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Autore: LilithJow    18/05/2014    1 recensioni
«Siamo normali, no?».
«Siamo normali».
Quelle parole rimbombarono nella mia testa come un eco senza fine. Mi costrinsi a marchiarle in modo permanente: non potevo permettere che la paura di qualcosa o i fantasmi del passato mi rendessero la vita impossibile.
Il sovrannaturale era lontano.
A Parigi eravamo soltanto un ragazzo e una ragazza che affrontavano il mondo adulto.
E nulla più.
(SEGUITO DI LULLABIES E CRYSTALIZED)
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
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Capitolo 2
"Darkness"

Hazel


Ci sono solo tenebre attorno a me.
Sbatto le palpebre più volte, ma nulla cambia.
È ancora buio.
È buio e fa terribilmente freddo.
Mi stringo nelle spalle e mi accovaccio su me stessa, sperando che ciò possa proteggermi.
Ma neanche quello serve.
Il freddo aumenta e aumentano anche loro.
Quelle voci.
Quelle maledettissime voci che non mi lasciano un secondo di respiro.
Mi vengono addosso, di continuo.
Sono taglienti, mi fanno male.

Prima sussurrano, poi urlano.
E urlano forte.
Devo tapparmi le orecchie, ma continuo a sentirle, inesorabilmente.
Allora mi alzo, comincio a correre, anche se non vedo dove metto i piedi.
Cado a terra.
Mi sbuccio le ginocchia.
Sento il sangue scivolare lungo i miei polpacci.
Lo ignoro, mi rialzo, riprendo il mio cammino.
Ma le voci aumentano.
Sono sempre più vicine.
Strillano e...
E l'oscurità mi inghiottisce.

 


Mi svegliai di soprassalto per la seconda volta in una notte sola. Evidentemente, era stato tutto meno violento del solito perché Simon continuò a dormire nonostante un mio urlo appena accennato.

Ne fui grata.

L'alba era imminente e tra non molto avrebbe dovuto alzarsi per andare a lavoro. Aveva bisogno di riposo e non volevo sottrargli neanche un minuto di tempo.

Mi alzai dal letto e, trascinando i piedi sulla moquette beige, raggiunsi il piccolo bagno adiacente alla nostra camera e mi ci chiusi dentro.
Nelle settimane precedenti, avevo sperato che gli incubi passassero; purtroppo, però, non lo avevano fatto. Anzi, erano aumentati e ogni volta apparivano sempre più vividi, tanto da togliermi il fiato.
E non era tutto.
Anche da sveglia, avevo iniziato a sentire nella mia testa quelle stesse voci che mi tormentavano durante il sonno. Non ero mai in grado di capire cosa stessero dicendo. Sembravano dei lamenti, seguiti da delle urla che rimanevano incomprensibili.
Tenni per me l'ultima parte. Non volli dire nulla a Simon di proposito, nonostante sapessi quanto fosse dannoso per noi nasconderci la verità, ma lo vedevo abbastanza turbato solo dal racconto dei miei brutti sogni e non volevo incrementare la sua perenne ansia – sì, diceva di essere sereno, ma io sapevo che, in fondo, continuava a preoccuparsi per tutto.

Fissai il mio riflesso allo specchio. Ero uno straccio. Non dormivo come si deve da giorni e giorni e i segni di ciò erano ben evidenti sul mio volto.
Mi sciacquai ripetutamente la faccia, sperando che l'acqua gelida riuscisse a rinvigorirmi un po'. Lo fece, ma solo per un breve istante prima che quelle maledette voci tornassero.
Lievi sussurri si espansero nella mia testa, sospirando e gemendo, e, come al solito, non riuscii a cogliere nemmeno una parola.
Sarebbe stato semplice capire cosa stava mi stava succedendo se avessi compreso cosa mi stavano dicendo. Avrei trovato una soluzione per smettere di sentirle.
Invece no: continuavano a tormentarmi senza darmi la possibilità di fuggire.

«Smettetela» sibilai, strizzando gli occhi. «Smettetela. Smettetela».

Iniziai a colpire le mie tempie con i palmi delle mani, come se quei gesti potessero cacciar via le voci. «Smettetela» continuai a ripetere. In tutta risposta, esse assunsero un tono più elevato: i sussurri divennero grida, sempre più forti, più laceranti.

Temetti che la testa potesse scoppiarmi in quel preciso istante. Prima che il peggio accadesse, tuttavia, tutto tacque.
Sollevai freneticamente le palpebre e mi ritrovai di fronte il mio volto contorto in una smorfia di puro terrore.
Avevo iniziato a respirare a fatica e quel riflesso così distante dal mio aspetto abituale mi angosciò. Tremai e dovetti appoggiarmi sul bordo del lavandino per non crollare sul pavimento.

«Hazel?». La voce di Simon, insieme al suo bussare piano alla porta, riempirono nuovamente il silenzio. Deglutii più volte e mi passai ripetutamente le mani sul viso, cercando di ridare un minimo di colorito alle mie guance.
«Un attimo» replicai, distratta. Dovevo apparire perlomeno presentabile al suo sguardo, così da non insinuare in lui inutili preoccupazioni. Gli aprii dopo qualche secondo e, come faceva sempre, tutte le mattine, mi sorrise in maniera rassicurante, serena: quel buongiorno che mi spingeva a tener duro e a lasciare da parte i problemi che mi stavano rincorrendo.
«Come mai sei già sveglia?» domandò. Scossi appena la testa, comportandomi il più normalmente possibile. «Beh, so che tra poco avresti dovuto alzarti e...» risposi «Volevo prepararti la colazione, ma a quanto pare non sono riuscita a portare a termine la mia sorpresa».
Recitai la parte della persona allegra e di buon umore; in fondo, volevo anche esserlo. Se non fosse stato per quelle maledette voci, la vita che stavo conducendo era praticamente perfetta dal mio punto di vista.
«Ti lascio il bagno» esclamai, prima che lui potesse aggiungere qualsiasi altra cosa o porre domande a cui avrei fatto fatica a rispondere. Abbandonai rapidamente quel piccolo locale e tornai in camera da letto. Mi liberai della t-shirt impregnata di sudore e indossai, al volo, una camicia da notte leggera e fresca, sebbene avessi estremo bisogno di una lunga doccia calda, ma quella sarebbe arrivata dopo.

Riordinai la stanza come meglio potevo e lo feci soltanto per concentrarmi su qualcosa che non fossero i miei incubi e quelle dannate voci.
Lo facevo sempre: divenivo una perfetta casalinga durante l'arco della giornata e ciò riusciva a distrarmi, a volte più, a volte meno.
Quella volta, il mio metodo per non pensare funzionò a lungo, con l'aiuto di Simon che mi raggiunse dopo qualche minuto. Era un fidanzato perfetto – anche se si arrabbiava quando lo chiamavo così; anzi, non era proprio rabbia, era soltanto il suo essere terribilmente timido e imbarazzato per qualsiasi cosa lo riguardasse e... Sì, arrossiva ancora se gli facevo un complimento.
Riusciva ad essermi vicino anche quando fisicamente non lo era, con qualche messaggio su un cellulare che avevo appena imparato ad usare – prima non ne avevo mai avuto davvero bisogno – o una chiamata nella sua pausa pranzo.
Mi sarebbe dispiaciuto interrompere quell'armonia in cui ci eravamo immersi per qualcosa che poi accadeva solo nella mia testa. Forse avevo uno di quei tanti tipi di shock post-traumatico. Insomma, ero morta, avevo visto morire un mio... Amico, tra le mie braccia e un'altra serie di eventi che avrebbero turbato qualsiasi altro essere umano.
Probabilmente dovevo imparare a conviverci e, un giorno, le voci sarebbero scomparse, così come erano arrivate.

 


Arrivò la sera.
Ero riuscita nell'impresa di sopravvivere ad un'altra giornata senza impazzire del tutto. Anzi, quando il sole calò, mi sentii più che stabile, sicuramente di più di quanto lo ero quella mattina.
Fu un sollievo, anche perché non volevo mantenere quell'aspetto molto più simile ad un morto vivente che ad un essere umano.
Guardandomi distrattamente allo specchio, notai di essere ancora un po' pallida, ma niente che discostasse troppo dal mio colorito naturale o che non si potesse camuffare con un filo di fondotinta.
Come ogni sera, aspettai, paziente, che Simon tornasse dal lavoro. Non me l'ero presa troppo per il suo rifiuto a quel mio quasi nuovo impiego; del resto era scontato che si opponesse e una parte di me aveva addirittura sperato lo facesse. In realtà, non sapevo neanche perché mi fossi ficcata in qualcosa del genere; probabilmente, il mio desiderio di rendermi utile, insieme a quello di avere una qualche occupazione che mi tenesse la testa perennemente impegnata mi aveva portato a cercare soluzioni estreme.

«Hazel?». Sentii la sua voce provenire dal corridoio. Mi passai, rapida, una mano tra i capelli che in quei mesi si erano allungati in maniera eccessiva, tanto da superarmi i fianchi, e abbandonai la camera da letto, messa in ordine alla perfezione, così da raggiungerlo.

«Ehi» esclamai, vedendolo togliersi la giacca di pelle nera e abbandonarla sull'attaccapanni. Lui fece una smorfia – finta, palesemente finta – e poi sorrise. «Niente completino sexy?» disse.

Alzai le spalle. «La tua maglietta non è abbastanza sexy?» replicai, indicando la t-shirt blu che avevo addosso. Simon abbozzò una risata e mi si avvicinò, fino a che non poté trovare le mie mani e intrecciarle alle proprie. «Ho una buona notizia» aggiunse, poco dopo. «Albert ha accettato e non ho nemmeno dovuto implorarlo o cose simili».

«Davvero?».

«Sì. Cominci domani. Anche se credo vorrà fare la sua scenetta del “giorno di prova”, ma accade con tutti e tu andrai benissimo».

Poteva sembrare stupido, ma ero elettrizzata all'idea di avere un lavoro e di averlo insieme a lui. Era qualcosa di normale, scontato e, a tratti, forse noioso, ma era ciò di cui avevo estremo bisogno.
Allargai il sorriso e mi alzai sulla punta dei piedi per essere alla sua altezza e poter poggiare le labbra sulle sue, per un lieve bacio.

«Che ne dici se...» esclamò Simon, successivamente «Se ti porto fuori a... Festeggiare?».

«Mh, fuori tipo... Una cenetta romantica?».

«Forse. E magari poi a bere qualcosa, a ballare o... Cose così».

«I metodi migliori per prepararmi al mio primo giorno di lavoro in assoluto».

«No. Una parte dei metodi per renderti felice».

Avrei voluto continuare a sorridere genuinamente, ma fui sicura che ciò che mi si dipinse sul volto fu tutt'altro. Non dispiegai le labbra, rimasero appena curvate all'insù e pregai affinché lui non notasse il cambio del mio stato d'animo, da eccitato a malinconico. Non che mi dispiacesse il fatto che cercasse in ogni maniera di costruire la mia felicità, tutt'altro; ma che io potessi distruggere la sua soltanto proferendo qualche parola... Beh, quello mi buttava giù parecchio.

«Vado a mettermi qualcosa di decente, allora» dissi. Fu la prima cosa che mi venne in mente per distaccarmi dalla sua presa e allontanare i nostri sguardi. Del resto, non potevo uscire di casa in pantaloncini e maglietta larga.

Mi spogliai e indossai un vestito nero non troppo corto, a maniche lunghe, con sotto un paio di stivaletti dello stesso colore, rigorosamente senza tacchi – non sopportavo quei cosi, erano strumenti di tortura per tutte le donne, a mio parere.

Quando tornai in corridoio, Simon era rimasto lì immobile, con le mani nelle tasche dei jeans. Mi sorrise leggermente e io mi sforzai di fare lo stesso, ignorando la brutta sensazione di poco prima.

Uscimmo di casa e fui lieta di percepire l'aria fresca della sera sul mio viso.

Simon mi cinse le spalle con un braccio e io feci lo stesso, sul suo fianco.

Il ristorante dove ci fermammo non era distante dal nostro appartamento. La cena che ci servirono fu squisita. Mangiare, ridere e scherzare in sua compagnia fu quasi come una cura ai miei traumi psicologici. Quando abbandonammo quel luogo, non tornammo subito a caso. Ci dirigemmo verso un pub nelle vicinanze, giusto per bere qualcosa e... Distrarmi ancora un briciolo.
Mi sedetti in uno dei pochi – se non l'unico – tavoli liberi del locale, mentre Simon andava ad ordinare dei cocktail o delle birre – non capii bene cosa mi disse, a causa dell'elevato chiacchiericcio del posto.
Non mi dava fastidio: sentire quelle voci reali e forti era sempre meglio del sentirne altre lievi ed immaginarie. Ne fui lieta e, inconsciamente, tirai un sospiro di sollievo, come se all'orizzonte, potessi scorgere uno spiraglio di luce che avrebbe risolto ogni mio problema.
Purtroppo, però, come spesso accadeva, avevo esultato troppo presto perché qualcosa accadde proprio in quel pub alla periferia di Parigi.
Qualcosa di inspiegabile, che portò il mio cuore ad accelerare i suoi battiti, così forte che temetti che da un momento all'altro esso avrebbe potuto balzare fuori dal mio petto e rotolare sul pavimento di legno.
Lontano, tra la folla impegnata a bere e parlare, scorsi un volto tremendamente familiare. Il suo sguardo fisso su di me, la sua espressione seria, impassibile, le braccia sciolte lungo i fianchi, pugni stretti.

«Thomàs» biascicai e tremai. Chiusi per un attimo gli occhi. Ovviamente, anche le allucinazioni dovevano far parte del pacchetto 'ulteriore shock post-traumatico'. Era impossibile che lui fosse davvero lì.

Thomàs era morto.

Sollevai le palpebre e tutto era di nuovo come prima. Lui non c'era più e io avevo il fiatone, quasi avessi appena terminato una lunga corsa.

«Ho dovuto lottare per farmi dare due birre. Non pensavano avessi diciotto anni, ci credi?». Simon ritornò al tavolo, con due bottiglie in mano, e io afferrai solo metà della sua frase – per fortuna, la parte essenziale per formulare una risposta.

«Beh, li hai... Compiuti da poco» replicai. Cercai di sforzare un sorriso, ma non ci riuscii. Non fui nemmeno in grado di mascherarlo e lui lo notò. «Tutto okay?» domandò, sedendosi di fronte a me.

Annuii, distratta. «Sì, io...» balbettai. «Sono solo... Un po' nervosa. Sai, per domani».

«Non dovresti. Te l'ho detto, andrai alla grande».

Certo che sarei andata alla grande, ammesso e concesso che nessuna strana voce avesse fatto capolinea nella mia testa e che non avessi avuto una nuova inquietante allucinazione.

Cominciai a pensare che avere una vera occupazione fosse una pessima idea.

«Già» continuai a ribattere. «Lo spero».

Per fortuna, non fece ulteriori domande sulla maschera atterrita che mi si era sicuramente stampata in faccia e ringraziai che non fosse entrata in gioco la nostra empatia, altrimenti mi sarei ritrovata a confessargli ogni cosa e non volevo.

“Non è niente” ripetei a me stessa. “Non è assolutamente niente”.

Purtroppo, non feci in tempo a riprendermi che Thomàs apparve di nuovo davanti ai miei occhi, più vicino rispetto a prima, seduto ad un tavolo. Quella volta, non rimase semplicemente immobile a fissarmi. Sorrise appena e, piano, si portò l'indice sulla bocca; il classico gesto che indicava di fare silenzio.
Accadde in una frazione di secondo, ma a me ogni cosa parve come se stesse procedendo a rallentatore. La realtà mi stava scivolando di mano.
Così, distolsi lo sguardo da quell'assurda allucinazione e mi sporsi verso Simon, rischiando di far cadere le bottiglie di birra sul pavimento. Posai le labbra sulle sue e lo baciai finché non persi fiato.
Lui replicò con entusiasmo – per fortuna – pensando – sperai pensasse – fosse un gesto normalissimo di una fidanzata in ansia per il primo giorno di lavoro.
Quando fui costretta a distanziare le nostre bocche, feci in modo che i miei occhi si incastrassero ai suoi e mi focalizzai soltanto su di essi. «Balli con me?» biascicai, tirando piano i suoi capelli sulla nuca. Simon annuì, distratto.

(x)

Mi prese per mano e ci alzammo in piedi. Tenni sempre la testa bassa, in modo da non scorgere più nessun volto conosciuto perché non lo avrei retto.
Sulla piccola pista da ballo del locale, mentre una canzone forse eccessivamente lenta riempiva l'aria, mi strinsi al petto di Simon e vi nascosi il viso, abbassando le palpebre.
In un angolo remoto della mia testa, le dannate voci iniziarono a sussurrare, ma la musica riuscì a sovrastarle e potei riprendere respiro, almeno fino alla fine di quel brano.

  
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