimasto intatto.

 

Uscimmo di casa, io davanti, Martha dietro. Cominciai a guardarmi attorno, ansiosa.

«Hazel, ho già controllato qui attorno e...» disse Martha. «Lo so» esclamai. «Ma mi rifiuto di credere che ci abbiano trovato. Lui è ancora qui. Siamo in due, cerchiamolo ancora».

Cercai di non tentennare troppo, di non dare segni di troppa debolezza, di essere decisa e lucida, perché altrimenti non avrei concluso nulla. Lanciai un'occhiata a Martha, rimasta ferma sulla soglia della porta. Lei annuì appena.
In fondo, non ero troppo convinta di ciò che iniziammo a fare, perché, come sempre nell'ultimo periodo, avevo i miei dubbi e sapevo relativamente poco di quello che mi accadeva attorno, come se fosse tutto avvolto in un fitto strato di fumo nero attraverso il quale era impossibile vedere.
Poteva essere successo di tutto e, in un attimo, la mia mente riuscì a dipingere un'infinità confusa di ipotetici scenari su come le cose fossero andate e, ovviamente, ognuno di essi aveva un finale tragico.

Quando ci dividemmo, poi, la situazione divenne ancora più opprimente.

Camminavo da sola, lungo quel viale alberato ricoperto di neve. Era mattino presto, il sole era sorto da poco e si gelava. Mi strinsi meglio che potei nella giacca che avevo messo addosso e mi maledii per non averne presa una molto più pesante. Quel luogo era deserto.
Non c'era nulla nel raggio di miglia, a parte il piccolo paesino a un'ora di cammino – a passo svelto – da casa. Presupponendo – e sperando – che Simon fosse uscito da solo, quello era l'unico posto in cui avrebbe potuto recarsi. Altri non ce n'erano e se non si trovava lì... Se non si trovava lì, avrei dovuto arrendermi ad uno dei miei orrendi scenari di distruzione.
Socchiusi gli occhi, sforzandomi di ignorare il gelo che mi era entrato dentro, fino alle ossa, ed accelerai il mio cammino.

«Dannazione, Simon» imprecai. Da un lato, ero addirittura arrabbiata con lui, ammesso e concesso che fosse semplicemente uscito da solo e speravo fosse così.

Continuai a camminare, imperterrita, anche quando le gambe cominciarono a indolenzirsi e a non rispondere più ai miei comandi.

Ad un tratto, tuttavia, all'orizzonte, proprio in fondo a quella strada all'apparenza infinita, scorsi qualcosa: una luce, che poco più tardi associai ai fari di un auto, che man mano si stavano avvicinando. Era strano vedere segnali di vita in quel posto: a parte noi, non c'era nessuno.
Mentre la macchina si avvicinava, sempre di più, il mio istinto mi suggerì di togliermi dalla strada e di non farmi vedere.
Certo, dubitavo del fatto che un Divoratore usasse un auto per una propria perlustrazione, ma, come già detto, nell'ultimo periodo mi ero sbagliata su talmente tante cose che tutto poteva essere possibile.
A discapito del mio istinto di sopravvivenza, però, restai pressapoco immobile, con gli occhi fissi sull'auto che intanto aveva raggiunto il punto in cui mi trovavo. Mi superò anche e, dopo qualche secondo, si fermò. Restai impietrita per un istante, prima di voltarmi, stranamente curiosa di vedere chi ci fosse a bordo di quella macchina color prugna.

Non dovetti attendere molto prima di scoprirlo, perché dal lato passeggero scese...

«Simon?!» quasi urlai. Mi sorrise appena, chiudendo distrattamente la portiera. Non esitai nemmeno un secondo per precipitarmi da lui. Gli buttai le braccia al collo, stringendolo a me e, probabilmente, rischiai di soffocarlo.

«Mi hai fatto prendere un colpo» bofonchiai e mi allontanai lievemente, giusto per guardarlo in faccia. Freneticamente, stavo tastando ogni parte del suo corpo, per assicurarmi che non fosse ferito, da un lato, e dall'altro, per rendermi conto che tutto ciò fosse reale e non solo un brutto scherzo da parte della mia testa.

«Non volevo» disse. «Mi dispiace, io... Sono uscito per comprare la colazione e ho camminato tanto, per arrivare in un posto dove ci sono i muffin, dato che erano finiti, ma... Quando stavo per andarmene, ho scoperto che avevo bisogno di soldi per avere quei muffin e...». Mi venne quasi da ridere, perché, da un lato, trovavo adorabile il solo pensiero di vederlo immerso nel mondo comune, senza sapere nulla di esso.

«Questa ragazza è stata così gentile da pagare per me e si offerta di accompagnarmi a casa» concluse. «Oh» esclamai, curiosa di sapere chi fosse quella ragazza. Feci appena in tempo a girarmi, per vederla scendere dall'auto. I suoi capelli rossi scintillarono nel pallore dell'ambiente ricoperto di neve e il suo sorriso abbozzato, ma sicuro, riuscì solamente ad aumentare il gelo dentro di me.

«Tamara» quasi soffocai.

Non era il Creatore o uno dei suoi seguaci; no, avevo la netta sensazione che Tamara avesse intrapreso una battaglia solitaria, ma questo non invitava certo a sottovalutarla. Poteva essere pericolosa come chiunque altro e poi... Poi era stata proprio lei ad uccidere Simon.

«Vi conoscete?» chiese proprio quest'ultimo. Io non ce la feci a rispondere. La mia gola si era seccata e io ero paralizzata. Fu Tamara a farlo, scoppiando in una falsa risata, pregna di entusiasmo agghiacciante. «Oh, mio Dio! Hazel!» esclamò. «Ma quanto tempo è passato?». Fece il giro dell'auto e ci raggiunse, saltellando su dei tacchi rosa alti almeno quindici centimetri. Mi si buttò praticamente addosso, abbracciandomi e non potei fare nulla per distaccarmi, senza destare sospetti in Simon.

«Abbiamo un conto in sospeso, no?» sibilò Tamara al mio orecchio. «Una sola parola e rispedisco il tuo ragazzo carino lì dove dovrebbe stare». Quando si distaccò, aveva di nuovo un sorriso stampato in volto e un'aria innocente e solare cucita addosso.

«Siamo vecchie amiche» disse, alzando le spalle. «Tu guarda i casi della vita. Strani, eh? E così questo è il famoso Simon di cui mi hai sempre parlato. Avevi ragione a dire che è incredibilmente carino».

Strinsi i pugni lungo i fianchi e mi morsi talmente forte il labbro inferiore che rischiai di farlo sanguinare. Avrei tanto voluto prendere a schiaffi quella sua faccia terribilmente irritante e urlargli di stare lontano da me e da Simon, di andarsene e, alla fine, persino ucciderla, se solo avessi avuto il Pugnale. Ma, nella realtà, non potei fare nulla, non senza tirare fuori discorsi e spiegazioni troppo scomode.
Mi chiedevo come mai Tamara non avesse colto l'occasione per spiattellare tutto a Simon, nell'esatto momento in cui l'aveva trovato, ma, plausibilmente, era possibile che tutto rientrasse in un suo malefico e contorto piano di vendetta nei miei confronti. Che mi odiasse era palese ed evidente.
L'unica cosa che potevo davvero fare era portare via Simon, tornare a casa e poi partire verso una nuova meta, sperando di non essere trovati di nuovo; e lo avrei fatto, se a Simon non fosse venuta la brillante idea di proporre: «Perché non la invitiamo a colazione?». 
Lo fulminai con lo sguardo e, prima che potessi obiettare, Tamara aveva già accettato. Fui addirittura costretta a salire in auto con lei, sul sedile posteriore e temetti addirittura che potesse far ribaltare la macchina da un momento all'altro, così da uccidere sia me che Simon in un colpo solo.

Ma non lo fece. Raggiungemmo casa, sani e salvi.

Quando scesi dall'auto, vidi subito Martha, apparentemente appena arrivata, irrigidirsi, in piedi sui gradini della villa. Le feci un cenno di no con la testa e sgranai gli occhi, sperando capisse di non reagire e non fare nulla. Mi affrettai a raggiungerla, a passo svelto.

«Che ci fai lei qui?» mi chiese, ad alta voce.

«Non ne ho idea» risposi, con lo stesso tono. «Reggi il gioco, Simon non deve scoprire nulla».

Lei annuì e basta, non ponendo ulteriori domande.

Avere Tamara a casa era come avere tra le mani una bomba ad orologeria, pronta a scoppiare da un momento all'altro, perché se avesse detto qualcosa a Simon, riguardo al sovrannaturale, al fatto che fosse morto e tornato in vita... Beh, lui non l'avrebbe presa bene e sarebbe impazzito, di nuovo.
Avevo già la mia esperienza con le sue reazioni sull'orlo dell'isterismo e qualcosa mi suggeriva che, in tal caso, sarebbe accaduto qualcosa di nettamente peggiore. Era ovvio che non lo avrei tenuto all'oscuro di tutto per sempre. Prima o poi, avrei trovato il coraggio di rivelargli ogni cosa, ma poco per volta, non tutto insieme. Era fondamentale che lo venisse a sapere da me e non da qualcun altro. Soprattutto, non da Tamara.
Per questo motivo, mi accertai che non rimanesse nemmeno un secondo da sola con Simon. Martha si offrì volontaria per restare con loro in ogni istante, in salotto, mentre io preparavo la colazione.
In realtà, mentre riscaldavo gli avanzi della sera prima; io non sapevo neanche cucinare.

«Quella non è la tizia che ti ha attaccato a casa del ragazzino?». La voce di Thomàs mi fece sobbalzare. Sospirai, vedendolo accanto a me, con in mano la sua fedele tazza di latte e cereali.

«Tu non sei quello che ha smesso di parlarmi?» replicai, con tono acido e cercando di focalizzarmi sulle pentole che avevo messo sul fuoco.

«Posso interrompere lo sciopero del silenzio. Per un po'» disse lui. «Allora?».

Scossi appena la testa. Avevo rinunciato a capirlo, ormai. «Sì, è proprio lei».

«Ed è qui perché...».

«Non ne ho idea».

«Beh, cacciamola via».

«Non possiamo».

«Perché no?».

«Perché sa che Simon è vivo».

«E allora?».

«Potrebbe dirlo al Creatore».

«Beh, io potrei metterla a tacere per tipo sempre. Ricordi? Io? Cacciatore? Divoratori?».

Roteai gli occhi. Era tornato il suo lato sarcastico, ironico e insopportabile. Quasi lo preferivo quando stava semplicemente zitto. «Forse dopo ti chiederò di decapitarla» esclamai, allora. «Ma non ora. Prima di tutto, non sappiamo se è qui da sola o se ha un esercito di Divoratori alle sue spalle. E poi, non possiamo portarla fuori e tagliarle la testa, dal momento che Simon la considera una ragazza dolce e carina, mia e quindi sua amica».

«Oh, quindi il problema è il ragazzino».

«Smettila di chiamarlo così».

«Quel che è. Hai paura che scopra il mondo sovrannaturale che lo circonda? Non puoi nascondergli la verità per sempre».

«Non è mia intenzione, ma non voglio nemmeno che lo venga a scoprire così. Ci vuole del tempo e voglio essere io a dirgli tutto. Tu non c'eri quando ha scoperto che ero una Divoratrice, la prima volta. E' stato abbastanza orribile e... Sinceramente, non voglio che si ripeta».

Thomàs era sul punto di replicare, ma non ne ebbe il tempo. La voce irritante e petulante di Tamara lo anticipò. «Puoi lasciarci sole?» disse, ferma davanti alla porta già chiusa. Non sembrò neanche una domanda. «Discorso tra ragazze». Thomàs mi fissò per un attimo, in cerca del mio consenso. Per quanto mi pesasse, gli feci cenno di sì. Sarebbe comunque rimasto abbastanza vicino, nell'altra stanza, insieme a Martha e dubitavo che Tamara mi avrebbe fatto qualcosa di male.

Rimanemmo sole, in quella cucina che mi dava la sensazione di essere fin troppo piccola in quel momento.

«Curioso il modo in cui lo guardi» commentò Tamara. «Così, è diventata una cosa a tre, adesso?».

Sbuffai. «Che cosa vuoi?» esclamai e feci un passo in avanti, nella sua direzione, più che altro per dimostrarle che non avevo paura di lei.

La vidi sorridere, apertamente. «Capito, non ne vuoi parlare. Passiamo ad argomenti più seri».

«Che cosa vuoi, Tamara?».

«Mettere le cose in chiaro».

«Quali cose?».

«Un bel po' di cose. Non è stato facile trovarti, ci stavo quasi per rinunciare, quando, tu pensa, in una tavola calda di un paesino abbandonato, ho riconosciuto un ragazzo che ricordavo aver ucciso. Mi sono avvicinata, gli ho parlato e mi è bastato un attimo per capire che il suo cervello ha fatto cilecca. Ogni ricordo, improvvisamente, si è dissolto. Immagino sia stata dura per te».
Mi morsi il labbro. Non dovevo scattare o fare qualcosa di azzardato. Lei continuò: «In un primo momento ho pensato di ucciderlo seduta stante e restituirti il suo corpo, pezzo per pezzo, ma poi, riflettendoci meglio, ho capito la vendetta non va bruciata così velocemente».

«Vendetta?» la interruppi, acida. «Vendetta per cosa?».

«Beh, tu mi hai pugnalato. Due volte, e non è stato molto piacevole. Il Creatore mi ha diseredato solamente perché volevo ucciderti e, ultimo, ma non ultimo, il tuo amichetto mi ha spedito in un posto remoto e decadente, dal quale sono riuscita a venir fuori a stento. Credo siano elementi sufficienti».

«Tu prova solo a fare del male a Simon e...».

«Non ho alcuna intenzione di ferire quel ragazzino. E' come un cucciolo appena nato, non ci proverei nemmeno gusto. Il mio obiettivo sei tu». Tamara si dissolse nell'aria e riapparse davanti a me, col viso a pochi centimetri dal mio. «Ti porterò via tutto, Hazel» sibilò. «Ogni cosa. Ogni. Singola. Cosa. E lo farò a modo mio, finché non sarai tu a venire da me, implorandomi di ucciderti. Non tentare di fermarmi, è una battaglia persa».

Passò dall'espressione malefica e minacciosa, ad un sorriso rassicurante – ma falso – in meno di mezzo secondo e, probabilmente, fu ciò che mi buttò giù letteralmente.

«Spero sia pronto. Ho fame». Si congedò in quel modo e uscì dalla cucina, chiudendosi la porta alle spalle.

Io la rincorsi subito, poiché all'improvviso non fui più in grado di controllare il panico, che fino ad allora si era tenuto entro i limiti.
La sua minaccia era qualcosa di inconcepibile e impossibile da combattere; voleva dire tutto e niente e nessuno avrebbe mai potuto sapere che cosa le sarebbe passato per la testa, quale piano contorto avrebbe usato.

Sì, avevo di nuovo paura.

Rimanere da sola mi spaventava, mi atterriva, perché facilmente il peso del mondo mi avrebbe schiacciata, riducendomi in mille pezzi.

Raggiunsi il salotto col fiatone, seppur dopo pochi passi. Tutti erano seduti a tavola, come un gruppo di amici in perfetta armonia. Thomàs e Martha mi fissarono, perplessi. Tamara inclinò appena il capo di lato e Simon... Simon mi sorrise. Lui che non sapeva nulla, nella sua ingenuità e innocenza. Per lui, ogni cosa era come doveva essere.

«Tutto bene?» domandò.

Esitai, prima di annuire. Annuii e basta, e non potei fare assolutamente nient'altro. Non potei raccontargli la verità e non potei nemmeno confidarmi con Martha riguardo al piano di Tamara.
Dovetti restare inerme a quella situazione, in quella colazione così assurda e pungente che mai avrei pensato potesse accadere.

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Capitolo 14
*** I crash and I break down. ***


Capitolo 14
"I crash and I break down"



Lo stato d'ansia perenne era tornato, più forte di prima, come un tornado che si divertiva a farmi a pezzi, senza però farmi crollare in modo definitivo. Era come stare appesa ad un filo che qualcuno, improvvisamente, avrebbe potuto recidere, lasciandomi precipitare in un buco nero, senza fondo.
Il mio cuore batteva a ritmo accelerato anche nel sonno, tanto che finivo per svegliarmi nel cuore della notte tutta sudata e con l'affanno. Mi alzavo dal letto, freneticamente, rischiando di inciampare su, praticamente, ogni cosa, pur di raggiungere la stanza di Simon e controllare che fosse ancora lì e che Tamara non l'avesse preso. Le sue parole continuavano a martellarmi la testa.

“Ti porterò via tutto” aveva detto e qualcosa mi suggeriva che Simon sarebbe stata la prima cosa che mi avrebbe strappato di mano perché sapeva quanto lui significasse per me. Lo sapeva e, io stessa, nei suoi panni, un tempo avrei pensato allo stesso modo di agire.
Vivere con la consapevolezza che sarei stata privata della mia ragione d'esistenza era già un peso enorme da reggere; si aggiungeva la questione che non avevo la benché minima idea di come avrebbe fatto.
Non lo avrebbe ucciso, questo mi rassicurava, almeno un po', ma, d'altra parte, mi atterriva ulteriormente perché non sapevo come proteggerlo.

Come si protegge qualcuno dall'ignoto?

Nemmeno parlandone con Martha e Thomàs riuscii a concludere qualcosa. Esposi loro la minaccia di Tamara e tutte le mie ansie. Mi suggerirono di non preoccuparmi troppo, che Tamara era quasi sicuramente da sola e che avremmo potuto liberarcene presto. Fosse stato per me, avrei chiesto a Thomàs di “metterla a tacere” subito... Ma fui bloccata.
Purtroppo, Simon si trovò inquietamente bene con lei e passarono del tempo a ridere e scherzare insieme, come due amici di vecchia data – ovviamente, sempre sotto la supervisione di qualcuno tra me, Martha o Thomàs. Tamara lo aiutò addirittura a scoprire nuove cose del mondo, cose del tutto normali per ogni persona sulla Terra, ma non per lui; cose che avrei dovuto mostrargli io. Cose avrei voluto mostrargli io. E invece potei solamente fissarli da lontano, senza intervenire perché, se lo avessi fatto, Tamara avrebbe messo in atto il suo diabolico piano.

Era un circolo vizioso.

Pensai, allora, che se non potevo allontanare Tamara da Simon, forse avrei potuto fare il contrario senza ricorrere ad amare verità.

 


Quella era una delle poche sere in cui Tamara ci aveva concesso l'onore della sua assenza. Da giorni si era praticamente stabilita a casa nostra, sparendo la sera tardi e riapparendo la mattina presto. Decisi di agire. Non chiesi il consiglio di Martha, sapevo mi avrebbe bloccata in partenza.

Simon sedeva sul divano, in salotto, con in mano un libro di favole antiche che, purtroppo, Tamara gli aveva donato. Mi sentii così stupida per aver esitato nel suo recupero, anche solo per non aver pensato prima di riattivare la sua vita proprio com'era, invece di continuare a trattarlo come un bambino senza possibilità di sviluppo.
Lo fissai per qualche secondo, ferma sulla soglia della porta, cercando di non farmi notare. Lui era intento a sfogliare lentamente le pagine ingiallite e consumate di quel libro con la copertina spessa e intagliata. Non sapevo nemmeno se fosse in grado di leggere quelle righe. A volte, sembrava aver rimosso ogni minimo particolare del mondo circostante, mentre, altre volte, dava l'impressione di saperne più di me – sovrannaturale a parte, ovviamente.
Mi chiedevo spesso che cosa stesse accadendo nella sua testa, se qualcosa stesse tornando, a poco a poco, e se mai avrei avuto indietro il mio Simon.

Probabilmente era confuso.

Confuso da se stesso, dalle sue idee, dai suoi pensieri, magari anche dai suoi sogni, ammesso e concesso che li facesse.

Non era mai capitato che qualcuno tornasse indietro dalla morte, che ne potevo sapere delle conseguenze, io?

Feci qualche passo nel salotto, con le braccia incrociate al petto. «Che leggi?» domandai, conoscendo benissimo la risposta e mi sedetti al suo fianco, sui cuscini morbidi del divano.
«Uhm, sto cercando di leggere, in realtà» rispose lui, sfiorando con le dita la copertina ruvida del libro. «Riconosco la maggior parte delle parole, ma faccio fatica a metterle insieme».

«Se vuoi, più tardi posso aiutarti e leggere qualcosa per te».

Simon abbozzò un sorriso. «Sarebbe bello» commentò. Non replicai a parole, ma tentai di trasmettergli un briciolo d'entusiasmo attraverso una smorfia che avrebbe dovuto essere un sorriso, come il suo. Avevo ben in testa cosa dirgli e avrei tanto voluto essere diretta.
“Non vedrai mai più Tamara, lei vuole distruggermi”. Sarebbe stato facile e molto liberatorio. Tuttavia, con Simon non potevo concedermi quel lusso e dovevo girarci attorno per arrivare, dopo tanto tempo, al punto prefissato.

«Quindi...» esclamai. «Passi molto tempo con Tamara, nell'ultimo periodo».

«Già, è... Lei è molto carina».

«Immagino».

«Voi due vi conoscete da tanto?».

«Da... Abbastanza». Feci una breve pausa. L'idea che aveva Simon di Tamara era fin troppo idilliaca e non lo biasimavo. Gli si era presentata come un angelo custode, pronta ad aiutarlo in ogni singolo momento di libertà. Sarebbe stato difficile smontare tale immagine.

«In realtà...» ripresi il discorso «la conosco da così tanto tempo che posso dire che è molto diversa da quel che sembra».

Simon aggrottò le sopracciglia. «Che intendi?».

Mi pizzicai appena il labbro inferiore con i denti, nervosa. «In questo mondo, Simon, esistono persone buone e persone cattive, e lei... Beh, lei non fa parte del primo gruppo. Lo so che a te non sembra così, ma spesso tali persone sono brave a comportarsi come se appartenessero ai buoni. Fingono e riescono ad ingannare tutti».

Ebbi timore delle reazioni che avrei potuto innescare in lui. Era possibile che mi considerasse pazza, senza nemmeno coinvolgere il sovrannaturale, il che poteva essere considerato una sorta di record. Trattenni il respiro, finché non parlò. Gli ci vollero almeno dieci secondi. «Perché dici questo?» esclamò. «E'... Crudele».

«Lo so che sembra crudele, ma... Voglio solo proteggerti».

«Da Tamara?».

«In questo caso, sì, da Tamara».

«Quindi, cosa? Dovrei... Smettere di vederla e mandarla via? Non... Non è giusto. E' una mia amica».

«Lei non...». Mi interruppi. La frase sarebbe continuata: “Lei non è tua amica, ti sta solo usando per spezzare me”. Dovetti trattenermi. «Per favore, Simon» sussurrai poco dopo.

Lui si alzò di scatto, mollando il libro sulle mie gambe. Era la prima volta che lo vedevo lontanamente arrabbiato, da quando era tornato.

“Ottimo lavoro” mi rimproverò la mia coscienza, tornata alla ribalta.

«Io non capisco» quasi urlò, allargando le braccia. «Tamara è l'unica persona del mondo esterno che conosco, a parte te, Martha e quel ragazzo alto e parzialmente idiota». Mi venne quasi da ridere, sentendo la definizione che aveva affibbiato a Thomàs. Poi andò avanti: «Forse si è comportata male nei tuoi confronti, ma con me è stata gentile, abbiamo parlato, mi ha spiegato cose che fino ad ora avevo visto solo in televisione e... Davvero, il tuo mi sembra solo un modo ingiusto e crudele per far sì che io la allontani. E io nemmeno ne capisco il perché».
Presi un respiro profondo. Ero consapevole del fatto che in momenti del genere gli umani tendessero a parlare a sproposito, tirando fuori ciò che tanto si sforzavano di tener segreto. A giudicare dalle palpitazioni del mio cuore, ero inchiodata in quell'istante, come in un baratro, probabilmente a causa di quella pseudo-lite. Mi alzai anche io in piedi, lentamente, e mossi solo due passi, così da essergli di fronte.

«Adesso sembro io quella cattiva, ne sono perfettamente consapevole» sussurrai «ma non farei niente di tutto ciò se non fossi del tutto convinta di quello che ho detto».

Simon mi fissò per qualche attimo, con uno sguardo strano. Più che arrabbiato, era stanco e malinconico. Non disse nulla in replica, si voltò solamente e corse su per le scale.

«Dannazione» esclamai, passandomi una mano tra i capelli. Ero riuscita a complicarmi le cose da sola e probabilmente avevo spianato la strada a Tamara e a qualunque piano avesse in testa.

«Uh, sento odore di litigata». La voce di Thomàs mi portò a sollevare lo sguardo. Lo vidi appoggiato con la spalla allo stipite della porta del salotto e con le braccia incrociate sul petto. «Perché tu sei sempre presente quando fallisco?» domandai, retorica.

«Perché mi piace puntualizzarlo» rispose, abbozzando un sorriso ironico. Roteai gli occhi, esterrefatta, e tornai a sedermi, di peso, sui cuscini del divano.

«Hai deciso di prenderti un'altra pausa dal tuo sciopero del silenzio?» chiesi, ancora in modo retorico.

«Forse».

«Oh, quindi, dopo un'altra manciata di giorni a evitarmi quasi del tutto, mi parli nuovo e solamente per demoralizzarmi. Lavoro eccellente». Fui acida e lo feci apposta. Del resto, se lo meritava.

«Non ti sto demoralizzando!» si difese.

«E che stai facendo? Vuoi parlare?».

«Se vuoi parlare, per me va bene».

Accennai una risata, senza entusiasmo, e fui di nuovo in piedi. Mossi qualche passo nella sua direzione e incrociai anche io le braccia al petto. «D'accordo» esclamai. «Dimmi che ti è successo quando sei uscito fuori di testa e hai attaccato Martha».

Thomàs serrò la mascella e non rispose. Me lo aspettavo.

«Questo argomento non va bene, evidentemente» commentai. «Allora... Dimmi perché mi hai baciata».

A quella domanda sorrise appena. «Perché mi piaci» replicò, con scioltezza. Non mi aspettavo tale reazione. Ero preparata ad ulteriore silenzio e riuscì a spiazzarmi, anche perché ricordavo chiaramente ciò che mi aveva confidato Martha ed ebbi la sensazione di precipitare sempre più in basso.

«Perché ti piaccio?».

«Perché sì, succede e basta. Non vorrai mica sapere perché succede e basta, adesso, vero?».

«Sì!» quasi urlai, isterica. Socchiusi gli occhi per un attimo, giusto per calmarmi. «Cioè, no» aggiunsi. «E' solo che è... Sbagliato».

«Sbagliato? Perché?».

“Perché la mia migliore amica è innamorata di te” avrei voluto dire, ma, evidentemente, Martha non gli aveva ancora parlato e so che si sarebbe infuriata se fossi stata io a rivelargli ogni cosa, anche se forse sarebbe stato meglio.

«Perché... Questo non è neanche il mio vero aspetto» dissi, secca.

«Non mi importa». Lui era sempre più calmo e a suo agio. «E poi, sei umana ora, il che implica che questo è il solo aspetto che puoi avere».

Era una teoria che reggeva, dovetti dargliene atto, mentre cercavo nella mia testa altri motivi. «Io amo Simon».

«Beh, odio puntualizzare anche su questo, ma, tecnicamente, sei innamorata perché lui è la Chiave e tu sei una Cercatrice, il che implica che non è amore puro e autentico. E' solo predestinato».

Il suo era un essere fin troppo diretto e normalmente mi avrebbe irritato. Mi accorsi, tuttavia, proprio in quell'istante, che ci avevo fatto l'abitudine. «Sei un coglione» commentai.

«Questa è la terza ragione?».

«Potrebbe esserlo».

Thomàs accennò un sorriso, per nulla toccato da come lo avevo appena definito. Probabilmente, si divertiva anche a innervosirmi in quel modo. Sciolse l'incrocio delle sue braccia e mosse qualche passo nella mia direzione. Io restai immobile. «Che stai facendo?» domandai e, per un attimo, pensai avesse l'intenzione di tentare nuovamente di baciarmi e, in tal caso, avrei dovuto prepararmi a respingerlo. In realtà, non fece nulla del genere. Mi girò attorno e si fermò alle mie spalle. «Voglio testare una cosa» disse.

«Cosa?». Ero ancora ferma, con le braccia strette al corpo e le sopracciglia aggrottate. Thomàs posò una mano sul mio fianco sinistro e percepii il suo petto aderire alla mia schiena. L'altra sua mano andò a spostare i miei capelli su di un lato e le sue dita sfiorarono delicatamente il mio collo.

«Thomàs...» biascicai e in cuor mio sapevo che avrei dovuto allontanarlo all'istante e colpirlo in piena faccia con uno schiaffo o, stavolta, con un pugno. Eppure, non feci assolutamente nulla. Ero bloccata, come se la parte ragionevole di me si fosse volatilizzata.

«Shh» sussurrò e riuscii a sentire il suo respiro sulla mia pelle. Istintivamente, chiusi gli occhi e le braccia mi ricaddero in modo lento lungo i fianchi. Lui poggiò le labbra sull'incavo del mio collo, per un bacio, poi un altro a salire, verso l'orecchio.

«Smettila» mormorai ancora, con voce flebile.

Aprii gli occhi e piano mi voltai, quel che bastava per incrociare i suoi occhi castani. Mi stava fissando, stava comunicando attraverso di essi e quasi mi parve di scorgere dei frammenti azzurri, di cristallo, nei suoi iridi. A me mancava il respiro, come se fossi costretta ad un'apnea duratura, senza possibilità di riprendere fiato.
Prima di quel momento non mi ero mai sentita così, nemmeno con Simon. Con lui era tutto talmente naturale da sembrare addirittura scontato e perfettamente logico.
Allora, forse, quell'ansia piacevole era data dalla mia consapevolezza di quanto fosse erroneo tutto ciò e di come avrei combinato casini e ferito persone se solo mi fossi lasciata andare; se solo fossi stata così egoista da non ragionare più e da fare qualcosa esclusivamente per il gusto di farlo.
Ma come potevo pensarla in quel modo? Ferire Martha? Colei che aveva fatto di tutto per me, colei che mi aveva salvato la vita, più e più volte, colei che mi era sempre stata vicino anche quando attorno il mondo sembrava crollare. Inoltre, avrei ferito me stessa e quell'idea che avevo instaurato nella mia testa dell'abbattere il destino o qualsivoglia profezia scritta o detta sul mio conto.

Assurdo come da un semplice gesto dipendessero un'infinità di cose.

«Dannazione, Thomàs!» sbottai e mi liberai bruscamente dalla sua presa.

Lui accennò una risata. Probabilmente si aspettava una mia reazione del genere, presto o tardi, perché non sembrò affatto sorpreso. «Che c'è che non va?» domandò, retorico.

«Me lo chiedi pure?!» urlai. «Ti avevo detto di smetterla!».

«E io ti avevo detto che volevo provare una cosa. Siamo pari».

«Che cosa?! Il tuo essere terribilmente e fastidiosamente idiota?».

«No» rispose, calmo. «Sei tra gli umani da così tanto tempo, Hazel, e ancora non hai capito le regole base».

Regole base. A mio parere, c'erano solo ed esclusivamente complicazioni, una dopo l'altra.
Non mi degnai di replicare in qualche modo poiché avrei di sicuro detto qualcosa di spropositato o cose che non mi erano di competenza. Scossi vigorosamente la testa e abbandonai il salotto.

Corsi su per le scale, attraversando rapidamente il corridoio e mi chiusi nella mia stanza, a chiave.
Nel giro di meno di un'ora ero riuscita ad allontanare da me la persona a cui tenevo di più al mondo e avvicinare quella che doveva essere tenuta distante. La parte peggiore era che avevo fatto tutto da sola e non potevo incolpare nessuno.
Ma gli umani come facevano a sopportare tutto ciò? Tale domanda mi assillava e ancora non avevo trovato una degna risposta. Dovevano tener testa a mille impulsi fisici, collegati alle proprie emozioni e... Come facevano a non combinare solo guai?
Forse ero io quella che non si sapeva comportare da umana. Forse ero io che non ero in grado di reggere un peso così grande.
E se non riuscivo a gestire qualcosa di – a dire degli altri – semplice e naturale, come potevo anche solo pensare di affrontare una battaglia, una guerra o quel che sarebbe successo di lì a poco?
Ero una causa persa e qualcosa, dentro di me, mi suggeriva che era solo l'inizio, che le cose sarebbero andate sempre peggio. Era ancora presto per andare a dormire, ma era ciò che desideravo di più in quel momento: chiudere gli occhi e dimenticare, abbandonandomi ai sogni. Lì, perlomeno, tutto aveva ancora un senso. Ma vedere solo nero era comunque una valida alternativa. Tutto, pur di non pensare.

Stranamente, riuscii a prendere sonno abbastanza presto e fui grata di ciò. Almeno per quella notte, stetti bene, seppur senza realtà parallele nelle quali crogiolarmi.
Tuttavia, quando riaprii gli occhi, ogni cosa tornò a premere su di me proprio come la sera prima. Lo fece per tutta la settimana che seguì. Parlai sempre meno, con chiunque, e iniziai a chiudermi in me stessa.

Pessimismo, dolore, distorta prospettiva del futuro. La definizione che mi diedi fu “depressa”.

Sì, ero dell'idea che la depressione mi avesse avvolto con uno spesso velo nero, con nessuna intenzione di lasciarmi andare.

Sapevo benissimo che avrei dovuto reagire, combattere, abbattere Tamara e cacciarla via dalla mia vita, per poi focalizzarmi su nemici di maggior calibro. Eppure, la consapevolezza di fallire solo provandoci riusciva a farmi perdere ogni minimo accenno di voglia di farcela.
Di solito, Martha mi avrebbe aiutato a riprendermi, ma, purtroppo, in quel periodo fu assente, presa dalle proprie sensazioni e dal crescendo di sentimenti per Thomàs che, nel frattempo, aveva ripreso a evitarmi.
Simon... Beh, il vecchio Simon sarebbe sicuramente corso da me, mi avrebbe sorriso e abbracciato, sussurrandomi che insieme avremmo sconfitto chiunque. Il nuovo Simon, soprattutto quello che frequentava assiduamente Tamara, era distante e quasi irriconoscibile; in più, mi riteneva una sorta di mostro che voleva tagliarlo fuori dal mondo e rinchiuderlo tra quattro mura.
Non potevo biasimarlo. Non conosceva la verità e io, dannazione, mi rifiutavo ancora di dirgliela, per chissà quale assurdo motivo. 

E avrei dovuto farlo.

Avrei dovuto rivelargli ogni cosa, considerando ciò che successe e mi distrusse, definitivamente.

 

Era notte fonda e non ero riuscita a prendere sonno, per cui fu facile percepire dei rumori provenienti da un'altra stanza. Dal corridoio, capii subito che si trattava di quella di Simon.
A piedi scalzi la raggiunsi e mi fermai sulla soglia della porta aperta. Lo vidi affannarsi, frettolosamente, per riporre tutta la sua poca roba dentro un borsone appoggiato sul letto.

Panico.

«Che stai facendo?» domandai con tono flebile, quasi avessi paura di emettere suono.

«Me ne vado» rispose, non fermandosi.

«Cosa? Dove?».

«Non ti interessa».

Trattenni il respiro e osai muovere qualche passo nella sua direzione. Lui stava ancora buttando roba a casaccio dentro quel borsone fin troppo grande, quando lo afferrai per un polso e lo costrinsi a interrompere ciò che stava facendo e a guardarmi. Ero pressapoco sicura che i miei occhi fossero diventati lucidi, ma per fortuna non piansi.

«E' per Tamara, vero?» esclamai. Simon tentennò, serrando la mascella. Aveva assunto un'espressione dura. Una simile l'avevo vista sul suo volto quando aveva trovato il finto diario, mesi e mesi prima.

«Sì, è per lei» replicò e distaccò la mia presa con uno strattone.

«Perché? Che cosa ti ha detto?».

«Cose. Cose che avresti dovuto dirmi tu e che invece hai tenuto nascoste per tutto questo tempo».

C'erano solo determinate “cose” di cui lo avevo tenuto all'oscuro, ma le visite di Tamara erano sempre state tenute sotto controllo e lei non aveva mai accennato nulla a riguardo.
Tuttavia, in quel momento il mio sguardo ricadde sulla finestra aperta e sulle tende mosse dal vento e... E allora capii. Nessuno mai aveva tenuto d'occhio Simon nella sua stanza e io mi sentii incredibilmente stupida a non aver preso in considerazione il fatto che Tamara potesse tranquillamente intrufolarsi nella sua camera e parlargli senza essere disturbata.

«Che cosa ti ha detto?» chiesi nuovamente.

Non ribatté subito. Fece una breve pausa che, nella mia testa, durò fin troppo tempo.

«Perché non ricordo niente di ciò che è stata la mia vita da quando sono nato?» disse, ponendo lui un'ulteriore domanda di cui, forse, sapeva già la risposta. «Perché non ti sei mai preoccupata di raccontarmi che cosa ha provocato la mia perdita di memoria? Dimmelo ora, Hazel. Ora che... Che conosco tutta la verità e non devi più proteggermi da essa».

«Simon...».

«Dimmelo, Divoratrice di Anime».

Gli aveva detto proprio tutto e io mi maledii ancora per aver esitato e per averla aiutata, di nuovo, a distruggermi. 
Mi morsi piano il labbro inferiore e percepii una lacrima scivolare lungo la mia guancia. «Tu sei morto» sussurrai «e sei... Sei tornato in vita, non so a causa di chi, ma lo hai fatto e...».

«Perché mi hai mentito?».

«Per proteggerti, Simon. Eri terrorizzato da tutto, come... Come potevo metterti di fronte ad una verità del genere senza farti impazzire?».

«E quindi continuare a mentirmi spudoratamente è stata una valida alternativa».

«Per tenerti al sicuro, sì, lo è stata».

«No, perché hai fallito. Io... Io non mi sento al sicuro qui. Non più».

«E allora, cosa? Scappi con Tamara? Se proprio ti ha detto tutto, ti avrà anche raccontato che è stata lei ad ucciderti».

«No. Ha detto che sei stata tu».

«E tu le credi».

«Per quanto ne so, tu mi hai sempre mentito e potresti benissimo rifarlo. Lei... Lei no».

Ero senza parole. Tamara aveva puntato su un lavaggio del cervello, curato nei minimi particolari, e con Simon era stato fin troppo facile, dato che non aveva elementi di confronto e ricordi su cui basare le proprie decisioni. Spiegargli che le mie menzogne erano state dette a fin di bene non avrebbe funzionato. Avrei voluto difendermi, spiegare che ciò che lei gli aveva detto era sbagliato, che avrebbe dovuto ascoltarmi, prima di prendere una decisione, ma in fondo sapevo che sarebbe stato inutile. Lui era totalmente dalla sua parte e, ai suoi occhi, io ero la cattiva della situazione.
Tamara era riuscita a cancellare anche quei pochi e nuovi momenti che avevamo trascorso insieme, trasformando Simon nel suo giocattolino, nella sua arma per abbattere me.

E, purtroppo, il suo piano stava funzionando alla grande.

Mi preoccupai, allora, della sua incolumità. Sebbene mi odiasse, allora, non voleva dire che io avrei fatto lo stesso. Mi passai una mano sul viso, per scacciare il pianto. «Ti ha detto anche del Creatore?» mormorai. «Di come non deve venire a sapere che sei vivo e...».

«Mi ha detto tutto. E mi proteggerà».

Mi venne quasi da ridere, istericamente. Volevo fermarlo, a quel punto anche contro la sua volontà, perché se fosse andato via con Tamara, ero pressapoco certa che lei, presto o tardi, lo avrebbe ucciso o consegnato direttamente al Creatore, per redenzione.
Eppure, quando Simon chiuse e afferrò il borsone, lo lasciai uscire dalla stanza senza muovermi. Rimasi immobile, con i pugni stretti lungo i fianchi e lo sguardo fisso nel vuoto.
Sentii il motore dell'auto di Tamara rombare fuori dalla finestra e poi, rapidamente, allontanarsi, lasciando solo un eco che, nella mia testa, si mescolava con la sua fastidiosa voce.

“Ti stai già spezzando, Hazel?”.

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Capitolo 15
*** Defeated. ***


Capitolo 15
"Defeated"


Ci sono sessanta secondi in un minuto, tremila e seicento in un'ora.
Li contai tutti, uno dopo l'altro, perché pensai che focalizzandomi su qualcosa che non fosse il disastro che mi stava attorno, lo avrei automaticamente rimosso dalla mia testa.
Funzionò, fin quando non arrivai a tremila e seicento-uno. Fu allora che smisi di contare ed ogni cosa tornò a travolgermi.

Fu peggio di prima.

Ero ancora in piedi nella stanza – ora vuota – di Simon. Dalla finestra aperta provenivano folate di vento gelido che mi facevano venire i brividi, ma non mi sforzai di andare a chiuderla. Era come se avessi sviluppato una sorta di apatia ed estraneità al mondo al di fuori e che niente potesse veramente scalfirmi a livello fisico. Semplicemente non mi importava. Ero sul punto di crollare. Avevo estremo bisogno che qualcuno raccogliesse i miei pezzi e li rimettesse insieme, che qualcuno mi confortasse, che qualcuno mi dicesse che ogni cosa si sarebbe sistemata, credendoci sul serio.

E invece non c'era nessuno. Simon se ne era andato, Martha era lontana anni luce.

Sì, mi stavo spezzando.

Abbandonai lentamente quel luogo, lasciando la porta spalancata. La casa era immersa nel silenzio, così in contrasto al caos che avevo dentro di me.
Le mie gambe erano pesanti, dovetti trascinarle lungo il corridoio.
Non seppi perché, dopo qualche secondo, mi ritrovai davanti alla stanza di Thomàs. Non volevo recarmi lì. La mia mente mi diceva che... No, la mia mente si era spenta del tutto, mi aveva abbandonata. Non ero più razionale, non ero più lucida. Ero allo sbaraglio.

 

Bussai piano alla porta. Lui ci mise un po' ad aprire: aveva ancora l'espressione assonnata quando lo fece. «Hazel?» biascicò. «Sono le... Quattro di notte. Che ci fai sveglia?».
Non risposi. Lo fissai e basta, immobile. Thomàs aggrottò le sopracciglia, perplesso. «Tutto bene?» domandò. Fu allora che persi completamente il controllo, sotto ogni punto di vista.
Mi gettai su di lui, posando un palmo sul suo collo e uno sul petto. La mia bocca finì sulla sua, lo baciai.

Lo baciai non perché lo volessi, ma perché ne avevo bisogno, pur consapevole di quanto fosse inaccettabile e del tutto scorretto nei suoi confronti. In quel momento, tuttavia, non mi importò.
Quando mi distaccai, avevo il fiatone per aver trattenuto il respiro durante quel gesto. Thomàs mi fissò, confuso e allo stesso tempo felice.
«Stringimi» mormorai e fu lui a baciarmi di nuovo, tirandomi dentro e chiudendo distrattamente la porta alle nostre spalle. Mi cinse i fianchi con entrambe le mani e, senza abbandonare le mie labbra, indietreggiò fino a quando non raggiunse il letto. Si sedette e fece mettere me a cavalcioni sulle sue gambe.

Le sue dita iniziarono a scorrere sulle mie cosce e piano si spinsero più su, sotto la t-shirt bianca che indossavo. Ero perfettamente consapevole di ciò che stava per accadere e, purtroppo per me, i sensi di colpa si erano dissolti, erano scappati via.
Me ne sarei pentita, avrei rimpianto quel giorno per sempre, eppure non ebbi l'impulso di fermarmi.

Non quando lui mi spogliò.

Non quando io spogliai lui.

Non quando mi sdraiai tra quelle lenzuola e respirai il suo odore.

Perché in quel momento concedermi a Thomàs sembrava essere la soluzione ad ogni mio problema. Per me, per dimenticare e per sentire qualcosa di diverso dal dolore lacerante che continuava ad opprimermi ogni secondo.

Le sue labbra vagavano lievi sul mio collo e sul mio petto, tra i seni. Respiravo a fatica, ancora, ma non avevo intenzione di chiedergli di fermarsi. Ogni parte del mio corpo stava formicolando, desiderosa, bruciata da quella che – per sentito dire – era passione.
Già, gli umani usavano spesso quella parola, anche se io non avevo mai avuto occasione di provare una sensazione così forte sulla mia pelle. Una delle conseguenze dell'apatia forzata: tutto era attutito e percepito in maniera eccessivamente minore rispetto al normale.
Socchiusi gli occhi, lasciandomi trasportare da ogni singolo fremito che mi stava pian piano avvolgendo. Quando li riaprii, il viso di Thomàs era tornato a livello del mio. Pregai affinché non proferisse parola. Sostenere il suo sguardo era un conto, ma se solo avesse parlato, mi avrebbe costretta a pensare e... Pensare non era affatto una buona idea, in quell'istante.
Così, per evitare ciò, premetti il mio viso contro il suo. Un altro bacio e poi un altro e un altro ancora. Le mie mani andarono fra i suoi capelli, glieli tirai e lui gemette appena. Dopo mi afferrò per i polsi e mi bloccò le braccia ai due lati della testa. Non opposi resistenza, nemmeno per un secondo: sarebbe stato stupido.
Mi abbandonai completamente a lui, ai suoi gesti a tratti lievi e a tratti rudi, al suo mordermi le labbra e sfiorarmi appena le guance.
La mia prima volta da umana fu ben diversa da come l'avevo immaginata. Ciò che provai fu diverso: puro piacere, misto a quell'accennato dolore che però era bello da sopportare. Strinsi i pugni e, involontariamente, mi conficcai le unghie nei palmi.

E dopo chiusi gli occhi.

 

***


Riuscii a dormire, per quanto ventidue minuti potessero essere attribuiti a tale verbo. Probabilmente fu il mio corpo, stremato, a decidere di concedermi quel poco tempo di riposo.

Quando mi svegliai, mi trovavo ancora nel letto di Thomàs. Un fine lenzuolo bianco mi ricopriva dal busto fino a metà coscia, lasciandomi spalle e gambe scoperte.
Lui era ancora assorto nel sonno. Sperai non si svegliasse, poiché non avrei avuto il coraggio di guardarlo negli occhi – perlomeno, non allo stesso modo – dopo le ore appena trascorse. In realtà, ero certa che non sarei riuscita neanche a fissare il mio riflesso allo specchio, come previsto.
Cercai di alzarmi senza produrre il minimo rumore, ma riuscii solamente a mettermi seduta sul materasso e toccare il pavimento con un solo piede che la voce di Thomàs mi fece sobbalzare.

«Stai cercando di sgattaiolare via?».

Feci una smorfia e mi sentii incredibilmente goffa. «No, io...» cercai di dire e lui mi aveva già raggiunto, in ginocchio dietro di me, con le mani sui miei fianchi e la bocca premuta sul mio collo.
Lentamente, le sue dita scivolarono più in su, fino al mio viso. Mi invitò a girare appena il capo, così da potermi baciare sulle labbra. Fu a quel punto che dovetti costringermi a distaccarlo e mi sforzai di non essere troppo brusca.

«Che c'è?» domandò Thomàs, ancora pericolosamente vicino alla mia faccia.

«Questo non...» balbettai. «Non farlo più».

«Perché?».

«Perché... Non voglio che tu ti sia fatto una strana idea e... E pensi che adesso siamo una coppia o qualcosa del... Del genere». Feci una breve pausa, solo per riprendere fiato. Era come se fossi in apnea, mentre parlavo. «Quello che è successo stanotte» aggiunsi «non si ripeterà».

Lui accennò una risata. Evidentemente, il mio balbettare aveva reso quel discorso esilarante. «Paura che il ragazzino ci abbia sentito?» esclamò. Roteai gli occhi, strisciando indietro sul materasso, con il solo scopo di allontanarmi il più possibile dal suo viso. «No» dissi. «Simon... Simon se ne è andato».
Dopo quella frase, Thomàs cambiò espressione. Non la riconobbi come rabbia o rancore. Era qualcosa di assolutamente indecifrabile, né triste, né felice, ed era quella che, più di tutte, riusciva a rendermi nervosa. Forse si era reso conto che ero andata da lui solo per consolazione e nulla più.
Conoscendo i suoi trascorsi, avrebbe potuto scattare e divenire quell'essere irriconoscibile che aveva attaccato Martha e... Sì, appunto, Martha.
Se solo avesse scoperto quel che era appena accaduto, sarebbe impazzita. Era come se l'avessi tradita in qualche modo.

«Mi dispiace» disse Thomàs, dopo qualche secondo. «Per... Simon». Aggrottai le sopracciglia, perplessa. «Perché? Tu lo odi».

«Non lo odio. E' solo che non nutro particolare simpatia nei suoi confronti».

Abbozzai una risata, priva d'entusiasmo. «Quale sarebbe la differenza?».

«C'è una sottile e significativa differenza tra le due cose» esclamò e si alzò dal letto rapidamente, indossando solo un paio di boxer bianchi. «Sinceramente, però, non mi va di spiegartela» aggiunse.
Feci per replicare, ma un suo gesto mi precedette. Sulle mie gambe ancora distese, semi-coperte dal lenzuolo, Thomàs poggiò la sua maglietta celeste e si allontanò con disinvoltura. «Questa cos'è?» domandai, retorica.

«La mia maglia» rispose, già dall'altra parte della stanza.

«E... Che dovrei farci?».

«Metterla».

La perplessità crebbe e avrei detto qualcosa, ma, ancora una volta, mi anticipò: «Oppure no. Non lo so, è abitudine. Tu fai quel che vuoi, io... Vado a fare una doccia».

Si congedò con quella frase, chiudendosi dentro al piccolo bagno della stanza. Io rimasi ferma, seduta sul materasso. Rigirai la t-shirt tra le mani. Per un solo attimo ebbi l'impulso di indossarla, ma sarebbe stato abbastanza sciocco. Era sciocco soprattutto rimanere in quella stanza.
Mi alzai, allora, e rapidamente raccattai i miei vestiti e me li misi addosso. Sperai di non aver fatto troppo rumore, anche se il getto d'acqua calda della doccia avrebbe dovuto attutire ogni cosa.
Corsi via dalla camera di Thomàs, rintanandomi nella mia, poco distante. Chiusi addirittura la porta a chiave, come se quella fosse una sorta di difesa da... Praticamente tutto.

Essere sola portò a galla tutti i pensieri della sera precedente, più ulteriori sensi di colpa, rimorsi e rimpianti che si erano ammutoliti e colsero l'occasione per tornare alla ribalta con prepotenza.

Avevo seriamente trascorso la notte – era solo qualche ora e per di più quasi al mattino, ma il concetto era quello – tra le braccia di Thomàs con la catastrofe che mi stava accadendo attorno?
Ero davvero stata così egoista da mettere il mio bisogno di consolazione e supporto di fronte a un bene esageratamente superiore? Di fronte all'amicizia di Martha e... E al mio amore per Simon. No, quello non era scomparso, nemmeno per un istante.
A volte, nel tempo appena trascorso, chiudevo gli occhi e, quando li riaprivo, speravo di vedere il suo volto e pregavo affinché tutto il resto fosse solo un brutto sogno.
La parte peggiore era che sentirmi in colpa aumentava i miei sensi di colpa, poiché pentendomi delle mie ultime azioni, ferivo inesorabilmente Thomàs.

Era un'arma a doppio taglio e io stavo continuando a guadagnare cicatrici.

 

Passai il resto della giornata chiusa nella mia camera, seduta sul davanzale della finestra. Fissavo fuori e mi aspettavo che, da un momento all'altro, avrei visto Simon tornare e, insieme, avremmo rimediato ad ogni cosa.
Non accadde nulla, ovviamente. Creai mille piani d'azione nella mia testa, come uscire, trovare Tamara e darle una lezione, ma da sola, lì fuori, sarei durata poco. Inoltre, non avevo la benché minima idea di dove cercarla e in che modo farlo. Per quanto ne sapevo, avrebbe potuto essere lontana solo un paio di chilometri o in un altro continente.
Presumevo anche che Thomàs bussasse insistentemente alla mia porta, chiedendo ciò che per giorni si era rifiutato di fare – parlare – ma ebbi di nuovo torto.

A fine giornata, a sole già calato da un pezzo, solo la fame mi costrinse ad abbandonare la mia stanza e a scendere al piano di sotto.
Controllai che il corridoio fosse libero – nemmeno fossi una ladra – e mi precipitai giù per le scale. L'idea era quella di prendere qualsiasi cosa avessi trovato e tornare di corsa al piano di sopra, di nuovo nella mia solitudine.
Tuttavia, giunta solo in salotto, ebbi la cattiva sensazione che qualcosa fosse fuori posto. Non seppi dire con certezza cosa e il buio in cui era immerso il luogo non aiutò.
Volevo accendere la luce, ma prima che la mia mano raggiungesse l'interruttore, mi sentii afferrare per le spalle, con forza. Qualcuno mi tirò e andai a finire, di peso, contro la parete opposta della stanza. Battei violentemente la spalla destra e trattenni a stento un urlo. Seppur intontita da quel dolore, tentai di rimettermi in piedi, ma non ci riuscii: chiunque mi avesse attaccato pochi secondi prima, mi aveva già raggiunto e fu pronto a stringere le dita sulla mia gola, sollevarmi e gettarmi nuovamente a terra, con maggior foga.
Allora urlai, sia perché mi stava facendo male, sia per implorare aiuto. Cercai di difendermi come meglio potevo, però il mio aggressore era più agile di me e molto più forte. Non potei evitare i pugni che mi colpirono il viso e i calci che mi martellarono lo stomaco, nemmeno strisciando sul pavimento per allontanarmi e scappare.
All'improvviso, però, essi cessarono. Non fu un bene poiché le mie gambe furono bloccate da quelle del nemico e io non potei più muovermi. Ero supina sulle assi di legno che costituivano il pavimento, sentivo il sangue colarmi dal naso e della bocca, gli occhi pizzicare ed ero a corto di fiato.
Se fossi morta in quel momento, sarebbe stato davvero un brutto modo di andarsene. E poi, per opera chi?
Chi mi aveva trovata? Come era riuscito ad entrare in quella casa così isolata e serrata? E, ancora, dove accidenti era Martha? O Thomàs? Erano scomparsi del tutto anche loro, senza che me ne accorgessi?
Non dovetti attendere molto prima di avere le giuste risposte e, sinceramente, avrei preferito tenermi i miei dubbi, piuttosto che scoprire quell'atroce verità.

Bastò poco: un lieve sussurro e gli ultimi pezzi di me si sgretolarono.

«Hai finito di esistere» fu la frase e seguirono dei lievi flash rossi nel buio della notte.

Martha.

La mia dolce, tenera, migliore amica Martha stava per porre fine alla mia lunga esistenza, come da lei appena annunciato.

Non stetti nemmeno a chiedermi il perché: la ragione era scontata e palese.

Sentii il suo urlo e improvvisamente la luce si accese. Vidi Martha a cavalcioni su di me, con un braccio alzato, brandendo uno di quei pugnali incantati che avevamo usato contro Sebastian.
Era irriconoscibile, con il volto contorto da una smorfia di rabbia e isterismo. Mi fissò, per un secondo, ad occhi spalancati, poi l'attenzione di entrambi fu catturata dalla presenza di una terza persona nella stanza. Fu facile indovinare chi fosse.
Thomàs era in piedi sulla soglia della porta del salotto, con le braccia a mezz'aria, leggermente protese verso di noi – o meglio, verso Martha, per incitarla a calmarsi.

«Che... Stai facendo, Martha?» le disse. «Fermati». Usò un tono piatto, rassicurante e lei tremò appena, stringendo più saldamente il manico del pugnale tra le dita.

Io lo sapevo benissimo cosa stava accadendo.

“Se l'amore può rendere un Divoratore più umano, cosa pensi possa fare la repulsione?”: era una frase che lei usava spesso.

La repulsione da parte di Thomàs l'aveva trasformata in un mostro cieco, non in grado di riconoscere i propri affetti. Avevo sperimentato quelle assurde sensazioni sulla mia pelle, mesi prima, ed ero addirittura arrivata ad uccidere.
Avevo sempre creduto che Martha fosse immune a tutto ciò, ma ancora non conoscevo Thomàs.
In quel momento avrei potuto tentare di liberarmi, ma il solo pensiero di combattere contro di lei mi provocava una fitta al cuore. Così rimasi inesorabilmente ferma, spostando lo sguardo sul viso di Martha, mentre i miei occhi si facevano lucidi.

«Non fare cose di cui potresti pentirti, d'accordo?» implorò Thomàs. «Metti giù quel pugnale». Martha scosse vigorosamente la testa e tornò a fissarmi. «Lui è mio» sibilò con voce spezzata.

«Mi dispiace» fu l'unica cosa che uscì dalla mia bocca, in un gemito, come se stessi soffocando. «Mi... Mi dispiace».

Le mie parole non la scalfirono, anzi: ebbi l'impressione che avessero solamente incrementato la sua collera, tanto che sollevò di più l'arma, preparandosi a colpire.

«No!» urlò Thomàs, il che la rallentò. «Non farlo» proseguì con tono più basso. «Per... Per favore, okay? Non farlo... Non... Lei è la tua migliore amica e tu lo sai. Sai che non vuoi farle del male».

«E' una traditrice!».

«No, non lo è».

«Merita di morire, doveva essere già morta». Era delirante. Quella non era la Martha che conoscevo. Persino la sua voce suonava diversa.

Io ero inerme. Quello era addirittura peggio del perderla e basta: il fatto che mi odiasse e che fossi io la causa del suo cambiamento così drastico rendeva ogni cosa insopportabile, al punto che, per un attimo, desiderai che mi uccidesse per davvero.
Buffo: da quando ero umana avevo bramato la morte un'infinità di volte che quasi non mi riconoscevo in quella convinzione nella quale mi rifugiavo da Divoratrice e cioè che la fine della vita prima del suo tempo fosse un crimine atroce.

«No, ascolta» disse ancora Thomàs. «Sei arrabbiata. Non sei tu a pensare queste cose, è solamente la rabbia. Tu non penseresti mai a qualcosa del genere, tu non sei... Non sei capace di azioni così orribili».

Martha tremò nuovamente. Non seppi dire se fosse sul punto di cedere o che altro. Di certo, però, lui agiva in qualche modo sul suo comportamento.
Le parlò, ma io smisi di ascoltare. Mi ero focalizzata sul viso della mia migliore amica, sul suo sguardo che passava da me a Thomàs in maniera talmente repentina da farmi girare la testa. Ad un tratto, tuttavia, ogni suono cessò. Ci fu silenzio per esattamente sedici secondi.
Poi Martha urlò e vidi la mano che impugnava la lama scendere rapidamente e con forza su di me.

L'istinto mi portò a chiudere gli occhi, come se mi preparassi a ricevere un colpo in pieno petto, quel colpo che mi avrebbe uccisa e mi avrebbe trascinato verso la morte.

Ma quando il silenzio tornò, non accadde nulla.

Sollevai le palpebre, col cuore che palpitava ad un ritmo eccessivamente accelerato.

Il pugnale era conficcato nel pavimento di legno, a pochi millimetri dalla mia guancia. Non mi aveva sfiorato, ma era pericolosamente vicino. Avevo il fiatone dopo aver trattenuto il respiro durante quel breve intervallo, complice l'ansia e la paura.

«Godetevi il vostro tempo insieme» sentenziò, acida, e, prima che qualcuno di noi potesse dire qualcosa, si dissolse nell'aria.

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Capitolo 16
*** Always know better. ***


Capitolo 16
"Always know better"



Non immaginavo che il corpo umano potesse contenere tutto quel sangue.
Certo, sapevo ne avesse parecchio, ma vederlo sparso su una lastra di cemento dava alla questione una diversa prospettiva.
Quel liquido rosso che ancora si propagava, colorando il grigio, apparteneva ad un ragazzo che si chiamava... In realtà non avevo idea di quale fosse il suo nome. Era il primo che mi era passato davanti, in quel parcheggio d'auto desolato della periferia di Chicago; non mi ero disturbata a prender nota dei suoi dati anagrafici. Lo guardavo, lì a terra, con lo sguardo spento e perso nel vuoto, sdraiato in maniera scomposta sull'asfalto.
Era un ragazzo carino, però: alto, moro, con gli occhi color cioccolato. A differenza del suo aspetto, la sua anima era qualcosa di estremamente tenebroso e, in condizioni normali, mi sarei addirittura rifiutata di nutrirmi di essa.

Ma in quel momento non mi importava. Ogni cosa aveva perso il suo senso logico.

Tu non mi ami. Non mi ami, perché non puoi. Non hai un'anima. L'amore è per gli umani e tu non lo sei”.

Quella parole così acide e taglienti mi rimbombarono in testa. Gridai, portandomi le mani alle tempie, e la mia voce riecheggiò in quell'enorme e vuoto luogo.
Stavo male. Stavo terribilmente male e non capivo perché.
Ero una Divoratrice, dannazione, per quale assurdo motivo sentivo dolore e rabbia crescere ogni secondo, sempre di più?

Mi piegai su me stessa, ritrovandomi in ginocchio a terra. Mi sporcai di sangue e mi accorsi di star piangendo, presumibilmente a causa del nervoso.
«Hazel». Riconobbi quel suono. Non dovetti nemmeno girarmi per capire che Martha mi aveva già trovato. Far perdere le mie tracce a lei era impossibile. «Va' via» sentenziai subito, ma, ovviamente, non mi diede retta. Me la ritrovai di fronte dopo mezzo secondo. «Torna a casa» sussurrò. «Troveremo una soluzione, okay? Te lo prometto».

«Non c'è nessuna soluzione».

«Sì che c'è. C'è sempre».

«NO! Non c'è». Mi alzai di scatto in piedi, digrignando i denti. «Lui crede che io sia un mostro. Crede... Crede che io lo abbia usato per tutto questo tempo».

«E noi sappiamo che non è così. Dobbiamo solo dimostrarlo».

«Non capisci? E' tutto inutile. Sebastian ha in mano le redini, lo sta... Lo sta manipolando e... E io ho perso, Martha. Io perdo sempre».

«Non hai ancora perso me». Sorrise in modo rassicurante, dopo quella frase. «E non accadrà mai. Però, adesso, ho bisogno che ti fidi e che mi permetti di risolvere tutto».

«Come?».

«Lascia fare a me». Si guardò attorno, serrando la mascella. «Tu ripulisci questo casino». Si congedò in quel modo e, poco dopo, fui di nuovo sola.

 

***


I ricordi sono micidiali. 
Hanno il potere di riportare alla memoria bei momenti in istanti del tutto inopportuni.

Ero seduta sul divano del salotto di casa, devastato e messo a soqquadro. Il mio corpo aveva già cominciato a riempirsi di lividi, riuscivo a stento a tenere l'occhio destro aperto e il labbro inferiore continuava a pizzicarmi.
Oltre al male fisico, ero costretta a sorbirmi i cattivi scherzi della mia mente che mi torturava con immagini sbiadite del tempo passato con Martha, quando lei “trovava sempre una soluzione”.
Avrei davvero voluto che l'avesse fatto anche in quel caso e che non fosse semplicemente scattata, perdendo la ragione.
Io ci ero passata attraverso quelle strane e assurde sensazioni; sapevo bene quando fosse difficile tenerle a bada e combatterle. Era arduo, al limite del possibile e, sebbene lei fosse forte, dubitavo che potesse farcela senza l'aiuto di qualcuno.
La parte peggiore era che io non potevo donarle il mio appoggio ed ero convinta che se solo avessi provato ad avvicinarmi a lei in breve tempo, non sarei stata tanto fortunata da sopravvivere nuovamente.

 

«La cassetta del pronto soccorso non è tanto attrezzata, ma possiamo arrangiarci». Thomàs tornò nella stanza reggendo una scatola bianca di metallo tra le mani. La poggiò sul cuscino al mio fianco e mi si inginocchiò davanti. Trafficò con garze e disinfettante – che mi fece venire la nausea – e iniziò a tamponarmi il labbro spaccato. Bruciò, ovviamente, e non potei trattenere un lieve lamento. «Scusa» sussurrò lui. «Non fa niente» replicai, distratta.
Thomàs continuò a medicare le mie ferite con una serie di gesti delicati e premurosi che normalmente non gli sarebbero appartenuti. Mi ritrovai a prendere in considerazione il fatto che se non fosse stato lì poco prima, sarei sicuramente morta.

«Quello che ha detto Martha...» disse Thomàs ad un tratto. «Non lo intendeva veramente. Era arrabbiata e...».

Dovetti interromperlo: «Intendeva ogni cosa».

«No, non è così. So per certo che...».

«E' innamorata di te». Spezzai ancora la sua frase e mi aspettavo una reazione sorpresa. Invece, non accade nulla del genere, anzi, tutto il contrario. «Lo so» mormorò. «L'ho sempre saputo».

Ero confusa. «Perché non glielo hai mai detto?».

Lui sospirò, mettendo da parte le garze sporche. Distolse solo per un attimo lo sguardo dal mio viso e poi tornò a fissarmi. «Perché esistono due tipi di amori» esclamò. «Quello corrisposto e quello non corrisposto». Fece una breve pausa, forse per farmi capire a quale categoria appartenesse il suo e continuò: «Io voglio bene a Martha, ma tra noi non potrà mai esserci qualcosa che va aldilà dell'amicizia o dell'affetto fraterno».

«E allora perché non hai messo subito in chiaro le cose?».

«Perché so come funziona un sentimento del genere per i Divoratori. So che... L'idea dell'amore per qualcuno può essere un punto fisso e di salvezza. E... E per anni lo sono stato. Sono stato la sua costante, ho rappresentato la sua umanità. Glielo dovevo».

«E poi hai smesso».

«No. Poi sei arrivata tu».

Non replicai subito. Serrai la mascella e trattenni il fiato. Per un attimo, desiderai non essere divenuta umana. C'erano tante ragioni per cui lo feci e Thomàs era tra quelle. «Sono arrivata io e ho smontato tutto» commentai, allora.

«Niente del genere» replicò «ma hai di certo scombussolato un po' le cose».

Mi venne quasi da ridere, sebbene in quel momento non fosse propriamente opportuno.
Era una situazione assurda e mai avrei immaginato di esserci catapultata dentro. La mia era stata una costante ricerca d'affetto di umani che riuscissero a scatenare in me nuove sensazioni e adesso... Adesso ne avevo fin troppo e da chi io non desideravo. Da chi era semplicemente sbagliato.
Dovetti trattenermi, anche perché se avessi solo accennato un sorriso, il mio labbro inferiore avrebbe ripreso presto a sanguinare.

Scossi solo la testa, stringendomi nelle spalle e cambiai forzatamente argomento.
Forse non era l'occasione giusta per parlare di sentimenti o affini, ma lo era per discutere di qualcosa che lui aveva sempre evitato e io volevo ancora sapere.

«Me lo vuoi dire adesso cosa ti ha fatto scattare quel giorno?» mormorai. Thomàs tentennò. Tuttavia, sembrava esser più propenso a confidarmi ogni cosa rispetto alle altre volte, dove preferiva il silenzio a qualsivoglia risposta.

«Dipende da quello che sono» disse, a bassa voce.

«Che cosa sei?».

«Un Djinn».

«Un cosa?».

Lui abbozzò una risata. Evidentemente, avevo assunto un'espressione esilarante dal suo punto di vista. «E' una creatura soprannaturale» spiegò «anche se io non lo sono al cento per cento. Sono metà umano; un ibrido, in pratica».

«Ed è questo che ogni tanto ti fa impazzire?».

«Diciamo di sì. I Djinn sono perennemente circondati dall'oscurità. Il loro principale potere, oltre ad una serie di altri, è esaudire i desideri delle persone e poi ucciderle tramite essi. Insomma, ti portano in alto e dopo ti lasciano cadere. Solitamente, si nasce Djinn e si inizia ad uccidere prima ancora di imparare a parlare, perché l'oscurità fa il suo ingresso in tempi molto brevi. Per me... Per me la storia è diversa, dato che la mia percentuale di umanità è più elevata. Loro non hanno possibilità di scelta: sono quel che sono e fanno ciò che devono... Io no. Compiuti i diciotto anni, ho potuto decidere quale destino fosse meglio per me: se diventare un Djinn a tutti gli effetti o continuare la mia vita così com'è, mantenendo alcune abilità».

«Cioè scegliere tra l'essere immortale e l'essere mortale?».

«Già. Ma preferisco vivere un tempo determinato, seppur lottando contro me stesso e contro l'oscurità che cerca di attirarmi a sé, piuttosto che all'infinito, costretto a ferire gente che non ha fatto nulla».

«Quindi... Vai fuori di testa perché sei metà Djinn, ma... Sei anche umano. C'è qualcosa che ti fa reagire in modo spropositato o sbaglio?».

«Quello non... Non succede spesso. Di solito accade quando penso troppo o... O sono arrabbiato. L'oscurità cerca di avvolgermi completamente, in quei casi».

«E quel giorno pensavi troppo o eri arrabbiato?».

«Entrambi».

«A cosa pensavi?».

«Sicura di volerlo sapere?».

«L'ho chiesto».

Thomàs esitò prima di rispondere e nel mentre abbozzò un sorriso. «Stavo pensando a te» disse, con scioltezza.

La doveva smettere di fare così. Dove era finito quel ragazzo che mi prendeva in giro per ogni cosa e faceva sarcasmo su tutte le mie azioni? Lo preferivo di gran lunga scontroso che così... Così... Così lontanamente dolce. Anche perché non me lo meritavo, non dopo quello che era appena successo.

Avrei voluto dirgli qualcosa a riguardo, ma dalla mia bocca non uscì niente di concreto, forse perché il mio inconscio sentì il bisogno di ricevere quelle determinate attenzioni, seppur dalla persona sbagliata.

«Dovresti preparare la tua roba» disse ad un tratto Thomàs e lo vidi alzarsi in piedi.

«Perché?» domandai. Volevo imitarlo, ma una fitta al fianco destro me lo impedì. Dovetti restare ferma e respirare a fondo.

«Perché Tamara ha Simon – cosa che ho dovuto intuire, dato che non sei amante delle spiegazioni lunghe e complete» replicò «e Martha è là fuori, sull'orlo della pazzia, e potrebbe fare cose indicibili, come chiamare Sebastian, farsi condurre dal Creatore e spifferare tutto. Qui non è più sicuro».

Su quello aveva ragione e dovetti annuire per dimostrare il mio consenso.

Mi alzai, poco dopo, facendo una smorfia a causa del dolore che mi assillava in ogni parte del corpo. Mossi qualche passo verso le scale e le raggiunsi in un arco di tempo almeno tre volte superiore al solito.
Avevo salito solo un gradino, quando fui bloccata da Thomàs, che mi tenne per un braccio e mi costrinse a voltarmi. Appena lo feci, lui poggiò le labbra sulle mie e una mano sul mio collo. Il calore della sua pelle riuscì a tranquillizzarmi almeno per quell'istante.
Il bacio durò solo qualche secondo, poi lui si distaccò, rimanendo comunque abbastanza vicino al mio volto. «Ti avevo detto di non farlo più» biascicai.

«Già» replicò «e io non sono un tipo che prende ordini». Sorrise e indietreggiò appena. «Vado a preparare la macchina».

Si congedò in quel modo e uscì di casa, chiudendosi lentamente la porta alle spalle.

Rimasi ferma sulle scale, immobile per qualche secondo prima di salire al piano di sopra. Ovviamente, riuscii a raggiungerlo in un periodo abbastanza lungo.
Non avevo molti dei miei effetti personali lì. In realtà, non ne avevo mai avuti, a parte il mio diario. Misi quello e alcuni vestiti dentro un borsone fin troppo grande e indossai qualcosa di pesante per quel viaggio senza meta che stavamo per intraprendere. Non ero ancora sicura che quella fosse una saggia decisione. Non l'andar via, ovviamente: era d'obbligo andarsene. Piuttosto, avevo dubbi sul rimanere con Thomàs.
Era come se ogni volta che il mio sguardo incrociava il suo, io tradissi nuovamente Martha. Se lui si avvicinava, poi, e mi sfiorava, la cosa era addirittura peggiore perché, in tal caso, si aggiungevano i sensi di colpa per Simon e per me stessa. Tuttavia, Thomàs era l'unica persona che mi rimaneva. Sarei stata sola, altrimenti.

Non potevo cacciarlo.

Non volevo cacciarlo.

Dovevo solo imparare a gestirlo e a tener a freno le sue azioni prive di razionalità e guidate solo dagli impulsi. Ne ero in grado.

Forse.

 

***

 

Di notte, le strade erano deserte. Non che durante il giorno la cosa fosse diversa, soprattutto in quelle zone. L'asfalto era ricoperto da residui di neve e ghiaccio e, per tal motivo, dovemmo procedere molto più lentamente del previsto, onde evitare che l'auto slittasse e finisse fuori dalla carreggiata. Faceva incredibilmente freddo e il riscaldamento della macchina non riusciva a tenermi sufficientemente al caldo.
Mi strinsi nella spessa felpa che indossavo e mi rannicchiai su me stessa, sul sedile passeggero anteriore. Thomàs era molto attento nella guida. Spesso lo vedevo strizzare gli occhi col fine di osservare meglio i segnali stradali e, più frequentemente, pulire il vetro con una mano per renderlo più nitido.
Avrei voluto dormire, ma purtroppo il gelo mi impediva di farlo. Lui, invece, non sembrava esserne troppo toccato.

«Quali altri poteri hai?» domandai, allora. Se non potevo chiudere gli occhi e lasciarmi trasportare dalla beatitudine del sonno, avrei sfruttato quel suo momento di assoluta disponibilità a parlare per soddisfare ogni mia curiosità.

«Niente di così particolare» rispose, distrattamente, non guardandomi neppure.

Temetti avesse abbassato già le sue difese e avesse ripreso ad essere ermetico riguardo se stesso.

«Hai cacciato via Tamara quando ci ha attaccato la prima volta» esclamai. «Come hai fatto?».

«Vuoi davvero sapere troppe cose».

«Sto solo cercando di capire. Ho appena scoperto che sei metà Djinn, ma sei anche umano e... E inoltre sei un Cacciatore. Potrei essere un po' confusa nei tuoi riguardi».

Alle mia parole, Thomàs abbozzò una risata e solo allora si voltò verso di me, rivolgendomi un rapido sguardo. Poi tornò a fissare la strada davanti a noi.

«Non so esattamente come funzioni» disse «ma c'è qualcosa dentro di me che riesce a respingere qualsiasi creatura sovrannaturale. Le spedisce e le intrappola alle soglie degli Inferi, ovviamente in maniera del tutto provvisoria, giusto il tempo per loro di trovare una via di fuga. Non è granché, ma ti permette di guadagnare tempo».

«E' qualcosa di... Davvero grosso».

«Già. Ma richiede molta energia e... Diciamo che non è un potere che posso usare spesso».

«Lo hai usato per salvarmi».

«E' stata un'ottima ragione».

No, la sua disponibilità non era affatto svanita.

Parlammo ancora durante quel viaggio, ma a parte cose di cui ero già a conoscenza, non scoprii nient'altro.
Di una cosa, però, ero certa: potevo fidarmi di lui, nonostante fosse un Djinn, un Cacciatore e chissà che altro. Mi sentivo stranamente al sicuro con Thomàs.
Era un ragazzo speciale, sotto certi punti di vista, e io potevo solo immaginare cosa significasse combattere ogni secondo della propria vita contro se stessi e contro quell'oscurità di cui mi aveva parlato.

Quando ero una Divoratrice, odiavo la mia natura. Era un po' la stessa cosa, forse, e lo ammiravo per aver resistito così a lungo, per aver scelto la via più difficile, pur di non essere semplicemente cattivo e vivere per sempre.
Non era una cosa da tutti. Qualcun altro si sarebbe abbandonato a tale oscurità e ne avrebbe addirittura tratto benefici. Thomàs no ed era ammirevole.


***

 

I giorni passarono, mi scivolarono addosso, pesanti, incostanti. Continuavamo a muoverci senza meta, dormendo in un posto diverso ogni notte. Ero abbastanza stanca di quella situazione.
Eravamo immersi nell'incertezza – non che fosse una novità – e a me mancavano Simon e Martha.
A volte nemmeno riuscivo a respirare pensando a loro.
Per quel che ne sapevo, Simon avrebbe potuto essere già morto o sotto tortura, in qualche luogo remoto e la sola idea di non poter fare nulla per aiutarlo mi provocava una fitta al petto. Volevo salvarlo, ma non avevo i mezzi per farlo.
Martha, poi, era un caso a parte. Era... Irrecuperabile. Forse Thomàs avrebbe dovuto provare a cercarla e a parlarci, ma se c'era una cosa che lei sapeva fare bene era sparire. Magari, aveva addirittura cambiato aspetto per non farsi riconoscere.
Io portavo ancora addosso il ciondolo che avevo donato a Simon, mesi prima, quello utile a rilevare la presenza di un Divoratore nei paraggi e non avevo mai avuto l'occasione per restituirglielo. Da un lato, ne fui grata: un pezzo di lui mi era costantemente addosso. Fino a quel momento, però, non si era illuminato una singola volta.

Lo stringevo tra le dita anche quella notte.
Era tardi – o molto presto, dipendeva dai punti di vista – e Thomàs dormiva da un pezzo nel letto proprio accanto a me. Io non riuscivo a prendere sonno, da tempo ormai. Riposavo solo qualche ora all'avvicinarsi dell'alba. Considerata l'ora, mancava ancora parecchio allo spuntar del sole.
Il motel dove alloggiavamo non era certamente di lusso, anzi, era piuttosto decadente, ma con i pochi risparmi di Thomàs non potevamo permetterci di meglio.
Andava bene anche così: non mi importava granché del luogo dove eravamo, tanto lo avremmo abbandonato presto e mai più rivisto.

Decisi di fare l'unica cosa che mi avrebbe aiutato a dormire: mangiare. Il cibo mi era sempre di grande aiuto e potevo rimpinzarmi finché volevo e non metter su nemmeno un chilo.
Thomàs mi aveva spiegato che dipendeva dal metabolismo, per gli umani, e il mio era piuttosto veloce. Ringraziai metaforicamente qualcuno per quello: se avessi dovuto pensare anche ad una dieta, oltre a tutti i miei altri problemi – ed erano tanti – sarei davvero impazzita.
Cercai di fare il meno rumore possibile, mentre indossavo qualcosa di pesante e uscivo dalla stanza per raggiungere il distributore automatico del motel. Non c'era molta scelta, optai per il pacchetto di patatine più economico.
Aspettavo che il prodotto scendesse nel cestino trasparente sottostante, quando una voce femminile mi fece sobbalzare: «Freaky Fries. Sono le mie preferite».
Alzai rapidamente lo sguardo e mi ritrovai accanto una ragazza molto più alta di me – forse a causa degli alti tacchi che portava – i capelli castano scuro e due occhi con delle sfumature verdi e marroni, a mio parere bellissimi. Mi fissava con un mezzo sorriso stampato in faccia e con il capo inclinato di lato.

«Uhm. Già, sono molto... Buone» replicai, perplessa.

«Lo sono davvero. Hai buon gusto».

Normalmente, mi sarei fatta mille dubbi su cosa ci facesse una ragazza tutta sola, a quell'ora di notte nei pressi di un motel pressapoco abbandonato, ma durante quel periodo avevo imparato un paio di cose sulla parte degli umani meno inclini alla gentilezza, ossia, spesso uomini sposati portavano in quei luoghi le loro amanti – o non amanti – giusto per fare i loro comodi.
Tuttavia, chiunque fosse quella ragazza, mi mise a disagio, un po' perché continuava a sorridere in maniera quasi terrificante, un po' perché... Beh, lo faceva e basta.
Era meglio tornare in camera subito. Recuperai il mio pacchetto di patatine, sforzai le mie labbra per piegarsi all'insù e in quel modo mi congedai. Perlomeno, cercai di farlo.
Una volta superata, la sua voce mi fermò e sobbalzai nuovamente: «Te ne vai così presto, Hazel?».

Conosceva il mio nome e questo bastò per allarmarmi. Sbirciai distrattamente il mio ciondolo, nascosto da giacca e felpa e... Si era illuminato.

Dannazione, perché non ci avevo anche solo pensato prima?

Nel giro di qualche secondo, nella mia testa passarono serie di idee e ipotesi su chi quella Divoratrice fosse.
Lavorava col Creatore? Oppure con Tamara? O peggio, quella era Martha che aveva cambiato aspetto? Da umana, non potevo riconoscerla.
Mi voltai lentamente. Avevo il fiatone, ero nel panico, avrei voluto urlare e chiamare Thomàs affinché la cacciasse via, perché sì, mi sentivo incredibilmente impotente e vulnerabile e debole.

«Come...» balbettai. Non riuscii a completare la frase. Lei allargò il sorriso e fece un passo nella mia direzione, facendo picchiettare gli alti tacchi neri che portava. «Come faccio a sapere il tuo nome?» disse. «Beh, una madre conosce sempre i nomi dei propri figli».

Non ci potevo credere.

Spalancai gli occhi. «Tu sei la Creatrice» sussurrai. Ero al suo cospetto per la prima volta nella mia esistenza il che rendeva ogni cosa ancora più pericolosa. Lei era più spietata del Creatore stesso e avrebbe potuto farmi fuori in un battito di ciglia.

Perché era quello che voleva, vero? Se no, che altro?

«Già» esclamò lei. «Anche se non è propriamente un nome, non credi? Ne ho trovato uno incredibilmente carino. Che ne dici di Juliet?».

Non risposi. Ero del tutto immobile, paralizzata dalla testa ai piedi.

«Non aver paura, tesoro» disse ancora. «Non ho nessuna intenzione di ucciderti. Lo avrei già fatto, se lo avessi voluto».

Deglutii a forza, avevo la gola improvvisamente secca. «Che cosa vuoi, allora?» chiesi, con un filo di voce.

«Te».

«Me?».

«Nessuno ti ha informato di niente, vero?». Sbuffò, incrociando le braccia sul petto. «Tipico. Quel gran frignone di tuo padre vuole sempre fare le cose con ordine, ma si dimentica di informare chi di dovere».

«Informarmi di cosa?».

«Non lo sai?». In quella domanda scorsi un riflesso retorico. La Creatrice – Juliet, come voleva essere chiamata – alzò un sopracciglio, in attesa. Io, ovviamente, non replicai e lei continuò: «Sta per scoppiare una guerra e tu, mia cara, sei l'arma segreta a cui tutti ambiscono».

La guardai, confusa. Per quale accidenti di motivo io dovevo essere qualcosa? Prima una Cercatrice, adesso questa fantomatica arma segreta.
Juliet abbozzò una risata. Forse si aspettava quella mia reazione. «Riportando vostro padre sulla Terra, avete alzato un grosso polverone» disse ancora «e avete fatto riaffiorare cose di cui credevo di essermi liberata. Invece no, eccoci qui, dopo mille e mille anni, al punto di partenza. Io e il vostro Creatore non possiamo coesistere su questo pianeta. Uno dei due deve marcire agli Inferi e credo sia abbastanza scontato che sia lui a farlo».

«E io cosa c'entro?».

«Tu... Tu sei quella che ha trovato la sua Chiave e ha aperto le porte della sua prigione, il che fa di te la potenziale causa di successo di uno e fallimento dell'altro. Capisci bene che chi ti ha dalla sua parte, è aldilà della metà dell'opera».

La mia espressione passò dallo stupore al disgusto verso quella che un tempo era la mia razza. 
Apatici. Quello andava oltre l'apatia, era pura avidità.

«E perché credi che mi schiererò dalla tua parte?» osai domandare.

«Beh, perché mi devi un favore».

«Quale favore ti dovrei?».

Sorrise più apertamente e iniziai a pensare che la sua faccia fosse bloccata in quella smorfia tanto fastidiosa. «Ho riportato da te il ragazzino» disse. «Simon, giusto?».

Tutta quella serie di informazioni in meno di dieci minuti rischiò di farmi scoppiare la testa. Avevo passato mesi a chiedermi chi avesse così tanto potere da trattare con la morte, quando la risposta era addirittura scontata e palese.
Avevo anche giurato che avrei ringraziato chiunque ne fosse l'artefice, ma, in quel momento, non riuscii ad essere grata alla Creatrice.

«Non è qualcosa che ti è riuscito bene» esclamai, allora, con un briciolo d'acidità.

«Dici per la questione della sua memoria? Incidente di percorso».

«A te nemmeno importa di lui».

«A me non importa di nessuno. A te, però, sì».

«Quindi dovrei accettare di schierarmi dalla tua parte in questa guerra assolutamente priva di senso solo perché ti devo qualcosa?».

«Puoi anche non restituire il favore, Hazel, ma, in quel caso, dovrei rispedire il tuo giocattolino lì dove l'ho trovato. Credimi, non è un bel posto».

Serrai la mascella. Quello era un ricatto bello e buono. Avrei tanto voluto prenderla a pugni, ma non avrei avuto nessuna possibilità contro un normale Divoratore, figuriamoci contro la Creatrice in persona.

«Ti do tempo per pensarci» disse, senza attendere una mia ulteriore replica. «Quando sarai pronta a unirti a me, saprò come trovarti. A presto, figliola».

Le sue ultime parole furono solamente un eco nell'aria.

Avevo i brividi ed ero pressapoco sicura che non fossero causati esclusivamente dal freddo.
Lasciai cadere il sacchetto ancora pieno a terra e dopo corsi in camera, chiudendo la porta a chiave. Chiusi e riaprii più volte gli occhi, pregando con tutta me stessa che tutto ciò fosse solo un brutto sogno.
Purtroppo per me, ogni cosa era tremendamente vera.

Una guerra era all'orizzonte e io ne sarei stata coinvolta, volente o meno.

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Capitolo 17
*** Save yourself, save myself. ***


Capitolo 17
"Save yourself, save myself"


Giorno 30.
E' un conteggio che non avrei mai voluto iniziare, non di nuovo, ma... E' il tempo trascorso da quando Simon se ne è andato. Ventinove, invece, sono i giorni passati dalla scomparsa di Martha – non che la differenza sia molta.
Continuo a sentire questo vuoto dentro di me che solo loro potrebbero colmare. Ho provato a chiedere a Thomàs di aiutarmi a cercarli, ma riesce sempre a raggirare il discorso. Dice che è pericoloso e, in effetti, lo è davvero.
Non gli ho ancora rivelato nulla della Creatrice e del suo ricatto. Risulta protettivo già così, se solo aggiungessi un nuovo fattore, diverrebbe praticamente la mia ombra. Non che mi dispiaccia: la sua compagnia è l'unica cosa che mi è rimasta, ma, a volte, ho bisogno di rimanere da sola con i miei pensieri, per quanto orribili siano.

Non so cosa farò.

La Creatrice mi ha lasciato un patetico biglietto da visita, con su indicate le coordinate del luogo in cui dovrei recarmi una volta arresa al suo ultimatum. E' evidente che senza un mio cenno, nessuna battaglia può cominciare e ancora non mi spiego come un peso così grande possa gravare sulle mie spalle.
A me non va di portarlo.

Vorrei solo trascorrere la vita che ho adesso, da umana, ed essere felice. E' il desiderio di tutti, del resto. 
E invece no, a me non è concesso. Sono triste e arrabbiata allo stesso tempo.

Sto esitando.

Qualcosa dentro di me mi suggerisce che la Creatrice non farà nulla a Simon finché non avrà il mio appoggio e lo proteggerà sia dal Creatore sia dall'insopportabile Tamara. Però, nulla mi assicura che, una volta schieratami dalla sua parte, lei mantenga la sua promessa di far vivere Simon.
Oppure potrebbe semplicemente scocciarsi di aspettarmi e ucciderlo prima del tempo. Ne sarebbe assolutamente capace.
Sono dubbi che non riuscirò mai a togliermi dalla testa e rimarranno tali finché non prenderò una decisione.
E' tutto troppo complicato per me.

 

Chiusi di getto il mio diario e strizzai gli occhi. Senza che nemmeno me ne accorgessi, avevo iniziato a piangere. Succedeva un po' troppo spesso in quell'ultimo periodo.

Mi trovavo nell'ennesimo motel degli Stati Uniti, sperduto su chissà quale strada del paese. Era buio, mezzanotte passata, ma non avevo sonno. Mi ero abituata ad orari strani che mi portavano a dormire durante il giorno, in auto, e a stare sveglia la notte.

Mi alzai dalla scrivania sulla quale mi ero appoggiata per scrivere e mossi qualche passo nella stanza. Era probabilmente la migliore in cui ci eravamo mai fermati, con le pareti intonacate e non del tutto scrostate e le lenzuola dei letto profumavano di lavanda.
Ovviamente, avremmo abbandonato presto anche quel posto e di sicuro sarebbe stato l'unico motel che avrei rimpianto lasciare.

«Questa tavola calda è fenomenale». Thomàs rientrò in quel momento in camera, con in mano due sacchetti bianchi e un sorriso stampato in faccia. Sorrideva sempre in quei giorni, forse per infondere un briciolo d'entusiasmo e positività anche a me. Il problema era che la mia indole pessimista era troppo forte per essere abbattuta con un solo sorriso. «Puoi farti fare un panino imbottito di qualsiasi cosa. Ho fatto mettere quintali di senape nel mio» continuò, chiudendosi la porta alle spalle. Mi sforzai di curvare le labbra all'insù, almeno per mezzo secondo, ma quello che uscì fuori fu più che altro una smorfia priva di senso.
Thomàs se ne accorse. Era diventato più empatico di quanto non lo fosse prima. Posò la nostra cena sulla scrivania e si avvicinò lentamente a me, con le mani poggiate sui fianchi. «Che hai?» domandò.

«Faresti prima a chiedermi cosa non ho».

«Cattivi pensieri?».

«E' tutto cattivo». Scossi appena la testa. «Non lo so, io... Che stiamo facendo? Scappiamo? Scappiamo per sempre? Non... Che senso ha tutto questo?».

«Serve per restare vivi» replicò lui, serio. «Dobbiamo scappare finché non troviamo un modo per liberarci dalla minaccia del Creatore una volta per tutte e poi staremo bene».

Diceva quelle cose perché non sapeva tutta la verità e, ancora una volta, come sempre, mi rifiutai di dirgliela.
Avrei dovuto sapere che tenere segreti di quel genere non portava a nullo di buono, ma non riuscii a tirar fuori le giuste parole per rivelargli tutto. Semplicemente, non potevo perché avrei rischiato di mettere in pericolo anche lui.
In risposta, dunque, non dissi più. Sospirai e basta e, a quel punto, Thomàs si sporse verso di me e mi strinse in un abbraccio. Posai la testa sul suo petto e chiusi gli occhi.
Probabilmente, fu in quell'istante che qualcosa mi balenò in testa e mi spinse a prendere una decisione irrevocabile.
Era quello il punto: io non volevo che le persone venissero ferite per colpa mia. Non era giusto. Se io avevo commesso errori, se tutto era iniziato per colpa mia, allora dovevo essere io a metter fine ad ogni cosa.

Non c'erano modi differenti per portare a termine quella follia.

C'ero solo io.

***

 

Caro Thomàs,

probabilmente quando leggerai queste righe, inizierai ad odiarmi o qualcosa del genere.
Mi hai sempre ritenuta non amante delle spiegazioni lunghe e dettagliate... E la realtà è che non sono brava con le parole. Perlomeno, non quando si tratta di un faccia a faccia.
Scrivere, in questo caso, risulta più facile.
Da Divoratrice sarebbe stato diverso: ti avrei raccontato tutto, sarei stata più spigliata. L'umanità mi ha cambiata sotto tanti aspetti e il non essere più estroversa è tra quelli.

Qualche giorno fa, è successa una cosa. La Creatrice mi ha trovata – non chiedermi come, lo ha fatto e basta. Mi ha rivelato molto, ma mi ha anche lanciato un ultimatum.
Sta per scoppiare una guerra tra lei e il Creatore e io, mio malgrado, ne sono un tassello fondamentale. Non vorrei combattere, ma se non mi schiero dalla sua parte, ucciderà Simon – è lei l'artefice del suo ritorno alla vita.
E' qualcosa che non posso permettere. Non voglio che muoia di nuovo per colpa mia, non è giusto. Così, ho deciso di accettare, di prendere parte a questo grande casino, con la speranza che tutto cessi, una volta per tutte. E mi dispiace se non ho avuto il coraggio di dirti ogni cosa, ma so come sei fatto e saresti impazzito pur di trovare una soluzione che non c'è e io nemmeno voglio che provi a cercare.
Ho perso molte persone nel corso della mia lunga esistenza e se essa dovesse finire – come so che accadrà – vorrei essere certa che coloro a cui tengo più di me stessa siano al sicuro... E tu fai parte di questo gruppo.
Mi sei stato vicino quando non avevo più nessuno e la mia gratitudine non sarà mai abbastanza. E' per questo che non voglio che tu sia coinvolto in qualcosa che ti è del tutto estraneo.
Voglio che tu trascorra una lunga e felice vita da mortale, come hai scelto di fare e come meriti.

So che accadrà.

Per favore, non tentare di seguirmi o fermarmi.

Non è un mio desiderio quello di venire salvata.

Se puoi, invece, perdonami.

 

 

Hazel.

 


Stavo piangendo. Ancora.
Come non farlo quando si sta percorrendo un lungo e infinito cammino verso la propria morte?
Quando mi ero consegnata a Sebastian, mesi prima, non era stato così intenso, forse perché la mia apatia era presente ed oscurava quella paura angosciante della fine della propria esistenza.

Dovevo raggiungere quel maledetto posto. Non distava molto dall'ultimo motel in cui ci eravamo rifugiati, sebbene fosse pressoché impossibile arrivarci a piedi.
Fui costretta a rubare la macchina di Thomàs per andarci e mi ritrovai su una strada poco illuminata, procedendo lentamente sia perché non volevo affrettare troppo le cose sia perché era decisamente buio a quell'ora di notte per correre sull'asfalto.

Pensavo.

Un branco di Divoratori si sarebbero scannati l'uno contro l'altra e poi... E poi cosa? Quanti pugnali per uccidere effettivamente  un Divoratore esistevano? Non lo sapevo.

In quale modo io sarei stata sfruttata? Non ero a conoscenza nemmeno di quello.

L'unica certezza era che il mio sangue sarebbe stato versato. Riuscivo a percepirlo ed era inutile ritenere che le cose andassero diversamente o anche solo sperare che sarei sopravvissuta.

Non potei negare di aver paura.

La morte fa sempre paura.

C'erano un'infinità di cose che desideravo fare in quella vita che mi era stata donata, dopo un'esistenza da Divoratrice.
Se me ne fossi andata per sempre, non avrei mai più rivisto Simon; non avrei avuto l'occasione di spiegargli ogni cosa, di confessargli ancora una volta quanto lo amavo e insieme non avremmo potuto provare a ricostruire ciò che gli altri avevano distrutto.
Non avrei più avuto l'opportunità di riportare Martha sulla retta via, di scusarmi con lei e di cercare di essere perdonata, sperando che il nostro rapporto tornasse, un giorno, come prima.
E ultimo, ma non meno importante, non avrei più potuto parlare con Thomàs ed essere confortata da lui e ringraziarlo per ciò.

«Smettila di piangere» ordinai a me stessa e dovetti quasi urlarlo, anziché pensarlo e basta, per renderlo più efficace.

Strinsi le mani sul volante e accelerai appena, facendo rombare il motore.

Ad un tratto, tuttavia, un rumore mi fece sobbalzare sul sedile. Era lo squillo di un cellulare e ci misi un po' per capire da dove provenisse: dal cruscotto.
Non mi ero neanche preoccupata di perquisire l'auto prima di prenderla e probabilmente quello era il telefono di Thomàs, lasciato lì chissà quando. Io non ne possedevo uno, non ne avevo mai avuto bisogno.
Non risposi a quella chiamata, inizialmente. Non era sicuramente per me.

Gli squilli cessarono, per qualche secondo e poi... Poi ripresero: una volta, due, tre.
Alla quarta mi convinsi ad afferrare il cellulare e rispondere, giusto per dire di non contattare più quel numero o forse fu solo il desiderio di sentire la voce di qualcuno in quel viaggio che tanto odiavo.

«Pronto?» sussurrai.

«Hai preso la mia macchina». Non era un estraneo. Era Thomàs.

Per un attimo rimasi a bocca aperta. Non capivo se fosse arrabbiato o semplicemente scosso o che altro. «Mi dispiace» biascicai.

«Sono scuse patetiche» replicò lui, urlando.

Mi morsi appena il labbro inferiore. «Mi dispiace» ripetei. «Mi dispiace per l'auto, Thomàs, io...».

«Non me ne frega assolutamente nulla della macchina!» gridò ancora. «Cos'è questa? Una lettera? Davvero?».

«E' che... Non sono brava con gli addii».

«Perché devi dirmi addio, tanto per cominciare?».

«Ti ho spiegato perché. Se solo avessi letto, tu...».

«Ho letto! Ho letto tutto e... E non lo capisco. Tu non...». Era passato dal parlare a gran voce a quasi singhiozzare. No, non era in collera, era... Triste e disperato. «Ti prego, non lo fare» mormorò. «Torna indietro».

«Non posso». Mi mancava il respiro. Era già stato difficile andarsene, scappare via nel cuore della notte senza dirgli niente. Sentire il suo tono così spezzato peggiorò ogni cosa.

«Sì che puoi» biascicò. «Tu... Tu puoi. Torna indietro e... Troviamo una soluzione insieme, okay?».

«Non c'è nessuna soluzione, Thomàs. Lei... Lei ucciderà Simon se non vado e... Non posso permettere che accada. Devo salvarlo. Io... Io lo salverei sempre».

«E io salverei sempre te».

Mi sentii crollare definitivamente. Lo stavo ferendo più di quanto immaginassi, sebbene non volessi farlo. Come gli avevo detto, non era affatto parte dei miei piani che si facesse del male, fisicamente ed emotivamente.
Eppure, avevo la netta sensazione che fosse distrutto e si sentisse terribilmente impotente di fronte a quella situazione. Era qualcosa di nuovo per lui.
Thomàs era come Martha sotto quel punto di vista: voleva sempre trovare un rimedio a qualsivoglia problema.

«Non puoi salvare chi non vuole essere salvato» biascicai.

«Posso provarci».

«Thomàs, ti... Ti prego».

«NO! Non puoi pensarla così, mi hai capito? Non puoi... Pensare che sacrificandoti ogni cosa si aggiusterà, perché non lo farà. Andrà addirittura peggio. Se... Se permetti loro di dare inizio a questa guerra, la Creatrice o chi altro avrà più potere e ci distruggerà tutti».

«E tu non puoi sapere che accadrà se non lo faccio. Lei ha... Ha bisogno di me e questo vuol dire che posso chiedere qualcosa in cambio e...».

«Credi davvero di riuscire a trattare con un essere del genere?».

Non risposi più. Mi morsi appena il labbro inferiore e rimasi in silenzio, che fu riempito solo dal respiro affannoso di entrambi.

«Hazel...» sussurrò lui, dopo qualche secondo.

«Addio, Thomàs».

Dirlo ad alta voce fu un duro colpo, ma dovetti farlo. Chiusi la chiamata e buttai il telefono sul sedile passeggero.

Le mie guance si erano interamente ricoperte di lacrime, tanto che la mia vista si appannò. Mi passai una mano sul viso, con l'intento di scacciare il pianto almeno un po'.

Ero instabile, triste, angosciata, impaurita, arrabbiata, furiosa, depressa. Ero a pezzi come non lo ero mai stata.

Strizzai gli occhi, più volte e... Non seppi dire cosa accadde esattamente.

Una luce forte riuscì ad accecarmi, come se qualcosa mi stesse per venire addosso. L'istinto mi portò a cercare di evitare l'ostacolo e allora girai il volante rapidamente. La strada era ghiacciata e, probabilmente a causa di ciò, l'auto slittò e ne persi del tutto il controllo.
Sebbene cercassi di riprenderlo, essa smise di rispondere ai miei comandi e uscì dalla carreggiata.
Finì in un crepaccio, ribaltandosi una serie di volte che non riuscii a contare.
Venni sballottata da una parte e all'altra ed ogni urto mi provocava dolore in tutti i punti del corpo.

Quando tutto si fermò, mi ritrovai intontita, lontana metri e metri dalla strada, bloccata in quell'auto.

Non riuscivo a muovermi.

Percepivo il sangue colarmi dalla tempia e arrivare al mento. Faticavo a respirare, come se un grosso peso stesse gravando sul mio petto.

Buffo: temevo la mia fine senza prendere in considerazione che sarebbe potuta arrivare prima del previsto e non per opera di quella dannata guerra.

Ciò nonostante, accadde qualcosa di strano.

A differenza delle volte in cui lo avevo desiderato, in quel momento, in fondo a quel crepaccio isolato, sanguinante e con le ossa rotte, tutto ciò che volevo era vivere.
Non mi spiegai perché successe, perché quei pensieri toccarono la mia mente in condizioni così critiche. Forse era una parte complessa della psicologia umana: desiderare di sopravvivere quando è impossibile farlo; bramare la morte quando si ha tutta la vita davanti.

«A-aiuto». Tentai di urlare, ma quello che mi uscì di bocca fu un lieve e malapena percettibile sussurro. «Aiutatemi» ripetei e il secondo tentativo fu più vano del primo.
Avevo freddo e il gelo non faceva altro che aumentare, di pari passo al mio dolore. Notai solo dopo qualche minuto lo squarcio profondo che si era aperto sulla mia coscia destra, il che mi fece venire la nausea. Presumibilmente, i danni interni erano addirittura peggiori di quella ferita aperta.

La mia vista cominciò ad offuscarsi e la debolezza aumentò.

Stava per accadere.

Stavo per cedere. I miei occhi stavano per chiudersi per sempre. Stavo morendo.

Chi avrebbe mai pensato che a uccidermi sarebbe stato uno stupido incidente d'auto?

Non ero pronta.
Non ero assolutamente pronta.

E volevo essere salvata. Volevo essere salvata, dannazione, e...

E invece non c'era nessuno che provava a farlo.

 

***


«Hazel? Hazel...».

La sua voce.

Perché sentivo quella voce?

Ero morta e per qualche fortuito caso ero finita in Paradiso?

A rispondere a tale domanda ci pensò il dolore lancinante alla mia gamba destra e la pesantezza che sentivo in ogni parte del corpo.
No, ero ancora viva, ma non più tra i rottami dell'auto.

Ero fuori, sdraiata su del terriccio bagnato.

Qualcuno mi aveva ascoltata ed mi aveva soccorsa e... E non era una persona qualsiasi.

«S-sei... Sei qui» dissi, con tono eccessivamente flebile. Parlare mi costò fatica e incrementò il peso opprimente sul mio petto.

«Sono qui».

Era Simon.

Non avevo la benché minima idea di come mi avesse trovato, del perché fosse presente in quel momento, parzialmente sdraiato su di me nel tentativo, forse, di donarmi un po' di calore. Le sue dita continuavano ad accarezzarmi lievi il viso, passando dalle guance alle labbra.

«Resta sveglia, okay?» mi sussurrò. «Sta arrivando un'ambulanza e... E andrà tutto bene. Tu non... Non chiudere gli occhi. Non farlo».

Non lo stetti nemmeno ad ascoltare, probabilmente perché una parte di me non credeva che tutto ciò fosse vero e attribuiva ogni cosa alla mia immaginazione in punto di morte.
Tuttavia, il solo fatto di percepirlo vicino a me in un momento del genere alleviò un minimo il mio dolore.

«N-non... Non mi lasciare... Più» riuscii ancora a biascicare. Lo vidi scuotere appena la testa. «Non ti lascerò mai più» esclamò. Tentai di sorridere, ma ogni mio muscolo si rifiutava di intraprendere una qualsivoglia azione.

«Continua a respirare» mormorò lui. «Respira, d'accordo? Se... Se tu smetti di farlo, io respirò per te».

Era eccessivamente serio, eppure stava piangendo. Sentii le sue lacrime cadere e posarsi lievi sulla mia pelle. Furono quasi lenitive. «Sc-Scusami se... Se ti ho mentito» sussurrai. Ad ogni parola che mi usciva di bocca corrispondeva una fitta al petto, eppure non volevo stare semplicemente zitta perché era molto probabile che non avrei avuto un'altra occasione di dire qualcosa. Lo considerai una sorta di premio di consolazione prima dell'inevitabile.

«Shh. Non... Non pensarlo neanche, intesi?» replicò Simon. Dopo si guardò distrattamente attorno. I miei occhi socchiusi tentarono di focalizzarsi sui suoi lineamenti. Era stato lontano da me per più di un mese e nonostante quel periodo fosse relativamente breve, lui sembrava cambiato, come se qualcosa lo avesse costretto a farlo, a diventare più grande. I suoi capelli erano più corti, lo sguardo più deciso e profondo.
Chissà come era stato in quei giorni trascorsi con Tamara, quanto tempo era rimasto con lei e come le era sfuggito... Per quale motivo le era sfuggito.
Il mio corpo si stava facendo sempre più pesante. Sembrava non appartenermi più. Se non fosse stato per le sue dita che continuavano ad accarezzarmi il viso, avrei perso il contatto con la realtà da un pezzo. Le palpebre calarono, fui sul punto di chiudere definitivamente gli occhi, ma lui mi scosse appena e mi costrinse a guardarlo, a fondere i suoi diamanti azzurri con i miei, verdi.

«No, no, no, no... Hazel» mi chiamò. «Resta con me».

«Sono stanca...» mi difesi e a quel punto smisi anche di ragionare, ormai abbandonata a ciò che sarebbe avvenuto di lì a poco. Avevo ancora voglia di lottare, ovviamente, ma non avevo più un briciolo di forza per farlo.

«Non devi addormentarti».

«Non ce la faccio...».

«Tu ce la fai. Lo so che ce la fai. Ascoltami, okay? Focalizzati sulla mia voce, solo sulla mia voce».

Era difficile. Per quanto amassi la sua voce, qualcosa mi stava trascinando via – metaforicamente – da quel luogo e io non potevo impedirlo. Anche se mi sforzavo di parlare ancora, dalla mia bocca uscivano solo lamenti. Riuscii ad ascoltare le frasi che Simon mi diceva, mi sussurrava di restare con lui, di tenere gli occhi aperti, ma io... Io non ce la feci.

Era troppo arduo resistere.

E allora mi lasciai andare.

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Capitolo 18
*** No fear. ***


Capitolo 18
"No fear"



Non temere la morte: è solo la fine del tuo dolore”.

Avevo ben impressa questa frase. Me l'aveva sussurrata una donna anziana, durante il Medioevo. All'epoca, avevo l'aspetto di una ragazza dell'alta borghesia e lei era una del popolo, immersa nella miseria. Non seppi mai perché me la disse, ma non potei mai scordare la serietà nei suoi occhi quando lo fece. 

Avevo ripetuto tali parole nella mia testa, quella notte, in fondo a quel crepaccio buio e freddo, ma il dolore non era cessato. C'erano solo due ipotesi, allora: o era tutto una menzogna oppure ero ancora viva.

Non ci misi molto a capire che la più valida era la seconda alternativa.
Sollevai a fatica le palpebre. Mi trovavo in una stanza anonima, dalla pareti bianche, pallide come le lenzuola che ricoprivano il letto sul quale ero distesa. Una fastidioso ronzio riempiva l'aria, interdetto da dei brevi e intensi suoni regolari, che quasi scandivano i secondi.
Non avevo la benché minima idea di dove mi trovassi: sicuramente in un posto dove non ero mai stata prima. Tentai di muovermi, ma ogni muscolo del mio corpo mi fece male e mi impedì di compiere qualsivoglia gesto.

«Sei sveglia». Riconobbi subito la voce di Simon e forse arrivò alle mie orecchie un po' più acuta del solito. Lo vidi in piedi accanto a me, mentre sorrideva appena, probabilmente nel tentativo di rassicurarmi.

«Non è un sogno, vero?» domandai, con tono innocente e fiacco. Lui accennò una risata. «No» disse. «E' tutto reale». Afferrò una sedia che si trovava proprio alle sue spalle e si sedette di fianco al letto.

«Dove siamo?» chiesi ancora.

«In ospedale».

Era chiaro. Avrei dovuto intuirlo solo dalle mura spoglie e da quei rumori strani. «E sei rimasto qui tutta la notte?».

«No». Scosse appena la testa e abbassò lo sguardo. Poco dopo, lo sollevò e mi guardò con quella dolcezza che sempre gli era appartenuta, nonostante quei piccoli e lievi cambiamenti fisici. «Sono rimasto qui per tre giorni, in realtà. I dottori hanno detto che avresti dormito per parecchio, a causa dei sedativi e... Volevo essere qui quando ti saresti svegliata».
Non potei fare a meno di curvare le mie labbra all'insù, per quanto tutta quella situazione mi sembrasse assurda. C'erano tante risposte che avrei voluto avere, spiegazioni logiche e non eccessivamente complesse.
Ma, solo per un attimo, mi concessi il lusso di mettere da parte il desiderio di informazioni per godermi il fatto che il mio Simon fosse lì con me; perché ero sicura che quello fosse il mio Simon e non il ragazzo senza memoria plagiato da Tamara.

Rimasi in silenzio, semplicemente a fissarlo, finché lui non sfiorò piano la mia mano, piena di aghi che mi pizzicavano, e la strinse lievemente tra le proprie dita. Osservai quel gesto, confusa e felice allo stesso tempo.

«Perché sei tornato?» sussurrai e non ero del tutto convinta di volerlo sapere. Lo sentii sospirare e lo vidi fissare le nostre mani intrecciate. «E' una storia un po' lunga» replicò.

«Beh, io non credo di poter andare da qualche parte, per cui...».

Rise, ma senza entusiasmo. «Immaginavo l'avresti detto». Con la mano libera, tastò il lato interno della felpa blu che indossava e ne tirò fuori qualcosa. «Ho trovato questa» spiegò. Me la mostrò: era la stessa foto che teneva nel suo diario e che io avevo visto per la prima volta quando mi ero recata nella vecchia casa di Chicago per recuperare quelle pagine necessarie al suo recupero; quella foto che ritraeva noi due in un momento di dolcezza e semplicità.
«Ho pensato che...» mormorò «.. che se una persona ne guarda in quel modo un'altra, non può essere capace di farle del male, per nessuna ragione al mondo. E poi...». Fece una breve pausa e solo a quel punto i suoi occhi tornarono sul mio viso. «Poi ho... Sentito Tamara parlare con delle persone e... Non era quella che credevo e ho capito forse fin troppo tardi quanto sono stato stupido a credere a lei e alle sue parole e... E allora sono scappato e ho iniziato a cercarti».

Trattenni il respiro per un secondo. Avevo l'impressione di essere... Com'è che si diceva? Ah, sì, in un dejà-vù.
Era già accaduto che lui si allontanasse da me per mancanza di fiducia e che tornasse tempo dopo, avendola ritrovata.

«Mi dispiace, Hazel» aggiunse poco dopo, a bassa voce. «Non lo so, io non... Non credo che essere di nuovo qui e chiedere semplicemente scusa sistemi le cose perché non... Non è nemmeno giusto che accada e... Se dovrò dirti che mi dispiace tutti i giorni, lo farò. Se è necessario affinché tu mi perdoni, io... Io posso farlo». Aveva iniziato a balbettare e non sapevo nemmeno se avesse idea di quel che stava dicendo. Era cambiato fisicamente – era evidente – ma quanto del resto era diverso? Quanto ancora era estraneo al mondo?

«Una volta, una persona mi ha detto che gli umani tendono a commettere errori, perché... Perché sono esseri contraddittori e lontani anni luce dalla perfezione» sussurrai, riportando alla mia memoria le stesse parole che mi aveva sussurrato quel giorno sulla Willis Tower.

«Doveva essere una persona molto realistica».

«Lo era. Ma era anche... Disposta a rimediare ai propri sbagli».

Riuscii a strappargli un sorriso, mentre stringevo più forte che potevo la sua mano. Non era molto: ero debole e mi sentivo a pezzi, ma, per il momento, bastava.

Avrei continuato quel discorso o sarebbe andato bene anche solo rimanere a fissarlo, in silenzio, se la porta della stanza non si fosse aperta, cigolando. Tale rumore catturò la mia attenzione e mi voltai appena. Sulla soglia, c'era Thomàs.
Assunsi un'espressione mista di sorpresa e angoscia, non seppi nemmeno perché. La sua, invece, non potei decifrarla. «Puoi lasciarci un attimo da soli, Simon?» disse e non suonò proprio come una domanda. Fu quasi un ordine.
Simon tentennò per un istante, prima di accettare, mormorando un «Okay». Mi sorrise lievemente e dopo abbandonò la camera, chiudendosi, piano, la porta alle spalle.
Thomàs rimase ai piedi del mio letto, con i pugni stretti lungo i fianchi e gli occhi fissi su di me, con uno sguardo che mi mise i brividi.
«Sei arrabbiato» sussurrai. Lui rise, sarcastico. «Sono molto più che arrabbiato». Avrebbe urlato, ma qualcosa mi suggerì che si stesse trattenendo dal farlo. «Ho dovuto rubare una macchina per cercarti e, dopo ore, ho trovato la mia, distrutta, in un crepaccio. Ma tu non c'eri. C'erano... C'erano degli agenti di polizia che mi hanno spiegato cos'era successo e mi hanno detto che ti avevano portata in ospedale, così sono corso qui e... E tu immagina la sorpresa quando ho visto Simon nel corridoio».

«Non so come abbia fatto a trovarmi, non...».

«Non mi interessa come ha fatto». Stroncò la mia frase e il volume della sua voce aumentò. Prese un respiro profondo, per calmarsi. «Il punto è...» continuò, a tono normale. «Ora che farai? Quando potrai alzarti da questo letto, riprenderai da dove avevi lasciato e andrai dalla Creatrice, oppure il fatto che lui sia tornato cambia le cose?».

Quella sua domanda fece precipitare ogni mio entusiasmo e spianò la strada alla ribalta dell'angoscia. Socchiusi gli occhi, stanca. «Dobbiamo parlarne per forza ora?» mormorai.

«Sì, dobbiamo».

Sbuffai. «Non lo so» dissi «non so cosa succederà adesso. Credevo di essere morta in quella specie di burrone e, sinceramente, non ho avuto il tempo di pensarci».
Thomàs scosse più volte la testa. Scansò il letto e mosse qualche passo così da essermi più vicino. Il suo volto era corrucciato in una smorfia che gli avevo visto addosso solo una volta e... Non era stato piacevole. Ero a conoscenza di cosa la rabbia e la tristezza scatenassero in lui; volevo evitare che scattasse in quella stanza d'ospedale.

«Io, invece, lo so». Mi aspettavo urlasse, invece pronunciò quelle parole con tono del tutto calmo e piatto. «So che adesso resterai perché... Perché a me puoi benissimo dire addio, mentre a lui no».

Trattenni il respiro. Si era avvicinato a tal punto che i nostri visi si trovarono uno di fronte all'altro e sostenni a sforzo il suo sguardo tagliente. «Dimmi che non ti stai mettendo a confronto con lui, ti prego» dissi e riuscii ad essere decisa e non fragile pronunciato quella frase.

«No, non mi permetterei mai. Il piccolo e ingenuo Simon è incomparabile». Fu sarcastico, ovviamente.

«Perché dici queste cose? Perché... Perché adesso?».

Si allontanò di poco, appena un passo, e allargò le braccia, lievemente. «Non lo so» esclamò «forse perché dovrei essere felice del fatto che tu sia viva, che tu stia bene e invece... E invece non ci riesco a causa della troppa rabbia».

«Scusa se ho deluso le tue aspettative». Usai anche io un briciolo di sarcasmo. Ero troppo stanca per discutere e Thomàs sembrava essere lontano anni luce dal demordere.

«Hazel...» sussurrò e io lo interruppi subito. «Puoi andartene, per favore?» dissi.

«Non...».

«Ho bisogno di riposare. Vai via».

Lui tremò appena e mi avrebbe detto qualcos'altro contro molto volentieri. Tuttavia, alla fine si arrese e uscì dalla stanza, sbattendo la porta e lasciandomi da sola.

***

 

Sprofondai nel sonno.
Neppure lo volevo, ma probabilmente fu a causa delle medicine con cui mi avevano imbottito in quell'ospedale.
Quando mi svegliai, non ero più sola. Simon era tornato nella stanza e aveva ripreso posto seduto proprio accanto al letto. Mi sorrise appena, tranquillo; tuttavia, io non potei fare a meno di notare come sotto il suo occhio sinistro fosse comparso un grosso livido scuro che prima non c'era.
Mi tirai su a fatica, su quei cuscini fin troppo scomodi. Mi pentii quasi subito di quei gesti che fecero solamente pulsare la ferita sulla coscia e un po' tutto il resto del mio corpo.

«Che è successo?» chiesi, leggermente allarmata.

Simon scosse appena la testa. «Cerca di non muoverti troppo» disse, ignorando la mia domanda.

«Che è successo?» ripetei.

«Nulla».

«Hai un occhio nero. Faccio un po' fatica a credere che non sia accaduto niente».

«Hazel...».

«Simon».

A quel punto sbuffò e dovette arrendersi. «Non è nulla di grave» disse. «Ho... Avuto una sorta di discussione con Thomàs».

«Ti ha colpito?».

«Sì, ma non... Non fa niente. Anzi, dovresti vedere lui: è ridotto peggio».

Lo guardai storto. Simon era molto più minuto di Thomàs e, anche volendolo, non avrebbe mai avuto la forza di contrastarlo. Feci fatica a credergli.

«Okay, non è vero» rimediò. «Sono io quello messo peggio».

Abbozzai una risata, ma fu del tutto priva d'entusiasmo. Ormai ero a conoscenza del rapporto di Thomàs con la rabbia e che Simon se la fosse cavata con solo un livido era pressapoco un miracolo. Forse qualcuno li aveva fermati prima che la loro lite degenerasse e fui lieta di ciò.
Tuttavia, tale fatto non riuscì a smorzare la mia furia. Ce l'aveva con me, solo ed unicamente con me, e invece aveva preferito prendersela con Simon, come se fosse tutto più facile.
Sì, per lui era davvero molto più semplice prendersela con chiunque, tranne che non la diretta interessata.

«Dov'è andato?» domandai.

«Non lo so. E'... Scappato via».

Avrei dovuto immaginarlo: gli piaceva scappare.

Socchiusi gli occhi e sospirai. Sebbene avessi dormito per quelle che parvero ore, non avevo la forza sufficiente per fare qualcosa, specie imbattermi in qualche rimprovero o un nuovo litigio.

«Simon?». Pronunciai il suo nome con evidente più dolcezza rispetto al tono che avevo usato poco prima. «Vieni qui vicino a me?».

Assunse un'espressione strana, mista di stupore e gioia. «Posso?» domandò, quasi con timore.
Non dissi nulla in replica, cercai solamente di scansarmi sul letto per fargli posto, nonostante la ferita alla gamba che mi impediva di muovermi in maniera decisa. Lui esitò per qualche secondo, poi si alzò e, goffamente, si accovacciò al mio fianco.
I nostri visi si ritrovarono alla stessa altezza e non potei fare a meno che lasciar scivolare una mano a cercare la sua, che strinsi con la poca forza che avevo.

«Ricordi qualcosa?» sussurrai. «Intendo... Della tua vita. Qualche cosa è tornato?».

«Alcune cose» rispose, tentennando.

«Per esempio?».

«E'... Complicato. Sono dei flash che compaiono davanti ai miei occhi in momenti che non controllo. Sono dei frammenti di istanti passati che non so collocare nel tempo, ma sono consapevole di averli vissuti».

«E' un bel passo avanti».

«Lo è. E poi...». Esitò per qualche secondo e lo percepii stringere più forte le mie dita. «Poi, spesso, ci sei tu» continuò. «I tuoi occhi, più che altro. Sono particolari e sono certo siano tuoi. Nessuno li ha così».

Sorrisi appena. La sua solita dolcezza sembrava tornata – o forse non lo aveva mai abbandonato - e non potei non gioirne.
Era una di quelle piccole cose che amavo di lui e... Io lo amavo così tanto.
Forse era abitudine farlo, forse quella maledetta profezia o quel che era incasinava tutto e... E Thomàs incasinava tutto e ciò che era successo quella dannata sera e il solo fatto di doverglielo dire, un giorno, mi provocò una fitta al petto. Mi sentii quasi non potessi essere degna di guardarlo negli occhi. Fu strano.
Ero interdetta, bloccata tra quel momento di felicità accanto a Simon e la consapevolezza di averlo tradito in qualche modo.
Certo, lui se ne era andato, ritenendomi la sua assassina, quindi probabilmente non si poteva parlare di effettivo tradimento, ma sicuramente qualcosa dentro di me era stata macchiata.
Non sapevo ancora come comportarmi a riguardo e mi sentii anche egoista a pensare alla mia situazione sentimentale con il caos che da un momento all'altro avrebbe potuto scoppiare.
Ma non si basa tutto, poi, sui sentimenti? Il mondo intero, tutta la storia e i più grandi avvenimenti terrestri sono fondati sull'affetto e la repulsione tra gli umani.
Magari era giusto che pensassi alle mie sensazioni seppur in un momento critico come quello.

«Grazie» sussurrai, con lieve imbarazzo.

Lui non rispose a parole: sorrise e basta.

«Posso chiederti un'altra cosa?» dissi allora io.

«Puoi chiedermi tutto quello che vuoi».

«Come... Come hai fatto a trovarmi dopo l'incidente? Insomma, tu... Non avevi la benché minima idea di dove potessi essere e...».

«Non lo so» mi interruppe, in maniera non brusca, ma quasi fosse naturale. «Dopo che...» continuò «Dopo che sono scappato da Tamara, ho cominciato a vagare senza meta. Ho chiesto un passaggio per strada e a qualcuno devo essere sembrato abbastanza disperato per farmi salire sulla loro auto. Sono stato... Sono stato in giro per giorni, perché neanche mi ricordavo dove fosse la nostra casa e poi... Qualcosa dentro di me mi ha suggerito di recarmi proprio lì dov'eri, non so perché. Era come se dovessi essere in quel posto, in quel momento; come se qualcuno mi avesse sussurrato in un orecchio la via giusta per trovarti e poi l'ho fatto per davvero».

Quasi mi mancò il fiato.

Se fossi stata abbastanza coraggiosa da osare, mi sarei sporta nella sua direzione e lo avrei baciato. Ma, ovviamente, non feci nulla del genere, anche perché non riuscivo propriamente a muovermi.
Forse Simon avrebbe agito al posto mio. Tuttavia, mi rimase il dubbio, perché qualcuno entrò nella stanza e chiuse la porta con poca delicatezza. Non dovetti nemmeno voltarmi del tutto per capire chi fosse: Thomàs.

«Dobbiamo andarcene» esclamò.

Avrei replicato, ma Simon si era già alzato in piedi e mi precedette: «Andarcene? Dove?».

«Da qualche parte. Il più lontano possibile da qui, comunque».

«Perché?».

«Perché la tua amichetta Tamara ci ha fatto visita e non era esattamente contenta».

«Tamara era qui?» intervenni.

«Già» disse Thomàs. «Di solito, le persone intelligenti, quando scappano, tendono a non lasciare tracce alle loro spalle. Invece qualcuno ha praticamente indicato il proprio percorso alla perfezione con una linea rossa. Fosforescente».

Sentii Simon sbuffare. Evidentemente avevano discusso in quel modo anche precedentemente.

«E adesso dov'è?» chiesi io.

«L'ho mandata nel limbo» rispose Thomàs «ma c'è già stata una volta, sa come uscirne, per cui abbiamo poco tempo».

«Non sei un Cacciatore?» esclamò Simon. «Non potresti, tipo, “cacciarla”?».

Fu l'altro a fare una smorfia, allora. «Ho bisogno, tipo, delle mie armi. Scusa se non giro con un'ascia nella tasca della giacca».

Ci sarebbe stata un ulteriore replica, ma a quel punto li interruppi: «Non potreste, tipo, smetterla?».
Entrambi si voltarono verso di me, con le mani poggiate sui fianchi e quasi la stessa espressione stampata in faccia. Probabilmente, si aspettavano continuassi il discorso o che li rimproverassi, ma la situazione era già piuttosto seccante in quel modo, perciò non aggiunsi nulla.
Thomàs fu il primo a reagire dopo il mio silenzio: roteò gli occhi e lo vidi raggiungere l'armadio bianco presente nella stanza, aprirlo e tirare fuori alcuni dei miei vestiti che avevo lasciato nell'ultimo motel dove eravamo stati, senza l'intenzione di tornarci.

«Vuoi darti una mossa, ragazzino?» esclamò e lanciò gli indumenti addosso a Simon. Fui dell'idea che lo avesse fatto presumendo che li afferrasse, ma i suoi riflessi non erano certo dei migliori, anzi, tutt'altro. «Aiutala a metterseli».

«Come faccio a...».

Simon non riuscì nemmeno a finire la frase che Thomàs aveva già intuito a cosa si riferisse, addirittura prima di me. Mi fu accanto senza che me ne rendessi conto e, senza concedersi un briciolo di delicatezza, strappò via gli aghi della flebo che avevo attaccati al dorso della mano sinistra. Mi fece male e non riuscii a trattenere un mezzo urlo.

«Ora è a posto» commentò. «Muoviti». Si allontanò nuovamente e riprese a trafficare nell'armadio, guardando, di tanto in tanto, nervosamente, fuori dalla finestra.

Il mio sguardo rimase fisso su di lui per qualche secondo, ignorando il sangue che iniziò a fuoriuscire dalla mano. Era tornato ad essere il ragazzo sarcastico e alquanto menefreghista dei primi tempi e non sapevo quanto ciò fosse positivo.
Solo Simon fu in grado di farmi focalizzare di nuovo su ciò che stava avvenendo, senza perdermi in mille pensieri. Si era preoccupato subito della mia nuova ferita, tamponandola con un fazzoletto di stoffa.
«Grazie» mormorai e lui mi sorrise appena. Poi mi aiutò a liberarmi di tutti gli altri aghi e tubicini che i medici avevano piazzato su di me e del camice d'ospedale; dopo, con gentilezza, mi fece vestire, infilandomi piano una t-shirt azzurra, molto larga e dei vecchi pantaloni di tuta nera.
«Vedi? Se ti impegni, riesci a fare le cose» esclamò Thomàs e si affiancò al letto, reggendo un piccolo borsone, evidentemente con la mia roba dentro. «Ora spostati. La porto fuori io».
Dedussi stesse parlando di me, dal momento che, a causa della ferita alla gamba, non potevo camminare. Simon abbozzò una risata, ironica. «Perché dovresti essere tu a portarla?» replicò e anche lui si riferì a me quasi fossi un oggetto da trasportare da una parte all'altra.

«Beh, perché tu a malapena sai reggere dei vestiti. Non è che mi fidi molto».

«Posso portarla benissimo».

«Sì? Io non credo. I muscoli dove li hai lasciati?».

Sbuffai. «Sapete, penso di potercela fare da sola» commentai, stizzita.

«Ovviamente non puoi» mi stroncò Thomàs. «Avanti, chi vuoi che ti porti?». Il suo sarcasmo raggiunse i massimi livelli con tale domanda e a me era tornata quella malsana voglia di picchiarlo, la stessa che mi aveva travolto il giorno in cui l'avevo incontrato.

Era come un bambino capriccioso.

Scossi appena la testa e alzai – per quel che potevo – le braccia, in segno di resa. «Non mi importa chi» dissi. «E' solo qualche metro».

«Okay, perfetto». Prima che me ne rendessi conto, Thomàs scansò quasi bruscamente Simon e mi prese in braccio di peso. Dovetti aggrapparmi con la poca forza che avevo alle sue spalle per non capitombolare a terra.
Usufruì delle scale antincendio per abbandonare l'edificio ed io non riuscii nemmeno ad assicurarmi che Simon stesse tenendo il passo: Thomàs camminava in maniera troppo veloce, considerando che stava portando anche me in braccio.
Fui certa che lui ci avesse seguito solamente quando lo rividi in auto – una presumibilmente rubata - dopo che ero stata fatta accomodare sul sedile posteriore, proprio come fossi una bambina. Prese posto accanto a me, mentre Thomàs si mise alla guida e mise in moto, facendo rombare il motore.
Avrei dovuto chiedermi cosa sarebbe successo quando i medici avrebbero trovato il mio letto vuoto e non sapevo neanche quale nome avessero dato loro. Sicuramente non il mio e non quello Johanna. Ero una netta sconosciuta in quel posto, probabilmente non mi avrebbero cercata. Perlomeno, sperai non lo facessero: avevo già tante persone alla calcagna e non potevo certamente reggere una squadra di poliziotti che mi dava per scomparsa.
Il problema principale, al momento, era Tamara. Assurdo come fosse riuscita a scavalcare la Creatrice e il Creatore e privo di senso il modo in cui ero passata dal volermi consegnare al desiderare di combattere sia contro di lei che contro tutti gli altri.
Sì, forse... Forse Thomàs aveva ragione: io non ero in grado di dire addio a Simon e... In realtà non ero in grado di dire addio a nessuno, lui compreso.
Quel che avevo intenzione di fare era un'azione disperata, di una me completamente persa e ancora allo sbaraglio. Ma in quell'attimo, seppur in fuga e ferita, mi sentii più forte; come se davvero ci fosse quella soluzione tanto agognata di cui mi parlavano sempre.

Volevo credere ci fosse. 

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Capitolo 19
*** Some kind of madness. ***


Capitolo 19
"Some kind of madness"

"Non si può non scegliere.
L'uomo vive nella dimensione della possibilità.

Nella vita ha sempre davanti a sé
un determinato numero di scelte
ed è costretto, per proseguire il suo cammino,
a farne una, così da arrivare al bivio successivo.

Ma scegliere una cosa significa inesorabilmente rinunciare all'altra.
E mai si potrà sapere cosa sarebbe successo se..”.

 

 

C'era un libro di filosofia sul comodino accanto al letto del motel in cui ci eravamo fermati quella notte. Qualcuno doveva averlo lasciato lì chissà quando oppure i proprietari di quel posto avevano esaurito la classica Bibbia.
Mi ritrovai a leggere tali righe una volta rimasta sola in quella stanza spoglia, senza ancora la possibilità di muovermi correttamente, bloccata su di un materasso forse fin troppo morbido. Riuscivo a compiere qualche passo, ma poi il dolore si espandeva dalla coscia a tutta la gamba ed ero costretta a fermarmi.
Era passata quasi una settimana da quando la nostra fuga era cominciata. O forse ripresa.

Mi aspettavo che le cose andassero un po' meglio con il ritorno di Simon e, sì, il mio umore migliorò sotto certi punti di vista; sotto altri, invece, era decisamente peggiorato, così come tutta la situazione.
Lui e Thomàs non facevano altro che punzecchiarsi, di continuo, ed era sempre quest'ultimo a dar inizio ad ogni cosa; l'altro si limitava a rispondergli a tono, fin quando io non mi decidevo a dichiarare una tregua che, ovviamente, durava poco e niente.
Le loro discussioni mi irritavano, specialmente perché li distraeva da qualcosa di nettamente più grande ed importante. Sembrava quasi fossi rimasta l'unica a preoccuparsene.

Leggere frasi del genere incrementò solo il mio scontento, come se mi stessero incitando a fare per forza una scelta, ma per me era patetico compierne una.
Non eravamo uno stupido triangolo amoroso e io non dovevo prendere una decisione tra loro due; anche perché non... No, non lo avrei fatto e basta. Era ridicolo anche solo pensarci.

Riposai, poco delicatamente, il libro sul comodino e sbuffai.
Avrei voluto alzarmi e camminare su e giù per la camera così da scaricare la tensione, ma non potevo. In quel momento, Thomàs rientrò. Mi aspettavo lo facesse con Simon, dato che lo aveva trascinato a comprare qualcosa da mangiare, però tornò da solo.

«Dove...» feci per chiedere e lui non mi permise nemmeno finire la frase. «Il ragazzino ha il passo lento» disse.

Roteai gli occhi. «Oppure lo hai lasciato a piedi da qualche parte».

«Mhm, potrei averlo fatto. Ma sicuramente troverà la strada, no?».

Sbuffai, ignorando il sorriso soddisfatto che gli apparve in faccia, mentre chiudeva la porta alle proprie spalle.

«Dovresti smetterla» sussurrai.

«Di fare cosa?».

«Me lo stai chiedendo sul serio?».

Fece ancora finta di nulla, avvicinandosi al letto e poggiando le mani sui fianchi.

«Tenti costantemente di litigare con Simon» dovetti spiegare «anche per le cose più stupide. E credi non abbia notato il fatto che cerchi sempre di evitare che io e lui rimaniamo soli?».

A quel punto rise, ironico. «Trovo assurdo il fatto che ti preoccupi di ciò, piuttosto».

«Non mi preoccupo. E' che lo trovo irritante».

«No, non credo sia questo». Scosse appena la testa e poi si sedette al mio fianco, smuovendo in malo modo la mia gamba appoggiata su di un cuscino. Sicuramente lo fece apposta.

«Infastidire Simon?» disse. «Desideravo farlo dalla prima volta in cui l'ho visto. Sì, beh... Non quando era morto, ma dopo. Ora ne ho l'occasione e mi diverto. Il punto è che tu ti focalizzi su questa cosa, solo per non pensare alla tua più grande paura... E non sto parlando della Creatrice o chi altro».

«E quale sarebbe?».

«Perderlo di nuovo».

Serrai la mascella a quelle parole. La serietà che ricoprì il suo volto mi fece quasi rabbrividire.
Non ebbi il coraggio di dire nulla e Thomàs andò avanti: «Se ne andato già due volte o sbaglio? Ed entrambe sono state perché ha creduto a qualcun altro, invece che a te. Lo ha fatto, è successo e potrebbe benissimo riaccadere. Il mondo è pieno di esseri come Tamara e lui è così malleabile».
Non seppi cosa fece più male, se sentire tutto ciò detto ad alta voce oppure che fu proprio Thomàs a pronunciare tali frasi. In fondo, sapevo che aveva ragione: avevo davvero paura che Simon se ne andasse nuovamente per circostanze che non potevo controllare o a causa di persone che avrebbero potuto fargli cambiare idea ancora una volta, ma una parte di me cercava di convincersi che la storia non si sarebbe ripetuta.
Thomàs decise di colpirmi con quell'amara verità e fu quasi micidiale. Non riuscii a dire nulla in replica, sebbene lui si aspettasse una mia reazione.
Abbassai lo sguardo e probabilmente accolse quel gesto come una mia resa, poiché non disse più nulla. Si alzò e si rifugiò nel piccolo bagno della stanza, lasciandomi sola finché Simon non rientrò, almeno dieci minuti dopo. Con lui la situazione era diversa: nonostante i fastidi che l'altro gli provocava, cercava sempre di rivolgermi un sorriso rassicurante e a volte mi diceva anche che tutto si sarebbe sistemato, il che serviva a mettermi un minimo di buon umore.

Ciò nonostante, non potei escludere dalla mia testa quei dubbi che Thomàs aveva piazzato – forse nuovamente – in me.
Non avrei retto un altro abbandono da parte di Simon per nessuna ragione al mondo. La parte peggiore era che, se fosse successo, non avrei potuto impedirlo e non era nemmeno prevedibile.
Fossi stata ancora una Divoratrice, probabilmente lo avrei portato in qualche luogo remoto in Europa o in Asia, chiuso da qualche parte, così da tenerlo nascosto da tutto e tutti.
Quella mancanza di fiducia era opprimente: lui avrebbe potuto perderla e a me stava scivolando di mano.


***


La notte calò e io mi ero già spostata sul piccolo divano che il motel forniva nella stanza.
C'era un solo letto, matrimoniale, e di certo non avrei deciso se dormire con uno o con l'altro dei ragazzi, sebbene entrambi – Thomàs in particolare – avesse voluto farmi compiere una scelta- come sempre, del resto.
In teoria, l'avevo fatta: avevo lasciato il letto a loro e mi ero appropriata del divano, che risultava anche scomodo.

In quel momento, dormivano tutti e due – perlomeno, mi sembrava così – mentre io ero sveglia. Non riuscivo a prendere sonno e poi la ferita alla gamba continuava a pizzicarmi.
Quel posto non mi piaceva. Avevo come il presentimento che sarebbe accaduto qualcosa di brutto proprio lì e... In realtà, lo avevo sempre: la sensazione che tutto crollasse in maniera definitiva mi attanagliava ogni singolo istante.

«Ehi...». Udii un sussurro lieve e mi bastò voltare appena il capo per scorgere nella penombra Simon, inginocchiato proprio accanto al divano. «Ehi» replicai. «Pensavo dormissi».

«No... Non ci riesco molto nell'ultimo periodo».

«Già. Nemmeno io».

Abbassò lo sguardo e trattenne il respiro per qualche secondo. «Hazel?» mormorò poco dopo.

«Sì?».

«Uhm... Posso... Posso sdraiarmi vicino a te?».

Lo chiese con una timidezza tale da portarmi a sorridere. Annuii appena, senza pensarci troppo, e mi scansai leggermente, per fargli posto.
Si accovacciò al mio fianco e i nostri visi furono alla stessa altezza. Rimanemmo immobili a fissarci, finché lui non sollevò una mano e andò a sfiorare delicatamente, con i polpastrelli, i segni delle cicatrici e i bordi sbiaditi dei lividi che mi ricoprivano il volto. Non mi fece male, non del tutto. Era come se il suo tocco mi stesse curando in qualche modo.
Socchiusi gli occhi, lasciandomi inebriare da quei suoi gesti, ripetitivi e, a tratti, rilassanti. «Stanno andando via» disse, a bassa voce. Solo allora sollevai lentamente le palpebre e biascicai qualcosa in cenno di assenso. «Sei comunque bellissima».
Accennai una risata. «Mi hai appena fatto un complimento?».

«Non avrei dovuto?».

«No, è che...». Scossi appena la testa e lasciai la frase in sospeso. Non volevo che i dubbi tornassero e poi avere Simon così vicino, in quel modo, era sempre in grado di farmi stare bene.

Allora, feci ciò che qualche giorno prima, in ospedale, non avevo osato: mi sporsi verso di lui e posai la bocca sulla sua. Non fu un bacio lieve come quello che mi aveva dato tempo prima, fu diverso, perché replicò ad esso con foga. Sentii la sua mano sul lato del mio collo, mentre mi accarezzava e io facevo lo stesso, scorrendo sul suo braccio scoperto.
Avrei voluto aggrapparmi a lui e non lasciarlo andare mai più.
Tra noi c'era calore, c'era desiderio, c'era... C'era amore. Non sapevo se ciò sarebbe bastato a risvegliare tale sentimento nell'animo di Simon, ma volevo sperarlo.
Quando mi distaccai, sorrisi, ancora abbastanza vicino a lui da percepire il suo respiro sulla pelle. «Speravo lo facessi» sussurrò.

«Ah, sì?».

«Avrei voluto baciarti io, ma... Avevo paura mi respingessi».

«Perché?».

«Perché ho sempre timore che tu sia arrabbiata con me».

«Non ne ho motivo».

Sospirò. «Me ne sono andato e non ti ho creduto».

«Ma ti sei scusato».

«Lo so, ma... E' abbastanza? Io... Io non so se lo è. Non so se io sono abbastanza. Continuo a chiedermelo e...».

Lo interruppi, posando due dita sulle sue labbra e allora smise di parlare. «Simon, io ti amo» dissi, a bassa voce. «So che tu, forse, non lo ricordi, ma io sì. Ricordo ogni minimo particolare e sono certa che una parte di te prova almeno un briciolo di ciò sento io».
Non tirai in ballo il destino già scritto, la profezia o quel che era. Non volli perché avrei solo favorito un suo nuovo allontanamento ed era l'ultima cosa che desideravo.
Come mi aveva detto Martha, una volta, avrei potuto benissimo farlo innamorare di me di nuovo, senza trucchi, senza inconsapevoli inganni. Forse non avevo ancora ben chiaro come fare, ma quello avrebbe potuto essere un punto di partenza.

«Io provo già qualcosa» sussurrò. «Devo solo capire cosa».

«Possiamo capirlo insieme».

Annuì alle mie parole e fu lui, allora, a baciarmi dolcemente sulle labbra, sfiorando piano il mio viso con i polpastrelli.

Ero felice, nonostante tutto. Era ovvio che tutti i nostri problemi non se ne erano andati, ma una piccola parte sembrava esser sulla buona strada per essere sistemata.

Quella notte la passai con Simon, stretta al suo corpo, al caldo e riuscii a dormire sul serio, beata nel suo abbraccio e nelle sue carezze.
Non sognai e probabilmente fu perché ciò che desideravo lo avevo accanto.

Tuttavia, quando mi svegliai quella beatitudine in cui mi ero immersa sembrava essere sparita. Simon non era più accanto a me: mi ritrovai su quel divano che dava l'impressione di essere eccessivamente grande senza di lui. Stranamente, non mi allarmai troppo. Qualcosa dentro di me mi suggerì di restare calma.
Mi sfregai gli occhi in modo distratto e mi tirai su, a sedere su quei cuscini scomodi. Poco distante, accovacciato sul letto, con lo sguardo fisso su di me, scorsi Thomàs.
Sobbalzai, vedendolo e notando, soprattutto, come i suoi occhi mi stessero scrutando nei minimi dettagli. «Oddio!» esclamai. «Mi hai spaventato».
Lui non ebbe alcuna reazione, tanto che iniziai a chiedermi se stesse respirando o meno. «Stai... Bene?» osai chiedere e, ancora, nessuna risposta. La sua apatia riusciva soltanto a rendermi ansiosa. «Thomàs?» sussurrai.

«Una bella chiacchierata quella di stanotte» disse, ad un tratto. Il suo tono di voce risultò quasi metallico.

«Eri sveglio?».

«Purtroppo per me, sì».

Sospirai. Un po' mi dispiaceva che avesse sentito il modo in cui avevo ricalcato il mio amore per Simon, sebbene fosse già a conoscenza di ogni cosa.
Non avevo idea di cosa effettivamente Thomàs provasse nei miei confronti. Sapevo ci fosse attrazione – fisica, sicuramente – e che gli piacevo, ma oltre non si era mia spinto e dal mio punto di vista era fin troppo emblematico per far sì che io lo capissi da sola. Contemporaneamente, era ermetico, chiuso in se stesso per ciò che lo riguardava di persona. Era vero che io tendevo a occuparmi di altro pur di non affrontare le mie paure, ma lui non era da meno.

«Erano cose che sapevi» mormorai.

Accennò una risata, sarcastica. «Sì, ma pensavo avessi cambiato idea, in qualche modo».

«Non è qualcosa che si può cambiare solo schioccando le dita». Scossi appena la testa e mi alzai, a fatica, in piedi. Thomàs fece lo stesso, quasi di riflesso. Riuscii a muovere un solo passo prima che lui mi raggiungesse, piazzandosi di fronte a me. «Perché no?».

Scossi appena la testa. «Che cosa vuoi da me?» dissi. «Che io faccia una stupida scelta? Non accadrà. Questa non è una battaglia tra te e Simon e io non sono il premio da vincere».

Lui serrò nervosamente la mascella, intensificando il suo sguardo su di me. Quasi mi sentii ferita da quel suo gesto, ma riuscii a sostenerlo, trattenendo il respiro.

«Siamo andati a letto insieme» sibilò «e non ne abbiamo nemmeno mai parlato. Sono certo che a Simon non hai rivelato questo piccolo particolare o sbaglio?».

«E' stato un errore e ti avevo detto che non si sarebbe ripetuto».

«Oh, quindi per te non ha significato niente?».

Non volevo rispondere a quella domanda. Non sapevo davvero cosa dirgli perché ero sicura di aver provato qualcosa nei suoi confronti quella notte, ma niente di paragonabile a ciò che avevo sempre sentito con Simon.

Loro erano due persone diverse.

Io stessa ero diversa poiché li avevo incontrati in fasi differenti della mia esistenza.

Mi ero innamorata di Simon come Divoratrice e per quanto la storia della Cercatrice e della Chiave fosse coinvolta, quel sentimento non era scomparso. Thomàs, invece, aveva interagito solo con la mia parte umana, confusa da nuove sensazioni mai percepite prima.
Avrei potuto dire un sacco di cose, anche frasi senza senso, allora, ma non seppi il motivo per cui tutto ciò che mi uscì di bocca fu: «No, non ha significato nulla».

Avevo timore di come avrebbe potuto reagire e mi pentii subito della frase appena pronunciata.

La rabbia e la tristezza avevano una brutta influenza su di lui e forse era meglio chiudere il discorso in quel preciso istante.
Mi morsi il labbro inferiore e feci per scansarlo, con l'intenzione di allontanarmi, ma Thomàs mi afferrò per un braccio, impedendomelo. Strinse con forza, mentre i suoi occhi cercavano disperatamente di incatenare i miei.

«Lasciami» esclamai e ovviamente non mi obbedì. Cercai di divincolarmi, ma ero troppo debole per aver successo. «Thomàs, lasciami, mi stai facendo male».

Fu in quel momento che vidi l'azzurro farsi largo nei suoi iridi. L'oscurità lo stava avvolgendo e io ne ero la diretta responsabile.

Temetti il peggio.

Tuttavia, d'improvviso, lui mollò la presa e si voltò di scatto, tremando e dandomi le spalle. «Dovresti uscire da qui» disse, con tono fermo. «Ora».
Una persona con un minimo di buon senso gli avrebbe dato retta e sarebbe fuggita da quella stanza, chiudendo a chiave la porta. Io, però, ero testarda. Era stato proprio Thomàs a definirmi in tal modo.

«No, non vado da nessuna parte» biascicai. Non volevo che crollasse per colpa mia, che tutto ciò su cui aveva lavorato per una vita intera andasse in frantumi perché io ero stata troppo stupida.

«Vattene, Hazel».

«No».

Forse sarei riuscita a calmarlo, in qualche modo. Lo avevo già fatto una volta. Non sapevo come, ma avevo avuto successo.
Prima che potessi anche solo provarci, però, Simon rientrò nella stanza, del tutto ignaro di ciò che stava accadendo e all'oscuro della vera natura dell'altro.
Bastò che compisse un solo passo dentro la camera che Thomàs scattò, precipitandosi su di lui. Lo afferrò per la gola e gli fece sbattere forte la schiena contro una parete. Poi lo sollevò, quasi non pesasse nulla, e lo gettò a ridosso del muro opposto.

«No! Fermati!» urlai e, ignorando la fitta alla gamba, mi interposi tra di loro, prima che Thomàs potesse raggiungere di nuovo Simon che ancora non era riuscito a rialzarsi.

I suoi occhi, intanto, scintillavano di quell'azzurro chiaro e gelido. Quando accadeva, era come se la sua indole umana scomparisse, lasciando spazio alla parte feroce che non riconosceva il giusto dallo sbagliato, il buono dal cattivo.
Presi il suo viso tra le mani, accarezzandogli piano le guance. La sua pelle era bollente. «Guardami» sussurrai. Per un attimo, sembrò funzionare perché mi fissò e mi parve di scorgere il classico nocciola nei suoi iridi, ma non appena Simon si mosse, tutto crollò di nuovo.
Thomàs si dimenò e dovetti fare un passo indietro.
Il problema, allora, era proprio quello: se rimanevano ancora nello stesso luogo, non si sarebbe calmato. «Simon, va' via» esclamai, dunque.

«Cosa? No. Non ti lascio da sola» obiettò, di nuovo in piedi, dietro di me.

Mi voltai appena, guardandolo in maniera seria. «Fidati di me ed esci» ribadii.
Tentennò ancora e, per un attimo, pensai non mi desse retta. Alla fine, tuttavia, cedette e mi obbedì, correndo fuori dalla stanza e chiudendo la porta.

Thomàs stava ancora tremando, con i pugni stretti lungo i fianchi e il respiro corto e irregolare.
Tornai ad essergli vicina, sfiorandogli il volto con i polpastrelli. «Puoi combatterla, okay?» sussurrai «come hai sempre fatto. Manda... Manda via l'oscurità».
Posai la fronte sulla sua e dovetti alzarmi sulla punta dei piedi per farlo. Da quella prospettiva, riuscivo chiaramente a vedere i suoi occhi sempre più chiari e per questo più minacciosi. «Mandala via» mormorai ancora. «Io sono con te».
Lui serrò la mascella e le sue mani si chiusero sulle mie braccia, ancora con forza rude che però, in maniera lenta, si affievolì.

«Sono con te» ripetei con tono flebile.

Chiuse gli occhi e sembrò riprendere il controllo. Perlomeno, lo sperai.

Avevo ancora paura e non potei negarlo. Avevo agito d'impulso, senza sapere se avrebbe funzionato.
Passarono esattamente trentasette secondi prima che sollevasse le palpebre; gli iridi erano tornati normali, color nocciola. Thomàs tremava ancora, ma non era la rabbia a percuoterlo. Si accasciò su di me, posando la testa sul mio petto, ed entrambi finimmo in ginocchio sul pavimento.
Lo strinsi, cullandolo come si sarebbe fatto con un bambino. Lui si aggrappò alle mie spalle e non disse né fece nient'altro. Ero io ad avere il fiatone, allora. L'ansia mi aveva del tutto divorato durante quei minuti.
Era davvero così forte l'oscurità che cercava di attirarlo a sé? E perché io sembravo avere tanto potere su di essa? Troppo potere.

Avevo potere su un'infinità di cose e non volevo funzionasse in quel modo.
Io non ero importante.
Ero soltanto un'umana mezza rotta e non valevo granché.
Nemmeno da Divoratrice lo ero. Non lo ero mai stata.

***

 

Lasciai Thomàs avvolto nelle coperte, sul letto. Si era tranquillizzato e aveva pianto così tanto da addormentarsi.
Non mi ero resa conto di quanto tempo fosse effettivamente passato. Forse tanto, forse non troppo.

Uscii dalla stanza chiudendomi piano la porta alle spalle.
Simon era rimasto lì vicino. Lo vidi a qualche metro di distanza, appoggiato con la schiena al muro rossiccio del motel. Mi avvicinai a lui, zoppicando, e solo quando gli fui di fronte si rese conto della mia presenza. Non disse nulla: sforzò solamente un sorriso e abbassò lo sguardo.
Io posai delicatamente la fronte sulla sua e a quel mio gesto rispose, cingendomi i fianchi con entrambe le mani.

«Come sta?» domandò e non fui in grado di capire quale sentimento lo avesse spinto a chiedere ciò.

«Sta bene» sussurrai «o... Starà bene, alla fine».

«Te li ha fatti lui questi?». Non mi ero accorta di come le sue dita, allora, stessero sfiorando i segni che già stavano divenendo violacei sul mio braccio. Li guardai, di sfuggita, poi il mio sguardo tornò a Simon e ai suoi occhi. «Non è niente» dissi.
Sospirò, per nulla convinto. Del resto, aveva appena assistito ad una scena a cui non sapeva dare una spiegazione logica: non lo biasimavo. «Non è colpa sua» aggiunsi.

«Allora di chi? Che è successo là dentro?».

«E' una... Lunga storia».

«Che non mi racconterai, vero?».

«No, ti dirò tutto. E' complicato, ma... Non voglio avere segreti dopo quello che è successo». Mi pizzicai la lingua con i denti dopo tale frase. Anche se gli avessi rivelato la natura di Thomàs, ci sarebbero comunque state delle verità nascoste che sarebbero rimaste tali per ancora un po' di tempo.

Sorvolai su ciò e gli raccontai quello che c'era da sapere riguardo agli eventi appena trascorsi. Simon mi ascoltò, mantenendo un'espressione seria e attenta sul viso.

«Un Djinn?» commentò, alla fine. «Sembrano lettere messe a caso».

Accennai una risata, che comprendeva un briciolo d'entusiasmo. «Sì, un po'».

«Quindi, ogni tanto va fuori di testa per questo?».

«Pressapoco».

«E tu riesci a calmarlo?».

«Ci provo».

«Beh, sicuramente io non ci potrei provare. Non... Non gli sto molto simpatico».

«E' solo perché non ti conosce».

«Non credo la cosa cambierebbe se lo facesse».

Feci una smorfia. No, non sarebbe stato diverso se Thomàs avesse approfondito i rapporti. Nemmeno voleva farlo, del resto. Tuttavia, non lo precisai.
Scossi solo appena la testa e fui sul punto di cambiare argomento. Purtroppo, però, il tono squillante di una voce fin troppo familiare mi precedette: «Bene, bene. Quanto romanticismo».

Due occhi rossi risplendevano in quell'ambiente fin troppo scuro per essere già passata l'alba. Tamara stava in piedi a qualche metro di distanza da noi, con le mani sui fianchi e un sorriso divertito stampato in faccia.
Prima che me ne rendessi conto, Simon si era parato davanti a me, come se volesse nascondermi da lei. Era buffo: fino a qualche tempo prima accadeva esattamente il contrario.

«Come siamo protettivi» commentò la Divoratrice. «Deduco tu non abbia paura che lei ti conduca nuovamente alla morte».

«Sei tu quella che mi ha ucciso, non lei» le rispose.

Tamara rise. «Già» esclamò poi «ma è stato un incidente. Ti avrebbe fatto fuori qualcun altro, comunque, non temere». Mosse qualche passo nella nostra direzione e si fermò solo quando fu vicinissima al viso di Simon. «Avanti» sussurrò. «Non puoi certo negare che non ci siamo divertiti insieme, poi. O sbaglio? Se non fosse per il fatto che sei scappato, a quest'ora eviterei anche di ridurti in un ammasso di poltiglia, ma... Non mi lasci propriamente scelta».

A quel punto, mi costrinsi a intervenire. Non volevo neanche immaginare cosa avessero fatto nel tempo trascorso in comitiva, ma sapevo quanto lei fosse crudele. Non che io avessi qualche possibilità in un eventuale scontro, ma l'istinto mi portò a scansare Simon e a interpormi tra lui e Tamara. «Stagli lontana» sibilai. Lei mi fissò, per niente intimidita. «Altrimenti?» esclamò. «Posso abbatterti solo schioccando le dita, Hazel».

«Sì? Provaci».

Mi pentii subito di tale minaccia. Ma che avevo in testa? Ero malandata, con una gamba quasi fuori uso e lividi che ancora mi facevano male. Non avrei avuto chance di vittoria nemmeno in condizioni normali.
Poco dopo, infatti, Tamara mi afferrò per la maglietta e mi spinse via, a ridosso di un muro di pietra, su cui sbattei violentemente la schiena, provocandomi ulteriore dolore, cadendo fragorosamente a terra. Strizzai gli occhi e per un attimo persi il contatto con la realtà, a causa di quel parziale stordimento. Quando tornai lucida, vidi come Simon aveva iniziato a combattere contro la Divoratrice, brandendo uno di quei pugnali incantati di cui ci eravamo serviti mesi prima.
Non avevo idea di dove lo avesse preso. A noi ne era rimasto solo uno ed ero sicura che fosse ancora in camera, dentro ad un borsone. Non sapevo neanche dove avesse imparato a combattere così, in maniera non goffa. Nella battaglia contro Sebastian e i suoi scagnozzi, si era dato da fare, ma non aveva quella tecnica e quella precisione, tanto da tener testa ad una come Tamara.
Per un attimo, pensai che fosse addirittura in grado di sconfiggerla e costringerla ad una ritirata; ma proprio quando fu a terra e lui sul punto di colpirla in pieno petto, lei scattò, afferrando il braccio di Simon con forza, il che lo costrinse a mollare la presa sul manico della lama, la quale ricadde a terra, tintinnando.
A tale visione, non riuscendo ancora a rimettermi in piedi, strisciai verso di essa, ma Tamara fu più veloce. Afferrò il pugnale e lo conficcò nella spalla di Simon, che urlò, mentre il suo sangue cominciava a scorrere.

«E' tutto così facile» esclamò la Divoratrice ed estrasse l'arma con nessuna delicatezza, pronta a colpire di nuovo, quella volta in maniera letale.

Io avrei voluto fermarla: tentai di farlo; cercai di mettermi in piedi e di bloccare la sua mano che si apprestava ad agire, ma era come se tutta la gravità mi tenesse incollata al pavimento, senza possibilità di muovermi.
Temetti che la storia si ripetesse, che dovessi vedere Simon morire di nuovo a causa sua e mi ritrovai a trattenere il respiro. Tuttavia, proprio quando il colpo avrebbe dovuto arrivare, qualcosa successe, in modo così rapido e fulmineo da non darmi il tempo di realizzare l'accaduto.
Chiusi e riaprii più volte gli occhi, per rendere la mia vista meno offuscata e... No, non mi ero immaginata tutto: la testa mozzata di Tamara rotolò appena sul pavimento, accanto ad un corpo ormai immobile.

Sollevai lo sguardo e vidi Thomàs, sporco di sangue, con in mano un'ascia.

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Capitolo 20
*** Chosen. ***


Capitolo 20
"Chosen"


Avevo sempre sentito parlare di situazioni in cui il mondo attorno sembra fermarsi, insieme al tempo, e tu non sei più in grado di muoverti, né di respirare. Come praticamente ogni cosa attinente agli umani, l'avevo ritenuta una esagerazione.
Ma non era affatto così: esistevano davvero sensazioni del genere ed erano della peggior specie.
Non era panico, non era paura: si trattava di essere semplicemente inermi, senza una giusta concezione di spazio e realtà.


Ero ridotta in quello stato: parzialmente sdraiata a terra, dolorante, a pochi centimetri di distanza dal corpo mutilato di Tamara.
Il suo sangue, di un rosso talmente scuro da poter esser scambiato col nero, era schizzato ovunque ed era riuscito a sporcarmi il viso e i vestiti, mentre ancora si propagava sul cemento. A ciò, si univa quello di Simon; riuscii a scorgerlo poco più dietro. Teneva premuta una mano sulla spalla, in ginocchio e... Ancora sangue.

C'era sangue dappertutto.

Mi venne la nausea.

Con la forza che prima non avevo avuto, mi alzai in piedi e barcollai via, quel che bastava per non aver più davanti quell'orrore. Non riuscii ad allontanarmi molto.
Le mie gambe mi concessero il lusso solo di qualche passo, poi caddi di nuovo a terra, facendomi male alle mani che batterono su quello che ormai era asfalto. A quel punto, la nausea aumentò e la testa sembrò scoppiarmi. Era come avere la febbre.
Non l'avevo mai avuta direttamente, però riconoscevo i sintomi: avevo sentito persone elencarli innumerevoli volte.
Sebbene non avessi mangiato nulla dalla sera prima, il mio stomaco fu sottosopra e rigettai quei pochi avanzi che esso ancora conteneva. Quasi nulla, praticamente. Uscirono, più che altro, succhi gastrici – così pensavo si chiamassero – che mi lasciarono un sapore amaro e disgustoso in bocca.
Ero consapevole che quella non fosse la reazione giusta da avere. Avrei dovuto essere coraggiosa e forte, correre da Simon ed aiutarlo o che altro, ma proprio non ce la feci.
Una volta, forse, da Divoratrice, avrei ragionato più lucidamente, anche perché il sangue non mi aveva mai fatto un effetto simile.

“Ma sei una povera, debole e insulsa umana, adesso”. Una voce dentro alla mia testa infierì, quasi a rimproverarmi.

Scossi appena il capo, passandomi il dorso della mano sulle labbra. Tentai di alzarmi in piedi e, per mia fortuna, ebbi successo nel mio intento e trovai un briciolo di stabilità.
Mi voltai e mi bastò davvero poco per tornare al punto di partenza. Né Thomàs né Simon si erano mossi di un millimetro ed entrambi mi stavano fissando con la stessa espressione stampata in faccia.

«Sto bene» mi sforzai di dire, nonostante non fosse vero; non del tutto.

Thomàs sospirò. «Devo seppellirla» disse «altrimenti nel giro di qualche ora, ce la ritroveremo di nuovo tra le scatole».

Mi limitai soltanto ad annuire: prima si ripuliva quel casino, prima avrei potuto stare meglio. «Ci penso io» aggiunse lui. «Tu occupati di Simon. La ferita sembra profonda».
Fu una delle poche volte in cui lo chiamò per nome e non usò l'odioso termine “ragazzino”. In quel momento, tuttavia, ero fin troppo scombussolata per gioirne anche solo un po'.
Evitai di guardare in che modo il Cacciatore trascinò via il corpo senza testa. Ad un tratto, chiusi persino gli occhi e mossi qualche passo in quel modo, pur di non assistere al macabro spettacolo.
Quando sollevai le palpebre, Simon si era già drizzato e mi aveva raggiunto, ancora tenendosi la spalla. «Stai bene?» mi chiese, quella volta a voce alta. Non era minimamente preoccupato per se stesso, eppure stava sanguinando abbondantemente.
Sembrava non sentire nemmeno dolore. Era così diverso da quel ragazzino di mesi prima, che urlava e si spaventava per qualsiasi cosa. Quel lato, sotto certi aspetti, mi mancava.
Feci cenno di sì con la testa, distratta. «Andiamo dentro» esclamai. «Devi medicarti». Non osò obiettare ed insieme rientrammo in camera.
Per fortuna – o forse no? - il motel in cui alloggiavamo era estremamente isolato e dubitavo qualcuno avesse visto o sentito qualcosa. Non avevo proprio idea di come mascherare tutto.
Di solito ci pensava Martha.
Martha pensava a tutto, in realtà.

Ordinai a Simon di sedersi sul letto, mentre io recuperavo la cassetta del pronto soccorso in bagno – se quella davvero poteva esser definita tale: c'erano solo poche garze, delle fasce probabilmente già utilizzate e del disinfettante; nulla più. Avrei dovuto arrangiarmi.
Quando tornai nella stanza, Simon mi aveva obbedito, sistemandosi sul materasso. Lo aiutai a sfilare la maglietta e neanche in quel caso si lasciò sfuggire un gemito.
Presi posto al suo fianco e iniziai a tamponare con garze imbevute la ferita che notai, con sollievo, era meno grave del previsto, seppur molto profonda. Lui non batté ciglio. Mi lasciò terminare la mia operazione senza dire nulla e nemmeno io parlai.
Non avevo idea di cosa dire, comunque.

Non seppi cosa dire per i due giorni seguenti che, a confronto di ciò che era successo, furono pressapoco di calma piatta.
Ci spostammo in auto, con meta non conosciuta.
Io finsi di dormire per quasi tutto il tempo. Solo poche volte il sonno mi avvolse in maniera concreta. Quella volta non rientrava in tale insieme.

Avevo gli occhi chiusi, ma riuscivo a percepire ogni suono e rumore dentro la macchina.
Sia Thomàs che Simon, tuttavia, sistemati sui sedili anteriori – il primo alla guida, l'altro sul lato passeggero – mi credevano addormentata. Pensai fosse così, altrimenti non avrebbero intrapreso un determinato tipo di discorso verso il quale non seppi come sentirmi.

«Non ti ho ancora ringraziato per quello che hai fatto l'altro giorno» disse Simon. Sentii Thomàs sbuffare. «Non c'è bisogno» replicò, secco.

«Beh, mi hai salvato la vita».

«Non l'ho fatto per te».

«Certo che no. Lo hai fatto per lei».

«Nemmeno. Sono un Cacciatore, no? Caccio, tipo, le cose, ricordi?».

Lo prese in giro, ma diversamente da come accadeva di solito, Simon rise. Probabilmente, si era arreso al suo sarcasmo onnipresente. «Credo che a questo punto sia piuttosto inutile continuare a mentire» esclamò.

Thomàs sbuffò ancora. «Su cosa?».

«Sul fatto che provi qualcosa per Hazel. E' abbastanza evidente. La mia memoria fa cilecca spesso, ma su questo non si sbaglia».

«Non so a che ti riferisci».

«Oh, andiamo. Non saresti scattato come hai fatto quando lei ti ha respinto, altrimenti».

Ci fu un momento di silenzio che mi parve eterno. Avrei dovuto sollevare le palpebre e interrompere il loro dialogo, ma, stupidamente, non lo feci. Forse avevo soltanto voglia di sapere come tutto proseguiva – se fosse stato, poi, davvero così importante.

«Non sono cose che ti riguardano, ragazzino». Thomàs rispose solo allora e mi parve che l'auto avesse iniziato ad accelerare notevolmente.

«Tecnicamente, mi riguardano eccome se provi dei sentimenti per la mia ragazza» disse Simon.

«Non è la tua ragazza».

«Quindi, ammetti che ti darebbe fastidio se fosse davvero così».

«Non mi va di parlarne. E poi, detto sinceramente, nessuno ti dà l'esclusiva su di lei e...». interruppe la frase e ci fu di nuovo assenza di suono, quella volta addirittura più lunga.

«E' confusa» concluse Thomàs, dopo qualche secondo.

“Bene, oltre che ad essere inutile e malandata, ora sono anche confusa” pensai.

«Intendi... A causa di quella sorta di profezia?».

Il mio respiro si smorzò e temetti di star per soffocare in quel preciso istante. Mi sforzai di tenere ancora gli occhi chiusi e non seppi come esattamente riuscii a farlo.
Fu Thomàs a porre la stessa domanda che avrei fatto io: «Tu... Come lo sai?». Simon sospirò. «Ho sentito parecchie cose quando ero via» tagliò corto.
Fece una breve pausa, poi riprese: «So cosa è successo. Prima che perdessi la memoria, mi sono innamorato di lei quasi per costrizione, per fattori sovrannaturali. Ma a me non importa, perché so ciò che provo ora e sono certo del fatto che non ci sia più niente di esterno. Adesso il fottuto destino non c'entra, ci sono solo io e... E mi sto comunque innamorando di lei, sono lo stesso legato a lei. Non mi interessa cosa è successo prima. Fanculo al Creatore, fanculo a qualsiasi altra cosa».
Il mio cuore stava scalpitando. Avevo sperato di udire quelle parole fuoriuscire dalla sua bocca dal momento esatto in cui la verità mi era stata rivelata. Quasi non mi sembrava vero e per un attimo temetti di essermi addormentata sul serio e di star sognando tutto. Mi diedi persino un pizzicotto sul braccio per accertarmi di essere sveglia, seppur con le palpebre calate.

Ed ero sveglia.

Stava succedendo sul serio.

A quel punto, avrei davvero voluto aprire gli occhi e baciare Simon con una foga inaudita, ma fui preceduta da Thomàs: «Perché mi stai dicendo tutto questo?».

«Perché voglio che tu sappia che qualsiasi cosa sia accaduta o accadrà, io non mi arrendo. Rimarrò qui, probabilmente farò altri errori, certo, ma non sparirò mai del tutto. E il fatto che tu abbia iniziato a provare dei sentimenti per lei... E' normale. Chi non lo farebbe?».

Non ci fu subito una replica e... Sì, quei silenzi stavano rischiando di farmi impazzire. Tutto quel discorso mi mandava fuori di testa, in realtà.

«Quindi, se la nostra sfida dovesse ricominciare, non devo aspettarmi una bandiera bianca da parte tua» commentò l'altro.

«Qualcosa del genere».

«Non credo sia necessario». Sospirò e sebbene i miei occhi fossero ancora chiusi, percepii lo sguardo di Thomàs addosso. Durò solo qualche secondo e mi mise i brividi.

«Non importa cosa io faccia» continuò «non cambierà nulla. Lei non mi guarderà mai nel modo in cui guarda te e... Dio solo sa quanto mi piacerebbe essere guardato in quel modo».

In un certo senso, si era contraddetto, come se la sua maschera da tipo duro e spavaldo si fosse rotta, lasciando spazio ad un lato più docile e ciò non fece altro che farmi sentire irrimediabilmente in colpa.
Affondai le unghie nel mio braccio, facendomi male di proposito perché il dolore fisico era più sopportabile di tutto il resto e mi ringraziai per aver continuato a fingere di dormire; certamente, non sarei stata in grado di sostenere il suo sguardo dopo quello che avevo appena sentito.

Non riuscii a farlo neanche quando fui costretta a sollevare le palpebre, una volta giunti ad un nuovo e trascurato motel. Evitai entrambi, chiudendomi in bagno e gettandomi sotto l'acqua bollente della doccia. Pregai che essa mi facesse smettere di pensare almeno un po'.
Funzionò, per qualche minuto, ma quando vi uscii, avvolgendomi in un grande asciugamano bianco, fu quasi peggio di prima.
Rimasi immobile davanti allo specchio per svariati minuti. Fissavo il mio riflesso, quasi non riconoscendomi. Non accedeva spesso che mantenessi per così tanto un aspetto ed essendo umana, in tal momento, quella era l'unica forma che avrei mai potuto prendere.
Da un lato, mi stava bene. Mi piaceva il viso di Johanna, il suo corpo minuto, i suoi occhi verdi. Certo, fosse stata leggermente più alta, avrebbe aiutato, ma potevo conviverci.
Dall'altro, invece, mi dispiaceva non poter più essere in grado di cambiare i miei tratti. Mi avrebbe fatto comodo nell'assurda situazione in cui mi trovavo.

Con ancora i capelli umidi, mi asciugai distrattamente e misi addosso un paio di pantaloni neri e attillati e una maglietta blu che mi stava abbastanza larga. Dovetti prendere almeno tre respiri profondi prima di decidermi ad abbandonare il piccolo bagno della stanza
Simon e Thomàs si trovavano agli antipodi di quel luogo, il primo seduto su una poltrona apparentemente per niente comoda, intento a sfogliare quella che pareva una rivista su auto sportive; il secondo, sdraiato sul letto, a fissare il soffitto.
Io ero nell'esatto centro. La stessa distanza mi divideva da entrambi e non sapevo dove andare, perché mi sembrava che qualsiasi cosa avessi mai fatto, sarebbe stata sbagliata.
Così decisi, semplicemente, di essere neutrale e mi diressi verso la porta di legno che segnava l'ingresso della camera. La aprii, scuotendo appena la testa, con l'idea di fare due passi fuori o, più che altro, per stare lontana da tutta quella tensione che mi stava opprimendo.
Tuttavia, il mio intento fu stroncato ancor prima di poter esser messo in atto. Di fatti, sulla soglia, apparve di fronte a me un volto familiare, contorto in un'espressione che non seppi decifrare.

«Katie?» esclamai e non potei dire più nulla, poiché lei mi ricadde addosso, di peso, facendo finire tutte e due sul pavimento.

Il suo corpo era pesante, come se fosse svenuta – ma i Divoratori nemmeno potevano svenire – tanto che non riuscii a muovermi finché qualcuno non la tirò via da me. Mi drizzai rapidamente e vidi Katie tra le braccia di Thomàs, inginocchiato a terra.
I suoi occhi erano appena socchiusi e la sentii biascicare qualcosa di incomprensibile. Ero preoccupata: non avevo mai visto un Divoratore in quelle condizioni. Era dannatamente strano.

Thomàs adagiò, piano, Katie sul letto. Seguii i suoi movimenti con lo sguardo, ferma davanti alla porta che Simon si affrettò a chiudere.
«Che le è successo?» mi chiese proprio quest'ultimo. «Non ne ho idea» replicai, distratta.

Non osai fare supposizioni su ciò che le era accaduto. Sarei finita soltanto con l'avere mal di testa. Aspettai che Katie tornasse in sé e le ci volle almeno un'ora per farlo.
Le ero seduta accanto, sul bordo del materasso, quando i suoi occhi scintillarono di rosso e mi guardarono, quasi con sollievo. Simon e Thomàs erano rimasti lì vicino, accomodati sull'altro letto presente nella stanza.

«Hazel» disse Katie. «Ti ho trovata».

«Già» replicai, aggrottando le sopracciglia. «Perché mi stavi cercando?».

Lei abbozzò una risata, sarcastica. «Ti perdi sempre un sacco di cose, ragazza». Si tirò su, appoggiando la schiena sulla testata. Nessuna parola uscì dalla mia bocca, ma, con lo sguardo, le feci capire che volevo mi spiegasse ogni cosa.
Katie sospirò, passandosi una mano sul viso. «Sono scappata» sussurrò. «Il Creatore sta radunando la sua armata, lo sai, e se non decidi di schierarti, ha i suoi mezzi per farti cambiare idea».
«E' riuscito a catturarti?» chiesi, allora, e lei annuì, distrattamente. «Non sai quanto le cose sono cambiate» aggiunse, poco dopo. «Siamo ad un punto di non ritorno. Il pugnale che aveva scovato il tuo fratellino? Ne esistono migliaia, adesso. Ci vuole molto per fabbricarli, occorrono essenze e grandi riti magici, ma si stanno attrezzando. Manca poco. Stanno aspettando l'ultimo segnale e poi la guerra tra Creatore e Creatrice comincerà».

«Qual è l'ultimo segnale?».

La Divoratrice esitò. Lanciò un'occhiata a Thomàs e Simon, come se non fosse del tutto sicura di poter parlare con loro due presenti. Poi i suoi occhi tornarono fissi su di me. «Sei tu» disse, con tono fermo.

Temevo tale risposta. Non volevo fosse proprio quella. «Io non darò inizio proprio nulla» sbottai, scuotendo ripetutamente la testa.

«Ma tu devi» insistette Katie, afferrandomi per un braccio e stringendo forte la presa.

«No» ribadii. «Perché accidenti dovrei?».

«Perché tu sei l'arma segreta. Ti sei mai chiesta che vuol dire?».

Lo avevo fatto un sacco di volte, soprattutto quando avevo deciso direttamente di consegnarmi. Erano sorte molte ipotesi a riguardo, ma nessuna era una spiegazione certa e plausibile.

«Non mi interessa» mentii. «Non voglio scoppi una battaglia sanguinolenta per colpa mia».

«Non capisci!». Katie si ritrovò a urlare. «Tu sei la soluzione di tutto! Tu darai inizio alla guerra e tu segnerai la sua fine».

Per un momento, credetti stesse delirando. Sarebbe stato logico, considerate le condizioni in cui si trovava poco prima. Eppure, l'espressione sul suo viso era fin troppo seria per trattarsi di pura pazzia.

«Sei l'unica in grado di farlo» andò avanti. «l'unica che può brandire l'arma in grado di uccidere sia il Creatore che la Creatrice. Ecco perché ti vogliono dalla loro parte, perché chi ha te, ha già vinto».
Mi pizzicai leggermente il labbro inferiore. Era tutto così assurdo detto ad alta voce – non che solo pensato avesse più senso. «Come potrei anche solo sperare di avvicinarmi a uno di loro?» obiettai.
«A cosa credi servano le armate e i pugnali?». La Divoratrice roteò gli occhi, quasi seccata dalla mia ignoranza, alla quale non potevo rimediare. «L'esercito ti spianerà la strada, ti proteggerà, perché ovviamente la controparte cercherà di farti fuori, ma tu... Andrai avanti e colpirai».
Mi venne da ridere. Non lo feci di proposito, fu una reazione spontanea e probabilmente dettata dall'isterismo, tanto che Thomàs e Simon mi guardarono storto per più di qualche secondo.
«Scusate» esclamai, alzandomi in piedi e allargando le braccia, e mossi qualche passo distratto nella stanza. «Tutto questo è molto... Molto carino, Katie» commentai «e pare che qualcuno abbia progettato ogni cosa nei minimi dettagli, come sempre, del resto, ma... Ma non credo io farò nulla del genere. Non ne sono capace. Trovate qualcun altro».

«Nessun altro è come te, dannazione!». Katie sbraitò e si alzò di scatto dal letto, raggiungendomi nel tempo di un battito di ciglia. Il suo volto si ritrovò a qualche centimetro dal mio e l'espressione che vi si era dipinta sopra rasentava la furia. I suoi occhi scintillarono di rosso.

«Non ho rischiato tutto per niente» sibilò. «Luke è morto per permettermi di fuggire e trovarti e per nessuna ragione al mondo permetterò che la tua debolezza renda il suo sacrificio vano, intesi? Tu lo farai. Ti schiererai dalla parte di uno dei due, non mi importa chi, ucciderai chi ti compete. A quel punto la Resistenza interverrà e farai fuori l'altro. Dopo potremo creare un nuovo regime con il quale convivere in pace con gli umani. Sono stata abbastanza chiara?».

Capii, allora, che la rabbia che la ricopriva era determinata da un diverso fattore; non ce l'aveva direttamente con me, era soltanto triste per la morte di Luke, suo compagno da secoli, e ciò la stava pian piano distruggendo. Sotto quell'aspetto, la potevo capire benissimo, e non ebbi la forza di contraddirla o ribattere.

Annuii e basta, accettando così quel suo piano architettato da chissà chi e chissà quando, diabolico e imperfetto allo stesso tempo, sicura che me ne sarei pentita entro breve tempo.
Era come esser tornati alla partenza, con io che dovevo consegnarmi, solo che, quella volta, non volevo farlo. Avrei voluto continuare a scappare, anche per sempre – o per il resto della mia vita, in realtà – sapendo che Simon sarebbe rimasto al mio fianco, sebbene non me lo avesse detto direttamente.

Ma era troppo tardi per tirarmi indietro.

Prima che trovassi il coraggio di, finalmente, obiettare, Katie si era dissolta nell'aria, dicendoci di non muoverci da quel luogo, che lei avrebbe avvisato la Resistenza – che capii fosse un gruppo di Divoratori che rifiutavano di schierarsi e avrebbero poi progettato il Nuovo Regime – e sarebbe tornata entro un paio di giorni.

Il fatto di avere un destino già scritto per ogni minima cosa cominciava a darmi sui nervi.

Insomma, giusto per citare una persona a caso, “fanculo al destino”.

Eppure, non potevo sottrarmi ad esso, non senza che Katie e almeno un altro migliaia di Divoratori inveisse contro di me.

Non c'era via di scampo.

 

***


Sedevo su un muretto poco distante al motel in cui alloggiavamo. Esso si trovava distante dalla strada, tanto che non si udiva nemmeno il rumore del traffico in lontananza – non che effettivamente ci fosse.
Molto probabilmente, eravamo gli unici alloggianti lì, come capitava spesso – se non sempre.

Stare chiusa in camera non mi piaceva, per una svariata serie di motivi, quasi mi sentissi soffocare dentro quelle quattro mura.
Fuori, al freddo - pur essendo prossimi alla primavera - le cose non andavano un granché bene, ma sempre meglio del primo luogo.

Fissavo un punto vuoto davanti a me, cercando di concentrarmi su qualsiasi cosa che non fosse la Battaglia, l'Arma Segreta o checchessia, per quanto fosse difficile pensare ad altro. In qualunque modo la giravo, la mia esistenza non era mai stata così travagliata.

«Ehi». La voce di Simon mi fece sussultare appena. Mi bastò girare di poco il capo, per vederlo sedersi al mio fianco. «Stai bene?» chiese.

Avevo iniziato ad odiare quella domanda.
Ero solita rispondere ad essa con un sì, che fosse convinto o meno non importava. Lo dicevo quasi per circostanza, spesso per non gravare con i miei problemi sulle spalle degli altri, ma in quel momento il peso più grande lo stavo portando io e non ce la feci a fingere.

Scossi di poco la testa, in cenno di diniego. «No. Non sto affatto bene» mormorai.

Senza che lo volessi, i miei occhi si erano fatti lucidi. Guardai i suoi, talmente azzurri che parvero risplendere, nonostante la poca luce della sera.

«Ho paura, Simon» sussurrai. «Non ne ho mai avuta così tanta e... E non capisco nemmeno perché. Non... Non dovrei averne».

«Sei umana, Hazel. E' normale aver paura praticamente di tutto. E, in questo caso, sei persino giustificata».

«Ma non voglio. Quando... Quando ho paura, non riesco a ragionare lucidamente, sono soltanto bloccata e...».

Lasciai la frase in sospeso e mi alzai di scatto, muovendo qualche passo in modo distratto. Lui mi seguì dopo qualche secondo, fermandosi di fronte a me, che ormai avevo iniziato a piangere.

“Ti fai male e piangi. Piangi e ti fai male. Bel salto di qualità”. La mia coscienza inveii contro di me. Non me la presi; del resto, faceva bene a ricalcare la mia dannata debolezza.

Simon prese il mio viso tra le mani e, con i pollici, asciugò le lacrime che mi erano scivolate lungo le guance. «Non sei sola, okay?» disse. «Io sono con te. Sempre, e... E so che forse non sono il più indicato per scacciare le paure, dato che sono il primo ad aver terrore di tutto, ma... Ma se serve, manderò via le tue».

Poggiai delicatamente le dita sulle sue braccia e socchiusi gli occhi. Il fatto che tentasse di rassicurarmi sembrò alleviare le mie preoccupazioni, almeno un briciolo.

Era solito accadere il contrario. Ero sempre io quella pronta a consolare perché, fino a quel momento, ero stata la più forte. Ma allora... Allora non più. Ero divenuta la più debole e avevo estremo bisogno del suo sostegno.

«Ho sentito quello che hai detto a Thomàs, in macchina, l'altro giorno» sussurrai. Lui aggrottò le sopracciglia e capì a cosa mi stessi riferendo solo qualche secondo dopo.

«Stavo facendo finta di dormire» continuai, mordendomi piano il labbro inferiore. «Forse non avrei dovuto ascoltarvi, lo so, ma...».

«No, va bene» mi interruppe. «Volevo lo sentissi».

«Dovrei chiederti come hai fatto a venirne a conoscenza, però non sono certa di volerlo davvero sapere».

Simon abbozzò una risata. «Non è complicato da spiegare e... Ho rischiato di impazzire ascoltando tutto. Io rischio sempre di impazzire, in realtà, e non so come tu possa sopportarmi». Fui io a ridere, allora, anche a causa dell'espressione buffa che era apparsa sul suo volto.

«Non mi interessa chi ha deciso cosa chissà quanto tempo fa. Questa parte è semplice» concluse.

Annuii. «Fanculo al destino, no?».

«Fanculo al destino». Sorrise appena e poi si sporse nella mia direzione, baciandomi dolcemente sulle labbra. Quando mi distaccai, mi alzai sulle punte dei piedi così da poter poggiare la fronte sulla sua.

«Stavo pensando» dissi, a bassa voce «questa è una specie di nostra ultima notte al mondo».

«Non...».

«Possiamo fingere che lo sia così che possa chiederti una cosa?».

«Okay».

Sospirai e prima di dire altro, lo baciai ancora una volta, con più foga. «Fai l'amore con me» biascicai sulle sue labbra. Avrebbe dovuto suonare come una domanda, ma non lo fece. Fu quasi una supplica, un mio desiderio esternato, una mia necessità per sentirlo più vicino che mai.
Sperai che non dovessi spiegargli cosa tutto ciò stava a significare; per un momento, avevo rimosso dalla mia testa il fatto che i suoi ricordi fossero quasi del tutto inesistenti e finii per mordermi forte il labbro inferiore in attesa di una replica.
Per mia fortuna, non accadde nulla di eccessivamente strano: non mi chiese spiegazioni, fece soltanto cenno di sì con la testa e, allora, la sua bocca ritrovò la mia.
Mi distaccai a stento, prendendolo per mano e trascinandolo verso... Beh, tornare in camera non era propriamente l'ideale. Mi sentii ridicola anche solo a pensare a certe cose, ma dividevamo quella stanza con Thomàs e sarebbe stato imbarazzante.
Così, senza ragionarci troppo, immersa tra i suoi baci e le sue carezze, finimmo sui sedili posteriori dell'auto che usavamo per muoverci, parcheggiata proprio lì vicino, sotto l'unico grosso albero dei dintorni.
Non era certo l'emblema del romanticismo, ma, d'altronde, a me bastava lui con i suoi gesti impacciati, i suoi mezzi sorrisi, le sue leggere risate, il suo calore; come se fossimo una normale coppia di adolescenti, senza alcun problema.
Mi piacque credere che quella fosse la nostra realtà, mentre i vestiti ci scivolavano via di dosso, con delicatezza, e i vetri dell'auto cominciavano, lenti, ad appannarsi.
Passai le dita fra i suoi capelli, quel gesto che mi piaceva tanto fare. Lui mi mordicchiò il collo e allora risi, del tutto felice.

Perché sì: ero felice. Simon Clarke mi rendeva tale e avrei potuto urlarlo al mondo, fino a perdere fiato.

Mi abbandonai completamente ai suoi movimenti lievi e più volte i nostri occhi si incrociarono, senza che nessuno dei due parlasse. Non serviva: gli sguardi comunicavano da soli.
Diamanti verdi dentro diamanti azzurri che si fondevano e si univano, a formare un solo corpo e una sola anima, mentre il cielo stellato appariva sopra di noi, libero dalle nuvole di tempesta che però, inevitabilmente, sarebbe arrivata.

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Capitolo 21
*** No turning back. ***


Capitolo 21
"No turning back"


Il tempo è l'unico ente che nessuno può davvero controllare. Esso scorre addosso a qualsiasi essere – sovrannaturale o meno – senza la possibilità di cambiarlo, deviarlo o sconvolgerlo.

Avessi potuto riavere qualche abilità al di fuori dal comune, avrei chiesto di inventare un potere che cambiasse quella concezione di invariabilità.

Avrei voluto che il tempo si fermasse per sempre, in quel preciso istante.

Ero sdraiata sul petto nudo di Simon, con l'orecchio poggiato proprio sopra al suo cuore, di cui percepivo i lievi battiti. Avevamo addosso soltanto i nostri vestiti arrangiati come se fossero una coperta, a nascondere poche parti dei nostri corpi.
Non che fosse importante celarci da occhi indiscreti: in quel posto, chi mai avrebbe potuto scovarci?

Sollevai appena il capo, quel che bastava a incrociare i suoi occhi e fu inevitabile sorridere. «Mi stai fissando» commentai.

«No, ti sto solo osservando nei minimi particolari» replicò lui, continuando a far scorrere su e giù le dita sulla mia schiena.

«È la stessa cosa».

«Allora... Dovrei smetterla di farlo?».

«Assolutamente no».

Risi e strisciai insù così da poter raggiungere le sue labbra e baciarle, delicatamente. Non riuscii nel mio intento, però: poco prima che le nostre bocche si toccassero, qualcuno bussò al vetro del finestrino, freneticamente.
Sobbalzai, voltandomi, e vidi Thomàs lì affacciato. Simon si era già affannato a coprirmi dal suo sguardo come meglio poteva, con le mani e con la sua felpa. «Che vuoi?» mimò con la bocca, senza però proferire suono.
Thomàs roteò gli occhi e aprì la portiera senza nessun altro preavviso. «Non voglio proprio niente» esclamò «ma Katie è qui e la pazienza non è il suo forte».

«Okay!» dissi. «Ora arriviamo».

Mi aspettai che con quell'affermazione se ne andasse, invece rimase fermo, con un'espressione impassibile sul viso. «Ho detto che arriviamo» ribadii. A quel punto, Thomàs abbozzò una risata sarcastica. «D'accordo» replicò. «Oh, bel fondo-schiena! Vi siete dimenticati di coprirlo per bene».
Si congedò in quel modo che non capii fosse semplicemente scherzoso o indicato per stuzzicarmi. Non ci badai molto: fui più divertita dalla smorfia che fece Simon quando l'altro girò sui tacchi e si allontanò. «Non la smetterà mai, vero?» commentò.

«Non credo» dissi. «Thomàs è fatto così: l'ironia e il sarcasmo sono i suoi elementi naturali».

Lui sforzò palesemente un sorriso. Era evidente che non contenesse un briciolo di entusiasmo. Una mia mano, allora, si posò piano sulla sua guancia e, lentamente, le dita scorsero a sfiorare con delicatezza i contorni delle labbra. «Sei geloso, Simon Clarke?» sussurrai.

«Forse» rispose, con qualche secondo di esitazione.

«Non esserlo». Scossi appena la testa e mi sporsi nella sua direzione fino a raggiungere le sue labbra, per quel bacio che poco prima era stato interrotto. «Io sono tua».

A quel punto, lui sorrise sul serio, facendo apparire sul viso quelle fossette che da tanto mancavano, quelle che io adoravo. Fece incontrare di nuovo le nostre bocche, sfiorandomi piano la guancia e, in successione, il collo.
Poco dopo, tuttavia, i nostri attimi di assoluta serenità furono interrotti da qualcuno che tornò a bussare al finestrino. Ero già pronta a inveire contro Thomàs, ma, quando mi voltai, fuori dall'auto, vidi Katie, che allargò le braccia, esterrefatta, e aprì la portiera di scatto. «Sta per iniziare una guerra e voi perdete tempo a fare sesso? Sul serio?» esclamò, acida. «Muovetevi!».
L'ultima parola la urlò e poi si allontanò, brontolando ancora qualcosa di parzialmente incomprensibile. «Okay» commentai, ridendo, pur consapevole che in un momento critico come quello non ve ne era motivo. Molto probabilmente era Simon a condizionare in modo spropositato il mio umore e a donarmi costante ottimismo anche quando ogni cosa era fuori posto.

Fosse dipeso da me, sarei rimasta in quell'auto per sempre. Stavo bene lì e non mi pareva giusto interrompere uno dei pochi istanti idilliaci che mi era stato concesso da quando ero umana. Eppure, per cause maggiori, dovetti farlo: rivestirmi, scendere dalla macchina e rientrare nella stanza di motel, dove Katie mi stava aspettando, insieme a Thomàs.

«Oh, finalmente!» esclamò la Divoratrice, impaziente. «Sono contenta anch'io di vederti» replicai io.
Katie mi fulminò con lo sguardo e avrebbe volentieri inveito contro di me per il resto della giornata, ma abbandonò l'intento, probabilmente rendendosi conto che così avrebbe sprecato altro di quel suo prezioso tempo. «Sbrighiamoci» disse, allora. «Ci sono tante cose che dobbiamo spiegarti, tante da sistemare e il resto».

«Cose da spiegare?» intervenni. «Pensavo mi avessi già detto tutto».

«No, ti ho detto solo una parte, quella necessaria a convincerti. Ma un conto è la teoria, poi c'è la pratica. Devi comunque vedertela con il Creatore, no? Pensi di andare da qualche parte con quel corpo malandato?».

Feci una smorfia. «Grazie del complimento».

Katie sorrise, ironica. «Bene, saluta i tuoi due bei fusti. Abbiamo fretta».

«Oh, aspetta un attimo». Simon si intromise nel discorso e me lo ritrovai di fianco, mentre sosteneva lo sguardo di Katie senza alcuna preoccupazione. «Che significa che deve salutarci? Noi veniamo con voi».

«Te lo puoi scordare, occhi blu» ribatté la Divoratrice. «Tu e il francesino rimarrete qui. Non ci siete utili».

«Beh, tu ti puoi scordare che io lasci Hazel da sola in una situazione del genere».

Katie sorrise, sarcastica. «Stai cercando di minacciare un Divoratore, ragazzino?».

Prima che Simon replicasse, mi interposi tra loro. Volevo evitare sorgessero discussioni inutili tra di noi. «D'accordo» esclamai. «Restano qui».

«Cosa? No!». Simon obiettò subito, come sospettavo. Sospirai e dovetti socchiudere per un attimo gli occhi.

Già, l'istante di assoluta felicità si era dissolto. Era tornata la tensione e, pian piano, stava tornando anche il dolore. Tuttavia, la mia positiva convinzione che tutto si sarebbe sistemato non era stata annientata. Ne scorgevo ancora i tratti dentro alla mia testa. Ciò che dovevo fare era trasmetterne un po' anche a lui.
«E' okay» sussurrai, prendendo il suo viso tra le mani. «Posso farcela da sola».

«No, non puoi. Non... Io voglio aiutarti».

«Mi aiuterai più stando qui, perché saprò che sei al sicuro».

«Non...».

«Andrà tutto bene, vedrai. Poi tornerò da te e ci dimenticheremo di questa storia».

Sentii Katie sbuffare. «Possiamo farla breve?» si lamentò. Roteai gli occhi: la pazienza non la sfiorava neanche lontanamente, altro che “non è il suo punto forte”.
Dovetti sforzarmi di ignorarla, concentrandomi sugli occhi di Simon che continuavano a fissarmi. Non fu troppo difficile: i suoi fari azzurri avevano un effetto ipnotico su di me.

«Ci vediamo tra un paio di giorni, d'accordo?» gli sussurrai, mordendomi piano il labbro inferiore. Sembrava quasi stessi partendo per una sorta di gita fuori porta, del tutto tranquilla e priva di pericoli, anziché una battaglia cruenta nella quale il rischio di morire era eccessivamente elevato, ma dire quelle cose fu d'obbligo, sia per il suo benessere che per il mio. Lui non era molto convinto, ovviamente, ma si sforzò di annuire. Socchiuse gli occhi e mi baciò sulle labbra.
Stavo cominciando ad abituarmi a quel suo modo di fare gentile e premuroso. Forse mi era mancato così tanto che ogni cosa, in quei momenti, appariva amplificata.

Quando mi distaccai, abbozzai un sorriso e feci un passo indietro, lentamente. Mi voltai e cercai lo sguardo di Thomàs, che era rimasto in silenzio per tutto il tempo, quasi estraneo a quella situazione.
Per una frazione di secondo, nella mia testa si materializzò l'idea di fargli solo un cenno di saluto e scomparire subito con Katie, ma sarebbe stato ingiusto nei suoi confronti.
Non che il mio comportamento fosse stato diverso in precedenza. Fossi stata in lui, probabilmente me ne sarei andata chissà da quanto tempo. Invece Thomàs era restato al mio fianco.
Allora, mi sforzai di curvare le labbra all'insù e gli andai incontro, lasciandomi andare ad un abbraccio che sperai non lo ferisse e che non fosse frainteso in qualche modo. Lo percepii affondare il viso tra i miei capelli. «Non è un addio, no?» sussurrò al mio orecchio.

«No, non lo è».

«Ho ancora la mia lettera, in tal caso».

Non risposi più. Lo strinsi solamente più a me, finché Katie non sbuffò di nuovo e fui costretta a interrompere quel gesto.

Non aggiunsi altro. Non c'era bisogno di ulteriori parole.

Strinsi la mano della Divoratrice e chiusi gli occhi, evitando di rivolgere lo sguardo a Simon o a Thomàs e, nel giro di qualche secondo, ci dissolvemmo nell'aria.

***

 

La smaterializzazione – se così potevo definirla, dato che non avevo trovato altro modo – mi mise sottosopra lo stomaco, com'era già accaduto in precedenza.
Dovetti trattenermi dal non rigettare ogni cosa avessi ingerito a cena – e non a colazione; Katie non mi avrebbe permesso di consumarla, comunque.
Ero disorientata e avevo la nausea. Ci misi il doppio del tempo che di solito impiegavo a mettere a fuoco il luogo in cui ero stata catapultata. Sembravano quei corridoi bui tra i quali avevo camminato quando ero stata nella dimora del Creatore, con tanto di fiaccole accese e umidità.

«Seguimi» mi ordinò Katie.

“Non che io possa fare altro” pensai, obbedendole.

La Divoratrice aveva un passo eccessivamente svelto. Faticai a starle dietro, tanto che, ad un tratto, fu d'obbligo iniziare a correre pur di mantenere il suo ritmo. Ringraziai chissà chi non appena raggiungemmo la meta e sbucammo in un grosso spazio, alto e largo almeno un centinaio di metri, costeggiato da rocce scure e piccole fessure in esse, utili a far penetrare la lieve luce del sole.
Non fu quello a sorprendermi, ovviamente. Avevo già visto luoghi del genere nel corso della mia esistenza: sotterranei e rifugi segreti, al fine di protezione per quelli della mia – ormai – ex razza oppure agli umani per nascondersi da quelle guerre che loro stessi avevano causato.
Ciò che mi stupì fu l'elevato numero di Divoratori presenti in ogni dove, seduti o in piedi, tutti che mi fissavano, facendo scintillare i loro occhi rossi in quella semi-oscurità. Erano tanti, una vera e propria armata.

«Benvenuta nella Resistenza» esclamò Katie e da qualche parte si sollevò un applauso.

Non ne seppi gioire, forse perché la perplessità era troppa. I Divoratori, per natura, erano sempre stati esseri solitari. Accadeva di rado che si riunissero e, quando capitava, erano solo piccoli gruppi, spesso definite “bande” o “comunità” - ciò che io, Martha e Sebastian eravamo un tempo. Il fatto di vederne almeno duecento in un solo luogo fu strano e, a tratti, inquietante.

La domanda, a quel punto, sorgeva spontanea. Ce n'era solo una.

«Katie» dissi. «Chi ha... Chi ha radunato tutti questi Divoratori?». In quel modo, stavo anche chiedendo chi ne era a capo. Serviva un capo per tenere a bada quella mandria. Lei abbozzò un sorriso e non capii fosse finto o colmo di entusiasmo. Non mi diede una vera risposta e non servì nemmeno che lo facesse poiché, improvvisamente, il chiacchiericcio dei Divoratori divenne muto e gli occhi di tutti ricaddero su un unico punto in lontananza, verso il quale guardai anch'io.
Poco distante, da un buio più oscuro, venne fuori una sagoma facilmente riconoscibile, qualcuno che camminò lentamente nella mia direzione e si fermò soltanto quando mi fu di fronte, mentre trattenevo il respiro.

«Ciao, sorellina».

Sebastian.

Sebastian era di fronte a me. Sebastian era a capo della Resistenza.

E quello era ancora più assurdo di tutto il resto.

Strinsi i pugni lungo i fianchi, così forte da farmi male. Non sapevo come reagire, se tirargli uno schiaffo oppure abbracciarlo per aver cambiato rotta, ammesso e concesso che lo avesse davvero fatto; ma era molto più probabile che avesse plagiato tutti in quella stanza e che io fossi caduta nella sua trappola con una facilità inaudita.
«Te l'avevo detto che sarebbe stato uno shock» esclamò ad un tratto Katie, marcando il mio silenzio. Sebastian accennò una risata. «Sì, grazie, tu prevedi sempre tutto, vero?». L'altra Divoratrice ammiccò. A me stavano dando sui nervi entrambi.

«Tu che... Che cosa...» balbettai.

«Io...».

Probabilmente mi avrebbe dato una risposta concreta – sperai lo facesse – ma un suono acuto riempì l'ambiente, rischiando di frantumarmi i timpani. Era come appartenente ad una sirena, la stessa che avevo udito durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, in Europa.
Mi coprii le orecchie con le mani, cercando, invano, di attutire quel rumore quasi letale, mentre tutti i Divoratori attorno cominciavano a correre freneticamente in ogni dove.

Fu il caos. Non capii assolutamente più nulla e non seppi nemmeno cosa fare.

Riuscii a realizzare soltanto che Sebastian mi prese per un braccio, mi fece scudo col proprio corpo e mi trascinò via da lì, smaterializzandosi nell'aria.
Riapparimmo in una camera vuota, grande nemmeno un decimo di quella in cui ci trovavamo precedentemente. La sirena si udiva ancora, ma in maniera attenuata. «Che diavolo sta succedendo?!» urlai. Ero nel panico.

«Una delle Pattuglie delle Armate ci ha scovati. Succede spesso, in realtà: questi nascondigli non sono molto pratici» rispose lui, apparentemente tranquillo.

«Una cosa di che?». Più mi fornivano informazioni, meno capivo. Era frustrante.

«Non preoccupartene. Sappiamo difenderci».

«Voi s...». La mia frase fu stroncata molto prima di venir completata.

«Bene, bene. Riunione di famiglia».

Pregai affinché fosse tutto un incubo. Magari stavo ancora dormendo e il mio inconscio aveva deciso di punirmi con la peggiore delle situazioni.
Trattenni il respiro e, come spesso accadeva, conficcai le unghie nel mio braccio e, purtroppo, percepii quel dolore che mi assicurò quanto tutto fosse reale.
Martha era in piedi a qualche metro di distanza da noi, rigirando tra le mani uno di quei Pugnali, uno vero, in grado di uccidere un Divoratore.
L'espressione sul suo volto era assolutamente irriconoscibile, quasi non fosse più lei, come se quel briciolo di umanità che aveva tenuto stretto con tutte le proprie forze si fosse dissolto non lasciando alcuna traccia. La parte peggiore era che l'artefice di quel drastico cambiamento ero io.

«Capo Pattuglia?» esclamò Sebastian, parandosi di fronte a me, quasi volesse nascondermi dagli occhi di colei che, un tempo, era la mia migliore amica. «Il Creatore deve contare molto su di te».

«Di certo sono più affidabile di qualcun altro» replicò Martha, acida. Accennò una risata che mi mise i brividi addosso. «Consegnami l'Arma e nessuno si farà del male».

«Oh, adesso è passato alle maniere forti? Dove è finito il galateo?».

«Prima o poi, stanca». Martha sospirò e mosse due passi nella nostra direzione, facendo picchiettare gli alti tacchi neri – non usuali per lei – sulla pietra. «Non te lo chiederò una seconda volta. Meglio che tu lo sappia» disse.

Sebastian sorrise, ironico. «Se vuoi qualcosa, vieni a prendertela».

Fu come lanciarle una sfida che accettò senza pensarci. 
Non volevo accadesse, ma negli ultimi tempi succedeva sempre il contrario dei miei desideri.

Martha fece per gettarsi addosso a me, però Sebastian la precedette, spingendola via. Lei atterrò in piedi sul pavimento roccioso prima di schiantarsi sulla parete opposta. Sebastian, intanto, aveva già preso la rincorsa per scagliare il proprio attacco. Di fatti, poco dopo, una volta raggiunta l'avversaria, la afferrò per un braccio, la sollevò di peso e la fece ricadere a terra, con forza brutale.

«No...» biascicai. Avrei voluto urlarlo, ma niente più di un lamento uscì fuori dalla mia bocca.

Se avessero continuato a combattere in quel modo, uno dei due sarebbe morto e per quanto la situazione fosse disastrosa e assurda, mi ritrovai persino a sperare che nemmeno Sebastian soccombesse.
Avrei voluto intervenire e metter fine alla loro lotta, pur consapevole che, data la mia debolezza umana, non avrei potuto fare molto. Anzi, avrei potuto essere io a morire se solo avessi osato compiere un passo verso di loro che, intanto, non si erano fermati.
Pugni, calci, urla, finché Martha sembrò avere la meglio, scagliando Sebastian contro una parete, lunga la quale lui ricadde, immobile. Lei sorrise soddisfatta e raccolse dal pavimento il pugnale che le era caduto. Poi il suo sguardo finì su di me.
«Rompiscatole fino all'ultimo, vero, Hazel?» esclamò. Si sistemò i capelli che si erano arruffati e tentò di rimediare alle pieghe che erano apparse sulla sua camicetta nera. Dopo allargò il sorriso e mi venne lentamente incontro. Io non mi mossi. Sperai che, improvvisamente, la mia Martha tornasse, che mi facesse l'occhiolino, dicendomi che la sua era tutta una recita e che aveva trovato il modo di risolvere ogni cosa, come sempre. Tuttavia, nulla del genere accadde. Era ancora l'amara realtà e la mia migliore amica ne era divenuta l'antagonista.

«Allora, andiamo?» continuò. «A lui non piace aspettare».

Trattenni a stento le lacrime. «Perché stai facendo questo?» singhiozzai, conoscendo benissimo la risposta.

«Sto solo seguendo la mia natura» sbottò lei.

«Ma questa non sei tu».

«Sono esattamente io. Per anni mi sono privata della mia natura per... Cosa, esattamente? Solo dolore. Ho sacrificato ogni cosa pensando al bene degli altri, ma ne ho avuto abbastanza. Adesso sono libera».

«Non sei libera, sei al servizio del Creatore».

«Sono il suo braccio destro. Questo non è essere al suo servizio, c'è una bella differenza».

«Per proseguire i suoi scopi? Ferire le persone? Ucciderle? Vuoi davvero questo?».

Martha serrò la mascella. «Te l'ho detto» sibilò. «E' la mia natura».

«La tua natura è buona. Tu sei buona. Lascia perdere il resto. Sei solo... Sei solo arrabbiata con me per quel che è successo con Thomàs e questo ti offusca la mente tanto da perdere il controllo. Io lo so. So cosa si prova. So cosa succede quando la persona che ami ti respinge o peggio, quando ti tradisce. Lo so perché è capitato anche a me e tu, quella volta, sei stata la mia ancora. Permettimi... Permettimi di essere la tua, adesso».

Forse non era il momento più adatto per tirar fuori tutte quelle cose perché avrei dovuto dirle prima; avrei dovuto fermarla prima e... In realtà, avrei semplicemente dovuto evitare di compiere certe azioni.
Per un attimo, ebbi la sensazione che il mio discorso avesse funzionato, che lei stesse per cedere, tornando ad essere solare e pura. Purtroppo, durò tutto il tempo di un battito di ciglia.
Martha scosse nervosamente la testa, poi la sua mano raggiunse il mio collo e le sue dita si strinsero, forte, attorno ad esso. I miei piedi non toccarono più terra e feci fatica a respirare.

«E' tardi... Per chiedere scusa» disse, scandendo bene ogni parola.

Non tentai neanche di divincolarmi a quel punto, come se morire per mano sua fosse la giusta punizione per ciò che avevo fatto. E mi stava anche bene.

A quello ero pronta.

Tuttavia, prima che il mio fiato si spezzasse definitivamente, Martha mollò la presa e io ricaddi fragorosamente sul pavimento di roccia.

Non potei gioirne, però. Mi bastò sollevare appena lo sguardo e...

Vidi il peggio.

Sebastian aveva colpito Martha alla schiena con quel Pugnale. La lama le aveva attraversato il petto, da parte a parte, e il suo sangue aveva iniziato a scorrere copioso.

Fu allora che lacrime mi riempirono il viso.

Lei mi guardò, sorrise appena, tranquilla. Osservai i suoi occhi spegnersi lentamente e poi, con un gesto secco da parte di Sebastian, Martha crollò e non si mosse più.

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Capitolo 22
*** It happened in a blink. ***


Capitolo 22
"It happened in a blink"


Può l'assenza di suono essere assordante a tal punto da cancellare dalla mente qualsiasi cosa?

Io mi sentivo esattamente così: vuota e silenziosa, senza uno scopo, quasi non esistessi più. Non avevo nemmeno più la consapevolezza del mio corpo, le mie palpebre non si chiudevano a intervalli regolari e non sapevo quale strana e misteriosa forza mi stesse spingendo a respirare ancora e stesse costringendo il mio cuore a battere. Il mio cervello si era spento. Non era più in grado di controllare qualsivoglia azione.
I miei occhi assistevano ai movimenti che avvenivano attorno, le mie orecchie udivano ogni voce ed ogni conversazione, ma, semplicemente, non interagivano con nulla.


«Perché hai portato qui quei due?».

«Ho dovuto!».

«Sono solo d'intralcio».

«Non lo sono. Oh, andiamo, lei ci serve e tu le hai appena ucciso la migliore amica davanti, senza esitazioni. Mossa del cazzo. Quei due sono gli unici in grado di riportarla indietro da questa sorta di ipnosi in cui è caduta a causa tua».

«Posso aiutarla anche io».

«Le hai urlato in faccia per ore e non è cambiato nulla. Non mi sembra tu sia molto d'aiuto».

«Oh, e loro sì? Sono due estranei».

«La conoscono molto meglio di quanto faccia tu, Sebastian. Molto meglio».

Non sapevo dove mi trovavo. Nemmeno mi interessava saperlo, in realtà: avrei visto ogni posto nella stessa identica maniera. Di certo avevo abbandonato la stanza in cui il peggio era avvenuto perché davanti a me, lei non c'era più, ed ero seduta su qualcosa di morbido e soffice. Probabilmente un divano rivestito di velluto. I Divoratori si trattavano bene.

«Hazel...».

Una terza voce riempì l'ambiente; una più calda e profonda. Nel mio campo visivo comparve un volto conosciuto. “Simon” pensai, ma ovviamente nessun suono mi uscì di bocca. Lui si inginocchiò davanti a me. Percepii le sue mani sulle mie e lo vidi muovere le labbra. Cercava di dirmi qualcosa, ma, ad un tratto, ogni suono divenne muto. Non seppi spiegarne il motivo. La mia realtà stava lentamente collassando su se stessa.

Simon cercò ancora di farmi riprendere: mi accarezzò il viso, continuò a parlarmi, ma io ero assente. Passarono probabilmente svariati minuti prima che si arrendesse. Io lo avrei fatto persino prima.
Il suo viso scomparve da davanti a me. Passò solo qualche secondo prima che ne apparisse un altro, diverso, più serio e forse meno preoccupato. Magari lo era altrettanto, ma riusciva a mascherarlo bene.
Thomàs non mi sfiorò. Rimase soltanto inginocchiato di fronte alle mie gambe, in silenzio, a fissarmi, con gli occhi dentro ai miei. Ero pressapoco sicura che la scena, vista da fuori, avrebbe potuto risultare surreale. In effetti, un po' lo era.

Il mio coma a palpebre sollevate lo era.

Non seppi per quanto rimanemmo così, senza parlare, a guardarci quasi quello fosse un gioco.
Poi, ad un tratto, senza preavviso, fui proprio io a spezzare tutto, senza nemmeno un motivo preciso. «Non è giusto» sussurrai. Thomàs rimase impassibile. «Cosa non è giusto?» chiese.

«Tutto... Questo» continuai. «Il mondo che va avanti come se niente fosse successo. Lei è morta, ma il mondo va avanti come se la sua esistenza non avesse compiuto alcuna differenza». Incredibilmente, la mia voce era ferma, seppur con tono basso. «Come può succedere?» dissi ancora. «Come può il mondo funzionare incondizionatamente quando la gente muore tutti i giorni? Non è giusto. La morte non è giusta. Perché vivere se si muore? Che... Che senso ha?».

«Non ha nessun senso».

«Non ce l'ha, eppure funziona così. Perché?».

«È qualcosa di naturale, Hazel. Nessuno ha una risposta precisa»

«La natura fa schifo».

«Sì, un po'».

Sospirai e riuscii a chiudere gli occhi, che iniziarono a bruciarmi per esser rimasti aperti per così tanto. Quando li riaprii, una lacrima mi scese lungo la guancia.
Non avevo pianto, prima. Ero stata bloccata dal farlo. «Io non ho più nessuno» mormorai. Thomàs abbozzò un sorriso, del tutto privo d'entusiasmo. «Non è vero» replicò. «Hai un sacco di persone attorno che ti vogliono bene».

«Nessuno è come lei. Lei... Sistemava sempre tutto. Sistemava... Me. Ogni volta, senza mai chiedere niente in cambio».

«Lo so. La conoscevo».

«E adesso è morta». Esitai e, improvvisamente, iniziai a tremare. «Martha è morta». Dirlo ad alta voce fu doloroso quanto l'aver assistito a tutto l'accaduto. A tal punto, la realtà vera e cruda tornò e mi colpì come una palla di cannone in pieno stomaco: le lacrime aumentarono, sopraggiunsero i singhiozzi. Piansi perché farlo mi fece sentire meglio, almeno un po'.
Thomàs si sollevò da terra, prese posto al mio fianco, sul divano, e permise di rifugiarmi tra le sue braccia come se fossero l'unico luogo sicuro sul pianeta. Non fui in grado di distaccarmi presto. Rimasi in quella posizione probabilmente per ore, continuando a sfogare il mio dolore in modo tutt'altro che silenzioso. Mi stremò talmente tanto da farmi venire il mal di testa e da farmi mancare il respiro.
Ero distrutta, così il mio corpo decise di concedermi il lusso del riposo inducendomi al sonno e ne fui grata di ciò. Perlomeno, quello era in grado di curarmi e di non farmi pensare.

Quando mi svegliai, Thomàs mi stava ancora stringendo a sé. Non mi aveva lasciata nemmeno per un secondo, cullandomi quasi fossi una bambina.
Non osai muovermi neppure in quel momento. Restai immobile, come se compiendo un qualsiasi gesto avessi potuto rompere quella lontana stabilità che avevo conquistato. «Va meglio?» sussurrò Thomàs. «No» replicai, con un fil di voce. Lui sospirò e lo sentii appoggiare le labbra sulla mia testa, tra i capelli. «Andrà meglio, a poco a poco» mormorò.
Non era vero, ma apprezzai il suo sforzo di tirarmi su. In realtà, in quel momento stava letteralmente tenendo insieme tutti i miei pezzi impedendomi di crollare.
Fu arduo costringere me stessa a distaccarmi. Ci misi più di qualche minuto a farlo e solo unicamente perché volevo che tutta quella pazzia finisse senza provocare altro dolore.
Ne ero stufa ed ero perfettamente consapevole che rimanendo incollata a quel divano – per quanto fosse piacevole – non si sarebbe risolto nulla.

La stanza era rimasta vuota.

«Dove...» dissi solo e Thomàs rispose senza farmi finire: «Sono nella camera accanto. Credo. Non so quanto grande sia questo posto, esattamente». Si alzò, lentamente, e mi porse una mano per indurmi a fare lo stesso. Io lo seguii, afferrando il suo palmo aperto. Le sue dita si strinsero piano sulle mie.
Percorremmo quasi alla cieca quei corridoi bui che iniziavo ad odiare e che lui aveva imparato a conoscere in breve tempo – lo credetti, perlomeno – fin quando non raggiungemmo una nuova stanza, pressapoco uguale alla precedente, persino con lo stesso arredamento pacchiano, dove scorsi subito Sebastian, Katie, Simon e altri due individui che non avevo, però, mai visto prima.
Sembrarono tutti sollevati nel vedermi ed era certo che i Divoratori non lo fossero per la mia incolumità e sanità mentale. Simon mi venne incontro immediatamente e fu in quel momento che lasciai la mano di Thomàs, forse con poca delicatezza, quasi d'istinto, e mi lasciai stringere nel suo abbraccio senza però replicare ad esso.
«Ero così preoccupato» sussurrò al mio orecchio. Io sospirai. «Sto bene, ora» mentii, ma se avessi affermato il contrario, avrei scaturito le sue domande e metodi per tirarmi su e... Non volevo.

Volevo altro.

Mi distaccai da lui, lentamente, e lanciai una rapida occhiata ai presenti. «Posso rimanere sola con Sebastian?» dissi, ad alta voce, in modo che tutti sentissero. Ci impiegai qualche minuto a convincere sia Simon che Thomàs che sarei stata bene e che era mia intenzione soltanto parlargli. Alla fine, mi obbedirono e restai sola con mio fratello.


«Sei arrabbiata» disse Sebastian, in piedi con i pugni stretti lungo i fianchi, a qualche metro di distanza da me. «No» replicai, neutrale. «Sono solo... Confusa». Feci una breve pausa. Non c'era il minimo accenno di fragilità nella mia voce e non sapevo perché. In realtà, ero furiosa e avrei voluto piangere per giorni interi, ma qualcosa dentro di me mi spingeva a mostrarmi forte, stabile e leggermente sarcastica. Mi sentii addirittura sicura indossando quella maschera e capii il motivo per il quale Thomàs la portava sempre.
«Insomma, tu...» continuai «Tu hai passato quasi la tua intera esistenza a cercare di riportare in vita qualcuno in cui riponevi ogni tua speranza di debellare l'umanità e ora... Ora vuoi distruggerlo. E non solo lui, anche colei che hai sempre ritenuto giusta e imparziale, nonostante tutto, la Creatrice e, per concludere in bellezza, trovare un equilibrio tra Divoratori e umani, così da garantire una pacifica convivenza». Mossi un passo nella sua direzione e poi un altro, fin quando non mi ritrovai a pochi centimetri dal suo viso. «Il capo della Resistenza» sibilai. «È buffo dirlo».
Sebastian sostenne il mio sguardo – mi sorpresi di essere io in grado di sostenere il suo – e abbozzò un sorriso, lontanamente soddisfatto. «Ho le mie ragioni» replicò soltanto.

«E quali sarebbero?».

«Non è ovvio? Ho sempre odiato gli umani perché sono esseri crudeli, che si uccidono tra loro per futili motivi. Sono un mostro, forse, ai loro occhi, ma essi non sono da meno. E ora il Creatore e la Creatrice che vogliono fare? Comportarsi esattamente allo stesso modo: farci guerra tra di noi, massacrandoci a vicenda per una discussione che nemmeno ci comprende, avvenuta millenni e millenni fa? È privo di senso».

«Quindi solo per questo? Non vuoi uccidere quelli della tua stessa razza?».

«No, non voglio».

A quel punto, risi, ma fu qualcosa dettato dall'isterismo. «Hai appena ucciso Martha».

«Non era previsto».

«Ah, no?».

«L'ho fatto per salvare te, Hazel. Potresti essere un minimo riconoscente».

«Riconoscente del fatto che hai ammazzato la mia migliore amica? Oppure che hai fatto la stessa cosa col mio ragazzo o... Che hai tentato di far fuori me? Che hai reso la mia esistenza un inferno per secoli solo per il tuo dannato egoismo?». Nonostante avessi iniziato ad urlare, i miei occhi non erano divenuti lucidi e apparivo ancora – o meglio, speravo apparissi ancora – lontanamente calma.
Sebastian rimase impassibile, come se le mie parole non potessero scalfirlo neanche un po'. 
Lo sentii sospirare. «Sai che io non tengo a niente e nessuno e disprezzo pressapoco tutti» disse, con voce piatta. «Non è qualcosa che posso negare, così come non posso cancellare i miei errori. Ma se c'è qualcosa di cui mi interesso, qualcosa di cui... Mi importa, quella sei tu. E sì, ho ucciso Martha perché stava per farti del male e lo avrei fatto con chiunque altro».

«È una scusa che non regge, Sebastian, tu non...».

«Ho ammesso i miei errori, ti ho ferita e... Mi dispiace». Pronunciò le ultime due parole con enorme sforzo e per la prima volta dopo un'infinità di tempo, mi parve di scorgere della sincerità sul suo viso. Non che ciò bastasse a cancellare ogni cosa passata: chiedere scusa una sola volta non era un rimedio.

Assolutamente no.

Sarei stata una stupida a credergli ciecamente senza esitazioni.

«Tutto qui?» dissi, allora, non osando cedere.

«Tutto qui».

Fui io ad accennare un sorriso, ironico. «Bene» esclamai e feci un passo indietro. «Prenderò parte a questa follia per distruggere il Creatore e la Creatrice, ma dopo... Dopo, Sebastian, ucciderò anche a te. Non oso farlo ora perché istigherei centinaia di Divoratori contro di me e non ho bisogno di ulteriori nemici».

«Hazel...».

«Abbiamo chiuso. Una volta per tutte».

Mi congedai in quel modo, abbandonando la stanza, per ritrovarmi nuovamente in quei corridoi privi di luce. Probabilmente, la mia non era una minaccia credibile: in confronto a lui, io ero uno scricciolo, ma la mia intenzione rimaneva tale.

Avrei ucciso Sebastian in qualche maniera, avrei vendicato Martha e me stessa, senza nessun altro rancore.


***


Il mio inconscio mi trattenne nell'oscurità di quei passaggi segreti per un periodo più lungo del previsto. Camminavo lenta, non facendo molta attenzione a dove mettevo i piedi, per cui ci impiegai svariati minuti prima di raggiungere una nuova stanza nella quale potevo vedere ogni cosa.

Vi trovai soltanto Katie, insieme ad altri tre Divoratori che non conoscevo.

«Finita la chiacchierata?» esclamò lei, notando per prima la mia presenza. Ignorai tale domanda, proseguendo a piccoli passi nella sua direzione. Mi fermai a nemmeno un metro di distanza da dove si trovava. Katie fece un cenno ai suoi compagni, incitandoli a lasciarci sole e loro le obbedirono senza alcuna discussione. Fu sul punto di intraprendere un nuovo discorso, ma io la precedetti: «Dov'è il corpo di Martha?». La vidi fare una smorfia. «Ce ne occupiamo noi» replicò, secca.

«Voglio vederla».

«Non credo sia propriamente una buona idea».

«Voglio vederla e farle un funerale».

«Un fune... Che?».

«Un funerale, Katie. Per caso parlo una lingua che non comprendi?».

«No, è che... I Divoratori non celebrano funerali. Non ne abbiamo mai avuto bisogno prima di questi tempi e... E poi c'è una procedura ben definita per quelli morti dopo un attacco, quindi n...».

«Una procedura curata nei minimi dettagli da quel bastardo di mio fratello? Non mi interessa molto stare ai suoi comandi».

Katie mi fissò per un attimo, aggrottando le sopracciglia, probabilmente confusa dal mio modo di pormi. In realtà, io ero nella sua identica situazione: non ero mai stata così altezzosa. Il punto era che, in quel momento, non riuscivo ad evitarlo. «Dovresti stare attenta a quel che dici, da queste parti» disse lei, affievolendo il tono di voce sul finire della frase. «Molti, qui, definiscono Sebastian un rivoluzionario, colui che ci condurrà ad una nuova era, per cui dargli contro significa farsi molti nemici e molti potrebbero non trattenere i loro istinti».
Scoppiai a ridere, sarcasticamente. «Nessun Divoratore mi torcerà un capello» esclamai. «Io vi servo, no? Vi servo viva, forte, motivata. E, credimi, se qualcuno mi facesse del male, Sebastian lo farebbe fuori. Quindi... Credo di poter dire quel che voglio e fare altrettanto».

Quasi non credetti alle parole che mi uscirono di bocca. Tuttavia, se ero ritenuta così importante ed essenziale da tutti, tanto valeva iniziare a comportarmi come tale, avendo anch'io delle pretese a loro discapito.
Incrociai le braccia sul petto, come se quel gesto mi fornisse ulteriore credibilità – che non credevo di avere, comunque.

«Portami dal corpo di Martha» sentenziai. «Ora. Faremo il funerale, sarà molto intimo, ma le renderemo onore, come merita. Poi penseremo al resto. Intesi?».

Katie esitò per qualche istante e non seppi se l'espressione sul suo viso fosse perplessa, sorpresa o intimorita. Sperai l'ultima: la consapevolezza di poter tener testa ad un Divoratore era una carica assolutamente positiva.

«D'accordo» si arrese, alla fine, alzando le mani con un velo d'ironia. «Avrai il tuo funerale. Tanto Sebastian non se la prenderà, giusto?».

«Sebastian lo gestisco io».

«Come vuoi». Si congedò in quel modo, abbandonando la stanza senza aggiungere altro.

Mi chiesi quante camere ci fossero lì: insomma, quanto era grande quel posto per essere un rifugio sotterraneo?

Sbuffai e mi lasciai andare seduta tra i cuscini del divano di velluto rosso, aspettando.
Aspettando praticamente tutto, avevo trascorso la mia intera esistenza a farlo ed era l'unica cosa, in realtà, che accomunava a pieno Divoratori e umani e... Qualsiasi altro essere vivente: l'attesa per qualcosa che, presumibilmente, non giungerà mai. Un'attesa frustrante che per gli uomini ha fine nel momento della loro morte, mentre per le creature sovrannaturali dura in eterno.
Non sapevo se sentirmi sollevata dal fatto che, finalmente, la mia di attesa avrebbe potuto finire una volta per tutte o che quella di Martha fosse terminata.
Forse quella no: lei non aveva raggiunto la sua felicità, aveva rincorso un amore non corrisposto, era crollata una volta perso ed era morta senza raggiungere i propri scopi.
E a me sarebbe mancata per sempre, anche oltre quella mia vita da mortale, anche se la mia anima fosse stata presa da un Divoratore.


***


La cosiddetta “procedura” di Sebastian per disfarsi dei corpi dei Divoratori morti non era nient'altro che ammucchiarli tutti insieme in una grossa fossa e dar loro fuoco; trattamento macabro e menefreghista, parole che lo descrivevano perfettamente.
Dovetti scoprire tutto da sola, ovviamente, obbligandomi a seguire voci che sentivo, in frasi che molto spesso comprendevano il mio nome, tra quei corridoi che iniziavo a conoscere, tanto da orientarmi quasi alla perfezione. A quanto pareva, la mia richiesta era stata accolta; non senza discussioni, ma era avvenuto.
Chissà, forse il capo della Resistenza aveva preso sul serio le mie minacce. Mi piacque essere, almeno per una volta, quella in grado di tenere saldamente le redini di tutta la situazione.

Avvenne tutto in una parte di rifugio grande almeno il doppio rispetto a tutte le altre stanze. Lì, però, non vi era mobilio né alcun tipo di pavimentazione; solo pietre giallognole e della terra così fine da poter essere confusa con la sabbia.
I corpi di almeno trenta Divoratori, appartenenti a qualsiasi schieramento, giacevano ammassati al centro di quel grande ambiente. Quello di Martha, invece, era stato spostato in un angolo, lontano dagli altri: era disteso, in posizione supina, con le braccia lungo i fianchi.

Mi fermai, in piedi, proprio lì accanto.

Lei sembrava dormire, sebbene fosse stato impossibile per me vederla in tali condizioni. La sua espressione era serena, tralasciando la pelle grigiastra e le venature rosse che le costeggiavano gli occhi e le mani.
Diversamente da quanto mi aspettavo, riuscii a fissare il suo volto per alcuni secondi, che si trasformarono in minuti, e io non ebbi alcuna reazione.

Niente di niente.

Non piansi, nemmeno mi commossi e non fui travolta da ulteriore dolore. Non percepivo nulla, quasi fossi di nuovo senza sentimenti.

Il mio sguardo era ancora sul viso di Martha quando sentii qualcuno stringere la mia mano e mi bastò voltarmi appena per solo un istante per scorgere Simon, che abbozzò un sorriso in un tentativo consolatorio di cui, in realtà, non avevo bisogno. Non fui in grado di replicare allo stesso modo, né di intrecciare le dita alle sue. Rimasi semplicemente immobile, senza fare altro.
Dalla mia bocca non fuoriuscì una parola, nemmeno quando Sebastian diede l'ordine di iniziare a scavare una fossa abbastanza profonda da contenere il corpo della mia migliore amica.
Ancora silenzio da parte mia quando la calarono all'interno di quel buco che era fin troppo piccolo e insignificante per me o nel momento in cui tracce di terra sempre più imponenti le finirono addosso, sporcandole la pelle sempre perfetta e, infine, coprendole il volto.
Non ero ripiombata in quella sorta di coma ad occhi aperti che mi aveva colpito in precedenza. Era qualcosa di diverso, di più profondo e non seppi quanto fosse positivo.
Forse non lo era per niente. Non sopraggiunsero neanche i sensi di colpa a ricordarmi quanto fosse meschino non provare abbastanza dolore per la sua perdita. Oppure il mio inconscio aveva deciso che avevo subito a sufficienza in pochi mesi e per questo l'accesso a qualsiasi altra sensazione era stato chiuso.
Quest'ultima alternativa non era affatto positiva poiché qualcuno privo di emozioni può compiere le azioni più inaudite senza pensarci due volte, senza rimorsi, senza alcun rimpianto.

E io avrei potuto farlo.

In quel momento, avrei potuto incasinare le cose più di quanto non lo fossero già.

Sarebbe accaduto, senza alcun ombra di dubbio.

La tragedia che costituiva la mia intera esistenza era giunta all'apice del suo sviluppo ed io mi preparavo ad affrontarla nelle peggiori condizioni possibili.

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Capitolo 23
*** Feeling. ***


Capitolo 23
"Feeling"



Sentimento: dal latino, “sentire”, percepire con i sensi. Con tale termine, si intende uno stato d'animo, una condizione affettiva che oltrepassa le emozioni, che si amplifica fino a raggiungere una fase più duratura e fondata.
Esso agisce sia sui nostri pensieri che sulle nostre azioni. Può essere positivo o negativo ed ha la maggiore influenza su qualsivoglia situazione e relazione.

Sentimento.

Sentire.

Io non sentivo niente, neppure il dolore fisico causato dai colpi che, inevitabilmente, incassavo durante gli allenamenti con un gruppo di Divoratori riuniti di proposito soltanto per allenarmi e insegnarmi tecniche utili al fine di sconfiggere definitivamente i nostri Creatori, ammesso e concesso che riuscissi ad avvicinarmi almeno ad uno di loro.
In realtà, riuscivo a tener testa alle mie cavie, ringraziando i miei esercizi solitari avvenuti mesi prima. Certo, nulla di estremamente efficace, dato che il mio viso era ricoperto di lividi e tagli per la maggior parte, così come il resto del mio corpo. Avevo iniziato a dubitare che potessi davvero avere un aspetto non martoriato, un giorno.
L'unica parte che poteva definirsi positiva era che, nonostante le botte ricevute, tutti mi trattavano come la cosa più preziosa che errava sul pianeta. Beh, per i Divoratori, certamente, lo ero.
Come avevo già iniziato a fare, nella settimana che seguì mi comportai in modo diverso dal solito e mi piacque anche agire così: potevo dare ordini ed essi venivano eseguiti, senza esitazione. Potevo rispondere a tono, parlare male, persino insultare e ribellarmi contro chiunque. Niente veniva punito.
Forse, quella sorta di potere che mi era stato attribuito cominciava a darmi alla testa. Anzi, era sicuro lo facesse, ma per qualche strano e oscuro motivo, non ero in grado di fare un passo indietro e tornare ad essere me stessa. Nemmeno lo volevo.
Era buffo: un'intera esistenza a bramare assiduamente delle sensazioni e ora che avevo la possibilità di percepire le cose alla perfezione, le negavo e le spingevo via di mia spontanea volontà.

Assurdo, eppure accadeva sotto il mio indiretto controllo.

 


Sedevo su una roccia, in un angolo remoto del rifugio. Era una stanza più simile ad uno sgabuzzino, priva di mobilio e illuminata solo da una fiaccola abbastanza consumata. Per quel che ne sapevo, però, era l'unico luogo dotato di una fessura più grande rispetto a quelle che servivano per far filtrare la luce; in quel modo, era possibile scorgere meglio il cielo stellato all'esterno.
Nell'ultimo periodo, fissare quel manto blu era l'unica cosa che mi dava un po' di respiro.

«Oh, sei qui». Tale esclamazione non mi fece sobbalzare come sarebbe accaduto di solito. Rimasi immobile, con gli occhi puntati al cielo, del tutto calma. Del resto, quella voce era fin troppo familiare per mettermi all'erta.
Simon si sedette al mio fianco e sicuramente mi guardò per secondi interminabili, aspettando una mia reazione che, però, non arrivò. Lo sentii sospirare. «Ti sto cercando da ore» disse, allora. Tentennai, prima di rispondere. «Mi hai trovata» replicai, distratta.
«Già». Dopo quella parole, anche lui tacque. Calò un silenzio che quasi mi mise i brividi addosso. Solo allora mi decisi ad abbassare lo sguardo e incrociai i suoi occhi per una frazione di secondo.
Non fui in grado di reggerlo ed era capitato in precedenza. Non riuscivo più a guardarlo in faccia senza sentirmi... Strana e succedeva con chiunque.
Probabilmente, faceva tutto parte del mio reprimere qualsivoglia sentimento; se si trattava di Simon, poi, ogni mia sensazione veniva esageratamente scombussolata. Lui aveva il potere di riportare ogni cosa a galla, scagliarla contro di me e io non sarei stata capace di spingere via tutto.
Mi alzai di scatto, tagliando di netto quella inesistente conversazione e fui sul punto di andarmene, trovare un altro angolo buio e continuare la mia solitudine. Simon, tuttavia, si tirò su quasi contemporaneamente e mi fermò, tenendomi per un braccio.

«Dove vai?» domandò.

Io scossi appena la testa. «A riposare. Sono... Un po' stanca».

«L'ho notato. È una settimana che lo sei».

«Sì, degli allenamenti no-stop con un branco di Divoratori non ti lasciano certo un fiore».

«Non mi riferisco agli allenamenti».

Cercavo di guardare ovunque, eccetto il suo viso, per quanto fosse difficile. Mi passai una mano tra i capelli, spostandoli su un solo lato del viso. «Non c'è altro» dissi.

«Io non credo». Sospirò. «Sei... Diversa».

Roteai gli occhi. «Non...».

«Non lo penso solo io, anche Thomàs è della stessa idea».

«Da quando vai d'accordo Thomàs?».

«Su questo gli do ragione».

Accennai una risata, sarcastica e avrei volentieri detto qualcosa sul fatto che non dovevano preoccuparsi per me – o, perlomeno, che non volevo lo facessero, ma lui mi precedette: «Sembri più... Fredda, distaccata, dura. Non... Tu non sei mai stata così, neanche prima».

«Come fai a sapere com'ero prima? Nemmeno te lo ricordi». Pronunciai quelle frasi di getto, ricoperte di acidità che non mi apparteneva e fu micidiale.

Fu micidiale perché il mio inconscio mi portò, proprio in quel momento, a incrociare di proposito gli occhi di Simon, mentre la mia maschera di repressione, quella da dura, pian piano si spezzava.

«Scusami» biascicai, scuotendo appena la testa. «Non intendevo che...».

«Non fa niente» rispose lui, con tono piatto. «Del resto... È vero che non ricordo molte cose, per cui...».

«Non è colpa tua» sussurrai, stringendomi nelle spalle. «In realtà... È colpa mia, come per tutto ciò che è accaduto».

«Perché ti carichi di un peso del genere, Hazel?».

«Perché è la verità». Feci una breve pausa, forse per cercare da qualche parte, nella mia testa, le cose giuste da dire. Poi proseguii: «Così come è vero che sono diversa. Voglio essere diversa. Tutto questo è successo perché io volevo sentire qualcosa, avere mie e autentiche emozioni. Sembra così egoista a pensarci adesso come se fosse stato un dannato capriccio da accontentare che non ha portato altro che guai a chi mi stava intorno, a me e ora al mondo intero. Delle persone sono morte per questo. Tua madre è morta, tu sei morto soltanto perché io volevo innamorarmi. Non è sciocco? E poi... Sono umana e da quando lo sono, ho solo provato dolore su dolore. Non smette mai, anche quando vedo uno spiraglio di miglioramento, poco dopo ogni cosa precipita. Non riesco ad abituarmi a tutto questo dolore. Sono arrivata al punto in cui... In cui fa male anche amare».

«L'amore fa questo: provoca dolore, in qualsiasi forma possa manifestarsi».

«L'amore non dovrebbe farci sentire così».

«Questo è esattamente il modo in cui l'amore deve farci sentire. Se non provi dolore, vuol dire che non ami abbastanza. E tu ami, Hazel. Ami in modo incondizionato ora, lo facevi prima. Non è qualcosa che puoi cambiare solo perché lo vuoi. Non... Non sentirti in colpa per amare».

Avrei dovuto cedere in quel preciso momento, ma quel briciolo di facciata da dura che era rimasto mi impedì di farlo immediatamente. Feci cenno di no con la testa, ripetutamente.
«Non dovresti difendermi» esclamai. «Dovresti solo odiarmi e correre il più lontano possibile da qui, fuori da questo enorme casino».

«Come posso anche solo pensare di odiarti? O di andarmene? Credimi, non c'è altro posto al mondo in cui vorrei essere se non qui, al tuo fianco».

«Perché?».

«Devo davvero darti una risposta?».

«Sì. Devi».

Simon si morse piano il labbro inferiore. A differenza mia, aveva l'aria di essere parzialmente calmo e stabile. «Perché ti amo» disse «e perché morirei per te. Di nuovo, senza esitazioni».

Feci per dire qualcosa, in risposta, ma lui me lo impedì, prendendo delicatamente il mio viso tra le mani e costringendomi a guardarlo dritto negli occhi. «So che... Adesso sei triste e arrabbiata» sussurrò. «Hai perso la tua migliore amica e... Questo distrugge parecchio. Ma se allontani chi vuole aiutarti, sarà mille volte peggio». Si prese una piccola pausa e ne approfittò per accarezzarmi le guance con i pollici. «Non escludermi» mormorò ancora. «Abbiamo dato inizio a tutto questo insieme e insieme segneremo la sua fine».

Ero sorpresa. Conoscevo il lato dolce di Simon, il suo voler proteggere tutti, ma c'era anche quello spaventato da ogni cosa che avevo impresso ben in mente, insieme alla sua goffaggine e al suo dare di matto. Un po' mi mancava quel lato poiché, in tal caso, ero sempre stata io quella forte e stabile che gli impediva di crollare.

Tuttavia, nonostante le mie previsioni, non fui in grado di lasciarmi andare, tornando ad essere me stessa. Avevo troppa paura per permettere che ciò accadesse, ben consapevole di quanto fosse sbagliato proseguire su quella via.

Scossi vigorosamente la testa e mi liberai lentamente dalla sua presa, muovendo qualche passo indietro.

«No» sussurrai. «Non... Non posso, non accadrà».

«Hazel...».

«Lasciami soltanto... Lasciami soltanto stare, Simon, davvero». Alzai le mani, quasi in segno di resa e prima che lui potesse dire o fare altro, abbandonai quel luogo, correndo da sola tra quei corridoi bui.


***


Passai le ore successive a girovagare senza meta nel rifugio, affinché nessuno mi rintracciasse in qualche modo. Del resto, non mancava molto alla mia partenza, al momento in cui avrei preso posto in uno dei due schieramenti e avrei dato inizio a quella fantomatica guerra. Stupido a dirsi, ma bramavo quell'istante.
Volevo accadesse, passasse e, forse, una parte di me stava pregando affinché morissi in quella battaglia. Sarebbe stato giusto: un'equa punizione per tutto ciò che avevo causato. Non mi sarei lamentata.
Katie mi aveva detto di recarmi nella Sala Grande – in realtà ero l'unica che la chiamava così, perché era la più estesa e avevo bisogno dei miei punti di riferimento – a mezzanotte in punto quel giorno.
Lì andai, esattamente a quell'ora e, priva di ogni sorpresa, vidi che tutti mi stavano già aspettando, compresi Simon, Thomàs, Sebastian e tutta la serie di Divoratori che abitavano in quel luogo.
Indugiai sulla soglia di una porta inesistente, stretta nelle spalle e con lo sguardo basso. Passare inosservata non era neanche un'opzione, dal momento che gli occhi di chiunque mi ricaddero addosso, senza che, però, nessuno osasse muoversi. Lo fece soltanto Katie, dopo qualche secondo, incitando gli altri a riprendere le loro chiacchiere o qualunque cosa stessero facendo prima del mio arrivo.

«Pronta?» mi chiese la Divoratrice, con un leggero sorriso stampato in volto. Mi limitai ad annuire. «Bene» continuò lei. «Da che parte hai deciso di schierarti?».

«Dalla parte della Creatrice».

«Mhm, scelta ragionevole. Dunque, due di noi ti condurranno nei pressi della sua dimora. Ovviamente non escludiamo che sospetti qualcosa, ma averti dalla sua parte le farà abbassare la guardia, almeno per un po'. Stai ai suoi comandi, stai alle sue regole. Noi ci limiteremo ad osservare finché non avrai tolto di mezzo il Creatore».

«Ammesso che ci riesca».

«Ci riuscirai. Credimi, penso che la Creatrice sacrificherà centinaia di suoi figli pur di far fuori la sua controparte e tu sei l'unica in grado di farlo, perciò... Non ti accadrà nulla».

«Lo dici come se fosse la cosa più certa al mondo».

«Di questo sono certa».

Mi sforzai di curvare le labbra all'insù, ma fu, più che altro, dettato dall'isterismo. Del resto, il pessimismo non era qualcosa di appartenente a quella razza ora così strana e contorta.

«Posso chiederti un favore, Katie?» mormorai, poco dopo. Lei annuì e basta, e allora proseguii. «Qualsiasi cosa dovesse accadere...». Lasciai la frase in sospeso per un istante e il mio sguardo ricadde distrattamente prima su Simon, poi su Thomàs, entrambi dall'altra parte della stanza, mentre si sforzavano di tenere una conversazione che non volevano avere, pur di non fissare me.

«Qualsiasi cosa dovesse accadere» continuai «promettimi che saranno al sicuro». Non fu necessario pronunciare i loro nomi: Katie mi capì subito. «Non sono il tipo a cui importa molto delle persone» disse e mi portò a sospirare. «Lo so» esclamai «ma... Sarei più... Concentrata sul da farsi se me lo promettessi».

La vidi scuotere appena la testa e mi aspettai un suo rifiuto categorico. Alla fine, tuttavia, si convinse ad annuire e ad accordarmi.
Non seppi nemmeno perché le chiesi una cosa del genere: una promessa fatta da un Divoratore ad un umano non era l'emblema dell'affidabilità, ma il fatto che avesse detto sì mi rincuorò e non aggiunsi altro.
Indossai una finta maschera di tranquillità e sicurezza, quella che avevo tenuto per tutto il tempo, comportandomi da persona fredda e dura, cose che non ero, proprio come aveva detto Simon. Non volevo indugiare ulteriormente, perciò chiesi a Katie di chiamare i miei due – in quel caso – accompagnatori poiché, ormai, ero pronta.
Non ci furono saluti cordiali o che altro, non era tipico per quelle creature: giusto qualche cenno col capo o con una mano, un mezzo sorriso da parte di Sebastian e poi...
Per quanto mi fossi sforzata di non guardarli, i miei occhi ricaddero comunque sugli unici altri umani presenti. Simon mi fissò per neanche un secondo e dopo si sforzò di tenere lo sguardo altrove. Forse ce l'aveva con me per come lo avevo trattato poco prima e, da un lato, era un bene.
Gli occhi di Thomàs, invece, rimasero fermi su di me per un tempo che mi parve infinito e riuscì a smorzarmi il respiro. Fui quasi costretta a interrompere quel contatto visivo per riprendere fiato, ma non servì a molto perché, prima che me ne potessi accorgere, lui mi aveva raggiunto e in quel momento si trovava in piedi, di fronte a me.

«Buona fortuna, occhi verdi» disse. Sorrisi, probabilmente con un briciolo di entusiasmo che credevo perso. «Grazie» replicai, distratta.

Lui sospirò. «Indipendentemente da come finirà questa storia» sussurrò «credo che questa sia l'ultima volta che ci vediamo».

Aggrottai le sopracciglia, confusa. «Dove vai?» domandai.

«Non lo so. Da qualche parte».

«Perché?».

«Perché questo non è il mio posto».

Non avevo idea del motivo per cui tali frasi stessero gravando così tanto sul mio cuore. Gli avevo già detto addio innumerevoli volte, senza ragionarci troppo su e quello era soltanto uno dei tanti, che non avrebbe dovuto scalfirmi nemmeno un po'. Eppure, stava accadendo l'esatto contrario, probabilmente perché, in fondo, sapevo quanto fosse definitivo.
«Sei forte, Hazel» aggiunse. «Li farai a pezzi». Arrivò persino la sua ironia e il suo sarcasmo, ma non riuscii a ridere. Ero arrabbiata.

“Ed ecco, di nuovo, l'altalena delle emozioni. Sono tornate, cara”. Una voce nella mia testa riecheggiò e dovetti scuotere ripetutamente la testa per mandarla via e rimanere lucida.

«Allora addio, Thomàs» dissi e mi voltai, pronta ad andare. Tuttavia, non fui in grado di compiere un solo passo poiché lui mi fermò, tenendomi per un braccio. Quasi mi strattonò affinché gli andassi, letteralmente, a sbattere contro, col viso a pochi centimetri dal suo. «Ho un... Concetto un po' diverso degli addii» sussurrò e senza che potessi reagire, poggiò piano le labbra sulle mie, stringendo il mio viso tra le mani.
Ebbi l'impulso di spingerlo via, immediatamente, e – perché no? - di mollargli uno schiaffo, ma non feci nulla del genere. Fui del tutto bloccata da un leggero sollievo che si propagò rapido in tutto il corpo, facendomi rilassare.
Quando lui si distaccò, mi rimase incollato addosso per un breve istante in cui mormorò: «Scusa, dovevo farlo». Poi compì un passo indietro, si voltò e proseguì svelto verso uno dei corridoi bui.
Io rimasi immobile, con i pugni stretti lungo i fianchi e come se la mia non reazione non fosse stata abbastanza, il mio sguardo si incatenò a quello di Simon, poco distante, a scorgere il dispiacere stampato sul suo volto.
A tal punto, avrei voluto corrergli incontro e sistemare le cose con lui prima di andarmene, ma non potei farlo perché Katie mi trascinò via senza ulteriori indugi e dovetti abbandonare la stanza senza nemmeno avere l'occasione di chiedergli scusa, mentre i miei sentimenti si riaccendevano in via definitiva, in un momento del tutto inopportuno e riprendevano a schiacciarmi, come avevano sempre fatto.

***

 

Ritrovarsi all'aria aperta dopo aver trascorso giorni chiusa in dei sotterranei fu traumatizzante.

Mi venne la nausea quando i miei due accompagnatori – un ragazzo e una ragazza di cui non mi era stato detto il nome – si smaterializzarono all'interno di una fitta vegetazione, oscura e gelida.
«La Creatrice si trova in quell'edificio» disse uno di loro – il maschio – indicando con lo sguardo il profilo di quel che sembrava un vecchio castello medioevale abbandonato da chissà quanto tempo.

«Tecnicamente, ti sta aspettando. Dì il tuo nome e ti condurranno da lei senza indugi» proseguì l'altra.

«Sebastian si manterrà in contatto con te. Ha detto che tu sai come».

Il modo in cui si completavano le frasi a vicenda mi fece girare la testa, ma evitai di lamentarmi anche perché l'ultima frase catturò la mia attenzione. «Io non so come» esclamai.
I due si guardarono per un secondo, perplessi. Tuttavia, non aggiunsero altro, se non un «Buona fortuna» prima di dissolversi nell'aria. Strano che non fossero rimasti lì a controllare che io, effettivamente, entrassi nella dimora della Creatrice. Avrei potuto scappare senza problemi e per un attimo ci pensai pure. Il problema era che qualcuno, qualsiasi fosse il proprio schieramento, mi avrebbe sempre trovato.
Una eventuale fuga, quindi, sarebbe stata pressoché inutile.

Presi un respiro profondo e iniziai ad avanzare verso quella struttura all'apparenza decadente, mentre rami di cespugli mal curati continuavano a pungermi le gambe anche attraverso i jeans.
Quello era lo stesso luogo che mi ero prefissata di raggiungere da sola, settimane prima. Fu strano essere lì allora, dopo tutte la catastrofi che erano accadute, in quello stato d'animo così altalenante. Che poi... Come pensava avessi potuto arrivare in quel luogo? Era una zona desolata, con nessuna strada asfaltata all'orizzonte. Non c'era nulla: solo boschi, tra cui si ergeva una costruzione mastodontica che mi faceva sentire ancora più piccola e inutile di quanto mi ritenessi già.

Proseguii, trascinando i piedi, finché non varcai la soglia di un grosso portone di legno, lasciato aperto e, stranamente, senza nessuna misura di sicurezza. Perlomeno, fu ciò che credetti finché uno schiocco precedette una fitta al mio braccio sinistro. Mi bastò voltare per una frazione di secondo il capo per notare come una freccia mi avesse colpito di striscio, lasciandomi un taglio che era riuscito a lacerare la maglietta bianca che indossavo.

“Frecce? Sul serio?” pensai.

Feci mente locale, cercando nella mia testa un qualsiasi modo per difendermi da un attacco o quel che era – se ce ne fosse stato uno – ma non dovetti sforzarmi molto; non fu necessario.

«Fermi!».

Riconobbi subito il tono squillante della voce della Creatrice - o Juliet, come preferiva farsi chiamare lei.

«Mi chiedo ancora perché io abbia a che fare con un branco di idioti» disse ancora e, lentamente, la vidi apparire di fronte a me, uscendo dall'oscurità in cui era immersa. «Non sapete riconoscere la nostra arma segreta?». Dopo l'ultima frase, allargò il proprio sorriso, carico di un'euforia macabra che mi mise i brividi addosso.

Cercai di sostenere il suo sguardo, mostrandomi sicura di me stessa, sebbene ogni mia difesa fosse crollata.

«Ce ne hai messo di tempo, dolcezza» proseguì Juliet, avvicinandosi sempre di più a me. «Cominciavo a credere volessi rinunciare al nostro accordo».

Accordo. Buffo chiamarlo così, dal momento che non mi aveva lasciato molta scelta.

«Ho avuto qualche contrattempo» mi giustificai.

Evidentemente, le piacque come replicai poiché scoppiò a ridere, soddisfatta. «Beh, ora sei qui» disse, poi «e questo è tutto ciò che conta». Fece un passo indietro e allargò le braccia, come se volesse incitare qualcuno. Capii chi quando decine e decine di occhi rossi scintillarono nel buio e, pian piano, sagome di Divoratori di ogni taglia ci circondarono.

«Siete pronti? Lo spettacolo sta per cominciare».

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Capitolo 24
*** Free falling. ***


Capitolo 24
"Free falling"



Fissavo il mio riflesso allo specchio.
Non avevo un bell'aspetto, anzi, tutt'altro: profondi cerchi neri mi segnavano gli occhi, le guance erano scavate ed io ero più pallida del solito. Quasi temetti che le mie ossa si potessero spezzare tutte assieme se solo qualcuno avesse osato sfiorarmi.
Assurdo che dovessi uccidere qualcuno in tali condizioni.
Con quel che avevo addosso, poi, risultava tutto ancor più al limite del razionale: un abito lungo, tinta perla, che ricopriva il mio corpo, lungo fino ai piedi, con dei risvolti in pizzo al bordo della gonna e delle maniche.
Sembrava un sobrio vestito da sposa e quel pensiero mi fece sorridere. Ne avevo visti di matrimoni nella mia lunga esistenza. Ricordavo perfettamente come mi infiltravo ad alcuni eventi del genere, unicamente per ascoltare le promesse che i due amanti si scambiavano davanti all'altare.
Era romantico e adoravo analizzare ogni parola nei minimi dettagli e perdermi in esse.

“Prometto di amarti e onorarti sempre, nella gioia e nel dolore, in salute e in malattia, finché morte non ci separi”.

Buffo: senza farci promesse di alcun genere, Simon ed io eravamo passati attraverso, praticamente, ogni cosa. Persino la morte e, dopo di essa, non avevo cessato di amarlo.
Non è quello il punto, poi? L'amore, se è vero, supera tutto, anche la morte.


***


«Bene, bene». La voce di Juliet rimbombò nella grossa stanza ed io sussultai non appena mi affiancò, facendo picchiettare i suoi alti tacchi a spillo sul pavimento di pietra. «Oh, ti calza proprio a pennello, devo dire» esclamò, fissandomi negli occhi attraverso lo specchio.

«Già» replicai, distratta. «Anche se non vedo il motivo per cui debba indossare una cosa del genere».

«Beh, perché stiamo per andare incontro ad un evento epocale. Mi sembra giusto celebrare e tu, mia cara, sarai la stella della nostra festa».

«Una serie di omicidi di massa è un motivo di festa, ora?». Mi pizzicai la lingua con i denti a tale frase. Avrei dovuto semplicemente stare zitta e accordare la Creatrice in ogni sua bizzarra azione, come mi era stato ordinato; il problema era che, per me, obbedire era estremamente complicato, se non fuori da ogni logica.
Juliet fece una smorfia. Sebbene mi aspettassi una reazione violenta da parte sua, non fece nulla del genere. Tutt'altro: restò calma in modo inquietante. «Di certo non per causa mia» disse. «Avrei volentieri evitato di giocarmi la pelle, ma... Alcuni rapporti raggiungono un limite che, una volta superato, ti impedisce di tornare indietro. Ogni cosa è talmente logora che tutto ciò che si può fare è dare un taglio netto alla faccenda e andare avanti, lasciandosi alle spalle il resto».
Aggrottai le sopracciglia. Stava definendo la battaglia cruenta in procinto di iniziare come la fine di una qualsiasi squallida relazione amorosa. Era patetico.
«Sta' tranquilla» proseguì poi, sorridendomi con euforia. «Se sarai brava e svelta, saranno poche le esistenze spezzate».

«Volendo... Potresti riportare indietro coloro che cadranno in battaglia, no? Insomma, con... Con Simon l'hai fatto». Ancora una volta parlai a sproposito e furono le mie labbra a pagarne il prezzo, mentre le mordevo così forte da portarle quasi a sanguinare.
A quel punto, tuttavia, la Creatrice abbozzò una risata. «Dolcezza» disse «contrattare con la Morte per un singolo individuo è arduo. Farlo per decine e decine di esseri... Direi praticamente impossibile. Conosci la regola degli equilibri? Una vita per una vita. Per riportare indietro il tuo amato, qualcuno è morto al suo posto. Non si ottiene mai nulla per nulla».

Lasciai andare lentamente il labbro inferiore dalla presa ferrea dei miei denti. Avevo pensato a una cosa del genere più volte dopo esser venuta a conoscenza di tale verità, ma mi ero costretta a considerare quella teoria come falsa per il semplice fatto che sarebbe stato troppo da accettare per qualsiasi coscienza; la mia o quella di Simon.
Sentirlo dire ad alta voce fu come ricevere l'ennesima palla di cannone in pieno stomaco, come se la verità pura e semplice fosse un'arma a doppio taglio in grado di ferirti nel profondo, molto più delle menzogne e dei sotterfugi.
Non ebbi, comunque, il tempo di rimuginarci troppo sopra poiché la Creatrice aveva già cambiato discorso, che io non seguii alla lettera. Blaterava qualcosa riguardo al “grande evento”, accompagnando il tutto con larghi sorrisi ed euforia macabra. Tentava di infonderla anche a me, ma con scarsi risultati.
Smisi addirittura di ascoltarla ad un tratto e mi affidai soltanto ai gesti che mi fece quando mi invitò a seguirla e continuò a parlare. Lo dedussi dalle sue labbra in continuo movimento.
Io mi limitai a seguirla e dovetti convincermi a stringerle la mano quando, per proseguire, fu necessario smaterializzarsi in un altro – e nuovo – luogo. Beh, “nuovo” per modo di dire. Ultimamente ogni posto era uguale a quello precedente: sempre buio, sempre circondato da rocce fredde.

Qualcosa di diverso, tuttavia, riuscii a scorgerlo. Poco distante da dove eravamo apparse, infatti, si trovava una teca di vetro e i pochi raggi di sole che filtravano in quella grotta la illuminavano come fosse un tesoro prezioso.
Fui costretta a sforzare – e non poco – gli occhi, per capire cosa contenessero tali lastre trasparenti: una lama affilata, con un manico molto simile a quello dei Pugnali – le incisioni mi sembrarono le stesse; la peculiarità era che esse parevano risplendere, nonostante la scarsa luce.

«Non è la cosa più bella che tu abbia mai visto, Hazel?» esclamò Juliet, accelerando il passo per raggiungere la teca. «Ho passato le pene dell'inferno per reperirla – letteralmente – ma ne è valsa la pena: ciò che distruggerà tuo padre. Qualcosa di così piccolo che in realtà ha così tanto potere».

Non levò il sorriso nemmeno in quel momento e mi sorprese il modo in cui fissava incantata quel pugnale – che somigliava più ad una vera e propria spada – considerato che era la stessa arma che avrebbe potuto distruggere anche lei se solo io mi fossi ribellata. Evidentemente, era più che sicura che non avrei fatto nulla del genere, nonostante il mio atteggiamento – a suo dire – irritante.
Io restai immobile, a pochi metri di distanza. C'eravamo noi e altri due Divoratori col volto coperto in quel posto, ma era come se fossimo sole.

«Posso... Chiederti una cosa?» dissi, ignorando la voce nella mia testa che suggeriva di farmi semplicemente i fatti miei, senza peggiorare le cose.

«Immagino di sì» replicò la Creatrice, distogliendo per un attimo lo sguardo dal suo gioiello.

«Perché fate tutto questo?» domandai. «Insomma... Sono passati millenni dalla vostra discussione, il tutto per... Futili motivi. Dopo tutto questo tempo, perché non... Perché non lasciare semplicemente perdere?».

«Credevo di avertelo già detto. Non possiamo coesistere in una stessa dimensione».

«In precedenza, lo avete fatto. Se è vero quello che si dice, vivevate in armonia. E anche in questo preciso istante lo state facendo e... Niente di catastrofico si sta verificando, se non azioni mostruose compiute sotto vostro ordine».

«Un tradimento del genere non è... Qualcosa su cui si può passare sopra così facilmente. Ad ogni azione corrisponde una reazione e lui deve pagare il giusto prezzo per quel che ha fatto».

«Trascorrere millenni negli Inferi non è abbastanza?».

«No. La morte è abbastanza».

Serrai la mascella. «Anch'io mi sono innamorata di un umano. Questo mi rende una traditrice?».

Juliet spaccò la propria espressione che si era indurita durante le ultime frasi. Mi venne incontro, camminando lentamente e si fermò soltanto quando mi fu di fronte. «Assolutamente no» disse. «Ti sei... Innamorata di un umano perché quasi costretta. Quel che avete non è reale, anche se tu ora credi lo sia e sei qui perché tieni a lui e hai paura che io lo rispedisca là dove l'ho trovato, ma ti assicuro che quando tutto questo sarà finito, il tuo dolce Simon non sarà altro che un cattivo ricordo così come i sentimenti che professi per lui».

Mi venne voglia di scattare in avanti, rompere la teca, afferrare il Pugnale e trafiggerla in quel preciso istante. Ci sapeva fare con le parole. Era in grado di distruggere qualcuno con delle semplici frasi ed era ciò che stava facendo con me. Probabilmente, neanche ci pensava a quel che stava dicendo. Per lei, i sentimenti non contavano nulla.

«Non lo vorresti, Hazel?» continuò Juliet. «Non ti piacerebbe tornare ad essere una Divoratrice? Vivere per sempre, nella gloria e nell'onore, rispettata dalla tua gente, quasi al mio pari, con la possibilità di assumere qualsivoglia aspetto e liberarti di questa ragazzina impaurita che possiedi ora? E' possibile. Io posso farlo».

Scossi ripetutamente la testa e strizzai gli occhi. «Non voglio nulla del genere» esclamai.

«Dici così ora, non mi sorprende. Ma sappi che quando il momento arriverà, sarai tu ad implorarmi di trasformarti in ciò che eri».

Se mi avesse proposto una cosa del genere solo il giorno prima, avrei accettato senza ripensamenti, per quanto fosse assurdo e privo di senso. Nonostante avessi desiderato, per un momento, il non provare niente, l'idea di tornare ad essere apatica non mi allettava affatto.

A quel punto, mi ero abituata al dolore.

«Non accadrà» confermai.

«Staremo a vedere». Non si smosse più di tanto. Sembrava del tutto convinta delle proprie affermazioni e allora tacqui, per non dare inizio ad ulteriori discussioni che non sarei stata in grado di sostenere.

Restai in silenzio per qualche secondo, finché Juliet smise di sperare in una mia reazione e cambiò rotta. «Prendi l'Arma» mi ordinò.

Sospirai e le obbedii.

La teca era pesante, feci fatica a sollevarla. Nessuno dei presenti mi aiutò e non era certo perché non potevano toccare quelle lastre di vetro; in qualche modo avevano dovuto trasportare tale contenitore fino a lì.
Non appena la mia mano si chiuse attorno al manico della lama, essa vibrò tra le mie dita e, in seguito, risplendette di luce propria. Fu un evento che durò solo una manciata di secondi, ma bastò a lasciare me perplessa e ad aumentare l'euforia della Creatrice.

«Ora non c'è più nessun dubbio che sia tu» esclamò, ad un tono così basso che dubitai volesse farmelo sentire.

Osservai la Spada che reggevo in mano. Dovevo apparire ridicola con quell'Arma così grande in mano; ero bassa, minuta... Di sicuro non potevo intimorire nessuno, ma ero pericolosa nonostante le apparenze.

“Bel giocattolino, eh?”. Udii una voce nella mia testa, diversa dal solito. Non era la mia coscienza che commentava o altro, anche perché il tono era maschile. Faticai, però, a riconoscere a chi appartenesse.

«Cosa...» biascicai, facendo una smorfia e Juliet mi guardò con fare curioso, come si aspettasse una qualsivoglia domanda.

“Non parlare ad alta voce, Hazel. Vuoi farci scoprire? Basta pensare ad una risposta e io la sentirò”.

“Sebastian?”. Feci come mi disse.

“Bingo”.

“Come diavolo...”.

“Faccio ad essere nella tua testa? Incantesimo molto potente. L'ho fatto piazzare su di te tempo fa”.

“Senza dirmelo?”.

“Non avresti acconsentito”.

«Qualcosa non va, Hazel?» mi chiese la Creatrice. Evidentemente, ero rimasta immobile con una smorfia stampata in faccia per qualche secondo più del normale. «Uhm, sì» replicai, scuotendo appena la testa. «Stavo solo... Ammirando l'Arma».

Juliet sorrise, quasi fosse orgogliosa di me in qualche contorto senso e io feci lo stesso, di rimando, pur senza il medesimo entusiasmo. Lei mi fece un cenno con il capo, per indurmi a seguirla e le obbedii.

“Sei ancora lì?” pensai. “Certo” replicò Sebastian.

“E come funziona tutta questa cosa?”.

“Sento tutto ciò che senti tu, solo che non posso vederlo. Per quello dovrai aiutarmi tu”.

“Temevi che non avrei potuto cavarmela da sola?”.

“No, ma ho vissuto per parecchio tempo in ambienti simili e so come ci si deve comportare per non farsi uccidere”.

“Katie ha detto che non mi torceranno un capello”.

“Katie non sa quello che so io”.

“E cosa sai?”.

“Non ho propriamente il tempo per spiegarti tutto”.

Roteai gli occhi. Quando si trattava di stilare le ragioni per cui qualcosa accadeva, sembrava non essercene mai l'occasione.
La Creatrice mi ordinò di fermarmi – in realtà, si bloccò di colpo e rischiai di andarle a sbattere addosso. Si voltò verso di me e sorrise in quel modo macabro che continuava a mettermi i brividi.
Mi aggiustò il vestito bianco che indossavo, proprio come avrebbe fatto una vera madre nel giorno del matrimonio della figlia. Poi strinse tra le sue dita la mia mano libera e insieme agli due Divoratori presenti ci smaterializzammo.

Di solito, spostarsi da un luogo all'altro in tal modo richiedeva una frazione di secondo. Quella volta, invece, il processo ne richiedette sessanta.
Sessanta secondi esatti – li contai – in cui tenni gli occhi fermamente chiusi, giusto per non farmi girare la testa. Prima che potessi sollevare le palpebre, un vento gelido mi fece pizzicare il viso. Juliet mi lasciò la mano e solo allora riaprii gli occhi. Era buio, ma riuscii a scorgere, in lontananza, il profilo del castello in mezzo all'oceano che fungeva da dimora del Creatore.
Come avrei potuto scordarlo? Avevo saltato dalla rupe su cui di ergeva e ancora mi domandavo come era possibile che fossi viva dopo tale evento.

“Hazel, ci sei?”. La voce di Sebastian irruppe nella mia testa. Ebbi l'istinto di annuire e basta, ma sarebbe stato pressoché inutile. “Ci sono” mi sforzai di pensare. “Siamo nel luogo dove alloggia il Creatore”.

Lui tacque e Juliet, con uno dei suoi soliti cenni, mi disse di continuare a seguirla. Man mano che camminavamo, dietro di noi comparvero altri Divoratori: prima una decina, poi venti, trenta, quaranta... Persi il conto, ma non dubitai del fatto che alle mie spalle avessi almeno cento ombre.
Ad un tratto, la Creatrice si fermò e, di nuovo, fui sul punto di andarle contro, il che mi faceva ridere – non lo feci sul serio. Insomma, mi apprestavo a combattere una guerra e inciampavo sui miei stessi piedi. Quanto era assurdo?

«Pronta per un po' di azione, mia cara?» sibilò, in modo che solo io la sentissi. Non risposi; evidentemente, nemmeno lei voleva lo facessi.

La vidi allargare le braccia e il vento le mosse i capelli, come a mostrarsi già vincente.

«Sta per cominciare, figli miei» quasi urlò. «Stanotte è l'inizio di tutto. Combattete fieri, abbattete i traditori e insieme costruiremo un nuovo mondo».

Alle mie orecchie, quel discorso suonò ridicolo e pregno di manie di protagonismo. Feci una smorfia e pregai che lei non mi avesse visto. Anzi, trattenni anche un'altra risata. Era sciocco ridere, lo sapevo, ma, forse, l'isterismo attanagliava il mio inconscio al punto da spingermi a comportarmi in modo strano. Persi le sue ultime parole. Lo sguardo mi ricadde sull'Arma che tenevo in mano.

Sarebbe stato sciocco trafiggere la Creatrice in quel preciso momento? Avrei potuto farlo. Era così assorta nelle sue proclamazioni da non badare a me. I Divoratori che ci circondavano mi avrebbero uccisa, allora? Oppure si sarebbero levati un peso? Quanti di loro erano davvero disposti a combattere e quanti erano stati puramente costretti?
Probabilmente, Juliet non mi riteneva capace di un'azione simile. Io ero soltanto un burattino che poteva muovere senza alcun intralcio tramite minacce e ultimatum.
In fondo, era vero: non sarei stata in grado di fare qualcosa del genere. O di uccidere il Creatore, del resto. Confidavo in una eventuale scarica di adrenalina nel giusto istante – così credevo si chiamasse.

Delle urla di acclamazione interruppero il flusso dei miei pensieri – e chissà se Sebastian era rimasto all'ascolto.
Come uno sciame, i Divoratori mi superarono quasi non badando a me o alla Creatrice, che rimase immobile lì dov'era. Vidi alcuni di loro scomparire e riapparire metri più avanti, altri correre e basta, brandendo quei Pugnali che io tanto odiavo.
Passarono alcuni secondi in cui il rumore dei loro passi si allontanò sempre più, fino quasi a divenire nullo. Seguì un attimo di silenzio e mi ritrovai, inconsciamente, a trattenere il respiro. Esso sembrò interrompersi del tutto non appena grida di diverso tono rispetto a quelle precedenti scalfirono l'aria; urla acute, penetranti, che scavarono una voragine nel mio petto e provocarono sola ulteriore soddisfazione nell'espressione della Creatrice.
Mi afferrò prepotentemente per un braccio e mi trascinò via di peso. Non seppi per quale miracolo non caddi a terra, considerata la velocità con cui procedevamo.
Si fermò poco prima dell'entrata al castello. «Ora è il tuo turno, dolcezza» esclamò. Mi lanciò una rapida occhiata e sorrise, come se volesse, a modo suo, incoraggiarmi. «Raggiungi la Torre. A lui piace stare lì».

Dopo mi invitò a proseguire, senza di lei.

Esitai, ovviamente. Non ero particolarmente propensa ad entrare in un luogo da cui provenivano urla e lamenti. Era come darsi in pasto ai leoni. Eppure, dovetti farlo, poiché Juliet continuò a incitarmi a camminare, ad andare avanti.
Strinsi forte il manico della mia Arma, feci un respiro profondo e mi costrinsi a muovere le gambe in maniera abbastanza sicura, almeno evitando di inciampare.
Quando varcai la soglia di una porta inesistente, lo spettacolo che mi ritrovai davanti fu atroce e macabro. C'erano cadaveri di Divoratori sparsi ovunque, Divoratori che combattevano e si uccidevano l'un l'altro, che urlavano. C'era sangue e l'odore era così forte che mi diede la nausea.
Mi mossi furtivamente, ma notai presto come nessuno si accanisse su me direttamente. Forse mi avevano riconosciuto ed era stato dato loro l'ordine non toccarmi. Del resto, servivo al Creatore così come servivo alla Creatrice. Era come se avessi uno scudo invisibile addosso.
Tuttavia, probabilmente di rimando, uno dello schieramento avversario avanzò nella mia direzione con fare minaccioso. Fece per colpirmi, ma lo schivai. Lui non si arrese e ci provò di nuovo e ancora lo scansai. Riuscii ad evitarlo per almeno cinque volte, finché non fu in grado di colpirmi con un calcio alle gambe. Caddi a terra e la mia Arma mi scivolò di mano. Prima che potessi anche solo fare cenno ad alzarmi, il mio nemico mi afferrò per il collo, bloccandomi sul pavimento di roccia gelida.
Era impossibile muovermi da quella posizione. Potei solamente allungare il braccio e cercare di recuperare la spada. Dovetti faticare per avere successo, quasi persi il fiato.
Afferrai nuovamente l'Arma e con tutta la forza che avevo, la conficcai nel fianco del Divoratore, che tremò per poi ricadere a terra, inerme.

Mi misi in piedi, barcollando, col fiatone.
La lama della spada si era ricoperta di sangue. Evitai di focalizzarmi troppo su esso, altrimenti avrei vomitato.

Scossi appena la testa e ripresi il mio cammino. “La Torre. Dove accidenti è la Torre?” urlai nella mia testa.

“Calma” replicò Sebastian. “Dimmi dove sei”.

Strizzai gli occhi. Stavo per avere una crisi di pianto, seppur altamente fuori luogo. Dovevo essere fredda e decisa, invece mi ritrovai ad essere eccessivamente emotiva. “Dannazione”. Sebastian sentì anche quello.

“Hazel, dimmi dove sei”.

“Non.. Non lo so. Questi corridoi sono tutti uguali”.

“Sembra così, ma c'è uno schema ben preciso”.

Continuai a camminare, mi guardai attorno. Le lotte parvero lontane, così le urla, come se tutto si fosse concentrato all'entrata.

“Ci sono delle fiaccole accese e...”.

“Le fiaccole. Ce ne dovrebbe essere una sistemata in modo diverso dalle altre. Ti indica un nuovo corridoio, più stretto e buio”.

Controllai meglio ciò che mi circondava ed effettivamente notai una di quelle torce posizionata più in alto rispetto allo standard. Accanto ad essa, vi era un'apertura ristretta. Vi entrai. “E ora?”.

“Ora prosegui. Troverai una scala a chiocciola. Sali. La Torre è lì”.

Seguii le sue indicazioni, che si rivelarono tutte esatte.

Come pensava la Creatrice che avessi potuto trovare quel luogo da sola? Forse mi riteneva più intelligente del dovuto.

Alla fine della scala, dovetti percorrere un ulteriore pezzo di corridoio al buio. Alla fine, sbucai in una grossa stanza, con al centro una poltrona di velluto rosso. C'ero già stata in quel posto, mesi prima. Era la stessa stanza.

Il Creatore era di spalle, da solo. Non c'erano guardie accanto a lui e non ve ne erano nemmeno prima. Nessuno aveva tentato di fermarmi. Nessuno aveva provato ad evitare che io lo raggiungessi.

Era stato facile.

Fin troppo facile.

«Bene, bene» esclamò lui. Non ebbe bisogno di voltarsi per accorgersi della mia presenza. «Guarda chi è tornata a farmi visita».

«Non la chiamerei proprio una visita» replicai e tentai di mantenere un tono spavaldo, nonostante non lo fossi per nulla.

«Già. Sei venuta qui per uccidermi. Direi... Non molto cortese».

Lo sentii ridacchiare e poco dopo lo vidi voltarsi. Si aggiustò il colletto della camicia nera che indossava e mosse qualche passo nella mia direzione. Io, di riflesso, impugnai più saldamente l'Arma.
Il Creatore si fermò a meno di un metro da me e sospirò. «Beh» disse e si inginocchiò, allargando le braccia. «Fallo».

Non mi aspettavo una reazione del genere. Credevo avesse barricato la sua fortezza con ogni genere di protezione, che in quel momento tentasse di tutto per contrastarmi o, perlomeno, cercasse di convincermi a cambiare schieramento. Invece, nulla del genere accadde.

Avevo il Creatore inginocchiato ai miei piedi che mi invitava ad ucciderlo.

Di nuovo troppo semplice.

“Fallo, Hazel. Colpiscilo” urlò Sebastian nella mia testa.

Fui davvero sul punto di farlo. Sollevai la spada con una sola mano e mi preparai a trafiggerlo. Tuttavia, la sua espressione soddisfatta sul volto mi portò ad esitare. Perché non temeva di essere ucciso? Perché voleva che lo facessi?
Se era così intenzionato a morire senza lottare, avremmo potuto evitare tutto il casino che stava succedendo là fuori.

“Muoviti, Hazel!”.

Tremai. I miei occhi ricaddero sulla piccola parte scoperta del collo del Creatore. Erano visibile i segni dei sigilli, seppur in maniera meno calcata rispetto a quelli che erano rimasti sulla pelle di Simon. Essi erano serviti per riportarlo alla luce dopo secoli di pene negli Inferi; gli avevano concesso la giusta energia vitale per nutrirsi e assumere l'aspetto che desiderava e... E se non fossero serviti solo a quello? Ormai ogni cosa scaturiva nuovi dubbi.
«Esiti, Hazel?» sibilò il Creatore. «Non ti credevo il tipo da esitazioni. Insomma, non ci hai pensato troppo su quando sei fuggita e hai saltato nell'acqua gelida, quando ti sei nascosta inutilmente». Abbozzò una risata e, con un gesto secco, guidò la lama della spada affinché poggiasse sul suo collo, proprio sui vari sigilli che avevo notato poco prima. Quasi rischiai di lasciarmi scivolare di mano l'Arma e dovetti sforzarmi di mantenere le dita ben strette attorno al manico.

«Sei qui e basterebbe così poco» continuò. «Che succede? Ti manca il coraggio? Oppure stai venendo sommersa dalle tue incertezze?».

«Sta' zitto» dissi. Avrei voluto urlarlo, ma il mio tono di voce fu flebile. Il sorriso sul suo volto era rimasto, come se si stesse divertendo a prendermi in giro in quel modo.

«Avresti dovuto accettare il mio compromesso quando eri in tempo. Avremmo già risolto tutto a quest'ora. Invece no: hai voluto ribellarti, scappare e ora... Ora sei addirittura parte dello schieramento opposto. Non che mi sorprenda, immaginavo lo avresti fatto. Ma, come si dice? Ogni cattivo che si rispetti – perché, a quanto pare, sono il cattivo della situazione – ha un suo asso nella manica, giusto?».

Feci una smorfia. Di che parlava?

“Colpiscilo ora, prima che sia troppo tardi” mi urlò Sebastian, ma non lo ascoltai.

«Che intendi?» domandai. Il Creatore ammiccò. «Uccidi me» disse «e uccidi lui. Credi non sappia del suo miracoloso ritorno dal regno dei morti?».

Spalancai gli occhi e mi mancò il respiro.

Era una maledetta congiura.

«Siamo connessi, Hazel. Io e lui. Lo siamo sempre stati».

In quella guerra insulsa, entrambe le parti avevano in mano la vita di Simon e potevano giocarci come meglio volevano. Ed io ero in mezzo a quel turbine, non sapendo più che fare.
Se non avessi portato a termine quella missione, la Creatrice avrebbe richiamato chissà chi e avrebbe rispedito Simon dove lo aveva trovato. D'altra parte, se avessi agito, sarei stata io l'artefice del suo omicidio.

Non c'era soluzione, non in quel momento.

“Non credergli. Non devi credergli” mi sussurrò Sebastian. Strizzai gli occhi: dovevo evitare che le brutte sensazioni che mi stavano avvolgendo influissero sulla mia lucidità.

«Non... Non ti credo» biascicai, con voce spezzata.

«Beh, su questo non posso intervenire. Ma vuoi davvero rischiare di perdere l'amore della tua vita di nuovo? Per cosa, poi?».

Strattonai via la spada e feci un passo indietro, distrattamente. Mi sentivo svuotata.

Possibile che niente andasse mai secondo i piani?

Il Creatore si tirò su, lentamente, tornando ad essere in piedi. Si avvicinò a me e, con due dita, mi sfiorò una guancia. Lo scansai subito. Lui sospirò.

«Sai, io ti capisco, Hazel» disse. «Anche io sono stato innamorato di un'umana ed è praticamente solo a causa mia che ti è successo quel che ti è successo. Io ti ho creata e voglio solo il bene per te».

Scossi appena la testa, esterrefatta. «Le cose non avrebbero dovuto andare così, sai?» andò avanti. «Però, ovviamente, tua madre sa come scombussolare le cose. Ed è questo il problema. Lei è il problema. Non credi che tutto sarebbe migliore se non ci fosse? Nessuna guerra, solo pace, come era in principio».

«Senza umani?» domandai, retorica e acida.

«No, beh... Immagino che, in piccola parte, potrebbero restare anche loro».

«Non...».

Avrei detto tante cose, oppure sarei semplicemente rimasta in silenzio.

Non potei saperlo, poiché venni interrotta prima. La Creatrice irruppe nella stanza, con passo pesante ci venne incontro, fermandosi a pochi metri da noi. Mi voltai appena, incrociando il suo sguardo furioso.

«Che cosa stai aspettando, Hazel?» esclamò, scandendo bene ogni parola. Sobbalzai; avevo paura scattasse in avanti e mi attaccasse. Data l'espressione furiosa dipinta sul suo viso, non ne sarei rimasta sorpresa.

Tuttavia, non fece nulla del genere. Restò immobile, con i pugni stretti lungo i fianchi.

«La cordialità non è mai stata il tuo punto forte, cara» esclamò il Creatore e ciò non fece altro che aumentare l'ira della sua consorte. La vidi, poco dopo, ringhiare e dissolversi nell'aria. Riapparve alle mie spalle, ma non si accanì su di me. Afferrò il Creatore per le spalle e, con forza, lo tirò, facendolo capitombolare dall'altra parte della stanza, contro la parete di roccia.

«Avevi un solo dannato compito, Hazel!» sbraitò poi «e ancora non l'hai portato a termine».

Indietreggiai appena, lentamente, sollevando l'Arma in modo che potesse aiutare a difendermi. «A quanto pare, non ne sei in grado» continuò «o forse hai bisogno di una spinta in più».

Nemmeno il tempo di finire la frase e Juliet si smaterializzò di nuovo. Non potei notare dove tornò ad essere visibile, finché non mi afferrò da dietro, bloccandomi le braccia al corpo e stringendo insieme a me l'impugnatura della spada.
«Non cambia niente, sai?» sibilò al mio orecchio. «Posso guidare la tua mano, avrà lo stesso effetto, come se lo facessi tu. E dopo di che, ucciderò anche te. Ti piace l'idea?».
Tentai di divincolarmi. Mi dimenai, urlai, scalciai, ma non riuscii a contrastare la sua forza, mentre avanzava verso il Creatore che solo allora si era rimesso in piedi.
Juliet andò oltre, agì, fece per colpirlo, usando me come un burattino, però non ebbe successo, poiché l'avversario si dissolse nell'aria, riapparendo ad alcuni metri di distanza. La Creatrice sbraitò e a causa di quel gesto, si distrasse a sufficienza da permettermi di liberarmi dalla sua presa grazie ad un calcio che sferrai alle sua gambe.
Ebbi l'intenzione di trafiggerla in quel preciso istante. Sembrava più vulnerabile del solito, ma non appena mi mossi per farlo, lei reagì, colpendomi con un pugno in pieno volto, con così tanta violenza da farmi perdere l'equilibrio e farmi sanguinare il labbro. Era nettamente allo sbaraglio, come una persona pazza che non sapeva più come agire; avrebbe ucciso anche me, pur consapevole che io le servivo per liberarsi del suo nemico.

Era quello che stava per fare.

Si stava per scagliare su di me un'altra volta, ma prima che potesse farlo, qualcun altro intervenne, distraendola dalla mia traiettoria. Credetti si trattasse del Creatore e mi sbagliai. Quando mi tirai su in piedi – a fatica – notai la presenza di Sebastian e, poco distante, di Katie.

Evidentemente, il piano era cambiato.

Non ci fu occasione, per me, di gioire o fare altro. Quel che successe di lì in poi fu un totale caos, sia per quella lotta malsana, sia per ciò che stava accadendo nella mia testa.
Forse ero pazza anch'io perché non sapevo più cosa fosse giusto, cosa sbagliato o, semplicemente, cosa fare. Vedevo Sebastian e Katie combattere contro la Creatrice, il Creatore rimanere in disparte solo ad osservare ed io immobile. L'unica che poteva fare qualcosa... E rimanevo immobile.
Solo una cosa fu in grado di smuovermi. Qualcosa che, fino a qualche tempo prima, non avrebbe nemmeno toccato di striscio: Juliet atterrò Sebastian, fu sul punto di trafiggerlo col suo Pugnale. E allora scattai, senza ragionarci su, senza farmi troppe domande.

«No!» urlai e corsi nella direzione dove il peggio stava per accadere.

Strillai ancora.

Strillai, mentre la lama della mia spada si conficcava nella schiena della Creatrice, in mezzo alle sue scapole, attraversando il suo corpo da parte a parte. Lei gemette e il Pugnale le ricadde di mano. Una strana luce le illuminò la pelle, gridò e poi ricadde di peso sul pavimento di roccia.
Rimasero solo gli occhi di Sebastian, fissi su di me, sorpreso del fatto che gli avessi appena salvato la vita. Ne ero sorpresa anche io: per aver impedito che venisse ucciso e... Per aver ucciso, finalmente, la Creatrice.

Quasi non mi sembrava vero e mi lasciai scappare un sorriso, seppur non fosse realmente tutto finito. C'era ancora il Creatore e...

No, era tutto finito.

Portai una mano tremante sul mio petto e, con orrore, la vidi impregnarsi di sangue.

La stessa ferita, lo stesso dolore.

Incrociai lo sguardo di mio fratello solo per un attimo e lui capì cosa stava succedendo senza che io parlassi. Frenò la mia caduta prima che mi schiantassi a terra, accogliendomi tra le sue braccia.
Non lo vidi, ma ero pressapoco sicura che il Creatore stesse sorridendo. Ne ebbi la conferma quando lo sentii sussurrare «Non siamo gli unici connessi», mentre, insieme a Sebastian, mi dissolvevo nell'aria.

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Capitolo 25
*** Everything goes black. ***


Capitolo 25
"Everything goes black"



La psicologia umana è complessa. O, forse, è meglio dire che l'intero concetto di umanità lo è. Gioia e tristezza spesso coesistono, così come il dolore e il sollievo, l'odio e l'amore.
Non cerchiamo di capire come questo accada, rischieremmo soltanto di farci esplodere la testa. Lo accettiamo e basta, senza chiederci il perché anche quando una spiegazione logica sarebbe utile per porre fine alla nostra perenne confusione.

Il punto è che non c'è logica.

L'intero mondo si basa su una reazione a catena innescata da eventi totalmente casuali in cui siamo costantemente e inesorabilmente immersi, senza accorgercene. E così andiamo avanti, a discapito di tutto, della ragione stessa; smettiamo di fare domande, di tentare di rispondere a quelle che ci vengono poste e ci arrendiamo a ciò che ci circonda.

Questo è ciò che accade.

O che dovrebbe accadere.

Certe volte, qualche persona non si abbandona all'accettazione, credendo che sia tutto opera di quel fantomatica e misterioso ente detto “destino”.
Certe volte, qualcuno inizia a combattere ferocemente, si ribella, convinto del fatto che tale catena si possa spezzare o, al limite, modificare, in modo da stravolgere gli eventi e indirizzarli verso un cammino migliore.

Io ero uno di queste persone.
Non accettavo il destino: troppo stupido, troppo crudele. Non volevo e non potevo semplicemente arrendermi allo svolgimento dei fatti senza intervenire.

 

«Che cosa stiamo aspettando, esattamente?» domandai, per l'ennesima volta. Rischiavo di divenire fastidioso, pedante e ne ero consapevole.
Sebastian sbuffò, con occhi socchiusi. Sedeva su uno di quei divani di velluto rosso, con le mani intrecciate e, accanto a lui, si trovava Katie. Io, invece, ero in piedi, proprio di fronte a loro. Non riuscivo a stare fermo, continuavo a fare su e giù in quell'enorme stanza, dove erano presenti altri Divoratori di cui non sapevo il nome. Mi era stato detto facessero tutti parte della Resistenza.
«Ci atteniamo al piano» rispose Sebastian, con apparente calma. Mi fermai di scatto, allargando le braccia. «Rimanere immobili senza fare niente? E' questo il piano?» esclamai.
Lui alzò le spalle, come se la risposta fosse ovvia. Fui io a sbuffare, allora. «Questo piano fa schifo» commentai.

«Lo preferivo di gran lunga quando era senza memoria, almeno stava zitto» disse Katie. Probabilmente, non era sua intenzione farmi sentire quella frase, ma la afferrai nonostante il basso tono di voce. Mi sforzai di ignorarla, non era qualcosa di importante in quel momento. «Hai detto che hai un modo per contattarla» dissi, andando oltre. «Perché non l'hai ancora fatto?».
Sebastian roteò gli occhi e si alzò lentamente in piedi, compiendo un passo nella mia direzione. «Sto aspettando il momento giusto, Simon» replicò.

«E tu sai qual è, vero?».

«Certo che sì».

Scossi appena la testa.

Di lui non mi fidavo. Non era molto presente nei miei ricordi, come se la mia testa avesse deciso di riportare alla luce soltanto cose piacevoli; per quel poco che avevo visto, tuttavia, ero a conoscenza di come mi avesse reso la vita impossibile e, per sentito dire, sapevo che era stato lui a mettere le basi di tutto quel casino.
Ogni cosa era stata costruita sotto il suo controllo, il che mi portava ad odiarlo senza nemmeno provare a capirlo.
Sostenni il suo sguardo, cercando di risultare minaccioso ai suoi occhi tanto quanto lui risultava ai miei. Ci riuscii a stento e Sebastian fece un passo indietro, non proseguendo il discorso.
Era strano che io fossi l'unico umano in quel posto. Per quanto ne sapevo, Thomàs se ne era andato e, sebbene mi costasse ammetterlo, avrei preferito non lo avesse fatto. Era un Cacciatore, era in grado gestire un mucchio di Divoratori.
Io... Beh, io, a parte le poche cose apprese durante la convivenza con Tamara, non sapevo nulla. A volte, pensai addirittura mi avrebbero ucciso in modo così rapido da non darmi il tempo di realizzare. Per mia fortuna, nulla del genere accadde, anzi, alcuni di loro erano stati addirittura gentili con me, recuperandomi dei pasti caldi e delle coperte.

Non erano passati nemmeno due giorni da quando Hazel se ne era andata e a me già mancava il respiro. Katie, in uno dei suoi pochi momenti di tatto, mi aveva detto che tutto sarebbe andato bene, che l'avrei rivista e che avrei potuto sistemare le cose con lei.
Avrei voluto crederle senza esitazioni, ma non faceva parte del mio essere. Ero troppo pessimista per tentare di essere ottimista.

Avevo paura.

Avevo lo strano presentimento che qualcosa di terribile sarebbe accaduto, anche se quel gruppo di Divoratori che mi circondava era di una diversa opinione.
Era come se fossero convinti di poter controllare il corso degli eventi con estrema facilità. La realtà non era così, però, e sembravano non capirlo o, semplicemente, ignorarlo.
Forse, il fatto di essere immortali alterava il loro concetto delle cose. La consapevolezza di avere un tempo determinato a propria disposizione porta le persone a calcolare rischi ed imprevisti e ciò è una caratteristica molto presente negli esseri umani.
Per i Divoratori, tale logica non funzionava. Io, invece, mi ero già perso un sacco di volte in mille se e mille ma e ognuno di essi conduceva ad un epilogo per nulla piacevole. Che ci fosse Hazel di mezzo, poi, complicava le cose.
Il punto era, che quando c'era lei di mezzo, io non ragionavo mai, che avessi memoria o meno. Mi aveva mandato in tilt dal primo momento in cui l'avevo vista ed era accaduto per ben due volte.
Immaginai che il destino c'entrasse, ma una versione scritta da qualcuno di lontano e remoto che probabilmente mai avremmo conosciuto. In quel caso, avrei anche potuto ringraziare per tale storia.
Inoltre, avevamo così tante cose in sospeso: avremmo dovuto chiarirci e non volevo pensasse la odiassi per ciò che era accaduto poco prima che se ne andasse.
Sì, mi aveva dato fastidio vederla con Thomàs; quella parte non potei negarla. Ma sapevo che il nostro rapporto era diverso, era speciale, indissolubile, e di certo non mi sarei tirato indietro di fronte ad un singolo ostacolo.

Ci furono minuti di silenzio interminabili; divennero ore, si fece buio.
Mi ero seduto sul pavimento, a gambe incrociate, aspettando... Odiavo dirlo, ma aspettando il momento giusto. Esso parve arrivare quando udii Sebastian parlare. Sollevai appena il capo e lo vidi di nuovo accomodato sul divano rosso, con gli occhi chiusi.
«Bel giocattolino, eh?». E sorrise. Un attimo di pausa. «Bingo».
Stava parlando con lei. Mi alzai rapidamente e mi avvicinai al Divoratore, per sentire meglio. Ascoltando soltanto una parte del discorso, esso non suonò molto sensato alle mie orecchie. Parevano delle frasi prive di senso, ma evidentemente ce l'avevano se completate con delle risposte e delle domande.
«Chiedile se sta bene. Chiedile se...» dissi. Sebastian sollevò le palpebre, guardandomi storto. «Sta' zitto, Simon. Per favore» esclamò e poi chiuse di nuovo gli occhi.
Feci una smorfia. Gli avrei tirato un pugno in faccia molto volentieri. Serrai la mascella, in modo da non provocare un'inutile discussione, e mi sforzai di obbedirgli, restando semplicemente in ascolto di tutto ciò che avveniva.
Ci fu una relativa tranquillità, per un po': ancora frasi disconnesse o indicazioni per raggiungere un luogo, nulla di più. Dopo, però, le cose sembrarono impregnarsi di tensione.

«Colpiscilo ora, prima che sia troppo tardi». «Non credergli. Non devi credergli».

Stavo rischiando di impazzire, poiché non potevo sapere cosa stava succedendo e mi sentivo irrimediabilmente impotente.
Sebastian scattò in piedi improvvisamente, spalancando gli occhi. Pareva atterrito. «Dobbiamo intervenire. Ora» esclamò. Katie annuì e, inconsciamente, lo feci anche io, come se avessi dato per scontato di andare con loro.
Il piano dei Divoratori, ovviamente, non mi comprendeva.

«Solo Katie ed io» puntualizzò Sebastian. Scossi la testa. «Non esiste» reclamai. «Io...».

«Sei pressoché inutile contro i Creatori, fidati. Solo Katie ed io. Gli altri si tengano pronti, come pianificato».

Non mi diede il tempo di replicare in qualche modo. Scomparvero entrambi in un battito di ciglia.

«Dannazione» imprecai, passandomi una mano tra i capelli.

Trascorsero esattamente diciotto minuti. Un tempo così breve che combaciò con un'agonia così lunga, finché Sebastian e Katie non tornarono e... Lei c'era.
Riuscii a scorgerla nonostante il caos che si creò attorno, tra Divoratori curiosi e la voce affannosa proprio di Sebastian. Mi feci largo, nervosamente, tra la folla che mi bloccava la visuale e quando fui in grado di superarla, mi ritrovai davanti il peggio.
Hazel era lì, stesa sul divano di velluto. I suoi occhi erano chiusi, la pelle più bianca del solito, le labbra violacee.
«No...» dissi e il resto della frase che avevo in mente mi si spezzò in gola. Sgomitai, finché non ricaddi in ginocchio al suo fianco, notando l'enorme macchia di sangue che si estendeva sul suo vestito chiaro, all'altezza del petto.
Mi sentii precipitare, come se tutta la gravità del pianeta si fosse concentrata su di me, tirandomi sempre più verso il basso, verso un abisso nero e infinito dal quale sarebbe stato difficile uscire.
Dentro la mia testa si accumularono voci su voci, che urlavano, che si disperavano, che cercavano di convincermi che fosse solo un brutto sogno.
E invece era tutto dannatamente reale e l'enorme peso che si poggiò sul mio cuore, frantumandolo in mille pezzi, ne diede soltanto la conferma.
«No, ti prego» biascicai ancora e una mia mano scivolò sul suo viso, sfiorandole piano una guancia. Proprio grazie a quel gesto, tuttavia, notai un lieve movimento delle sue labbra. Non era troppo tardi.

«Sta respirando» dissi allora, strizzando gli occhi. «Respira ancora! Noi... Noi dobbiamo portarla in ospedale, ora!». Avevo alzato il tono di voce, ma nessuno pareva ascoltarmi. Erano tutti fermi lì attorno e nessuno osava agire.

«Perché non fate niente?!» urlai.

Sebastian mi fissò, scuotendo appena la testa. «Non c'è più nulla da fare» esclamò, con tono pacato.

«Respira!» replicai, gridando più forte. «E' ancora viva! Voi potete spostarvi da un luogo all'altro in una frazione di secondo e non...».

«Non reggerebbe un'altra smaterializzazione, Simon».

«Non puoi saperlo se non ci provi!».

A quello non ebbe reazione. Distolse solamente lo sguardo dal mio volto perché in fondo sapeva che avevo ragione io, solo che non voleva ammetterlo. Non uno dei presenti riusciva a farlo.
Io avrei dato di matto in breve tempo o forse lo stavo già facendo.
«Immagino debba ricorrere alla vecchia maniera, allora» conclusi. Serrai la mascella, mi alzai in piedi e presi Hazel in braccio, stringendola a me. «Che stai facendo?» esclamò Sebastian, come se volesse rimproverarmi tramite quella domanda. «Quel che dovresti fare tu» ribattei, secco.

«E' mia sorella».

«E' tua sorella e la stai lasciando morire».

Riuscii a tenergli testa, a zittirlo, a impedirgli di bloccarmi.

Attraversai nuovamente la folla di Divoratori e, accelerando il passo, abbandonai quella stanza. Iniziai a brancolare tra quei corridoi poco illuminati: tanti, tutti dannatamente uguali, e avevo l'impressione che più camminavo, più mi allontanavo dall'uscita di quel dannato posto.
Non sapevo dove essa si trovasse, non avevo nemmeno idea di dove l'intero rifugio avesse luogo. Avremmo potuto essere in mezzo ad un oceano o sperduti in un vasto deserto. Vi ero entrato in compagnia di Katie e, da allora, non ero mai andato fuori.
Mi sembrava di essere intrappolato in un labirinto senza via di fuga, con la vita di Hazel che mi scorreva come sabbia tra le dita, granello dopo granello.
«Andiamo, andiamo» soffocai, quasi dovessi darmi la forza di riuscire con quelle parole. In realtà, ebbero l'effetto opposto, riuscendo a demotivarmi ancora di più.
Ogni passo che compievo era a vuoto; non mi portava da nessuna parte e fu allora che persi la lucidità e la logica, insieme al controllo di me stesso. Tanto per acquisirlo, un solo attimo per lasciarselo scappare.
Percepii delle calde lacrime scorrermi sulle guance e, inconsciamente, smisi di camminare. Lentamente, mi abbandonai seduto a terra, strisciando con la schiena contro una parete di roccia ruvida. Hazel mi rimase addosso. Continuai a stringerla a me, sistemandola meglio tra le mie braccia, così che fosse comoda nonostante tutto.
Lei aveva gli occhi chiusi e riuscivo a sentire il suo respiro, lieve e quasi assente.
«Mi dispiace» biascicai, con voce rotta, mentre, con le dita, le sfioravo piano le guance. Udii un suo gemito e, poco dopo, vidi le sue palpebre sollevarsi a fatica.
Hazel mi fissò. Fece per sorridere, ma quel gesto fu smorzato subito da una smorfia causata molto probabilmente dal dolore che stava provando, lo stesso che avrei voluto portarle via affinché non la attanagliasse più.

«Mi dispiace» ripetei, singhiozzando. «Mi dispiace così tanto... Io... Io volevo salvarti».

«E'... O-okay».

«No». Scossi ripetutamente la testa. «No, non è okay. Questo non è per niente okay».

Non avevo smesso di accarezzarla, sebbene le mie mani avessero iniziato ad esser scosse da continui tremori, insieme a tutto il mio corpo. 
Perdevo fiato. Il solo atto del respirare mi faceva male, come se stessi morendo anch'io. E un po' era così, perché le lacrime avevano già cominciato a corrodermi le guance.

«Respira per me» biascicò lei, mentre la vita si spegneva nei suoi occhi che rimasero fissi e spalancati su di me.

Tremai più forte.
Una mia mano scorse sul suo volto, per abbassarle le palpebre e indurla a quel sonno perpetuo che di poetico non aveva nulla.

La morte non è poetica, non è romantica. Se prima del tempo, è soltanto dolorosa, priva di senso e ingiusta.

E fu tale dolore che mi avvolse, quello più profondo e incontrollabile, capace di lacerarti dall'interno, demolirti, distruggerti fino a non lasciare neppure una minuscola briciola di ciò che sei stato. Quello stesso dolore che esplose nelle mie urla che divennero pian piano sempre più forti, mentre me la prendevo col mondo intero perché tutti sembravano colpevoli.
La mia voce echeggiava tra i corridoi oscuri, rimbombava e si propagava in tutto l'ambiente. Gridai finché non ebbi più fiato. Il pianto si era esaurito, gli occhi mi bruciavano e mi sentii... Vuoto, come se quasi non esistessi più. Come se non appartenessi più al mondo attorno.
Immaginai fosse quello il momento in cui si passa dalla rabbia alla consapevolezza di ciò che è appena accaduto.
Immaginai di aver provato le medesime sensazioni tempo addietro, sebbene non riuscissi a ricordarle chiaramente. Era un bene che non fossero tornate a galla, perché, se lo avessero fatto, molto probabilmente sarei crollato in maniera definitiva in quel preciso istante.
Invece, ebbi ancora la forza di sollevare il capo e osservare il volto rilassato di Hazel. Sembrava quasi dormisse, anche se l'avevo vista poche volte farlo.
Era incantevole nonostante il pallore e le labbra scure. La strinsi a me, fregandomene del sangue che mi aveva imbrattato le mani e, parzialmente, i vestiti. Feci in modo che la sua testa poggiasse sul mio petto e presi a cullarla lentamente.
E allora iniziai a cantare quella ninna-nanna che tante volte lei mia aveva sussurrato, anche quando io non ricordavo il suo nome; quella dolce e soave melodia che mi aveva rassicurato così tanto nel momento in cui ero perso e allo sbaraglio, la stessa che, in qualche modo, mi aveva curato.
Il silenzio tagliente si riempì delle parole spezzate che mi uscivano di bocca e io mi abbandonai ad esse, come se fossero l'unica cosa importante nell'oscurità nella quale mi stavo immergendo.

 

***


Tic-tac.

Tic-tac.

C'era un unico, grande e maledetto orologio in quell'enorme stanza dalle pareti spoglie; un modello di vecchia data, dotato di un quadrante d'oro e di un pendolo che scandiva ogni secondo.
Per quel che mi riguardava, il tempo avrebbe potuto anche fermarsi e, se non fosse stato per quel rumore ricorrente, sicuramente lo avrebbe fatto.
Avevo stretto così forte i pugni che le unghie mi si erano conficcate nei palmi e avevo iniziato a sanguinare. Non diedi molto peso a quel lieve dolore; in realtà, quasi non me ne accorsi. Il mio sguardo era fisso nel vuoto, io ero privo di qualunque pensiero perché se mi fossi soffermato a formulare frasi all'interno della mia testa, molto probabilmente avrei ricominciato ad urlare.

Ero seduto su uno dei tanti divani rossi del Rifugio, ma se fossi stato in piedi o sdraiato a terra non avrei colto la differenza.
L'entrata nella stanza di qualcuno, che solo più tardi mi accorsi essere Katie e Sebastian, mi distrasse quel minimo da farmi sussultare e abbandonare i morbidi cuscini.
Mi alzai con quell'accenno di speranza che mi guizzò negli occhi inconsciamente, pensando al fatto che quei Divoratori avessero iniziato a cercare una soluzione a quanto accaduto, che avessero chiamato qualcuno, che... Avessero fatto qualcosa. Qualsiasi cosa.
Loro, però, una volta fermatosi a qualche metro da me, sospirarono e Sebastian disse: «Devi andartene da qui». 
Feci una smorfia, allibito. «Non penso lo farò» replicai. A quel punto, lui sbuffò. «Ascolta» esclamò, cercando di mantenere un tono calmo «se non fosse stato per Katie e la sua stupida promessa, avrei già permesso a chi sta nella stanza accanto di ridurti in mille pezzi. Evidentemente, non posso, quindi... Considera questo come un mio unico e solo favore».

Scossi ripetutamente la testa, passandomi una mano sul viso. «Quindi... Non farai nient'altro?».

«Che intendi?».

«Tua sorella è appena morta».

«Ne sono consapevole».

«E non proverai neanche a... Rimediare? Sai che può succedere, io ne sono la prova».

«Tu sei stato riportato in vita dalla Creatrice. Io non ho quel potere e, anche se lo avessi, non lo userei. Contrattare con la Morte è arduo».

«Arduo, ma non impossibile».

Sebastian serrò la mascella. «Ti conviene accettare il mio favore, Simon».

«No» replicai, serio. «Perché non fai niente? Tutto questo è accaduto per colpa tua. Tu hai dato inizio a ogni cosa, tu hai condotto lei a questa fine! Il minimo che puoi fare è rimediare».
Mi sembrò di essere arrabbiato, furioso, a tratti minaccioso, ma, evidentemente, al Divoratore davo tutt'altra impressione, poiché abbozzò un sorriso, sarcastico, e lo vidi stringere forte i pugni lungo i fianchi. «Dammi la colpa di un sacco di cose, ragazzino, me lo merito» disse «ma non della morte di Hazel. Per quello, forse dovresti solo guardarti allo specchio. E' morta per te. Avrebbe potuto colpire il Creatore senza problemi ed ha esitato perché lui è collegato a te. Colpendolo, ti avrebbe ucciso e ancora una volta questo stupido concetto d'amore è stata la sua debolezza. Quindi, accetta il mio favore, prima che cambi idea e ti rispedisca a fare sonni tranquilli».
Le sue parole mi colpirono esattamente come avrebbero fatto tante lame affilate scagliatemi contro, una dietro l'altra, lacerando la mia pelle e dissanguandomi in maniera fin troppo lenta.
Era possibile che ogni nuova rivelazione fosse peggiore della precedente? Ricordavo di essermi sentito nel medesimo modo quando avevo origliato la conversazione di Tamara con i suoi compagni.
“Il loro amore è soltanto un trucco” aveva detto e mi ero sentito più perso di quanto non lo fossi già.
Quella volta, tuttavia, fu addirittura peggio poiché, allora, mi era stato concesso di trovare una soluzione. In quel momento, invece, la situazione mi stava scivolando tra le dita senza farmi la possibilità di frenare tale caduta.

“Stupida, sciocca, ragazza dagli occhi verdi” pensai. Avrebbe dovuto essere egoista per una sola volta.

Continuai a sostenere lo sguardo di Sebastian con durezza. Non volevo fargli capire che era riuscito a farmi vacillare e sapevo bene che il suo scopo era soltanto rigirare le colpe per alleggerire la propria coscienza – se mai ne avesse avuta una.
Sebbene volessi evitare reazioni spropositate, il mio istinto non mi stette ad ascoltare, nemmeno per un secondo: mi portò a scagliarmi contro il Divoratore, a spingerlo con forza e a fargli perdere l'equilibrio. Gli andai addosso, successivamente, cominciando a colpire il suo volto con violenti pugni e con quella rabbia che aveva bisogno di essere espressa.
Lui non reagì, non subito.
Ci pensò Katie a tirarmi via, faticando, perché anche in quell'occasione, con degli strattoni cercai di liberarmi dalla sua presa. Ci riuscii, ma ormai Sebastian si era già rimesso in piedi. Lo vidi asciugarsi una goccia di sangue fuoriuscita dal taglio che gli avevo procurato sul labbro inferiore.

Avevo il fiatone.

Picchiarlo era servito a qualcosa; perlomeno, in qualche modo mi ero sfogato.

«Va' via, Simon» mi disse Katie, mentre il mio sguardo ancora era fisso e minaccioso nella direzione del compagno. Per far sì che la ascoltassi, la Divoratrice prese il mio viso con una sola mano, da sotto il mento, e mi costrinse ad incrociare i suoi occhi. «Dico sul serio» sibilò. «E' l'unica maniera per tenerti al sicuro. Se tu vieni ucciso, verrà ucciso anche il Creatore, almeno finché il legame non sarà spezzato. Molti di là lo sanno e non riusciremo a fermarli se decidono di agire».
Allontanai con un gesto secco il suo braccio e feci un passo indietro. «Falli agire» esclamai, con rassegnazione.

«Non essere sciocco».

«No, è... E' questo il punto: io sono sciocco e... E che senso ha scappare, adesso? Non ho assolutamente più nulla da perdere. Avevo solo Hazel e lei è morta. Quindi, non... Non ha senso nascondermi».

«Non essere così umano proprio ora».

Feci una smorfia. Quella sua affermazione era assurda e priva di logica.

«Anche Hazel era collegata alla Creatrice. Non sappiamo in che modo, ma lo era. E' stata una perdita incolmabile, lo so, ma... Prima di andar via, mi ha fatto promettere di tenerti al sicuro e questo è il mio unico modo per farlo. Salvati, Simon» mi disse ancora. «Per favore, salvati».

Il suo sguardo mi stava implorando ed era strano perché sapevo che non era usuale per tali Creature affidarsi ad un gesto simile. Eppure, stava accadendo. Stava addirittura mantenendo una promessa di cui poco le importava.
Mi morsi piano il labbro inferiore, un po' per non parlare a sproposito, un po' per il nervoso. «Me ne andrò ad una condizione» esclamai.

«Che cosa?».

«Hazel viene via con me».

Katie accennò una risata, ironica. «E' morta. Non credo che...».

«Potrò non ricordare un sacco di cose, ma so con certezza che quando una persona muore, va seppellita in un luogo dove può riposare in pace. Questo... Non mi sembra esserlo».

«E' una follia».

«E' solo la mia condizione».

«Non credo ti sia mai stato concesso dettare condizioni» intervenne Sebastian e lo scorsi roteare gli occhi, fermo alle spalle di Katie. Serrai la mascella e mi trattenni dall'andargli di nuovo addosso.

«Allora?» esclamai e la Divoratrice davanti a me si morse piano il labbro inferiore. Esitò per qualche secondo e poi rispose: «D'accordo». Al suo consenso, si sovrappose un «Cosa?» stupito del compagno, ma lei lo ignorò del tutto e aggiunse: «Se è quel che serve a farti scappare, va bene».

Avrei dovuto sorridere se solo avessi seguito la logica dei fatti, ma non c'era niente per cui sorridere o forse avevo già scordato come farlo.

Andare via portando insieme a me un corpo senza vita era... Assurdo.

La mia vita, del resto, era divenuta un ammasso di assurdità.

***


Avevo ancora addosso i vestiti sporchi di sangue mentre Katie mi guidava con attenzione attraverso quei corridoi al buio che odiavo con tutto me stesso. Non era importante cosa ricopriva il mio corpo, dato che a me sembrava di non averlo e di muovermi solo per inerzia.

La Divoratrice mi condusse in quella stessa grossa camerata dove si era svolto il funerale di Martha. Era un luogo difficile da scordare.
Hazel era lì, distesa a terra, accanto ai corpi di altre Creature morte ormai da diverso tempo, in attesa di venir bruciate e divenire cenere, per volere di Sebastian. Il solo pensiero che lei avrebbe fatto la stessa fine mi fece rivoltare lo stomaco.

Rallentai i miei passi prima che la potessi raggiungere, anche a causa di Katie che si fermò, passandosi una mano sul viso. «Vado a controllare la situazione con gli altri» disse «poi torno e ti teletrasporto in un posto lontano da qui. Da lì, dovrai proseguire da solo».
Mi limitai ad annuire alle sue frasi e – dovetti ammetterlo – le seguii solo in parte.
Quando Katie si dissolse nell'aria, rimasi solo – relativamente. Dovetti compiere ancora tre passi – li contai – per raggiungere Hazel, ferma, immobile e... Ancora dannatamente bellissima, sebbene i colori della morte l'avessero già ricoperta.
Strizzai gli occhi e mi inginocchiai sul pavimento di roccia, proprio al suo fianco.
Sospirai. «Avevi ragione, sai?» sussurrai, come se lei potesse davvero sentirmi. «Non è così che l'amore dovrebbe farci sentire. Questo dolore è... Troppo da sopportare».
Allungai una mano, sfiorandole delicatamente una guancia con i polpastrelli. La sua pelle era fredda come il ghiaccio e percepii una lacrima scivolarmi sul viso.

«Dannazione». Udii una voce diversa da tutte quelle che erano entrate nelle mie orecchie negli ultimi giorni. Scattai in piedi, all'erta, sebbene non ce ne fosse motivo.
A pochi metri di distanza, notai la presenza di Thomàs, con i pugni stretti, la bocca socchiusa e lo sguardo fisso su Hazel.

«Credevo te ne fossi andato» dissi, asciugandomi distrattamente il pianto con la manica della felpa blu che indossavo.

«L'ho fatto» replicò lui, avanzando nella mia – nostra – direzione. «Poi ho... Avuto uno strano presentimento e mi sono costretto a tornare». Non volevo neanche una spiegazione. Per quanto non lo sopportassi – per ovvie ragione – la sua presenza fu quasi di conforto.

«Come è successo?» mi chiese. Pareva calmo e... In realtà, mi sarei aspettato una reazione diversa: la sua ira, la sua totale perdita di autocontrollo. Invece, non fece nulla del genere: rimase tranquillo e, nonostante gli occhi lucidi, neanche una lacrima gli scivolò sul viso.

Scossi appena la testa. «La battaglia, sai» risposi. «C'erano un sacco di cose che non sapevamo e...».

«Immagino i Divoratori non sappiano far funzionare perfettamente i loro piani».

«No, loro...». Lasciai la frase in sospeso e Thomàs non osò proseguirla o portare avanti in altro modo il discorso. Osservò Hazel ancora per qualche secondo, poi il suo sguardo puntò su di me.

«Voglio riportarla indietro, ma... Nessuno è molto propenso ad aiutarmi» mormorai.

«Perché sanno quanto è complicato».

«Sì. Però lei non si è arresa con me. Se la Creatrice non fosse intervenuta, sono pressappoco sicuro che avrebbe continuato a lottare per riavermi. Io non... Non ho intenzione di arrendermi solo perché è complicato».

«Trattare con la Morte può essere un vero suicidio. Anzi, lo è sicuramente».

«Non mi importa molto. Credo... Credo di aver affrontato prove peggiori e poi... Se mi dicessero che per donarle di nuovo la vita, dovrei rinunciare alla mia, lo farei. Sarebbe una pazzia, lo so, ma... L'amore rende pazzi, del resto».

Thomàs mi fissò per qualche breve attimo e dopo sorrise, senza quell'ironia e quel sarcasmo che spesso lo accompagnavano quando parlava con me. «Credo io non ti possa più chiamare “ragazzino”, Simon» disse.
Non seppi come prendere tale affermazione. Forse era il riflesso di un apprezzamento o chissà che altro. Non ebbi nemmeno idea di come replicare. Sforzai soltanto un sorriso che però si concluse con una smorfia per niente riconducibile a quel gesto.
A tal punto, Thomàs mi scansò lentamente. Si inginocchiò accanto ad Hazel e lo sentii sospirare. Lo seguii prima con lo sguardo, poi compii qualche passo in avanti. Lo vidi accarezzarle piano una guancia e, successivamente, prendere una sua mano e stringerla tra le proprie.
Pensai fossero gesti normali da parte sua. Ero a conoscenza dei suoi sentimenti per lei e della lotta che c'era stata tra noi due per tale motivo.

Lui la amava almeno quanto la amavo io.

Era così evidente e incredibilmente logico che mi passò per la testa di chiedergli aiuto in quell'impresa così ardua.
Tuttavia, prima che i miei pensieri potessero tramutarsi in frasi dette ad alta voce, d'improvviso, notai come dal groviglio di dita cominciò a fuoriuscire una strana luce, azzurra, brillante, fosforescente. Thomàs tremò appena.

«Che... Che stai facendo?» chiesi, quasi senza fiato.

«L'amore rende pazzi, a volte, Simon. Lo sai?» replicò lui, citando le mie parole di solo qualche secondo prima, e abbozzò una risata.

Non capii. Non afferrai il suo tono felice poiché non c'era nulla per cui esserlo. Guidato dall'istinto, finii anch'io in ginocchio ad analizzare ciò che stava succedendo.
La luce azzurra aumentò, si espanse nelle sue braccia e comparve anche nei suoi occhi. Alcune strisce di essa percorsero il corpo di Hazel, attraversandole il petto e il viso.
D'improvviso, poi, così come si era accesa, la luce si spense e Thomàs le lasciò delicatamente la mano. Trattenni il respiro per quelli che furono esattamente ventitré secondi – li contai, uno dietro l'altro. E dopo di che, accadde l'inspiegabile.
Non feci neanche in tempo a rendermene conto che un gran sospiro precedette gli occhi spalancati di Hazel e un suo scatto che la portò a mettersi seduta, sotto la mia espressione incredula e l'enorme perdita di fiato.
Lei cominciò a tremare e a guardarsi attorno, confusa, così, senza ragionarci troppo su, la accolsi immediatamente tra le mie braccia, facendo in modo che poggiasse la testa sul mio petto.
«Shh, va tutto bene» sussurrai e in realtà non avevo la benché minima idea di come le cose fossero state stravolte. Cercai di incrociare lo sguardo di Thomàs e ci riuscii dopo qualche istante. Sorrideva appena e indossava una maschera di malinconia. «Come...» feci per chiedere, ma la mia domanda non giunse al termine. Non ottenni una risposta, ovviamente, e, a quel punto, non ero più sicuro di volere alcun genere di spiegazione.

«Grazie» mormorai, con tutta la sincerità che avevo in corpo.

I miei occhi, poi, tornarono su Hazel, che si era stretta a me, più impaurita che mai.
Tornare dalla morte era qualcosa di assolutamente devastante ed io lo sapevo bene. 
«E' tutto okay, è okay» continuai a mormorarle, finché non sembrò calmarsi, almeno un briciolo. Sollevò il capo, guardando prima e dopo Thomàs. Fece per dire qualcosa, ma qualunque fosse la sua frase, fu bloccata da un «Oh, mio Dio!» che riconobbi subito appartenere a Katie.
Mi bastò girare la testa di qualche centimetro per vederla in piedi a poca distanza, con la bocca aperta, stupita e sconvolta – come biasimarla?

«Cosa diavolo è successo?» quasi urlò.

Io iniziai a sorridere come un perfetto idiota, forse perché l'euforia di aver riavuto qualcosa di così importante indietro mi stava dando alla testa.

«Come... Voi... Cosa?!» continuò a blaterale Katie.

«Sono stato io» le rispose Thomàs.

«Tu? E come?».

«Sarebbe troppo lungo da spiegare».

La Divoratrice scosse ripetutamente la testa e si guardò in giro, come se avesse paura che qualcuno entrasse in quella camerata da un momento all'altro. «Gli altri non posso saperlo» sibilò.

«Perché?» chiesi.

«Beh... Se è tornata in vita lei, potrebbe essere tornata in vita anche la Creatrice, non ti pare?».

A quello non ci avevo ancora pensato e, sinceramente, neanche mi importava. Se in tal momento mi avesse detto di scappare e di nascondermi per il resto della mia vita, lo avrei fatto, perché non sarei stato solo e avrei avuto un valido e insostituibile motivo per farlo.

«Dovete andar via da qui. Tutti e tre» aggiunse Katie. Ci fece cenno di alzarci e di fare in fretta. Mi diede l'impressione di essere atterrita, più che semplicemente sconvolta, il che riuscì a confondermi. Capivo la sua preoccupazione, ma credevo fosse troppa. O forse c'era dell'altro sotto che io, ovviamente, non potevo sapere.
Sostenni Hazel, con l'aiuto di Thomàs, per tenerla in piedi senza farla capitombolare di nuovo a terra. Katie fece in modo che ci dissolvessimo nell'aria insieme a lei. Mi bastò sbattere le palpebre una sola volta e il luogo attorno a noi era già cambiato.

Dell'aria gelida mi sfiorò il viso. Ci trovammo all'aperto, in quel che mi parve un bosco, fitto di cespugli e alberi che con i loro rami coprivano la lieve e scarsa luce del sole. La Divoratrice si guardò ancora una volta, furtivamente, attorno, forse per assicurarsi che nessuno ci avesse seguito – anche se lo ritenevo piuttosto improbabile. «Non so per quanto tempo riusciremo a tenere a bada tutta la Resistenza, dato che le voci sembrano spargersi piuttosto in fretta» disse poi. «Di sicuro avete un gran vantaggio». Fece una breve pausa, prendendo un respiro profondo. «Sarà difficile metterci in contatto, d'ora in avanti, ma... Mettetevi al sicuro». Abbozzò un sorriso, prima nella mia direzione e dopo in quella di tutti gli altri. Mi sembrò diversa dal solito, come se fosse stata toccata da qualcosa di estremamente umano da essere cambiata e, per un breve attimo, la sua espressione mi ricordò quella premurosa di Martha.
Ebbi l'intenzione di dire qualcosa in risposta, ma non me ne diede il tempo: sparì prima che potessi aprire bocca.
Non avevo idea di come sentirmi, allora. Eravamo passati dall'essere in fuga da Creatore e Creatrice, a... Essere nuovamente in fuga, però da una folla di Divoratori.
Altre assurdità che si aggiungevano all'enorme lista.

Non mi ero accorto di come sia io che Thomàs stringessimo ancora Hazel nello stesso identico modo. Fu lui a staccarsi per primo, abbozzando un sorriso di circostanza.

«Credo dobbiate andare» disse.

«Dobbiamo andare» replicai, marcando quel verbo. Sì, stavo includendo anche lui nella nostra nuova fuga, sebbene una parte di me avrebbe voluto escluderlo, ma sarebbe stato ingiusto.

Mi aveva ridato Hazel e... Anzi, sembrava avesse rinunciato in maniera definitiva a lei tramite quel gesto e, se fossi stato meschino ed egoista, sarei scappato in quel preciso istante senza tentare di convincerlo. Il punto era non lo ero e dovevo valutare le cose obiettivamente.

«No, io...» esclamò. «Io non c'entro con questa storia e... Ho promesso sarei sparito, per cui...».

A tali frasi, Hazel si voltò appena verso di me, come se mi stesse chiedendo il permesso di intervenire – cosa di cui non aveva assolutamente bisogno. Tuttavia, mi ritrovai inconsciamente ad annuire e mollai la presa che avevo stretto attorno ai suoi fianchi, in modo potesse avvicinarsi a Thomàs e... Beh, fare quello che riteneva più giusto. Io rimasi immobile, ad osservare e ascoltare.

«Grazie per avermi salvato» sussurrò lei.

Lui le sorrise, in quel modo che mai gli avevo visto fare. «Ti salverei sempre, ricordi?».

Hazel annuì e si sporse nella sua direzione per un abbraccio. Distolsi lo sguardo, allora, puntandolo verso le foglie secche che stavano ai miei piedi. Lo risollevai solo quando quel gesto ebbe fine e lei fece un passo indietro, tornando ad essere al mio fianco.
Allora avremmo dovuto girarci e andarcene, una volta per tutte, e fummo in procinto di farlo, se non che, in una frazione di secondo, gli eventi vennero sconvolti nuovamente e accadde tutto così rapidamente che quasi non riuscii a realizzare. Partì da un rivolo di liquido rosso dalla bocca di Thomàs, mentre il suo sguardo si incrociava con il mio. Lo vidi precipitare a terra, con fragore e nessuna leggerezza. Hazel scattò in avanti e, senza esitazioni, io feci lo stesso, inginocchiandomi insieme a lei al fianco del Cacciatore.

Mi ci volle un po' per capire cosa davvero stava accadendo. Lo feci con orrore.

“Una vita per una vita” sussurrò una voce remota dentro la mia testa.

Non avrei mai pensato di esserne in grado, ma una lacrima mi scorse lungo la guancia e fu proprio per Thomàs.
Tutto il rancore, la nostra non sopportazione reciproca, i fastidi, i dispetti, le cattive parole... Ogni cosa fu oscurata poiché priva di senso. E mi sentii male di nuovo.
A peggiorare la situazione ci furono i singhiozzi di Hazel che aveva accolto Thomàs tra le proprie braccia. Iniziò a piangere, le venne il fiatone.

«No, no, no!» urlò.

Lui, però, parve sereno, come se morire non gli causasse alcun fastidio. Come se non fosse illogico farlo.
Lo vidi addirittura sorridere.

«Un bel modo di andarsene, tra le tue braccia» mormorò Thomàs.

«No, ti prego...» biascicò Hazel. «Ti prego, non... Non mi lasciare, ti prego». Gli accarezzò il volto, freneticamente, costringendo i loro occhi a incatenarsi l'un l'altro.

«Significhi qualcosa, okay?» sussurrò ancora lei, talmente piano che dubitai volesse che la sentissi. «Ha significato qualcosa e...».

«Lo so» replicò lui, con un filo di voce. «Lo so».

Furono le sue ultime parole.

Dopo le sue palpebre calarono e si addormentò per sempre.

***


Il fuoco scoppiettava davanti ai miei occhi.
Era un miracolo che fossi stato in grado di accenderlo, date le mie scarse doti di arrangiarmi in situazioni difficoltose.
Non avevamo ancora abbandonato il bosco e non fu perché non sapevamo come uscirne. La strada non era lontana: riuscivo a sentire il rumore di alcune auto di passaggio non molto distante, ma Hazel era distrutta e pensai fosse più ragionevole fermarci per un po'.

Sedevamo entrambi di fronte a quel focolare improvvisato, in silenzio, forse perché entrambi non sapevamo che dire o le nostre parole avrebbero potuto sembrare fuori luogo.
Non osai neanche muovermi, almeno finché lei non si strinse nelle spalle e non strofinò le mani sulle proprie braccia. Capii avesse freddo, così mi liberai della felpa che avevo e gliela cinsi addosso, in modo da apportarle calore. Hazel sollevò lo sguardo da terra solo in quel momento e sforzò un sorriso privo di entusiasmo.

«Abbiamo fatto la cosa giusta, vero?» biascicò. «Insomma, noi... Lo abbiamo seppellito e...».

«Abbiamo fatto la cosa giusta» sussurrai.

«Forse meritava di più».

«Forse».

Sospirò e una sua mano raggiunse il mio viso, accarezzandomi piano la guancia. «Non so neanche se...» mormorò «Se aveva qualcuno. Degli amici o... O una sorta di famiglia. Non me lo ha mai detto. So solo che i suoi genitori sono morti quando era piccolo e niente di più».

«Aveva te». Quella frase uscì fuori dalle mie labbra in maniera spontanea, come se fosse cosa ovvia. Hazel mi fissò per qualche istante dopo di essa e i suoi occhi parvero brillare nonostante la scarsa luce.

«Cosa facciamo ora?» chiese, con un fil di voce. Io esitai per qualche secondo e poi sorrisi, sinceramente. «Viviamo» risposi. «O almeno ci proviamo».

Non era una bugia e nemmeno una cosa detta tanto per dire. Era la mia intenzione, il mio obiettivo primario.
Se quel fantomatico destino, fino a quel momento, ci aveva riservato solo agonia, era giunta l'ora di beffarlo.

Lei mi baciò sulle labbra, allora, con quella dolcezza e calma che da tanto ci mancava. «Gli innamorati dannati» sussurrò, ancora sulla mia bocca.

Non sapevo cosa sarebbe accaduto da lì in avanti.

Forse ancora casini, ancora tragedie, altri e nuovi nemici. Avrebbe potuto succedere di tutto, ma ero pronto.

 



Mi chiamo Simon Clarke.
Ho diciassette anni e non so esattamente dove sto andando.
Mi sono innamorato di una Divoratrice di anime.
Sono morto per questo.
Ho sconfitto la morte e lo ha fatto anche lei.
Siamo entrambi umani, adesso, persi in mezzo nulla, pronti per una nuova vita.
La mia ennesima nuova vita, insieme alla mia compagna, alla mia donna, alla mia anima gemella.
Alla mia innamorata dannata, in beffa al destino.









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E così si giunge alla conclusione di questa avventura..
Anche se... Beh, devo dirvelo, questo non è un addio a Simon ed Hazel.
Mi sono presa il lusso di usufruire del termine "saga", forse un po' troppo in là per quello che io sto facendo qui, ma..
Il punto è che *rullo di tamburi*...
Ci sarà una terza e ultima parte della storia.
Non so dirvi quando riprenderà, ma ci sarà.
Era già stato deciso dal principio che ci sarebbero state tre parti, però non l'ho mai detto.. Fino ad ora.
Grazie a chiunque abbia letto, recensito o abbia anche solo aperto questa storia.
Siete stati immensi e non smetterò mai di ringraziarvi.
Un grazie particolare va alla mia super-beta Samy - non so cosa fare senza di te!

Spero che Crystalized vi sia piaciuto e che sarete ancora qui per la terza parte.
A presto!
 

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