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di LilithJow
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fresh new start. ***
Capitolo 2: *** Darkness. ***
Capitolo 3: *** Something sick. ***
Capitolo 4: *** Insanity. ***
Capitolo 5: *** Crush, crush, crush. ***
Capitolo 6: *** Chaos theory. ***
Capitolo 7: *** Confusion. ***
Capitolo 8: *** A little bit of me. ***



Capitolo 1
*** Fresh new start. ***


 
 










Capitolo 1
"Fresh new start"


“La mente umana è una trappola mortale,

un labirinto di pensieri da cui non vi è uscita”.

 

Simon


«Aspetta! Ehi! Se corri così veloce, rischio di cadere a terra e non alzarmi più».

«No, non cadresti. E, se accadesse, ti prenderei al volo. È semplice».

Le nostre dita erano intrecciate. Ridevamo talmente forte che ciò non poté non attirare l'attenzione di ogni passante.
Ci squadravano tutti in malo modo. Strano che riuscissimo a spiccare in mezzo a tutta quella gente, persone provenienti da ogni angolo del mondo che si lamentavano dei nostri schiamazzi in qualsiasi lingua. Riconobbi il tedesco, il giapponese – o forse, cinese – e probabilmente anche il russo. E poi, per ovvietà, il francese.

«Conosci seriamente la strada o stiamo seguendo l'istinto?». La voce di Hazel giunse alle mie orecchie quasi fosse un eco in mezzo al chiacchiericcio continuo di chi ci stava intorno. Avevamo entrambi il fiatone, ma non smisi di correre nelle piccole e grandi strade ricche di negozi di ogni genere.

«Siamo quasi arrivati, lo prometto» replicai, distratto, fissando la direzione davanti a me.

Ci vollero almeno altri cinque minuti di corsa prima di arrivare a destinazione e ringraziai il fatto che non fosse occorso più tempo, altrimenti avrei seriamente rischiato un infarto.

«Visto dove siamo?». Ci eravamo appena fermati. Allargai le braccia, sciogliendo l'intreccio delle nostre mani. Hazel stava già guardando verso l'alto, con un sorriso stampato sul viso.
«Sei pazzo» biascicò e la colpa di quel tono così basso poteva essere ricondotta sia alla corsa terminata, sia allo stupore. Mi piacque credere che fosse la seconda opzione. «Pazzo? No» dissi. «Se non ricordo male, qualcuno mi aveva giurato che, un giorno, mi avrebbe portato a Parigi e mi avrebbe baciato sotto la Torre Eiffel».
Lei sorrise e mi parve di scorgere un lieve rossore sulle sue guance. Di nuovo, tale evento avrebbe potuto essere a causa della corsa, ma, quella volta, diedi sicuramente la colpa ad un leggero imbarazzo. «Ripeto» commentò. «Sei completamente pazzo».

«Dovrei sentirmi offeso?».

«Forse un po'». Scosse appena la testa. Poi mosse un solo passo in avanti e mi raggiunse. Prese il mio viso tra le mani e, alzandosi sulla punta dei piedi, depositò un lieve bacio sulla mia bocca. Io le cinsi i fianchi e, a quel punto, la gente ci fissava ancora, ma per diversi motivi. Non mi importò nemmeno.

«Questo è un nuovo inizio, no?» mormorai quando lei si distaccò. Hazel annuì lievemente.

«Il nostro nuovo inizio».

 

***

 

L'orologio segnava le ventidue in punto e, contemporaneamente, la fine del mio turno di lavoro come cameriere al “Cafè Rose”, una tavola calda alle porte di Parigi.

Già, Parigi.

Ero davvero lì, lontano dagli Stati Uniti, dalla mia casa e... In realtà, la mia casa non era mai stata un posto concreto.
Prima lo era mia madre, la quale, con il riaffiorare sempre più repentino e profondo dei miei ricordi, iniziava a mancarmi ogni giorno di più; ora, lontano dal passato, lo era Hazel.
Ci trovavamo finalmente in quella città che tante volte avevamo visto soltanto riflessa sulle pareti spoglie di una camera da letto.
Spesso avevo pensato che mai avremmo potuto superare un intero oceano e giungere in un altro continente. Eppure, era accaduto: mi ritrovavo in una città magica e adoravo ogni piccolo dettaglio di quella mia nuova, ennesima, vita.
Certo, non avevamo più una serie infinita di comodità – come un appartamento che non costasse niente e simili – ma non mi lamentavo.
Sebbene dovessi lavorare per mantenerci, non mi dispiaceva affatto. Era quel velo di normalità che per noi era sempre stato troppo lontano e remoto, quasi irraggiungibile.
Sembravamo davvero una coppia comune, con problemi e discussioni assolutamente ordinarie, come scegliere cosa mangiare per cena o il colore delle tende della cucina; a volte risultavamo persino monotoni, ma, considerato tutto il casino che ci eravamo lasciati alle spalle, l'assenza di eventi straordinariamente eccezionali non mi toccava.
E poi quella città rendeva tutto perfetto.

 

«Albert, io vado!».

Il mio datore di lavoro – nonché proprietario del café – era un uomo sulla cinquantina, parzialmente calvo, basso e con qualche chilo di troppo. Mi fece dei cenni con le mani, brontolando qualcosa, mentre – a suo dire - “faceva i conti”. Non capii cosa stesse farneticando; sicuramente qualche lamentela nei miei confronti, dal momento che mi ostinavo a parlargli nella mia lingua e non in francese.
Lo facevo di proposito poiché sapevo che la cosa lo infastidiva e anche perché il mio francese era pessimo.

Mi cambiai rapidamente, abbandonando la t-shirt bordeaux e il grembiule nero nel piccolo armadietto di metallo che mi era stato assegnato, e tornai nella mia maglietta blu e jeans scuri.
Salutai di fretta i colleghi, con cui non avevo stretto particolarmente amicizia – forse solo con una, Lexie, una ragazza inglese che però non era presente quel giorno.
Il locale non distava molto dall'appartamento che avevamo affittato. Era un piccolo alloggio, modesto e, cosa assolutamente importante, economico; ma, come già detto, il luogo non era importante.
Raggiunsi casa in meno di venti minuti di cammino. Salii le scale di pietra quasi correndo – lo facevo sempre, un po' per abitudine, un po' perché ero impaziente di rivedere Hazel.
Aprii piano la porta che avevamo verniciato d'arancione – sotto permesso dei proprietari – e, una volta entrato, me la chiusi alle spalle.

«Hazel?» chiamai. «Sono tornato!».

Mossi qualche passo distratto per l'appartamento, tra il piccolo ingresso in cui c'era soltanto un vecchio appendi-abiti di legno, e la cucina dotata del mobilio essenziale.

«Hazel?» dissi ancora e non ottenni nessuna risposta. Mesi prima mi sarei lasciato tramortire dall'ansia, dal panico e dall'angoscia poiché il pericolo che lei fosse stata catturata da qualcuno o che le fosse successo qualcosa di terribile era costante. Allora, invece, non mi allarmai.

Perlomeno... Cercai di non allarmarmi.

Eravamo al sicuro e non volevo che tale cosa venisse stravolta.

Eravamo al sicuro.

Continuavo a ripetermelo ogni qualvolta che un cattivo presentimento si impossessava inconsciamente di me. Sarebbe stato più facile se la mia mente non si fosse focalizzata così tanto sul pericolo esterno e sulle eventuali minacce.

Ma noi eravamo al sicuro.

Al sicuro.

C'erano un sacco di spiegazioni logiche e banali per un'assenza momentanea: avrebbe potuto uscire per una passeggiata e non essere ancora rincasata, oppure per comprare la cena o altro.
Sospirai, facendo mentalmente una lista delle ragioni al fine di giustificare la sua non presenza. Vi aggiunsi soltanto due punti e la sua voce lieve mi interruppe: «Ehi».
Mi voltai, in maniera lenta, e vidi Hazel, in piedi, sulla soglia della porta. Indossava un completo intimo di pizzo nero, con tanto di reggicalze sulle cosce e quel vestitino semi-trasparente che, credevo, si chiamasse baby-doll. I nomi di tali cose non si erano mai iscritti per bene nella mia testa, ma immaginai fosse una cosa che non aveva niente a che vedere con la mia remota perdita di memoria.
Sorrisi – sicuramente come un'idiota – facendo apparire sulle mie guance quelle odiose fossette che lei considerava adorabili. «Quello...» indicai, distratto, con una mano. «Dove l'hai preso?».
Hazel abbozzò una risata, giocherellando con una ciocca dei suoi lunghi e scuri capelli mossi. «Sai, ci sono tanti negozi in questa città che vendono queste cose ad un buon prezzo» replicò. «Ne ho solo approfittato. Ti piace?».
Scossi appena la testa, abbozzando una risata. «Molto».
Alla mia risposta, lei tirò un sospiro di sollievo. Per un attimo, mi sembrò nervosa, quasi timorosa che quella sua sorpresa non mi piacesse. Come poteva anche solo pensare ad una cosa del genere? Lei, per me, era bellissima in qualsivoglia veste.
Soprattutto in quella veste.

«Allora...» andò avanti «hai... Intenzione di rimanere lì immobile o... Venire qui e baciarmi?».

Mi pizzicai il labbro inferiore con i denti e allargai il mio sorriso, mentre lentamente avanzavo nella sua direzione, fino a raggiungerla. Strinsi il suo volto tra le mani e feci incontrare le nostre bocche, per uno dei nostri baci che richiamavano dolcezza e passione allo stesso tempo. «Camera da letto?» biascicai, quasi a corto di fiato.

«Camera da letto».

(x)

Hazel mi saltò addosso, incrociando le gambe sui miei fianchi. Io, senza interrompere ulteriormente quel gesto che mi prendeva così tanto, mi mossi alla cieca per il breve e stretto corridoio al fine di raggiungere la nuova stanza.
Adagiai lei sul materasso, tra le lenzuola azzurre. I nostri corpi erano incollati l'un l'altro: si cercavano, si trovavano, le nostre dita si intrecciavano tra loro. C'erano le nostre risate appena accennate e i sorrisi imbarazzati nonostante, ormai, ci conoscessimo nel profondo, in ogni nostra sfaccettatura.
Adoravo quei particolari: minuscoli dettagli che contribuivano a rendere ogni cosa sublime, anche mentre i vestiti ci scivolavano di dosso, ricadendo sulla moquette beige.
Fu speciale, come tutte le volte in cui le nostre anime si intrecciavano a costituire un unico essere e forse quell'aspetto era l'unico che riusciva a costruire una barriera contro i cattivi pensieri dentro alla mia testa. Anzi, era semplicemente Hazel con la sua candida essenza a farmi dimenticare il resto del mondo, come se su quel pianeta, in quell'universo da miliardi di anni, ci fossimo sempre e solo noi.

***
 

Hazel era sdraiata al mio fianco, poggiando la testa sopra alla mia spalla. Le lenzuola ci ricoprivano i corpi per metà, da metà busto in giù, e i miei polpastrelli accarezzavano lievi la sua schiena nuda.
«Mi piace quando torni a casa» la sentii sussurrare e non potei fare a meno di accennare una risata.

«Oh, beh, a me piace l'accoglienza che ricevo» replicai e scatenai in lei la stessa mia reazione. Poi sollevò il capo, così che potessimo guardarci negli occhi.

«C'è una cosa che devo dirti» esclamò e mi sembrò che l'euforia nel suo tono fosse calata, ma, come mi stavo costringendo a fare in ogni situazione, non iniziai a viaggiare con la fantasia al fine di trovare la peggiore delle ipotesi. «Cosa?» domandai.

Lei si pizzicò il labbro inferiore con i denti. «Ho... Trovato un lavoro».
Non lo diedi a vedere, ma fui lieto di sentire un cosa del genere e non un “dobbiamo andarcene da qui, ci hanno trovati” - sì, seppur lontanamente, il mio inconscio mi aveva già spinto a tale conclusione. «Sì? E dove?» chiesi ancora.

«In un... Posto».

«Beh, quello era abbastanza scontato. Che tipo di posto?».

A tal punto, Hazel si scostò appena, mettendosi seduta e tirandosi dietro una delle coperte. Io la seguii quasi fossi il suo riflesso. «Un posto carino» disse.

«Perché ci stai girando attorno?». Aggrottai le sopracciglia.

“Non essere cretino, Simon. Non pensare subito al peggio” mi sussurrò la mia coscienza. Quella vocina in fondo alla mia testa aveva ripreso a parlarmi da un po' e il più delle volte partiva da consigli e poi finiva per sgridarmi. Pensai anche di essere pazzo a causa di ciò, ma era soltanto il mio buon senso che cercava di tenermi sulla retta via.
Lei si passò più volte le mani tra i capelli. «Okay, è...» biascicò. «Un locale notturno».

Alzai le spalle. «Ci sono tanti locali notturni e...».

«Non come cameriera».

«E come cosa?».

A ciò non rispose, il che fu dannoso per il lavoro frenetico e il caos che regnavano nella mia mente. Dovetti cercare di rimanere lucido, di usare la logica in maniera corretta pur di giungere ad una soluzione accettabile.
E ci riuscii, dopo esattamente trentadue secondi. Purtroppo.
«Assolutamente no!» quasi urlai, pur consapevole del fatto che non necessitasse del mio consenso per fare qualsiasi cosa e non seppi nemmeno perché pensai di possederne il diritto.

«Simon...» sospirò lei.

«No, non... Starai mezza nuda su un cubo o quel che è, di notte, in mezzo quell'ammasso di idioti. Non... Non esiste».

«Non sarò mezza nuda e poi...». Scosse appena la testa, piegando le gambe e stringendole al petto con entrambe le braccia. «Vorrei solo essere d'aiuto» spiegò. «Viviamo qui da più di sei mesi e ti sei caricato il peso di tutto. Non... Non è giusto. E io non ho mai lavorato in tutta la mia esistenza, non ne ho mai avuto bisogno, quindi non ho referenze, niente di niente, e quello è l'unico posto in cui non chiedono nulla e pagano piuttosto bene».

Feci una smorfia. Forse il dover scappare appariva persino migliore rispetto all'effettiva verità.

«Capisco il tuo voler aiutare, okay?» mormorai, allungando una mano per accarezzarle una guancia. Cercai di non dare di matto. Non mi piaceva farlo, nonostante fosse capitato delle volte, sempre per ragioni abbastanza stupide. Insomma, le classiche discussioni prive di senso attraverso le quali ogni coppia passa di tanto in tanto. Quella era una delle tante.
«Lo capisco, davvero» continuai «ma non così. Non devi fare questo. Farti vedere da sconosciuti in quel modo... Oltre al fatto che potrei essere incredibilmente geloso, non sarebbe giusto».

«Dovrei ascoltare più la prima ragione o la seconda?».

«Entrambe». Abbozzai un sorriso e mi sporsi nella sua direzione, così da appoggiare la fronte sulla sua. «Se desideri tanto fare qualcosa... Potrei chiedere ad Albert se gli serve altro personale e... Poi convincerlo a dire sì».

«Lo faresti?».

«Posso provarci».

Hazel si morse forte il labbro inferiore per qualche secondo. Si rilassò solo quando le sue dita scivolarono tra i miei capelli, sulla nuca, quel gesto che aveva sempre compiuto sin dai primi istanti della nostra conoscenza. «Grazie» sussurrò.

«E di che?».

Non disse nulla in risposta, non a parole. Si limitò a baciarmi teneramente sulle labbra e ci stringemmo di nuovo l'un l'altro.


***
 

Mi addormentai serenamente. Erano mesi che non soffrivo più di insonnia, per mia fortuna, e non avevo bisogno di nessun espediente per sprofondare nel sonno. Ma se il mio inconscio aveva deciso di lasciarmi in pace, c'erano, comunque, altri fattori che mi costringevano a sollevare le palpebre durante le ore di buio: quella notte ci pensarono dei lamenti da parte di Hazel e il suo sobbalzare sul materasso, mettendosi seduta, che mi costrinse a fare lo stesso.
Mi sfregai gli occhi con le dita per recuperare un briciolo di lucidità andata persa in quel dormiveglia. «Tutto okay?» biascicai, accarezzandole piano la schiena. La mia maglietta bianca che indossava come pigiama era impregnata di sudore. A causa di esso, i capelli le si erano incollati alla fronte e provvedetti a scostarli delicatamente.
Lei annuì appena, passandosi, nervosa, una mano sul viso. «Sto bene» sussurrò. «Ho fatto soltanto un brutto sogno».
Non era la prima volta che ottenevo tale risposta, così come non lo era il suo risveglio improvviso, ma restando sulla filosofia di non coprirmi di troppe ansie, mi ero convinto a non agitarmi nemmeno per quello. Del resto, dopo tutto ciò che avevamo passato, avere gli incubi di notte era una conseguenza persino accettabile.
Sebbene mi stessi impegnando a pensare positivo, evidentemente l'espressione che si dipinse sul mio volto riuscì a tradirmi, poiché Hazel mi sfiorò il viso con i polpastrelli e mi disse: «Non è niente. Tutti fanno brutti sogni di tanto in tanto».

Mi sforzai di sorridere.

“Va tutto bene” pensai. “Deve andare tutto bene”.

«Lo so» sussurrai.

«Siamo normali, no?».

«Siamo normali».

Quelle parole rimbombarono nella mia testa come un eco senza fine. Mi costrinsi a marchiarle in modo permanente: non potevo permettere che la paura di qualcosa o i fantasmi del passato mi rendessero la vita impossibile.

Il sovrannaturale era lontano.

A Parigi eravamo soltanto un ragazzo e una ragazza che affrontavano il mondo adulto.

E nulla più.

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Capitolo 2
*** Darkness. ***


Capitolo 2
"Darkness"

Hazel


Ci sono solo tenebre attorno a me.
Sbatto le palpebre più volte, ma nulla cambia.
È ancora buio.
È buio e fa terribilmente freddo.
Mi stringo nelle spalle e mi accovaccio su me stessa, sperando che ciò possa proteggermi.
Ma neanche quello serve.
Il freddo aumenta e aumentano anche loro.
Quelle voci.
Quelle maledettissime voci che non mi lasciano un secondo di respiro.
Mi vengono addosso, di continuo.
Sono taglienti, mi fanno male.

Prima sussurrano, poi urlano.
E urlano forte.
Devo tapparmi le orecchie, ma continuo a sentirle, inesorabilmente.
Allora mi alzo, comincio a correre, anche se non vedo dove metto i piedi.
Cado a terra.
Mi sbuccio le ginocchia.
Sento il sangue scivolare lungo i miei polpacci.
Lo ignoro, mi rialzo, riprendo il mio cammino.
Ma le voci aumentano.
Sono sempre più vicine.
Strillano e...
E l'oscurità mi inghiottisce.

 


Mi svegliai di soprassalto per la seconda volta in una notte sola. Evidentemente, era stato tutto meno violento del solito perché Simon continuò a dormire nonostante un mio urlo appena accennato.

Ne fui grata.

L'alba era imminente e tra non molto avrebbe dovuto alzarsi per andare a lavoro. Aveva bisogno di riposo e non volevo sottrargli neanche un minuto di tempo.

Mi alzai dal letto e, trascinando i piedi sulla moquette beige, raggiunsi il piccolo bagno adiacente alla nostra camera e mi ci chiusi dentro.
Nelle settimane precedenti, avevo sperato che gli incubi passassero; purtroppo, però, non lo avevano fatto. Anzi, erano aumentati e ogni volta apparivano sempre più vividi, tanto da togliermi il fiato.
E non era tutto.
Anche da sveglia, avevo iniziato a sentire nella mia testa quelle stesse voci che mi tormentavano durante il sonno. Non ero mai in grado di capire cosa stessero dicendo. Sembravano dei lamenti, seguiti da delle urla che rimanevano incomprensibili.
Tenni per me l'ultima parte. Non volli dire nulla a Simon di proposito, nonostante sapessi quanto fosse dannoso per noi nasconderci la verità, ma lo vedevo abbastanza turbato solo dal racconto dei miei brutti sogni e non volevo incrementare la sua perenne ansia – sì, diceva di essere sereno, ma io sapevo che, in fondo, continuava a preoccuparsi per tutto.

Fissai il mio riflesso allo specchio. Ero uno straccio. Non dormivo come si deve da giorni e giorni e i segni di ciò erano ben evidenti sul mio volto.
Mi sciacquai ripetutamente la faccia, sperando che l'acqua gelida riuscisse a rinvigorirmi un po'. Lo fece, ma solo per un breve istante prima che quelle maledette voci tornassero.
Lievi sussurri si espansero nella mia testa, sospirando e gemendo, e, come al solito, non riuscii a cogliere nemmeno una parola.
Sarebbe stato semplice capire cosa stava mi stava succedendo se avessi compreso cosa mi stavano dicendo. Avrei trovato una soluzione per smettere di sentirle.
Invece no: continuavano a tormentarmi senza darmi la possibilità di fuggire.

«Smettetela» sibilai, strizzando gli occhi. «Smettetela. Smettetela».

Iniziai a colpire le mie tempie con i palmi delle mani, come se quei gesti potessero cacciar via le voci. «Smettetela» continuai a ripetere. In tutta risposta, esse assunsero un tono più elevato: i sussurri divennero grida, sempre più forti, più laceranti.

Temetti che la testa potesse scoppiarmi in quel preciso istante. Prima che il peggio accadesse, tuttavia, tutto tacque.
Sollevai freneticamente le palpebre e mi ritrovai di fronte il mio volto contorto in una smorfia di puro terrore.
Avevo iniziato a respirare a fatica e quel riflesso così distante dal mio aspetto abituale mi angosciò. Tremai e dovetti appoggiarmi sul bordo del lavandino per non crollare sul pavimento.

«Hazel?». La voce di Simon, insieme al suo bussare piano alla porta, riempirono nuovamente il silenzio. Deglutii più volte e mi passai ripetutamente le mani sul viso, cercando di ridare un minimo di colorito alle mie guance.
«Un attimo» replicai, distratta. Dovevo apparire perlomeno presentabile al suo sguardo, così da non insinuare in lui inutili preoccupazioni. Gli aprii dopo qualche secondo e, come faceva sempre, tutte le mattine, mi sorrise in maniera rassicurante, serena: quel buongiorno che mi spingeva a tener duro e a lasciare da parte i problemi che mi stavano rincorrendo.
«Come mai sei già sveglia?» domandò. Scossi appena la testa, comportandomi il più normalmente possibile. «Beh, so che tra poco avresti dovuto alzarti e...» risposi «Volevo prepararti la colazione, ma a quanto pare non sono riuscita a portare a termine la mia sorpresa».
Recitai la parte della persona allegra e di buon umore; in fondo, volevo anche esserlo. Se non fosse stato per quelle maledette voci, la vita che stavo conducendo era praticamente perfetta dal mio punto di vista.
«Ti lascio il bagno» esclamai, prima che lui potesse aggiungere qualsiasi altra cosa o porre domande a cui avrei fatto fatica a rispondere. Abbandonai rapidamente quel piccolo locale e tornai in camera da letto. Mi liberai della t-shirt impregnata di sudore e indossai, al volo, una camicia da notte leggera e fresca, sebbene avessi estremo bisogno di una lunga doccia calda, ma quella sarebbe arrivata dopo.

Riordinai la stanza come meglio potevo e lo feci soltanto per concentrarmi su qualcosa che non fossero i miei incubi e quelle dannate voci.
Lo facevo sempre: divenivo una perfetta casalinga durante l'arco della giornata e ciò riusciva a distrarmi, a volte più, a volte meno.
Quella volta, il mio metodo per non pensare funzionò a lungo, con l'aiuto di Simon che mi raggiunse dopo qualche minuto. Era un fidanzato perfetto – anche se si arrabbiava quando lo chiamavo così; anzi, non era proprio rabbia, era soltanto il suo essere terribilmente timido e imbarazzato per qualsiasi cosa lo riguardasse e... Sì, arrossiva ancora se gli facevo un complimento.
Riusciva ad essermi vicino anche quando fisicamente non lo era, con qualche messaggio su un cellulare che avevo appena imparato ad usare – prima non ne avevo mai avuto davvero bisogno – o una chiamata nella sua pausa pranzo.
Mi sarebbe dispiaciuto interrompere quell'armonia in cui ci eravamo immersi per qualcosa che poi accadeva solo nella mia testa. Forse avevo uno di quei tanti tipi di shock post-traumatico. Insomma, ero morta, avevo visto morire un mio... Amico, tra le mie braccia e un'altra serie di eventi che avrebbero turbato qualsiasi altro essere umano.
Probabilmente dovevo imparare a conviverci e, un giorno, le voci sarebbero scomparse, così come erano arrivate.

 


Arrivò la sera.
Ero riuscita nell'impresa di sopravvivere ad un'altra giornata senza impazzire del tutto. Anzi, quando il sole calò, mi sentii più che stabile, sicuramente di più di quanto lo ero quella mattina.
Fu un sollievo, anche perché non volevo mantenere quell'aspetto molto più simile ad un morto vivente che ad un essere umano.
Guardandomi distrattamente allo specchio, notai di essere ancora un po' pallida, ma niente che discostasse troppo dal mio colorito naturale o che non si potesse camuffare con un filo di fondotinta.
Come ogni sera, aspettai, paziente, che Simon tornasse dal lavoro. Non me l'ero presa troppo per il suo rifiuto a quel mio quasi nuovo impiego; del resto era scontato che si opponesse e una parte di me aveva addirittura sperato lo facesse. In realtà, non sapevo neanche perché mi fossi ficcata in qualcosa del genere; probabilmente, il mio desiderio di rendermi utile, insieme a quello di avere una qualche occupazione che mi tenesse la testa perennemente impegnata mi aveva portato a cercare soluzioni estreme.

«Hazel?». Sentii la sua voce provenire dal corridoio. Mi passai, rapida, una mano tra i capelli che in quei mesi si erano allungati in maniera eccessiva, tanto da superarmi i fianchi, e abbandonai la camera da letto, messa in ordine alla perfezione, così da raggiungerlo.

«Ehi» esclamai, vedendolo togliersi la giacca di pelle nera e abbandonarla sull'attaccapanni. Lui fece una smorfia – finta, palesemente finta – e poi sorrise. «Niente completino sexy?» disse.

Alzai le spalle. «La tua maglietta non è abbastanza sexy?» replicai, indicando la t-shirt blu che avevo addosso. Simon abbozzò una risata e mi si avvicinò, fino a che non poté trovare le mie mani e intrecciarle alle proprie. «Ho una buona notizia» aggiunse, poco dopo. «Albert ha accettato e non ho nemmeno dovuto implorarlo o cose simili».

«Davvero?».

«Sì. Cominci domani. Anche se credo vorrà fare la sua scenetta del “giorno di prova”, ma accade con tutti e tu andrai benissimo».

Poteva sembrare stupido, ma ero elettrizzata all'idea di avere un lavoro e di averlo insieme a lui. Era qualcosa di normale, scontato e, a tratti, forse noioso, ma era ciò di cui avevo estremo bisogno.
Allargai il sorriso e mi alzai sulla punta dei piedi per essere alla sua altezza e poter poggiare le labbra sulle sue, per un lieve bacio.

«Che ne dici se...» esclamò Simon, successivamente «Se ti porto fuori a... Festeggiare?».

«Mh, fuori tipo... Una cenetta romantica?».

«Forse. E magari poi a bere qualcosa, a ballare o... Cose così».

«I metodi migliori per prepararmi al mio primo giorno di lavoro in assoluto».

«No. Una parte dei metodi per renderti felice».

Avrei voluto continuare a sorridere genuinamente, ma fui sicura che ciò che mi si dipinse sul volto fu tutt'altro. Non dispiegai le labbra, rimasero appena curvate all'insù e pregai affinché lui non notasse il cambio del mio stato d'animo, da eccitato a malinconico. Non che mi dispiacesse il fatto che cercasse in ogni maniera di costruire la mia felicità, tutt'altro; ma che io potessi distruggere la sua soltanto proferendo qualche parola... Beh, quello mi buttava giù parecchio.

«Vado a mettermi qualcosa di decente, allora» dissi. Fu la prima cosa che mi venne in mente per distaccarmi dalla sua presa e allontanare i nostri sguardi. Del resto, non potevo uscire di casa in pantaloncini e maglietta larga.

Mi spogliai e indossai un vestito nero non troppo corto, a maniche lunghe, con sotto un paio di stivaletti dello stesso colore, rigorosamente senza tacchi – non sopportavo quei cosi, erano strumenti di tortura per tutte le donne, a mio parere.

Quando tornai in corridoio, Simon era rimasto lì immobile, con le mani nelle tasche dei jeans. Mi sorrise leggermente e io mi sforzai di fare lo stesso, ignorando la brutta sensazione di poco prima.

Uscimmo di casa e fui lieta di percepire l'aria fresca della sera sul mio viso.

Simon mi cinse le spalle con un braccio e io feci lo stesso, sul suo fianco.

Il ristorante dove ci fermammo non era distante dal nostro appartamento. La cena che ci servirono fu squisita. Mangiare, ridere e scherzare in sua compagnia fu quasi come una cura ai miei traumi psicologici. Quando abbandonammo quel luogo, non tornammo subito a caso. Ci dirigemmo verso un pub nelle vicinanze, giusto per bere qualcosa e... Distrarmi ancora un briciolo.
Mi sedetti in uno dei pochi – se non l'unico – tavoli liberi del locale, mentre Simon andava ad ordinare dei cocktail o delle birre – non capii bene cosa mi disse, a causa dell'elevato chiacchiericcio del posto.
Non mi dava fastidio: sentire quelle voci reali e forti era sempre meglio del sentirne altre lievi ed immaginarie. Ne fui lieta e, inconsciamente, tirai un sospiro di sollievo, come se all'orizzonte, potessi scorgere uno spiraglio di luce che avrebbe risolto ogni mio problema.
Purtroppo, però, come spesso accadeva, avevo esultato troppo presto perché qualcosa accadde proprio in quel pub alla periferia di Parigi.
Qualcosa di inspiegabile, che portò il mio cuore ad accelerare i suoi battiti, così forte che temetti che da un momento all'altro esso avrebbe potuto balzare fuori dal mio petto e rotolare sul pavimento di legno.
Lontano, tra la folla impegnata a bere e parlare, scorsi un volto tremendamente familiare. Il suo sguardo fisso su di me, la sua espressione seria, impassibile, le braccia sciolte lungo i fianchi, pugni stretti.

«Thomàs» biascicai e tremai. Chiusi per un attimo gli occhi. Ovviamente, anche le allucinazioni dovevano far parte del pacchetto 'ulteriore shock post-traumatico'. Era impossibile che lui fosse davvero lì.

Thomàs era morto.

Sollevai le palpebre e tutto era di nuovo come prima. Lui non c'era più e io avevo il fiatone, quasi avessi appena terminato una lunga corsa.

«Ho dovuto lottare per farmi dare due birre. Non pensavano avessi diciotto anni, ci credi?». Simon ritornò al tavolo, con due bottiglie in mano, e io afferrai solo metà della sua frase – per fortuna, la parte essenziale per formulare una risposta.

«Beh, li hai... Compiuti da poco» replicai. Cercai di sforzare un sorriso, ma non ci riuscii. Non fui nemmeno in grado di mascherarlo e lui lo notò. «Tutto okay?» domandò, sedendosi di fronte a me.

Annuii, distratta. «Sì, io...» balbettai. «Sono solo... Un po' nervosa. Sai, per domani».

«Non dovresti. Te l'ho detto, andrai alla grande».

Certo che sarei andata alla grande, ammesso e concesso che nessuna strana voce avesse fatto capolinea nella mia testa e che non avessi avuto una nuova inquietante allucinazione.

Cominciai a pensare che avere una vera occupazione fosse una pessima idea.

«Già» continuai a ribattere. «Lo spero».

Per fortuna, non fece ulteriori domande sulla maschera atterrita che mi si era sicuramente stampata in faccia e ringraziai che non fosse entrata in gioco la nostra empatia, altrimenti mi sarei ritrovata a confessargli ogni cosa e non volevo.

“Non è niente” ripetei a me stessa. “Non è assolutamente niente”.

Purtroppo, non feci in tempo a riprendermi che Thomàs apparve di nuovo davanti ai miei occhi, più vicino rispetto a prima, seduto ad un tavolo. Quella volta, non rimase semplicemente immobile a fissarmi. Sorrise appena e, piano, si portò l'indice sulla bocca; il classico gesto che indicava di fare silenzio.
Accadde in una frazione di secondo, ma a me ogni cosa parve come se stesse procedendo a rallentatore. La realtà mi stava scivolando di mano.
Così, distolsi lo sguardo da quell'assurda allucinazione e mi sporsi verso Simon, rischiando di far cadere le bottiglie di birra sul pavimento. Posai le labbra sulle sue e lo baciai finché non persi fiato.
Lui replicò con entusiasmo – per fortuna – pensando – sperai pensasse – fosse un gesto normalissimo di una fidanzata in ansia per il primo giorno di lavoro.
Quando fui costretta a distanziare le nostre bocche, feci in modo che i miei occhi si incastrassero ai suoi e mi focalizzai soltanto su di essi. «Balli con me?» biascicai, tirando piano i suoi capelli sulla nuca. Simon annuì, distratto.

(x)

Mi prese per mano e ci alzammo in piedi. Tenni sempre la testa bassa, in modo da non scorgere più nessun volto conosciuto perché non lo avrei retto.
Sulla piccola pista da ballo del locale, mentre una canzone forse eccessivamente lenta riempiva l'aria, mi strinsi al petto di Simon e vi nascosi il viso, abbassando le palpebre.
In un angolo remoto della mia testa, le dannate voci iniziarono a sussurrare, ma la musica riuscì a sovrastarle e potei riprendere respiro, almeno fino alla fine di quel brano.

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Capitolo 3
*** Something sick. ***


Capitolo 3
"Something sick"

Simon



«Dannazione!».

Il contenuto di un'intera caraffa di aranciata si era rovesciato sul pavimento di legno. Era la terza che mi scivolava via dalle mani senza apparente ragione logica o fisica e tutte le volte dovevo affannarmi per raccogliere ogni traccia di liquido senza fare ulteriori danni.

«Ehi, ragazzo americano!». Il suono di quella voce mi fece sobbalzare appena e, poco dopo, il viso rotondo e solare incorniciato da capelli scuri di Lexie, mi apparve davanti, anche lei in ginocchio, forse propensa ad aiutarmi. «Sbaglio o oggi hai le mani di pasta-frolla?».
Scossi la testa. «No, non sbagli» sospirai. «Sono soltanto... Nervoso».

«Uhm, qualcosa a che vedere con la tua ragazza che verrà a lavorare qui? Sai, dalle mie parti lo chiamano nepotismo».

Feci una smorfia e strizzai lo straccio pregno d'aranciata nel secchio che avevo proprio accanto a me. E no, Lexie non mi stava affatto aiutando; si limitò ad osservarmi, quasi divertita. «Ho solo chiesto ad Albert ed ha detto sì» esclamai.

«Già, così mi hanno riferito. Non che ci creda molto».

«Perché no?».

«Beh, immagino i tuoi grandi occhi azzurri sgranati, ad implorare Albert di assumere Hazel perché messaggi e chiamate non ti bastano più». Curvò le labbra verso il basso, come se volesse prendermi in giro e non potei fare a meno che scoppiare a ridere, stessa cosa che fece lei, subito dopo.

«Smettila» esclamai.

Lexie era divertente e adoravo la sua compagnia. Era una delle poche persone con cui riuscivo a parlare, ridere e scherzare e che allietava il tempo trascorso tra ordini e clienti non troppo gentili. Non era chiaro se potevo considerarla una mia amica nel senso stretto del termine, dato che non ero mai uscito con lei oltre i confini del Café, ma, di sicuro, era qualcosa di diverso di una semplice collega o conoscente.

«D'accordo, ragazzo americano» disse Lexie, rimettendosi in piedi e alzando le mani, come in segno di resa. «Ho almeno una decina di tavoli con francesi scalmanati che mi aspettano. Vedi di non distruggere completamente la dispensa nel frattempo». Si congedò in quel modo, lasciando me ancora alle prese con l'aranciata a terra.

Sperai davvero non capitasse di nuovo e, in realtà, non avevo la benché minima idea della ragione per cui ero così agitato. Non ne avevo motivo. Ero stato io a consolare Hazel e a dirle che tutto sarebbe andato per il verso giusto.
Forse il problema era proprio quello: quando pronunciavo una frase del genere, improvvisamente, ogni cosa convergeva verso il polo più negativo.

Finii di raccogliere il liquido a terra e ripulii il pavimento come meglio potevo, tanto Albert me lo avrebbe fatto lavare almeno un centinaio di volte dopo la chiusura fino a rendere le assi di legno immacolate. Per quel momento, allora, potevo lasciar quell'operazione in sospeso.
Mi alzai, rimisi ogni cosa al proprio posto e abbandonai la dispensa.
Quando rientrai nel locale, Hazel vi era appena entrata. Mi fece un cenno con la testa, al quale replicai con un lieve sorriso e la raggiunsi, quasi sulla soglia della grande porta vetrata. «Sei in anticipo» esclamai. «Sì, solo di dieci minuti» ribatté lei. «Non è chissà cosa».

«Ancora agitata?».

«Sono perennemente agitata».

«Non esserlo». “Da chi partiva la predica” si lamentò la mia coscienza e dovetti sforzarmi per ignorarla. «Andrai bene» ribadii.

Hazel scosse appena la testa. Non sembrava convinta, ma forse era oppressa dalle mie stesse angosce e non la biasimavo.

«Devo chiederti soltanto una cosa» disse, allora.

«Cosa?».

Lei sorrise appena. «Non fare il fidanzato apprensivo».

Feci una smorfia. «Non faccio mai il fidanzato apprensivo».

«La tua faccia suggerisce tutta un'altra storia». Abbozzò una risata e si sollevò sulla punta dei piedi per depositare un casto bacio sulle mie labbra. «Solo... Trattami come una qualsiasi collega quando sono qui» continuò. «Non vorrei che gli altri pensassero che io sia privilegiata o qualcosa del genere perché sto con te».

«Nessuno lo penserebbe e...». Lasciai in sospeso la frase, interrotta da un suo sguardo che, a mio parere, comunicava di più delle parole. «D'accordo» sospirai. Feci per dire altro, ma fui preceduto dall'arrivo di Lexie. Sentii la sua voce prima di avere il suo volto davanti agli occhi. «Oh, Hazel!» esclamò, a gran voce. «Benvenuta a bordo!».
Hazel accennò un sorriso come saluto e non disse nulla in risposta, forse perché imbarazzata o che altro. «Conosci già Lexie» dissi io.

«Sì, certo».

«Allora, ragazzo americano, ci pensi tu a mostrarle tutto o lasci fare a me?». Lexie era tutto fuorché timida. Conosceva a stento Hazel, l'aveva vista soltanto qualche volta e di sfuggita, si erano presentate così velocemente che dubitavo si ricordassero i rispettivi nomi; e invece, eccola lì, come se stesse accogliendo un'amica di vecchia data. Non avevo idea di come facesse ad essere così spigliata. Certe volte, da quel punto di vista, avrei voluto assomigliarle, per scrollarmi di dosso quella parte da ragazzino imbranato che era praticamente innata dentro di me.
«Uhm, no, okay, pensaci tu» replicai. Avrei voluto desistere e occuparmi io di tutto, ma sarebbe rientrato nel fattore “fidanzato apprensivo” e avevo appena promesso di non esserlo.
Lasciai che Lexie portasse via Hazel al fine di mostrarle come le cose funzionavano nel locale. Del resto, sarebbe sicuramente stata un'ottima insegnante.
Io, nel frattempo, mi occupai di altro, come sistemare il bancone o prendere varie ordinazioni ai tavoli col mio francese alquanto scadente.
Non seppi quanto tempo era passato quando Hazel mi si affiancò, mentre raccattavo i bicchieri sporchi dai tavoli che si erano appena svuotati. «Ehi» esclamò. Aveva addosso la mia stessa t-shirt – solo che le stava un po' larga – e un paio di pantaloni neri e attillati, che probabilmente appartenevano a Lexie. Le sorrisi appena, in saluto. «La divisa ti sta alla grande» commentai.
«Mh, mai quanto sta bene a te». La sentii ridere e posai ciò che avevo recuperato sul lato interno del bancone. «Così rendi difficile il mio non essere un fidanzato apprensivo, lo sai?» replicai, lanciandole uno sguardo e alzando un sopracciglio.
«Lo so» ridacchiò ancora e poco dopo si allontanò furtivamente, proprio come si era avvicinata, forse chiamata proprio da Lexie o da chissà che altro.
In quei brevi attimi, Hazel mi era sembrata serena. Non che io fossi pienamente convinto che lei avesse qualcosa che non andava, ma, a volte, la vedevo turbata, scossa da qualche ente esterno, un po' come accadeva con me e le mie perenni ansie. Tuttavia, mi convincevo a non rimuginare troppo anche sopra quell'aspetto, dando la colpa ad un eventuale shock post-traumatico – e dopo ciò che avevamo passato, sfidavo chiunque a non essere leggermente su di giri. Forse avere una distrazione l'avrebbe davvero distratta al punto di permetterci di inoltrarci di più nella nostra vita del tutto normale; e la stessa cosa avrei dovuto fare io, meglio di come l'avevo fatta nei mesi precedenti.
Mi misi subito all'opera, riprendendo ogni mia mansione: dal rassettare la sala, all'accogliere i clienti, prendere le ordinazioni e servire ai tavoli.

Era quasi l'una e a quell'ora il locale si riempiva di ragazzi e ragazze in pausa pranzo o qualsiasi altro genere di persona.
Mi armai di penna e block-notes, pronto ad immergermi nel mare di gente che occupava praticamente ogni angolo del ristorante e, con il mio scarso francese, segnai ogni pietanza che mi veniva detta, molto rapidamente, rischiando anche di non capire cosa volessero.
La cosa andò avanti finché il mio accento non causò una grossa risata da parte di due giovani dai capelli ramati, sedute l'una di fronte all'altra. «Tu non sei affatto francese o sbaglio?» disse una di loro, cercando, come poteva, di placare la propria risata.
Parlavano la mia lingua, mi parve quasi un miracolo. «Già» replicai. «Per caso si nota?».

«Leggermente. Mi hai appena chiesto se volessi una mucca in mezzo al mio panino».

Tale frase fece ridere anche me. Immaginavo fosse una tortura sentirmi parlare francese. «Lo dico spesso, in realtà. Forse è per questo che mi guardano tutti storto».

«Devi ringraziare il fatto che tu sia estremamente carino, altrimenti ti avrei preso in giro fino alla fine dei tempi».

Arrossii appena; accadeva sempre quando qualcuno – chiunque – mi faceva un complimento, di qualsiasi genere e in qualsiasi modo. Sorrisi e feci per replicare, ma fui preceduto: «Estremamente carino ed estremamente impegnato».
Riconobbi subito la voce di Hazel e mi bastò voltare di poco il capo per vederla accanto a me, con la mani sui fianchi e un'espressione eccessivamente seria dipinta sul viso.
«Oh» esclamò la ragazza. «Beh, non sono schizzinosa, posso passarci sopra». Aggiunse l'ennesima risata alla sua risposta e capii stesse scherzando, era evidente. Tuttavia, Hazel non colse affatto l'ironia. Tremò e spostò le mani sul tavolo in modo abbastanza violento, facendo sussultare le due clienti. «Anche io posso passarci sopra» sibilò. «Alla tua faccia, però».

«Come, scusa?».

«Hai capito benissimo».

«Davvero?». La ragazza scattò in piedi. Era almeno il doppio di Hazel e se mai le fosse venuto in mente di dar inizio ad uno scontro fisico, sicuramente avrebbe avuto la meglio.

Io ero perplesso. Non era un comportamento che la caratterizzava. Era come se quell'accenno di gelosia che le si era sempre celato dentro fosse esploso in maniera spropositata.
Notai come il suo tremore aumentò e i suoi pugni si strinsero così forte da colorare le sue nocche di bianco.

«Okay, Hazel, andiamo» dissi. Non avevo intenzione di proseguire quell'assurda e insensata discussione, tanto meno ero propenso a permetterle di cacciarsi in qualche guaio proprio il primo giorno di lavoro.
Così, la afferrai per un braccio e la trascinai via di peso, scusandomi distrattamente con le due ragazze e mandando Lexie da loro, per servirle.
Mi diressi verso il retro del locale e, una volta entrati, chiusi la porta alle nostre spalle. «Si può sapere che diavolo ti prende?» esclamai, con un tono di voce forse un po' troppo alto. Lei mi dava le spalle. La vidi passarsi più volte una mano tra i capelli, nervosa. «Mi dispiace» mormorò.

«Perché? Che... Che è successo?».

Ci furono secondi di silenzio che parvero durare un'infinità, durante i quali non ottenni nessuna risposta. Mi spostai, dunque, andandole di fronte e non fu difficile notare come stesse evitando in tutti i modi il mio sguardo. «Che è successo?» ripetei.
Hazel scosse appena la testa. «Non... Non lo so» balbettò. «Ho visto quelle ragazze parlare con te e... Ho dato di matto».

Sospirai. «Parlo con un sacco di persone ogni giorno, è... E' normale con questo lavoro».

«Lo so. Non... Avevo solo... Paura».

«Paura di cosa?».

La domanda restò in sospeso e, di nuovo, non ebbe nessuna replica. Hazel si sfregò gli occhi con una mano, rovinando l'attento trucco nero che aveva preparato quella mattina. «Non importa» sussurrò. «Scusa se ho incasinato tutto».

«Non hai incasinato niente e...».

«Forse è meglio che vada a casa, mi... Mi sbagliavo sul fatto di volere un lavoro. È evidente che io non sia in grado di farlo».

Mi morsi piano il labbro inferiore. Sebbene non ne capissi il motivo, era scossa e, a tratti, confusa, tanto da ingigantire ciò che era appena successo e identificare l'avvenimento come irreparabile.

«E' il tuo primo giorno» dissi, quella volta con più calma. «E a tutti capita una giornata no. Albert non c'è al momento, quindi... Non saprà mai cosa è accaduto». Feci una breve pausa e allungai una mano a sfiorarle una guancia con i polpastrelli. «Vuoi che ce ne andiamo da qui e ci prendiamo il resto della giornata libera?».

«No, non... Non voglio mandare all'aria anche la tua giornata. E poi... Qui se la cavano tutti meglio quando ci sei tu».

«Possono fare a meno di me per un pomeriggio».

Hazel sforzò palesemente un sorriso e strinse la mia mano che vagava ancora sul suo viso tra le proprie dita. «Dovresti rimanere qui» mormorò.

«Sicura? Potrei...».

«Sono sicura».

Non ero molto rassicurato dalle sue parole. La situazione non era cambiata molto rispetto a qualche minuto prima e lei mi sembrava ancora parecchio a disagio. Tuttavia, mi sforzai di crederle – sì, la mia ostentazione ad essere ottimista venne ricalcata e depositai un leggero bacio sulla sua fronte.

«Ti chiamo un taxi».


***


Il mio turno sarebbe finito da lì a pochi minuti, ma già da tempo avevo posto fine ad ogni mia mansione. Così, in quel momento, sedevo a terra nella dispensa, aspettando che i secondi scorressero. Avrei potuto andar via prima, qualcuno mi avrebbe coperto, però preferii ritagliarmi quel piccolo spazio di tempo per riordinare le idee e restare solo con me stesso.
Come sempre, avevo tanti pensieri che mi vagavano in testa e quelli più vecchi, pregni di ansia e preoccupazione, scalpitavano per fuoriuscire dalla grossa scatola nera in cui li avevo riposti.
Fino ad allora, ero passato sopra agli incubi di Hazel, ai suoi silenzi o ai suoi cambi d'umore. Era sempre successo da quando eravamo giunti a Parigi e solo dopo mesi mi impuntai sul fatto che ci fosse qualcosa fuori posto; la reazione esagerata che aveva avuto quel giorno me ne diede una conferma.
Non credevo che il sovrannaturale c'entrasse; quello ce lo eravamo lasciato alle spalle, era lontano. Ci trovavamo dentro una roccaforte – a quanto pareva, Parigi era una delle poche città in cui il sovrannaturale non risiedeva.
Qualcosa non andava, sì, ma era tutto nella sua testa.
Sì, un altro shock post-traumatico e questa volta radicato talmente a fondo da alterare la sua personalità. Lo avevo letto nei miei libri di psicologia. Non ricordavo tutto chiaramente, ma molte nozioni erano molto chiare nella mia mente, tanto da condurmi a tale conclusione.
Ciò nonostante, seppur con il problema individuato, trovare una logica soluzione era alquanto arduo. Più difficile del previsto, quasi impossibile per me.

«Stai bene?». Non sobbalzai all'arrivo di quella voce che riconobbi subito come quella di Lexie. Annuii distrattamente e, con la coda dell'occhio, la vidi sedersi sul pavimento, al mio fianco. «Sicuro?» insistette.

«Sì, sto bene» ribadii.

«Mi sembri preoccupato».

Abbozzai una risata, priva d'entusiasmo. «Forse perché un po' lo sono».

«Si tratta di Hazel? Ha solo avuto un banale attacco di gelosia, ne ho visti tanti».

«Non è per quello, non...». Interruppi la frase. Sarebbe stato d'aiuto confidarmi con qualcuno di esterno, spiegare tutte le mie ansie, non oscurando nessun dettaglio. Purtroppo, però, non mi era concessa una tale libertà. «Lei ne ha... Passate parecchie» rimediai, allora. «Noi ne abbiamo passate parecchie».

«Siete praticamente ancora due adolescenti. E' normale che a questa età vi sembra di aver affrontato il mondo intero, ma, credimi, non è così».

Mi venne da sorridere e, di nuovo, fu tutto privo di qualsivoglia sentimento. Era logico che Lexie reagisse in quella maniera. Era vero: agli occhi di tutti eravamo solo due nuovi adulti con tutta la vita davanti. Le nostre cicatrici erano ben nascoste.
Sospirai, sfregandomi le mani. Se non potevo dire tutta la verità, forse ero in grado di rivelarne una leggermente velata. «Ha visto la sua migliore amica venire uccisa» sussurrai, fissando il vuoto. «E... Un'altra persona a cui teneva molto, è morta tra le sue braccia. Io stesso ho rischiato di morire». Cambiai l'ultima parte. Sarebbe stato arduo spiegare la mia resurrezione. «Lei non si è mai spezzata» continuai. «Ha tenuto duro, è andata avanti dicendo a tutti di stare bene, ma non è così. Non... Non credo stia bene. Quindi... Sì, ne abbiamo passate parecchie e... Credo che le mie preoccupazioni siano quasi lecite».

Ci furono secondi di silenzio nei quali entrambi trattenemmo il respiro. «Mi dispiace» disse Lexie, poco dopo. «Non ne sapevo nulla».

«Non è propriamente il mio primo argomento di conversazione» commentai.

«Beh, non credo dovrebbe esserlo per nessuno».

Spostai lo sguardo da un punto fisso nel nulla al suo viso. Dire quelle cose ad alta voce – e non ogni minima sfaccettatura – ebbe uno strano effetto su di me. Mi stordì e quasi mi venne la nausea.

«E' fortunata, però» esclamò Lexie. «Hazel ha te».

Feci una smorfia.

Sì, aveva me. Il problema era che, forse, non ero un giusto appiglio per aiutarla a restare a galla in mezzo ad un oceano di ansie. Io ero debole quando si trattava di stabilità psicologica, nonostante mi ostinassi ad affermare il contrario.

«Già» replicai, distrattamente. «Ha me». Scossi appena la testa, mordendomi piano il labbro inferiore.

Poco dopo, mi alzai in piedi. Salutai Lexie rapidamente e abbandonai il Café Rose.
Se fossi rimasto chiuso ancora lì dentro, probabilmente il peso dei miei pensieri mi avrebbe schiacciato e nemmeno un ulteriore discorso con un'amica avrebbe rimediato al danno.
E così, con le mani nelle tasche dei jeans, mi incamminai verso casa, mentre una leggera pioggia scendeva su Parigi come se volesse schiarirmi le idee.

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Capitolo 4
*** Insanity. ***


Capitolo 4
"Insanity"


Quelle mura parevano schiacciarmi. Era come se mi stessero venendo contro, riducendo drasticamente i miei spazi e io non potessi fare nulla per bloccarle.

E quelle voci.

Quelle dannate voci non mi avevano abbandonato nemmeno per un secondo; sempre più forti, acute, taglienti. Alcuni sussurri li avevo persino capiti. Ero riuscita a percepire delle chiare parole in quel chiacchiericcio confuso e non fu niente di buono.
Dicevano cose cattive. Mi suggerivano di fare cose cattive e non ne capivo il motivo. Gridavano, a volte, soprattutto se cercavo di ignorarle.
Mi stavano urlando addosso anche in quel momento, seduta sul divano del mio appartamento, con le ginocchia premute al petto e gli occhi lucidi.
Avrei voluto gridare anche io, ma non volevo arrendermi al fatto di essere pazza.
Pregavo solamente che smettessero prima del ritorno di Simon così da darmi il tempo di ricompormi e tranquillizzarlo per quanto accaduto a lavoro. Tuttavia, più io imploravo, più esse elevavano il loro volume, senza lasciarmi via di scampo.
Parevano divertirsi a giocare con la mia sanità mentale, quasi provassero gusto a schernirmi. Tutto ciò che volevo sapere era la loro provenienza e come cacciarle. Non avrei resistito a lungo, altrimenti. Sarei uscita totalmente fuori di testa e la quasi lite con quelle ragazze era soltanto un lontano accenno al mio definitivo crollo.

«Smettetela, dannazione!» dissi, strizzando gli occhi e prendendomi la testa tra le mani. In risposta, le voci risero, una dietro l'altra, in coro.

Non mi sbagliavo: la mia sofferenza le divertiva.

«Hai un aspetto orrendo, lo sai?». Ad un tratto, un suono diverso dai mille sussurri si aggiunse nell'aria e mi mise i brividi.
Forse non ero solamente sul punto di impazzire. Forse ero già completamente impazzita, altrimenti non avrei sentito proprio quella voce, più ferma e nitida rispetto a tutte le altre.
Sollevai le palpebre a fatica, stringendo talmente forte i miei capelli tra le dita da rischiare di strapparmeli dalla testa.

«Scommetto che lo sai già, ma, come sempre, non farai assolutamente per rimediare».

Thomàs. Vedevo Thomàs, di nuovo.
Perché era lì davanti a me, piegato sulle gambe, con un sorriso beffardo stampato in faccia?
«Tu sei morto» biascicai. In tutta risposta, lui accennò un sorriso alzando solo un lato della bocca, facendo risaltare la piccola cicatrice che aveva sulla guancia sinistra.
«Oh, sì, lo è». Si aggiunse un'altra voce e quel lieve suono fu un grado di provocarmi una fitta al petto proprio come avrebbe fatto un affilato coltello. Mi bastò voltare di pochi millimetri il capo per scorgere a chi appartenesse.
C'era anche Martha, seduta sul tavolo, con i capelli biondi lunghi e sciolti che le ricadevano sulle spalle. «Sono morta anche io» disse. «Siamo tutti morti qui».

«Tutti, tranne chi dovrebbe esserlo sul serio, dico bene?». Una terza voce provenne dalla parte opposta della stanza. Mi girai di nuovo e, in piedi, con le braccia incrociate sul petto, vidi la madre di Simon, scalza e con addosso solo una vestaglia bianca.

Ero completamente pazza.

«No, no, no, no» balbettai. Mi alzai di scatto, stringendomi nelle spalle. Chiusi gli occhi. «Voi non siete qui» dissi a me stessa. «Voi non siete qui, io... Voi non siete reali».

«Eravamo reali» esclamò Thomàs. Riaprii gli occhi e me lo ritrovai davanti, a pochi centimetri di distanza. Cercai di scansarlo immediatamente, ma, non appena lo feci, Martha mi bloccò. «Almeno finché non siamo morti a causa tua». Completò la frase precedente.

Ero intrappolata. Quei tre fantasmi – o qualunque cosa fossero – mi avevano circondata e ovunque mi girassi, venivo fermata da uno dei loro volti che avevano iniziato a sfigurarsi, come se i loro corpi si stessero decomponendo a poco a poco sotto il mio sguardo.
C'era sangue e la stanza aveva iniziato a riempirsi di uno strano odore che mi fece venire la nausea. Percepii il mio cuore battere sempre più velocemente, quasi da farmi male.
Loro, intanto, continuavano a parlare.

«Povera, piccola, innocente Hazel».

«Tutti morti per colpa tua».

«Dicono per una giusta causa».

«La morte di qualcuno è mai giusta?».

Erano più forti delle solite voci. Erano più laceranti delle solite voci. Tentai di scappare, di rompere quelle gabbia in cui mi avevano costretta, ma ogni mio tentativo fu vano. Le mie gambe cedettero e crollai in ginocchio. La testa mi stava scoppiando. Posai i palmi sulle tempie, sperando che tramite quel gesto potessi riuscire a placare quel dolore immane che mi stava attanagliando.
Volevo urlare, dire loro di smetterla, di andare via, ma non ne ebbi la forza. Non ebbi la forza di fare assolutamente più nulla, oltre che lasciarmi annientare.
Mi ero accasciata sul pavimento ed era come se un enorme peso premesse sopra di me e mi stesse schiacciando, rompendomi tutte le ossa. Era micidiale.
Tutte quelle voci si erano insediate nella mia testa, martellanti. Facevano sempre più male.
Mi ritrovai a mugolare e singhiozzare, implorando, pregando chissà chi affinché ponesse fine a quella tortura. Delle lacrime mi scivolarono lungo le guance, prima poche, poi sempre più, a bagnarmi tutto il viso.

«Hazel? Hazel!». Improvvisamente, in mezzo a quel caos che mi si era creato attorno, qualcosa – o meglio, qualcuno – prevalse sul resto. Percepii delle mani calde sulle mie spalle e solo quel gesto mi indusse ad riaprire gli occhi e sollevare il capo.
I miei fantasmi erano scomparsi, insieme all'inferno che si erano portati dietro. C'era solo Simon chino su di me, con un'espressione preoccupata stampata in faccia e un silenzio quasi opprimente. Io ero tutta sudata. La t-shirt grigia che indossavo mi si era appiccicata addosso e la mia bocca era secca. Tremavo, ma non avevo freddo.

«Sei qui» dissi, con un filo di voce. Allungai una mano, a sfiorargli piano uno zigomo. «Sei reale, sei qui» mormorai, più che altro a me stessa, senza l'intenzione che lui mi sentisse.
Simon mi fissava come se avesse davanti qualcosa in fiamme e non sapesse come spegnere tale incendio. Era confuso, perplesso e impaurito. Riconoscevo tali sintomi.
«Sì, sono qui» si limitò a dire. Mi aiutò a rimettermi in piedi. Barcollai e rischiai di cadere più di una volta prima di avere successo. Per non farmi schiantare nuovamente a terra, lui mi fece sedere sul divano e, senza che me ne rendessi conto, mi circondò con una coperta di pile blu e si accomodò al mio fianco. La maschera d'ansia non l'aveva abbandonato nemmeno per un secondo.

«Che è successo?» domandò, serio.

Lo guardai, socchiudendo gli occhi. Ero ancora tentennante. Una parte di me mi suggeriva che era stupido tenerlo ancora all'oscuro di ciò che mi stava succedendo; del resto, aveva già appurato che qualcosa non andava in me, che ero, in qualche modo, rotta e necessitavo di essere aggiustata, un po' come si farebbe con una stupida macchina.
Dall'altro lato, però, c'era quella lieve e onnipresente vocina riconducibile alla mia coscienza che mi ordinava di tenere la bocca chiusa per il suo benessere e, finché potevo, di salvaguardare la sua sanità mentale, anche a discapito della mia.
Non avevo la benché minima idea di cosa fare e i suoi due fari azzurri puntati su di me non aiutarono per niente.
«N...» feci per dire, ma mi interruppe subito: «Non ti azzardare a dire che non è successo niente, perché ti ho appena trovata accasciata sul pavimento, fredda come il ghiaccio e delirante. Non... Non dirmi che non è niente, ti prego, non lo fare».
Sospirai. Ostentare altre menzogne, allora, era fuori discussione. «No, c'è... Qualcosa» mormorai. Restai vaga e non fu di proposito. Era quello che effettivamente sapevo: mi stava accadendo qualcosa, ma non sapevo cosa.
«Allora dimmi cosa» esclamò Simon. «Lo sai che tenerci dei segreti ci ha sempre fatto del male. Dobbiamo dirci tutto».

«Lo so. Ho solo cercato di...».

«Di sistemare le cose da sola. Come sempre».

Feci una smorfia. «Cercavo solo di proteggerti» replicai. «Non volevo trascinarti in un altro casino e pensavo che... Pensavo che dopo gli incubi tutto passasse, ma non è accaduto».

«Sono peggiorati?».

Annuii appena. «Ti ho già raccontato cosa succede».

«L'oscurità cerca di risucchiarti e... Delle voci strane si infilano nella tua testa, rischiando di farla esplodere».

«Già. E quelle voci... Ho iniziato a sentirle anche di giorno, quando sono sveglia».

Simon serrò la mascella. Era nervoso e non lo biasimavo. Lo sarei stata anche io al suo posto. «Da quanto tempo?» domandò.

«Qualche settimana, credo. Ho... Un po' perso la cognizione del tempo, ultimamente».

«Che dicono quelle voci?».

«Non lo so» mentii. Ne fui pentita quasi immediatamente, ma, prima che potessi rimediare, avevo già concluso la mia frase con: «Sono solo sussurri confusi, privi di senso».

Lo vidi scuotere vigorosamente la testa e, poco dopo, accennò una risata isterica. «E quando pensavi di dirmelo?» esclamò.

«Non... Non lo so» mormorai. «E' solo che...».

«E' solo che niente» mi interruppe, bruscamente. «Lo avevamo promesso, dannazione. Niente più segreti». Aveva alzato nettamente il tono di voce. Era raro che Simon si arrabbiasse: era sempre stato d'animo docile, tranquillo, calmo e comprensivo. Quella volta, invece, pareva addirittura furioso. La parte peggiore era che aveva ragione e ne ero del tutto consapevole.
«Ho sbagliato, okay?» replicai, liberandomi dalla coperta che aveva iniziato a soffocarmi. «Non ho dato peso a qualcosa che apparentemente ne ha e... E mi dispiace».
Le mie scuse non lo scalfirono. Continuò a fissarmi con uno sguardo pregno di... Avrei voluto sbagliare, ma era certo che gli stessi facendo pena.
Cercai di non focalizzarmi troppo sul fatto che tale cosa mi rattristasse. Andai oltre, distogliendo gli occhi dai suoi. «Credo...» dissi, a bassa voce. «Credo dovremmo iniziare a cercare qualcosa per... Farle smettere».
Simon non replicò subito. Lasciò passare qualche secondo che per me equivalse all'attendere delle ore. «Dovremmo cercare qualcuno, Hazel» concluse.

Aggrottai le sopracciglia. «Tutti quelli che conosciamo sono dall'altra parte dell'Oceano e mi credono morta. Non c'è nessuno che...».

«Non intendevo quel genere d'aiuto». Spezzò ancora la mia frase. Sul suo volto, la pena venne rimpiazzata dalla pura e semplice preoccupazione.

«Che genere intendi?» chiesi, allora.

Un'altra pausa. Perché il silenzio era micidiale tanto quanto quelle dannate voci? Era assurdo.

«Non penso c'entri il sovrannaturale in quel che ti sta succedendo».

Venne a me da ridere nello stesso modo che aveva utilizzato lui poco prima. «Cosa?».

Sospirò. «Hazel, noi... Siamo distanti anni luce dal sovrannaturale. Siamo venuti a Parigi principalmente perché è una delle città con meno presenza mistica al mondo. Da tutto ciò che accaduto l'anno scorso, noi ne siamo fuori. Qui non c'è... Assolutamente nulla che non appartenga alla normalità».
La mia faccia si paralizzò e percepii il mio cuore aumentare i propri battiti a dismisura; non seppi nemmeno perché ciò accadde. Forse era quella sensazione definita come “delusione”. Non l'avevo mai provata prima, perlomeno non così forte.

«Tu...» biascicai. «Tu credi che io sia solo fuori di testa?».

«No» mormorò. «Credo solo tu abbia bisogno d'aiuto. Vero aiuto, da parte di chi sicuramente ne capisce di più di quello che stai passando e...».

Mi alzai di scatto dal divano, passandomi entrambe le mani tra i capelli. Se non ero già pazza, come lui sosteneva, lo sarei diventata presto. «Per l'amore del cielo!» urlai. «Io sono morta, tu sei morto! E siamo entrambi tornati in vita. Come puoi anche solo pensare che il sovrannaturale non c'entri assolutamente più nulla con noi? Come... Come puoi credere che... Che tutto questo sia normale?».

«Non ho detto che è normale» replicò Simon, con una fastidiosa calma. Si mise in piedi, lentamente, e mi venne incontro. «Ti sta succedendo qualcosa, okay?» disse. «Lo so, è evidente. Ma sono dell'idea che tutto dipenda da ciò che hai passato negli ultimi tempi. Sei cambiata, hai... Hai perso delle persone e non hai nemmeno avuto il tempo di salutarle come si deve. Pensi che io non sappia di come ti incolpi della morte di Thomàs o di quella di Martha?».

Mi morsi forte il labbro inferiore. Pregai affinché quello che stava accadendo in quel momento facesse parte delle mie allucinazioni, ma, purtroppo, non era così.
Non ricevere il suo appoggio fu un duro colpo e il fatto che avesse messo in mezzo proprio quelle persone mi infastidì parecchio.

«Non lo sai affatto» sussurrai.

«Hazel...».

Allungò una mano, forse a sfiorarmi una guancia. Lo scansai, con poca delicatezza. Non esitai troppo con lo sguardo dentro il suo. Semplicemente, lo evitai e abbandonai il salotto, trovando rifugio nella camera da letto, con la porta chiusa a chiave.


***


Mi rigiravo tra le coperte da quelle che, probabilmente, erano ore. Avrei tanto voluto addormentarmi e, a quel punto, mi sarebbero stati bene persino gli incubi. Tutto, purché non mi facesse pensare alla discussione assurda appena avuta.
Naturalmente, il mio inconscio aveva conservato quella crudeltà innata così da tenermi sveglia.
Pensavo che dire la verità mi avrebbe aiutato in qualche modo, invece era accaduto l'esatto contrario. Che io rivelassi o meno la mia situazione, ogni ramo del mio bivio conduceva a qualcosa di catastrofico.

La stanza era immersa in un silenzio surreale e non fu difficile udire il cigolio della porta mentre si apriva o i passi lievi che parevano addirittura dei tonfi sul pavimento. Strinsi forte il lenzuolo tra le dita, per evitare di conficcarmi le unghie nei palmi.
«Hai intenzione di non parlarmi più?». Percepii persino la voce di Simon come fosse un grido, nonostante stesse appena sussurrando. Voltai solo di qualche centimetro il capo per scorgerlo seduto sul materasso, con le mani poggiate sulle proprie gambe. Non mi girai del tutto, non sarei stata in grado di sostenere il suo sguardo. Tornai a fissare un punto vuoto davanti a me che coincideva con la sveglia sistemata sopra il comodino.

Segnava le due in punto.

«No» mormorai «è solo che non mi va di discutere con chi mi crede matta da legare».

Lo sentii sospirare. «Non ho mai detto questo».

«Ah, no? E cosa avresti detto, esattamente?».

«Hazel, come tu cerchi di avere sempre il controllo della situazione e di farmi star bene, lo faccio anche io. E voglio aiutarti, lo sai bene».

Scossi vigorosamente la testa. Non seppi quale parte del mio cervello mi costrinse ad alzarmi di scatto dal letto. Fu una pessima decisione perché quando i miei occhi incrociavano i suoi era sempre micidiale. «E' assurdo» esordii. «Come... Come potrei parlare con... Con un banale psicologo di come mi sento o... O di tutto il resto? È illogico. È privo di senso. Non posso farlo. Non posso dire ad un estraneo certe cose».

«Allora, invece di parlarne con un estraneo, parlane con me».

Rimasi immobile, con i pugni stretti lungo i fianchi. Simon era estremamente serio, ancora seduto sul materasso, tra coperte e lenzuolo sgualciti. «Te ne ho parlato» biascicai.

«No, non lo hai fatto. Eviti sempre di farlo. Ogni volta che nomino Martha o Thomàs o chi altro, cambi discorso. Solo pronunciare i loro nomi, ti rende nervosa».

Mentre parlava, portai le mani tra i capelli.
“Ebbene, adesso ritrai alla perfezione una pazza. Lo biasimi ancora?” sussurrò una voce nella mia testa e non capii se fosse la solita coscienza o... Una delle altre.
«Non... Osare» sibilai, strizzando per un attimo gli occhi. «Non... Non ti azzardare a dare la colpa di tutto questo ad uno shock post-traumatico o cose simili, perché non lo è. Sono passati mesi e poi... Quel che mi sta succedendo non ha nulla a che vedere con i miei sensi di colpa».

«Alcuni shock possono manifestarsi addirittura dopo anni e...».

Mi venne voglia di urlare. Quella sua calma fredda rispetto al mio inferno era terribilmente irritante.

Fin troppo irritante.

Era sbagliata.

“Pensa che tu sia fuori di testa. Non ti crede, come sempre. La storia che si ripete. Si ripete”.

Portai i palmi sulle tempie.
In mezzo a tutto quel casino, avevano fatto il loro ingresso anche le maledette voci che, improvvisamente, avevano iniziato a parlar chiaro e a tono fin troppo elevato.

«Sta' zitto» gridai e quell'ordine valeva sia per Simon, sia per la mia anti-coscienza.

Strizzai gli occhi, ma riuscii comunque a notare come lui si alzò dal letto e mosse qualche passo nella mia direzione. Mi sfiorò le braccia con i polpastrelli. La sua pelle era talmente calda che le sue dita parvero dei ferri ardenti a contatto col mio corpo. Mi bruciarono e sobbalzai all'indietro.
Alzai lo sguardo. Il suo era fisso su di me e, a quel punto, non mi sforzai neanche di comprendere quale sentimento lo avesse pervaso.
Avevo iniziato a tremare, esattamente come era capitato qualche ora prima.
«Io...» biascicai. «Io sto cadendo a pezzi». Scossi appena il capo e percepii una lacrima scivolarmi lungo la guancia. «Aiutami, ti... Ti prego».

Non seppi se il mio tono di voce raggiunse effettivamente le sue orecchie. Era talmente basso che a malapena riuscii a sentirmi io stessa. Tuttavia, Simon non esitò a venirmi incontro, tralasciando una mia possibile reazione che l'avrebbe potuto respingere di nuovo, e mi strinse in un caldo abbraccio. Affondai il viso nel suo petto e chiusi gli occhi.

«Se cadi, ti prendo al volo, ricordi?» sussurrò. Accennai un sorriso che fu, più che altro, di circostanza e che svanì dopo un istante. Mi aggrappai alla sua maglietta, stritolandola tra le dita.
Osai sollevare le palpebre per un solo secondo e osservare al di là della sua spalla. Avrei voluto non farlo, me ne pentii quasi subito. 
Seduti sul letto, l'uno di fianco all'altra, c'erano Thomàs e Martha, seri in volto, con la mascella serrata e la delusione nei loro sguardi. Non li fissai a lungo, non ce la feci.

“Non sono reali” mi sforzai di pensare.

Tornai a nascondere il viso, stringendomi di più nell'abbraccio di Simon.
Gli ero attaccata addosso come se fosse una roccia in mezzo al mare in tempesta: il mio unico appiglio, la mia ancora di salvataggio. E sperai fosse sufficiente.
Sperai in una soluzione che avremmo potuto trovare insieme, superando quell'ennesimo ostacolo e lasciandocelo alle spalle, insieme a tutto il resto.

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Capitolo 5
*** Crush, crush, crush. ***


Capitolo 5
"Crush, crush, crush"



Crollo psicotico: si manifesta sempre dopo un evento traumatico che ha coinvolto il soggetto a livello fisico e/o emotivo, portandosi dietro una profonda depressione e un sovraccarico di stress.
Le persone che subiscono un crollo vivono in un perenne stato d'illusione, di sogno perpetuo. La loro mente gioca con loro, creando illusioni vivide.
Capita che questi individui diventino immuni a qualsiasi forma di dolore fisico, come se ogni ferita sul loro corpo non appartenesse loro.
I pazienti psicotici hanno spesso affermato di sentire voci. Questo accade perché il loro cervello è fermo in una realtà illusoria – come già detto, in uno stato di perenne sogno.
Essi si trovano in una fase detta “veglia REM” dove l'emisfero sinistro del cervello lavora ancora – contrariamente a quanto accade durante un sogno vero e proprio – il che dà loro l'illusione – per l'appunto – di sentire voci, vedere cose o essere spiati. Tutto ciò è facilmente trasmutabile in una grave paranoia e...

 


Smisi di leggere quelle righe sullo schermo del computer a causa della mia vista improvvisamente appannata – e probabilmente anche per la stanchezza.
Solo due anni prima avrei trovato affascinante quell'aspetto psicologico, un caso interessante da studiare e con il quale rapportarmi.
In quel momento, invece, ogni cosa sembrava tremendamente sbagliata.
Ogni sintomo descritto rispecchiava il comportamento di Hazel, soprattutto quello degli ultimi mesi: c'erano gli incubi, le voci e una parte su cui non mi ero soffermato troppo comprendeva cambi repentini d'umore e atti di violenza verso se stessi e gli altri. C'era tutto e ne avevo enormemente paura.
Non sapevo come comportarmi con lei. Avevo promesso di aiutarla e volevo davvero farlo.
Il problema era che da solo non avrei risolto nulla e forse avrei avuto più probabilità di vittoria se avessi dovuto scontrarmi con un'armata di Divoratori di Anime – sembrava assurdo dirlo, ma era davvero così.
Mi passai una mano sul viso. Mi sentivo privo di forze, spossato. L'orologio segnava le tre del mattino e io ero incollato ad una scrivania trasandata con sopra mille fogli scritti, in completo disordine. Spostai per un attimo lo sguardo per scorgere Hazel immersa nel sonno già da qualche ora.
Non aveva dormito quasi per nulla in quell'ultima settimana – un po' come avevo fatto io. L'unico modo per costringerla a chiudere gli occhi per un periodo che andasse oltre i dieci minuti era stato versarle delle gocce di sonnifero nella spremuta d'arancia che le avevo preparato. Non era un'azione di cui andavo fiero, ma aveva bisogno di un briciolo di tranquillità, ammesso e concesso che i suoi incubi la lasciassero in pace, e io avevo la necessità di... In realtà, non sapevo di cosa.
Il sonno pareva evitarmi a prescindere – oh, la mia cara, vecchia insonnia – e l'ossessione di sapere cosa stesse attanagliando colei che ritenevo l'amore della mia vita era troppo potente per permettermi di focalizzarmi su altro.
Avevo addirittura chiesto un periodo di ferie sul lavoro e l'avevo ottenuto con non poche lamentele. Sarei stato inutile al locale, comunque, e avrei certamente finito col farmi licenziare in via definitiva.

(x)

Mi alzai, lento, dalla sedia su cui ero fermo da ore e, nonostante i miei sforzi, non potei evitare che cigolasse in seguito al mio movimento. Mi morsi appena il labbro inferiore, convinto di aver fatto troppo rumore; il silenzio della notte era formidabile ad amplificare qualsivoglia suono.
Hazel non si era mossa di un millimetro, sebbene io fossi sicuro di aver fatto un gran baccano.
Tirai un sospiro di sollievo e, in punta dei piedi – ero scalzo e camminavo su della moquette, ma feci lo stesso attenzione – raggiunsi il letto. Mi sdraiai lentamente al suo fianco, sul materasso, cercando di non toccarla o scuoterla in nessuna maniera. Mi limitai a girare leggermente il capo e osservarla.
Il suo volto era rilassato, così come non lo vedevo da mesi. Forse, gli incubi avevano davvero deciso di lasciarla serena almeno per un notte.
Allungai una mano, a recuperare l'angolo del lenzuolo che le era scivolato via di dosso e con quello la coprii.
Mi sporsi nella sua direzione e depositai un lieve bacio sulla sua tempia. «Mi prenderò cura di te, d'accordo?» sussurrai al suo orecchio, con tono così basso da essere a malapena percettibile. Subito dopo mi scostai, appoggiando nuovamente la testa sul cuscino.

Non tentai neppure di chiudere gli occhi, sperando che il sonno mi avvolgesse. Ero sicuro non lo avrebbe fatto.
Rimasi semplicemente immobile a guardare Hazel dormire, un po' come lei aveva fatto mille altre volte in quella che ormai poteva considerarsi un'altra vita.


Persi la cognizione del tempo. Mi accorsi dell'arrivo del mattino soltanto quando la stanza fu illuminata da timidi raggi di sole, ma neanche ciò mi costrinse ad alzarmi dal letto.
A quello ci pensò il bussare vigorosamente alla porta che sopraggiunse all'improvviso.
Presi in considerazione l'idea di non andare ad aprire e, per un attimo, fui convinto che il mio tentativo di fingere di non essere in casa avesse funzionato poiché chiunque fosse dall'altra parte aveva smesso di picchiettare col pugno contro il legno. Invece no: il bussare ricominciò dopo qualche secondo di pausa e, a quel punto, fui costretto ad abbandonare il letto e andare a scoprire chi fosse così insistente.
Trascinai i piedi sul pavimento finché non raggiunsi l'ingresso ed aprii la porta.
«Lexie!» esclamai. Mi parve di averlo urlato. In realtà, il mio tono di voce fu normale, ma le mie orecchie si erano abituate a lievi sussurri. «Che ci fai qui?».

«Manchi da una settimana sul lavoro» replicò lei, incrociando le braccia sul petto.

«Lo so. Ho avvertito Albert».

«Già, ma non gli hai dato una spiegazione logica, quindi mi sono preoccupata».

«Non... Non ce n'è bisogno, davvero».

Lexie sbuffò. «Sai di essere un pessimo bugiardo, sì?». Scosse appena la testa e mi scansò in maniera tutt'altro che delicata al fine di entrare nell'appartamento. Non fui in grado di oppormi e mi limitai a chiudere la porta alle nostre spalle.«Avanti, che è successo?» mi domandò, spostando entrambe le mani sui fianchi.

«Niente» risposi.

«Altra bugia poco credibile, avanti la prossima».

Sospirai. Nonostante mi fossi confidato proprio con lei qualche giorno prima, non potevo certo scaricarle addosso altri miei problemi, soprattutto non di quel genere. Inoltre, le mie presupposizioni avrebbero potuto essere veritiere o fittizie e, in ogni caso, avrebbero dovuto coinvolgere eventi fuori dalla logica e dalla comprensione di qualunque persona che non avesse mai avuto a che fare con il mondo sovrannaturale.
«Solo...» dissi, a bassa voce «qualche problema che sto cercando di risolvere».

«Qualcosa in cui posso aiutare?».

«No, non... Non credo».

Lexie fece una smorfia e mosse un solo passo nella mia direzione. «Simon» sussurrò «so che forse mi consideri ancora un'estranea, ma, per quanto mi riguarda, sono tua amica, okay? Io penso che tu sia mio amico e, generalmente, quando un mio amico è in difficoltà, mi faccio anche in quattro per aiutarlo».
«Lo apprezzo e... Per la cronaca, è ovvio che ti consideri mia amica». Lei abbozzò un lieve sorriso a tali mie parole. Poi proseguii: «Se accadesse qualcosa di catastrofico, saresti la prima persona che chiamerei».

«Quindi... Non è successo ancora nulla di catastrofico?».

«No». “Non ancora” aggiunsi, nella mia testa.

Sentii Lexie sospirare. Poco dopo, compì un passo in avanti. Le sue braccia si chiusero intorno alle mie spalle e mi ritrovai stretto a lei. Non ero abituato a gesti del genere - soprattutto da parte sua - quindi fu strano riceverne uno in quel momento.
Cercai di ricambiare l'abbraccio nella maniera più naturale possibile, sebbene fossi sicuro che, visti da fuori, sembrassimo due persone con difficoltà di movimento.
Socchiusi gli occhi, ma, proprio mentre iniziavo a rilassarmi e non percepivo più una quantità enorme d'ansia addosso, Lexie si staccò da me in modo piuttosto brusco, balzando all'indietro.
Aggrottai le sopracciglia, perplesso. Ci misi qualche secondo a decifrare l'espressione che le si era dipinta addosso. Allora mi voltai e vidi Hazel in piedi sulla soglia della camera da letto.

«Oh, sei sveglia» esclamai.

«Già» replicò lei, stringendo i pugni lungo i fianchi. Aveva una maschera in volto che non le apparteneva. Ormai conoscevo ogni sua sfaccettatura e di certo ciò che stavo vedendo in quel preciso istante non rientrava nell'elenco.

«Che ci fa quella qui?» domandò poco dopo, con nessuna gentilezza. Mi morsi piano il labbro inferiore: nemmeno quel tono di voce era tipico, così come non lo era l'atteggiamento.

«Lexie» dissi, marcando di proposito il suo nome. «E' passata per un saluto».

A ciò, Hazel non ribatté. Si limitò a fissare prima me e dopo Lexie, a ripetizione, passando lo sguardo da uno all'altro.
Calò un silenzio irritante nell'ingresso e parve mancarmi il respiro per una frazione di secondo. C'era Hazel, impassibile, con le unghie conficcate nei palmi talmente a fondo da rischiare di farsi sanguinare le mani; c'era Lexie in piedi, dietro di me, con la bocca socchiusa e infine c'ero io che ero sul punto di svenire, un po' per la situazione del momento e un po' per il sonno arretrato degli ultimi giorni.

«Uhm, forse è meglio che vada» esclamò Lexie ad un tratto e fui lieto di udire il suono della sua voce. «Ho il turno al Cafè tra mezz'ora, per cui...». Lasciò la frase in sospeso. Mi bastò voltare appena il capo per vederla uscire dall'appartamento, chiudendosi la porta alle spalle dopo un distratto cenno di saluto con la mano.
Tornai a fissare Hazel che ancora non si era rilassata.Scossi leggermente la testa. «Non... Non sei stata molto gentile» mormorai.
Lei abbassò lo sguardo sui propri piedi scalzi e sciolse i pugni, portando poi entrambe le mani al petto. «Non era mia intenzione» biascicò.
Abbozzai una risata, priva di ogni entusiasmo. «Lo immagino».
«Sul serio, io...». Non terminò l'affermazione. Strizzò gli occhi e sollevò la testa. «Non volevo» proseguì solo allora. «Mi... Mi scuserò con lei».
Annuii, distratto. Per quel che ne sapevo – poco, ovviamente – intraprendere una discussione per qualcosa all'apparenza di bassa importanza non avrebbe condotto ad alcun risultato. In più, avevo già appurato quanto Hazel fosse fragile e soggetta ad estremi sbalzi d'umore; rimproverarla non sarebbe servito, anzi, avrebbe peggiorato la situazione.
Perciò, lasciai che l'accaduto mi scivolasse addosso. Mossi qualche passo nella sua direzione e mi fermai soltanto quando le fui davanti. Delicatamente, sfiorai una sua guancia con le dita e lei accennò un sorriso, quasi fosse imbarazzata da quel mio gesto.

«Volevo preparare la colazione» sussurrai. «Ti va? Ci sono i muffin».

Hazel premette di più la mia mano sul proprio viso, inclinando appena la testa. «Mi andrebbe proprio un muffin» mormorò.

«D'accordo». Depositai un rapido bacio sulla sua fronte e feci un passo indietro, voltandomi poi per recarmi in cucina. Lei mi seguì quasi fosse la mia ombra ed era una cosa che accadeva praticamente tutte le volte.
In quei brevi attimi, la quiete sembrò tornata, sebbene sapessi che non bastasse solo una colazione tranquilla per risolvere ogni cosa. Tuttavia, quella mezz'ora passata tra muffin, cornetti alla crema e cappuccino riuscì a sciogliere il broglio dei miei nervi e fui persino in grado di sorridere genuinamente, senza dover fingere entusiasmo.
Mi distrassi e ne fui lieto, anche quando Hazel si allontanò per farsi una doccia.

Fu dopo che accadde qualcosa di estremamente... Complicato.

Tornai in camera da letto, una volta rassettato ogni cosa in cucina – non che io fossi bravo nelle faccende domestiche, ma me la cavavo.
Entrato nella stanza, mi fermai sulla soglia della porta, notando Hazel in piedi, di fronte alla scrivania, con addosso dei pantaloncini scuri e una maglia bianca a maniche lunghe per lei fin troppo larga. Stringeva i pugni lungo i fianchi, quel gesto che pareva non appartenerle, di nuovo, e i suoi capelli erano ancora bagnati. Era di spalle e non riuscii a scorgere il suo viso, ma, da tale postura, dedussi che l'espressione che aveva dipinta in volto fosse simile a quella che aveva assunto poco prima in presenza di Lexie.
Trattenni il respiro per qualche secondo e non osai muovermi nell'immediato. Lo feci dopo un istante, compiendo solo due passi in avanti.«Ehi» sussurrai, con tono più neutrale possibile. «Che... Che stai facendo?».
«Che cosa sono per te, Simon?» mormorò lei e a stento fui in grado di percepire la sua voce. Quella domanda suonò terribilmente strana. Aggrottai le sopracciglia, perplesso. «Come?» chiesi, certo di non aver capito bene. Hazel scosse vigorosamente il capo e si voltò, incrociando le braccia sul petto.

«Sentire e vedere cose, essere in paranoia» esclamò. «Qual è la tua diagnosi? Psicopatica? Schizofrenica? Cosa?».

«Niente di tutto ciò». Dissi una mezza bugia. Sì, era vero, avevo cercato online dei sintomi, ma nulla mi dava la certezza che lei fosse affetta da qualche malattia mentale. Quella era solo la mia ultima spiaggia, nonché una delle mie più grandi paura.

Forse, del resto, ero io quello in paranoia.

«E allora perché hai cercato... Perché hai cercato quelle cose? Tu non...».

«Per aiutarti». Feci una breve pausa e compii un ulteriore passo nella sua direzione. «Me lo hai chiesto tu e... Da qualche parte dovevo pur iniziare».

Hazel accennò una risata, ma fu facile cogliere l'isteria che la caratterizzava. «Questi non... Non sono problemi che si risolvono con diagnosi online o... O con quella di qualsiasi altro strizzacervelli».

«Dobbiamo per forza tornare a discuterne?».

«Sì, dobbiamo!». Urlò quell'ultima frase e ciò non riuscì a non scuotermi. Non aveva mai urlato con me, perlomeno non in quel modo.

«Okay» dissi con calma del tutto apparente. «Parliamone».

Lei allargò le braccia come se il mio atteggiamento la esasperasse. Camminò nervosamente su e giù per la stanza e io rimasi immobile ad osservarla e basta. Si fermò all'improvviso, proprio davanti a me. Così da vicino, l'espressione che aveva dipinta sul volto parve ancora più surreale.

«E' sempre la stessa cosa» esclamò, ancora con tono elevato. «E' come un dannatissimo circolo vizioso in cui ricadiamo sempre, con te che non credi ad una mia sola parola e... E stavolta quanto passerà prima che tu te ne vada?».

«Io non vado da nessuna parte».

«Oh, giusto... Giusto, stavolta sarà meglio rinchiudere me da qualche parte, magari in una bella cella dalle pareti imbottite».

«Stai esagerando».

«No, sto... Semplicemente esponendo la logica dei fatti».

A tal punto, l'esasperazione raggiunse anche me. Se la lite avuta precedentemente era assurda, quella rischiava di divenirlo ancora di più. «Smettila, d'accordo?» mormorai. «Perché mai dovrei pensare di fare qualcosa del genere? A te, poi».

«Non lo so. Forse ti sei accorto che in realtà sono solo un peso senza il quale vivresti di gran lunga meglio».

«Non dire idiozie».

«Non è così?» gridò di nuovo. I nostri visi erano arrivati ad essere talmente vicino che era semplice percepire il suo fiato corto sulla mia pelle.

«Non è così» ribadii. «E se tu la smettessi di urlare, potremmo solo parlarne, anche se mi sembra dannatamente assurdo discutere su una cosa del genere».

Hazel mi guardò sgranando gli occhi. Notai come essi fossero arrossati e gonfi e forse ciò contribuiva a renderla quasi irriconoscibile. La vidi portarsi un palmo su di una tempia e serrare la mascella. «Perché non hai chiamato Katie?» domandò, bruscamente.
Sospirai. «Perché tutti i Divoratori ti credono morta e se lei si precipitasse qui, rischieremmo di farci scoprire, lo sai». Feci una breve pausa, giusto per riprendere fiato. «E poi non credo possa essere d'aiuto».

«Certo che no» ribatté, abbozzando una risata sarcastica. «Lei non tratta con i pazzi».

Sbuffai. «Te lo posso ripetere per la millesima volta che non ti reputo tale, ma tanto non funzionerebbe, no?». Iniziai anch'io ad aumentare il tono di voce. Non seppi nemmeno perché lo feci, non lo volevo. Non propriamente, del resto. E invece mi ritrovai quasi a sbottare e ad assumere un'espressione per me fin troppo seria. «Ormai hai questa fissa in testa e nessuno te la toglie» esclamai.

«Dimmi che è diverso, allora. Dimmi che mi darai un aiuto valido, invece di pensare che... Che io sia psicotica».

«Oh, sinceramente... Sinceramente, Hazel, dopo ciò che stai dicendo e ciò che è successo negli ultimi giorni, il fatto che tu sia schizofrenica si fa sempre più plausibile».

Mi pizzicai la lingua con i denti dopo l'ultima frase. Non era mia intenzione dire una cosa del genere, non seppi neanche in che modo tali parole mi fossero uscite di bocca e me ne pentii immediatamente. Il timbro acido che avevo dato a quell'affermazione, poi, non fece altro che peggiorare le cose.
Ci furono secondi di assoluto stallo in cui mi parve che il mio cuore avesse smesso di battere e tutto intorno si fosse fermato. Tuttavia, non appena quell'illusione svanì, il tempo ricominciò a scorrere in maniera fin troppo veloce perché ciò che accadde non poté fare a meno di spezzarmi il fiato.
Non percepii nulla all'inizio. Vidi soltanto il viso di Hazel molto più vicino al mio, i suoi occhi spenti dentro ai miei e qualcosa di terribilmente strano nei suoi iridi, proprio come accadeva quand'era una Divoratrice. Qualcosa di strano che però non riuscii a decifrare.
Poi da essi mi distolsi e il mio sguardo si abbassò per scorgere la sua mano tenere saldamente l'unico Pugnale che avevamo conservato – quello giusto per le “emergenze” - conficcato a fondo nel mio stomaco.

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Capitolo 6
*** Chaos theory. ***


Capitolo 6
"Chaos theory"

 

Hazel



Caos.
L'intero universo si basa su questo ente così definito, eppure complicato. Un insieme di eventi lineari che si susseguono uno dietro l'altro, in modo del tutto imprevedibile.
Qualcosa che accade senza dare un cenno in precedenza, come un fulmine che si schianta a terra in assenza di un lampo.


C'era caos nella mia testa.
C'era caos tutto intorno a me. La mia mano destra era chiusa attorno al manico di quel pugnale maledetto. Sentivo la sua temperatura eccessivamente fredda rispetto alla mia, tanto che per un secondo pensai che esso potesse sciogliersi tra le mie dita come ghiaccio al sole.

Cosa era successo?

Non me ne ero neanche resa conto. Era come se durante quei momenti non fossi stata presente al cento per cento.
Mi ricordavo di aver agito, però non perché lo avevo fatto. Non sapevo perché avessi seguito ciò che le voci dicevano alla lettera, senza battere ciglio. Mi stavano facendo esplodere la testa e avevo, semplicemente, obbedito.
Il mio respiro pareva essersi fermato in quel preciso istante. Gli occhi di Simon erano fissi dentro ai miei, vuoti, spenti. Vidi del sangue fuoriuscire dalla sua bocca e colargli lungo il mento.
«No» biascicai. «No, no, no». Rimossi il pugnale, gettandolo distrattamente sulla moquette. Lui ricadde in avanti, le sue gambe cedettero quasi nell'immediato. Tentai di sorreggerlo, ma ero troppo debole per sopportare il suo peso, perciò cademmo entrambi a terra.
Provai a bloccare l'emorragia come meglio potevo, premendo con un palmo sopra alla ferita. Sembrava tutto inutile. Ogni cosa facessi sembrava inutile, meschina e patetica.
Ero nel panico, stavo tremando e avevo iniziato a piangere.
«Mi dispiace» singhiozzai. «Amore mio, mi... Mi dispiace, io... Mi dispiace».
Ero ben consapevole che scusarsi in quel momento non aveva senso, ma l'ansia mi stava divorando e avevo perso ogni briciolo di logica. I gemiti di Simon che non facevano altro che ricordarmi quanto stesse soffrendo e che ciò accadeva soltanto per colpa mia.

Solo, unicamente per colpa mia.

«Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace» continuavo a ripetere e, fosse stato per me, avrei ripreso in mano quella lama e l'avrei conficcata a fondo nel mio petto per infliggermi la stessa tortura.
Lui tentò di parlare, ma gli fu pressoché impossibile. Il dolore glielo impediva. Afferrai una sua mano e la sostituii alla mia sopra alla profonda lesione. «Tieni... Tieni premuto» dissi, con voce tremante. «Tieni premuto e... Ti prego, ti... Ti prego, non chiudere gli occhi. Ti prego».

Dovetti convincere me stessa a distaccarmi per recuperare il mio cellulare abbandonato sopra al comodino e chiamare un'ambulanza.
Era tutto surreale.
Un terribile incubo mentre le mie palpebre erano ancora sollevate.
Le cose sprofondarono quando una squadra di paramedici irruppe nella stanza e io non riuscii a muovere un muscolo del mio corpo. Rimasi in piedi in un angolo della stanza a fissare loro che spostavano Simon, ormai incosciente, su di una barella. Udivo i loro discorsi, pieni di termini che non capivo e neanche mi sforzai di analizzare tali parole.
Restai immobile fino a quando uno di quegli estranei non mi raggiunse. Lo vidi muovere le labbra e inizialmente non percepii nessun suono. Passò qualche secondo prima che mi rendessi conto del fatto che mi avesse chiesto se volevo salire sull'ambulanza o raggiungere l'ospedale con miei mezzi.
Scelsi la prima opzione anche perché non sarei stata in grado di mettermi al volante. Anzi, fui a stento capace di camminare e fu arduo stare dietro alla corsa che intrapresero una volta giunti in quell'edificio dalle pareti bianche e tutte uguali.
In tutto il tragitto, i miei occhi non si staccarono dal viso di Simon e, osservando i suoi tratti, la fitta al cuore che sentivo non fece altro che crescere in maniera spropositata.
Fui bloccata soltanto da due porte grige su cui spiccava una scritta gialla che recitava “accesso consentito solo al personale medico”.
Fu in quel preciso istante che ogni cosa crollò, quando, abbassando lo sguardo, scorsi le mie mani ricoperte di liquido rosso, lo stesso che impregnava la mia felpa e macchiava le mie gambe.
Ero a pezzi.
Tremai più forte.
Senza guardarmi attorno, corsi nel bagno più vicino. Per mia fortuna, non era presente nessuno in quella piccola stanza rettangolare dalle pareti celesti.
Aprii distrattamente un rubinetto e lasciai che l'acqua fredda mi scorresse tra le dita. Poi iniziai a sfregare le mani tra loro, ma non feci altro che aumentare il danno poiché il sangue rimase lì, quasi fosse indelebile.
Stavo piangendo, le lacrime mi scorrevano sulle guance copiosamente, senza controllo.
Non osai neanche guardarmi allo specchio, certa che il mio riflesso avrebbe soltanto incrementato i miei brividi.

Era il caos.

Un enorme caos.

Alla fine, non fui più in grado di reggermi in piedi e caddi sulle ginocchia, sulle piastrelle gelide.

Ero un disastro.

Ero un tremendo disastro.

Ero distrutta.

Io ero divenuta il caos.

«Brutta storia, eh?».

Stavo ancora fissando le mie mani tremanti, ferme proprio davanti ai miei occhi, quando un suono riempì quel piccolo spazio. Sollevai lo sguardo e vidi l'immagine di Thomàs, in piedi, con le mani nelle tasche dei pantaloni neri che indossava.
Mi lasciai scappare un gemito. «Perché mi stai facendo questo?» biascicai.
Lui sospirò e si piegò sulle gambe così da essere alla mia altezza. «Io non sto facendo proprio nulla» disse. «Parte tutto da te. È ciò che sei».
Scossi vigorosamente la testa. Se qualcuno fosse entrato in quel momento, mi avrebbe quasi certamente trascinato nel reparto psichiatria.

Ero il caos ed ero pazza.

«No» sussurrai. «Io non... Io non sono questo».

«Oh, certo che lo sei e, in fondo, lo sai benissimo. Sai benissimo qual è la tua vera natura, la tua indole».

«Non sono un mostro».

«Forse sei anche peggio di un mostro, dolcezza».

Sorrise dopo aver pronunciato tale frase, come se avesse appena marcato un'ovvietà. Tutto ciò riuscì soltanto a farmi sentire peggio.
Avevo passato secoli a respingere la sola idea di non poter essere pura, ma non mi ero mai ritenuta un mostro, neanche quando mi ero nutrita di anime di persone non suicide.
Non per molto, comunque. Avevo sempre cambiato idea, poi, o qualcuno mi aveva aiutato a farlo.
Eppure, in quel momento, sentirmelo dire in faccia, diretto e in modo così pungente, mi fece precipitare addosso un peso enorme.

Oltre che caos, ero un mostro.

«Smettila» dissi ancora, con un fil di voce. «Che... Che diavolo vuoi da me?».

«Cerco solo di aprirti gli occhi».

Scossi vigorosamente la testa. Mi appoggiai al muro rivestito di piastrelle fredde e mi alzai in piedi, sperando che le mie gambe non cedessero. Thomàs mi imitò, quasi fosse il mio riflesso.

«Va' via» esclamai e tentai di tener la mia voce il più ferma possibile.

Lui rise. «Credi che cacciandomi risolverai tutti i tuoi problemi?».

«Va'. Via» ripetei, scandendo ogni parola.

Ancora non si mosse. Tornò serio, inclinando di poco il capo di lato. «Accetta la realtà, Hazel» sibilò. «Non puoi scappare».

«Ho detto di andartene! Va' via». Urlai quell'ultima frase con tutto il fiato che avevo in corpo.

Urlai così forte da farmi pizzicare la gola.

Strizzai gli occhi e, quando sollevai nuovamente le palpebre, il silenzio era tornato a riempire quel bagno d'ospedale.

Ero sola.

Di nuovo.

Avevo ripreso a tremare o forse non avevo mai smesso.
Barcollai fino a raggiungere il corridoio spoglio e anonimo - uguale a tutti gli altri in quell'edificio - e mi fermai soltanto davanti alle due porte grige.
Tutte le mie più grandi paure si erano avverate, una dopo l'altra. Avevo perso me stessa e avevo perso Simon.
Dubitavo avrebbe potuto perdonarmi una cosa del genere.

Chi lo avrebbe fatto?

***

 

«Oh, sei qui!».

La voce di Lexie mi fece sobbalzare. Tentai in ogni modo di rendere meno evidenti i tremori che mi stavano attanagliando in tutte le parti del corpo e sperai di aver avuto un discreto successo.
Ero ancora in piedi davanti alle dannate porte grige. Mi passai una mano sul viso e mi voltai, trovando lei proprio dietro di me. Aveva un'aria preoccupata e ansiosa, il che era normale. L'avevo chiamata al cellulare ed ero soltanto riuscita a balbettare qualcosa, come se stessi soffocando. Era persino strano che mi avesse capito e si fosse precipitata in ospedale.

«Che è successo?» domandò. «Simon dov'è?».

«E'...» biascicai. «Non lo so, credo... In sala operatoria. Sono qui da un'ora e... E nessuno mi ha detto ancora niente».

«Ma cosa è successo, Hazel?».

A ciò non sapevo cosa rispondere. 
Non potevo raccontare esattamente cos'era accaduto. Non potevo dire a lei o a qualche agente della polizia che delle voci nella mia testa mi avevano costretta a pugnalare Simon. Sarebbe stato sciocco e allora... Beh, allora sarei seriamente finita chiusa in una stanza dalle pareti imbottite.
Sebbene sapessi che per il bene di chi amavo tale soluzione sarebbe stata giusta e coerente, una minima parte di me era così egoista da non voler esser imprigionata perché quella stessa parte era convinta di essere sana, ma di aver qualcosa di dannoso dentro che doveva esser riparato al più presto.
La verità, per cui, era da escludere. Perlomeno, da me non sarebbe mai provenuta. Evitai, quindi, di dire qualsiasi cosa a riguardo.
Scossi appena il capo e sospirai. «Tu devi prenderti cura di lui» mormorai.

Lexie aggrottò le sopracciglia, perplessa. «Come?» chiese.

«Prenditi cura di lui» ripetei. «Se lo merita, okay? Merita di... Esser protetto e... E al sicuro».

«Cosa? Hazel, non... Non ti capisco, non...».

«Fallo e basta».

«Perché?».

Era ovvio che la stessi confondendo. Ero pragmatica e odiavo esserlo. «Non posso spiegarti perché» dissi. «Promettimi soltanto che lo farai, d'accordo?».

Lei mi fissò con occhi sgranati per qualche secondo. Tentennò e alla fine fece cenno di sì con la testa.
Non conoscevo così bene Lexie, ma Simon mi aveva sempre raccontato di adorarla, di avere uno splendido rapporto con quella sua collega e, probabilmente per esclusione, ero certa che fosse la persona migliore a cui affidarlo.
«Grazie» soffocai. Mi strinsi nelle spalle e feci per andar via, ma venni bloccata da una sua mano che strinse un mio braccio. «Tu dove vai?» chiese.

Esitai prima di rispondere. «Non lo so» mormorai «ma meglio se è il più lontano possibile da qui».

Feci una breve pausa, passandomi una mano sul viso, distratta. «Digli che mi dispiace, okay?» biascicai «e che... Che lo amo e lo amerò sempre, nonostante tutto».

Lexie abbozzò un sorriso e riconobbi il sarcasmo. Non avevo intenzione di riprenderla per ciò. Effettivamente, aveva addirittura il diritto di usarlo. «Vuoi che gli dica solo questo?» domandò.

Annuii. Non ero in grado dire altro. Non volevo risultare ancora più patetica ed ero sicura che in quel momento lei mi stesse giudicando e fosse giunta alla conclusione che io fossi la peggior persona sulla faccia della Terra.
Mi congedai, allora, senza lasciarle la possibilità di pormi ulteriori quesiti ai quali non avrei potuto ribattere.
Camminai veloce, guardando dritto davanti a me e non osai voltarmi neanche per un secondo perché se lo avessi fatto, se avessi permesso a me stessa di girarmi, probabilmente mi sarei bloccata e sarei tornata sui miei passi e non potevo permetterlo.
Non potevo lasciare che il caos distruggesse definitivamente anche lui.
Strinsi i pugni lungo i fianchi e proseguii fino all'uscita dell'ospedale, ignorando gli sguardi di chi mi vedeva passare e bisbigliava cose non piacevoli sul mio conto.
Del resto, ai loro occhi risultavo una ragazza coperta di sangue che si accingeva ad uscire per strada, sotto la pioggia, senza la preoccupazione di bagnarsi.

Ed effettivamente di bagnarmi non mi importava.

Le gocce d'acqua gelida che scendevano dal cielo scuro parvero lenirmi almeno un briciolo. Avrebbero coperto le mie lacrime, perlomeno.

Mi diressi verso casa. Non che avessi l'intenzione di rimanere lì.

Io dovevo sparire.

Volevo solo recuperare un paio di miei vestiti e... Chissà che altro.

In realtà, ero alla sbaraglio. Immaginai fosse una conseguenza del mio caos.

Entrando nell'appartamento, fu inevitabile non far ricadere lo sguardo sulla pozza rossa che aveva macchiato in modo quasi indelebile la moquette beige. Solo tale visione riuscì a smorzarmi il respiro e impedirmi di muovermi.
Ci misi più di qualche minuto a convincere le mie gambe a riprendere la loro normale funzione e non farmi rimanere bloccata sulla soglia della porta della camera da letto.
Mi passai ripetutamente le mani tra i capelli, poi, freneticamente, con già il fiatone come se avessi appena finito di correre una maratona, iniziai a tirare fuori dall'armadio ogni cosa che mi capitava a tiro, lanciando gli abiti sopra al materasso e, subito dopo, ficcandoli alla rinfusa dentro un borsone marrone e trasandato.
Mi fermai all'improvviso. Il disordine di quella stanza era micidiale considerando il casino che avevo in testa. Senza che me ne potessi accorgere, avevo cominciato – o forse iniziato di nuovo – a piangere e le lacrime aumentarono quando, proprio accanto ai miei piedi, scorsi quel dannatissimo pugnale, sporco di sangue.
Non fui in grado di evitare il mio crollo.
Il mio ennesimo crollo che andava a dimostrare, ancora una volta, quanto fossi rotta e sbagliata.
Caddi sulle ginocchia. I singhiozzi del mio pianto mi provocarono delle fitte di dolore al petto ancora più acute rispetto a quelle avute in precedenza. Era come se qualcuno ci avesse ficcato la mano e in quel momento stesse stritolando il mio cuore, godendo della mia sofferenza e tenendomi in bilico tra la vita e la morte.
Niente era più certo.
Me ne ero andata senza neanche assicurarmi che lui stesse effettivamente bene. Mi ero soltanto aggrappata alla speranza che se la sarebbe cavata e che forse non mi avrebbe odiato per sempre.

«Ci diamo alla fuga, eh?».

Senza nessun preavviso, una voce maschile e sconosciuta mi fece sobbalzare. Ero quasi certa si trattasse di un'altra delle mie allucinazioni, sebbene quel tono non lo avessi mai percepito prima.
L'istinto mi portò ad afferrare il Pugnale saldamente, per quanto mi odiassi per anche solo toccare quell'arma. Mi alzai scatto, spalancando gli occhi.
Vidi un ragazzo moro con le braccia incrociate, fermo sulla porta e con il capo lievemente piegato di lato. Ma io non sapevo chi fosse.
Lui mi guardò per un secondo. Fissò il mio viso, poi la lama che brandivo e accennò una risata.
«Mi stai minacciando con un coltello?» esclamò. «Davvero? Mi minacci con un coltello dopo aver pugnalato quasi a morte il tuo ragazzo proprio con quello?».

Feci una smorfia. Ancora non riuscivo a collocarlo nella realtà e nemmeno nelle mie visioni.

«Chi sei?» dissi.

«Questo è poco importante». Alzò le spalle e fece un passo in avanti. Io, di riflesso, ne feci uno indietro. «Se te lo stai chiedendo» continuò «la risposta è sì, sono reale e non solo nella tua testa».

Mi venne da ridere, ma fu qualcosa dettato puramente dall'isterismo. Mi stava prendendo in giro o cosa? Come aveva fatto ad entrare? Perché era lì in quel preciso istante?

«Chi diavolo sei?» domandai ancora.

Il ragazzo roteò gli occhi. Pareva esasperato da ogni mia singola parola. «Giuro, mi aspettavo proprio questa accoglienza».

«Beh, sei entrato in casa mia e non ti conosco. Dovrei accoglierti a braccia aperte?».

«Considerato quel che ti sta succedendo, Hazel...». Fece una breve pausa, subito dopo aver pronunciato il mio nome che aveva, di proposito, calcato.

Come lo conosceva, poi? Perché quello strano tizio sembrava possedere un resoconto dettagliato della mia vita quando io non lo avevo mai visto prima?

«Direi di sì» completò la frase. «Dovresti fare i salti di gioia».

«Chi sei?» chiesi per l'ennesima volta e il mio tono fu quasi di supplica.

«Uno che può aiutarti».

«Perché dovresti aiutarmi?».

«Perché ho fatto una promessa e, in genere, mantengo sempre le mie promesse».

Aggrottai le sopracciglia. Non era propriamente quella la risposta che mi aspettavo, ma sembrava essere l'unica che potessi mai avere. «Una promessa fatta a chi?».

Lui esitò e abbassò lo sguardo. 
Non seppi se fosse per mia impressione o cosa – in quell'ultimo periodo la mia percezione del mondo esterno e delle persone era nettamente deviata – ma un velo di malinconia gli si posò addosso.

«Thomàs» sussurrò infine. «Thomàs Lefevre».

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Capitolo 7
*** Confusion. ***


Capitolo 7
"Confusion"

 

Simon


La confusione è definita come uno stato psicologico in cui il soggetto non riesce ad organizzare ciò che percepisce nella realtà ed è colpito da impulsi ravvicinati e contraddittori che, spesso, non conducono a nessuna conclusione logica.
Avevo sperimentato già innumerevoli volte tale sensazione, non era qualcosa di assolutamente nuovo con la quale non riuscivo a rapportarmi.
Eppure, in quel particolare caso, mi sembrava di esser finito per davvero in una sorta di dimensione parallela alla quale non credevo di appartenere.
Era come se il mio intero mondo fosse stato messo a soqquadro e adesso non riuscisse più a tornare allo stadio originario.

 

Ero bloccato in un letto d'ospedale, mi faceva male dappertutto. Avevo sonno, ma ogni qualvolta che tentavo di chiudere gli occhi, gli ultimi catastrofici avvenimenti tornavano a popolare la mia testa e mi impedivano di dormire.
Avrei soltanto voluto uscire da quel maledetto luogo e... Non sapevo cosa. Non avevo la benché minima idea di cosa fare, di come comportarmi.
Quando mi ero svegliato, dopo un'operazione che, a quanto avevo capito, era durata ore, al mio fianco avevo trovato Lexie. Aveva un'espressione dispiaciuta stampata in faccia e fu enigmatica quando mi spiegò cosa Hazel le aveva detto. Mi chiese qualche spiegazione a riguardo, ma non fui in grado di aggiungere dell'altro, un po' perché effettivamente non sapevo cosa fosse successo, un po' perché non volevo dirglielo.
Tacqui anche con degli agenti di polizia che mi riempirono di domande. Inventai una bugia colossale, dando la colpa a degli aggressori fittizi. Non che la mia storia reggesse molto, tuttavia avevamo poco e niente di valore in casa, per cui avrei potuto tirar giù una lista immaginaria di elementi mancanti.
Una parte di me si era pentita di aver nascosto la verità, ma forse non riuscivo a dirla ad alta voce. Era complicato persino ammetterla a me stesso.
Il punto era che non credevo che quella fosse la pura verità.
Qualcosa era successo.
Qualcosa di strano, privo di logica e assurdo.
In quella stanza, non c'eravamo io ed Hazel. Non la mia Hazel, perché la mia Hazel non avrebbe mai compiuto un simile gesto.
Di ciò ero sicuro e niente mi avrebbe fatto cambiare idea.
Avrei potuto risultare fuori da ogni logica, come uno che nega l'evidenza, ma... Era così. Non una sola parte del mio cervello era convinta del contrario e mi dannai per aver creduto che fosse solo qualche disagio mentale dovuto agli avvenimenti che avevano caratterizzato la nostra esistenza nell'ultimo anno.


 

«Si può?».

Lexie si preoccupò di bussare alla porta della stanza sebbene vi fosse praticamente già entrata. Era sua abitudine agire in quel modo. Replicai con lieve cenno della testa, ma la mia bocca rimase sigillata. Lei abbozzò un sorriso e mosse qualche passo fino a compiere il giro completo del letto e sedersi proprio al mio fianco su di una sedia apparentemente molto scomoda.
«Come ti senti?» chiese. Non risposi neanche a ciò. Il mio sguardo era perso nel vuoto, io ero del tutto assente. Il mio corpo era lì, dolorante e mal conciato, e la mia mente altrove.

«Simon...».

«L'hai sentita?». Emisi qualche suono soltanto per porre quella domanda che ormai avevo iniziato a fare ogni giorno, anche più volte, e che mai aveva avuto una risposta positiva.

«No» sospirò Lexie. Fece una breve pausa, forse aspettandosi che io aggiungessi qualcosa o che, semplicemente, trovassi il coraggio di guardarla negli occhi. Non feci nessuna delle due cose.

«Se ne è andata, Simon» disse, allora.

«Non se ne è semplice andata» esclamai. Alzai il tono di voce e ciò mi costò una fitta di dolore all'addome. Dovetti trattenere il respiro per un attimo per farlo passare. Spostai lo sguardo su Lexie e lo feci solo allora, dopo tre giorni. «Non se ne è semplicemente andata» ribadii, cercando di essere più calmo. «Non senza una spiegazione».

«Allora perché non è qui?».

Serrai la mascella. Fu come andare a sbattere contro un muro perché a quello non sapevo replicare. Non sapevo cosa era passato nella testa di Hazel quando aveva deciso di andarsene via da me. Probabilmente i sensi di colpa l'avevano consumata a tal punto di spingerla a quella conclusione.
Come biasimarla? Razionalmente, avrei dovuto addirittura smettere di pensarla, dimenticarla perché mi aveva quasi ucciso, eppure... Eppure non ci riuscivo.
Lexie mi fissò per qualche istante, dopo di che spostò lo sguardo altrove, sospirando. Aveva cercato in ogni modo di tirarmi su di morale in quei giorni e io avevo sempre smontato ogni suo tentativo. Un po' mi dispiaceva, dal momento che lei era lì solo per aiutarmi e il mio comportamento, di certo, non fungeva da giusto ringraziamento.
Tuttavia, non fui in grado di aggiungere dell'altro alla nostra conversazione che non ebbe alcun seguito. Ci fu soltanto silenzio fino alla fine dell'orario di visita. Poi Lexie se ne andò, congedandosi con un freddo «Ci vediamo domani».
Fui nuovamente solo, col rischio di annegare tra i miei pensieri.
La stanza era calata nel buio. Solo il lieve filtro di luce di qualche lampione traspariva dalle finestre.
Mi ero rifiutato di mangiare la cena che l'ospedale mi aveva fornito – una disgustosa zuppa di verdure e altro che neanche riconobbi. L'infermiera che me l'aveva portata mi aveva rimproverato, quasi fossi un bambino, ma furono parole che mi scivolarono addosso abbastanza rapidamente.
In quel momento, il cibo non risultava essenziale. Niente lo era, finché la mia confusione persisteva.
Dovevo ottenere delle risposte, dovevo avere qualcosa a cui aggrapparmi o un muro da andarci a sbattere contro. Volevo una spiegazione che fosse logica e avrei anche accettato una cruda e amara verità, pur di ottenere un risultato.

Mi guardai attorno. Il silenzio in quel posto era opprimente e mi sembrava quasi che le pareti di quella camera mi stessero venendo contro con la sola intenzione di schiacciarmi.
Ero agitato, irrequieto e sicuramente non sarei riuscito a dormire. Non ci provai nemmeno. Seguii il mio istinto, quello che spesso era sbagliato e fuori luogo.
Mi strappai gli aghi conficcati nel dorso della mia mano destra. Mi feci male e trattenni a stento un lieve urlo di dolore. Strinsi i denti e mi preoccupai di rimuovere ogni altro segno da paziente, compreso quell'orribile camice bianco a punti blu.
Abbandonai il letto con non poca fatica e non appena i miei piedi toccarono terra, una fitta all'addome mi spezzò il respiro. Dovetti fermarmi a riprendere fiato per qualche secondo prima di poter proseguire.
Recuperai i miei vestiti in un piccolo armadietto di legno lì presente e indossai quel jeans strappato e quella felpa grigia in un tempo che parve un'eternità. Probabilmente, considerati i miei movimenti limitati e il dolore costante che la ferita mi provocava, ci impiegai davvero tantissimo tempo a portar a termine un'operazione così semplice.
Sperai di non aver fatto eccessivo rumore. Arrancai fino alla porta, la aprii e ne superai la soglia, ritrovandomi in uno dei tanti corridoi, spoglio e deserto. Mi sostenni alla parete con una mano, mentre l'altra rimase appoggiata lievemente sopra l'addome, come se fungesse per una valida precauzione contro un ulteriore fitta.
Avanzai a passi davvero lenti e goffi, tanto che fui sul punto di cadere praticamente ad ogni movimento. Mi morsi forte il labbro inferiore, ignorando ogni lamento che il mio corpo produceva.
Se ci mettevo così tanto solo per tentare di abbandonare l'edificio, non osai immagine cosa sarebbe accaduto in strada quando non avrei avuto nulla a cui aggrapparmi.
“Non fare il bambino” rimproverai me stesso. Strinsi i denti e mi sforzai per non appoggiarmi più alla parete e riuscire a stare in piedi in maniera consona.
Ebbi successo nel non cadere sul pavimento per più di qualche metro. Fui in grado di raggiungere l'ascensore, vi entrai e premetti il pulsante del piano-terra.
Tirai un sospiro di sollievo, mentre l'abitacolo iniziò a muoversi, anche se... Beh, la fortuna non era mai stata mia compagna e quasi mi venne da ridere – istericamente – quando la mia discesa si bloccò tra il terzo e il secondo piano.
«Oh, sul serio?» esclamai, esasperato. Schiacciai a caso ogni pulsante presente sul piccolo quadro metallico, ma nessuno di essi rispondeva ai miei comandi. «Andiamo!» dissi di nuovo, alzando gli occhi al cielo.

«Ecco perché è difficile sgattaiolare via dagli ospedali».

Ad un tratto, una voce acuta e femminile mi fece sobbalzare. Mi voltai di scatto, facendomi pizzicare di gran lunga la ferita. Feci una smorfia e quando fui nuovamente in grado di vedere in modo chiaro, scorsi Katie, proprio davanti a me, con le braccia incrociate sul petto e un mezzo sorriso stampato in faccia. «Dove credi di andare, tigre?» disse.
Spalancai la bocca. Ero sorpreso di vederla lì. Che ci faceva, poi? Io non l'avevo chiamata.

«Tu cosa...» balbettai.

«Oh, il tuo non saper formulare le domande mi era mancato». Scosse appena la testa e prima che me ne potessi rendere conto appoggiò una mano sulla mia spalla e lo spazio attorno a noi cambiò; tornò ad essere la mia maledetta camera spoglia, col letto disfatto e la poca luce.
E così tutti i miei sforzi vennero vanificati.
A Katie bastò spingermi appena con due dita per farmi finire seduto sul materasso, mentre lei rimase in piedi su quei tacchi alti e, a mio parere, del tutto scomodi.

«Che ci fai qui?» domandai, finalmente, cercando di rendere meno evidente il mio fastidio. Insomma, ce l'avevo quasi fatta, ero quasi fuori.

«Hai bisogno d'aiuto, no?» replicò.

«Sì, ma... Chi ti ha chiamato? Cioè, io...».

«Ho i miei informatori».

«I tuoi informatori?».

«Credevi davvero che vi lasciassi andare alla deriva con la possibilità di perdere qualsiasi contatto con chi è direttamente collegato al Creatore e... Beh, la sua compagna?».

Spalancai gli occhi. «Ci hai seguiti?».

«Hai perso parte del discorso. Vi ho fatti seguire».

«Da chi?».

«La risposta è abbastanza ovvia. Davvero non ci arrivi?».

Ci pensai un attimo su. L'ovvietà di Katie era piuttosto relativa. Avrebbe potuto essere qualcuno di estremamente scontato, come qualcuno lontano anni luce da ogni mio sospetto.
Di fatti, non riuscii a trarre nessuna conclusione nei minuti che seguirono. La Divoratrice sbuffò. «Simon, puoi anche essere il ragazzo più adorabile del mondo» esclamò «ma quando si parla di farti nuovi amici, sei davvero pessimo. Il fatto che una ragazza molto carina e simpatica ti parlasse senza molti problemi o senza che scappasse, non ti ha insospettito nemmeno un po'?».

Abbozzai un sorriso, ironico e privo d'entusiasmo. Sì, la sua ovvietà in quel caso fu più comune del solito. «Lexie» sospirai.

«Già, Lexie».

«Ti ha detto di catapultarti qui perché la situazione stava precipitando?».

«All'incirca. Le ho chiesto di avvertirmi se accadeva qualcosa di strano e... Beh, tu sei stato pugnalato, Hazel è scappata... Direi che è piuttosto strano, oltre al fatto che mi ha detto che continui a mentire a chiunque». Fece una breve pausa, spostando le mani sui fianchi. «Allora?» proseguii. «Vuoi raccontarmi cosa è successo davvero?».

La fissai per un breve istante. Con lei potevo parlare liberamente, senza celare alcuni dettagli e... In realtà, stando a quanto appena sentito, avrei potuto farlo anche con Lexie e, forse, non sarebbe successo ciò che era successo.

«E' stata Hazel» sussurrai. «E' stata lei a ferirmi».

Katie fece una smorfia. Non seppi dire se fosse perplessa, incredula o che altro. «Cosa?» chiese, con tono fiacco.

«Le sono capitate delle cose, ultimamente» spiegai. «Aveva gli incubi, continui sbalzi d'umore. Ho pensato che fosse dovuto a ciò che aveva passato. Sai, la morte di Martha, quella di Thomàs, la sua. Insomma, quando io sono tornato, ero diverso e... E anche io avevo incubi ed ero a disagio in molte situazioni. Ho pensato fosse qualcosa di passeggero e volevo soltanto aiutarla a superarlo. Invece... Invece le cose sono degenerate. Stavamo litigando per una sciocchezza e lei ha... Ha dato di matto».

«Dare di matto non è una giustificazione per fare ciò che ha fatto. Lo so persino io».

«Ma non era lei. Non completamente». Mi morsi piano il labbro inferiore. Dallo sguardo che mi rivolgeva Katie, capii in che modo mi stesse fissando, come un pazzo delirante che si ostina a respingere la realtà per paura di soffrire troppo. Tuttavia, come già affermato in precedenza, ero del tutto convinto di ciò che stavo dicendo.

«Ho visto qualcosa nei suoi occhi» proseguii. «Qualcosa di diverso, una specie di... Di riflesso, così come accadeva quando era una Divoratrice. Però non era rosso, era di un altro colore, simile al cobalto».

Katie mi ascoltò con attenzione, sebbene continuasse ad essere titubante, ma, perlomeno, aveva smesso di guardarmi come se fossi fuori di testa. «Credi sia sotto l'influenza di qualcosa?» domandò.
Scossi leggermente la testa. «Non lo so» dissi, a bassa voce. «A parte i Divoratori, non ho molta esperienza con altri fattori sovrannaturali, ma c'è... C'è qualcosa di sbagliato in lei, lo so, ne sono sicuro. Hazel non... Non mi avrebbe mai fatto del male».

«Quindi stavi scappando per cercarla?».

«Ci stavo provando».

«Non penso sia una buona idea».

«Perché no?».

«Perché, per sua volontà o meno, ti ha pugnalato. Potrebbe capitare di nuovo, non puoi saperlo».

«Non capiterà». Feci cenno di no con il capo. «Ma devo parlarle».

«Non esiste. Tu resti qui».

Abbozzai una risata, ironica. «Non prendo ordini, Katie». Lei sorrise appena. Non disse nulla in replica, ma fece un solo passo avanti e premette con due dita sopra la mia ferita all'addome che, ovviamente, a causa della pressione, finì per riaprirsi e io sanguinai di nuovo.
Trattenni a stento un urlo, mordendomi forte il labbro inferiore e fulminai Katie con lo sguardo.
«Oh, tu guarda» esclamò, soddisfatta. «I punti sono saltati. Dovranno tenerti qui qualche giorno in più». Fece un sorriso, allargando di poco le braccia. «Un vero peccato».
Si congedò in quel modo e sparì dalla stanza senza darmi il tempo di replicare.


***


Rinunciai all'idea di tentare di fuggire di nuovo. Sarebbe stato inutile, almeno quella notte, e il mio corpo, di certo, non avrebbe retto.
Cercai di prendere sonno e riposarmi per qualche ora, dopo che un'infermiera richiuse per bene la mia ferita. Non ne fui davvero in grado, riuscii a dormire per solo mezz'ora o forse meno, ma non risultò un problema poiché l'alba fu imminente e i lievi raggi del sole iniziarono presto a inondare la stanza, così come l'odore della colazione disgustosa che mi avrebbero servito da lì a poco.
A quel punto, scappare era tornata ad essere un opzione, se non fosse stato per l'arrivo di Lexie.
Si presentò alle sette e trenta in punto, come ogni mattina. Entrò nella camera e non si scomodò a salutarmi, forse perché ben cosciente del fatto che anche quella volta non le avrei risposto. Si accomodò accanto al letto, su quella sedia di metallo tanto scomoda. La fissai per un secondo, poi distolsi lo sguardo.
«Avresti dovuto dirmelo» sussurrai. Lei abbozzò una risata. «Che sono stata assoldata per stalkerarti?» esclamò. «Certo, come no».

«Beh, dopo tutto il tempo passato a proclamarti mia amica, un lieve accenno non mi sarebbe dispiaciuto».

«Io sono tua amica, Simon».

«A me non pare proprio».

Lexie sospirò e la intravidi scuotere appena la testa. «Tu non avresti neanche dovuto scoprirlo» disse. «Se le cose non fossero degenerate, non avrei rivelato nulla a Katie. Avrei continuato a dirle che tutto andava bene».

«Non è quello il punto».

«E allora qual è?».

Lasciai quella domanda in sospeso. C'era davvero, poi, un punto? Non sapevo come sentirmi a riguardo.
Consideravo Lexie come una persona importante, un appoggio per me, un sostegno e scoprire che se Katie non le avesse ordinato di avvicinarsi a me, lei non ci sarebbe stata, mi provocava un vuoto nel petto difficile da colmare.
Forse era una stupidaggine. Forse, in fondo, Lexie era davvero mia amica come si proclamava e non lo stava facendo per un insulso accordo con una Divoratrice.
Il problema era che non ero a conoscenza di come le cose fossero andate e mi impauriva scoprirlo.

«Lascia perdere» conclusi. Non mi andava di proseguire quel discorso e, considerato il suo silenzio, non andava neanche a lei.

Non fu necessario capitolare in altri giri di parole. Dopo qualche secondo, infatti, l'arrivo di Katie nella stanza impedì ogni inizio di un altro discorso. Mi sorprese che si fosse materializzata lì senza preoccuparsi che qualcuno, da fuori, potesse vederla, ma, del resto, lei era la regina dell'essere incauta.
Sbuffò prima di dire qualsiasi altra parola. «Hazel è praticamente scomparsa» esclamò poi. «Ancora ti sorprendi che vi abbia messo qualcuno alle costole? Siete bravi a nascondervi».
Feci una smorfia. Il fatto che non l'avesse trovata non stava a significare che si fosse davvero volatilizzata. Non che potessi affermarlo con certezza, ma una delle miriadi di sensazioni che provavo mi suggeriva che Hazel non se ne fosse andata per sempre.
Sì, era vero, era brava a nascondersi. Tuttavia, io la conoscevo così bene ormai che avrei potuto tirar giù una lista di suoi rifugi e scovarla in meno di mezza giornata.
Ciò nonostante, non rivelai nulla né a Katie né a Lexie. Anzi, mi finsi disperato e triste, come se davvero non avessi idea di come ritrovarla.
Prima che potessero raggiungerla loro e sottoporla a qualche interrogatorio o che altro, dovevo intervenire io: dovevo parlare, dovevo tentare di capire cosa le fosse successo e, probabilmente, rimediare alle mie mancanze precedenti.

«Anche se la trovaste» dissi, ad un tratto, interrompendo un dialogo tra le due che mi parve privo di senso. «Che intenzioni avete?».

«Mhm, non lo so» replicò Katie, alzando appena le spalle. «Probabilmente la chiuderei in qualche cella con le sbarre di ferro, mentre cerchiamo di capire che cosa è andato storto nel suo cervello».
La fulminai con lo sguardo a quella risposta e lei spalancò gli occhi, come a intendere che non avesse detto nulla di sbagliato. «Beh, di sicuro non le offrirei una bella vacanza, tu che dici?» ribatté. «Insomma, ha aggredito te e tu sei la persona che ama. Cosa pensi possa fare con qualcuno che odia?».

«Non farà nulla di male, non...». La mia frase fu interrotta bruscamente. «Perché continui a difenderla?» esclamò Lexie. «Ti ha ferito e non è una cosa metaforica. Lo ha fatto sul serio, con un coltello. Non credi sia piuttosto logico mantenere le distanze?».

Abbozzai una risata, ironica. «Tu neanche la conosci» mormorai.

«Può darsi. Ma se qualcuno mi avesse fatto ciò che lei ha fatto te, avrei trovato un modo di fermarla e non mi sarei preoccupata del suo bene».

Mi pizzicai leggermente il labbro inferiore con i denti. Lo sguardo di Lexie era serio, fisso su di me, e la sua mascella era serrata.

«Credo che tu non abbia mai amato qualcuno sul serio, altrimenti... Altrimenti non parleresti così» conclusi.

I suoi occhi rimasero immobili su di me per qualche altro secondo. Successivamente, lei si alzò con assente delicatezza, rischiando di far cadere la sedia su cui si era accomodata. «Scusate, ho bisogno di un po' d'aria» sibilò e uscì di corsa dalla stanza.

«Sai, per essere un umano hai una delicatezza pari a zero» commentò Katie.

«Non cercavo di essere gentile, ho solo detto la verità» sbottai.

«Lexie c'è stata per te negli ultimi mesi, anche se sotto mio ordine. Credici o no, sono certa che si sia affezionata a te comunque e che... Pensa solo alla tua incolumità».

«E' un pensiero carino, davvero, ma... So badare a me stesso».

Katie rise e sembrò fosse unicamente per prendermi in giro. «Sei in un letto d'ospedale, Simon» disse. «Non credo tu sia tanto bravo da prenderti cura di te stesso».

Non replicai. In quell'edificio bianco e anonimo, io ero il prigioniero perfetto e lo odiavo.
Ero consapevole che Katie fosse mossa dalle migliori intenzioni – perlomeno, quella era l'impressione – ma io ero fin troppo distaccato per collaborare.
Una parte di me era convinta del contrario, ovviamente, ma non c'era mai stata una volta in tutta la mia vita in cui ogni angolo del mio cervello fosse immobile su una sola opinione.
In quel momento, tuttavia, andava bene così. Sarei riuscito a fuggire, avrei trovato Hazel e avrei sistemato le cose.
Ce l'avrei fatta, in un modo o nell'altro.

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Capitolo 8
*** A little bit of me. ***


Capitolo 8
"A little bit of me"

 

Hazel


Avevo terribilmente freddo, eppure non era una di quelle notti gelide d'inverno. Tale stagione pareva lontana anni luce o forse ero soltanto io che avevo perso la cognizione di tempo e spazio.
Ero in bilico su quella scala antincendio di un ospedale decadente. Cigolava ad ogni mio movimento e avevo timore di cadere e schiantarmi al suolo. Ciò nonostante, l'idea di andarmene non mi sfiorava affatto. Perlomeno, non così presto. Da quella posizione, seppur scomoda, riuscivo a scorgere Simon dormire attraverso la finestra senza che lui potesse vedermi nel caso si fosse svegliato.
Non avrei dovuto tornare indietro, lo sapevo, ma avevo il bisogno di sapere che stesse bene altrimenti non avrei potuto portare a termine ogni mia intenzione.

«Sai, arrampicarsi su una scala antincendio e spiare qualcuno mentre dorme è molto inquietante». La voce di quell'irritante ragazzo sopraggiunse anche in quel momento. Mi aveva torturato in quei ultimi tre giorni: pareva essere ovunque io fossi. «Oltre ad essere incredibilmente fuori moda» proseguì.

«Nessuno ti ha ordinato di seguirmi fin qui» replicai, non scomodandomi neanche a voltarmi per vedere come avesse fatto a raggiungermi. La sua voce era abbastanza.

«Ho cercato di parlarti civilmente un sacco di volte, ma te la sei sempre svignata».

«Il tuo non è “parlare” dal momento che non rispondi a nessuna delle mie domande». Sbuffai e solo allora osai girarmi di poco, giusto per incrociare distrattamente il suo sguardo. Era rannicchiato a qualche metro da me, con addosso un cappotto nero. «Non mi hai nemmeno detto il tuo nome».

Lui accennò un sorriso. «Oh, perché, ti interessa?».

Roteai gli occhi. Per certi versi, mi ricordava Thomàs: era sarcastico e fastidioso allo stesso livello.

«No» risposi. «Posso anche continuare a chiamarti “tizio irritante” o “rottura di scatole”. Come preferisci».

«“Rottura di scatole” è un bel soprannome».

«Attento, potrei usarlo sul serio».

«Non ho dubbi su ciò, ragazza antipatica».

Sbuffai. Quel tipo era il clone di Thomàs.

«Mi chiamo Matthew, comunque» disse, poco dopo. «Matthew Lloyd».

Scossi appena la testa. «Mi presenterei anche io, ma a quanto pare conosci già tutto di me».

«Ehi, non è che mi sia piaciuto seguirti in ogni dove» si lamentò. «Sei piuttosto strana delle volte».

«Io non sono strana».

Lui alzò di poco le braccia, come se ciò stesse a significare che si stava arrendendo in quella sorta di discussione.

Mi rimisi in piedi, senza aspettare che lui aggiungesse un'eventuale replica. Quel mio solo gesto riuscì a fare cigolare l'intera scala, ma non ci badai molto. Scansai Matthew e mi accinsi a scendere fino a toccare nuovamente terra. Non dovetti neanche voltarmi per accorgermi che lui mi aveva seguito.
Infilai entrambe le mani nelle tasche della mia giacca marrone e iniziai a camminare a passo svelto, con il mio stalker alle calcagna.

«Vedi?» lo sentii dire, senza però, ancora, vedere il suo volto. «La storia si ripete: scappi sempre».

«Non sto scappando» puntualizzai. «Il sole sorgerà a breve ed è difficile non essere visti con la luce».

«Quindi, nuovo piano? Vivere nell'ombra?».

«Finché non capisco quel che mi sta succedendo, sì. E, per la cronaca, tu dovresti aiutarmi, ma non hai ancora fatto nulla di concreto».

«Certo, perché sei ostile nei miei confronti».

«Sono ostile perché non mi piaci».

A quel punto, Matthew accelerò il passo e me lo ritrovai di fronte all'improvviso, tanto che dovetti fermarmi di scatto e bruscamente per non andargli addosso. «Beh, in tutta sincerità, neanche tu mi piaci» disse.

«Allora perché sei ancora qui?».

Matthew esitò, mordendosi appena il labbro inferiore. «Te l'ho detto» mormorò. «Ho fatto una promessa».

Abbozzai una risata, isterica. Il suo atteggiamento mi dava sui nervi e qualcosa mi suggeriva che ciò non sarebbe mai cambiato. Mi chiesi, tuttavia, per quale motivo, nonostante tutti i sentimenti forti e repellenti che provavo nei suoi confronti, le maledette voci tacevano sempre in sua presenza.

«La promessa, ovvio» esclamai. «Perché l'hai fatta? E quando? Che cosa hai promesso di fare?».

«E' complicato».

«Se devi aiutarmi a non impazzire, qualcosa dovrai pur dirmi».

«Sì, ma prima ho bisogno che tu ti fidi di me».

Lo fissai, incerta, per qualche secondo. L'espressione sul suo viso era cambiata: se nelle frasi precedenti era vaga e appena scherzosa, adesso si era fatta seria ed era tornato quel velo di malinconia sopra i suoi occhi. «Come faccio a fidarmi di te se a malapena ti conosco?» mormorai.

«Non lo so» replicò. «Immagino tu debba basarti sul tuo istinto. Che ti dice quello?».

Abbozzai una risata e non seppi dire fosse isterica o che altro. «Il mio istinto si è sbagliato così tante volte che credo sia ormai fuori uso».

Matthew fece una smorfia. Ero piuttosto sicura mi ritenesse ridicola la maggior parte delle volte e che gli piacesse prendersi gioco di me in qualunque situazione. Non lo biasimavo neppure: al suo posto, probabilmente, anche io avrei pensato fossi patetica.

«Se mi fido di te» dissi, prima che lui potesse ribattere in qualunque modo ironico. «Se mi fido di te, mi racconterai perché sei qui e come hai intenzione di aiutarmi?».

«Se affermi di non minacciarmi più con un coltello. Io lo inserirei nella clausola».

Risi nuovamente, ma quella volta seppi quale sentimento la mosse. «D'accordo» conclusi. «Allora... Potrei fidarmi di te».

«Potresti?».

«Non ti allargare. Ho incluso il non minacciarti nella clausola».

«Bene».

«Ora parlerai?».

«Mhm, qui, in mezzo alla strada?».

«Preferisci davanti ad un té caldo e dei pasticcini?».

«Sarebbe carino».

Sbuffai. Come faceva il suo atteggiamento e la sua espressione a cambiare così velocemente? Era come se non fosse possibile portare avanti un discorso serio con lui.
Roteai gli occhi e ripresi a camminare a passo svelto, certa che mi avrebbe seguito ancora fino alla camera di un bed and breakfast in cui mi ero sistemata in quei ultimi giorni.
E fu, di fatto, ciò che accadde. Quando entrai nella stanza – che era piccola e gelida – non mi scomodai a chiudere la porta; la lasciai aperta pur di non udire il suo fastidioso bussare che sarebbe persistito finché non lo avessi invitato dentro.
Perciò mi avvantaggiai. Matthew superò la soglia e si chiuse la porta verde militare alle spalle.
Io mi lasciai andare seduta sul bordo del letto, incrociando le braccia sul petto. «Allora?» esclamai. «Questo posto va bene o andiamo in un hotel a cinque stelle? Ti avverto, dovresti pagare tu».

«Vedi? Quando dico che sei antipatica, intendo proprio questo» commentò Matthew. Accennai un sorriso, sarcastico. A quel punto, mi divertivo anche io a prenderlo in giro. Perlomeno la cosa era reciproca.

«Allora?» insistetti.

Lui sospirò e mosse qualche passo distratto nella stanza, senza una direzione precisa. Si fermò davanti a me, a qualche metro di distanza, tirando fuori le mani dalle tasche del cappotto.

«Quanto ne sai su Djinn?». Partì con una domanda. Dovevo esserne lieta o no?

«Non so la loro storia nei minimi dettagli, ma...» risposi. «So quel che mi ha detto Thomàs».

«E lui che ti ha detto?».

Feci mente locale su quel discorso avvenuto mesi e mesi fa. Era qualcosa di sfocato nella mia mente e da quel momento erano successe talmente tante cose da rendere difficile per me ripescare nitidamente il ricordo.

«Che sono esseri che uccidono utilizzando i desideri delle persone e che sono creature oscure» dissi.

«Nient'altro?».

«Non che io ricordi».

«Wow, si è dato davvero da fare». Matthew commentò in modo ironico e riuscì a strapparmi un mezzo sorriso. Poi andò avanti: «Beh, forse si è scordato di accennarti questioni molto più importanti».

«Questioni di che tipo?».

«I Djinn hanno... Molti poteri. Non sto qui ad elencarteli tutti, altrimenti finiremmo tra un centinaio d'anni».

«Poteri come quello di scacciare creature sovrannaturali?».

«Sì, qualcosa del genere». Fece una breve pausa, mordendosi appena il labbro inferiore. Mi parve stesse esitando e non ne compresi il motivo. Ma, del resto, non aveva osato rivelarmi nulla per giorni, quindi poteva esser considerato normale un suo tentennamento.

«C'è un potere in particolare» riprese e il suo tono non assunse affatto sicurezza. «Non viene usato molto, solo in casi estremi. Un Djinn è in grado di riportare qualcuno indietro dalla morte, ma, per farlo, deve sottintendere alla leggere universale una vita per una vita. Solitamente, se si fa uso di un normale incantesimo, qualcuno muore al posto di chi torna, ma è una persona dall'altra parte del pianeta, per cui è... Non so, credo più facile da accettare. Se lo fa un Djinn, invece, la vita che viene presa è la sua e non solo».

Non fui scioccata dalla sua rivelazione, non del tutto. Ero cosciente del fatto che Thomàs mi avesse ceduto la sua vita. Me lo aveva raccontato Simon, seppur non scendendo nei dettagli perché nemmeno lui li sapeva; lo aveva soltanto supposto e io lo avevo accettato, relativamente.
Matthew interruppe il proprio discorso ancora una volta. Probabilmente si aspettava una reazione diversa da parte mia a ciò che aveva appena detto e non solo una leggera smorfia sulla mia faccia e gli occhi appena spalancati.
E forse avrei dovuto dare di matto e iniziare ad urlare, considerato ciò che aggiunse dopo: «Thomàs non ha trasferito su di te solo la sua vita. Ti ha... Donato anche i suoi poteri».

Serrai la mascella. «E questo che vuol dire?».

«Vuol dire che ti stai trasformando».

Scattai in piedi. Non me ne ero neanche accorta, ma il mio cuore aveva iniziato a battere molto più forte rispetto al normale e avevo il fiato corto, come se avessi appena finito di correre una maratona.

«Trasformando?!» esclamai. «Trasformando in un... Djinn?».

«In che altro, se no?». Matthew sospirò, scuotendo appena la testa. «Ciò che senti quando sei arrabbiata, le strane voci che ti spingono a fare cose che normalmente non faresti... Dipende tutto dall'oscurità che ti circonda e che tenta di attirarti a sé».

Avevo ragione: avrei dovuto dare di matto prima.

Mi passai nervosamente entrambe le mani tra i capelli e mossi qualche passo distratto. Percepivo lo sguardo di Matthew addosso, il che contribuiva soltanto a rendermi più nervosa.

«Lo sapeva?» esclamai, fermandomi e cercando di prendere quanti più respiri profondi possibili. «Thomàs sapeva quel che stava facendo?».

Matthew fece una smorfia. «Certo che lo sapeva». Scosse appena la testa e incrociò le braccia sul petto. All'apparenza, pareva fosse sollevato di avermi finalmente rivelato tutto oppure... Non lo sapevo. In quel momento non ero in grado di definire ciò che provavo io, figuriamoci se avrei potuto descrivere sensazioni altrui. «Qualche giorno prima che tutto accadesse» proseguì «mi ha chiamato, spiegandomi la situazione in ogni dettaglio. Mi ha detto che non sapeva come sarebbe finita, ma che se dopo una settimana da quella telefonata non si sarebbe fatto risentire, allora voleva dire che aveva optato per la soluzione più drastica e che io dovevo intervenire».

I miei pugni si chiusero a scatto lungo i fianchi. Non percepivo le maledette voci, ma sentivo comunque la rabbia diffondersi in ogni parte del mio corpo.

Ed ecco... Sì, ero arrabbiata.

Non avrei dovuto.

Avrei dovuto essere grata.

Grata per essere ancora viva e non a marcire tre metri sotto terra. Avrei dovuto essere lieta, felice di quel suo gesto.

E invece non ci riuscivo. Ero in collera e avrei volentieri picchiato Matthew in quel momento, sebbene, di fatto, non c'entrasse nulla con quanto accaduto.

Riuscii a trattenermi a stento, conficcando le unghie nei palmi talmente a fondo che iniziai a sanguinare. Non ci badai molto.

«Perché?» esclamai e i miei occhi si fece lucidi. «Perché lo ha fatto?».

Matthew sospirò. «Non lo so» replicò, a bassa voce. «Forse dovresti capirlo tu».

«Thomàs conosceva la mia storia» proseguii. «Lui la conosceva. Sapeva benissimo che avevo combattuto secoli per diventare umana, sapeva che era ciò che avevo sempre desiderato e... Ed è andato comunque a fondo. Ha... Ha deciso di trasformarmi di nuovo in un mostro».

Avevo iniziato a singhiozzare e senza che me ne rendessi conto delle calde lacrime mi scesero lungo entrambe le guance. Le palpitazioni continuarono e il respiro si fece più corto.
Tali sensazioni mi avevano già raggiunto in precedenza e non fu difficile riconoscere l'attacco di panico che mi stava colpendo.
Avrei voluto urlare per liberarmi di quella bolla d'aria compressa che mi impediva di respirare correttamente, seppur consapevole del fatto che non avrebbe funzionato affatto.

«Non credo che Thomàs avesse queste intenzioni» sentii Matthew dire, intanto. «Insomma, voleva solo che tu vivessi e...».

«Ti prego, abbracciami» lo interruppi bruscamente e fu strano udire una frase del genere con il tono elevato che usai.

Lui spalancò gli occhi, perplesso. «Come?».

«Sto avendo un attacco di panico». Non seppi in che modo, ma riuscii a spiegarlo. «Se... Se non mi abbracci adesso, credo che il cuore mi salterà fuori dal petto e smetterò di respirare e...».

«Okay, okay, okay».

Non vidi esattamente ciò che fece, però, dopo qualche secondo, le sue braccia mi avvolsero e la mia testa finì appoggiata sul suo petto. Ci poggiai anche le mani accanto, tremando e calai le palpebre.
Mi concentrai solamente sui battiti del suo cuore, li contai uno per uno e pregai affinché il mio iniziasse a seguire quel ritmo normale invece di quello eccessivamente accelerato.
Per mia fortuna quel rimedio funzionò e tornai ad essere normale – per quanto davvero potessi definirmi tale – dopo un minuto scarso.
Riacquistai anche una certa lucidità, la quale mi portò a scansare Matthew in maniera tutt'altro che delicata. Lui roteò gli occhi, come se il mio comportamento lo esasperasse e, sinceramente, non potei dargli torto.

«Grazie» sbottai. Il mio tono non parve sincero, ma non mi importava molto. Lo dissi solo per circostanza. In quel momento ero così... Furiosa, triste e angosciata che nient'altro riusciva a preoccuparmi.

«Ma di che, ti ho solo impedito di avere un infarto» replicò Matthew, alzando appena le spalle.

Scossi il capo e tornai a sedermi sul letto, con le mani premute sulle cosce e lo sguardo fisso a terra.

«Non...» sussurrai. «Non voglio diventare un Djinn».

Non seguii ogni suo movimento, però, poco dopo, mi accorsi di Matthew che si era accomodato al mio fianco, quasi con la mia stessa posizione, ad eccezione dei suoi occhi che finirono dritti sul mio volto. «Non hai propriamente scelta» disse.

«Perché no?».

«O diventi un Djinn e impari a controllare l'oscurità oppure muori, Hazel».

Una nuova condanna a morte. Nel giro di un breve lasso di tempo – considerata la mia lunga esistenza – avevo collezionato una serie infinita di minacce alla mia vita che quasi non mi sorprese udire proprio quelle parole provenire dalla sua bocca. Fu come se le stessi aspettando, al punto che ciò scatenò in me una lieve risata, scatenata, più che altro, da puro isterismo.

«Se muoio» esclamai «andrà bene così».

«Cosa?».

Presi il coraggio di alzare lo sguardo solo in quell'istante, a fissare gli occhi color cioccolato di Matthew che intanto si erano spalancati così da risultare ancora più grandi di quanto già fossero. «Ho vissuto per millenni» spiegai «ho visto tutto ciò che c'è da vedere al mondo, fatto qualsiasi cosa. L'idea di tornare ad essere una creatura sovrannaturale non... Non mi alletta. Non voglio. Se per restare umana devo morire, a me sta bene».

«Non puoi dire sul serio».

«Dico sul serio».

Lui sbuffò, esasperato, e si alzò di scatto in piedi, gesticolando in maniera frenetica. Io restai immobile, stringendo i pugni ancora appoggiati sopra le mie gambe.

«Oh, puoi scordartelo» lo sentii esclamare. «Non ti sono stato mesi dietro per guardarti semplicemente morire».

Sospirai. «Beh, non è una scelta che spetta a te».

«No, ma è una scelta stupida e priva di senso».

«Perché?».

Matthew mi fissò quasi fosse sorpreso da tale mia domanda, come se dovessi esser già a conoscenza della risposta, come se essa fosse ovvia e scontata. Ma non era così, non per me. Avevo smesso di credere che esistesse qualcosa di scontato.
A quel punto, fu lui ad esalare un lungo e profondo respiro. «Thomàs è morto per te» disse «e se adesso ti lasci andare, se permetti all'oscurità di inghiottirti, renderai il suo sacrificio vano».
Scossi appena la testa. «Mi dispiace» sussurrai «ma non posso. Ho combattuto per tutta la mia esistenza contro qualunque nemico e... E adesso non mi va di mettermi contro un ente privo di forma che si intrufola nella mia testa. È una battaglia già persa».

«Parli come una che si arrende».

«Parlo come una che è stanca di lottare».

«La differenza qual è?».

Abbozzai una risata e fu del tutto priva d'entusiasmo. Abbandonai il letto e in soli due passi riuscii ad essere di fronte a Matthew. Dovetti sollevare bene la testa per essere quasi alla sua altezze, sebbene rimasero ancora un paio di centimetri a dividerci. «Quanti anni hai?» sbottai. «Venti? Massimo venticinque? Per quanto la tua vita in questo breve arco di tempo sia stata travagliata, non eguaglierà mai millenni di fughe, di battaglie, di urla e di dolore. Un continuo tormento, senza un attimo di tregua. Millenni, non solo anni. Forse ad un certo punto è lecito fermarsi e arrendersi. Farlo senza passare per forza per una che non ha voglia di lottare».

Matthew serrò la mascella e, per un attimo, mi diede l'impressione di non sapere come replicare. Restò in silenzio, sostenendo a stento il mio sguardo, tanto che mi parve di aver vinto e di essere stata in grado di zittirlo senza l'incalzare di ulteriori discussioni.

Ahimè, non fu così.

«E al tuo fidanzato non ci pensi?» mormorò.

Tratteni il respiro per un istante. «Lui che c'entra?» soffocai.

«Se tu morissi, ne sarebbe devastato, no? Vuoi davvero farlo passare attraverso tutto ciò di nuovo?».

La rabbia tornò di prepotenza e mi morsi forte il labbro inferiore per evitare di urlare. Nonostante quelle orribili sensazioni, le solite maledette voci non avevano ancora fatto il loro ingresso nella mia mente. «Non ti azzardare a fare leva su Simon per convincermi» sibilai.

«Sto solo dicendo la verità» si giustificò Matthew. «Vuoi morire? A me non interessa, fa' pure. Sappi solo che rovinerai la vita di una persona che ami con tutta te stessa e, non meno importante, morire mentre ti trovi in una transizione simile non è affatto facile. Hai parlato di dolore di millenni? Immaginalo tutto concentrato in pochi giorni. Senza fare riferimento al fatto che le voci diverranno sempre più forti e avranno sempre più controllo sulle tue azioni. Morirai, sì, e soffrirai parecchio e nella tua sofferenza trascinerai chiunque ti starà attorno. Ma se ti sta bene così... Fallo. Io uscirò da quella porta e, a quel punto, sarai completamente e inesorabilmente sola».

Tremai appena. Una parte di me si era convinta a non credere a nemmeno mezza delle sue parole, eppure la sua espressione si era fatta così seria da mettermi i brividi addosso. Nel frattempo, la furia si era trasformata in pura paura.
Paura che ciò che Matthew aveva detto avesse potuto trasformarsi in realtà e, in tal caso, da sola non avrei potuto fare nulla per impedirlo.

«Stai solo... Cercando di spaventarmi» mi difesi.

Lui inarcò di poco le labbra all'insù. «Di nuovo, sto solo dicendo la verità» mormorò.

Scossi il capo. Mi aspettavo che da un momento all'altro scoppiasse a ridere e tornasse ad essere il solito ragazzo irritante, ma niente di ciò accadde. La maschera di serietà e durezza che aveva indossato non dava nessun cenno di cedimento.

«Ci tieni tanto a mantenere la tua promessa» commentai.

«A rigor di logica, avrei dovuto fregarmene e andare via alla tua prima resistenza».

«E invece sei ancora qui».

Matthew annuì. «Thomàs era come un fratello per me» spiegò. «E' stato lui a insegnarmi come controllare la mia oscurità. Evidentemente ha pensato che io fossi la persona più adatta per trasmettere i suoi insegnamenti a te».

«A volte non sembrava essere davvero in grado di controllarsi».

«Controllare la propria oscurità non è facile. Ci sono momenti in cui ogni cosa ti sfugge di mano e tutto si complica. Però non è impossibile».

Fissai il suo viso per qualche secondo. Pareva tutto così surreale. Quell'intera conversazione lo era.

«Quindi che dovrei fare?» domandai, retorica. «Prendere delle lezioni da te?».

Lui fece una smorfia. «Più che lezioni li chiamerei “consigli”».

«Consigli?».

«Sì. Rende la cosa meno formale. E poi...». Fece una breve pausa, incrociando le braccia sul petto. «E poi, se ascolterai i miei consigli, non dovrai tenere per forza le distanze dal tuo ragazzo».

«Gli ho ficcato un coltello nello stomaco. Dubito che mi vorrà vicina».

«Basterà spiegargli che non eri propriamente in te».

«No» mormorai. «E' questo il problema». Sospirai appena e indietreggiai fino a sedermi nuovamente sul materasso. «Una parte di me voleva davvero farlo» confessai e la parte peggiore fu che non mi vergognai neppure di dire una cosa del genere ad alta voce.

«Ero così arrabbiata» continuai «per una sciocchezza e... Ad ogni sua parola, la rabbia aumentava a quelle voci nella mia testa mi convincevano sempre di più a compiere quel gesto».

«Ho ben presente la sensazione» commentò lui.

«Ma tu non perdi le staffe».

«Questo adesso. Se mi avessi visto qualche anno fa... Le cose erano un bel po' diverse».

Non replicai a ciò. Abbassai lo sguardo, fissandolo sulla moquette beige che ricopriva il pavimento. Passò relativamente poco prima che il mio campo visivo venisse invaso dal volto di Matthew, che mi si era inginocchiato davanti, posando i pugni chiusi sulle mie ginocchia.

«Lo so che non mi conosci» mormorò «però io conosco te. Cioè, sono stato il tuo stalker personale per mesi, qualcosa ho imparato per quanto tutto ciò sia raccapricciante».

Riuscì a strapparmi un sorriso e non seppi dire se traboccante d'entusiasmo o meno.

«Quindi» andò avanti «so che puoi farcela. Puoi vincere un'altra battaglia senza problemi. Devi soltanto... Volerlo».

Non dissi nulla in replica. Non avevo idea di cosa dire e ogni frase pareva fuori luogo. Non sapevo nemmeno cosa volessi.

Una parte di me voleva tornare ad essere la solita Hazel, continuare quella nuova vita a Parigi che per i primi tempi era stata perfetta, seppur semplice e, delle volte, monotona.
Un'altra parte, invece, bramava l'oscurità, voleva annegarci dentro, perché anche se sbagliato, quando essa mi inghiottiva, mi sentivo invincibile, in grado di fare qualsiasi cosa, senza nessuna paura.
Ed io ero, semplicemente, combattuta.
Mi trovavo davanti ad un bivio, ferma, immobile, senza un'indicazione certa da seguire.

Per quel primo momento, mi convinsi a lasciarmi guidare da Matthew. Non fu una decisione presa con tutta la mia convinzione, ma fu dettata da quella parte – per ora – più forte di me.

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