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Autore: LilithJow    15/05/2014    2 recensioni
«Siamo normali, no?».
«Siamo normali».
Quelle parole rimbombarono nella mia testa come un eco senza fine. Mi costrinsi a marchiarle in modo permanente: non potevo permettere che la paura di qualcosa o i fantasmi del passato mi rendessero la vita impossibile.
Il sovrannaturale era lontano.
A Parigi eravamo soltanto un ragazzo e una ragazza che affrontavano il mondo adulto.
E nulla più.
(SEGUITO DI LULLABIES E CRYSTALIZED)
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
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Capitolo 1
"Fresh new start"


“La mente umana è una trappola mortale,

un labirinto di pensieri da cui non vi è uscita”.

 

Simon


«Aspetta! Ehi! Se corri così veloce, rischio di cadere a terra e non alzarmi più».

«No, non cadresti. E, se accadesse, ti prenderei al volo. È semplice».

Le nostre dita erano intrecciate. Ridevamo talmente forte che ciò non poté non attirare l'attenzione di ogni passante.
Ci squadravano tutti in malo modo. Strano che riuscissimo a spiccare in mezzo a tutta quella gente, persone provenienti da ogni angolo del mondo che si lamentavano dei nostri schiamazzi in qualsiasi lingua. Riconobbi il tedesco, il giapponese – o forse, cinese – e probabilmente anche il russo. E poi, per ovvietà, il francese.

«Conosci seriamente la strada o stiamo seguendo l'istinto?». La voce di Hazel giunse alle mie orecchie quasi fosse un eco in mezzo al chiacchiericcio continuo di chi ci stava intorno. Avevamo entrambi il fiatone, ma non smisi di correre nelle piccole e grandi strade ricche di negozi di ogni genere.

«Siamo quasi arrivati, lo prometto» replicai, distratto, fissando la direzione davanti a me.

Ci vollero almeno altri cinque minuti di corsa prima di arrivare a destinazione e ringraziai il fatto che non fosse occorso più tempo, altrimenti avrei seriamente rischiato un infarto.

«Visto dove siamo?». Ci eravamo appena fermati. Allargai le braccia, sciogliendo l'intreccio delle nostre mani. Hazel stava già guardando verso l'alto, con un sorriso stampato sul viso.
«Sei pazzo» biascicò e la colpa di quel tono così basso poteva essere ricondotta sia alla corsa terminata, sia allo stupore. Mi piacque credere che fosse la seconda opzione. «Pazzo? No» dissi. «Se non ricordo male, qualcuno mi aveva giurato che, un giorno, mi avrebbe portato a Parigi e mi avrebbe baciato sotto la Torre Eiffel».
Lei sorrise e mi parve di scorgere un lieve rossore sulle sue guance. Di nuovo, tale evento avrebbe potuto essere a causa della corsa, ma, quella volta, diedi sicuramente la colpa ad un leggero imbarazzo. «Ripeto» commentò. «Sei completamente pazzo».

«Dovrei sentirmi offeso?».

«Forse un po'». Scosse appena la testa. Poi mosse un solo passo in avanti e mi raggiunse. Prese il mio viso tra le mani e, alzandosi sulla punta dei piedi, depositò un lieve bacio sulla mia bocca. Io le cinsi i fianchi e, a quel punto, la gente ci fissava ancora, ma per diversi motivi. Non mi importò nemmeno.

«Questo è un nuovo inizio, no?» mormorai quando lei si distaccò. Hazel annuì lievemente.

«Il nostro nuovo inizio».

 

***

 

L'orologio segnava le ventidue in punto e, contemporaneamente, la fine del mio turno di lavoro come cameriere al “Cafè Rose”, una tavola calda alle porte di Parigi.

Già, Parigi.

Ero davvero lì, lontano dagli Stati Uniti, dalla mia casa e... In realtà, la mia casa non era mai stata un posto concreto.
Prima lo era mia madre, la quale, con il riaffiorare sempre più repentino e profondo dei miei ricordi, iniziava a mancarmi ogni giorno di più; ora, lontano dal passato, lo era Hazel.
Ci trovavamo finalmente in quella città che tante volte avevamo visto soltanto riflessa sulle pareti spoglie di una camera da letto.
Spesso avevo pensato che mai avremmo potuto superare un intero oceano e giungere in un altro continente. Eppure, era accaduto: mi ritrovavo in una città magica e adoravo ogni piccolo dettaglio di quella mia nuova, ennesima, vita.
Certo, non avevamo più una serie infinita di comodità – come un appartamento che non costasse niente e simili – ma non mi lamentavo.
Sebbene dovessi lavorare per mantenerci, non mi dispiaceva affatto. Era quel velo di normalità che per noi era sempre stato troppo lontano e remoto, quasi irraggiungibile.
Sembravamo davvero una coppia comune, con problemi e discussioni assolutamente ordinarie, come scegliere cosa mangiare per cena o il colore delle tende della cucina; a volte risultavamo persino monotoni, ma, considerato tutto il casino che ci eravamo lasciati alle spalle, l'assenza di eventi straordinariamente eccezionali non mi toccava.
E poi quella città rendeva tutto perfetto.

 

«Albert, io vado!».

Il mio datore di lavoro – nonché proprietario del café – era un uomo sulla cinquantina, parzialmente calvo, basso e con qualche chilo di troppo. Mi fece dei cenni con le mani, brontolando qualcosa, mentre – a suo dire - “faceva i conti”. Non capii cosa stesse farneticando; sicuramente qualche lamentela nei miei confronti, dal momento che mi ostinavo a parlargli nella mia lingua e non in francese.
Lo facevo di proposito poiché sapevo che la cosa lo infastidiva e anche perché il mio francese era pessimo.

Mi cambiai rapidamente, abbandonando la t-shirt bordeaux e il grembiule nero nel piccolo armadietto di metallo che mi era stato assegnato, e tornai nella mia maglietta blu e jeans scuri.
Salutai di fretta i colleghi, con cui non avevo stretto particolarmente amicizia – forse solo con una, Lexie, una ragazza inglese che però non era presente quel giorno.
Il locale non distava molto dall'appartamento che avevamo affittato. Era un piccolo alloggio, modesto e, cosa assolutamente importante, economico; ma, come già detto, il luogo non era importante.
Raggiunsi casa in meno di venti minuti di cammino. Salii le scale di pietra quasi correndo – lo facevo sempre, un po' per abitudine, un po' perché ero impaziente di rivedere Hazel.
Aprii piano la porta che avevamo verniciato d'arancione – sotto permesso dei proprietari – e, una volta entrato, me la chiusi alle spalle.

«Hazel?» chiamai. «Sono tornato!».

Mossi qualche passo distratto per l'appartamento, tra il piccolo ingresso in cui c'era soltanto un vecchio appendi-abiti di legno, e la cucina dotata del mobilio essenziale.

«Hazel?» dissi ancora e non ottenni nessuna risposta. Mesi prima mi sarei lasciato tramortire dall'ansia, dal panico e dall'angoscia poiché il pericolo che lei fosse stata catturata da qualcuno o che le fosse successo qualcosa di terribile era costante. Allora, invece, non mi allarmai.

Perlomeno... Cercai di non allarmarmi.

Eravamo al sicuro e non volevo che tale cosa venisse stravolta.

Eravamo al sicuro.

Continuavo a ripetermelo ogni qualvolta che un cattivo presentimento si impossessava inconsciamente di me. Sarebbe stato più facile se la mia mente non si fosse focalizzata così tanto sul pericolo esterno e sulle eventuali minacce.

Ma noi eravamo al sicuro.

Al sicuro.

C'erano un sacco di spiegazioni logiche e banali per un'assenza momentanea: avrebbe potuto uscire per una passeggiata e non essere ancora rincasata, oppure per comprare la cena o altro.
Sospirai, facendo mentalmente una lista delle ragioni al fine di giustificare la sua non presenza. Vi aggiunsi soltanto due punti e la sua voce lieve mi interruppe: «Ehi».
Mi voltai, in maniera lenta, e vidi Hazel, in piedi, sulla soglia della porta. Indossava un completo intimo di pizzo nero, con tanto di reggicalze sulle cosce e quel vestitino semi-trasparente che, credevo, si chiamasse baby-doll. I nomi di tali cose non si erano mai iscritti per bene nella mia testa, ma immaginai fosse una cosa che non aveva niente a che vedere con la mia remota perdita di memoria.
Sorrisi – sicuramente come un'idiota – facendo apparire sulle mie guance quelle odiose fossette che lei considerava adorabili. «Quello...» indicai, distratto, con una mano. «Dove l'hai preso?».
Hazel abbozzò una risata, giocherellando con una ciocca dei suoi lunghi e scuri capelli mossi. «Sai, ci sono tanti negozi in questa città che vendono queste cose ad un buon prezzo» replicò. «Ne ho solo approfittato. Ti piace?».
Scossi appena la testa, abbozzando una risata. «Molto».
Alla mia risposta, lei tirò un sospiro di sollievo. Per un attimo, mi sembrò nervosa, quasi timorosa che quella sua sorpresa non mi piacesse. Come poteva anche solo pensare ad una cosa del genere? Lei, per me, era bellissima in qualsivoglia veste.
Soprattutto in quella veste.

«Allora...» andò avanti «hai... Intenzione di rimanere lì immobile o... Venire qui e baciarmi?».

Mi pizzicai il labbro inferiore con i denti e allargai il mio sorriso, mentre lentamente avanzavo nella sua direzione, fino a raggiungerla. Strinsi il suo volto tra le mani e feci incontrare le nostre bocche, per uno dei nostri baci che richiamavano dolcezza e passione allo stesso tempo. «Camera da letto?» biascicai, quasi a corto di fiato.

«Camera da letto».

(x)

Hazel mi saltò addosso, incrociando le gambe sui miei fianchi. Io, senza interrompere ulteriormente quel gesto che mi prendeva così tanto, mi mossi alla cieca per il breve e stretto corridoio al fine di raggiungere la nuova stanza.
Adagiai lei sul materasso, tra le lenzuola azzurre. I nostri corpi erano incollati l'un l'altro: si cercavano, si trovavano, le nostre dita si intrecciavano tra loro. C'erano le nostre risate appena accennate e i sorrisi imbarazzati nonostante, ormai, ci conoscessimo nel profondo, in ogni nostra sfaccettatura.
Adoravo quei particolari: minuscoli dettagli che contribuivano a rendere ogni cosa sublime, anche mentre i vestiti ci scivolavano di dosso, ricadendo sulla moquette beige.
Fu speciale, come tutte le volte in cui le nostre anime si intrecciavano a costituire un unico essere e forse quell'aspetto era l'unico che riusciva a costruire una barriera contro i cattivi pensieri dentro alla mia testa. Anzi, era semplicemente Hazel con la sua candida essenza a farmi dimenticare il resto del mondo, come se su quel pianeta, in quell'universo da miliardi di anni, ci fossimo sempre e solo noi.

***
 

Hazel era sdraiata al mio fianco, poggiando la testa sopra alla mia spalla. Le lenzuola ci ricoprivano i corpi per metà, da metà busto in giù, e i miei polpastrelli accarezzavano lievi la sua schiena nuda.
«Mi piace quando torni a casa» la sentii sussurrare e non potei fare a meno di accennare una risata.

«Oh, beh, a me piace l'accoglienza che ricevo» replicai e scatenai in lei la stessa mia reazione. Poi sollevò il capo, così che potessimo guardarci negli occhi.

«C'è una cosa che devo dirti» esclamò e mi sembrò che l'euforia nel suo tono fosse calata, ma, come mi stavo costringendo a fare in ogni situazione, non iniziai a viaggiare con la fantasia al fine di trovare la peggiore delle ipotesi. «Cosa?» domandai.

Lei si pizzicò il labbro inferiore con i denti. «Ho... Trovato un lavoro».
Non lo diedi a vedere, ma fui lieto di sentire un cosa del genere e non un “dobbiamo andarcene da qui, ci hanno trovati” - sì, seppur lontanamente, il mio inconscio mi aveva già spinto a tale conclusione. «Sì? E dove?» chiesi ancora.

«In un... Posto».

«Beh, quello era abbastanza scontato. Che tipo di posto?».

A tal punto, Hazel si scostò appena, mettendosi seduta e tirandosi dietro una delle coperte. Io la seguii quasi fossi il suo riflesso. «Un posto carino» disse.

«Perché ci stai girando attorno?». Aggrottai le sopracciglia.

“Non essere cretino, Simon. Non pensare subito al peggio” mi sussurrò la mia coscienza. Quella vocina in fondo alla mia testa aveva ripreso a parlarmi da un po' e il più delle volte partiva da consigli e poi finiva per sgridarmi. Pensai anche di essere pazzo a causa di ciò, ma era soltanto il mio buon senso che cercava di tenermi sulla retta via.
Lei si passò più volte le mani tra i capelli. «Okay, è...» biascicò. «Un locale notturno».

Alzai le spalle. «Ci sono tanti locali notturni e...».

«Non come cameriera».

«E come cosa?».

A ciò non rispose, il che fu dannoso per il lavoro frenetico e il caos che regnavano nella mia mente. Dovetti cercare di rimanere lucido, di usare la logica in maniera corretta pur di giungere ad una soluzione accettabile.
E ci riuscii, dopo esattamente trentadue secondi. Purtroppo.
«Assolutamente no!» quasi urlai, pur consapevole del fatto che non necessitasse del mio consenso per fare qualsiasi cosa e non seppi nemmeno perché pensai di possederne il diritto.

«Simon...» sospirò lei.

«No, non... Starai mezza nuda su un cubo o quel che è, di notte, in mezzo quell'ammasso di idioti. Non... Non esiste».

«Non sarò mezza nuda e poi...». Scosse appena la testa, piegando le gambe e stringendole al petto con entrambe le braccia. «Vorrei solo essere d'aiuto» spiegò. «Viviamo qui da più di sei mesi e ti sei caricato il peso di tutto. Non... Non è giusto. E io non ho mai lavorato in tutta la mia esistenza, non ne ho mai avuto bisogno, quindi non ho referenze, niente di niente, e quello è l'unico posto in cui non chiedono nulla e pagano piuttosto bene».

Feci una smorfia. Forse il dover scappare appariva persino migliore rispetto all'effettiva verità.

«Capisco il tuo voler aiutare, okay?» mormorai, allungando una mano per accarezzarle una guancia. Cercai di non dare di matto. Non mi piaceva farlo, nonostante fosse capitato delle volte, sempre per ragioni abbastanza stupide. Insomma, le classiche discussioni prive di senso attraverso le quali ogni coppia passa di tanto in tanto. Quella era una delle tante.
«Lo capisco, davvero» continuai «ma non così. Non devi fare questo. Farti vedere da sconosciuti in quel modo... Oltre al fatto che potrei essere incredibilmente geloso, non sarebbe giusto».

«Dovrei ascoltare più la prima ragione o la seconda?».

«Entrambe». Abbozzai un sorriso e mi sporsi nella sua direzione, così da appoggiare la fronte sulla sua. «Se desideri tanto fare qualcosa... Potrei chiedere ad Albert se gli serve altro personale e... Poi convincerlo a dire sì».

«Lo faresti?».

«Posso provarci».

Hazel si morse forte il labbro inferiore per qualche secondo. Si rilassò solo quando le sue dita scivolarono tra i miei capelli, sulla nuca, quel gesto che aveva sempre compiuto sin dai primi istanti della nostra conoscenza. «Grazie» sussurrò.

«E di che?».

Non disse nulla in risposta, non a parole. Si limitò a baciarmi teneramente sulle labbra e ci stringemmo di nuovo l'un l'altro.


***
 

Mi addormentai serenamente. Erano mesi che non soffrivo più di insonnia, per mia fortuna, e non avevo bisogno di nessun espediente per sprofondare nel sonno. Ma se il mio inconscio aveva deciso di lasciarmi in pace, c'erano, comunque, altri fattori che mi costringevano a sollevare le palpebre durante le ore di buio: quella notte ci pensarono dei lamenti da parte di Hazel e il suo sobbalzare sul materasso, mettendosi seduta, che mi costrinse a fare lo stesso.
Mi sfregai gli occhi con le dita per recuperare un briciolo di lucidità andata persa in quel dormiveglia. «Tutto okay?» biascicai, accarezzandole piano la schiena. La mia maglietta bianca che indossava come pigiama era impregnata di sudore. A causa di esso, i capelli le si erano incollati alla fronte e provvedetti a scostarli delicatamente.
Lei annuì appena, passandosi, nervosa, una mano sul viso. «Sto bene» sussurrò. «Ho fatto soltanto un brutto sogno».
Non era la prima volta che ottenevo tale risposta, così come non lo era il suo risveglio improvviso, ma restando sulla filosofia di non coprirmi di troppe ansie, mi ero convinto a non agitarmi nemmeno per quello. Del resto, dopo tutto ciò che avevamo passato, avere gli incubi di notte era una conseguenza persino accettabile.
Sebbene mi stessi impegnando a pensare positivo, evidentemente l'espressione che si dipinse sul mio volto riuscì a tradirmi, poiché Hazel mi sfiorò il viso con i polpastrelli e mi disse: «Non è niente. Tutti fanno brutti sogni di tanto in tanto».

Mi sforzai di sorridere.

“Va tutto bene” pensai. “Deve andare tutto bene”.

«Lo so» sussurrai.

«Siamo normali, no?».

«Siamo normali».

Quelle parole rimbombarono nella mia testa come un eco senza fine. Mi costrinsi a marchiarle in modo permanente: non potevo permettere che la paura di qualcosa o i fantasmi del passato mi rendessero la vita impossibile.

Il sovrannaturale era lontano.

A Parigi eravamo soltanto un ragazzo e una ragazza che affrontavano il mondo adulto.

E nulla più.

  
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