Fire of Love

di LaCla
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Ricordi ribelli ***
Capitolo 2: *** 2. Fantascienza o realtà? (Parte 1) ***
Capitolo 3: *** 2. Fantascienza o realtà? (Parte 2) ***
Capitolo 4: *** 3. Conto alla rovescia! ***
Capitolo 5: *** 4. Pronti, partenza, via! ***
Capitolo 6: *** 5. Uno spettacolo indimenticabile ***
Capitolo 7: *** 6. Prontezza di riflessi e narcolessia ***
Capitolo 8: *** 7. Un invito che non si può rifiutare! ***
Capitolo 9: *** 8. Verità ***
Capitolo 10: *** 9. Un amaro ringraziamento ***
Capitolo 11: *** 10. Moda e telefonate: qualcuno ci salvi! ***
Capitolo 12: *** 11. Cibi, bevande ed attacchi d'ira! ***
Capitolo 13: *** 12. Attimi di quiete ***
Capitolo 14: *** 13. Passato e futuro ***
Capitolo 15: *** 14. Non mi importa! ***
Capitolo 16: *** 15. Lucciole ***
Capitolo 17: *** 16. Addio! ***
Capitolo 18: *** 17. Sole spento ***
Capitolo 19: *** 18. Nessun rimpianto ***
Capitolo 20: *** 19. Nuovo Sole ***
Capitolo 21: *** 20. Il piromane e il felino ***
Capitolo 22: *** 21. L'oscurità del sangue ***
Capitolo 23: *** 22. Impossibile ***
Capitolo 24: *** 23. Presentazioni ***
Capitolo 25: *** 24. Pioggia e Fuoco ***
Capitolo 26: *** 25. Distrazioni ***
Capitolo 27: *** 26. Auto e legami ***
Capitolo 28: *** 27. In cucina, no! ***
Capitolo 29: *** 28. Tic Tac! ***
Capitolo 30: *** 29. Acqua e fuoco! ***



Capitolo 1
*** 1. Ricordi ribelli ***


c1


“Buona sera a tutti i gentili telespettatori, questa sera nella nostra rubrica, abbiamo deciso di trattare l’argomento del mangiare sano! Ma prima vediamo il servizio sulla rapina in villa avvenuta l’altro ieri! I colpevoli non sono ancora stati identificati, ma la polizia…”


La voce acuta e fastidiosa della cronista riempie la stanza, ormai accendo la TV solo per non sentire il silenzio, non faccio quasi caso a ciò che dicono.
Seduta davanti al fuoco, con il cane sdraiato ai miei piedi ed il gatto addormentato sulle ginocchia, fisso le fiamme, tentando di rilassare la mente, lasciando vagare nel nulla i miei pensieri.
Sono passati sette mesi dall’ultima volta che ho sorriso sinceramente, sette mesi di finzione, risate che non arrivavano al cuore, e non sfioravano nemmeno gli occhi. Eppure sono diventata brava, una campionessa nello schivare gli sguardi, nel cambiare argomento, nell’impegnare il mio cervello in mille faccende, in modo che non abbia tempo per ricordare. Ma questi momenti di noia sono inevitabili, e non posso fare niente per far virare i miei pensieri in un’altra direzione,  è tardi, ormai le prime immagini di quell’incubo stanno già riaffiorando. L’ospedale, il pallore della pelle, le analisi, le varie ipotesi, una peggiore dell’altra, e poi il responso definitivo, come un macigno sullo stomaco; impossibile da digerire. Metastasi, questione di settimane, non possiamo fare niente, morfina. La vista si appanna immediatamente, la forza di volontà non può fare tutto, certe emozioni sono troppo devastanti per essere frenate dalla cocciutaggine.
Il fiume di ricordi si abbatte nuovamente su di me, riportando alla luce vortici di parole, immagini e gesti che non potrò mai dimenticare. Ma il ricordo più frequente è la mia voce, la mia voce che urla, che grida, ma che non esce dalla gola, che resta dentro al mio petto, a guardia del dolore che ormai ho trasformato in rabbia. Rabbia cieca ed implacabile che brucia dentro di me, sempre pronta a scatenarsi, una furia che tengo nascosta il più possibile, per evitare che investa tutti coloro che mi stanno attorno.
Sette mesi fa si è spento in un letto d’ospedale l’uomo più importante della mia vita, l’unico uomo che credevo non mi avrebbe mai abbandonata, mi è stato strappato via, senza preavviso, senza possibilità di salvarlo. Aveva solo 52 anni, io 19, non è giusto che a 19 anni mi sia stato portato via, non è giusto.
Chi mi abbraccerà il giorno della laurea? Chi mi accompagnerà all’altare? Come farò senza il mio papà?
Ormai le lacrime solcano le mie guance, e i singhiozzi scuotono il mio corpo. Dicono che il tempo guarisce tutto, ma non è vero, il tempo aumenta la pena ed il dolore, aumenta il senso di solitudine, aumenta la nostalgia di quei sorrisi e quelle battute che capivamo solo noi, aumenta tutto.
So che ci sono persone che soffrono più di me, gente che ha perso i propri genitori in modo ancora più tragico, ma non posso fare a meno di essere egoista, di pensare che nessuno stia soffrendo come me, di credere che il mio dolore e la mia rabbia siano i più grandi.
Il tumore non aveva dato tempo di agire, era comparso e si era portato via tutto, in un mese tutto il mio mondo era crollato.
Basta, richiamo i pensieri all’ordine, mi concentro su altro. L’università, l’imminente esame, cane e gatto devono ancora mangiare, che ore sono? Perché mia madre non è ancora tornata?
Mi alzo, tenendo in braccio Pepe, il mio micio, e salgo le scale. Appena arrivo in cucina mi sciacquo il viso dal pianto, lavando via le tracce lasciate dalla mia debolezza di poco fa. Sono le otto, non manca molto al rientro della mamma, e non posso farmi vedere così, capirebbe subito, e non ha bisogno di una frignona al suo fianco adesso. So che piange anche lei, ma non si fa mai vedere, è il nostro modo di aiutarci, ogni una con il suo dolore, ogni una con il suo modo per superarlo. Lei dorme ancora sul divano, io sono arrabbiata con il mondo, lei non vede me piangere, io non vedo lei, fine della storia.
Servo la pappa ai miei animali, li ho presi entrambi pochi giorni dopo la morte di mio padre, avevo bisogno di qualcuno a cui dare amore, a cui pensare e che mi tenesse la mente impegnata, e cosa c’è di meglio di un cagnolino salvato in canile e un micino di pochi mesi?
Mentre loro mangiano la Tv continua a ciarlare di prodotti di bellezza, regali di pasqua, programmi sensazionali, grandi eventi in anteprima mondiale. Non mi interessano, li ignoro, ma non la spengo.
Ricontrollo l’orologio, sono passati appena cinque minuti. Aspetterò in camera, non ho voglia di restare in sala, e poi con il computer posso fare qualcosa che mi distragga, oppure avrei potuto leggere, sempre per distrarmi. In questi mesi oltre ad essermi gettata a capofitto negli studi universitari avevo letto a più non posso, ed avevo rispolverato vecchie serie TV che non avevo mai avuto voglia o tempo di finire. In particolare avevo deciso di riprendere ONE PIECE, era l’ideale, un’avventura lunga ma allo stesso tempo leggera, o almeno così avevo pensato quando avevo iniziato a guardarlo, dalla puntata numero uno. Ormai l’avevo finito, tra lacrime e rabbia, ed attendevo i nuovi capitoli. Perché tra lacrime e rabbia? Perché ovviamente mi ero appassionata all’anime, ed adoravo un personaggio in particolare, che mi somigliava molto a mio parere, indovinate chi è?!
Ovviamente l’unico che viene assassinato, a cui sono dedicate le puntate più emozionanti e struggenti di tutto l’anime, tanto perché non ne avevo abbastanza della rabbia e del dolore che mi attanagliavano nella realtà, pure nella finzione dovevo cercare di farmi del male.
Portuguese D. Ace, detto pugno di fuoco, ecco il mio personaggio preferito di tutto l’anime. Fin dalla sua prima apparizione l’ho adorato; arrogante e sfacciato, ma dolce, premuroso e con un dolore dentro di se, che nascondeva con il suo immancabile sorriso.
Sospirai e mi avviai verso le scale, quando la voce alla TV attirò la mia attenzione.

“Interrompiamo la normale programmazione per un’edizione straordinaria del nostro Telegiornale. Un avviso ufficiale da parte delle autorità giapponesi, ci ha appena informato di una pericolosa fuga di radiazioni dalla centrale nucleare di Genkai. Si tratta di un evento scioccante per la popolazione giapponese, in quanto pare che le radiazioni si siano diffuse per almeno duecento chilometri! Gli abitanti delle città che rientrano nel raggio d’azione delle radiazioni sono state completamente isolate, le autorità assicurano che la centrale è già stata disattivata e che le radiazioni non vengono più emesse, ma bisognerà comunque fare dei controlli a tappeto sulla popolazione, per verificare eventuali danni alla salute! Non sappiamo a cosa potrebbe portare quest’ennesima catastrofe nucleare!”

Maledizione, ogni giorno ne salta fuori una nuova; guerre, catastrofi, errori umani, crimini, mai una giornata in cui non avvengano fatti di cronaca.
Sbuffando spengo la TV e scendo in camera, non ho nemmeno voglia di mettermi a studiare, mi infilo nel letto e tento di dormire. Non sento mia madre rientrare, non sento più niente fino alla mattina successiva.
Un’altra notte vuota è passata, ma non potevo immaginare che sarebbe stata l’ultima, nessuno poteva immaginare che da quella sera la mia vita sarebbe cambiata, che una fuga di radiazioni in un paese dall’altro capo del mondo, potesse avere risvolti così netti nella mia vita. nessuno poteva immaginarlo, eppure successe.

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Eccomi qui, dopo tanti mesi di silenzio con la mia prima FF su One Piece... in questo capitolo non c'è che un accenno, però giuro che nei prossimi capirete tutto! ^_^
Tenterò di aggiornare costantemente, puntualmente e soprattutto spero di mantenere questi propositi! :-)
fatemi sapere cosa ve ne pare, e se vi fa piacere ditemi, qual'è il vostro personaggio preferito?

Alla prossima!



Immagini e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di lucro

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Capitolo 2
*** 2. Fantascienza o realtà? (Parte 1) ***


C2a


La sveglia del mio cellulare inizia il suo faticoso lavoro quotidiano, tenta di svegliarmi. La riattiverò una ventina di volte prima di aprire gli occhi, ed altrettante volte dopo. Per svegliarmi all’ora giusta, devo mettere la sveglia un’ora prima, è raro che il mio corpo decida di alzarsi dal letto senza la violenza uditiva di un continuo allarme. Stamattina però la casa è più rumorosa del solito, sento i miagolii del gatto, le zampotte del cane che trotterella sul pavimento al piano di sopra, sento rumore di stoviglie. Controllo l’ora, sono le sette e mezza, vorrei rimettermi a dormire, ma devo andare in bagno, quindi decido di alzarmi.
Mentre mi avvio trascinando i piedi scalzi verso l’armadio per prendere i vestiti, il mio movimento viene intercettato dal cane, che sento correre a tutta velocità giù dalle scale per darmi il buongiorno. Un giorno cadrà sicuramente se continua a scambiarle per una pista di formula uno. Tempo di chiudere l’armadio e la palla di pelo di venti chili mi salta addosso, tentando di arrivare la mio viso per poterlo leccare. Un desiderio disgustoso che evito di esaudire riempiendolo di coccole.
«Mamma vado a farmi la doccia!» grido dal corridoio, tanto per informarla del mio risveglio.
«Ok, fai veloce!» mi risponde, consapevole che comunque non sarò mai svelta come vorrebbe. La durata media del mio soggiorno in bagno è di un’ora e mezza, per questo mio padre aveva costruito due bagni.
Entro nella stanza, rischiando di chiudere nella porta il naso del cane e inizio la mia routine. La doccia mattutina mi rinvigorisce e rigenera, è raro che la salti.
Quando il getto bollente colpisce le mie spalle tutto viene avvolto dal vapore. Il profumo dello shampoo invade il vano della doccia, e rilassa i miei muscoli.
La schiuma mi avvolge il corpo per brevi secondi prima che l’acqua la lavi via, e quando passo la spugna dietro le spalle sfioro il mio tatuaggio, quel disegno nero che ho voluto fare a tutti i costi tre mesi fa. Una rosa con una G nascosta nel gambo elaborato, per tenere sempre con me il ricordo di mio padre. Quando ero entrata nello studio del tatuatore ero terrorizzata dal dolore che stavo per provare, ma appena l’ago ha iniziato a scalfire la mia pelle la paura è svanita. Mi avevano detto che era un dolore insopportabile, che l’avrei fatto fermare mille volte, invece non era niente di che. Sembravano tante punturine, se non ci pensavi era quasi rilassante. Dopo l’esperienza traumatizzante con il Silk Epil, niente poteva farmi male!
Resetto i pensieri e finisco di lavarmi. Quando esco dal vano della doccia il vapore è come una nebbia fitta, che mi impedisce di vedere chiaramente i contorni. Già senza occhiali ho le mie difficoltà, pensate un po’ come potevo vederci bene mixando l’assenza delle lenti alla nebbia. Mi avvolsi nell’asciugamano ed accesi la ventola per far uscire l’umidità. Dovevo farla sparire prima che mia madre entrasse in bagno, altrimenti avrei subito l’ennesima predica su come il vapore rovini i muri.
Friziono con l’asciugamano più piccolo i corti capelli corvini, finché non sono quasi asciutti, poi con il Phon faccio sparire la condensa dallo specchio. Guardo insoddisfatta il mio riflesso, una ragazza pallida, con un riccio bagnato in testa, sexy no? No, decisamente no...
Asciugo ulteriormente i capelli, tentando di dar loro una piega che non sembri un animale spettinato e che al contempo non mi faccia sembrare il quinto membro dei Beatles. La cosa mi riesce anche discretamente, ma la mia insoddisfazione non cambia. Inforco gli occhiali e noto anche le occhiaie, ormai perennemente stampate sul mio viso. Distolgo lo sguardo ed inizio ad asciugarmi.
Quando mi sono vestita esco, lasciando la porta aperta per far uscire gli ultimi residui di vapore.
Salendo le scale incrocio lo sguardo del gatto, che sazio e assonnato mi osserva dalla poltrona. Che bella vita che fa un gatto domestico. Mangia, dorme e ozia. Nessun pensiero, nessun obbligo, nessun dovere. Proprio una bella vita.
Afferro un vasetto di yogurt dal frigo e mi siedo a tavola, dove mia madre sta intingendo nel suo tè delle fette biscottate.
«Buongiorno! Dormivi già ieri sera, eri stanca? Non me la sono sentita di svegliarti. Spero tu abbia cenato! Hai sentito il telegiornale o vivi fuori dal mondo come al solito?» mi tartassa di domande, come ogni sacrosanta mattina. Poi si lamenta del mio perenne malumore, come si fa a risponderle bene a quell’ora?
«Mamma, è mattina, frena! Si ho mangiato, si dormivo, e perché vuoi sapere se ho visto un telegiornale?» tento di rispondere in modo educato e completo, non ho voglia di sentire la predica sul rispetto di prima mattina.
«Beh c’è una notizia assurda! Sai, una centrale nucleare in Giappone ha avuto una fuga di radiazioni, e pare che questo sia avvenuto parecchie settimane fa, ma solo ieri è stato reso noto. Le potenze mondiali sono inviperite. Sembra che queste radiazioni abbiano colpito delle pagine illustrate, e i personaggi abbiano preso vita! I personaggi in questione si sono ritrovati in questo mondo, ti rendi conto? Non hanno ancora detto nient’altro, solo che l’autore è un certo… Oma, Ora, Ada, qualcosa di giapponese insomma! È terribile, una catastrofe! Saranno dei mostri, ci attaccheranno e ci uccideranno! Hanno detto che sono molto forti, e che hanno mantenuto i loro superpoteri!!!»
Ok, mia madre è impazzita. Non posso fare a meno di alzare il sopracciglio destro ed assumere la mia faccia da schiaffi perplessa. Come è possibile? Siamo nel mondo reale, e quella che mi stava raccontando era più che altro la trama di un film di fantascienza di serie Z, non ci sono lettere dopo la Z vero? Perché veramente, chi si era inventato una cosa simile? Probabilmente si era sognata tutto, e si era svegliata convinta che fosse accaduto davvero, capita no? Però effettivamente ricordavo qualcosa a proposito di una centrale, un servizio speciale dell’altra sera… Bah, controllerò dopo. Continuo a mangiare il mio yogurt in silenzio, intanto che mia madre mette via la sua tazza. Sta partendo per andare al lavoro, anche oggi sono a casa tutto il giorno da sola, una pacchia insomma.
«Smettila di guardarmi come se fossi diventata deficiente! Se non mi credi accendi la TV e ascolta tu stessa le notizie! Sicuramente poi tu conoscerai quei cosi, ultimamente hai guardato solo quei cartoni! Io comunque esco! Ti accendo la TV! Guarda il telegiornale! Così smetterai di avere quell’espressione da “povera me mia madre è una cretina che si immagina le cose!” Baci baci». Accende la televisione, mi da un bacio sulla fronte  e scende, uscendo in fretta dalla porta.
La voce gracchiante del telegiornale inonda la casa, e per una volta decido di seguirlo davvero. Se mia madre si era inventata tutto era grave, quindi tanto valeva appurare che non fosse affetta da qualche malattia mentale. No?
Alzai il volume mentre mi rannicchiavo sul divano.

“I fatti resi noti durante la notte dal Governo Giapponese stanno scioccando il mondo intero! Pare infatti che le illustrazioni che hanno preso vita siano dei personaggi disegnati da Eiichiro Oda, famosissimo autore del manga di ONE PIECE, diffuso in Italia da Mediaset, con il nome di “Tutti all’arrembaggio”. L’autore sta collaborando con le autorità in modo da poter fornire al più presto una lista di nomi, dove selezionare i personaggi innocui e quelli invece cattivi. I fan della serie sono letteralmente impazziti, e chiedono a gran voce questa lista. I governi mondiali sono a dir poco furibondi per la decisione del Giappone di tenere tutti all’oscuro della faccenda fino ad ora, accusando lo stato asiatico di aver messo a rischio la sicurezza mondiale. A quanto pare infatti i personaggi di questo cartone hanno poteri fenomenali, utilizzabili tranquillamente come armi belliche micidiali!”

È assurdo, non è possibile, è fantascienza, non può essere vero.
Chiudo la bocca, spalancata involontariamente per lo stupore, e deglutisco. Non posso crederci, i personaggi di ONE PIECE qui? Nel mondo reale? Era fantastico! O meglio, dipendeva dai personaggi! Sarebbe stato veramente un disastro se la fantomatica lista avrebbe reso noti i nomi dei cattivi più spaventosi! Però se così fosse, avrebbero già provveduto ad incarcerarli prima di dare la notizia, no? Anzi, probabilmente non l’avrebbero mai nemmeno data!
Avrei lasciato accesa la TV tutto il giorno, per avere eventuali aggiornamenti. Come è possibile una cosa del genere?
Feci zapping, tutti i canali dicevano la stessa cosa, la notizia era sulla bocca di tutti. Provai a controllare sui canali stranieri con il satellitare, ed anche la BBC, perfino le reti arabe parlavano di questo fatto! Non poteva quindi essere una bufala no?
Tornai sul TG principale, assetata di nuove notizie.
Il mio cuore batteva fortissimo, impazzito nel  mio petto, facendomi cadere nell’eccitazione ed impazienza totali.

“Gentili ascoltatori, ecco la lista! È appena stata rilasciata e ci accingiamo ad elencarvi i nomi dei personaggi che hanno letteralmente preso vita! Attenzione, la lista comprende anche i cattivi, che però il governo giapponese assicura siano già stati catturati ed imprigionati in gabbie di Aga… A-gal-ma-to-lite marina. ”

Povero cronista, adesso me la godo la lettura dei nomi, spero gli abbiano messo accanto la pronuncia esatta almeno! Ha difficoltà con l’agalmatolite, non oso immaginare quando arriverà ai nomi complicati!

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Eccomi qui, ho deciso di postare prima del previsto il capitolo, perchè questa è solo la prima parte. L'ho diviso visto che era veramente troppo lungo, e personalmente quando i capitoli sono troppo lunghi fatico a trovare il tempo di leggerli; quindi nelle mie storie evito di superare le quattro pagine ^_^
Ringrazio tutti coloro che hanno deciso di seguire questa storia, e che hanno risposto alla mia domanda! Il mio personaggio preferito comunque è Ace, che adoro, subito seguito da Trafalgar Law, che mi affascina da morire!!!! :-)  
spero che il capitolo vi sia piaciuto, sono sempre felice se mi fate sapere le vostre opinioni! vi lascio con un'altra domanda: Qual'è invece il personaggio che vi sta più antipatico?

Alla prossima! ( mercoledì credo di aggiornare)!



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Capitolo 3
*** 2. Fantascienza o realtà? (Parte 2) ***


C2b



“Ecco la lista, allora: Monkey D. Rufy, noto come “Rubber”; Roronoa Zoro; Nami; Sanji; Nico Robin; Chopper; U-Usop-p; Franky; Brook; Shanks e la sua ciurma; A-Aokiji…”


Ecco, non male, l’ammiraglio Aokiji non era propriamente antipatico, si faceva gli affari suoi… invece per gli altri sono contenta, tutti personaggi buoni, per ora! E anche il povero presentatore se la stava cavando bene, ma il bello doveva ancora arrivare!

“Ehm… mi scuso per le pronunce, comunque continuiamo con Smoker; Tashigi; Kobi; Iceburg; Paulie; Kokoro; Chimney; Kureha; Igaram; Nefertari Cobra e la figlia Bibi; Pell; Curly Dadan; Monkey D. Garp; Mr. 2 Von Clay; Boa Hancock; Don-qui-jiote Doflamingo; Emporio I-van-kov; E-Eustass Kidd; Trafalgar Law; Duval; ”

Beh, wow, mica male! Per ora non c’erano grossi problemi, di cattivi non ce n’erano, com’era possibile? Probabilmente li avevano tenuti in fondo alla lista, per poi parlarne nel dettaglio! Ogni nome elencato mi faceva accelerare il cuore, fortunatamente le evidenti difficoltà del giornalista nel pronunciare quei nomi, alleviavano leggermente la tensione. Tentai di concentrarmi sui suoi errori, per evitare di pensare incessantemente a quel nome che mi ronzava nella testa. Quando vedeva un nome troppo lungo o troppo complesso lo scandiva a sillabe, era uno spasso sentirlo arrancare così!

“Ma passiamo ai cattivi, sono già stati catturati Crocodile; Ener e Barbanera, gli unici presenti in quei disegni, a detta di Oda. Le autorità però stanno indagando su altri quattro personaggi, definiti da Oda come buoni, ma che potrebbero essere molto pericolosi! Si stanno svolgendo indagini sul pirata Barbabianca, Drakul Mihawk, Marco e Portuguese D. Ace. Sembra però che verranno aggiunti alla lista dei personaggi positivi, in quanto sono presentati come tali nel fumetto. Infatti pare che i caratteri decisi da Oda siano rimasti inalterati durante il “trasporto” nel nostro universo. Altro elemento di sorpresa nella lista è l’aggiunta di un ricercato dalle autorità. L’ammiraglio Akainu infatti era raffigurato chiaramente nei disegni colpiti dalle radiazioni, ma non è stata trovata traccia di lui. Le autorità lo stanno cercando in tutto il paese, mobilitando anche i paesi confinanti. Il personaggio in questione potrebbe avere avuto comprensibilmente uno shock ritrovandosi in un mondo totalmente diverso dal suo. Vi terremo aggiornati su ulteriori novità!”

Resto pietrificata, anche volendo, i miei muscoli ora non risponderebbero al mio comando. Barbabianca e Ace, vivi… Ace, nel mio mondo, nella realtà in cui vivo io, pugno di fuoco esiste, ed è vivo!
È vivo… il cuore smette di battere, si ferma del tutto, per poi riprendere la sua folle corsa! Mi sembra di avere un’orchestra di percussioni nel petto, sento il sangue pulsare così forte che sembra voler uscire dalle mie vene.
Mi impongo di respirare, inspira, espira… va tutto bene, Ace è vivo…
Una lacrima traditrice fugge dai miei occhi, rigandomi la guancia. La lascio correre sulla gota fino al mento, sentirla sulla mia pelle è come una conferma. Non sto sognando, è vero, è tutto vero!
Da quanto tempo sanno queste cose? Da quanto tempo ci tengono nascosto questo fatto? Quando i miei muscoli si sbloccano sembrano impazziti, mi alzo, vado in cucina, mi appoggio al bancone, faccio un giro del tavolo mordicchiandomi l’unghia del pollice. Ma cosa sto facendo? Io nemmeno me le mangio le unghie! E poi cos’è tutta questa agitazione? È un personaggio di un manga/anime giapponese che adoro, un personaggio per il quale ho pianto come un’idiota davanti al computer per due giorni, di cui ho foto sparse in ogni singola cartella del mio PC e sul quale ho fantasticato più volte, in maniera innocente e non. Molto più spesso la seconda ma questo non conta! Non è nessuno di particolare, non è che è resuscitato Elvis o cose simili…
Ma cosa diavolo sto pensando? Dei personaggi totalmente immaginari vengono catapultati nel mio mondo da una dimensione parallela, e io vado a pensare alla resurrezione di Elvis? Ok, basta. Sto decisamente delirando.
Spengo la TV e scendo in camera, non posso ascoltare altro, devo prima metabolizzare le notizie che ho appena appreso, altrimenti rischio di impazzire!
Mi metto alla scrivania e accendo il monitor, Facebook non parla d’altro, link, foto e status a raffica su questa novità. Ragazzi esaltati, ragazze impazzite, idioti che annunciavano la fine del mondo. Chiudo il social network e mi rannicchio sulla poltroncina. Il cuore non aveva ancora smesso di battere freneticamente nel mio petto, mi sentivo come una ragazzina al suo primo concerto, dove va a vedere la sua band preferita. Quei personaggi, che aveva sparsi per tutta la camera sottoforma di poster e fotografie, in quel momento prendono vita e forma sotto i tuoi occhi, ti rendi conto che sono li, e sono reali!
Ecco come mi sentivo. Iniziai a sfogliare le immagini di ONE PIECE che avevo salvato, una dopo l’altra, il cuore iniziava a calmarsi fortunatamente, non so per quanto ancora il mio corpo avrebbe retto quella pressione sanguinea.
Quando mi parve di essere più lucida decisi di fare una rapida ricerca, per vedere eventuali sviluppi.
Mi accorsi dopo qualche secondo che sul mio viso si era disegnato un sorriso, ero felice? Si tantissimo! Sicuramente avrebbero fatto degli incontri con i fan, e avrei potuto vederli! Avrei potuto conoscere Ace, Marco, Zoro! Avrei potuto vedere Chopper, e persino Brook!! Era un sogno che si realizzava!
Ma sfogliando le notizie nel web mi ricordai dell’ombra che attanagliava ancora tutti loro, Akainu. Dove poteva essersi ficcato quel pezzo di merda? Sicuramente finirà tra i cattivi, solo che non potevano dirlo in TV, altrimenti non l’avrebbero mai trovato! Un uomo come lui in circolazione era pericolosissimo, per tutti. L’ideale di giustizia che portava avanti con determinazione era sbagliato, la giustizia non può essere inflessibile, deve giudicare caso per caso, non fare a grandi linee di tutti dei delinquenti da massacrare.  Spero che lo trovino alla svelta quel pazzo… E che gli facciano patire le pene dell’inferno a quello stronzo pompato con la camicina a fiori!
Le notizie in rete vengono aggiornate praticamente ogni 5 minuti, a quanto pare erano mesi che il governo nipponico era a conoscenza dei fatti, ma aveva preferito tentare di arginare il problema prima di renderlo di dominio pubblico. Questo non piacerà alle grandi potenze, chissà quante polemiche nei prossimi giorni!
Poco dopo venne pubblicata la comunicazione dell’inserimento degli ultimi quattro pirati nella lista di personaggi non pericolosi, quindi Ace era salvo, tutelato dalla legge! Infatti a tutti era stata assicurata assistenza sanitaria, legale e civile. In sostanza erano cittadini del nostro mondo a tutti gli effetti, e nei prossimi giorni si annunciavano già viaggi in tutto il mondo, per incontrare i Fan e soprattutto per decidere il paese dove avrebbero voluto vivere. Già, i soldi raccolti con le mostre e le manifestazioni pubbliche dei prossimi mesi, verranno suddivisi equamente tra i personaggi, in modo da dar loro la possibilità di farsi una vita, comprare casa, e vivere normalmente a contatto con noi.
Le notizie erano fantastiche, c’era anche qualche tappa italiana! Quindi avrei potuto incontrarli sul serio!
Era veramente un sogno che si realizzava… Finalmente, dopo tanto dolore arrivava anche una piccola gioia.

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Eccomi qui con la seconda parte del capitolo! ^_^ colgo l'occasione per ringraziare di cuore tutti i recensori, non avete idea di quanto mi abbia fatto piacere leggere i vostri commenti, e vedere che la storia vi piaceva!
Come avrete notato, le domande dei capitoli scorsi non erano propriamente a caso! xD Ho voluto farvi un piccolo regalo, anche se ammetto che molti li avevo già inseriti di mia spontanea volontà! ^_^
come ho scritto ad alcune di voi, io ODIO Akainu e Barbanera, e mi pare evidente dal capitolo! u.u
Niente, vi lascio, spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi pongo un'altra domanda:
Quali sono le vostre scenette comiche preferite di One Piece, quelle che vi hanno fatto più ridere?? (tipo "sembro Chopper?" xD)
Baci!



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Capitolo 4
*** 3. Conto alla rovescia! ***


c1


Passai le settimane successive perennemente all’erta, pronta a captare anche solo un minimo accenno  ad Ace, ma sembrava essere svanito nel nulla. Intanto avevano ritrovato Akainu, si era nascosto in un’isoletta non distante dal Giappone, era stato inserito immediatamente nella lista dei soggetti pericolosi ed imprigionato nel nuovo centro di detenzione speciale, costruito sulla base di una vecchia piattaforma per l’estrazione del petrolio.
Una gigantesca struttura interamente rivestita di agalmatolite, circondata dal mare, con quattro celle separate da un muro spesso un metro, rinforzato anch’esso con il potente minerale in grado di annullare i poteri dei frutti del diavolo. Pur essendo all’apparenza inespugnabile, visto e considerato quello che era accaduto ad Impel Down, il governo nipponico, appoggiato dalle grandi potenze come gli Stati Uniti e la Russia, aveva deciso di condannare a morte i quattro prigionieri, per evitare che venissero impiegati da chiunque come arma o che tornassero a piede libero. Sono fondamentalmente contraria alla pena di morte, ma stavolta… l’unico condannato per cui provo compassione è Crocodile, dopotutto non l’ho mai considerato un cattivo esageratamente crudele, ad Alabasta sicuramente si, ma Croco-Boy a Marineford mi era piaciuto moltissimo!
Verso Ener restavo indifferente, sicuramente è un individuo pericoloso, ma con le tecnologie moderne dubito che sarebbe una grande minaccia; mi preoccuperei di più di placare il suo immenso ego. Per quanto riguarda Barbanera e Akainu invece, non posso essere più contenta. Avranno quello che si meritano, anzi, forse fanno persino un affare a morire così! Se li lasciassero in mano ai fan non oso immaginare cosa potrebbe succedergli. Anzi, qualcosa immagino, e sono veramente dispiaciuta che la loro fine sia così semplice. A volte mi sento una sadica con manie omicide, ma dannazione, erano due grandissimi pezzi di materia organica decomposta e puzzolente! Simpatici come zecche, cimici e pidocchi. Utili al mondo quanto le zanzare e il gessetto bianco nelle confezioni di matite colorate! Sul serio, mi sono sempre chiesta a cosa cavolo servisse un pastello bianco!? E poi quella lurida faccia da cubo di Akainu l’avrei spiaccicata con le mie mani! L’avrei resa ellittica! Non era stata ancora resa nota la vera data del disastro nucleare, ma una prigione non si costruiva dall’oggi al domani, e tantomeno tutti gli studi svolti sul fenomeno, chissà da quanti mesi andava avanti questa farsa…
Sbuffando cercai di trovare un contegno, e tornai al computer per spulciare le ultime news. I governi mondiali si erano calmati e pur essendo ancora molto indisposti verso il Giappone, avevano deciso di chiudere un occhio, soprattutto grazie alla reazione dell’opinione pubblica, entusiasta di questo fatto.
Erano usciti parecchi chiarimenti riguardo l’incidente. Pareva infatti che quel mucchio di fogli, rimasto nella città natale dell’autore, raccogliesse schizzi, appunti e schede dei personaggi; non pagine complete del manga; ecco spiegato il vasto assortimento di personaggi. Per quanto riguarda le radiazioni invece gli studiosi brancolavano ancora nel buio, incapaci di spiegare cosa abbiano innescato, e soprattutto perché solo stavolta e solo in quel luogo! Con tutte le esplosioni e disastri nucleari, possibile che mai un foglio disegnato fosse stato colpito da radiazioni? La faccenda resta avvolta nel mistero. Riguardo i viaggi promozionali dei personaggi invece, erano stati definiti i luoghi e le date delle apparizioni. Avrebbero girato tutto il mondo in un anno, tutti insieme, e poi avrebbero deciso la città in cui stanziarsi. Sarebbero venuti in Italia tra due settimane, partendo dal sud e salendo fino all’estremo nord, per poi continuare verso l’Europa. In totale sarebbero restati sul territorio italiano otto giorni.
Il sesto giorno sarebbero arrivati in Lombardia, dove era stata predisposta una dimostrazione dei poteri dei frutti sul lago di Como, era la mia unica occasione, non potevo mancare! Avrei visto volare la fenice, le lucciole di fuoco, il ghiaccio di Aokiji, forse avrebbero dato anche un piccolo assaggio dei poteri di Barbabianca! E poi tutta la ciurma di Rufy, forse Brook avrebbe suonato la canzone di Binks! Non stavo più nella pelle! Ormai l’estate bussava ostinatamente alle porte, scacciando la primavera. Il sole era sempre più caldo, e la pioggia sempre più rara. Mancavano due settimane, solamente due settimane, due lunghissime settimane. Chissà perché, quando si aspetta la data di un esame, i giorni volano; mentre quando si aspetta con trepidazione un lieto evento, le lancette dell’orologio sembrano sempre ferme!?
Mi ero già organizzata con la mia migliore amica, che a suo dire, non vedeva l’ora di farsi operare da Trafalgar Law. Erano tre giorni che mi mandava un messaggio alle nove in punto, con il conto alla rovescia dei giorni, seguito da un commento poco signorile sul suo dottore preferito. Era assurda, se qualcuno avesse letto i messaggi del mio telefono, l’avrebbero rinchiusa sicuramente per molestie.
Come a conferma dei miei pensieri, il telefono vibrò, alle nove e cinque minuti, annunciando l’ennesimo messaggio della mia folle amica.
Aprii e lessi, non riuscendo a trattenere una risata, che mi fa guadagnare un’occhiataccia dal gatto.

“-14 Giorni! Oddio Sely, ti prego sto male! Portami dal dottore! Voglio una visita ginecologica! Approfondita però, non vorrei che per la fretta tralasci qualcosa!!! Ti prego Traffy, visitamiiiiiii!!!”

Santi numi, fortuna che conoscendola da dieci anni non mi stupivo più di nulla! Sapevo che scherzava, se si fosse veramente trovata davanti Law, sarebbe arrossita come un peperone, scappando per l’imbarazzo! Ma tra di noi c’era una confidenza unica, ci dicevamo tutto, una volta quell’idiota mi aveva telefonato per dirmi che finalmente dopo tre giorni aveva fatto la cacca! Certo, anche io non ero da meno, mediamente rispondevo a tutte le sue provocazioni con altrettanta disinvoltura! Sia che fossimo da sole o in compagnia, non cambiava il nostro modo di comportarci, eravamo perennemente a rischio di fare figuracce, di finire in situazioni imbarazzanti o di esporre una battutaccia oscena nel classico momento di silenzio totale.
Iniziai a digitare rapida sul mio cellulare preistorico, un caro vecchio Nokia che mi rifiuto di sostituire con quei cosi touch, con i quali sono una completa incapace,  la mia risposta infuocata alle richieste di cure.

“Ele, resisti, che tra due settimane ti ci porto dal dottore! Tu piuttosto preoccupati per me! Devi andarmi a comprare la crema anti scottature, perché già ho i bollenti spiriti, se poi vado a giocare con il fuoco…. :P e ti prego, non chiamarlo Traffy, è osceno come soprannome! xD”

I giorni non passavano, provavo a fare di tutto, ma le ore erano lentissime, niente riusciva a far passare più velocemente il tempo, solo le uscite con Elena acceleravano leggermente le giornate!
Avevamo deciso, per avere un colorito che non ricordasse la mozzarella, di tentare d’abbronzarci. Tentativo che ci ha portato solo ad un bel color corallo, seguito da una muta totale della pelle. Fortunatamente gli effetti del nostro pomeriggio al sole passarono in fretta, non lasciando segni.
Quando mancavano solo due giorni al grande evento, ormai seguivamo tutti i programmi in cui si parlava del viaggio dei personaggi, ci sembrava di essere ritornate delle ragazzine fuori di testa, con l’ennesima cotta folle per il divo di turno! Proprio durante la visione di un servizio, dove mostravano l’arrivo a Firenze dei nostri adorati, Elena mi pose la domanda “X”, quella che terrorizza ogni ragazza prima di un evento speciale:
«Selene, ma tu cosa metterai quel giorno?» mi chiese d’un tratto.
«Oddio, non ne ho la più pallida idea! Tu?» le chiesi a mia volta.
«Ma secondo te perché l’ho chiesto? Per sport? Non so nemmeno io cosa mettermi!!! Posso frugare nel tuo armadio? Ovviamente la cosa è reciproca, con due guardaroba a disposizione, la scelta è più ampia, no?» finì la frase con un tono che sembrava quasi una supplica, il tutto condito con i suoi occhioni celesti che mi guardavano con la classica espressione da “ti prego, ti prego, ti prego!”.
Come dire di no ad una proposta tanto ben architettata?
«Per me va bene, iniziamo subito? Così almeno abbiamo tempo per decidere e facciamo passare questo maledetto pomeriggio!» proposi, e visto che ci trovavamo in casa mia, l’ispezione iniziò dal mio armadio.
La prima selezione fu la più facile, io presi i vestiti che preferivo, lei fece lo stesso. Mettemmo tutto in due borsone per la spesa, e ci dirigemmo verso casa sua. Meno male che le nostre abitazioni distavano trecento metri l’una dall’altra, altrimenti portare tutta quella roba sarebbe stato un problema.
Il suo povero armadio subì lo stesso trattamento del mio, e sui tre letti della sua camera, piovvero vestiti, magliette, camicie, calzoncini, Jeans, abitini, gonne, calze, scarpe, sandali, bigiotteria di ogni tipo. Rimettere in ordine quel caos ci avrebbe portato via tutta la serata, poco ma sicuro!
Mentre fissavamo, in preda alla disperazione, il mucchio di vestiti, entrò in camera la madre di Elena.
«Oddio! E qui cosa è successo? Ma siete impazzite? Avete vent’anni e state ancora in questo stato per dei cartoni animati? Poveri noi! Comunque un consiglio da mamma? Ci saranno tantissime reti televisive, non vestitevi da troie! Io sono in salotto se vi serve qualcosa! Ciao ragazze!» Disse tutto d’un fiato, uscendo poi dalla stanza, chiudendo la porta alle sue spalle.
Mi scappò un risolino quando incrociai lo sguardo sgomento della mia amica. Le nostre madri erano maledettamente simili, e questo l’abbiamo sempre attribuito al fatto che fossero nate nello stesso anno. Sembrerà una teoria folle, ma abbiamo sempre pensato che la nostra amicizia fosse stata decisa dal destino! Le nostre madri erano coscritte, andavano a scuola insieme, noi due avevamo i nomi perfetti per essere amiche, Elena infatti significa “splendente come il sole”, mentre Selene vuol dire “luna”, se questa non è una coincidenza strana!
Spostai il mio sguardo nuovamente sui letti.
«Allora, usiamo il metodo ad esclusione!» dissi convinta, sperando di riuscire a sfoltire la quantità di abiti tra cui scegliere. Quando vidi Elena annuire iniziai il mio ragionamento ad alta voce:
«Punto primo, comodità! Quindi niente tacchi, gonne, vestitini o top che devi sistemare ogni due secondi! E con questo risolviamo anche il problema esposto chiaramente da tua mamma di evitare sconciaggini! Punto secondo, vestiti a prova di caldo, quindi niente colori che facciano risaltare eventuali macchie di sudore, no alle maniche lunghe, assolutamente vietati i pantaloni o i jeans lunghi e forse sarebbe meglio eliminare anche le scarpe chiuse, escluse quelle da ginnastica ovviamente! Che ne dici?».
«Dico che tu inizi da quel letto, io da quell’altro e rimettiamo nell’armadio e nelle borse quello che scartiamo!» Mi rispose Elena, con un tono da combattente, manco stesse per affrontare una battaglia epica con gli agglomerati di tessuto sul letto.
Dopo la seconda selezione la scelta fu anche abbastanza facile da prendere, ed entrambe ottenemmo un look comodo, carino, anti-caldo e a prova di mamma! Perfetto no?
Sistemata la camera ci sdraiammo sul letto stremate. Avevamo sollevato e spostato di tutto e di più per l’intero pomeriggio, però almeno erano già le otto, il tempo era volato! Nel silenzio della camera si sentivano solo i nostri respiri, ma dopo così tanto tempo che conosci una persona, sei quasi in grado di sentire i suoi pensieri.
«Dimmi, a cosa stai pensando? Ti vedo preoccupata…» dissi voltandomi verso di lei, che girò la testa per guardarmi sorridendo.
«Sono felice, non vedo l’ora che arrivi posdomani, ma ho anche paura che poi finirà tutto. Si, li vedremo, però poi? Lo so che è stupido, però sono anche triste che si stia avvicinando il nostro incontro, perché mi mancherà sentire il mio cuore perennemente su di giri! Capisci che intendo?» la capivo eccome, avevo anche io lo stesso timore. Annuii, ma non risposi altro.
Era normale pensare al dopo, ed effettivamente con tutto il trambusto di quelle settimane, non mi ricordavo quasi più com’era la mia vita prima di questo evento; come passavo i pomeriggi? Come trascorrevo il tempo? Sarebbe tornato tutto come prima, monotono e senza troppi eventi sensazionali. Mi sarebbe mancata questa sensazione di felicità e libertà? Si, tantissimo…
I nostri pensieri furono interrotti dall’ordine della mia seconda mamma di apparecchiare la tavola. È già, ormai la chiamavo "mamma due", così come Elena chiamava “mamma adottiva” la mia. Siamo come sorelle, sicuramente poi nella nostra vita ci eravamo scambiate anche un bicchiere di liquore, quindi potevamo definirci tali a tutti gli effetti! Sorrisi a quel pensiero, mentre andavo ad aiutare in cucina.
Dopo cena tornai a casa con le borse di vestiti, e con la promessa di vederci l’indomani pomeriggio per gli ultimi preparativi. Avevamo deciso di dormire entrambe a casa mia, visto che guidavo io e dovevamo partire presto, era meglio non perdere tempo con chiamate e campanelli vari. La dimostrazione dei poteri dei frutti era fissata per le 14:30, ma tra viaggio e vari imprevisti avevamo deciso di partire per le sette di mattina. Calcolando la quantità di fan che si sarebbero presentati, era meglio tentare di arrivare il prima possibile, parcheggiare in un posto sicuro ed accaparrarsi una postazione decente!

Il giorno dopo passò altrettanto in fretta, forse anche di più, tra il preparare il pranzo al sacco, la macchina fotografica e controllare per l’ennesima volta la strada su Google Maps, le ore volarono; Ma la notte fu infinita! Nessuna delle due parlava, i movimenti erano ridotti al minimo, anche se avremmo voluto metterci a saltare sul letto, perché al minimo rumore cane e gatto si sarebbero svegliati, il che comportava svegliare anche mia mamma, e sarebbe stata una mossa poco intelligente, visto che fino a prova contraria, l’auto che avremmo usato era la sua. Provai di tutto per addormentarmi, dalle fantasie sull’indomani, alle pecore. Arrivata alla duecento ventiquattresima pecora però mandai al diavolo loro, la staccionata e l’idiota che aveva inventato quel metodo per dormire.
Ogni cinque minuti partiva uno sbadiglio, un osso veniva fatto scrocchiare, il cuscino sprimacciato, il lenzuolo tolto, rimesso e tolto di nuovo. Una notte infernale, fortunatamente la sveglia era impostata all’alba, altrimenti non avrei resistito in quel letto! Mi sembrava di impazzire, sforzandomi di stare il più ferma possibile. Esasperata presi l’Ipod dal comodino e lo accesi, porgendo una cuffia alla mia amica, che l’afferrò subito, confermando la mia ipotesi sulla sua insonnia. Fortuna che esisteva la musica, almeno anche se non dormivamo, potevamo distrarci con qualcosa! Sole, quanto ci metti per spuntare da quella maledetta montagna?


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Eccomi in leggero anticipo, perchè se rileggevo ancora una volta questo coso lo cancellavo del tutto, è il classico "capitolo no!" xD
Comunque ringrazio tre 88 per avermi concesso l'utilizzo della sua espressione "faccia da cubo"! xD
detto ciò, le vostre scene preferite mi hanno fatto morire dal ridere!!! ne avete nominate alcune che avevo scordato! xD la mia preferita in assoluto è QUESTA : la trasformazione di Kaku in giraffa, quando Jabura lo prende in giro, l'avrò rivista mille volte, ed ogni volta mi venivano le lacrime a forza di ridere! xD (quando muove le orecchie non riesco a trattenermi!)  giuro, quando gli dice "non sottovalutare la forza distruttiva della giraffa" non ce la faccio prorpio a trattenermi! xD la seconda è quella di Ace, Smoker e Rufy ad alabasta ovviamente, fantastica anche quella xD
mi sono dilungata anche troppo, grazie mille a tutti quelli che leggono! la domanda di oggi è... qual'è il vostro frutto del diavolo preferito? ^_^
ciao ciao!


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Capitolo 5
*** 4. Pronti, partenza, via! ***


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Finalmente le prime luci iniziavano a rischiarare il cielo, mancavano tre minuti al suono della sveglia, soltanto tre minuti. Ci aspettava un viaggio di due ore come minimo, una rissa per il parcheggio ed un’altra per il posto vicino al lago, e dovevamo affrontare il tutto con un’ora, forse due, di sonno leggero. Ottimo direi!
Il cellulare iniziò allegro a suonare, come sveglia e suoneria avevo impostato il suono del lumacofono, seguito poi dalla musica usata nell’anime prima di un combattimento, avete presente quella che fa da sottofondo alla camminata stupenda di Sanji, Zoro, Rufy e Chopper davanti alla Franky House? Ecco, quella! Mi carica tantissimo la mattina, di solito la lascio suonare perché mi piace, ma non oggi!
Scattammo in piedi entrambe, anche Elena probabilmente stava aspettando in grazia quel permesso sonoro di alzarsi. Erano le sei meno un quarto, e casa mia entrò in un clima di puro delirio. Elena andò nel bagno al piano di sopra per farsi la doccia, io la feci al piano di sotto. Trenta minuti dopo eravamo pronte, asciugate, vestite e più sveglie che mai. Avevamo ancora quarantacinque minuti per sistemare gli ultimi dettagli, anzi, quaranta! Mi ero dimenticata di fare benzina, quindi bisognava partire un attimo prima per stare nei tempi. Ci sedemmo a tavola a fare colazione; uno yogurt, cereali, una tazza di caffè ed eravamo a posto. L’allegria e l’agitazione si potevano quasi toccare, ed avevano contagiato il cane, che non capendo cosa stesse succedendo, era agitatissimo! Il gatto invece ci guardava schifato, come al solito, dal divano.
Dopo aver sparecchiato andammo a lavarci i denti, e poi in camera a stendere un velo di trucco per coprire le occhiaie. Sarebbe stata una giornata lunga e afosa, quindi niente matita nera, poco correttore, giusto per coprire i segnacci viola che avevamo sotto gli occhi, ed un leggero ombretto chiaro. L’unico tocco nero era il mascara resistente all’acqua. Intanto che Elena finiva di mettersi le scarpe, mi guardai allo specchio. Ero carina vestita così. Avevo un paio di sandali di cuoio, senza tacco, un paio di shorts di jeans dall’armadio della mia compare, ed una splendida maglietta di seta, unica nel suo genere, visto che era stata creata da un mio disegno dalla mia cara mammina. Infatti era una sarta, e quando riusciva mi faceva sempre qualche capo d’abbigliamento personalizzato.
Quella maglia era splendida, con un leggero scollo sul davanti, che però continuava sulla schiena, scoprendola quasi totalmente. Sulle maniche e sul bordo inferiore c’era una fascia elastica nera, che andava a creare il mio amato effetto palloncino. La seta poi era fresca, con una stampa fantastica sui toni del marrone. Era leggermente trasparente, ma il problema si risolveva mettendo un reggiseno marrone decorato. Soddisfatta mi girai e guardai Elena, che con una mia maglietta rossa con il disegno di una ranocchia, un paio di calzoncini bianchi e le mie amate converse di One Piece, stava benissimo, ma se mi avesse sporcato quelle scarpe, l’avrei uccisa. Erano un paio di logore All Star rosa chiaro, che però erano state candeggiate e ridipinte dalla sottoscritta. Ci ero affezionatissima, ed Elena aveva dovuto implorarmi in turco prima di ottenere il permesso di metterle.
Avevamo rispettato i nostri obbiettivi: eravamo comode, carine, non volgari e non avremmo sofferto il caldo.
Portammo in macchina lo zaino con il pranzo e la merenda, per poi tornare a salutare mia madre, che probabilmente ci stava odiando per averla svegliata così presto.
«Ciao mamma, ci vediamo stasera!» le dico dandole un bacio sulla guancia, seguita da Elena.
«Si, Selene, stai attenta in strada mi raccomando! Ricordati che ti ho messo il Telepass, quindi non dovresti avere problemi di code al casello. Rallenta molto quando ci arrivi vicino, altrimenti non si apre! Andate piano, non date troppa confidenza a nessuno, e state attente! Mi raccomando!» rispose mia madre, perennemente preoccupata. Le sorridemmo, rassicurandola, ed uscimmo di casa.
Salite in macchina iniziammo l’inventario.
«Allora Sely, patente?»
«Presa!»
«Zaino con pranzo?»
«Preso!»
«Macchina fotografica?»
«Presa!»
«Navigatore?»
«È nel cruscotto! Abbiamo tutto?»
«Pare di si!» rispose Elena trafficando con il navigatore. Lo inserì nella macchina, e mentre io fissavo la ventosa al vetro iniziò ad impostarlo.
«Ok fatto! Lecco giusto? Al porto!» mi chiese prima di confermare!
Il “Guidi con prudenza!” del navigatore sancì l’inizio del nostro viaggio! Eravamo in perfetto orario, anzi, quasi in anticipo! Mi immisi sulla strada dopo aver sistemato una ciocca ribelle, ed intanto che il navigatore tentava di localizzare il segnale, mi fermai a fare benzina. Per sicurezza era meglio fare il pieno, anche se vedendo l’importo avrei voluto piangere.
Mentre la radio riempiva l’abitacolo di note, la tensione iniziava a sciogliersi. Eravamo partite, finalmente, verso il nostro sogno!
Dopo un’ora di viaggio, quindi a metà strada circa, Elena tirò fuori dalla borsa un CD, e tutta sorridente lo inserì nell’auto. Già la prima canzone mi fece sorridere!
«Non ci credo, hai fatto un CD su ONE PIECE?» le dissi ridendo, intanto che la sigla della saga di Marineford veniva riprodotta!
Elena sorridendo annuì «Non solo le sigle, ma anche quella del liquore di Binks! Così possiamo cantarla! E poi ci ho messo altre sigle dei cartoni da cantare durante il viaggio! Hai voglia?» sembrava una bambina, tutta orgogliosa del suo lavoro, e faceva bene ad esserlo! Era stata un’idea fantastica!
«Eccome se mi va!!! Su il volume!!!» dissi, girando la manovella. La macchina iniziò così a pulsare di musica e felicità!
Quando arrivammo a Lecco, destino volle che iniziasse proprio la famigerata canzone di Binks! Io ed Elena la cantammo a squarcia gola, ondeggiando e gesticolando come matte. Eravamo stonate oltre ogni dire, ma ci divertivamo proprio per questo!
Finita la canzone abbassai totalmente il volume e mi fermai a chiedere indicazioni, è sempre meglio chiedere ai locali dove parcheggiare e le scorciatoie, Google ed il navigatore non sanno tutto!
Una gentile signora, con una figlia nel nostro stesso stato mentale a suo dire, ci fece arrivare ad un parcheggio enorme, quasi del tutto pieno, non troppo distante dal lago. Parcheggiai, e scendemmo dall’auto. Prendemmo lo zaino e ci avviammo verso il porto. Inutile dire che c’erano persone ovunque, sembrava di essere allo stadio, non avremmo mai trovato un buco da dove vedere lo spettacolo in quel trambusto! E per fortuna che eravamo partite presto, se avessimo ascoltato le idee malsane delle nostre madri di partire dopo pranzo, non avremmo mai trovato nemmeno parcheggio.
Camminammo per una buona mezzora, c’era gente arrivata con treni, pullman, persino alcuni che avevano preso l’aereo per assistere a questo spettacolo. Immaginavo che ci fosse stato il pienone, ma non così! Dovevamo sbrigarci a trovare un posto di osservazione, altrimenti sarebbe arrivata sempre più gente.
Sul molo 1 erano posizionate delle seggioline, ed era tutto circondato da corde rosse. Probabilmente erano i posti riservati a qualche autorità, maledizione.
Quando intravidi un posto a qualche metro di distanza, afferrai la mano di Elena ed inizia a zigzagare tra la folla chiedendo scusa in continuazione per gli spintoni.
Quando arrivai ad un molo totalmente libero ci rimasi malissimo, era stato chiuso perché il legno non era sicuro. In effetti non avrebbe mai retto il peso di tutta quella gente, era un vecchio pontile di legno marcio, ma di due persone... mi guardai intorno, nessuno sembrava far caso a noi. Il lago era molto basso in quel periodo, perché pioveva molto poco, se fossimo riuscite ad arrivare alle scalette senza farci notare, avremmo avuto una visuale discreta, e soprattutto non affollata.
Ripresi il braccio della mia amica, che mi guardava perplessa, e la trascinai sotto la catena di divieto, dicendole di correre.
Il molo sembrava infinito, ed i nostri passi somigliavano a quelli di un tirannosauro per le nostre orecchie. Mi pareva di essere a casa mia, a notte fonda, e dover andare in bagno senza svegliare nessuno. In quei momenti persino il tuo cuore fa troppo rumore! Quando finalmente raggiungemmo le scalette, ci nascondemmo sul gradino più basso, e con il fiatone ci guardammo attorno circospette. Nessuno ci aveva notate per fortuna! Sistemammo le nostre cose ed iniziammo ad aspettare, mancavano parecchie ore all’inizio, ma non ci saremmo mosse di li per niente al mondo! Inoltre c’era una barca a vela ormeggiata li di fianco, che ci teneva nascoste dalla folla. Era il posto perfetto!
Iniziammo a giocare a carte per far passare il tempo, ho perso il conto delle partite fatte. A mezzogiorno e mezzo iniziammo a mangiare, ringraziando l’inventore delle borse-frigo. Il caldo era soffocante, fortunatamente eravamo davvero ben organizzate, quindi non ci diede troppi problemi. Però la folla di gente nel porto continuava ad aumentare, e non volevo nemmeno immaginare quanto caldo potesse fare in quel groviglio di corpi, tutti accalcati! Sicuramente qualcuno sarebbe finito in acqua durante lo spettacolo, con gli spintoni che si davano!
Possibile che non avessero predisposto dei parapetto? O comunque delle transenne, c’era veramente il pericolo di cadere nel lago!

Alle due e mezza la zona era stata transennata, probabilmente dopo che qualcuno aveva fatto notare il pericolo, la polizia era ovunque, e le sedie del molo uno erano tutte occupate! Il caldo sembrava aumentare sempre di più, alimentato dal sole che brillava nel cielo, riflettendosi sul piatto specchio d’acqua. Era una giornata fantastica per andare al lago in effetti, forse avremmo dovuto indossare un costume. Lo spettacolo sarebbe iniziato a momenti… Ormai non mancava molto, me lo sentivo, persino l’aria era carica di eccitazione ed entusiasmo. Io ed Elena ormai avevamo una paresi alla faccia a forza di sorridere per tutto, ogni accenno a quello che stava per accadere provocava uno scoppio di ilarità. Oppure era isterismo? In ogni caso, se il fenomeno fosse andato avanti, mi sarei auto ricoverata in psichiatria.
Proprio mentre facevo questi pensieri, capii che lo spettacolo era appena iniziato; come feci? Semplice, la folla del porto iniziò ad urlare a squarcia gola.


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Eccoci qui ^_^ il tanto agognato incontro è alle porte ormai! Ho deciso di aggiornare ogni 3 giorni, salvo imprevisti dovrei riuscire a tenere il ritmo fino alla fine della storia! poi volevo ringraziarvi, veramente non ho parole, sono felicissima, e so che non faccio che ripeterlo, ma sono veramente entusiasta che questa storia, nata  per caso, sia piaciuta così tanto! 12 recensioni? non ne ho mai avute così tante!! grazie infinite a tutti/e!  
ora, vi lascio il link delle scarpe di One piece a cui mi riferisco, che sono veramente le mie, le ho finite qualche giorno fa, che ne pensate? le trovate QUI
  e   QUI!
bene, il mio frutto preferito è sicuramente quello di Marco, poter volare ed essere sempre in slaute è fantastico! ma il frutto che vorrei veramente? è quello di Wapol! mangia quello che vuole, e poi dimagrisce in maniera istantanea, il sogno di ongi donna! xD
bene, ora vi lascio, ringraziandovi ancora di seguire questa FF, fatemi sapere cosa ne pensate del capitolo, e... preferite l'anime o il manga?
baci baci!


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Capitolo 6
*** 5. Uno spettacolo indimenticabile ***


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Quando l’acqua del lago iniziò ad incresparsi e il molo a tremolare, a causa delle onde, non servivano annunci o presentazioni, sapevamo tutti che lo spettacolo era iniziato, e sapevamo anche che l’avevano fatto iniziare con i fiocchi e i controfiocchi!
In lontananza vedemmo arrivare a tutta velocità dei motoscafi, che trainavano una copia perfetta della mitica Going Marry! La polena sorridente solcava le acque, seguita da un’altra riproduzione fenomenale della Moby Dick. Sulla polena della seconda imbarcazione, si stagliava, fiero e possente, Barbabianca. L’emozione fu troppo forte, senza accorgermene stavo piangendo e ridendo allo stesso tempo. Quell’uomo mastodontico aveva la capacità di scaldarti il cuore con la sua sola presenza. Memore poi della saga di Marineford, vederlo dal vivo per me era uno shock. Le navi si fermarono a tre moli di distanza da noi, vicino a quello recintato e munito di sedie. Ero totalmente ipnotizzata da quel pirata, mi ridestai solo quando sentii la sua voce rauca e dolce.
«Gurarara, buongiorno a tutti! Mi hanno chiesto di fare gli onori di casa, visto che sono il più vecchio, ma non sono bravo in queste cose! Vi ringrazio per l’ospitalità, e godetevi, hem, lo spettacolo… e vi chiedo in anticipo, di perdonare l’irruenza dei miei figli!»
Era quasi impossibile, se me l’avessero raccontato non ci avrei mai creduto, eppure Barbabianca sembrava imbarazzato mentre parlava alla folla. A confermare le mie ipotesi ci fu la velocità con la quale si fece da parte, per lasciare campo libero agli altri. Non aveva la minima voglia di essere al centro dell’attenzione, pur essendo uno dei personaggi più attesi. Non gli avrebbero fatto usare il suo potere ovviamente, finché si trattava di fumo e fiamme ok, ma i terremoti erano un altro paio di maniche!
Nel frattempo, un vento gelido iniziò a soffiare sulla superficie dell’acqua, dove cominciarono a disegnarsi fantastici ghirigori di ghiaccio. In pochi secondi la vasta porzione di lago ante stante al porto, venne congelata, permettendo a tutti i personaggi di scendere dalle barche.
Scansionai l’area con lo sguardo, ma non riuscii a trovare l’ammiraglio Aokiji, unico possibile responsabile di quanto era appena accaduto. Considerata la sua pigrizia, non mi stupii della sua assenza. Era già stato troppo attivo nel congelare una piccola parte del lago.
Rufy e la sua ciurma furono i primi a mettere piede sul ghiaccio, provocando urli e schiamazzi dalla folla.
«Yohohoho, quante belle signorine!!!» esclamò Brook, correndo in modo improponibile verso la terraferma. La prima cosa che fece? Andò a chiedere ad una fanciulla della prima fila, se poteva mostrargli le mutandine, ovviamente.
Il pubblico scoppiò in un fragoroso applauso, accompagnato dalle risate generali. Più che uno spettacolo ben organizzato, sembrava avessero deciso di fare un meeting con i fan, e la cosa mi andava benissimo! Organizzare quel gruppo di scalmanati sarebbe stato impossibile, inutile e soprattutto incoerente. Alla fine erano quasi tutti pirati o personalità importanti e marcate, chi avrebbe potuto organizzare qualcosa di predefinito con loro? Solo un pazzo ci avrebbe anche solo tentato!
Mentre Brook e Sanji correvano dietro a tutte le gonnelle presenti nelle prime file, il resto della ciurma avanzava lentamente. Nami era splendida, sicuramente tutti i ragazzi del posto stavano sbavando a più non posso, di fronte a quelle curve, rese ancora più irresistibili dall’ancheggiare della rossa. Per non parlare poi di Nico Robin, la quale non era da meno. Rufy non la smetteva un secondo di saltellare a destra e a sinistra, ridendo e salutando tutti, mentre Chopper sembrava impaurito dalla quantità di persone, e se ne restava nascosto dietro a quel gran bel pezzo di ragazzo dai capelli verdi. Zoro era stato sicuramente il mio primo amore di ONE PIECE, non c’è ragazza che non abbia fantasticato almeno una volta sul muscoloso spadaccino, che però non smentiva il suo carattere, rimanendo impassibile di fronte agli schiamazzi della folla. Usopp si era travestito da Sogeking e camminava fiero accanto a Franky, che perennemente in mutande e camicia Hawaiana, si era messo nella sua posa preferita, gridando “SUPER!”. Mi facevano male le mani a forza di applaudire, per non parlare del mal di guance che avrei avuto l’indomani per il continuo sorriso che mi nasceva spontaneo sul viso.
Non sapevo più da che parte guardare, non volevo perdermi nemmeno un dettaglio di quell’esperienza unica, ma sarei impazzita se avessero continuato a comportarsi così.
Pochi attimi più tardi, comparvero anche Shanks ed alcuni dei suoi uomini più fidati, tra i quali riconobbi soltanto il padre di Usopp, il tizio panciuto con il cosciotto in mano e Ben Beckman, degli altri ignoravo il ruolo. A fianco dell’imperatore, camminava l’altro spadaccino super sexy, Drakul Mihawk, con la sua inconfondibile spada dall’elsa a forma di croce. Quando alzò lo sguardo per scrutare la folla, i suoi occhi attirarono l’attenzione di tutti; anche da quella distanza era impossibile non notare la loro particolare colorazione e forma. Il soprannome “occhi di falco” era più che meritato. Fu proprio lui il primo a guardare nella nostra direzione; quando il suo sguardo si posò su di me, un brivido freddo mi percorse la schiena. Era bellissimo, ma aveva la bellezza del leone: maestoso, fiero  e letale.
Ripresi a respirare quando spostò i suoi occhi d’ambra su qualcos’altro, faceva paura, però era maledettamente attraente!
Sospirai e ricominciai ad osservare la scena, mentre Elena mi stritolava una mano per l’emozione. Usopp e Franky avevano iniziato a lanciare in cielo fuochi d’artificio di mille colori, facevano più rumore che altro, però erano fantastici! Chopper invece, trascinato vicino al pubblico da Zoro, stava gongolando immerso nella dolcezza dello zucchero filato, regalatogli dalle fan, addolcito ulteriormente dagli infiniti complimenti che gli facevano. Era uno spettacolo vedere un procion.. hem.. una renna, arrossire e ringraziare!
Cuoco e spadaccino, intanto, stavano dando sfoggio del loro legame fraterno, tentando di staccarsi la testa a vicenda. I movimenti erano velocissimi, alternati da svariati insulti!
«Cosa vuoi, stupido marimo! Ti cucino con l’insalata!»
«Ma cosa vuoi cucinare tu? Cuoco da strapazzo! Ti faccio a fette!»
Rufy stava allungando le sue braccia, per afferrare le ciambelle di un chiosco non lontano dal porto, sgridato da un’inviperita Nami! Robin, per far vedere i suoi poteri, salutava tutti con sei braccia. Abbastanza inquietante come cosa, ma era il bello del suo personaggio, quell’aria di mistero che aleggiava attorno a lei la rendeva unica. Da un’altra barca scesero Smoker, con i suoi sigari in bocca e la sua fidata Tashigi alle spalle, Kobi, Garp, Iceburg, Paulie, Kokoro e la sua nipotina Chimney, che teneva stretto quel suo gatto/coniglio/cane blu. Il fumoso aveva stampata in volto la sua espressione preferita, corrucciata all’inverosimile, mentre gli altri sembravano contenti della scena che si trovavano davanti. Iceburg chiacchierava con la vecchia sirena, mentre Paulie inveiva contro tutte le ragazze, dicendo loro che erano sconce e dovevano coprirsi; comportamento che lo portò ad essere coinvolto nella lite tra Sanji e Zoro.
Intanto Garp e Kobi ridevano, mangiando biscotti e probabilmente commentando le varie scenette comiche a cui stavano assistendo. Effettivamente il palco di ghiaccio era diventato un circo ormai, tra lotte all’ultimo sangue, pagliacci ed animali parlanti… non mancava nulla!
Dalle varie imbarcazioni continuavano a scendere personaggi, fu impossibile trattenere le risate quando il “bel” Duval fece l’occhiolino, per non parlare dell’entrata in scena di Ivankov! Ma come diavolo faceva ad andare in giro con un testone del genere? Era veramente fuori misura!
Mr 2 Von Clay  piroettava da una parte all’altra, salutando tutti ed osannando lo stile Okama! Ripensando all’avventura di Sanji, non potei non ridere ancora più forte; chissà se avevano comunicato loro come era andata avanti la loro vita nel manga… probabilmente no, altrimenti non sarebbero qui così serenamente…
Arrivarono anche la dottoressa Kureha, in compagnia della madre adottiva di Rufy ed Ace, Curly Dadan; certo che quelle due erano una bella coppia, più brutte di così non le potevano disegnare, assieme a Kokoro erano una triade letale per gli ormoni maschili!
Ero assorta nella contemplazione delle varie scene che mi si presentavano davanti, quando un’ombra improvvisa oscurò il sole, proiettandosi sul porto. Alzammo tutti gli occhi al cielo, ma non riuscimmo a scorgere altro che un punto nero che volteggiava. Solo quando quella macchiolina iniziò a scendere in picchiata capii di chi si trattasse, era Pell, con i reali di Alabasta in groppa!
Il grande volatile atterrò sul ghiaccio, attirando lo sguardo di tutti; era enorme, con delle magnifiche penne color nocciola. Piegando l’ala fece scendere Re Cobra, Bibi e Igaram, che si annunciò, come al solito, schiarendosi la voce:
«Mimimimimiiiiiiiii scusate il ritardo» gridò, guadagnandosi l’ennesimo applauso del pubblico. Ormai erano arrivati quasi tutti, mancavano pochi personaggi all’appello, e due apparvero nel momento stesso in cui stavo tentando di fare il punto della situazione.
La bellissima imperatrice pirata stava facendo il suo ingresso, scortata dal suo fedele serpente, splendida come non mai! Era veramente la donna più bella del mondo, faceva sfigurare tutte le dive del cinema, emanando fascino allo stato puro. Accanto a lei, con la sua buffa andatura, Doflamingo avanzava, con il sorriso stampato sulla faccia e le piume rosa del giaccone che svolazzavano ribelli. Non ero ancora riuscita ad inquadrarlo come personaggio, sembrava uno stronzo egoista di prima categoria, che pensava solo a se stesso ed ai suoi affari, però c’era quel qualcosa che non mi quadrava, mi sorgeva sempre il dubbio che non fosse così cattivo. Sbaglierò? Può darsi, Oda è un autore imprevedibile, quindi ero pronta a vedere qualsiasi cosa nelle sue opere! Hancock e Doflamingo non diedero spettacolo, si misero da parte, osservando la scena.
Distratta dal balletto comico di calci, colpi di spada e corde tra cuoco, marimo e carpentiere, rischiai di cadere sul ghiaccio per lo spavento che mi fece prendere Elena, urlando ed arpionandosi al mio braccio.
Mi girai di scatto e la vidi indicare un punto non ben definito, dove era appena arrivato un piccolo motoscafo giallo, accompagnando il gesto con versetti indecifrabili. Aguzzai la vista, per quanto mi era concesso dalle lenti a contatto, ma riuscii solo ad intravedere due sagome che si avvicinavano, una alta e possente, l’altra più piccola, dalla camminata elegante. A giudicare dalla reazione della mia amica, dovevano essere Trafalgar Law e Kidd, senza dubbio. Solo il chirurgo della morte poteva far agitare così quella pazza. Anche i nuovi arrivati stavano battibeccando, ignoro quale sia stato stavolta il motivo scatenante, fatto sta che erano entrambi arrabbiati, e ammetto che Kidd arrabbiato è veramente spaventoso! La pelliccia del rosso ondeggiava minacciosa ad ogni suo passo, perfettamente coordinata con il movimento dei capelli, che non sembravano inclini a rispettare le leggi terrestri sulla gravità. Law invece aveva un’aurea minacciosa non dovuta alla mole o all’espressione, erano i suoi occhi glaciali a farti rabbrividire. Lasciai Elena a fare versetti e saltelli sul posto, incapace di articolare parole o frasi di senso compiuto, e mi concentrai sull’orizzonte, dove speravo di veder comparire Ace. Ero felicissima di aver visto tutti, ma era lui quello che mi interessava! La sua morte mi aveva letteralmente sconvolta, facendomi abbandonare totalmente ONE PIECE per parecchio tempo, e l’idea di vederlo vivo e vegeto, mi riempiva il cuore di gioia.
Il violino di Brook iniziò a suonare la tanto amata canzone dei pirati, inutile dire che al coro partecipò con entusiasmo tutto il pubblico! Persino Garp si lasciò andare ai festeggiamenti! Io ed Elena ci abbracciammo ed ondeggiando a tempo di musica, cantando a squarcia gola le strofe della canzone, che ormai conoscevamo a memoria! A metà della terza strofa però, il sole venne oscurato nuovamente; la musica cessò, ed ebbi solo il tempo di sentire la risata soffocata di Barbabianca ed un’imprecazione di disappunto di Law, qualcosa del tipo “di nuovo quei due scalmanati”. Mi si illuminò il viso quando vidi una meravigliosa fenice planare sulla folla, generando un alito di vento che fece volare via cappelli e scompigliò le acconciature delle ragazze. Le fiamme turchesi e sulfuree guizzavano sul corpo dell’animale, danzando frenetiche nel vento! La discesa di Marco mozzò il fiato a tutti, fiato che tornò solo quando dal cielo iniziò a precipitare una colonna di fuoco! Era lui, Ace! Il capitano della seconda flotta di Barbabianca atterrò con grazia sul ghiaccio, ridendo come un matto e non perdendo di vista Marco, che intanto era tornato semi umano, mantenendo solo le ali per poter rimanere in volo. Sicuramente i due comandanti stavano facendo una qualche sfida, peccato che tra fuoco e fiamme, mettessero a rischio l’incolumità di tutti.
«Finitela voi due! Siamo su una lastra di ghiaccio sospesa sull’acqua, se la sciogliete affogheremo tutti! Razza di idioti!» Gli urlò contro Law.
A quanto pareva non era la prima volta che facevano saltare i nervi al dottorino. Nel frattempo Barbabianca continuava a ridere, e Brook aveva ricominciato a suonare, ancora più allegro di prima. Marco scese a terra, ritornando umano, e quando parlò mi si sciolse il cuore; aveva una carica erotica assurda! Non era bello, non aveva uno sguardo sveglio, anzi, diciamocelo, aveva proprio la faccia da ananas lesso, però aveva un fascino incredibile! Emanava testosterone quell’uomo! Era il classico personaggio super affascinante, generatore di un unico pensiero nella mente femminile: “Sesso”.
«Hai ragione Law, scusa! Sentito Ace? Datti una calmata, altrimenti ci farai affogare tutti!».
Di tutta risposta pugno di fuoco rise, sistemandosi il cappello arancione sulla testa, in modo da scoprire il viso, e girandosi verso il chirurgo lo schernì con una bellissima faccia da schiaffi:
«Va bene infermiera, non lo farò più!»
Le lentiggini spruzzate sul viso del moro gli conferivano un’aria sbarazzina, se abbinate poi a quel fantastico sorriso strafottente, erano un’arma letale per il mio povero cuoricino!
Spesso mi ero ritrovata a fantasticare su come avrebbe potuto essere Ace in carne ed ossa, ma la realtà aveva superato di gran lunga tutte le mie fantasie. Il viso dai lineamenti perfetti era di una bellezza sconcertante, per non parlare degli occhi color onice, che sembravano scintillare. Spostai lo sguardo sul fisico asciutto e tonico del ragazzo, lasciato in bella mostra dall’assenza di vestiti sul busto. Il vessillo dei pirati di Barbabianca ornava la schiena muscolosa e perfetta, valorizzando l’ampiezza delle spalle e la curva lombare.
La risposta irriverente di Ace, provocò una contrazione dei muscoli facciali del chirurgo, generando un’espressione ringhiosa, che lo zolfanello ignorò.
Il clima di festa era palpabile, ad eccezione dell’assente Aokiji e del burbero Smoker, erano tutti sereni e rilassati. Hancock guardava schifata gli uomini che dalla terraferma tentavano di attirare la sua attenzione, con fiori e regali di ogni genere, mentre il fenicottero si aggirava in maniera sospetta sulla piattaforma gelata, seguito perennemente dallo sguardo di Mihawk. A quanto apre non ispirava molta fiducia nemmeno allo spadaccino.
Quando la melodia dello scheletro canterino terminò, il pubblico esplose in un boato di applausi ed urla di gioia. Tutti quei fan erano, come me ed Elena, entusiasti di vedere i loro beniamini, di poter raccontare ai propri figli un giorno “io c’ero, li ho visti!”!
D’un tratto un uomo annunciò la fine dell’incontro, e fu a dir poco massacrato verbalmente dal pubblico. Per noi fan era un sogno che si realizzava averli li, a portata di mano. Se solo avessi trovato il coraggio di correre loro incontro, avrei potuto toccarli con mano, ma non avevo intenzione di uccidermi correndo sul ghiaccio, ne di farmi arrestare.
Salutando il pubblico si avviarono tutti quanti verso le loro imbarcazioni, accompagnati da urla di disperazione e dal pianto del pubblico. Lo sconforto cancellò il sorriso dal mio volto, il tempo era volato, ed ora il sogno stava per finire, per sempre. Non li avremmo mai più rivisti, nessuno di loro avrebbe scelto di trasferirsi vicino a la nostra città, nonostante i paesaggi spettacolari eravamo pur sempre lontani dal mare, e loro erano tutti quanti figli dell’oceano. Quando furono tutti sulle barche, era rimasto solo un personaggio al centro della piattaforma: Ace.


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Eccomi! sono riuscita a postare il capitolo per miracolo! spero vi sia piaicuto, è stato il capitolo più impegnativo fino ad ora, ed infatti è uscito più lungo del previsto =/
spero non sia risultato noioso o pesante, fatemi sapere ^_^
ringrazio ancora tutti voi che leggete questa storia, sono veramente felicissima che vi piaccia e che continui a piacervi soprattutto!
per quanto riguarda la domanda, io amo l'anime, perchè sono troppo pigra per leggere il manga xD però ultimamente la sete di ONE PIECE mi ha portato a leggere i capitoli inediti, ed ho apprezzato moltisimo anche quelli! l'unica critica enorme che posso fare, la faccio alla versione italiana dell'anime, censurata oltre ogni dire, e soprattutto il doppiatore di "rubber" che viene cambiato a metà, è osceno! vabbè, ora vi lasciao che come al solito mi sono dilungata troppo -.-"
il prossimo aggiornamento spero di postarlo giovedì pomeriggio! ^_^
qual'è la vostra puntata (o capitolo) preferita/o???
Baci baci, alla prossima!!!

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Capitolo 7
*** 6. Prontezza di riflessi e narcolessia ***


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Ace si posizionò al centro della lastra ghiacciata, iniziando a creare cerchi di fuoco ai suoi piedi, lambendo tutta la superficie congelata.
«Enkai!» gridò il moro, ed il ghiaccio iniziò a sciogliersi, cedendo al calore delle fiamme.
Mentre i miei occhi si lasciavano trasportare dalla danza frenetica di quelle lingue di fuoco, assottigliando il ghiaccio a poco a poco, la mia mente mi trascinò nei ricordi di quando ero bambina, quando per tradizione si costruiva un enorme pupazzo, con fascine, paglia e rami secchi, vestendolo di stracci e dandogli le sembianze di una vecchia strega, per poi dargli fuoco appena calava la notte. Ricordo chiaramente le fiamme che divoravano la legna, rischiarando la notte; ed il loro fascino già allora era innegabile. Non potevo fare a meno di avvicinarmi il più possibile a quella pira, attratta dal calore delle fiamme. Il fuoco è un elemento che mi ha sempre affascinata, così bello e caldo, eppure altrettanto devastante ed incontrollabile. Forse è stata questa mia folle predisposizione alla piromania a farmi eleggere Ace come mio personaggio preferito, chi può dirlo…
Quando la mia mente tornò al presente, vidi le fiamme ritirarsi nel corpo di Ace, che intanto era saltato su una minuscola imbarcazione monoposto, e le altre imbarcazioni che si allontanavano, rimpicciolendosi man mano. Solo Marco, a bordo di una barchetta, simile a quella di Ace, era ancora relativamente vicino. Forse, anzi sicuramente, stava aspettando il moro, per evitare che creasse casini.
Le imbarcazioni erano praticamente identiche a quella che Ace, nel mondo di ONE PIECE, azionava con il suo fuoco. Chissà quale diavoleria avevano inventato per realizzarle in modo che funzionassero anche in questo universo.
Dopo aver fatto un cenno del capo a pugno di fuoco, il comandante della prima flotta azionò il motore ed iniziò a dirigersi verso di noi. Probabilmente avevano deciso di fare un giro panoramico del lago, con una giornata come quella sarebbe stato un delitto non godere delle meraviglie del posto. Sullo specchio d’acqua blu si rifletteva il profilo delle montagne smeraldine e l’azzurro pallido del cielo. Era veramente la giornata perfetta per un giro sul lago, magari avremmo potuto approfittarne più tardi.
Anche Ace partì, raggiungendo il biondo a tutta velocità, proprio mentre stava passando vicino al pontile dove ci trovavamo. Erano a pochissimi metri da noi, vederli così da vicino era un lusso che non mi sarei aspettata di avere, andava oltre le mie più rosee aspettative. Poter osservare il fiero marco, e lo sconsiderato pugno di fuoco, mentre fendevano l’acqua con quelle piccole monoposto, era veramente più di quanto potessi sperare. Ma il destino a quanto pare non aveva ancora esaurito le sue sorprese per me.
Ace infatti si girò verso di noi, salutandoci con un rapido cenno della testa, prima di cadere rovinosamente in acqua, ribaltando la barchetta.
Accade tutto in pochi secondi, ma sembrarono ore; mi parve di avere tutto il tempo del mondo per lanciare il cellulare ad Elena, sfilarmi i sandali e buttarmi in acqua, accompagnata dalle urla di Marco, Elena e della folla. Quando il mio corpo entrò in contatto con la fresca acqua lacustre, mi occorse qualche secondo per trovare l’orientamento e riuscire ad aprire gli occhi. L’acqua era di un azzurro opaco spettrale, e la profondità era notevole. Nuotavo più in fretta che potevo, verso l’ombra della barca di Ace, per poi immergermi sempre di più, alla ricerca del corpo del moro. Gli occhi bruciavano ed anche i polmoni iniziavano a protestare per la mancanza di ossigeno. L’aria che avevo immagazzinato non mi sarebbe bastata ancora per molto, ma se fossi ritornata in superficie per respirare, sarebbe stato impossibile salvarlo. Le acque di lago erano tra le più pericolose, ricche di correnti e mulinelli che mettevano a rischio i nuotatori più esperti, figuriamoci i sacchi di patate che cadevano in acqua incapaci perfino di stare a galla. Quando ormai il dolore ai polmoni era divenuto insostenibile, e la necessità di respirare impellente, finalmente la mia mano toccò qualcosa. Ormai incapace di tenere gli occhi aperti, afferrai quel corpo solido, portandolo vicino al mio. Avevo afferrato un braccio di Ace, finalmente l’avevo trovato! Iniziai a risalire verso la superficie, ormai cieca nell’acqua, nuotavo con tutte le mie forze per raggiungere l’aria. I polmoni si contrassero, facendomi espellere tutta l’aria che avevo trattenuto fino ad allora, ma riuscii a non respirare, mancava poco, me lo sentivo, e lo speravo.
Mi ero immersa più a fondo di quanto pensassi, ed appena raggiunsi il pelo dell’acqua i polmoni si dilatarono, riempiendosi finalmente della tanto agognata aria. Strattonai immediatamente il peso morto di Ace, facendo uscire dall’acqua almeno la testa. Lentamente la vista ritornò normale, per miracolo non avevo perso le lenti a contatto, e riuscii a vedere il pontile, dove Elena si sbracciava per farsi notare. Ripresi a nuotare, sforzandomi di tenere il capo del moro fuori dall’acqua. Braccia e gambe mi bruciavano per lo sforzo, ed anche il fiato mi stava abbandonando, ma riuscii comunque a raggiungere quelle maledette scalette. Elena mi tendeva la mano, per aiutarmi ad uscire, ma il metallo scivoloso era un ostacolo troppo grande da superare con le nostre forze e ottanta chili in spalle. Marco con un rapido balzo alato, piombò sul molo in aiuto della mia amica, ma issare Ace, che non collaborava minimamente, era impossibile. Se tentavo di spingerlo verso di loro, sprofondavo in acqua, se la fenice si fosse sporta troppo, rischiava di cadere, peggiorando ulteriormente la situazione.
Sentivo il panico iniziare a farsi strada nel mio petto, come avremmo fatto a tirarci fuori da quel pasticcio? Ace andava rianimato immediatamente! Non avevamo tempo da perdere!
Ad un tratto delle mani spuntarono dalle scalette, afferrarono me ed il mio carico, e ci sollevarono, finché Marco non riuscì a prenderci.
Finalmente ero fuori dall’acqua, e stremata mi sdraiai a pancia in su, sul legno scaldato dal sole, ansimante. Dopo aver ripreso fiato, mi sedetti a gambe incrociate, aiutata da Elena, che era l’incarnazione della preoccupazione.
«Grazie al cielo stai bene! Sei rimasta sott’acqua per un’infinità di tempo! Non azzardarti mai più a farmi prendere uno spavento del genere! Mi hai sentita Sely?» mi intimò la mia amica. Annuii, guardando le barche avvicinarsi al pontile, dove Ace, sdraiato scompostamente, russava, dopo essere stato strapazzato dalla fenice, che sicuramente appena quell’incosciente si fosse svegliato, l’avrebbe strangolato con le sue mani. La folla intanto era tenuta a distanza dalle forze dell’ordine, che a fatica difendevano il ponticciolo dall’assalto dei fan.
Quell’idiota aveva avuto uno di quei suoi stramaledetti attacchi di narcolessia! E non si era nemmeno accorto di aver rischiato la vita!
Sbuffai esasperata, liberandomi di tutta le tensione. Almeno stava bene, ero riuscita a tirarlo fuori dall’acqua in tempo. Ero fradicia, e la maglietta ormai aderiva come una seconda pelle al mio corpo, per non parlare della trasparenza, quindi incrociai le braccia attorno al busto, per nascondermi almeno un po’.
«Selene, ora mi dici di grazia, perché ti sei buttata così all’improvviso? Almeno potevi urlare, chiedere aiuto, cosa ti è saltato in mente? Non sai che è pericoloso il lago?» mi sgridò Elena, guardandomi dall’alto con le braccia conserte. Era visibilmente scossa, quanto ero rimasta in quel lago per farla spaventare così?
«Scusami, è che ho agito d’istinto… Ho pensato che avendo ingerito i frutti del mare, avendone poi mantenuto i poteri in questo mondo, non fossero comunque in grado di nuotare. Le barche erano lontane, l’unico vicino era Marco, che anche volendo non avrebbe potuto tuffarsi per salvarlo. Gli unici nuotatori nelle vicinanze eravamo io e te, e sinceramente tu stai a galla per miracolo in piscina, rimanevo solo io. Non potevo lasciarlo annegare, mi dispiace di averti spaventata, ma non c’era altra soluzione.» le risposi, sincera e pacata.
Era la pura verità, avevo reagito d’istinto, il mio cervello aveva elaborato tutti quei dati in meno di mezzo secondo, facendomi scattare verso il lago; non avevo nemmeno avuto il tempo di riflettere sulla pericolosità di quello che stavo facendo, l’avevo dovuto fare, punto.
La mia amica mi guardò, ancora scossa, ma più rilassata di prima, probabilmente lo spavento iniziale stava lasciando spazio alla consapevolezza che avevo pienamente ragione.
«Ok.. Beh, almeno hai salvato il cellulare! Guardati come sei ridotta, sembri un pulcino bagnato!» affermò ridacchiando. Mi stava per caso prendendo in giro? Pessima mossa.
«Hai ragione» dissi rialzandomi e mettendomi di fronte a lei, «Sono veramente fradicia, e tu… tu sei troppo asciutta, davvero troppo asciutta…».
Sorrisi malignamente, facendole capire le mie intenzioni, ma non le diedi tempo di scappare, mi lancia verso di lei, imprigionandola in un abbraccio umido e scuotendo la testa a più non posso. Era un movimento molto simile a quello del cane Beethoven, ma ottenni quello a cui miravo, ovvero inzuppare a dovere Elena, la quale nel frattempo si dibatteva, cercando di liberarsi dalla mia stretta. Quando la lasciai andare ormai era tutta bagnata e spettinata, quasi quanto me.
«Maledetta strega! Questa me la paghi!» mi sibilò, lasciandosi poi andare in uno scoppio di ilarità. Non me l’avrebbe mai fatta pagare, sapeva ancora prima di prendermi in giro che se io ero bagnata, da li a poco lo sarebbe stata anche lei.
Continuammo a ridere, rimettendoci a sedere sul molo. Il sole era talmente caldo che i capelli iniziavano già ad asciugarsi. Per i pantaloncini di jeans e la maglietta però sarebbe servito molto più tempo.
Quando ormai dello scoppio di risa rimanevano solo le lacrime agli occhi e gli ultimi singhiozzi, un enorme mano entrò nella mia visuale. Era la mano più grande che avessi mai visto, attaccata ad un braccio immenso, che apparteneva ad un uomo colossale con i baffi più strani del mondo, Barbabianca. Appena vidi quella mano protesa verso di me, con il palmo all’insù, ebbi un dèjà vu. Mi parve di aver già visto quella scena, dove gli occhi di quell’uomo erano un invito ad afferrare quell’arto, per rimettermi in piedi. Decisi di accettare l’invito, anche se titubante. Appena afferrai quella mano, capii dove avevo già visto quella scena, era stato durante le puntate dell’anime, quando mostravano il passato di Ace, anche in quel frangente Barbabianca aveva teso la sua mano, per aiutarlo a rialzarsi.
La mano era calda ed avvolgeva completamente la mia. Quando fui in piedi feci per staccarla, ma il pirata non mi lasciò andare, anzi, andò a posare anche l’altra mano sulla sua, racchiudendo la mia in una stretta leggera. Sera quasi surreale che quelle mani gigantesche potessero essere così delicate.
«Ti ringrazio per aver salvato quello sciocco di mio figlio! Non è contento finché non ci fa spaventare almeno una volta al giorno, quel moccioso!» mi disse sorridendo. Era un personaggio che metteva soggezione, ma che sapeva svelare un lato molto dolce quando voleva. I suoi occhi, pur essendo relativamente piccoli, erano profondi e carichi di sincerità, era veramente grato che avessi salvato Ace, ma come avrei potuto non farlo?
«Non serve ringraziarmi, l’ho fatto volentieri!» dissi sorridendo a mia volta, leggermente imbarazzata da tanta gratitudine. Quando mi lasciò andare incrociai nuovamente le braccia al petto, per nascondere l’eccessiva trasparenza.
Barbabianca mi sorrise di nuovo, avviandosi poi verso il corpo addormentato di Ace.
«Hey voi due, ragazze! Venite qui, abbiamo una doccia ed un cambio abiti da offrirvi, non fatevi problemi!» gridò una voce femminile alle nostre spalle.
Quando ci girammo, l’espressione “occhi fuori dalle orbite” divenne realtà sui nostri volti. Tutte le imbarcazioni dei personaggi erano arrivate nei pressi della banchina, il che voleva dire che non solo avevamo fatto le cretine davanti a tutti, ma anche che io ero praticamente in reggiseno di fronte a tutti loro, pubblico compreso. Sentii le guance arrossarsi immediatamente a quel pensiero, tutto il sangue che avevo in corpo si concentrò sulle mie gote.
Quando i neuroni nella mia testa ripresero a funzionare, collegai la voce di prima a quella di Nami, che infatti ci guardava sorridente a bordo della Mini-Going Marry. Appena vidi Robin accanto alla rossa, mi ricordai immediatamente delle mani che ci avevano salvato dall’acqua, era stata sicuramente lei ad aiutarci. Le sorrisi nel momento in cui i nostri sguardi si incrociarono, e lei ricambiò. Era un grazie silenzioso, che però avrei sicuramente espresso a voce appena ne avessi avuta l’occasione. Nami vedendo che non accennavamo a muoverci, ci incalzò ulteriormente.
«Allora? Cosa state aspettando? Dai non fate complimenti! Sanji! Zoro! Sbrigatevi a mettere la passerella, altrimenti come pensate di farle salire? Non volano sapete!?»
La passerella fu issata immediatamente dal cuoco, che avrebbe fatto qualsiasi cosa ordinata dalla sua navigatrice. Lo spadaccino invece si era limitato a brontolare qualcosa sulle buone maniere.
«Selene, cosa facciamo?» mi domandò Elena titubante. Non ne avevo idea, ma rifiutare mi pareva scortese, e poi che diamine, volevo salirci a bordo della Going Marry! Inoltre l’idea di una doccia, per lavar via l’acqua lacustre e sistemarmi, non mi dispiaceva affatto.
«Beh, una doccia la farei volentieri, tu no?» le domandai di rimando, e raccogliendo i miei sandali mi avviai verso l’imbarcazione. Elena si riscosse dallo stupore, afferrò lo zaino e mi seguì. A quanto pare avremmo potuto sognare ancora un po’.


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Eccomi puntuale puntuale xD strano ma vero xD allora, la mia puntata preferita è la 461, dove mostrano l'incontro tra Ace e Barbabianca, l'ho adorata! ^_^ poi amo moltissimo anche quella dell'incontro alla locanda ad Alabasta =) 
stavolta non mi dilugo molto, vi lascio solo questo video, che io ho trovato esilarante xD   eccolo QUI  !!! sono troppo carini! xD 
ed ora la domanda, ormai è diventata un rito! xD occhio che potrebbe essere spoiler, se qualcuno si è fermato alle puntate in italiano... 
Secondo voi, Sabo è vivo?
Baci baci, alla prossima!!!

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Capitolo 8
*** 7. Un invito che non si può rifiutare! ***


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La passerella che collegava il vecchio pontile con la barca, non era molto stabile, per cui non rifiutai la mano protesa di Sanji, che poi aiutò anche Elena. Mi trovai subito davanti la famosa navigatrice, che mi strinse calorosamente la mano.
«Piacere di conoscerti, io sono Nami, anche se lo saprai già.. come ti chiami?»
«Selene, e lei è Elena, la mia migliore amica! Grazie mille per averci offerto il vostro bagno per risistemarci. Ma… dobbiamo pagare per il bagno o è gratis?» chiesi. Educazione o no, non avevo molto contate con me, e conoscevo bene la tendenza della rossa a far pagare qualsiasi cosa! La mia domanda fece ridere di gusto Robin, che si preoccupò anche di rassicurarmi dicendomi:
«Non preoccupatevi, non vi farà pagare nulla stavolta! Le abbiamo vietato di imporre pagamenti assurdi agli ospiti!»
«Ok, allora grazie mille! Anche per il salvataggio ovviamente, senza il tuo aiuto saremmo ancora ammollo!» risposi a mia volta.
«Non c’è di che, era il minimo che potessi fare!»
Sorrisi di rimando, ma non feci in tempo a fare altro, perché il cuoco casanova si intromise, afferrando le mani di Elena e le mie, e guardandoci con occhi adoranti disse: «Signorine, prego, vi accompagno al bagno! Nami-Swan ha già sistemato dei vestiti per voi due, seguitemi, sarete affaticate…»
Avvisare il povero cuoco del pericolo che aveva alle spalle, prima che l’enorme gancio destro piombasse sulla sua testa, fu impossibile.
«Maleducato! Stavamo parlando!» gridò Nami, mentre Sanji a terra gongolava, osannando la bellezza della sua dea quando era arrabbiata. Era veramente malato quell’uomo. Nami ci fece strada fino ad una porticina di legno chiaro, che tenne aperta mentre entravamo.
«Eccoci qui, fate come se foste a casa vostra! Per i vestiti bagnati non preoccupatevi, stendeteli pure sul separé, si asciugheranno in fretta! Fate con comodo!» esclamò prima di congedarsi, chiudendosi la porta alle spalle.
La stanza in cui ci trovavamo non era enorme, ma era più fornita di una beauty farm. Sulla parete sinistra c’erano tre docce allineate, ognuna con un apposito ripiano stracolmo di flaconi. Mi avvicinai curiosa, leggendo alcune fragranze. C’erano shampoo all’albicocca,doccia schiuma alla mora, creme idratanti per i capelli al cocco, persino uno scrubs esfoliante all’oliva. Sulla destra invece erano posizionati i sanitari, mentre la parete più ampia era rivestita di specchi, con quattro lavandini di vetro chiaro, anch’essi carichi di prodotti di ogni tipo.
Finito il giro di ispezione, ci spogliammo in fretta e ci infilammo sotto i caldi getti d’acqua delle docce cromate. Io usai uno shampoo alla vaniglia ed un doccia schiuma al cioccolato, mentre Elena optò per zucchero a velo e pesca. Una volta lavate, ci avvolgemmo nei morbidi asciugamani bianchi ed iniziammo ad asciugarci e vestirci, ancora immerse nel vapore profumato. Nami ci aveva fornito un cambio completo, dalla maglietta all’intimo. Fortunatamente avevamo una taglia simile, fatta eccezione per il reggiseno, che dovemmo stringere al massimo per farcelo andar bene. Una volta sistemati i capelli sciacquammo i vestiti con acqua pulita, stendendoli poi sui separé di legno chiaro. Non si sarebbero asciugati tanto facilmente, i jeans soprattutto.
Appena mettemmo piede fuori dalla stanza, Sanji ci fu addosso, offrendoci una bevanda a base di non so cosa, preparata appositamente per noi. Accettammo volentieri, ed andammo a ringraziare nuovamente Nami per la sua gentilezza.
«Non serve nessun ringraziamento! Avete salvato Ace, nessuno di noi sarebbe riuscito a raggiungerlo in tempo, anche se guardandolo non sembra stare così male, sta ancora russando sul pontile!» rispose la navigatrice, indicando la banchina dove effettivamente lo zolfanello stava ancora russando, sorvegliato a vista da un Barbabianca divertito ed un Marco contrariato e perplesso.
«Assurdo, sapevo che era narcolettico, ma non pensavo arrivasse a questi punti» esclamò Elena, guardando dubbiosa Ace.
Marco appena si accorse della nostra presenza, diede un calcio sul fianco al moro, facendolo scattare in piedi in uno stato confusionale.
«Chi c’è? Chi è? Dove sono? Che è successo?» chiese esitante pugno di fuoco, grattandosi la testa ormai asciutta.
«Gurarara. Figliolo, sei incredibile!» dichiarò Newgate scuotendo la testa. Il comandante della prima divisione intanto lo guardava malissimo, con le braccia incrociate al petto.
«Hai idea dello spavento che hai fatto prendere a tutti quanti, eh? Come si fa ad essere così idioti!» gli gridò contro, ottenendo solo l’effetto di aumentare la perplessità nello sguardo di Ace.
«Che ho fatto ancora? Deve essere sempre per forza colpa mia?» chiese con aria innocente Portuguese, sbadigliando.
«Si, razza di imbecille! È perennemente colpa tua! Come si fa ad addormentarsi mentre si sta navigando, eh? Me lo spieghi?! Sei caduto in acqua brutto cretino! Se quella ragazza non si fosse tuffata e non avesse tirato fuori la tua testa vuota dal lago saresti annegato! Sei un incosciente! Un idiota, eh!» sbraitò Marco, visibilmente alterato, indicandomi. Pugno di fuoco si girò a guardarmi, e dopo qualche secondo mi ringraziò, facendomi un mezzo inchino, come quelli che gli aveva insegnato Makino per esprimere gratitudine. Sorrisi ripensando alle fatiche che aveva affrontato quella povera donna per educare minimamente Ace e Rufy.
«Grazie per avermi salvato!» disse, facendomi diventare rossa in viso.
«Non c’è di che…» risposi imbarazzata, mentre mi attorcigliavo una ciocca di corti capelli corvini dietro l’orecchio. Era un gesto che facevo sempre quando mi sentivo particolarmente in imbarazzo.
Quando il moro si raddrizzò, un urlo squarciò l’atmosfera.
«Ace! Maledetto incosciente! Vuoi spaventarmi a morte???»
Dadan si stava facendo strada sul ponte di una barca non distante ed evidentemente si era presa un bello spavento per la salute del ragazzo.
«Ma insomma, avete finito di insultarmi tutti? Cosa ti ho fatto stavolta? Eri preoccupata per me?» chiese ingenuamente Ace, facendo arrossire Dadan, che si affrettò a negare tutte le sue preoccupazioni, fingendosi alterata per lo stato pietoso in cui aveva ridotto i vestiti. Quella donna era incredibile, aveva cresciuto Ace come un figlio, e gli voleva bene, ma non riusciva ad esprimergli l’affetto che provava per lui, e la cosa era reciproca. Feci appena in tempo a scacciare i ricordi della reazione di Dadan alla guerra di Marineford, non avevo intenzione di mettermi a piangere davanti a tutti. A casa probabilmente l’avrei fatto, ma non li. Chissà, forse se lei conoscesse il futuro di Ace, gli direbbe quanto tiene a lui. Sarebbe bello poter salutare i propri cari un’ultima volta, poter dar loro un ultimo abbraccio, mettendo in chiaro tutto l’amore che proviamo per loro. Da quel punto di vista ero stata fortunata, ero riuscita a dire addio a mio padre, ero riuscita a dirgli che gli volevo bene da morire, ero riuscita ad abbracciarlo prima che i farmaci lo addormentassero. Quegli attimi, vissuti in una squallida stanza d’ospedale, erano i miei ricordi più preziosi, che però non era il momento di riassaporare. A casa, mi dissi nuovamente, a casa avrei pianto, ma non ora.
«A proposito di vestiti bagnati, i vostri non saranno asciutti prima di sera, che ne dite di rimanere con noi per cena? Da programma resteremo qui, in una villa sul lago, fino a domattina, vi andrebbe di rimanere con noi? Almeno un altro po’… Siete le prime persone con cui possiamo conversare; quegli scimmioni che ci scortano sono di poche parole, mentre i giornalisti ci tartassano di domande e basta, almeno con voi due potremo chiacchierare tranquillamente…» chiese Nami, con uno sguardo implorante.
Non potevo credere alle mie orecchie, ci stavano veramente chiedendo di rimanere con loro per cena? In una villa sul lago di Como, con loro? Vi prego, qualcuno mi dia un pizzicotto e mi svegli ora, perché se questo sogno continua, il risveglio sarà ancora più doloroso.
Elena fissava Nami a bocca aperta, non riuscendo a capacitarsi, come la sottoscritta,  della richiesta che ci avevano appena fatto.
«Hey, la rossa ha ragione!» gridò Ace, che con un balzo si appollaiò sul parapetto della Merry in miniatura.
«Restate con noi, almeno a cena! Mi hai salvato la vita no? Il minimo che posso fare è questo!» continuò il moro, guardandomi dritta negli occhi.
Ok, questo era veramente troppo per il mio cuore, che ormai aveva come obbiettivo lo sfondamento della cassa toracica.
«Beh…» risposi esitante, alla fine eravamo in giro da stamattina presto, il viaggio di ritorno era lungo e poi non potevo lasciare parcheggiata lì l’auto, ed andare chissà dove sul lago di Como. Non era propriamente una pozzanghera, attraversabile in dieci minuti. Passare una serata con loro sarebbe stato meraviglioso, un sogno fin troppo bello per essere reale, ma a malincuore era irrealizzabile.
«Verremmo volentieri, ma vedete, dobbiamo affrontare un lungo viaggio per tornare a casa, ed essendo venute in auto dovrei guidare stanca e di notte. In più non posso lasciare qui la macchina e andarmene chissà dove… Ci dispiace veramente tant-» non riuscii a finire la frase, visto che fui interrotta dal Viceammiraglio Garp in persona.
«Sciocchezze! Daremo le chiavi ad uno di questi signori che ci accompagnano ovunque, che porterà l’auto alla villa. Dopo cena deciderete se rimanere per la notte e ripartire l’indomani, o se preferite chiederemo a due nostri autisti di accompagnarvi a casa, così non dovrete guidare! Uno guiderà la vostra automobile, mentre l’altro vi seguirà con un’altra vettura. Non potete assolutamente andarvene, ci lascereste con un debito enorme da sanare, la vita di un nipote vale come minimo quest’ospitalità, anche se il nipote in questione è uno stupido pirata!» concluse sorridendo a me, ma guardando in cagnesco Ace. Se prima ero rimasta senza parole, ora rasentavo il mutismo.
«Il vecchio ha già pensato a tutto! Non vi ha lasciato scampo ragazze! Forza, fatelo anche per noi, potremo fare festa!» esclamò Ace saltando giù dal parapetto e venendo verso di noi. Il mio cuore perse un battito alla vista di quei muscoli, che si contraevano e si rilassavano, man mano che il moro avanzava.
«Comunque… Io sono Ace!» disse porgendomi la mano.
«Selene…» risposi, lasciando che la mia mano si muovesse verso la sua.
«Piacere di conoscerti, Selene…» sorrise, ed io mi sciolsi definitivamente, sopraffatta dalle emozioni. Gioia, stupore, imbarazzo, eccitazione, entusiasmo. Il tono e lo sguardo con cui aveva pronunciato il mio nome,  mi destabilizzarono definitivamente il battito cardiaco. Sentii le guance avvampare, e distolsi lo sguardo da quei pozzi color pece, che stavano risucchiando le mie facoltà mentali, già ridotte dalla situazione generale.
Mi lasciò andare la mano, e si presentò ad Elena con un cenno del cappello.
«Allora: Elena, Selene… vi invito ufficialmente a cenare con noi, come segno di gratitudine! Accettate?» affermò Ace, che ci guardava, in attesa di risposta.
Io mi voltai verso Elena, che dal canto suo mi stava già fissando con uno sguardo stralunato. Sicuramente ci trovavamo in circostanze molto particolari, a tratti folli e grottesche, che mandavano all’aria ogni genere di raziocinio.
Ma d'altronde, come si poteva rifiutare un invito del genere?


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Et Voilà, ancora una volta puntuale! xD Vi avviso che il prossimo capitolo non lo pubblicherò così in fretta, infatti i capitoli 8 e 9, sono particolarmente ostici. li ho già abbozzati, ma vanno trattati con le pinte e mooolta attenzione, quindi mi prendo del tempo in più per farlo... i tempi di aggiornamento quindi si allungheranno, avrete un capitolo a settimana, almeno per i prossimi 2 o 3 capitoli, poi si vedrà! vi chiedo scusa, ma ve ne accorgerete leggendo, che sono veramente carichi di informazioni fondamentali per la storia, che devo elaborare, esporre e rendere comprensibili! è già, perchè nella mia testolina i capitoli sono già a posto, e io so già tutto sulla mia storia, ma voi che per vostra fortuna non vivete nella mia mente no, e devo ragionare parecchio su cosa dirvi e cosa non dirvi nei prossimi capitoli! xD
come avrete capito le risposte a moltissime delle vostre domande sulla storia le avrete nei prossimi aggiornamenti ^_^ per ora vi lascio a questo capitolo, relativamente tranquillo! ^_^
ps. secondo me Sabo è vivo, anche se da un certo punto di vista lo trovo ingiusto (ma perchè non è intervenuto per salvare Ace? Sabo preso a cannonate, Rufy disfato di botte, Zoro lo affettano mille volte, e solo Ace muore? con un pugno? -.-" vabbè lasciamo perdere xD)
come al solito vi ho tediato con le mie stranezze fin troppo!!! colgo l'occasione epr ringraziare tutti voi, non pensavo che questa storia potesse piacere così tanto, veramente, grazie ^_^ e un GRAZIE gigante a Lenhara per l'aiuto, eh! XD
Seguirete le puntate su Italia2? da domani sera trasmetteranno One piece! (marineford forse? O_O)
Baci baci, alla prossima!!!

Immagini e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di lucro



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Capitolo 9
*** 8. Verità ***


c1




Finite le presentazioni, che consistettero principalmente nell’annunciare i nostri nomi, visto che a noi due i loro erano già noti, consegnai le chiavi dell’auto ad uno dei loro autisti, spiegandogli dove avevo parcheggiato ed il modello della vettura.
I giornalisti stavano tentando di avvicinarsi in tutti i modi alle barche, frenati dalla polizia locale, che aveva gentilmente deciso di sorvolare sul fatto che io e la mia amica avevamo spudoratamente ignorato un divieto d’accesso. La ramanzina però non ce la risparmiarono di certo.
Dopo che Marco ebbe caricato sulla copia della Moby Dick le due monoposto, intimando ad Ace di stare alla larga dall’acqua, le imbarcazioni partirono, lasciandosi alle spalle il porto gremito di fan, che in quell’istante stavano provando un odio senza confini per me ed Elena.
Odio che approvavo al cento per cento, avevamo avuto una fortuna sfacciata, prima nel trovare quel pontile deserto, poi nel ricevere questo invito. Per come erano andate le cose, la caduta di Ace era stata una manna dal cielo, anche se mia aveva spaventata, e non poco. Ero brava a nuotare, ma il lago rimane sempre un rischio; ed essere immersa nell’acqua, senza aria nei polmoni e senza vedere nulla, era un’esperienza che non volevo ripetere.
Mentre le imbarcazioni fendevano l’acqua, ondeggiando leggermente, mi ricordai che Elena soffriva terribilmente di mal di mare. Una volta si era sentita malissimo a bordo di un pedalò, chissà come avrebbe affrontato quella traversata. Potevo solo sperare che non durasse troppo.
Come a confermare i miei pensieri, cinque minuti più tardi Elena aveva la testa penzoloni fuori dall’imbarcazione, con la sottoscritta che le teneva all’indietro i capelli e le carezzava leggermente la schiena. Fortunatamente anche un signore che faceva parte della security soffriva dello stesso disturbo, ed offrì alla mia povera compagna di avventure, una pastiglia per alleviare il senso di nausea.
Dopo un quarto d’ora infernale, le condizioni di Elena migliorarono leggermente. La nausea era cessata, così come i sudori freddi, ma il viso era ancora pallido da far spavento.
«Resisti ancora un attimo, siamo quasi arrivati!» disse Nami, accovacciandosi accanto a noi. Si erano preoccupati tutti per quel malore, e dal canto mio, tutto quell’ondeggiare iniziava a darmi fastidio; la vita del pirata non era proprio la mia strada a quanto pareva.
Pochi minuti più tardi le barche a motore si spensero, annunciando il nostro arrivo a destinazione, e tutte le imbarcazioni furono attraccate su piccoli pontili, che sporgevano da una piattaforma di cemento.
Quando vidi la villa per poco non mi slogai la mascella, tanto restai a bocca aperta.
L’abitazione, o meglio la reggia, che mi trovavo davanti era immensa, di una bellezza unica e suggestiva. Un grande cancello di ferro battuto si ergeva maestoso poco dopo i pontili, delimitando l’accesso a quella meravigliosa magione. Al nostro arrivo era completamente spalancato, permettendomi di vedere il giardino e l’edificio.
Il parco era un tripudio di colori, dal rosa dalle buganvillee, che si intrecciavano ai gazebo bianchi, all’arcobaleno di viole e ciclamini. Vi erano parecchi alberi dalle fronde verdeggianti, altri invece ornavano angoli del prato con le loro chiome purpuree. Un ciottolato bianco, incorniciato da enormi vasi carichi di campanule, portava al portone principale della casa, sulle cui pareti si stendeva un velo irregolare di edera. Tutta la proprietà era contornata da un alto muro di pietra grigia, anch’esso ornato da piante rampicanti in fiore, interrotto solo da un altro cancello, che probabilmente dava sulla strada, in modo da rendere accessibile la villa anche dalla terraferma.
Quando tutti furono sbarcati, ci avviammo verso l’ingresso, dove un maggiordomo in livrea ci stava aspettando, tenendo aperti i battenti dell’enorme portone.
L’atrio d’ingresso era magnifico, il marmo bianco e lucido del pavimento rifletteva il decoro floreale che ornava i soffitti, generando un effetto specchio molto suggestivo. Lo spazio era privo di arredamenti particolari, solo qualche quadro qua e la. Il maggiordomo ci condusse in un salotto, il cui arredamento faceva a pugni con la struttura originaria della casa. L’abitazione infatti, vista la sua apparente antichità, evocava un arredamento più classico, con mobili d’epoca e suntuosi drappeggi per i tendaggi, mentre quella stanza era modernissima, arredata con divani di pelle color panna e tavolini di vetro dalle rifiniture cromate. In mezzo a tutto quel bianco, il vecchio camino barocco sembrava una grande macchia di fuliggine, totalmente stonato dal resto della stanza.
«Sedetevi! Non fate complimenti!» ci invitò Nami, accomodandosi sinuosamente sopra uno dei divani. Io ed Elena ci sedemmo di fronte a lei, sprofondando nella morbidezza dei cuscini. Con lo sguardo tentavo di raccogliere nella mia mente ogni minimo dettaglio, in modo da poterlo conservare alla perfezione nei miei ricordi. Una volta arrivata a casa avrei sicuramente scritto e disegnato tutto quanto sul mio diario, così da poter rivivere con chiarezza questi momenti, ogni volta che l’avrei desiderato.
«Allora ragazze! Raccontatemi un po’ di voi… di dove siete? Cosa fate per vivere? Come vi siete conosciute? Come v-»
«Santo cielo prendi fiato rossa! Le stai bombardando di domante, sembri una giornalista!» intervenne Zoro, frenando la curiosità di Nami, che di tutta risposta gli fece una linguaccia.
«Fatti gli affari tuoi spadaccino, sono discorsi tra donne!» ribeccò lei, riportando lo sguardo su di noi, ed ignorando lo sguardo furente del marimo.
«Beh, siamo entrambe originarie di un paesino nella provincia di Brescia…» iniziò Elena, che appena posati i piedi sulla terraferma aveva riacquisito colore, «Stiamo studiando entrambe, lei legge, mentre io comunicazioni. Ci siamo conosciute circa dieci anni fa, ci siamo azzuffate perché lei aveva una maglietta identica alla mia!» finì infine, ritirando fuori quella maledetta storia.
«Forse volevi dire, perché TU, avevi la maglietta uguale alla mia!» sottolineai guardandola in cagnesco. Elena scoppiò a ridere, ed io con lei. Il nostro incontro era stato comico, ed a distanza di anni saremmo state ancora in grado di litigare per quell’episodio. Pur indagando in famiglia, nessuna delle due era riuscita a provare che la sua maglietta fosse stata comprata per prima. Che motivo idiota per litigare, però ci aveva unite! Da allora eravamo inseparabili, e dopo anni conservavamo ancora le nostre t-shirt, che poi ci eravamo scambiate, per sancire la fine delle ostilità.
«Yohohoho! Da un litigio è nata un’amicizia… Ora, cara ragazza, mi mostreresti le tue mutandine?» chiese Brook, che si era avvicinato ad Elena, ed ora le teneva una mano. La poverina arrossì, iniziando a balbettare una risposta imbarazzata, che però non riuscì ad articolare.
«SCORDATELO!» gridò Nami, colpendo violentemente lo scheletro sulla testa.
Mentre lo scheletro si accasciava a terra, accompagnato dai rimproveri di Nami, io mi guardai attorno, accorgendomi che in quello stanzone si erano radunati veramente tutti i personaggi; alcuni si erano accomodati sui divani, altri invece se ne stavano in diparte, appoggiati al muro o davanti alle finestre. Starmene seduta a conversare con loro, mi metteva parecchio in soggezione. Barbabianca occupava minimo tre posti a sedere, ed affiancato da Ace e Marco, sembrava interessato alla nostra storia. Sullo stesso divano di Nami era sistemata quasi tutta la ciurma, le uniche eccezioni erano Zoro, che se ne stava seduto a gambe incrociate sul pavimento, e Franky, che invece era rimasto in piedi, appoggiandosi leggermente al muro.
Accanto ad Elena invece si era sistemato Garp, mentre alla mia destra sedeva Shanks, con alle spalle i suoi uomini. Nonostante fossero in un altro mondo, le ciurme erano ben definite, e nessuno abbassava totalmente la guardia. La tensione tra i due imperatori era palpabile. Chissà quale accordo vigeva in quell’istante, la tensione c’era, ma nessuno sembrava intenzionato a scatenare la rissa. Probabilmente erano i Mugiwara la chiave di tutto, in particolare Rufy, amico di Shanks e fratello del comandante della seconda flotta di Barbabianca. Per non parlare dell’amicizia tra la ciurma e Mr 2, che a sua volta venerava Ivankov.
Law e Kidd sembravano sopportarsi senza apparenti legami, così come Hancock e Doflamingo. I primi due se ne stavano in disparte, appoggiati alla finestra osservando il panorama, mentre i due Shichibukai se ne stavano in un angolo, l’una seduta elegantemente sul suo serpente, l’altro scomposto sopra un tavolino.
Il più insofferente era sicuramente Smoker, che a contatto con tutti quei pirati ribolliva di rabbia, ma a frenarlo c’era il viceammiraglio Garp, nonché nonno di Rufy ed Ace. Insomma, una fitta rete di legami affettivi univa nel modo più strano e svariato i personaggi in quella sala, e tutti i legami alla fine portavano a Rufy. Persino i personaggi secondari erano legati alla ciurma in qualche modo.
«Posso farvi io una domanda..?» chiesi speranzosa, continuando non appena Robin mi fece segno di procedere con un gesto della mano.
«Cosa vi ricordate della vostra vita? Cioè, qual è il vostro ultimo ricordo, prima di essere trascinati qui?» chiesi. Era una domanda che dovevo fare, per evitare uscite del tipo “Hey Ace, come ci si sente ad essere risorti?” oppure “Hancock come va il tuo folle amore per Rufy?”. Chissà chi di loro aveva i ricordi più completi.
Fu l’archeologa a rispondermi, con la sua solita calma.
«Non tutti sono stati portati qui nello stesso istante, infatti ci è stato chiesto di non parlare tra di noi dei nostri ricordi, perché rischieremmo di rivelare il futuro di altri personaggi, e questo non può accadere, visto che un giorno dovremo ritornare in quel mondo. Già mantenere i ricordi di questo viaggio cambierà il corso della storia, sapere persino come va a finire sarebbe sbagliato. Sappiamo solo che i ricordi meno completi appartengono proprio a noi Mugiwara, che siamo stati trasportati qui insieme da Spa Island.»
E così non c’era stato un momento unico, ognuno aveva un ultimo ricordo diverso, o al massimo c’erano piccoli gruppi con un ricordo comune. Chissà chi era il personaggio ad avere i ricordi più completi… Ma soprattutto, come avrebbero fatto a ritornare nel loro mondo? L’aveva affermato come se fosse una certezza, qualcosa di già noto e deciso.
«E come hanno fatto a capire che c’era questa diversità? E cosa intendi dire con “un giorno dovremo ritornare in quel mondo”? Come farete? E come mai potete circolare liberamente, mentre quattro di voi sono stati imprigionati?» chiese Elena, curiosa quanto me di scoprire come erano andate realmente le cose. I telegiornali avevano dato notizie su notizie, ma erano poco credibili le tempistiche.
«E io che prima vi ho difeso dall’assalto di Nami, voi donne siete portate per fare domande a raffica!» affermò Zoro, facendo arrossire Elena ed alterando l’instabile umore di Nami.
«Testa d’alga, porta rispetto per Nami-swan e per le bellissime fanciulle nostre ospiti! Zoticone.» intervenne Sanji. Se non fosse intervenuta Nami a placare le acque, avrebbero nuovamente iniziato a litigare.
Quando la stanza tornò tranquilla, Robin iniziò a rispondere alle domande di Elena:
«Gli scienziati del vostro mondo stanno studiando le radiazioni che ci hanno trasportato qui, cercando di generare un processo inverso, mediante il quale riusciranno a rimandarci nel nostro contesto, esattamente nell’attimo immortalato nel foglio da cui siamo usciti. La storia del trasferimento e del nostro stanziamento in località diverse è una questione momentanea, non rimarremo qui per sempre, è già stato deciso. Anche i quattro prigionieri verranno rispediti nel loro foglio, hanno annunciato pubblicamente la loro condanna solo per calmare l’opinione pubblica e voi fan, che sembrate odiarli oltre ogni dire. Per quanto riguarda i ricordi… Beh, ci hanno interrogati singolarmente, chiedendoci per l’appunto quali fossero i nostri, in base ai quali hanno deciso se lasciarci liberi oppure no. Ha avuto un ruolo fondamentale l’autore delle nostre avventure, Eiichiro Oda; infatti è stato molto persuasivo, convincendo le autorità a considerare non solo il nostro passato, ma anche il nostro ruolo nella storia. Per questo è stato imprigionato anche un marine, mentre noi pirati siamo a piede libero. Non sappiamo cosa abbia fatto per meritarsi l’incarcerazione quell’ammiraglio...» concluse pensierosa.
Non potei evitare di lanciare uno sguardo ai pirati di Barbabianca. Ace era rilassato, mezzo sdraiato sul bracciolo del divano, mentre Marco era teso, con la mascella serrata ed i pugni chiusi guardava prima Ace e poi il suo capitano, tentando però di non farsi notare. Quella tensione aveva appena risposto alla mia domanda su chi avesse i ricordi più completi… La fenice sapeva di Marineford, aveva ben chiari nella memoria gli attimi in cui aveva perso il padre ed il fratello, ed era bastato accennare ad Akainu per fargli ribollire il sangue. Ma anche Rufy era più silenzioso del solito, mediamente sarebbe già intervenuto nel discorso, o comunque avrebbe protestato perché era affamato, invece era rimasto zitto dalla fine dello spettacolo; perfino lungo la traversata non aveva parlato più di tanto. Mossi il mio sguardo verso di lui, che stava seduto con le gambe penzoloni sullo schienale del divano, e quando  incrociai il suo sguardo, per una frazione di secondo, capii. Quello non era lo sguardo di Rufy a Spa Island, era lo sguardo di Sabaody, due anni dopo. Probabilmente la canotta che indossava nascondeva la cicatrice sul petto, ma non mi serviva vederla per confermare le mie ipotesi, ero troppo sicura. Quello sguardo aveva una consapevolezza ed una maturità che solo la perdita del fratello maggiore poteva dargli. Rufy e Marco sapevano tutto.
«Quindi non vi hanno detto nulla della vostra storia e di come è continuata… Ora capisco… Da quanto tempo siete nel nostro mondo? » continuò a chiedere Elena. Lei era sicuramente più adatta di me per interrogare i personaggi, io ero troppo presa nell’osservare le loro reazioni, i loro comportamenti, a scavare con gli occhi nei loro ricordi. La fenice non perdeva di vista Ace e Barbabianca nemmeno un secondo, Rufy continuava a guardare il fratello di sottecchi, cercando di non farsi notare, e lanciava anche qualche occhiata a Law e Von Clay. Chissà se il chirurgo della morte ricordava i fatti di Marineford. E Mr 2? Ricordava di aver donato la sua vita per salvare Rufy? Per permettere a Cappello di Paglia di arrivare al quartier generale della marina per salvare Ace? Sapeva che il suo sacrificio era stato in parte vano? Come potevano stare zitti? Come riuscivano a non dire loro la verità? Io stessa sentivo il bisogno di afferrare Ace e gridargli di lasciare perdere la ricerca di Teach, di urlargli contro che lui doveva vivere, che non doveva gettare via la sua vita inseguendo quell’uomo.
Strinsi i pugni sopra le ginocchia, cercando di concentrarmi sulle ombreggiature del marmo che rivestiva il pavimento. Non riuscivo ancora a pensare serenamente a quei momenti, le lacrime tentavano sempre di fare capolino sui miei occhi al ricordo della morte di Ace e Barbabianca. Non volevo nemmeno immaginare il dolore di Marco in quel momento, il sapere di avere le informazioni per salvare la vita ad entrambi, ma non poterlo fare. Poter salvare proprio padre, proprio fratello, la vita di centinaia di persone, ma qualcosa, o qualcuno, ci impedisce di agire. Ma cosa lo frenava? Cosa gli impediva di parlare?
Tante volte avevo desiderato di poter riavvolgere il tempo, anche solo di qualche mese, per poter portare mio padre in ospedale, gridando ai medici di sbrigarsi, di fargli gli esami e cercare quel maledetto tumore. Urlando loro di individuarlo e portarlo via da li, prima che si espandesse, prima che divorasse tutto il mio mondo. Ma non era accaduto. Cosa avrei fatto se avessi vissuto quei mesi sapendo della malattia, ma impossibilitata ad agire? Con l’incapacità di parlare, di fare qualsiasi cosa… Quale poteva essere il divieto che mi avrebbe fatta stare zitta? Cosa avrebbe potuto indurmi a tacere, limitandomi ad osservare?
Alzai lo sguardo dal pavimento, portandolo su Marco, incatenando i suoi occhi ai miei.
«Cosa vi fa tacere? Cosa vi spinge a non dire nulla sul futuro, a non fare nulla per cambiarlo?» chiesi, probabilmente interrompendo la risposta di Robin alla domanda di Elena. Ormai avevo smesso di ascoltarle da non so quanto tempo.
La fenice non distolse lo sguardo, sapevamo entrambi a cosa mi riferivo, non servivano altre spiegazioni.
«Ognuno ha le sue motivazioni, eh.» tagliò corto il comandante della seconda flotta, che pur non essendo sgarbato o brusco, mi fece capire che quello non era né il momento né il luogo adatto a quel discorso. Ed aveva ragione.
Mi scusai per l’interruzione, e ripesi ad ascoltare le spiegazioni dell’archeologa.
A quanto pareva, erano stati trasportati nel nostro mondo quasi un anno prima, ma la faccenda era stata tenuta segreta, per dare tempo al governo nipponico di organizzarsi e decidere come procedere. Avevano interrogato singolarmente tutti gli interessati, stilando una specie di cronologia, in modo da avere ben chiaro chi avesse fatto cosa nel corso della storia. Oda era intervenuto durante i dibattiti tra i magistrati giapponesi, come testimone fondamentale, visto che aveva creato lui quei personaggi.
Io ed Elena pendevamo dalle labbra di Robin, che pazientemente ci stava spiegando tutta la faccenda, quando il maggiordomo entrò, annunciando che la cena sarebbe stata servita tra due ore. A quell’annuncio Nami decise che era giunto il momento di separarci, per poterci preparare alla serata.
«Allora a più tardi! È così bello avere altre ragazze con noi! Vi farò portare in camera i vestiti per la serata!» disse la navigatrice, uscendo veloce dalla stanza. L’idea che fosse lei a scegliere i nostri vestiti mi allarmava, e non poco.
Lentamente tutti i personaggi lasciarono la sala, ed anche noi ci alzammo, seguendoli, ma riuscii a fare pochi passi, perché una mano afferrò il mio braccio. Mi voltai per scoprire chi mi avesse fermata, rimanendo sgomenta nel trovarmi di fronte Rufy, serio in volto.


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Ok, ce l'ho fatta! xD giuro, un altro capitolo così e impazzisco ( se penso che ne ho davanti altri 2 o 3 ancora più ostici mi viene la nausea! :S )
Ecco, in questo capitolo di spiegazioni si sono chiariti un po' di passaggi chiave, ma mancano ancora parecchie informazioni, come avrete sicuramente notato, che verranno rivelate più avanti! (non è per essere sadica, ma se dico tutto ora faccio prima a dirvi come va a finire, e visto che sono mooolto incerta sul finale, sarebbe difficile anche quello xD) ora, veniamo alla domanda, io le sto seguendo quelle maledette puntate, e sono arrabbiatissima! la voce di "rubber" mi fa venire i nervi, però per ora censure esagerate non ne ho trovate... anche se ho il terrore di vedere cosa combineranno nei dialoghi a Marineford! :S comunque, ora vi lascio andare ^_^
Grazie di seguire la mia storia, e fatemi sapere cosa ne pensate di questo capitolo, se trovate parti poco chiare non esitate a farmelo notare, alla fin fine io sapendo perfettamente i fatti, magari mi lascio sfuggire passaggi che per voi lettori sono invece fondamentali! (poi l'ho riletto talmente tante volte che ormai lo so a memoria, quindi potrei non aver notato eventuali salti logici xD)
ora il domandone SUPER SPOILER:
Avete visto la prima pagina del capitolo 666??? *_* cosa ne pensate???
Se rispondete scrivete SPOILER anche nella recensione, che magari alcuni leggono inavvertitamente ed è proprio brutto scoprirlo così! ^_^
Baci baci, alla prossima!!!

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Capitolo 10
*** 9. Un amaro ringraziamento ***


c1




«Andate avanti voi, io devo parlare con lei da solo», disse il capitano dei Mugiwara, esortando coloro che si erano fermati a guardare la scena ad uscire.
Annuii alla domanda silenziosa di Elena, rimasta ferma al mio fianco, che mi chiedeva se doveva andarsene anche lei.
Una volta rimasti soli nel grande salone, che con appena noi due al suo interno, sembrava ancora più immenso, mi lasciò andare il braccio, permettendomi di voltarmi completamente verso di lui.
«Grazie di esserti fermata… Non sono bravo con le parole, ma volevo ringraziarti per aver salvato Ace, se non ci fossi stata tu, io… nessun’altro avrebbe potuto salvarlo.»
Gli occhi di quel ragazzo erano troppo vecchi per quel viso così giovane, tradivano la sua vera età ed i suoi ricordi reali, in contrasto all’aspetto fanciullesco che caratterizzava il suo fisico.
«Non c’è bisogno di ringraziarmi, l’ho fatto d’istinto, non potevo sicuramente lasciarlo annegare… Ma perché hai voluto ringraziarmi così?»
«Così come?» mi chiese, spostando la testa leggermente a lato, perplesso.
«Da soli, perché qui ed ora? Perché non l’hai fatto, che ne so, sulla barca, o quando ancora non ero salita a bordo?» avrei voluto chiedergli anche dei suoi ricordi, ma non mi sembrava il caso. La domanda che avevo posto alla fenice era stata un errore, mi era uscita dalle labbra senza passare per il filtro della ragione, ed avevo rischiato di creare una situazione molto spiacevole, per tutti.
«Beh, perché non ci sarei mai riuscito, davanti a tutti. Riesco a fingere a tavola, abbuffandomi a più non posso, e durante le apparizioni pubbliche, perché riesco a distrarmi con mille cose, ma in quel momento il mio pensiero era solo Ace. Non sono stupido sai? Ho capito che tu sai tutto…» mi disse serio, spiazzandomi.
«Dove arrivano i tuoi ricordi?» chiesi esitante.
«Ho appena sconfitto il pacifista a Sabaody, mi ero appena ricongiunto alla mia ciurma. Stavamo per salpare, quando mi sono ritrovato in questo mondo. Credevo di impazzire! Li avevo persi di nuovo, e di nuovo non ero stato in grado di proteggerli! Quando mi hanno spiegato cosa era successo, non potevo crederci, proprio ora che il mio viaggio stava per ricominciare… Però almeno avevo i miei Nakama…»
«E tuo fratello…» aggiunsi, pensierosa.
«Già!»
«E così ti hanno vestito come ti vestivi una volta, per nascondere la cicatrice e la tua vera età, e ti hanno detto di non dire loro nulla… giusto?»
«Esatto.» mi rispose sorridendo, con il suo solito sorriso.
«E come hai reagito nel vedere Ace?» chiesi, ormai ero in fase “domande a raffica”, e anche se il mio cervello continuava a dirmi di smetterla, una parte di me era troppo assetata di conoscere, per fermarsi.
«Ho pianto come un bambino, ero felicissimo di poterlo riabbracciare! Era li, vivo e vegeto, scoppiava di salute! Con il suo ridicolo cappello arancione e il suo sorriso! Niente manette, niente graffi o abrasioni, niente sangue, niente… niente ferite.» esitò sul finire della frase, ricordando probabilmente lo squarcio che aveva ucciso pugno di fuoco.
«Come mai non dite nulla? Tu e Marco sapete sicuramente come va avanti la storia, l’ho capito dai vostri sguardi che sapevate il destino di Ace e Barbabianca! Come fate a fingere che vada tutto bene? Avete la possibilità di cambiare il corso della storia, e non lo fate? Perché?» scoppiai, non riconoscendo la voce che usciva dalle mie labbra. Ero arrabbiata, furibonda, accecata dall’ira e dalla frustrazione di non capire i loro motivi. Se io avessi avuto la loro possibilità, se solo avessi potuto cambiare anche solo un giorno del passato, l’avrei fatto immediatamente! Avrei potuto salvare mio padre, avrei fatto felice mia madre, non avrei sofferto così tanto, forse sarei persino in grado di sorridere, ancora con la sincerità che avevo prima che tutto il mio universo mi crollasse addosso, schiacciandomi sotto il suo peso.
Non mi ero nemmeno accorta che delle calde lacrime avessero iniziato a solcarmi presuntuose il viso, me ne resi conto soltanto quando Rufy allungò la mano, raccogliendone una.
«Perché piangi e ti arrabbi così tanto?» mi chiese, ingenuo, cappello di paglia.
«Perché se avessi la tua possibilità, di cambiare il futuro modificando il passato, non esiterei a farlo! Mentre tu, che puoi, non lo fai. Non capisco.» mi sedetti sul divano, ormai incapace di reggermi in piedi. Stavo stringendo i denti, tanto da farmi male, per non piangere, per evitare che sciocchi singhiozzi mi uscissero dalla gola. Strinsi i pugni, conficcando le unghie nella tenera carne del palmo, per distrarre il mio cervello dal dolore al petto, e farlo concentrare su quello fisico, che preferivo.
Rufy mi guardava, serio in viso, ritto davanti a me. Si accovacciò davanti alle mie ginocchia, e mi sorrise.
«Non piangere, non capisco perché tu te la prenda tanto, ma non pensare che non vorrei dire tutto a mio fratello, solo che non posso.»
Alzai lo sguardo, incerta. Cosa voleva dire che se avesse potuto, l’avrebbe fatto? Cosa impediva loro di parlare? Cosa impediva a lui di salvare Ace?
Probabilmente lesse nel mio sguardo il dubbio, e decise di spiegarsi meglio. Avevo sempre sottovalutato l’intelligenza di Rufy, a quanto pareva.
«Non possono farci tornare con nuovi ricordi sul nostro futuro. Prima di partire, ci faranno dei test, per scoprire cosa abbiamo detto o non detto, insomma per vedere se abbiamo rispettato gli accordi. Se risultasse ad esempio che io o il pennuto mitologico avessimo detto tutto o anche solo dato un consiglio ad Ace e Barbabianca, noi verremmo rimandati nel nostro mondo, ma loro sarebbero bloccati qui. Non potrebbero permettergli di ritornare, sconvolgendo l’ordine della storia. Capisci ora?»
No, non capivo. O meglio, capivo il ragionamento, ma non ne condividevo le priorità. Chi se ne importava dell’ordine della storia se potevo salvare la vita a qualcuno a cui volevo bene? Ok, sarebbero rimasti nel nostro mondo, ma vivi! Sarei stata felice lo stesso, perché erano vivi, anche se io non avessi potuto incontrarli di nuovo!
«Ma come ragioni? Cosa te ne importa della storia, salveresti Ace!» dissi, con la voce ancora sporca di rabbia, ma più calma.
«Credi veramente che non ci abbiamo già pensato? Ma se Ace rimanesse bloccato qui, a causa mia, secondo te se ne starebbe buono buono a fare la vita da bravo cittadino? È un pirata, non vuole essere rinchiuso oppure obbligato a fare nulla! Impazzirebbe sapendo di non poter tornare nel suo mondo, non poter vivere la sua avventura. Finirebbe per odiarmi e per farsi ammazzare comunque. Cosa avrei ottenuto? L’odio di un fratello, e la consapevolezza di avergli riempito la vita di rimpianti!?»
Aveva ragione, aveva maledettamente ragione, Ace non l’avrebbe mai perdonato, e con le ferree leggi che governavano il mio mondo, si sarebbe sentito perennemente braccato o in trappola. Quanto avrebbe resistito? Un mese? Un anno? Quanto?
Chiusi gli occhi, sentendomi sciocca per non aver pensato a quell’eventualità, per non aver pensato alla volontà di Ace, ma solamente alla mia. Volevo così tanto che la sua morte non divenisse reale, che avevo anteposto la mia volontà alla sua.
Annuii al capitano dei Mugiwara, capendo finalmente il motivo per cui taceva a suo fratello quelle informazioni.
«Sembri molto affezionata ad Ace, come è possibile se non l’hai mai incontrato?» mi chiese, facendo ritornare il sorriso sul suo viso.
«A volte incontrare una persona non serve per innamorarsene. Cioè, volevo dire… Per… Oh al diavolo!» riabbassai gli occhi e nascosi la testa tra le ginocchia e le braccia. Cosa mi era saltato in mente di dire? Era un cartone animato, una finzione! Non ci si poteva innamorare di una finzione! È una cosa stupida ed insensata!! Da bambini!! Come Elena che da piccola voleva sposare Batman! E ok, io ero fidanzata con Eric di Rossana, ma ora avevo 20 anni, quasi, non avrei dovuto ricascare un una frivolezza simile! Mi sentivo imbarazzata, frustrata ed anche particolarmente patetica, rannicchiata su quel divano.
La risatina di Rufy mi riscosse dai miei insulti mentali a me stessa, riportandomi alla realtà, realtà nella quale avevo appena detto ad un cartone animato di essere innamorata di suo fratello cartone animato. Cristo, detta così sembrava anche peggio!
Se possibile sprofondai ancora di più nell’imbottitura del divano, celando il mio viso in fiamme per l’imbarazzo con le braccia. Cosa cavolo mi saltava in mente? In meno di un ora le mie parole avevano palesemente scavalcato il filtro che evitava di farmi dire stronzate. Intanto Rufy continuava a sghignazzare.
« Lo trovi tanto divertente?» chiesi stizzita.
«Si! Sei diventata tutta rossa! Però sono contento, quando Ace lo saprà sicuramente diventerà molto più rosso di te, però sarà felice!» mi rispose tranquillo il ragazzo di gomma. E quelle parole cancellarono l’imbarazzo e la vergogna, sostituendoli con l’ira e la follia omicida.
Mi alzai di scatto dal divano, facendo cadere Rufy dalla sua posizione accovacciata sul pavimento. Mi piegai a guardarlo negli occhi, e vidi dal suo volto che la mia faccia era terribilmente spaventosa.
«Prova anche solo a pensare di riferire qualcosa ad Ace ed io ti catapulto nel lago! E fidati, non vengo a ripescarti!» sibilai, a pochi centimetri dal suo viso.
Rufy fece una risatina leggermente tesa, assicurandomi che avrebbe tenuto la bocca chiusa. Mi fidavo poco, ma non potevo fare nulla ormai, se non sperare in quella promessa.
Quando si rialzò ci stavamo per salutare. Mancava poco ormai alla cena, e dovevo ancora prepararmi.
«Si vede così tanto che non ho gli stessi ricordi dei miei nakama?» mi chiese all’improvviso, poco prima che raggiungessimo la porta, portando la mano sinistra al petto, dove sicuramente aveva l’enorme cicatrice causata da Akainu.
«Un po’…» risposi sincera, «Lo si vede dal tuo sguardo, non sei più così spensierato.»
Rufy annuì pensieroso, e si calò in testa con decisione il cappello. Era triste, sicuramente lui e la fenice erano quelli che più soffrivano durante questo loro viaggio. Per di più per colpa di quelle radiazioni lui aveva perduto per ben due volte i suoi compagni, e sicuramente dopo i due anni di allenamento non si aspettava un altro addio.
«Non sono mai stato bravo a dire bugie… Non sono in grado di proteggere chi amo, come potrei essere capace a fare altro?» affermò con un tono malinconico, che non gli apparteneva per niente.
«Non è stata colpa tua. Nessuno poteva immaginare che sarebbe successa una cosa del genere, sappi che nemmeno noi, che leggevamo solamente la vostra avventura, avremmo mai immaginato un finale del genere per quello scontro a Sabaody, e tantomeno per quella maledetta guerra. Mai.» affermai seria, guardandolo negli occhi. Era la verità. La morte di Ace e la sconfitta dei Mugiwara erano stati fulmini a ciel sereno per tutti i fan, erano due eventi a cui nessuno era preparato, ed avevano scioccato tutti quanti.
Cappello di paglia annuì di nuovo, stampandosi un sorriso sul volto. Quante volte mi ero nascosta dietro ad un sorriso? Quante volte avevo indossato la maschera della felicità e della spensieratezza in quei mesi? Quante volte avevo ringraziato il cielo, che l’unica in grado di capire quando un mio sorriso non arrivava agli occhi, fosse Elena? Ormai ero un’esperta nel settore, ed il sorriso di Rufy era solamente un lavoro da principiante, nessuno ci avrebbe creduto. Probabilmente però, i suoi compagni avevano deciso, saggiamente, che non fosse il caso di indagare oltre.
Quante volte Elena aveva fatto finta di nulla? E quante volte erano stati i miei amici ad ignorare la mia finta gioia di vivere? Anche volendo, non sarei riuscita a contarle. Uscendo dal salone ci dirigemmo alle nostre camere, scortati da un maggiordomo, che ci stava attendendo nell’atrio. Nessuno dei due si era accorto che un altro paio di orecchie avevano udito quelle parole. Nessuno dei due si era accordo che due occhi ci avevano osservato durante tutta la nostra chiacchierata. Eppure quello sguardo, quell’origliare, avevano appena stravolto il destino di tutti.


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Eccomi finalmente!! scusatemi infinitamente per il ritardo, ma proprio non ce l'ho fatta ad aggiornare prima!!! Comunque non ho molto da dire, non è che succeda moltissimo in questo capitolo, però si gettano parecchie basi xD
niente, alla prossima!!! e Grazie di cuore a tutti coloro che seguono, ricordano, preferiscono e recensiscono questa storia!!! e anche ai lettori silenziosi, grazie di cuore!!
e come da tradizione, la domanda:
chi sarà la persona che ha assistito a tutta la conversazione???
Stavolta faccio una domanda presuntuosamente incentrata sulla mia storia, violiate perdonarmi, ma sono curiosa di sentire le teorie u.u
Baci baci, alla prossima!!!


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Capitolo 11
*** 10. Moda e telefonate: qualcuno ci salvi! ***


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Entrai nella camera davanti alla quale mi aveva lasciata il maggiordomo silenzioso, e potei subito sentire lo scrosciare dell’acqua in bagno. Elena era nervosa, e le docce calde la calmavano, quindi era sicuramente immersa nel vapore per distendere i nervi. Mi sedetti sul letto, che produsse uno strano rumore, come di carta che viene appallottolata. Mi rialzai, scoprendo di essermi seduta su un biglietto, e la scrittura era quella ordinata ed elegante della mia amica. Nemmeno paragonabile alle zampe di gallina che producevo io. Non c’era verso che la mia scrittura migliorasse, era sempre stata pessima, fin dalle scuole elementari, e non era cambiato nulla, nonostante i miei sforzi a riguardo.
Lessi il biglietto, che mi avvisava che lei era in doccia e che le dovevo, ovviamente, parecchie spiegazioni. Fin qui niente di insolito, ma fu il “PS” alla fine a farmi tremare.

“PS. Ha chiamato tua mamma, richiamala appena puoi, io la mia l’ho appena sentita. In bocca al lupo!”

Ok, ero morta, sepolta, riesumata, resuscitata, riuccisa ancora più violentemente e sepolta di nuovo! Mi ero totalmente scordata di avvisare mia madre del ritardo, di come erano andate le cose e, soprattutto, non mi era nemmeno passata per la testa l’ipotesi di chiederle il permesso di rimanere sul lago per cena.
Mi avvicinai al comodino, impugnando il mio cellulare come se fosse l’unico aggeggio in grado di proteggermi, separandomi fisicamente dal mostro che stavo per affrontare, ma anche l’oggetto che mi avrebbe potuta uccidere, mettendomi in contatto con l’essere più spaventoso della terra, la mamma arrabbiata.
Altro che mostri marini, giganti e uomini pesce tirannici, mia madre era decisamente più spaventosa! Premetti il tasto di chiamata rapida ed attesi, ormai rassegnata.
Rispose al terzo squillo. Buon segno, perché significava che non aveva il telefono in mano al momento della chiamata, e quindi non era poi così impaziente di sentirmi forse, ma anche pessimo segno per me, che avevo sperato in una non-risposta fino all’ultimo. Povera stupida ragazzina illusa…
«Selene?»
«Hem, sì mamma… Ciao…»
«Sì mamma un corno! Hai idea dello spavento che mi hai fatto prendere? Non un messaggio, non una telefonata, niente di niente!!! È da mezzogiorno che non ti sento, e sono le diciotto e quarantadue minuti!» ringhiò.
Porca miseria, ore e minuti perfetti, era davanti all’orologio. Pessima notizia. L’operazione “calma la bestia” ebbe inizio.
«Sì, mi dispiace tantissimo mamma, mi sono totalmente dimenticata! Ma non hai idea di cosa sia successo, vedi io ed Elen-»
«È proprio questo il punto! Non avevo la più pallida idea di cosa vi fosse accaduto! Per quanto ne sapevo potevi essere annegata nel lago assieme a quel rimbambito! Mi hai spaventata a morte!!»
Mia madre sapeva del quasi annegamento di Ace? Ma come? Sì beh ok, eravamo probabilmente in diretta mondiale quando era caduto, ma come diavolo faceva a non sapere che poi ero riemersa dall’acqua?
«Come fai tu a saper-» tentai di chiederle, invano.
«Ne stanno parlando tutti i telegiornali!!! Solo che poi fino alle otto i telegiornali non ci sono! E questo stupido decoder ha deciso di rompersi proprio oggi, quindi non potevo sapere un accidenti di niente! Sapevo solo che una stupida ragazzina dai capelli corti si era lanciata nel lago a salvare coso di fuoco!»
Ok, quindi eravamo finite in TV. Bene. Però effettivamente era ovvio, c’erano telecamere e giornalisti ovunque, sperare di essere passate inosservate era un’utopia bella e buona. Chissà cosa avevano trasmesso… Il mio reggiseno era forse finito in mondo visione? Maledizione!
Evitando di correggerla suggerendole il vero soprannome di Ace, che non era di certo “coso di fuoco”, cosa che l’avrebbe solamente fatta imbestialire ulteriormente, tentai di farle la domanda che mi interessava:
«Cosa hanno detto alla TV?» dissi in fretta, stupendomi di essere riuscita a terminare la frase. Era un piccolo miglioramento, un microscopico passo verso il dialogo! Meglio di niente insomma.
«Che uno era caduto, non sapeva nuotare, una ragazza del pubblico si è tuffata per soccorrerlo. Non hanno rivelato i vostri nomi, e i vostri volti sono stati censurati, perché avreste potuto essere minorenni e non potevano mandarvi in onda senza il consenso scritto dei genitori. Hanno interrotto la diretta nel momento in cui Portughise, così mi pare l’abbiano chiamato, è caduto in acqua, perché temevano il peggio. Ma ho riconosciuto subito chi erano le due incoscienti, anche senza vedervi in faccia!!! Lo sai vero quanto sono pericolose le acque del lago? Quante volte te l’ho detto? Ma tu sei di coccio vero? Fai sempre di testa tua! Tale  quale a tuo padre! Almeno stai bene? Quando tornate? E come farai a guidare di notte, stanca morta e con il traffico? Per l’amor del cielo mi dici cosa ti passa per la testa? Ti ho assecondata, ma hai quasi vent’anni, non è ora di crescere e di lasciare perdere i cartoni animati?» ecco, eravamo appena passati dalla fase incazzatura alla fase predica. Forse preferivo l’incazzatura, almeno era gestibile con il silenzio e le scuse mortificate. La predica invece esigeva una mia risposta esauriente e convincente, che al contempo accontentasse mia madre. Dovevo pensare bene alle parole che stavo per dire, e sperare che il filtro, che ormai avevo catalogato come “difettoso”, non mi facesse altri scherzetti. Sorvolai nuovamente sull’ignoranza di mia madre riguardo al mondo di One Piece, che di sicuro non era aiutata dalle televisioni italiane. Tra censure e nomi stravolti, c’era un abisso tra chi seguiva il Manga o gli episodi in giapponese, e chi si affidava al doppiaggio italiano.
«Mamma mi dispiace davvero di averti fatta preoccupare, non mi è proprio venuto in mente di avvisarti, sono successe moltissime cose… E sì, sono consapevole della pericolosità delle correnti, ma non potevo certo lasciarlo morire, ero l’unica nelle vicinanze che sapeva nuotare! Ora comunque siamo in una villa sul lago, ci accompagneranno degli autisti dopo cena, non guiderò io… Stiamo bene comunque, ed ignorerò l’ultima parte del tuo discorso perché non sono in grado di affrontare l’argomento senza alterarmi, quindi lasciamo perdere ok?»
Sperando di non aver scordato nulla attesi la sua risposta, confidando in un tono meno aggressivo e meno di rimprovero.
«Ok, l’importante è che stiate bene! Degnati di avvisarmi quando partite!»
Era andata bene… dopo tutto…
Dopo aver salutato mia madre bussai alla porta del bagno, annunciandomi ad Elena, che uscì poco dopo avvolta nell’accappatoio, con i capelli quasi totalmente asciutti. Probabilmente aveva usato una di quelle cuffiette di plastica, per evitare di doverseli asciugare nuovamente. Per me l’asciugatura era un processo rapido, talvolta bastava la salvietta, ma per i suoi lunghi capelli castano chiaro, era un operazione che richiedeva parecchio tempo ed impegno.
«Hai già sentito tua madre?» mi chiese guardinga. Le incazzature della mia cara mammina erano leggenda tra i miei amici. Chi aveva assistito ad una nostra lite ne era rimasto affascinato. Eravamo due furie, urlavamo, ci lanciavamo cose, ci inseguivamo. Però mai una volta che ci fossimo mancate di rispetto a vicenda. Eravamo un’accoppiata stranissima, ma ci volevamo bene.
«Si, non è andata così male, ci siamo salutate prima di riattaccare!» risposi, facendo spallucce.
Elena sollevò un sopracciglio, assumendo un’aria perplessa, ma non fece altre domande sulla conversazione telefonica che avevo appena terminato, scatenandosi invece sulla conversazione reale che avevo avuto con Rufy.
«Allora, cosa ti ha detto Rufy? Hai scoperto qualcosa di interessante?» domandò sedendosi sul bordo del letto, accanto a me.
«Si, ho scoperto perché lui non può rivelare i suoi ricordi… Poi mi ha ringraziato per aver salvato suo fratello, ed io gli ho risposto che mi sono innamorata di Ace.» Riassunsi velocemente, con voce piatta, guardando attentamente una graziosissima nappa del tappeto persiano, che copriva praticamente tutta la superficie della stanza, come una moquette variopinta. Certo che quella nappa era proprio interessante… Ma cosa diavolo stavo facendo? Scossi la testa e mi voltai per guardare Elena, che non aveva proferito parola. Rispondeva al mio sguardo con occhi sgranati e sopracciglia aggrottate. Il suo volto esprimeva chiaramente il suo immenso stupore. Quando si riprese leggermente, mi afferrò un braccio, stringendomi leggermente.
«Mi prendi in giro? Lo sai che la prima cosa che farà Rufy sarà andarglielo a dire vero? » affermò, riscuotendosi dallo stato di shock che le avevo procurato. Era questo che amavo di lei, non mi aveva contestato la parola “innamoramento”, non mi aveva guardata storta perché provavo sentimenti per un personaggio totalmente irreale. Si era solo preoccupata che il suddetto personaggio irreale, ora divenuto reale, scoprisse questo segretuccio.
«Mi ha promesso di non farlo…» sussurrai, convincendo poco persino me stessa. Rufy avrebbe mantenuto la promessa? Diceva sempre che le promesse andavano sempre mantenute…
«Oh beh, vedremo se la manterrà, di solito è un ragazzo di parola... Ma ora dimmi tutto dei ricordi!! Perché non dice nulla a suo frate-»
Con uno schianto secco la porta si spalancò, interrompendo le parole di Elena e facendoci sobbalzare.
Nami entrò alla cieca, sommersa da una montagna di tessuto colorato e seguita da Robin e Bibi, che chiuse la porta alle sue spalle, con delicatezza. Finezza abbastanza inutile dopo che la rossa aveva appena demolito i cardini con un calcio. Non potevano aprirle quelle due?
Mi ero spaventata da morire, e la principessa lo notò, scusandosi in fretta per l’irruenza di Nami.
«Ragazze vi ho portato un po’ di abitini per stasera! E ho anche le scarpe! Ho pensato che i vostri abiti non fossero adatti ad una cena, così vi ho portato tutti questi tra cui scegliere!!!» esclamò allegra la navigatrice, gettando tutto sul letto e posizionando sei scatole di scarpe sul tappeto, come se non avesse fatto assolutamente nulla di insolito.
L’idea che i vestiti fossero stati scelti da lei non mi spaventava, mi gelava letteralmente il sangue dal terrore, gelo amplificato anche dalla modalità di entrata che aveva appena attuato.
L’agglomerato di tessuti e colori giaceva minaccioso sul copriletto floreale, e sembrava voler divorare qualsiasi cosa si avvicinasse a lui. E quel “qualsiasi cosa”, secondo i desideri di Nami, dovevo essere io.
«Forza, cosa aspettate? Noi abbiamo già deciso, vi fa nulla se rimaniamo qui con voi a prepararci?» insistette la rossa, porgendo una mano a Bibi, che le consegnò una borsa che non avevo notato prima.
«Ok, allora voi cambiatevi, intanto noi due… Sceglieremo i vestiti, va bene?» affermai, continuando a guardare con occhio preoccupato i vestiti sul letto. Perché diavolo ero convinta che da li a poco avrebbero preso vita, tentando di fagocitarmi? Il mio subconscio stava forse tentando di dirmi qualcosa? Ovviamente si, ma come potevamo rifiutare ormai?
Le tre ragazze annuirono, iniziando a tirare fuori dalla borsa i loro accessori e i loro abiti. Mary Poppins era una dilettante a confronto.
Intanto io ed Elena ci avvicinammo circospette agli abiti ammassati sul letto, iniziando ad esaminarli. Erano tutti molto “mini” e poco “abiti”, fazzoletti di tessuto poco coprente e gonne inguinali. Male, molto male…
Riuscii a trovare un vestito nero, con uno scollo a V molto profondo sulla schiena, ed accettabile sul petto. Persino a lunghezza era accettabile, infatti la morbida gonna mi arrivava poco sopra il ginocchio. Il tessuto era soffice e leggero sul busto, mentre uno strato di chiffon andava a rivestire la gonna, rendendola più voluminosa e svolazzante. Elena fu meno fortunata, infatti l’unico abito che riuscì a farsi andare bene era un monospalla turchese, colore che le stava d’incanto, ma che per i suoi gusti risultava troppo appariscente. Grazie a quella tonalità di azzurro però, i suoi occhi cristallini venivano valorizzati moltissimo, sicuramente avrebbe fatto girare parecchie teste quella sera, e data la sua timidezza non ne era affatto lieta. Evitai di farle battutacce sul fatto che avrebbe fatto girare la testa al dottorino, perché ero in una posizione troppo scomoda per potermelo permettere.
Ci cambiammo, ed il risultato non era così male dopo tutto. Il nero del mio abito era identico a quello dei miei capelli, ed in più il vestito mi andava a pennello, non era troppo volgare, e nemmeno troppo appariscente.
Nonostante le paure di Elena, anche il suo vestito le stava d’incanto, ed indossato non era nemmeno così… Turchese!
Nami aveva scelto un tubino rosso, che donava ai suoi corti capelli dei riflessi spettacolari, stesso effetto faceva il blu notte dell’abito di Bibi, che come noi aveva optato per una lunghezza ed una copertura accettabili.
La bella Robin, in viola, era a dir poco magnifica invece. Sarebbe stato fantastico immortalare quel momento, eravamo cinque bamboline eleganti e sexy.
Si, persino io mi sentivo sexy in quelle vesti, nonostante il mio decolté fosse ridicolmente insignificante rispetto a quello delle tre fanciulle, mi sentivo veramente bella e vagamente attraente. Quella sicurezza però sarebbe sparita una volta uscite dalla camera, soffiata via dal soffio della timidezza. Ne avevo poca, ma bastava ed avanzava in certi frangenti, amavo dire che non ero timida, ma semplicemente detestavo essere al centro dell’attenzione.
Elena corse, per quanto le permettessero i tacchi, a frugare nello zaino, portato in stanza non so quando da non so chi, e tirò fuori la digitale. Quella ragazza mi leggeva nel pensiero, ne ero sempre più convinta!
«Che ne dite di fare una foto?» domandò, con gli occhi che brillavano per l’eccitazione. Anche lei, come me, voleva immortalare quel momento unico. Quando ci sarebbe ricapitato di prepararci per una serata con la Gatta Ladra, la principessa di Alabasta e l’ultima discendente dei demoni di Ohara?
Le ragazze acconsentirono con entusiasmo, ma prima bisognava essere definitivamente pronte.
Non so quanto tempo dopo, finito di sistemare trucco e capelli, eravamo veramente perfette, pronte per farci una bella fotografia. L’autoscatto era sempre una sfida, quindi impostammo una modalità che assicurava almeno una foto decente su svariati scatti. Era la nostra preferita, perché era veramente l’unica funzione in grado di farci ottenere una foto accettabile senza ritentare diecimila volte.
Dopo sette secondi dalla pigiatura del bottone, il flash iniziò a torturarci gli occhi, intanto che noi cambiavamo posa, ridevamo e ci ridicolizzavamo vergognosamente. Finita la tempesta di luce bianca, Elena trotterellò a controllare i risultati ottenuti. A parte uno scatto, uscito totalmente sfocato, ed il primo, nel quale Elena era ancora di spalle, impegnata nella corsa verso il suo posto, erano uscite tutte stranamente belle. Persino io, che evitavo le fotografie come la peste, vista la mia scarsa fotogenicità, ero uscita discretamente. Anzi, in una ero proprio uscita bene!
Quando finimmo di commentare gli scatti, bussarono alla porta della stanza. Era il maggiordomo che ci avvisava che la cena stava per essere servita.
Ci guardammo un’ultima volta nel grande specchio che ricopriva interamente le ante del guardaroba, ed uscimmo. Elena e Bibi avevano una perfetta coda alta, la prima aveva lasciato lisci i suoi capelli, mentre la seconda li aveva arricciati abilmente, dando volume all’acconciatura. Nami e Robin non si erano sbizzarrite più di tanto, forse solo la rossa aveva aggiunto un piccolo fermaglio a forma di rosellina al solito look. Per quanto riguardava me, con il mio taglio corto avevo poco su cui lavorare, quindi mi ero limitata a spettinarmi ordinatamente. Il mio unico obbiettivo quando mi sistemavo i capelli, era evitare di assomigliare ad un cespuglio di rovi oppure a Paul McCartney nei tempi d’oro. E non sempre riuscivo a scongiurare la seconda somiglianza.
Scendemmo le scale, precedute dal domestico, che ci condusse fino alla sala da pranzo. Se il salotto mi era parso enorme al mio arrivo, quella stanza era a dir poco colossale. C’era un'unica, gigantesca tavolata totalmente bianca. Solo il variopinto assortimento cromatico dell’abbigliamento dei commensali, già accomodati attorno al tavolo, dava colore al luogo, ed era maledettamente fuori posto in quello spazio latteo. Perfino le pareti erano bianche e spoglie, ornate solo da qualche finestra che si affacciava sul giardino, ormai immerso nella penombra serale. Una villa così enorme, arredata e corredata con così poco gusto estetico era veramente uno spreco immane.
Nel momento stesso in cui formulai quel pensiero mi venne in mente l’ipotesi che non si trattasse veramente di una villa, ma di un albergo. Se così fosse stato, si sarebbe spiegato lo stile poco definito, la quantità esagerata di camere e gli spazi comuni tanto ampi. Non avevo notato però nessuna insegna, nemmeno una reception, ed inoltre nessuna delle camere aveva una chiave ed un numero, o almeno, così mi pareva.
Distolsi lo sguardo e l’attenzione dall’arredamento, concentrandomi sui pirati, sui marines e sui civili che sedevano di fronte a me. Si prospettava una cena molto interessante, soprattutto considerando la disposizione dei posti a sedere. A quanto pareva infatti, Elena sedeva tra Nami e Rufy, mentre io ero stata posizionata tra Garp ed Ace, perfettamente di fronte alla mia amica.
Sì, si prospettava decisamente una serata alquanto movimentata. Speriamo solo di non finire nel bel mezzo di una lite tra nonno e nipote, non avevo nessuna intenzione di finire strinata o colpita da un pugno gigante. E non bramavo nemmeno di essere ricoperta di briciole e rimasugli di cibo.
Mi sedetti al mio posto, sospirando a quel pensiero. Sarei tornata intera ed illesa a casa? Ne dubitavo. Stesso discorso valeva per la mia amica, che dovendo affrontare Rufy durante un pasto, era in pericolo quanto me. Avremmo superato incolumi il convivio? Ai posteri l’ardua sentenza… Come no, ci mancavano le citazioni manzoniane ora.


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Ciao! Eccomi qui, con un altro capitolo di passaggio... Lo so che siete stufe, ma si è scritto da solo, e toglierlo mi dispiaceva! Spero di risollevare l'"azione", anche se questa storia non è un avventura nel senso letterale del termine, nel prossimo capitolo!
Ribadisco che sono sempre sorpresa dai vostri commenti, sia per la quantità che per il contenuto, sono veramente contentissima che vi piaccia questa cosa che sto scrivendo xD bene, ora ovviamente non vi rivelo chi ha origliato, però posso dirvi che il personaggio in questione l'avete nominato! non dico chi, non dico quante volte, ma l'avete fatto! xD quindi brave/i!
ed ora...
cosa ne pensate della censura italiana sugli anime? secondo voi, perchè la attuano così spietatamente, talvolta rendendo incomprensibili parecchi aspetti della storia? (non parlo solo di one piece)

Baci baci, alla prossima!!! 

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Capitolo 12
*** 11. Cibi, bevande ed attacchi d'ira! ***


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Non feci nemmeno in tempo a sistemarmi il tovagliolo sulle ginocchia, come mi avevano insegnato a fare, che Sanji me lo strappò letteralmente di mano, e con occhi adoranti provvide a risistemarmelo, perfettamente piegato, sulle mie gambe, avvicinandomi di peso al tavolo e lodando in maniera eccessiva la mia beltà. Mi avevano sempre detto che il rosso era un colore che mi donava moltissimo, ed in quel momento, con le guance in fiamme, sperai che non tutti mi avessero mentito spudoratamente nel corso degli anni. Mi calmai quando il cuoco riservò lo stesso trattamento ad Elena e alle altre ragazze, distogliendo da me l’attenzione generale. I suoi complimenti riecheggiavano per tutta la sala, generando perplessità e ribrezzo sui volti maschili. Descrivere, per esempio, l’espressione di Law e Kidd era impossibile, non avevo mai visto tanto sdegno, schifo e disgusto su un’unica faccia. Il povero Sanji rischiava di trovarsi sminuzzato e successivamente infilzato dalle posate, a seguito di un perfetto attacco combinato delle due supernove. Mi scappò un risolino a quel pensiero, che non sfuggì ad occhi di falco. Ma perché quell’uomo doveva avere degli occhi così? Non avevo visto il suo sguardo spostarsi dal cuoco alla sottoscritta, eppure avevo percepito chiaramente quelle gemme d’ambra posarsi su di me. Mi voltai d’istinto verso di lui, e rimasi incatenata al suo sguardo. Il sorriso mi si cancellò dal volto, ed un’innata paura iniziò a farsi strada dentro di me. Quello che aveva detto Hancock a Marineford era la pura verità, chiunque guardasse quegli occhi, sarebbe rimasto bloccato dalla paura.
Ma al diavolo queste sciocchezze, era un uomo come un altro, un semplice essere umano. Il fatto che girasse su una barca praticamente a forma di bara, vivesse in un castello diroccato e si portasse dietro un’enorme spada nera dall’elsa a croce, erano semplici dettagli. O forse no?
Fatto sta che non distolsi lo sguardo. Forse, anzi sicuramente, avrei perso quel duello, ma almeno ci avevo tentato. Non potevo passare tutta la serata a rabbrividire per colpa di quel capriccioso e super sexy spadaccino dai baffetti alla D’Artagnan. Volevo godermi il momento, non tremare di paura ogni tre secondi!
Mentre il nostro duello di sguardi imperversava, le lusinghe di Sanji arrivarono alla dolce Nami, che lo ringraziò con un sensuale cenno del capo, scostandosi poi i capelli dietro l’orecchio, andando a scoprirsi il collo affusolato. Inutile dire che ciò provocò al povero cuoco una cospicua emorragia nasale, prontamente arginata da Chopper con un tovagliolo.
«Nami mannaggia! Perché devi fare così tutte le volte? Lo sai che è sensibile a certe cose!» rimproverò la renna, mentre la rossa ridacchiava ed il cuoco si crogiolava nella bellezza di quest’ultima.
Il mio duello personale con lo spadaccino andò in fumo, a causa di uno scoppio di risa generale. L’ilarità della sala strappò un sorriso persino allo scontroso Smoker, che provvide immediatamente a mascherarlo accendendosi i suoi amati sigari. Anche Kidd si lasciò sfuggire una smorfia, vagamente somigliante ad un sorriso trattenuto.
Ma l’allegria del momento fu interrotta da Paulie, che rosso in viso si alzò di scatto, rovesciando a terra la sua sedia. I pugni stretti ed i denti che digrignavano non promettevano nulla di buono; sembrava sul punto di esplodere, e non era per niente un buon segno.
Probabilmente non fui l’unica a pensarlo, visto che molti commensali si irrigidirono alla vista del carpentiere furibondo. Nemmeno il richiamo all’ordine di Iceburg sembrò raggiungerlo, e non servì a fermare l’esplosione imminente.
«Scostumata! Siete tutte delle svergognate! Non è possibile che vi permettano di circolare così, siete praticamente nude! Copritevi!» gridò il folle falegname, causando pochi secondi di silenzio totale. Ok che era un ragazzo timido, però che diamine, un briciolo di contegno non riusciva ad averlo? Cosa avrebbe fatto se l’avessimo portato in una discoteca, o peggio, in spiaggia? Non volevo nemmeno immaginarlo.
Ora se ne stava fermo, ritto al suo posto, sempre con i pugni tesi e i denti stretti. Il rossore si era concentrato sulle gote, come a voler sottolineare l’imbarazzo del momento. Fu la vecchia Kokoro a spezzare il silenzio, ridendo di gusto, ed intimando al giovanotto di sedersi e di non importunare le ragazze con queste sciocchezze medievali. Quella donna era una forza della natura, assieme a Dadan ed alla dottoressa Kureha, aveva già fatto sparire minimo quattro bottiglie di vino, e la cena tecnicamente non era ancora iniziata! Potevano tranquillamente fare concorrenza al vecchio Barbabianca ed al Rosso in fatto di liquori. E non dimentichiamoci poi del burbero spadaccino dai capelli verdi, anch’esso estimatore di bevande alcoliche. Decisamente, ci sarebbe stato da divertirsi quella sera, se tutti fossero arrivati a fine pasto.
Quando Paulie si risedette composto ed imbarazzato, un nuovo attacco di risa invase la sala, coinvolgendo tutti quanti. Persino Newgate rideva, guardando i suoi figli con uno sguardo amorevole, che mi fece stare male. Era lo stesso sguardo che aveva riservato ad Ace, quando si era addormentato dopo l’abbuffata in onore della sua promozione a comandante della seconda flotta.
Mi mancava essere guardata così, e non avrei mai più rivisto gli occhi bruni di mio padre assumere quell’espressione, potevo rivederlo solo nei miei ricordi, e la mia paura più grande era che con il tempo, anche quelli svanissero.
Il vecchio imperatore si accorse del mio sguardo, e posò su di me il suo. Non avevo la forza per sopportare la sua pietà, e tantomeno per sostenere un altro sguardo tanto profondo. Dopo tutto, gli occhi di Mihawk e quelli di Barbabianca non erano così diversi tra loro, solo che i primi ispiravano timore, i secondi affetto.
Tentai di distrarmi, cancellando quei tristi pensieri dalla mia mente, non era quello il momento per rispolverare il passato, dovevo vivere il presente!
Così mi concentrai sulla risata di Ace, che come una dolce tortura, carezzava il mio cuore, simile ad una piccola mano rivestita di velluto che accarezzasse l’anima. Era poi così sciocco essersi innamorate di un cartone? Di un personaggio inesistente? Probabilmente si, ma ora quel personaggio era qui, accanto a me, in carne ed ossa, come potevo rimanergli indifferente?
«Allora, Selene, come siamo dal vivo?» mi chiese una voce carezzevole alla mia destra. Mi voltai, perdendomi in un mare di lentiggini. Era maledettamente vicino, e le calamite nere che aveva per occhi, non aiutavano a migliorare la situazione. Il cuore perse il suo battito regolare, iniziando una danza frenetica nel mio petto. Deglutii a fatica, e cercai nella mia mente la risposta, anzi, la domanda, perché avevo dimenticato cosa mi avesse appena chiesto.
«C-come scusa?» domandai imbarazzata, tingendo nuovamente di rosso le mie gote.
Lui dal santo suo, sorrise, grattandosi la testa con la mano, imbarazzato forse? No, sicuramente era stupito dalla mia reazione idiota. Che figuraccia avevo appena fatto, mi stavo comportando come una stupida ragazzina innamorata. E la cosa peggiore era che io mi sentivo veramente una stupida ragazzina innamorata. Maledizione.
«Ti ho chiesto come ti sembriamo… Nella realtà, nella tua realtà insomma… Siamo come ci avevi immaginato, oppure abbiamo deluso le tue aspettative?» mi richiese gentilmente.
«Siete esattamente come vi immaginavo, anche caratterialmente. È stranissimo vedervi qui in carne ed ossa, voi che fino a ieri eravate solamente dei… dei disegni o delle animazioni. È surreale, però… è molto bello vivere questa esperienza, è un sogno che si avvera!» risposi, tentando di non balbettare, di tenere la voce relativamente ferma e di non esprimermi come se fossi una fanatica. Anche se ammetto che l’idea di saltargli al collo gridandogli che era il personaggio più figo di tutta la storia, mi era passata per la testa. A quanto pareva però, il filtro idee-azioni funzionava bene, a differenza del suo compare pensieri-parole.
Ace mi sorrise, e per l’ennesima volta il mio folle muscolo cardiaco smise di battere. Avevo ipotizzato di non sopravvivere alla cena per la voracità dei miei vicini di posto, ma mai avrei creduto di poter perire d’infarto a causa del sorriso di quello zolfanello.
Sorrisi di rimando, con le guance ormai perennemente scarlatte.
Ringraziai di cuore il caso, che volle far entrare in quell’istante una schiera di camerieri, carichi di piatti e vivande, che iniziarono a distribuire a tutta la tavola, distraendo l’attenzione del mondo dalla sottoscritta.
I servizi furono un flusso continuo, eppure dopo una buona mezzora ero riuscita ad addentare forse due bocconi di cibo. Il mio piatto infatti era costantemente vittima di saccheggi; che fossero mani umane, di fuoco o di gomma non lo sapevo mai con certezza, ma il cibo in ogni caso spariva. Le risate erano incessanti, tra Ace che si strozzava con il cibo, Rufy che si allungava ovunque per rubarlo e tutti gli altri che tentavano di difendere il loro piatto come meglio potevano era impossibile non divertirsi. Però, ahimè, io ed Elena non avevamo nessuna abilità speciale, non potevamo quindi mettere a guardia del piatto delle posate, come aveva fatto Kidd, e nemmeno inserire il nostro piatto in una cupola inattaccabile. Con calci, pugni e spade non ce la cavavamo per niente bene, le corde non le sapevamo gestire e non eravamo nemmeno imperatrici pietrificanti o imperatori con un’Haki talmente potente da scoraggiare persino il fiammifero Lupin dall’allungare il braccino.
L’unico che come me era vittima dei saccheggi del moro, era la fenice, che con l’esasperazione sul volto si ritrovava più volte ad inforchettare il piatto vuoto, ottenendo solo un alone di bruciato sulla posata.
Ormai io mi ero rassegnata, ed aspettavo in grazia un attacco di narcolessia collettivo dei tre furfanti, mentre Elena sembrava più alterata.
La sua posizione, proprio a fianco di Rufy, le impediva di toccare cibo, e fin qui niente di strano, ma cappello di paglia non sapeva i rischi che si potevano correre rubando viveri dal piatto a quella fanciulla. Elena infatti era una gran mangiona, il suo peccato era certamente la gola, e guai a chi si frapponeva tra lei ed il cibo.
La cosa che più mi dava sui nervi però, era la sua linea impeccabile. Poteva mangiare tutto quello che voleva, senza mettere sui fianchi un filo di grasso, mentre io ogni sgarro lo vedevo magicamente comparire su pancia, cosce e glutei!
Mi faceva un’invidia nera, l’avevo anche soprannominata “pozzo senza fondo”, come Jewelry Bonney, proprio per la sua voracità sconfinata.
Iniziai ad allarmarmi quando la vidi cambiare impugnatura della forchetta, ingoiai il prezioso boccone, scampato alla voracità della D, ma non riuscii comunque a fermarla in tempo.
Uno stridore che mi fece tremare i denti e drizzare la peluria riempì la sala, procurando la stessa reazione a tutti. Persino Law e l’imperturbabile Mihawk strabuzzarono gli occhi a quel suono. Per non parlare delle sceneggiate dei Mugiwara a riguardo. Non c’era niente da fare, lo stridio della porcellana e dell’acciaio faceva accapponare la pelle anche agli uomini più pericolosi dell’universo di ONE PIECE. Addirittura l’ammiraglio Aokiji, che stava mangiucchiando pigramente, mezzo sdraiato sul tavolo, si rizzò a sedere rigido ed infastidito. Era bastato quel suono orribile per riportare calma e silenzio nella sala, e la causa l’avevo di fronte.
Elena aveva letteralmente infilzato un dito di Rufy al suo piatto. Cappello di paglia era immobile, con le guance piene di cibo e gli occhi carichi di lacrime, tentando di non gridare prima di aver deglutito, cosa che gli riuscì, ma con parecchie difficoltà.
«Ora, te lo dico una sola volta… Rimetti le tue manacce nel mio piatto, e giuro che ti uso come tappeto elastico nel mio giardino. Chiaro?» sibilò Elena, mantenendo la presa sulla forchetta. Somigliava maledettamente a Nami nelle sue incazzature peggiori, e non fui l’unica a fare questo paragone; il povero Chopper infatti attivò il Guard Point, tremando, mentre Usopp inscenava una morte apparente, guarnita di Ketchup. La tensione si allentò solamente quando il povero Rufy si mise ad annuire disperatamente, implorando Elena di lasciargli la mano, ormai gonfia.
Il silenzio era rotto solamente dai soffi e dai lamenti del capitano dei Mugiwara, che agitava la mano forellata a destra e a sinistra.
Erano rimasti tutti stupiti dalla reazione di Elena, nessuno si aspettava tanta violenza nel proteggere il proprio pasto. Non la conoscevano proprio! Una volta aveva letteralmente ringhiato a mio padre, che aveva tentato di rubarle l’ultima mozzarellina dal piatto. Era stata una scena epica, da morire dal ridere.
Infatti anche nell’immensa tavolata, dopo il momento di silenzio, un nuovo scroscio di risate invase l’ambiente. La piccola renna mise due cerotti sul dito dolorante di Rufy, che guardava di traverso l’imbarazzatissima ragazza.
Tra tutte le risate, quella di Ace era la più bella. Così graffiante e profonda, da farmi perdere l’ennesimo battito.
«Guarda che hai poco da ridere! Vale lo stesso discorso anche per te e il tuo caro nonnino! Giù le manacce dal mio piatto!» dissi, guardando il moro ed indicando il vecchio Marines, che continuò a ridere di gusto. Ormai lo spavento se l’erano preso, grazie ad Elena, tanto valeva approfittarne per riuscire a mangiare qual cosina!
Ace mi sorrise, rubandomi un altro battito cardiaco e facendomi sprofondare nuovamente nella pece del suo sguardo. Le iridi oscure sembravano brillare, come la vernice fresca; poteva l’oscurità brillare, pur non emettendo luce? A quanto pareva si. Ma non era solo il colore e la profondità di quegli occhi a rapirmi, persino le ciglia erano perfette, e come pizzo nero incorniciavano lo sguardo, carezzando gentilmente le lentiggini, ogni volta che sbatteva le palpebre.
«Scusa, è l’abitudine… Non mi capita spesso di mangiare con accanto una ragazza… Sono cresciuto con questo vecchio ingordo e con Rufy, poi sulla nave di Barbabianca di ragazze non ce ne sono molte. Abbiamo ananas ed uccellacci, ma poche fanciulle!» mi disse, mantenendo lo sguardo incatenato al mio e continuando a sorridere sornione.
Risi anche io alla battuta su Marco, che effettivamente era coerente con tutte le cattiverie che riuscivano a partorire le Fan del manga. Non c’erano scuse che reggessero a difesa di quell’acconciatura, era proprio orrenda.
Persino il vecchio imperatore rise, battendo un colpo sulla schiena della fenice, che ringhiando stava per massacrare il compagno.
«A quanto pare è un vizio di famiglia saccheggiare i piatti altrui, vero viceammiraglio Garp?» dissi, voltandomi verso il marines, in modo da nascondere ad Ace il rossore che mi aveva nuovamente invaso le guance.
«Bwahahahaha! Già, è proprio un vizio di famiglia!» affermò ridendo e sferrando un pugno in testa al nipote di fuoco.
«E porta rispetto a tuo nonno! Non sono un vecchio ingordo!» aggiunse, lasciando Ace dolorante sulla sedia.
Risi ancora di gusto, avevo appena assistito di persona ad uno dei famigerati pugni amorevoli di Garp l’eroe! Iniziai a preoccuparmi solo quando piccole scintille fosforescenti iniziarono a librarsi nell’aria.
«Ace non ti azzardare!» gridai, voltandomi di scatto verso il moro, che con le mani unite ed il busto girato verso di me, stava per incendiare dio solo sa cosa con le sue lucciole di fuoco.
Stranamente, oltre ogni mio pronostico, mi ascoltò, spegnendo quelle scintille.
«Non ti avrei colpito, volevo solo strinare il Vecchio…» mi disse, con un tono triste di scuse. Mi rammaricai immediatamente di aver gridato, e prontamente mi scusai, giustificando la mia, più che fondata, paura che nell’azione di “strinare il vecchio” rimanessi abbrustolita pure io, anche se non per sua diretta volontà.
Pugno di fuoco annuii, assicurandomi che non avrebbe più tentando di incendiare qualcosa con me nei paraggi. Stavo per ringraziarlo per il pensiero gentile, quando crollò con la faccia sulle mie ginocchia.
Stavolta non mi spaventai, non ipotizzai nessuna morte improvvisa, sapevo che era caduto vittima di uno dei suoi attacchi di narcolessia, ma la cosa mi sconvolse comunque.
«Ci risiamo, eh!» disse la fenice, scuotendo la testa con disappunto.
Intanto Elena si stava scusando in diecimila modi diversi con Rufy per la sua reazione, ingozzandolo di cosciotti, che alternava alle sue scuse.
Il mio corpo si era pietrificato invece, incapace di muovere un solo muscolo e sentendo solamente il caldo respiro di Ace sulle mie gambe. Nessun suono giungeva alle mie orecchie, se non il leggero respiro del ragazzo, al quale posai distrattamente una mano sul capo, passando le dita tra quei magnifici capelli corvini, forse più scuri dei miei. Ringraziai il cielo che quella sera il moro  indossasse una camicia; se fosse stato a petto nudo, dubito che sarei riuscita a non svenire a quel contatto tanto intimo.


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Finalmente eccomi qui! E finalmente la nostra Selene ed Ace sono un po' insieme! ^_^
sono più che consapevole che il capitolo è chilometrico, ma non riuscivo a tagliare nulla, e non volevo dividerlo! così ho suddiviso la cena in due, e questa è la prima parte! xD avevo sottovalutato i miei cari commensali nella valutazione di fare solo un capitolo xD Comunque, parliamo della censura!! posso basarmi solo su One Piece per ora, quindi mi limito a dire che secondo me è una sciocchezza. in italia devono capire che gli anime non sono cartoni animati per bambini, e vanno trasmessi in certi orari e senza censure, per non stravolgere la storia! io sinceramente penso che per un bambino vedere il sangue nero/viola sia più sconvolgente che non vederlo rosso! a me personalmente fa molto più schifo xD
comunque non ci resta che confidare che in futuro gli anime vengano doppiati da Mtv xD
niente, colgo l'occasione per ringraziare tutti i nuovi lettori, tutti quelli che hanno inserito la storia tra le seguite, tra le preferite e tra le ricordate! in più ringrazio di cuore tutti quelli che mi lasciano recensioni, che mi invogliano a scrivere sempre di più, ed ammetto che mi danno idee fantastiche a volte, ispirando scenette comiche e non! ^_^ grazie davvero, sono veramente contentissima che questa storia vi piaccia così tanto!
ed ora...

I vostri Anime/Manga preferiti quali sono?

Baci baci, al prossimo capitolo
!!! (che prometto non tarderà ^_^)

Immagini e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di lucro


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Capitolo 13
*** 12. Attimi di quiete ***


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Era una situazione surreale; io, una ragazza normalissima, a tratti persino banale, mi trovavo a tavola con i personaggi più importanti e famosi di ONE PIECE, ed inoltre Ace pugno di fuoco si era letteralmente addormentato tra le mie braccia. Era decisamente un sogno, ma che a nessuno venisse la malsana idea di svegliarmi, l’avrei ucciso, sul serio.
«Ma non potete fargli prendere del Pharmasal? È un farmaco che contrasta la narcolessia, sarebbe molto utile!» disse Elena, osservando perplessa Ace. Da quando sua madre aveva iniziato a lavorare nell’ambiente ospedaliero si era fatta una cultura su svariate medicine e malattie. Una volta avevo un raffreddore, un banalissimo raffreddore, e non sto nemmeno a tentare di ripetere cosa mi aveva diagnosticato quella donna! A quanto pareva la figlia aveva acquisito alcune conoscenze, a suon di sentirsele ripetere!
«Gurarara, è una benedizione che Ace si addormenti durante i pasti! Altrimenti nessuno riuscirebbe a mangiare in santa pace!» rispose Barbabianca, facendo sorridere tutti quanti. Effettivamente due mani ladre in meno sulla tavola, davano certamente più tranquillità ai commensali.
Dal canto mio però, il cibo non mi interessava in quel momento. Il capo del moro giaceva sulle mie gambe, con il volto rivolto verso il mio ventre. Potevo tracciare le linee del suo viso, contarne le magnifiche lentiggini, ammirare il pizzo delle lunghe ciglia nere ornargli le palpebre abbassate. La bocca semi aperta, dalla quale usciva un respiro leggero e bollente. Quelle labbra socchiuse erano una tentazione vivente, un invito a posarci almeno un dito, per sentire se erano morbide quanto promettevano. Sarebbe stato più caldo del normale un bacio con lui? Era fuoco dopo tutto, ma avrebbe alimentato allo stesso modo il fuoco della passione? Arrossii a quel pensiero. Non l’avrei mai scoperto, però avevo la possibilità di ammirare quel volto perfetto da vicino. Potevo sfiorare con le dita i setosi capelli neri, attorcigliandone piccole ciocche, per poi lasciarle andare. Chissà se il suo profumo mi sarebbe rimasto addosso, o se sarebbe svanito non appena il sonno che l’aveva colto, fosse finito.
Persa nei miei pensieri, ignoravo la tavolata, che intanto aveva ripreso a banchettare. Le conversazioni di sottofondo erano ovattate, lontane. Per me esisteva solo il volto dell’angelo bruno che avevo in grembo.
«Ti conviene mangiare qualcosa, eh.»
Le parole di Marco mi risvegliarono dall’ipnosi in cui ero caduta ammirando la perfezione del moro, facendomi arrossire nuovamente. Era tutta sera che arrossivo, avrei mai mantenuto il colore roseo naturale delle mie gote, per più di mezzo minuto?
«Si hai ragione! Faresti meglio a mangiare in fretta anche tu, prima che questo tritatutto si svegli!» dissi, riuscendo a far sorridere la fenice.
Mi venne in mente una pessima battuta, su come facessero i pennuti a sorridere con il becco, ma la tenni per me. Non avevo intenzione di farmi odiare dal comandante della prima flotta. E poi poveretto, aveva già Ace da sopportare, mancava solo che mi ci mettessi anche io! Per non parlare delle cattiverie che alcune fan riuscivano a partorire su di lui, i soprannomi del povero comandante erano i più belli da leggere e sentire. Sarà l’effetto dei capelli, sarà il frutto del diavolo, ma Marco ispirava soprannomi assurdi ed improbabili.
Ripresi a mangiare sorridendo, tenendo però la mano sinistra sul capo di Ace, accarezzandolo, come se avessi un gatto accoccolato sulle ginocchia. Non so se furono proprio quelle carezze, o se nel sonno facesse sempre così, fatto sta che le braccia muscolose di Ace si allacciarono attorno alla mia vita, avvicinando il mio corpo al suo. Con il volto sprofondato nelle pieghe del vestito ed un sospiro di soddisfazione, il moro tornò a dormire come se nulla fosse, mentre io dentro di me, andavo a fuoco.
Deglutii a fatica, mollando la forchetta nel piatto e scostandomi dal tavolo, per poter vedere meglio il groviglio di membra che si era creato.
Ace mi aveva letteralmente abbracciata, cingendomi in vita, ed aveva premuto il suo viso sulla mia pancia. Il respiro del moro si era fatto più profondo, mentre il mio era quasi inesistente. Solo facendo questo confronto mi accorsi che avevo smesso di respirare.
Tentando di riacquisire un certo contegno, mi risistemai sulla sedia, onde evitare di cadere rovinosamente a terra, trascinandomi dietro Ace.
Feci finta di nulla, e nessuno si accorse del cambiamento di posizione appena avvenuto, oppure nessuno ebbe la malsana idea di farlo notare. Le mie gote purpuree parlavano da sole, e la mia mano non smetteva di giocherellare con i fili di seta che Ace aveva al posto dei capelli. Non avevo mai pensato a come sarebbero stati, e se l’avessi fatto, mai avrei ipotizzato una tale morbidezza. Erano sottili e soffici, ed affondandovi la mano, sembrava di immergersi in un lago di seta nera.
Poteva un sogno essere tanto reale? No, lo sapevo bene, quella era la realtà, una surreale e fantastica realtà, che dovevo assolutamente vivere al massimo, per non avere rimpianti.
Guardando il volto dormiente e rilassato di Ace però, un’immagine mi balenò in testa, sostituendo alla felicità il dolore. Avevo visto solo una volta gli occhi di Ace chiusi ed il suo viso disteso, ed era stato il fotogramma più orribile della mia vita, l’immagine che più mi aveva sconvolto. Strinsi le palpebre, scacciando quei pensieri il più in fretta possibile, prima che si impadronissero di quel momento magico. Niente e nessuno avrebbe potuto rubarmi quell’angolo di paradiso con il mio angelo di fuoco, nemmeno i ricordi della sua verità, che lo attendeva immutabile nel suo mondo.
Ormai la gioia e l’euforia dell’avere tra le braccia Ace erano sfumate, lasciando posto al rimorso ed alla malinconia. Le carezze leggere divennero nostalgici gesti, che preannunciavano un addio.
Marco se ne accorse, notò il cambiamento del mio umore, e sicuramente capì a cosa stavo pensando, perché anche i suoi occhi si incupirono.
Non potevamo salvarlo, avevamo nelle nostre mani tutte le carte per poter mutare la storia, ma non era il nostro turno, non potevamo giocarle, e non le avremmo potute utilizzare in tempo per salvare Ace.
Ormai le voci della sala erano solamente un brusio di sottofondo ai miei pensieri, quando la voce di Elena attirò nuovamente l’attenzione del mio udito, ma non del mio sguardo, che rimaneva fisso sulle macchioline perfette che ornavano le guance di pugno di fuoco.
«Scusate un secondo, ma ho avuto un’illuminazione!» iniziò la mia amica, e quando lei aveva un’illuminazione, c’era veramente da preoccuparsi, visto che le possibilità erano che dicesse una castroneria colossale, oppure un’idea sensata. Per mia natura ero pessimista, quindi propendevo sempre per la prima ipotesi.
Crudele? Forse.
Realista? Di certo.
«Come fate a parlare in italiano? Cioè, tecnicamente voi dovreste essere giapponesi giusto? E quindi non dovreste parlare la nostra lingua… quindi mi chiedo: come fate?» terminò Elena, sfatando i miei pessimistici pronostici. Effettivamente era una domanda più che lecita. Sul momento non ci avevo nemmeno pensato, ero lì con loro, cosa mi importava della lingua in cui parlavano? Però effettivamente avevano un lessico completo e perfetto, senza nessun accento, come se fossero veramente italiani, anzi, parlavano anche meglio di molti miei connazionali volendo essere pignoli.  Come era possibile una cosa del genere?
Mentre mi arrovellavo il cervello cercando di svelare il mistero, Trafalgar Law sorprese tutti, prendendo la parola.
«Parliamo tutte le lingue in cui le nostre vicende sono state tradotte, Elena-ya» affermò pacato e glaciale, come solo il chirurgo della morte poteva essere. Certo che la sua fama se l’era sicuramente meritata! Metteva i brividi, anche se non era armato ed era abbigliato con abiti normali, una semplice camicia blu notte e jeans scuri (a quanto pareva quella sera aveva rinunciato al suo amato cappello maculato), emanava un’aurea di pericolosità latente. E lo spirito di sopravvivenza nullo di Elena ne era morbosamente attratto. La mia amica pendeva letteralmente dalle labbra del dottore, che la guardava di sottecchi, rimanendo stravaccato in modo improbabile sulla seggiola. Certo, la bellezza di Law era innegabile, ma le parole “chirurgo” e “morte” non riuscivano a farmelo apprezzare fino in fondo in quel contesto. Nella storia l’avevo adorato, e lo adoravo tuttora, ma lì, faccia a faccia, mi metteva solo ansia, e vista la mia situazione, con un fiammifero incollato alle gambe, non me ne serviva altra.
Quindi ricapitolando, ogni lingua in cui erano stati tradotti manga ed anime, erano tranquillamente parlate dai personaggi a tavola? Interessante, mi avrebbe fatto comodo una capacità simile al liceo. Io e l’inglese avevamo avuto svariate battaglie, perse miseramente dalla sottoscritta. Io e le lingue non andavamo minimamente d’accordo, e questa antipatia era stata sicuramente fomentata dalla gentilezza e dalla disponibilità che caratterizzavano quella stronza della mia vecchia professoressa di inglese. Avessi potuto lanciarla in pasto ai Crocobanana, l’avrei fatto!
D’un tratto il mio pazzo cervellino, produsse una domanda, la quale, come ormai accadeva troppo spesso per i miei gusti, uscì serenamente dalla mia bocca, senza degnarsi di chiedermi il permesso.
«Ma quindi devo chiamarti Rabber?» chiesi a Rufy, che rischiò di strozzarsi con il boccone di non so cosa che stava masticando. Quando riprese fiato mi guardò con occhi furenti, degni di un temibile pirata, e mi intimò di non chiamarlo mai più Rabber, Rubber o peggio ancora Monkey D. Rubber!
Risi inevitabilmente a quella reazione più che giustificata.
«Scusami, non volevo farti arrabbiare, è solo che è così buffo sentirti chiamare con quel nome!» mi giustificai, tentando di non scuotermi troppo per le risate, evitando così di svegliare Ace.
«Dahahahaha! Certo che qui in Italia di fantasia ne avete in abbondanza! Ci hanno riferito che ci avete censurato brutalmente!» ridacchiò Shanks, inconsapevole di aver scatenato una discussione polemica che non avrebbe facilmente trovato sfogo immediato.
Fui io la prima ad inveire contro la censura, e non ci andai per niente leggera!
«In primo luogo, ti chiedo di non parlare al plurale, e di non generalizzare. La Mediaset è l’unica responsabile dello scempio svolto sulle vostre avventure animate, ed i veri appassionati di ONE PIECE sono perennemente disgustati ed alterati da questa storia delle censure. Fossero almeno sensate maledizione!» inveii. Era un argomento che mi scaldava parecchio quello della censura patetica che veniva applicata all’anime. Il sangue nero/marrone mi faceva letteralmente schifo, per non parlare della distruzione dei dialoghi e del senso logico delle frasi.
L’involontaria provocazione di Shanks causò l’inserimento di Elena nella conversazione, che si lasciò trasportare più della sottoscritta nella discussione con il Rosso, che pareva molto interessato alle motivazioni che “giustificavano” quelle modifiche.
Mentre i due discutevano, ascoltavo distratta le loro parole, concentrandomi nuovamente sui capelli di Ace. Riportai il mio sguardo sul suo viso, e rimasi di stucco quando invece di incontrare le sue palpebre chiuse, trovai le sue iridi nere ad osservarmi.
L’onice liquida di quelle iridi mi sconvolse, era innaturale che degli occhi potessero essere tanto neri. La pupilla era quasi invisibile immersa in quel nero screziato.
Ace mi guardava con aria attenta e guardinga, con l’espressione tipica di un animale impaurito ed affamato, scoperto a rovistare nella dispensa, e che aspetta solo di essere cacciato in malo modo da chi l’ha scoperto.
Ma non volevo mandarlo via, non l’avrei mai fatto; se gli stava bene restare appoggiato sulle mie ginocchia, per me non c’erano problemi, anzi, ne sarei stata contenta! Gli sorrisi dolcemente, tentando di esprimere con gli occhi i miei pensieri e ciò che provavo, mentre le mie dita continuavano la danza con le sue ciocche ribelli.
Non saprei dire cosa vide nel mio sguardo o nel mio sorriso, ma qualunque cosa fosse gli procurò un cipiglio perplesso, e non ottenne l’effetto di calmarlo come speravo. Ma cosa credevo di fare? In fondo ero solo una sciocca ragazzina per lui, che tentava di rendere la sua vita meno noiosa leggendo le sue avventure, tentando di immaginare come sarebbe stato vivere la sua vita. ero patetica? Decisamente sì.
I muscoli delle braccia e della schiena del moro erano tesi, e mi accorsi solo allora della rigidità che aveva acquisito il corpo di Ace, opposta al rilassamento che aveva nel sonno.
Da quanto tempo era sveglio? Da quanto attendeva il mio rifiuto? O meglio, da quanto tempo ormai era abituato ad essere scansato da tutti coloro che sapevano di chi fosse figlio? Solo Barbabianca ed i suoi compagni d’infanzia non l’avevano scacciato e non avevano maledetto la sua nascita. Ed ora, a quella tavola, solamente Rufy, Newgate e Marco, oltre a me ed Elena, conoscevano la vera identità di Ace. Ma lui ne era consapevole? Sapeva che io e la mia amica conoscevamo il suo segreto? E soprattutto, come avremmo fatto a toglierci da quella situazione a dir poco imbarazzante?


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Eccomi! Allora, lo scorso capitolo mi avete sconvolta, siete stati tantissimi a commentarlo, e vi ringrazio di cuore!!! non avete idea di quanto mi faccia piacere leggere le vostre impressioni, le vostre ipotesi, le vostre speranze per eventuali risvolti della storia!! GRAZIE, davvero di cuore!!!
un ringraziamento particolare va a Lenhara, che mi istruisce sempre sui dettagli che potrei inserire! ( Ho fatto una bella ricerca su Law, ed ho scoperto che avevi ragione! Infatti lui per parlare usa mettere un suffisso ai nomi (-ya), che è traducible con "signor" più o meno, l'ho lasciato in originale onde evitare traduzioni strane (c'è chi dice volgia dire negozio quindi evitiamo xD))
Dopo queste infinite parentesi, vi ringrazio ancora!!! soprattutto per tutti i consigli che mi avete dato in fatto di Manga ed anime, mi sono fatta una bella lista ^_^

Qual'è la vostra frase preferita di One Piece?

Un bacione, alla prossima!!! (non prometto niente ma potrebbe essere Venerdì )


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Capitolo 14
*** 13. Passato e futuro ***


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Gli occhi di Ace non lasciavano i miei, e mantenevano quell’espressione perplessa e titubante, che si accentuò quando vide le mie guance colorarsi nuovamente di rosso. A quanto pare ero contagiosa, perché anche le gote del moro iniziarono a prendere colore. Avevo visto Ace arrossire da bambino, davanti alla gentilezza di Makino, ma vedere quel leggero rossore sulle guance del ragazzo, ormai adulto, era sconvolgente. La bellezza già perfetta veniva esaltata ancora di più da quell’arrossamento, che mi provocò uno stranissimo sorriso. Da quanto tempo non sorridevo così? Avevo sorriso per l’agitazione, per finta, per una battuta divertente, ma quel sorriso era diverso, lo sentivo dentro di me, era un sorriso dell’anima, era un vero sorriso, di quelli che arrivano agli occhi e li fanno brillare.
Mi toccai stranita le labbra curvate, incredula. Fortunatamente nessuno sembrò notare quel gesto sciocco, la tavolata era totalmente concentrata sulla filippica di Elena contro la censura. Era un portento quella ragazza nell’argomentare le sue tesi, e mediamente riusciva a convincerti di quello che diceva unendo la verità al crudo sarcasmo. Certo che lei e Law sarebbero andati d’accordo, l’ironia gelida che stagnava nelle loro frasi era pressoché identica.
Il tempo sembrava essersi fermato, mi parve perfino di vedermi dall’esterno; io che sorridevo, con il capo di Ace sulle gambe e le sue braccia attorno alla vita, meno tese di prima, ma non rilassate come nel sonno. Ero imbarazzata dalla situazione, anche se adoravo quell’abbraccio bizzarro, non potevo restare in quella posizione all’infinito, e dovevo farmene una ragione. E poi chissà cosa pensava Ace di me, visto che non avevo smesso nemmeno un secondo di giocherellare con i suoi crini neri, tentando di imprigionare quella sensazione nella mia memoria, per poterla conservare assieme al calore che mi dava il suo corpo. Beh, ormai la figuraccia era fatta, quindi tanto valeva concluderla in grande stile.
Sospirai, e con la mano tracciai dalla fronte al mento, una linea immaginaria sul viso del moro. Scesi lungo la mascella perfetta, per poi risalire lungo la stessa strada. Ridiscesi seguendo il profilo dritto del naso e l’arco delle sopracciglia. Incorniciai con sentieri invisibili gli occhi e le labbra, passando più volte sulle guance spruzzate di lentiggini scure. I miei occhi erano attenti, le mie dita sensibili. Tatto e vista, ecco i sensi che stavo sfruttando al massimo in quell’istante, per imprimermi nella mente quelle emozioni e quei dettagli, che sfuggono ad un’occhiata superficiale. Il labbro inferiore, più pieno del superiore, la fronte spaziosa, le guance glabre. Tutto perfetto.
Le mie dita tremanti si fermarono sul cipiglio perenne che affliggeva il viso di Ace, quei due solchi che si formavano in mezzo ai suoi occhi, tanto belli quanto guastatori della sua serenità. Tentai di distenderli, passandoci sopra l’indice, senza risultati, per poi terminare la mia esplorazione con una carezza sul lato del viso, che gli scostò qualche ciocca ribelle. Ace chiuse gli occhi a quel tocco, addolcendo la linea delle labbra ed attenuando la profondità delle rughe glabellari. Non era rilassato come in sonno, ma la tensione che lo attanagliava era sparita quasi del tutto, come risucchiata dai miei tocchi leggeri, ed era passata a me, trasformandosi in puro imbarazzo e felicità. Disegnare con le dita il profilo di Portuguese D. Ace era un sogno, che non mi ero mai nemmeno permessa di avere, ed ora l’avevo appena realizzato. L’imbarazzo che mi colse, quando realizzai cosa avevo appena fatto, fu incredibile, rasentava il panico. Cosa avrebbe pensato di me? Cosa mi era saltato in mente? Oh, ma al diavolo tutto, non l’avrei mai più rivisto, tanto valeva fregarsene delle figuracce e godersi il momento.
Quando gli occhi del moro si aprirono, trovarono ancora i miei ad attenderli, pronti a perdersi nuovamente in quei pozzi d’oro nero. Ma stavolta non furono solo i suoi occhi a catturare la mia attenzione, anche la bocca ebbe il suo rilievo; quelle labbra divine infatti erano curvate in un dolce sorriso, che mi scaldò il cuore, cancellando l’imbarazzo dalle mie emozioni. Il sorriso di quel ragazzo era magico, talmente caldo da sciogliermi, così luminoso da riflettersi nei miei occhi, abbagliandomi.
Rimanemmo a guardarci, sorridendo, per non so quanto tempo. I secondi, i minuti, le ore, tutto aveva perso senso, c’eravamo solo io e lui, i nostri occhi ed i nostri sorrisi erano le uniche cose degne di attenzione, tutto il resto, era nulla.
Sentii le sue mani sulla mia schiena stringere un po’ di più, come quando in un abbraccio, dai un’ultima stretta, leggermente più forte, per avvisare l’altro che stai per staccarti. Mi stava dicendo silenziosamente che stava per alzarsi, che era giunto il momento di tornare al presente; ed infatti poco dopo si alzò dalle mie gambe, senza però far leva su di esse, usando solo la forza dei suoi addominali. No, un momento, pessima idea immaginarsi i suoi addominali contratti in questo momento, davvero una pessima idea!
Sbadigliò vistosamente e rumorosamente, stiracchiandosi ed inarcando la schiena. Non sarà stato bravo a dire bugie, ma a fingere di essersi appena svegliato era un mago.
«La bella addormentata si è svegliata! Bwahahahaha!» esclamò Garp, causando l’ennesimo scoppio di risa. Persino Marco si lasciò andare, mentre Ace ridacchiando si grattava la testa. Risi, immaginandomi Pugno di fuoco vestito da principessa, un’immagine esilarante, ma questo non glie l’avrei mai detto.
«Ti sei deciso a liberarla dalla tua presa da granchio, eh?» esordì la fenice, facendomi diventare bordeaux in viso. Ma da dove l’aveva tirata fuori quell’espressione? Volendo essere pignoli, l’abbraccio di Ace era stato più simile a quello di un koala, o se si preferiva rimanere nell’ambiente marino ad una piovra. Inoltre come osava, quello stupido pennuto azzurrognolo, dipingermi come la “vittima” di quella situazione? Non mi pareva di essermi lamentata, e non mi sembrava nemmeno il caso di dire al mondo che nel sonno Ace si era avvinghiato a me! Non mi era per nulla dispiaciuto essere “imprigionata” da Ace che, pur continuando a ridacchiare, iniziava ad arrossire.
Ormai la cena volgeva al termine, in tavola erano rimasti pochi avanzi di frutta e dolciumi, che presto Ace divorò, ed i grandi bevitori erano al limite della sopportazione; fatta eccezione per le tre vecchiette e l’immenso Barbabianca infatti, tutti gli altri erano pronti per essere messi a letto. Zoro era ormai crollato sullo schienale della sedia, russando rumorosamente, mentre il Rosso aveva gli occhietti lucidi e le guance arrossate. Persino l’imperturbabile occhi di falco iniziava a sentire gli effetti dell’alcol, ed aveva abbassato leggermente il suo stato d’allerta. Falco… più che un falco a volte sembrava un suricata, sempre dritto e pronto a scattare. Rabbrividii al pensiero di cosa avrebbe potuto farmi se avesse sentito quel pensiero: Sashimi di Selene, ecco cosa sarei diventata!
La piccola Chimney dormiva sulle ginocchia della nonna, mentre la bellissima imperatrice pirata iniziava a sbadigliare. Nonostante la sua avversione per gli uomini, la bella Shichibukai aveva trascorso la serata ridendo in compagnia di quel bizzarro assortimento di individui, ed il fatto che non fosse volata addosso ad Elena dopo la forchettata a Rufy, mi indusse a pensare che non l’avesse ancora conosciuto nei suoi ricordi. Doflamingo manteneva la sua posizione stravagante, impossibile da descrivere, ridendo e partecipando attivamente alle conversazioni polemiche e politiche, molto interessato alle dinamiche del nostro mondo, maledettamente simile al suo malsano ideale.
L’universo di ONE PIECE era carico di sogni, aspettative, libertà e avventura; mentre il mondo in cui vivevo, ed in cui si trovavano tutti loro in quel momento, era oppresso da leggi e burocrazia interminabili, dominato dai soldi e dal potere, un mondo dove i sogni restavano tali, irrealizzabili utopie di menti colorate e vive, destinate però ad omologarsi al grigiore collettivo. Forse era proprio questa grande differenza, a far sognare ai fan di anime e manga, di poter entrare a far parte di quel mondo fantastico, colorato ed avventuroso, dove i sogni potevano essere realizzati, e non erano destinati ad infrangersi contro un muro di divieti, oppure a marcire dentro un cassetto.
Nel frattempo Pugno di fuoco si era risistemato al suo posto, ma aveva appoggiato il suo braccio sinistro sullo schienale della mia sedia, sfiorandomi leggermente la spalla nuda con la mano. In quell’istante, con le dita di Ace che solleticavano leggere la mia pelle, un ponte collegava due mondi, due realtà, due epoche diverse.
Lui apparteneva al passato, doveva ancora vivere la sua avventura, doveva ancora scoprire quanto potesse essere infame la vita, quanto potesse ancora farlo soffrire, come se il dolore che si portava dentro da quant’era nato non fosse bastato, come se la vita fosse assetata della sua sofferenza.
Io invece rappresentavo il futuro, ero colei che sapeva come sarebbero andate le cose, che sapeva la fine della sua avventura come sarebbe andata, ero colei che voleva ma non poteva salvarlo, ero una ragazzina innamorata a cui era stato concesso di vivere una giornata da sogno, ma niente di più.
In quel momento, passato e futuro si univano, si fondevano, si compenetravano nel presente. A quella tavola, io ed Ace, eravamo una storia completa, inizio e fine che si univano, attendendo con ansia di scoprire come sarebbe stato il corpo della storia, come si sarebbe sviluppata quella bizzarra trama. Avrei voluto cambiare il mio ruolo, avrei voluto diventare un finale aperto, per donare speranza, oppure un lieto fine. A tutti piacevano i lieto fine, perché anche Ace non poteva averne uno? Perché era destinato a finire così, come l’avevo visto morire io? Nella polvere, con la sofferenza ed il dolore, tra le braccia di un fratellino ancora troppo giovane per sopportare quel trauma, quello shock. A distanza di mesi scoppiavo ancora a piangere come una bambina quando ripensavo a quelle scene, a quei maledetti fotogrammi che mi avevano spezzato il cuore. In quelle puntate, tra quelle pagine, avevo perso una parte di me, che si era affezionata troppo a quel ragazzo di fuoco, che tanto aveva sofferto nella sua vita, e che pur morendo senza rimpianti, ne lasciava tantissimi a coloro che l’avevano amato. Si può desiderare di morire senza rimorsi, ma morire senza lasciarne ai proprio cari, doveva essere ancora più bello.
Rufy non era riuscito a mostrargli il suo sogno realizzato, Marco ed i suoi compagni non erano riusciti a salvarlo e a dirgli quanto bene gli volessero, ed io… io dal mio mondo avevo urlato, pianto, maledetto, graffiato, singhiozzato in preda alla rabbia ed al dolore, con lo strazio di non avere potere su quella storia.
Ora invece avevo la possibilità di salvarlo, mi sarebbe bastato dirgli quello che sapevo per impedirne la morte, eppure non potevo.
Quando sarebbero ripartiti, come mi sarei sentita vedendo il ragazzo che aveva dormito sulle mie gambe, morire a causa mia? Sì, sarebbe stata colpa mia, perché non l’avevo avvisato, perché non l’avevo salvato, perché non avevo potuto rivelargli il suo futuro. Forse cambieremmo il nostro modo di essere, se dovessimo scoprire cosa ci riserva il domani, ma rivelare ad una persona la sua sorte, è innaturale, ribalterebbe l’ordine delle cose, modificherebbe il destino di troppa gente. Se avessi salvato Ace, avrei ucciso Rufy, perché Teach sarebbe andato a cercare proprio lui, a Water Seven.
Mi avrebbe perdonato per questo? No.
Ero pronta ad uccidere suo fratello per salvarlo? No.
Avrei voluto avere una via di fuga, una possibilità di salvezza per tutti? Sì, ma i miei desideri non contavano nulla. Il destino era già stato scritto, ed io non potevo cambiarlo. Ace sarebbe ritornato nel suo mondo, ed avrebbe vissuto la sua avventura fino alla fine, mentre io sarei rimasta qui a piangere e disperare, davanti all’immagine della sua tomba.
La tavolata iniziava a spegnersi pian piano, i compagni del Rosso lo convinsero a mettere da parte il liquore ed andare a letto, e ben presto anche le tre over sessanta decisero di congedarsi.
Ben presto rimanemmo solo io ed Elena, in compagnia dei Mugiwara, i pirati di Barbabianca, Law, il lugubre Kidd e Garp. Perfino i reali di Alabasta, i carpentieri di Water Seven e gli esuberanti Okama erano andati a letto, seguiti a ruota dai pochi Marines e Shichibukai presenti.
Ignoravo che ora fosse, e non volevo saperlo. Finché non mi avrebbero cacciata via a forza, sarei rimasta lì, con due dita leggere come ali di farfalla che mi sfioravano la spalla.
«Beh, per noi della vecchia generazione è tempo di andare a riposare le ossa! Lasciamo i giovani a festeggiare ancora un po’!» esordì Garp, rivolgendosi all’imperatore, il quale ridendo si alzò dalla poltrona fornitagli come seduta, ed insieme si avviarono verso l’uscita della sala. Vederli insieme era uno spettacolo più unico che raro, però non mi stupii più di tanto, alla fine tra vecchi rivali c’era molto rispetto, ed ero più che convinta che durante la sua carriera Garp avesse lasciato fuggire più volte Newgate e Roger, anche solo per il gusto di non chiudere quella partita tanto presto, così come i due pirati si erano risparmiati a vicenda, ed avevano indubbiamente risparmiato il marines in più di un'occasione.
Marco non sembrava molto contento di lasciar andare via il suo capitano senza scorta, da solo, e per di più con un marines; ma la manata di Barbabianca sulla schiena non lasciava spazio ad inutili proteste. Il viso della fenice si incupì, ma non accennò a replicare l’ordine silente del suo babbo. Rufy si portava dentro un segreto enorme, ma quello del comandante della prima flotta, era ancora più gravoso.


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Toc Toc, ci siete? xD Beh, ho poco da dire!! Nonostante il cielo abbia tentato di non farmi postare in anticipo (un temporale ha simpaticamente fatto saltare la corrente 3 secondi prima che io premessi quel maledettissimo pulsante "salva" dopo aver terminato tutte le modifiche! -.-" ) io ce l'ho fatta!!! Ebbene si, in anticipo di ben 24 ore sulla tabella di marcia, il capitolo 13 era finito ^_^
Ringrazio di cuore tutti coloro che hanno aggiunto la storia tra le preferite, le seguite e le ricordate, siete tantissimi!!
In più un grazie immenso ai recensori, mi date veramente la carica per andare avanti (altro che kinder fetta al latte!!!! xD) quindi, grazie grazie grazie!!! ^_^
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, ed ora la mia frase preferita in assoluto: "Anche nelle profondità dell'inferno, sboccia il bellissimo fiore dell'amicizia, cullandosi su e giù tra le onde, lascia i suoi petali ai ricordi, un giorno sboccierà di nuovo!" detta da Mr 2. è una frase che adoro, anche se tra le mie preferite ne avrò un centinaio in totale xD mi piacerebbe raccoglierle tutte in un blog, se solo fossi capace xD comunque le vostre erano stupende, e ne ho aggiunte parecchie al mio quadernino delle citazioni. xD Ma ora basta cianciare, vi lascio alla domanda  di rito! xD

Qual'è il vostro animale preferito in ONE PIECE?

Un bacione, alla prossima!!! ( stavolta non so dirvi quando aggiornerò, sper presto comunque, dipende dagli esami!! ^_^)


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Capitolo 15
*** 14. Non mi importa! ***


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Per allietare l’atmosfera, Brook si mise a suonare allegri motivetti con il suo violino, facendo canticchiare quasi tutti. Il clima era allegro e sereno, ma la quiete non durò a lungo, proprio a causa del violinista.
«Yohohohoho, certo che tu con i capelli ad anemone sei proprio un musone! Sorridi un po’!»
No, non poteva averlo fatto, non l’aveva detto davvero, non era possibile che quello stupido scheletro avesse appena dato ad Eustass “Capitan” Kidd del musone con i capelli ad anemone. Ok che era già morto, ma volersi fare del male in questo modo mi pareva esagerato!
«Spero tu non stia parlando con me!» ringhiò la supernova, facendo tintinnare l’argenteria sulla tavola. Il chirurgo intanto si era disegnato un sorrisetto beffardo sul viso, mentre lo scheletro si rendeva conto del rischio che stava correndo, e si scusava all’infinito. Tirai un sospiro di sollievo solo quando le posate smisero di tremare, ed il ghigno di Kidd si attenuò. Quel mucchio d’ossa l’aveva scampata per un pelo, e noi con lui, visto che la mira dell’anemone non era delle migliori, a mio parere. Le scuse di Brook andarono avanti parecchio, provocando risolini sparsi, e persino a Kidd iniziava a tremare il labbro, segno di una lotta all’ultimo sangue tra la volontà di restare serio e lo stimolo alla risata. Chi sarà il vincitore? E chi lo sa! Per ora sono pari, ma l’espressione incerta sulla faccia del rosso, fa scompisciare me dalle risate.
Law nel frattempo aveva abbassato lo sguardo, facendo intravedere solo un sorriso beffardo, che però non aveva nulla di felice. Chissà se gli mancava sentire le scuse insensate di Bepo, il suo orsacchiotto kung-fu. Non doveva essere semplice per lui ed Eustass essere catapultati qui, soli, senza nessuno di cui potersi fidare, senza i propri nakama su cui fare affidamento. Non erano in una situazione propriamente facile, erano da soli, senza veri amici a cui potersi appoggiare.
«Io esco a prendere una boccata d’aria, eh!» Disse Marco, prima di alzarsi ed avviarsi lentamente verso l’uscita. Dovevo parlare con la fenice prima di andarmene, e quella era un’occasione che non potevo farmi sfuggire; non mancava molto alla nostra partenza, ed ero quasi certa che quel pennuto malinconico non sarebbe tornato a tavola.
«Scusate, vado un attimo al bagno, torno subito!» Avvisai, prima di scostare la sedia dal tavolo ed alzarmi, sistemando il vestito ormai sgualcito. Fu una violenza fisica imporre al mio corpo di scostarsi dalla mano di Ace, che aveva iniziato a disegnare ghirigori invisibili sul mio braccio, ma prima il dovere e poi il piacere. Non mi voltai per guardare se il moro mi stesse osservando, perché se l’avesse fatto ed io l’avessi visto, non avrei più risposto delle mie azioni, ed un’accusa di stupro non era esattamente nella lista delle mie “cose da fare prima dei vent’anni”. Già non era stato semplice mantenere un briciolo di autocontrollo con le sue dita che vagavano sulla mia spalla, se poi mi mettevo anche a mettere alla prova il mio buon senso, rischiavo di fare veramente qualche sconsideratezza. Piacevole, allettante, particolarmente invitante, ma comunque illegale.
Appena uscii dalle porte del grande salone, mi guardai intorno in cerca di qualche traccia dell’ananas pennuto, senza avere successo. Fortunatamente riuscii ad intercettare un domestico, che mi disse di aver visto un signore uscire sulla terrazza. L’anziano maggiordomo fu tanto gentile da indicarmi anche la strada per raggiungere la balconata, che per mia fortuna era semplicissima.
Quando arrivai nei pressi delle grandi vetrate, vidi la figura della fenice illuminata dalla luna, e mi avvicinai al parapetto dove era accasciato il comandante.
Mi appoggiai con i gomiti sul freddo marmo, osservando lo spettacolo suggestivo della luna che si specchiava nel lago, creando un magnifico quadro d’argento e oscurità.
«Mi dispiace per la domanda che ti ho fatto prima di cena, davanti a tutti. Non ho pensato prima di parlare, mi sono lasciata prendere dall’emozione del momento.» Dissi, continuando però a fissare il paesaggio. La piatta superficie del lago sembrava uno specchio lucente, illuminato dal bagliore lunare e dalle luci dei paesi che sorgevano sulle sue rive. Le piccole increspature causate dalle correnti facevano sembrare l’acqua viva, creando magnifici giochi di luce. Da Marco non arrivava nessuna risposta, così decisi di continuare, raccontandogli di me.
Non so perché lo feci, forse era l’istinto a suggerirmelo, o forse la mia ragione aveva capito che per smuoverlo avrei dovuto fargli capire che potevo comprenderlo, che capivo, almeno in parte, cosa stava provando.
«Ho perso mio padre qualche mese fa, una malattia che non lasciava scampo me l’ha portato via in meno di un mese. Sapevo che sarebbe successo, ma non sono ancora riuscita ad accettare la sua scomparsa, l’idea che possa varcare nuovamente la porta di casa, come faceva ogni giorno, alla stessa ora, non mi ha ancora abbandonata del tutto. Continuo a ignorare il fatto che non lo rivedrò mai più, perché se non ci penso soffro di meno, anche se non vado avanti e non supero il dolore, non soffro come quando rimugino sul passato. Avrei tanto voluto avere più tempo a disposizione per stare con lui, per farlo assistere alla mia laurea, per farmi accompagnare all’altare, per vederlo sorridere quando un bambino l’avrebbe chiamato “nonno”. E la cosa buffa è che prima che succedesse tutto, l’idea di sposarmi e mettere su famiglia non mi aveva mai nemmeno sfiorata, non rientrava nei miei interessi, e tutt’ora non è nelle mie priorità. Però solo quando ti tolgono la possibilità di fare qualcosa, ti accorgi di quanto avresti voluto farla o di quanto avrebbe potuto significare per i tuoi cari.» Abbassai il capo, in silenzio, ricacciando indietro le lacrime che minacciavano di sfuggire al controllo delle palpebre.
La fenice taceva, guardando il paesaggio, assorta nei suoi pensieri. Non avevo la certezza che mi avesse ascoltata davvero, però qualcosa mi invogliava a continuare, ad andare avanti con il mio discorso.
«Perdere un genitore è una cosa terribile, non so cosa voglia dire perdere un fratello, ma posso capire il tuo dolore per quanto riguarda il tuo babbo. Vorrei poterti dare consigli, ma non ne ho. È una sofferenza che non sono ancora riuscita ad affrontare, quindi non posso aiutarti con la tua, ma.. non lo so. Non so nemmeno io perché sono venuta qui a parlarti, forse volevo solamente farti sapere che se ti andava, con me potevi parlarne. Mi spiace di averti rubato del tempo… Beh, addio…» Terminai, alzando le spalle. Quello che avevo detto era la pura verità, non avevo avuto un vero motivo per voler parlare con lui, però qualcosa mi aveva spinto a farlo, e l’istinto di una donna di rado fallisce. Avevo terminato il mio discorso, e mi bastava; non pretendevo una risposta, mi bastava sapere che le mie parole non fossero semplicemente agglomerati di lettere gettati al vento.
Facendo leva sui gomiti rizzai la schiena, pronta per andarmene, e lasciare solo Marco con i suoi pensieri, ma la sua voce riempì la distanza tra di noi, bloccando le mie intenzioni.
«Cosa dovrei fare secondo te, eh? Ucciderli tacendo o parlando, eh?» Non erano parole, erano lamenti, sibilati tra i denti serrati dalla rabbia e dal dolore.
«Ho parlato con Rufy prima, ed ho ascoltato i suoi motivi, che penso siano simili ai tuoi, e li capisco. Li capisco, anche se una parte di me non riesce ad accettarli; so che non potete dir loro la verità, altrimenti sconvolgereste la storia, e loro non potrebbero più tornare, odiandovi per aver interrotto la loro avventura. Ed hanno ragione, perché non abbiamo nessun diritto di interferire con la storia originale. Hai cercato con tutte le tue forze di fermare Ace quel giorno, quando decise di andare a cercare Barbanera, e durante la battaglia di Marineford hai combattuto duramente per salvare tutti. Non hai fallito, entrambi hanno deciso la loro fine, l’uno si è sacrificato per salvare i suoi figli, l’altro per proteggere suo fratello. Sono convinta che rifarebbero le stesse cose, potendo scegliere. Il dirglielo o meno è una tua decisione, come Rufy non vuoi scatenare il loro odio, la loro rabbia per averli privati della loro ultima avventura, quindi non sono in grado di dirti cosa dovresti fare. Come te ho il potere di andare da loro e riferirgli tutto, potrei parlargli del tradimento di Teach, della cattura di Ace, della grande guerra, della loro disfatta, e poi andarmene, sapendo che non potranno lasciare questo mondo. Eppure non me la sento di farlo, non sarebbe corretto, finirebbero comunque per farsi uccidere, perché sarebbero imprigionati qui, non potrebbero tornare a casa, ma nemmeno continuare la vita che facevano prima. Si sentirebbero in trappola, e per dei pirati che sognano solamente la libertà, sarebbe una condanna peggiore della morte stessa, non trovi? E poi non facendoli tornare sconvolgeremmo la trama della vostra avventura, potremmo perfino peggiorare la situazione… Non possiamo sapere cosa comporterebbe cambiare un evento del passato per voi che invece appartenete già al futuro della storia!»
Risposi, tornando ad appoggiare le mani sul parapetto. La brezza leggera rinfrescava la serata, facendo frusciare il fogliame del giardino sottostante. I grilli intonavano la loro cantilena, mentre vicino ai lampioni si affollavano piccole falene. C’era una vista magnifica da quella terrazza, il lago si stagliava maestoso di fronte a noi, circondato da immense montagne, che fermavano lo sguardo, lasciando solo all’immaginazione la facoltà di vedere oltre. Entrambi eravamo in silenzio, ma una voce ruppe quella bolla di quiete, cambiando le carte in tavola.
«Il punto è che la storia non cambia. Ci hanno già riferito che la trama ed i disegni delle nostre vicende sono immutati. Anche se noi siamo intrappolati qui, la storia sta continuando senza intoppi, quindi se uno di noi restasse, per l’avventura non ci sarebbero variazioni. È questo che mette in difficoltà Cappello di paglia e Marco la fenice! Noi torneremmo esattamente all’istante in cui siamo stati catapultati qui, senza la minima variazione. Nell’istante di Marco, Barbabianca e Pugno di fuoco rimarrebbero morti, anche se intrappolati qui. In sostanza non cambierà niente se un personaggio rimanesse in questo mondo, se non per il personaggio stesso, perché la sua avventura è già stata scritta, ed è immutabile.»
Voltandomi vidi la dottoressa Kureha, con la sua fedele bottiglia di liquore in mano e l’ombelico al vento, che ci osservava appoggiata allo stipite della porta.
«Avete forse visto un fantasma, bambini?» chiese beffarda, bevendo un lungo sorso di non so cosa da quella bottiglia scura, e poi allontanandosi, fregandosene di darci una spiegazione, ignorando la mia voce che chiamava il suo nome. Ma Marco non aveva bisogno di delucidazioni, perché sapeva già quella storia, sapeva già tutto, glie lo lessi negli occhi. La dottoressa aveva solo voluto rendere partecipe me di quella nozione, di quel particolare maledettamente rilevante.
«Come sarebbe a dire “la storia non cambia”? Mi stai dicendo che anche se voi siete qui, la trama si sta svolgendo tranquillamente? Non si è modificata? Oda sta continuando senza problemi la stesura dell’opera, e nulla è cambiato?» Chiesi sconvolta. Dall’incidente radioattivo infatti, la pubblicazione del manga era stata interrotta, giustificata da Oda come una delle sue pause per fare delle ricerche, niente di anomalo insomma. Non mi ero posta domande a riguardo, quando avevo sentito l’accaduto, avevo immediatamente pensato ad uno stravolgimento della trama, causato per l’appunto dallo spostamento dei personaggi nella nostra epoca, invece non era stato così.
Questo cambiava tutto, rimescolava le carte, rimetteva in gioco la possibilità di correre da Ace e riferirgli ogni singola cosa! Non avrei rischiato di uccidere Rufy, non avrei rischiato di generare uno sconvolgimento irreparabile nella storia, eppure avrei salvato Ace! Mi avrebbe odiata? Pazienza, tanto chi ero io per lui? Una fan qualsiasi, ne aveva mille, anzi, milioni tra cui scegliere. L’avrei salvato, gli avrei detto tutto, impedendogli così di partire verso la sua morte. Quello che non potevano e non volevano fare i suoi amici e compagni, l’avrei fatto io.
Marco lesse le mie intenzioni nei miei occhi furenti, e prontamente mi afferrò per i polsi, facendomi voltare bruscamente verso di lui. Le sue mani stringevano, senza però farmi male, solo quel che bastava per indurmi a non dimenarmi per correre via. Ero accecata dalla rabbia, ero stata ingannata, avevo rischiato di andarmene da quella villa con rimpianti e rimorsi, quando invece avrei potuto andarmene consapevole di aver salvato la vita a quel ragazzo, che sin da disegno mi aveva rubato il cuore. Mi avrebbe odiata, perché avrei interrotto la sua avventura, la sua vita da pirata, ma non me ne importava nulla, la sua vita sarebbe stata salva, e questo mi bastava. Avrebbe potuto rifarsi una vita qui, al sicuro.
«Rifletti un secondo, eh! Ti odierebbe, e non è quello che vuoi! Non l’avevo mai visto sorridere e comportarsi come ha fatto con te a cena, non buttare all’aria tutto, eh!»  Tentò di dirmi la fenice, ma ormai il mio cervello aveva un’unica missione: dire tutto ad Ace, salvandolo.
Il comandante della prima flotta però, non era d’accordo, e non mi lasciava i polsi. Erano inutili le mie torsioni ed i miei strattoni, era superiore a me per forza e combattimento, non avevo speranze; dalla mia parte avevo solo il fatto che non volesse farmi del male, e quindi non usasse la sua presa al massimo, ma era una piccolezza di poco conto, serviva solo ad assicurarmi l’indennità, non a farmi correre da Ace.
«Lasciami andare!» Sibilai furente. Avrei salvato Ace, al diavolo tutto e tutti, lui sarebbe stato salvo, avrei fatto quello che loro non volevano fare.
Marco mi fece ruotare attorno a lui, incollandomi contro il parapetto, bloccando definitivamente ogni mio tentativo di fuga. La rabbia e la sensazione di impotenza si riversarono sulle mie guance, sottoforma di bollenti lacrime d’ira e disperazione. Non mi avrebbe permesso di parlare ad Ace del suo futuro, glie lo lessi negli occhi scuri, quegli occhi a tratti inespressivi, color antracite scuro, ma non neri. Dopo aver visto gli occhi del moro, definire il colore di quelli di Marco con lo stesso nome era impensabile. Le iridi e la pupilla erano distinguibili chiaramente, non come in quelli di Ace, dove nero e nero si fondevano in un vortice indecifrabile.
Mi lasciò piangere, allentando solo leggermente la presa sui polsi, lasciandola totalmente solo quando volli asciugarmi le lacrime.
«Perché non vuoi salvargli la vita? Perché non vuoi lasciarmi andare? Non odierà te, e sarà salvo!» Singhiozzai, tentando di non impiastricciarmi la faccia asciugando le lacrime. Fortunatamente non avevo messo troppo trucco sugli occhi, altrimenti ormai sarei diventata Panda Woman.
«Perché so qual è il suo vero sogno, eh! Lo sai, non è l’avventura che cerca, cerca una risposta, eh!»
Non capivo, non riuscivo a capire quelle parole, non avevano un senso per me. Potevo evitare la morte di Ace, eppure non me lo lasciavano fare. Potevo donargli una vita nel mio mondo, senza il rischio che Barbanera lo catturasse, o che quel bastardo di un marines lo colpisse. Non avevo nulla da perdere, niente di niente, eppure quel maledetto idiota non mi permetteva di farlo, perché?
«E cosa dovrebbero significare la tue parole? Cerca una risposta, è vero, e la otterrà a pochi secondi dalla sua morte! È questo che vuoi per lui? Se tu mi lasciassi andare, permettendomi di avvisarlo, rimarrebbe qui, lontano dai pericoli, e scoprirebbe la risposta alla sua domanda senza morire. In questo mondo ci sono milioni di ragazze disposte a spiegargli e fargli capire che la sua nascita è stata il dono più bello che sua madre potesse fare al mondo, che la sua vita ed il suo carattere hanno fatto innamorare tutte, che lui doveva nascere, anche solo per donare un sorriso a noi stupide fan, che lui non è un buono a null-»
«Deve capirlo da solo, eh! Vuoi andare a dirglielo? Fallo, ma prima di parlargli guarda la sua faccia, e poi decidi, eh!» Mi interruppe brusco, mollandomi i polsi e scostandosi totalmente da me, lasciandomi perplessa  e confusa dal nervosismo di cui erano permeate quelle frasi.
Marco si era risistemato sul parapetto, tornando ad ignorarmi, dedicando la sua attenzione al panorama. Mi avviai verso l’interno, decisa a fare il mio dovere, ma prima avrei dovuto fermarmi in bagno, non potevo tornare a tavola con il volto rigato dalle lacrime appena versate.
«La terza porta sulla destra è il bagno. Passaci, eh.»
Brutto pennuto menefreghista, strafottente ed irritante. Sapevo perfettamente dov’era il bagno, e guarda caso ve ne era un altro, nel corridoio della sala da pranzo, lontano dalla sua vista. Mai avrei ascoltato quell’indicazione, e mai gli avrei dato la soddisfazione di farmi vedere seguire un suo consiglio.
Quell’ananas tonnato aveva superato il limite quella sera, l’avevo sempre stimato, adorando il suo frutto del diavolo, la sua pazienza ed il suo sangue freddo, ma ora la rabbia che provavo per lui era troppo grande.
Avanzai con passi decisi, facendo schioccare veloce i tacchetti delle scarpe sul marmo lucido, riempiendo con quel suono ritmico il silenzio del corridoio.
Appena svoltai l’angolo, ormai fuori dal campo visivo del Pokemon alato, mi fiondai nel bagno più vicino, per sciacquarmi il viso e ricompormi.
Fortunatamente non ero troppo sconvolta, l’unico dettaglio che rivelava il mio pianto era un leggero arrossamento degli occhi, niente di più, ed era tranquillamente imputabile alla stanchezza.
Uscii e mi diressi a passo di carica verso il salone dove avevamo cenato, decisa a vuotare il sacco con Ace, trovandolo però vuoto, o quasi. I piatti e gli avanzi erano stati portati via, ed il grande tavolo di mogano era stato agghindato con candelabri dallo stile discutibile ed orrendi bouquet di fiori finti, sulle tonalità del rosa. Sarà che io ed il rosa non ci amavamo particolarmente, ma quel particolare mi irritò ulteriormente. Mi trovavo decisamente in un albergo, nessun proprietario privato poteva avere un gusto tanto pessimo nell’arredamento.
Ace se ne stava seduto di spalle, dove l’avevo lasciato, e si voltò solamente quando mi decisi, dopo un grande sospiro, ad avanzare di un altro passo all’interno dello stanzone. Quando i suoi occhi incrociarono i miei, ed il suo sorriso smagliante entrò nel mio campo visivo, qualcosa dentro di me andò in frantumi; era la sicurezza che avevo guadagnato in terrazza ed in bagno. Tutti i miei discorsi, tutte le mie certezze, le mie volontà, sbriciolate da quel sorriso unico. Quel maledetto sorriso mi aveva stregata, fin dalla sua prima apparizione, sull’isola di Drum.
“Il mio nome è Ace, dite pure questo nome a Rufy… e lui capirà chi sono!”
Ecco le parole, dette con un sorriso beffardo, che mi avevano ammaliata, stregata, affascinata; le parole che avevano segnato l’inizio della mia folle passione per quel ragazzo con le lentiggini. In pochi istanti era riuscito a farmi innamorare del suo sorriso ed a farmi sorridere per la sua strana fuga.
Il mio cuore perse un battito, il cervello invece cessò di esistere. Come potevo spegnere quel sorriso? Come potevo andare da quel ragazzo, e dirgli che sarebbe morto di lì a poco? Come avrei fatto a sopportare la vista di quel sorriso che si trasformava in serietà? L’ultima immagine di Ace, lo ritraeva con un sorriso, il sorriso di un angelo, un incurvatura perfetta e serena, degna di un dipinto. Che diritto avevo di spegnere quella meraviglia, prima del tempo?
Mi avrebbe odiata, e non si sorride così a colei che ti ha rovinato la vita. Potevo sopportare quel peso? Sì, potevo!
Invece no, mentivo solo a me stessa, convincendomi di potergli dire tutto, di poter sopportare quella situazione, di poter affrontare la sua rabbia e la sua delusione. Non ce l’avrei fatta, e quel bastardo uccellaccio lo sapeva, per questo mi aveva lasciata andare, per questo non mi aveva tramortita e caricata in auto, ordinando agli autisti di riportarmi a casa. Sapeva che in fondo, ero solo una stupida egoista, incapace di salvare la persona amata, incapace di cancellare il sorriso dal viso di quel dolce ragazzo di fuoco. Avrei potuto salvargli la vita, ma sarebbe stato veramente felice nel mio mondo? Avrebbe sopportato l’idea di dire addio per sempre a tutti i suoi compagni? A suo fratello? Al suo amato Babbo? Sarebbe mai riuscito a farsi una vita, partendo da zero, con l’aiuto di nessuno, incatenato dalle regole ferree che governavano il mio mondo? No. Ecco la risposta a tutte le mie domande.
«Sono andati tutti a dormire, Elena ha detto che ti aspettava in camera… Sono rimasto perché mi dispiaceva lasciarti sola, e poi magari.. Che ne so, non sapevi ritrovare la tua stanza…» Disse il moro, alzandosi ed incamminandosi verso la mia figura, ancora immobile, pietrificata a metà strada tra la porta e la tavola, incapace di muoversi.
Avrei taciuto, avrei contribuito al silenzio collettivo, uccidendolo, perché la storia andava così, la sua vita andava così, ed io non ero nessuno per poterla cambiare. L’unica cosa che mi era concessa, era godermi quegli ultimi attimi con lui, tatuandomeli nella mente, scrivendoli con il fuoco nel mio cuore, per poterli custodire per sempre, come ricordi di un sogno bellissimo.
Ripulii la mente dai ricordi e dai rimorsi, concentrandomi su quell’attimo; Ace veniva verso di me, sorridendo, e le mie labbra si mossero da sole, curvandosi ed aprendosi in su sorriso di risposta. Non stavo recitando, era un sorriso sincero, anche se nascondeva un dolore insostenibile, era il mio sorriso d’addio, e non era finto.
«Sei stato gentile, ma dubito che il tuo.. Hem… Senso dell’orientamento, sia utile a rintracciare la mia camera…» Dissi titubante, memore della sua avventura nel deserto di Alabasta; tra lui e Zoro, la sfida era aperta, e anche se lo spadaccino era in netto vantaggio, Ace non scherzava di certo.
Il moro rise, arruffandosi i capelli corvini, rispondendo alla mia provocazione.
«Hai ragione, però tentare non nuoce, non trovi?» Disse, facendomi cenno di precederlo nell’uscita, continuando a sorridere.
Mi sarei fatta accompagnare alla stanza, l’avrei salutato, avrei pianto tra le braccia di Elena per tutto il viaggio, e per i giorni a seguire. Quando avrei finito le lacrime avrei iniziato a stare male, a sentire il vero dolore, ma in quell’istante, contava solo il suo sorriso, il suo sguardo allegro e le sue magiche lentiggini.



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Buongiorno! Eccomi qui, finalmente, con un nuovo capitolo! Inizio con lo scusarmi per il ritardo, ma vi avevo avvisato che con gli esami alle calcagna, sarebbe stato ostico questo aggiornamento :(  [Lasciamo stare che per colpa del Gura Gura che ultimamente tormenta l'Italia, la sessione sia saltata ed abbia studiato come un mulo per niente -.-" a proposito, come state? tutto bene da voi? spero di si... qui solo tanta paura...]
Comunque GRAZIE a tutti, siete veramente fantastici, mi fate sempre molto piacere con i vostri commenti e le vostre osservazioni, oltre che ad aiutarmi moltissimo nella stesura dei capitoli!!!
ora, il mio animale preferito è Loovon, mi ha troppo intenerito la sua storia, subito seguita da Sodoma e Gomorra, che mi hanno commossa per la loro determinazione, e dal granchietto innamorato di Alabasta ^_^
Bene, ora la smetto di blaterare, terminando con la domanda di rito:

Qual'è la vostra sigla preferita di ONE PIECE?

A presto!
ciao ciao!!!



Immagini e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di lucro


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Capitolo 16
*** 15. Lucciole ***


c1



Camminavamo per i corridoi della villa, vicini ma distanti; ormai ero solo uno stupido satellite, che orbitava attorno alla sua stella con regolari traiettorie, prima più vicine, poi più lontane, ma senza mai incontrarla. Un satellite non può toccare la sua stella, altrimenti morirebbe, disintegrandosi su di essa e ferendola. Un satellite doveva limitarsi a girarle intorno, a guardarla brillare, splendente e bellissima, ad amarla da lontano, concedendosi solo ogni tanto un’occhiata ravvicinata.
Io ero quel satellite, ed Ace la mia splendida stella lucente.
I nostri corpi si avvicinavano, si scostavano, arrivavano quasi a sfiorarsi a volte, per poi tornare distanti.
Il mio cuore era esausto, stravolto dai battiti accelerati e dai tuffi che gli occhi e la bocca del moro lo costringevano a fare. Le mie labbra erano ormai un sorriso perenne, che illuminava anche il mio sguardo; quel fiammifero aveva donato una scintilla di luce alla mia oscurità, aveva creato una piccola fiammella a cui aggrapparmi quando mi serviva calore.
Nonostante adorassi restare del tempo extra con lui, non potei evitare di notare la lunghezza del tragitto per arrivare alla mia stanza, segno evidente che seguendo Ace avevo imboccato non so quali corridoi, e mi ero sicuramente persa. Il caso volle che un domestico incrociasse la nostra strada, e pazientemente decidesse di scortarci davanti alla mia camera, che si trovava al piano di sotto e nel corridoio opposto; a conferma della mia mancanza di fiducia verso l’orientamento del moro.
«Dovrebbe essere questa…» Disse d’un tratto, riscuotendomi dai miei pensieri, il maggiordomo, congedandosi rapidamente. Ci trovavamo davanti ad una porta di legno scuro, troppo elaborata e barocca per i miei gusti, e che non volevo fosse quella della mia stanza, perché avrebbe significato essere arrivati e dover dire addio per sempre al mio Sole… Ma l’impronta del portentoso calcio di Nami era una prova inconfutabile.
«Speriamo sia questa davvero… Non vorrei ritrovarmi davanti la signora Kokoro in mutande, o Ivankov… e tantomeno il “bel” Duval!» Affermai sarcastica, mimando con le mani le virgolette. Mi venivano i brividi all’idea che quel… coso potesse farmi l’occhiolino!
La faccia che fece Ace alle mie parole fu fantastica, descrivibile solamente facendo un confronto, visto che non esisteva una parola adatta a definirla. Immaginatevi un bambino, un bel bambino nel seggiolone, che attende con impazienza il cucchiaio stracolmo di pappa, affamato e curioso. Ora pensate al sapore orrendo che hanno certi omogeneizzati, e figuratevi la faccia del bambino quando il suo inesperto palato viene a contatto con quella poltiglia. Le sopracciglia corrucciate, la bocca arricciata, come il naso, e negli occhi una domanda silenziosa: perché mi dai questo schifo?
Ecco, ora sostituite il bambino con Ace, ed otterrete la sua espressione (ovviamente evitate di immaginarvelo nel seggiolone, altrimenti perde credibilità la descrizione).
«Mi hai appena guastato il sonno per i prossimi mesi, ne sei consapevole?» Mi chiese, rilassando le labbra, ma mantenendo la fronte corrucciata. Risi, per allungare di qualche secondo quell’addio, ma quando le mie risa si spensero, il silenzio parlava da sé; era giunto il momento di salutarsi.
«Beh, grazie per la serata… E tenta di non addormentarti più in certe situazioni, non ci sarò sempre io a fare la bagnina!» Affermai, mettendo una mano sulla maniglia, pronta a spezzare la mia stessa volontà, interrompendo quell’incontro.
Ace sorrise, con una mano in tasca e l’altra dietro la nuca, a torturarsi le ciocche nere. Quanto avrei voluto infilare le dita in quei crini di seta, almeno un’ultima volta, solo per provare ancora quella sensazione sotto i polpastrelli. Ma non c’era possibilità di realizzare quel desiderio, ero già stata fortunata ad aver vissuto una serata magica, non potevo pretendere altro.
«Cercherò di stare attento, mi spiace che tu debba andare via… Sicura di non poter restare? Potremmo fare una passeggiata nel parco qui fuori, questa casa ha un giardino stupendo!» Disse, guardando il pavimento e continuando la dolce tortura ai suoi capelli. Avrei tanto voluto accettare, ma non sapevo che ora fosse, e non potevo far aspettare Elena in camera mentre io facevo i miei porci comodi. Con lui sarei andata anche a visitare stalle e letamai, se me l’avesse chiesto, ma non c’era solo la mia volontà da considerare.
«Dispiace anche a me dover partire, ma non posso restare… Verrei volentieri in giardino, l’ho visto di sfuggita all’arrivo ed è veramente splendido, ma Elena mi starà aspettando, e non voglio lasciarla sola in cam-».
La porta sulla quale ero appoggiata si aprì di scatto, facendomi quasi perdere l’equilibrio, ed interrompendo a metà la mia frase. Questa faccenda di irrompere nelle conversazioni altrui sfondando porte, finestre, simili ed eventuali, stava diventando insostenibile.
Elena, sorridente ed allegra, vestita come quella mattina, mi guardava, tenendo in mano una manciata di fili colorati intrecciati tra loro.
«Che stai facendo? Mi hai fatto prendere un colpo!» Le chiesi perplessa, vedendo che il suo sorriso non si spegneva, anzi, restava teso e fin troppo esagerato.
«Oh scusa, stavo andando in camera di Nami, Robin e Bibi per regalargli questi bracciali, loro hanno tanto insistito perché tenessimo l’abito indossato stasera, così mi sono ricordata di avere ancora in borsa questi bracciali dell’amicizia, ti ricordi che li avevamo comprati qualche mese fa, ma poi non ce li siamo più divisi? Ecco, pensavo fosse carino regalarne uno a testa alle ragazze… Sono state tanto gentili… E poi così posso stare a chiacchierare con loro ancora un attimo, ti fa niente? Voi andate pure nel parco a fere una passegg-» Rispose Elena, fin troppo esaurientemente, bloccandosi a metà dell’ultima frase e sorridendo ancora di più, sotto il mio sguardo truce. Era troppo tardi per rimangiarsi tutto, negando di aver origliato spudoratamente la conversazione tra me ed Ace di pochi secondi prima, e lei lo sapeva. Ace ridacchiò, probabilmente giungendo alla mia stessa conclusione, mentre io guardavo di sbieco la mia amica, che sicuramente aveva sostato dietro alla porta più del dovuto.
«Beh, io vado, mi stanno aspettando, ciao!» Squittì quella maledetta, sgattaiolando veloce nel corridoio, e sparendo dalla mia vista.
Ridacchiai imbarazzata, scompigliandomi leggermente i capelli sulla fronte, tanto valeva andare a fare un giro nel parco, no?
«Mi aspetti qui cinque minuti? Il tempo di mettermi più comoda ed arrivo…» Dissi sorridente, ottenendo un cenno d’assenso di Ace. Com’era bello quel ragazzo…
Chiusi la porta alle mie spalle, appoggiandomi per qualche secondo al legno scuro per calmare i nervi. Una passeggiata al chiaro di luna con Pugno di fuoco, che sarà mai? Sbuffando mi scostai dalla porta e mi diressi verso il letto, dove i miei vestiti mi aspettavano, puliti e ripiegati. Tolsi rapida le scarpe e l’abito, infilandomi la mia comoda maglietta, i pantaloncini ed i tanto amati sandali. Tornare alla mia altezza naturale fu un cambio di prospettiva brusco, ma necessario; non potevo affrontare una passeggiata con i tacchi alti, me la cavavo con l’equilibrio, ma non volevo ricordarmi quella serata per il mal di piedi atroce. Piegai il vestito e lo infilai nello zaino, da dove estrassi il cellulare che mi infilai in tasca, e dopo una rapida occhiata nello specchio, uscii in corridoio.
Ace mi aspettava, appoggiato con la schiena sul muro di fronte; le mani in tasca, le spalle rilassate, il capo appoggiato alla parete, con gli occhi che guardavano un punto non ben definito del soffitto.
Mi concessi di osservare quel corpo perfetto un’ultima volta, soffermandomi sugli avambracci muscolosi, scoperti dalle maniche della camicia bianca rimboccate fino ai gomiti, e sul collo perfetto, ornato dalle inconfondibili perle rosse della sua collana.
Il moro abbassò lo sguardo su di me, e dalla sua altezza doveva abbassarlo di parecchio, e si scostò dalla parete.
«Pronta?» Mi domandò sorridente, illuminandomi di nuovo con quella sua spontaneità favolosa. Annuii felice, ed insieme ci dirigemmo verso il giardino, al quale si accedeva grazie ad un’immensa parete, totalmente composta da finestroni di foggia moderna che si aprivano scorrendo su cardini in acciaio, al piano terra.
L’erba mi solleticava i piedi, avvolti dalle poche striscioline di cuoio dei sandali, tagliata ad un altezza perfetta, che non dava fastidio. I piccoli lampioni di ferro scuro, posizionati in angoli strategici del parco, in modo da illuminare quasi tutto il prato, erano accerchiati da stuoli di insetti, attratti dalla luce delle lampadine. Gli zampironi bruciavano sui tavoli sotto i gazebo, coprendo quasi totalmente il profumo delle belle di notte e dei cespugli sempreverdi, scacciando però le zanzare.
Iniziammo a gironzolare distrattamente sull’erba, con passi lenti e quasi strascicati, totalmente immersi nel silenzio della sera. Il cielo limpido brillava, inondato da una cascata di stelle brillanti e dai raggi della pallida luna. Il lago, invisibile oltre l’alto muro di cinta, produceva un leggero sciabordio contro i pontili, facendo scricchiolare il legno delle barche. I cespugli di alloro diffondevano il loro profumo, mente le betulle si lasciavano cullare dal vento. Era un ambiente suggestivo, quasi magico, ed in aggiunta ero con Ace. Sola, in un giardino, di notte, con Ace. Più lo ripetevo a me stessa, meno mi sembrava realmente possibile; era semplicemente un sogno…
«Ti va di… sederci qui?» mi domandò, indicando una panchina di legno e ferro posizionata accanto ad un laghetto artificiale, relativamente grande per essere in un semplice giardino, dove delle piccole ninfee galleggiavano sul pelo dell’acqua immobile e scura.
Annuii, accomodandomi sulla panchina; ci sedemmo vicini, io con la schiena appoggiata alla panca, lui con i gomiti puntellati sulle ginocchia, intento a guardare l’acqua. Poco dopo lo imitai, sporgendomi in avanti e sfiorando con il mio braccio, il suo. Il cuore perse un battito, scollegando totalmente il cervello, che decise di impazzire, ordinando al mio collo di inclinarsi verso il moro, facendo poggiare la mia tempia sulla sua spalla. Quando il contatto avvenne, non fu solo il mio corpo a pietrificarsi, anche Ace sembrò congelarsi a quel tocco. Cosa mi era saltato in mente? Stupido cervello, voleva forse farmi morire d’imbarazzo? Cosa gli era preso? Cosa mi era preso? Ok che era un sogno, e che tanto durante la cena si era addormentato sulle mie ginocchia, però questo mio gesto era sconsiderato!
Stavo per raddrizzare nuovamente il capo, con le guance ormai purpuree, quando una morbida guancia spruzzata di lentiggini si posò su di esso. Il mio cuore bramava la libertà, pompando frenetico e tentando di uscire dal mio petto, squarciandomi la carne, per correre a consegnarsi al ragazzo di fuoco. I miei muscoli si rilassarono, abbandonando lo stato di allerta che avevano assunto per colpa dell’imbarazzo. Stava accadendo veramente? Era il volto di Ace quello premuto contro la mia fronte? Era la sua spalla quella su cui ero appoggiata? Ed era suo quel profumo magnifico che mi solleticava il naso? Che odore ha il fuoco? Me lo sono sempre chiesta… Sappiamo l’odore delle cose toccate dalla fiamme, ma non il profumo delle fiamme stesse… Terra bruciata, gomma bruciata, carne bruciata, ma il fuoco? Ora potevo rispondere.
Il fuoco profuma di sole, di luce, di spezie esotiche, di terre lontane e misteriose; odora di casa, di calore… Profuma di buono.
Ormai il mio cuore aveva perso la sua regolarità, battendo all’impazzata con ritmi forsennati nel mio petto. Lo stomaco annodato dall’emozione, iniziava a farmi sentire le tanto decantate “farfalle”, mentre le guance si abituavano al nuovo rossore che le colorava ormai da tutta la sera, anche se a fasi alterne.
Sospirai, serena e felice in quell’istante perfetto. Ero come una falena, attirata dalla luce del fuoco, mi avvicinavo ad esso ustionandomi, ferendomi, facendomi del male. La differenza sostanziale tra me e quella sciocca farfalla notturna, era la mia assurda consapevolezza del destino a cui stavo andando incontro a braccia aperte.
Mi sarei fatta del male, mi sarei ferita, avrei sofferto e pianto ancora di più se avessi lasciato il mio cuore libero di correre dalla mia luce. Eppure lo lasciai fare, lasciai che il mio cuore impazzisse, correndo attraverso le vene e pulsando follemente, lasciai che le farfalle si librassero furibonde nel mio stomaco, lasciai che la mia mente si concedesse una speranza: quella di far durare quell’attimo in eterno.
Avrei sofferto? Sicuramente. Valeva la pena tutto quel dolore, per una sola serata? Assolutamente si.
«Non sono bravo in queste cose, ma devo chiedertelo… Sai chi sono realmente?»
Sentii la sua voce tremare e diffondere quel tremolio sulla sua guancia. Era incerto, titubante, insicuro di quelle parole e forse spaventato dalla mia risposta.
«Conosco il tuo passato, ma non mi importa. Sei Ace, solo Ace.» Risposi, chiudendo gli occhi e sistemandomi meglio accanto a lui. Mi aveva chiesto se sapevo chi era realmente, ed io ero stata sincera. Non mi era mai importato chi fosse suo padre, lui era perfetto così, sia che si chiamasse Portuguese D. Ace, oppure Gol D. Ace; rimaneva sempre e semplicemente lui, solo Ace. Lo sentii rilassarsi ulteriormente al mio fianco, era così bello potergli stare vicina in quel modo, senza pensieri, senza rimuginare sulle conseguenze, solo io e lui, da soli nella sera.
Piccoli insetti iniziavano a ronzarci attorno, lontani dalle fragranze degli zampironi potevano tentare di trovare il punto giusto in cui mordermi indisturbati. Ero un buffet per le zanzare, fin da piccina mi avevano detto che avevo un sangue dolce a quanto pareva, ed io avevo sempre risposto che avrei preferito averlo acido, per evitare le centinaia di punture che ogni anno dovevo curare.
«Maledetti insetti!» Sibilai, assassinando una succhiasangue volatile sulla mia gamba. Ace ridacchiò, allontanando con un gesto della mano altri insetti.
«Non ti piacciono gli insetti?» Mi chiese divertito, beato lui che li trovava divertenti, per quanto mi riguardava erano rivoltanti.
«Tollero solo farfalle e coccinelle, perché sono carine, e le lucciole.» Risposi, tenendo però lo sguardo attento, pronto a cogliere avvicinamenti sospetti.
«Perché le lucciole? Sono bruttissime in realtà, lo sai vero?»
«Si, alla luce del giorno sono bruttine, ma di sera, quando brillano nei cespugli… Sono magiche. Le ho viste solo una volta, ed erano stupende; piccole lucine che svolazzavano nell’erba. È un peccato che dove abito io vederle sia praticamente impossibile…» Risposi con tono nostalgico. Mi piacevano da impazzire quei luccichii, ma tra inquinamento e cemento, per vederle serviva un miracolo ormai.
«Magiche dici? Può darsi… Chiudi gli occhi per favore…»
«Perché?»
«Fallo e basta…» Mi rispose ridacchiando, beffandosi della mia risposta sospettosa. Mi fidavo di lui? Si, senza ombra di dubbio.
Chiusi gli occhi, perdendomi ancora nel suo profumo e nel calore del suo corpo, per un attimo che mi parve infinito, ma che comunque durò troppo poco. Sentivo solo il silenzio della notte, e percepii un leggero movimento delle sue braccia, ma nient’altro; ero cieca e sorda in quell’istante, ma stavo bene così, accanto a lui.
«Aprili ora…» Mi sussurrò il moro, troppo vicino al mio orecchio per non far collassare il mio povero cuore, ed io ubbidii, aprendo lentamente le palpebre, e restando senza fiato.
Sul laghetto ondeggiavano decine e decine di minuscole fiammelle fluorescenti, piccole lucine fluttuanti sul pelo dell’acqua, che illuminavano lo specchio tranquillo con il loro bagliore, riflettendo la loro lucentezza anche sul prato circostante e su di noi. L’atmosfera era cambiata, era diventata surreale, magica. Avevo ragione, le lucciole, anche se artificiali, sono magiche. Quelle fiammelle poi avevano anche distratto gli insetti, liberandomi dall’assalto delle zanzare.
Mi staccai dalla spalla di Ace, per potermi voltare verso di lui, con gli occhi sgranati per lo stupore e per l’emozione. Aveva fatto una cosa bellissima per me, per un’estranea che conosceva da poche ore, ed il suo viso, illuminato da quella luce particolare, era ancora più bello ed angelico. Hotarubi hidaruma, le lucciole di fuoco: l’attacco di Pugno di fuoco che preferivo in assoluto. Avevo sempre amato le lucciole, ma ammetto che la mia ammirazione per quegli esserini era aumentata notevolmente quando avevo visto quella particolare tecnica di Ace. Me ne ero innamorata subito, quei bagliori fluorescenti mi stregavano.
«Sono bellissime… G-grazie… Sono… Bellissime.» Dissi, attorcigliandomi più volte la lingua per l’emozione, con gli occhi che iniziavano ad appannarsi per le lacrime. Adoravo le lucciole da sempre, e le avevo amate ancora di più quando avevo visto quell’abilità di Ace, ed ora lui era qui con me, ed aveva creato quei magnifici bagliori per me. Era un’emozione troppo grande da sopportare senza nemmeno una lacrima, che in quell’istante sfuggì dalla rete delle mie ciglia, come se l’avessi chiamata col pensiero. Svelta l’asciugai, prima che arrivasse al sorriso commosso che avevo dipinto in volto, guastandolo.
«Non devi ringraziarmi… Sto bene… Qui con te, mi fai stare bene… Non mi capita spesso, anzi, non mi capita mai con persone appena conosciute… Non so cosa mi hai fatto, ma con te mi sento stranamente… Felice…» Disse restio, come se stesse cercando le parole giuste, come se stesse aspettando un’interruzione improvvisa, un rifiuto brusco da parte mia; invece ottenne solo di farmi scoppiare il cuore e di allargare ulteriormente il mio sorriso. Ace aveva appena affermato che in mia compagnia stava bene e si sentiva felice, ed io stavo per morire di gioia.  Mi sentivo bene in quel momento, mi sentivo a casa, protetta, completa e… Innamorata. Si, perché ormai era inutile nascondersi dietro a scuse infantili e poco credibili, ero innamorata di Ace e la serata che stavo vivendo aveva aumentato ulteriormente le dimensioni di quel folle sentimento. Avrei sofferto il doppio dovendolo salutare, ma avrei conservato per sempre il ricordo di questa magia nel mio cuore, sempre che quell’insulso muscolo riuscisse a reggere ancora l’emozione.
Ogni volta che tornavo  guardare il viso del moro, mi stupivo di quanto fosse bello, di quanto quei lineamenti decisi fossero affascinanti, di quando quegli occhi color pece fossero splendenti, pur essendo neri. Mi aveva conquistato il cuore, prima come personaggio, poi come ragazzo; era stupido innamorarsi di un semplice disegno, di una sciocca animazione per bambini, ma il suo carattere buono, il suo passato di dolore e il suo sorriso mi avevano rapito il cuore, e non era mia intenzione riprendermelo. Potevo vivere un sogno, e l’avrei vissuto fino in fondo, godendomi quella magia, ancora qualche istante…
«Anche io sto bene, qui con te…» Risposi sincera e felice, tornando ad appoggiarmi alla spalla di Ace, che stavolta mi cinse le spalle con il suo braccio, tornando a disegnare invisibili ricami sulla mia spalla. Le piccole scariche elettriche che mi provocava quel contatto erano una tortura troppo piacevole, e sarebbe inutile ripetere quanto il mio cuore stesse impazzendo nel mio petto.
Un leggero alito di vento mi fece venire la pelle d’oca; non eravamo ancora in estate, e l’aria portava con se ancora quella frescura che rinfrescava la notte, fino a farti desiderare di avere almeno una maglia a maniche lunghe a coprirti.
«Hai freddo?» Mi chiese Ace, con un tono leggermente preoccupato. Dovevo negare, negare e ancora negare. Se gli avessi risposto che avevo realmente freddo, saremmo rientrati, e quell’attimo sarebbe finito per sempre. Non volevo rientrare, volevo rimanere ancora lì tra i bagliori fluorescenti delle lucciole, tra le braccia del ragazzo che mi aveva fatta innamorare; volevo restare ancora un attimo con lui. Per rimanere ancora così, avrei sopportato tutte le intemperie, anche pioggia, gradine e neve.
«No, sto bene!» Risposi, tentando di nascondere la pelle infreddolita.
«Menti bene quanto Rufy.» Disse Ace, staccandosi da me per guardarmi in viso. Di tutto rimando, io abbassai la testa per nascondermi. Certo, oltre che ad avere freddo in una situazione del genere, mi mettevo anche a fare la bambina capricciosa; complimenti Selene, applausi in abbondanza per questa tua patetica performance, l’Oscar come miglior idiota non protagonista, era sicuramente mio.
Sentii uno strano fruscio accanto a me, e dopo pochi attimi di silenzio uno strano calore mi avvolse le spalle, abbracciandomi con quel profumo inconfondibile che avevo abbinato al fuoco. Alzai la testa e mi guardai le spalle, coperte da un leggero strato di tessuto bianco, caldo come se fosse stato poggiato su un calorifero bollente fino a pochi istanti prima: era la camicia di Ace.
Il mio cuore finalmente cessò di battere, interrompendo quella danza frenetica per qualche secondo, e  riprendendo ancora più svelto e forte di prima, quando il braccio di Ace tornò al suo posto, sulle mie spalle. Era tutto troppo bello, troppo surreale e troppo perfetto per essere un attimo di vita vera; sicuramente stavo facendo uno dei miei soliti sogni, più reale e dettagliato magari, ma sempre un sogno rimaneva. Era impossibile che fosse accaduto tutto sul serio, che veramente io, la banalità personificata, mi trovassi abbracciata ad Ace in una nuvola di lucciole incandescenti. Era sicuramente un sogno, una fantasia della mia mente, e la suoneria del mio cellulare era la sveglia che mi riportava alla realtà.
L’Overtaken di ONE PIECE riecheggiava dalla tasca dei miei calzoncini, mentre io trafficavo per raggiungere il cellulare. La parola “Mamma” che lampeggiava sul display non prometteva nulla di buono.
«Pronto?»
«Ciao, tanto per la cronaca è mezzanotte e un quarto, quando fate conto di tornare? Siete partite almeno?» Chiese pacata ma tranquilla, mia madre. In questi casi la soluzione migliore è mentire spudoratamente, onde evitare di dire verità che la farebbero alterare tipo “No, sono in un parco al chiaro di luna con un ragazzo di fuoco, sai quello per cui mi sono quasi annegata nel pomeriggio? Ecco, e non abbiamo ancora contattato gli autisti per il ritorno!” Era una pessima idea dirle una cosa del genere, veramente pessima.
«Tra non molto partiamo, stanno chiamando gli autisti, ti faccio uno squillo quando siamo in autostrada, va bene?» Risposi fingendo allegria, guadagnandomi un’occhiata perplessa di Ace ed un sollevato assenso da mia madre. Riagganciai senza sorriso però, perché stavo per salutare il mio sogno, per sempre.
«Temo che sia ora di andare… Sicuramente è appena arrivata una telefonata simile ad Elena, sono stata bene con te… stasera. Grazie per le lucciole e per la passeggiata, e… Per tutto insomma…» Dissi, con il capo chino e la gola tesa, attenta a scegliere le parole ad a mascherare il dolore come meglio potevo. Alla fine era giunto il momento di svegliarsi da quel sogno bellissimo, e di ritornare alla vita di tutti i giorni, conservando quegli attimi nel cuore e nella mente, come ricordi indelebili della notte più bella della mia vita.



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Yohohohoho, ma ciao! Allora, parto subito scusandomi per la lunghezza di questo capitolo, ma dividerlo a metà era impossibile, ci ho provato, ma non ce l'ho fatta xD
Comunque, QUESTA  è l'Overtaken che ha Selene come suoneria, per chi non la conoscesse! (è troppo bella *_*)
Poi, volevo mettere all'inizio di ogni capitolo una piccola strisciolina illustrata, che rappresentasse il titolo o parte del testo (come ho fatto in questo capitolo XD) vi può piacere come idea o è meglio che lascio perdere? xD
infine, visto che non so più come ringraziare voi tutti, che mi legete, commentate, inserite la storia tra le vostre seguite e preferite, ho deciso di dedicarvi una piccola raccolta comica e demenziale sul nostro Ananas preferito! (giusto per farci quattro risate alle sue spalle xD) che ho appena pubblicato!!!
Mi sto dilungando da matti, e mi scuso per questo, comunque la mia sigla preferita è sicuramente "Fight Together", mi fa piangere ogni santissima volta che la guardo, ed al secondo posto "One Day", altra sigla che mi distrugge ogni volta =(   (si, non fatemi notare il mio masochismo estremo, ne sono consapevole xD)
Bene, un'ultima domanda "ufficiale" diciamo:

Siete mai stati vittima di Spoiler su ONE PIECE? cosa vi hanno rivelato?

Ed ora, saluto tutti quelli che pazientemente sono arrivati fin qui, e vi lascio un'immagine per introdurre la mia raccolta (della quale sottolineo la demenzialità) xD!


Spero che vi abbia strappato un sorriso, e questo è il mio piccolo ( e forse anche poco gradito) omaggio a voi che recensite sempre e costantemente, a voi che avete iniziato a seguire la mia storia dal principio e non l'avete mollata, a voi che avete letto tutti i miei papiri in pochi giorni, o addirittura in 24 ore!
Vi ringrazio di cuore, senza persone come voi che mi motivano ad andare avanti, mi invogliano a scrivere e mi danno idee sensazionali (si, perchè sappiatelo, dai vostri commenti traggo tantissima ispirazione! ^_^) non sono sicura ce la storia sarebbe la stessa!!! GRAZIE!
un saluto particolare in questo capitolo va poi alle mie amiche di penna, che tormento con consigli e che stuzzico sadicametne ^_^!!!
Ciao, e alla prossima!!!!

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Capitolo 17
*** 16. Addio! ***


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Scostarmi da Ace ed alzarmi, furono le due azioni più faticose della mia vita; dovetti aggrapparmi con forza alla mia razionalità per non tornare, come una molla troppo tesa, tra le sue braccia calde. Ora però il poco raziocinio che mi rimaneva era messo a dura prova dal fisico del moro, che perfetto e scolpito sembrava fatto di cera alla luce soffusa delle lucciole, che ancora si libravano nell’aria. Non avevo pensato, quando mi aveva appoggiato dolcemente la camicia sulle spalle, al fatto che se la camicia la indossavo io, lui sarebbe restato a petto nudo. Con la gola secca e le guance rosse feci per togliermi la morbida flanella bianca dalle spalle, ma la mano di Ace fermò la mia.
«Tienila, io sto meglio senza; non sono abituato a mettermi camicie e magliette.» Mi disse il moro, forse inconsapevole dell’effetto che quelle parole avevano su di me. Aveva detto che stava meglio senza camicia, ebbene, non potevo che essere d’accordo. Ace era meraviglioso, ma con il ventre scolpito e le spalle muscolose scoperte, senza stupidi ed inutili strati di vestiti a celarne la bellezza, stava sicuramente meglio. Che poi lui quella frase la intendesse a livello di temperatura, erano dettagli.
«Grazie, vieni dentro o resti qui ancora un po’?» Gli chiesi, vedendo che non accennava a muoversi e sperando in altri preziosi secondi in sua compagnia.
«Resto ancora qualche istante, tu vai pure…» Rispose tornando a sedersi sulla panchina, che scricchiolò sotto la sua spinta. Ingoiai il boccone amaro ed annuii, andandomene a testa bassa dopo aver mormorato un saluto, che sapeva di addio.
Forse era meglio così, non sarei riuscita a dirgli veramente addio, era più semplice andarsene come se non fosse l’ultima volta, come se la possibilità di rivedersi non fosse un’utopia irrealizzabile.
Il vento soffiava debole tra gli alberi, e mentre me ne andavo un fiore era nato in quel giardino, nel luogo in cui avevamo guardato le lucciole. Un fiore bellissimo, unico e speciale, che però non avrei mai condiviso con Ace, proprio perché me ne stavo andando per sempre dalla sua vita. Il fiore dei miei sentimenti era sbocciato, ignorando gli avvertimenti del mio cervello, e sarebbe appassito lentamente e con sofferenza, sperando di essere colto da quel ragazzo di fuoco.
Come potevo spiegare ad Ace il mio dolore e il mio amore per lui? Come potevo spiegargli i continui rossori che mi irroravano le guance?
Al mio ritorno a casa mi sarebbero rimasti solo i ricordi e le immagini salvate sul computer, piccoli sogni in formato immagine, conservati gelosamente in una piccola cartella nei circuiti elettronici del mio portatile. Lui sarebbe sparito per sempre dalla mia vita, personaggio di un sogno ormai vissuto, dal quale stavo per svegliarmi.
Rabbrividii varcando la soglia della villa, ma non per il freddo; era il gelo del dolore che iniziava a congelarmi il petto, approfittando dell’assenza del fuoco che l’aveva sciolto, riformando lo strato di ghiaccio attorno al mio stomaco ed al mio cuore, immobilizzando le farfalle e rallentando i battiti.
Salii le scale e mi diressi verso la mia stanza, dove la porta era spalancata ed Elena andava avanti e indietro sistemando i nostri zaini. Quando entrai non servirono parole, mi corse semplicemente incontro abbracciandomi, ed io piansi.
Piansi come una bambina, piansi singhiozzando, piansi aggrappandomi a quelle spalle esili ma forti, piansi sfogando tutto il mio dolore, piansi come solo guardando Marineford avevo fatto, piansi buttando fuori dalla gola quel male che stava per soffocarmi, piansi sentendo le forze abbandonarmi, come se versassi lacrime di sangue, non di semplice acqua salata.
Elena mi teneva stretta, sussurrandomi parole nell’orecchio, che però non sentivo, non volevo sentire, non capivo, non volevo capire. Quella giornata da sogno era destinata a farmi soffrire così tanto, eppure l’avevo amata, eletta a giornata più bella di tutta la mia vita. Dicono che se non uccide fortifica, ma l’addio che sono costretta a dare stanotte davvero non mi avrebbe assassinato l’anima? Faceva male da morire dire addio ad Ace, restare senza di lui, sapere che non l’avrei più rivisto, sapere che non sarebbe più stato con me, nemmeno un secondo.
Avrei ripreso la mia vita, banale ed abitudinaria, ripensando a lui in tutte le sere spente, in tutti gli attimi in cui la mia mente non sarebbe riuscita a tenersi impegnata a sufficienza. Avevo combattuto quegli attimi pensando a lui in passato, ma ora come avrei sopportato quel dolore? Avrei vissuto il mio tormento, senza possibilità di scampo, senza fuoco nel mio cielo nero, senza la luce nell’oscurità a guidarmi.
I singhiozzi lentamente si calmavano, e quando le lacrime finiscono arriva il dolore vero, quello che non puoi espellere dagli occhi o dalla gola, quello che devi tenerti dentro, aspettando che il tempo lo lenisca.
«Selene, ho appena chiamato gli autisti, partiamo tra dieci minuti… » Mi comunicò la mia amica, staccandosi leggermente dal mio abbraccio per guardarmi in viso. Non volevo nemmeno immaginare come ero ridotta, uno straccio usato e gettato a terra probabilmente aveva un aspetto migliore di me, una ragazzina consumata dalle lacrime con addosso una camicia di tre taglie più grande, come minimo.
Annuii lievemente, giusto per far capire ad Elena che l’avevo sentita, e mi diressi in bagno, per sciacquarmi il volto logoro. Evitai accuratamente lo specchio, continuando a stringermi alle spalle la camicia. Avrei dovuto portarla con me? O voleva che la lasciassi ai domestici? Sarebbe venuto a salutarmi, oppure no?
L’acqua fresca mi aiutò a calmare i nervi, ma non poteva fare miracoli. Dalla stanza provenivano voci diverse, probabilmente era arrivato un maggiordomo ad avvisarci che le auto erano pronte per portarci a casa, via da quella villa, lontano dai nostri sogni, lontano da lui. Una volta a casa avrei gridato il suo nome, soffocando nei cuscini la mia voce, annegandomi di lacrime e dolore, ma ora dovevo andarmene da quel posto con l’ultimo briciolo di dignità che mi restava, senza piangere. Sospirai forte ed uscii con la testa bassa, diretta allo zaino sul mio letto. Nel mio tragitto però c’era un ostacolo che prima non c’era. Potevo vedere solo le scarpe da ginnastica bianche e l’orlo dei jeans, ma bastarono a mozzarmi il fiato. Alzai lentamente il capo, sperando che i segni delle lacrime non fossero così visibili da farmi apparire come una stupida frignona. Si poteva morire d’amore? In quel momento pensai di poterlo fare.
Ace stava dritto di fronte a me, in quella posizione che tanto amavo, con la schiena spinta all’indietro e le gambe leggermente piegate, tenuto in equilibrio dagli addominali tesi. Deglutii, raggiungendo con lo sguardo il volto del ragazzo, che mi guardava stranito, confermando le mie paure riguardo ai segni del pianto.
Riabbassai gli occhi, incapace di reggere quelli d’onice del moro, troppo stanca per riuscire a mentire con gli occhi, con troppo dolore dentro per sostenere lo sguardo caldo del fuoco.
«Volevo salutarti prima che partissi, e darti questo.» Disse, allungando una mano verso di me, tendendomi il suo braccialetto rosso e bianco, che presi con dita tremanti e le lacrime pronte a ritornare. Le cacciai indietro, vietando loro di arrivare agli occhi, e rialzando lo sguardo verso il viso di Ace, che torturava nuovamente i suoi capelli dietro la nuca.
«G-grazie… Vorrei avere qualcosa per ricambiare, ma purtroppo non speravo nemmeno di riuscire a passare una serata del genere, e non ci ho pensato…» Sussurrai timidamente, indossando subito il bracciale sul polso sinistro. Era un po’ largo e se non ci fossi stata attenta si sarebbe sfilato, ma non c’era pericolo, l’avrei custodito come se fosse stato d’oro.
«Mi hai già regalato tantissimo, altri doni sarebbero solo superflui…» Disse, sfiorandomi il viso con quelle calde parole, che iniziarono a sciogliere il ghiaccio nel mio petto, come accade alla neve esposta al Sole.
Si avvicinò a me di un passo, costringendomi ad alzare ancora di più lo sguardo per poterlo guardare negli occhi. Fu un attimo lungo una vita, un secondo che durò delle ore, ma dopo quell’istante le sue braccia mi avvolsero le spalle, facendo poggiare la mia guancia sul suo petto glabro e caldo. Le mie braccia inerti ci misero più tempo del dovuto per cingere la vita del moro, mosse dall’istinto e non dal cervello, che ormai si era scollegato nuovamente, lasciando solo ai miei sensi la volontà di agire. Il profumo della sua pelle mi avvolgeva, calmandomi e scongelando nuovamente il dolore che mi attanagliava lo stomaco, liberando le farfalle al suo interno e facendole svolazzare nel mio petto. Il cuore batteva forte, sempre più veloce, mentre gli occhi si chiudevano, lasciando al tatto e all’olfatto il piacere di quel momento. Mentre socchiudevo gli occhi sentii le sue mani accarezzarmi gentili la schiena, regalandomi un’emozione che sarebbe rimasta impressa nella mia mente per sempre, un momento bellissimo da custodire gelosamente.
Inspirai forte quel profumo denso e dolce, mentre un nuovo sorriso, appena accennato, si formava sul mio viso. Sentivo le mani di Ace sulle mie scapole, la sua guancia sui miei capelli, la pelle liscia della sua schiena sotto le mie dita. Pareva di toccare una statua di cera, liscia e perfetta; solo dove c’era il vessillo di Barbabianca, un leggero dislivello annunciava alle dita che erano arrivate al tatuaggio. Percorsi per quanto mi era possibile quei contorni, bloccando le immagini dello scempio compiuto su quella pelle perfetta dal magma. Strinsi gli occhi, scacciando quei pensieri e concentrandomi nuovamente sul profumo e sul calore di Ace, stringendo il mio cuore in una morsa ferrea, in modo che non si spezzasse in quel momento.
La sua guancia sfregava sulla mia testa, come un gatto che fa le fusa, accelerando i miei battiti. Sentivo il respiro regolare gonfiargli il petto, allora tentai di usare anche l’udito, per poter cogliere i battiti del suo cuore, che scoprii sincrono con il mio. Forse era solo una sciocca speranza, ma mi pareva di sentirlo accelerare a seconda dei movimenti delle mie mani. Possibile che provasse qualcosa anche lui? No, sicuramente quel cuore che sentivo battere tanto in fretta era solo l’eco del mio.
«Non dimenticarti di me…» Sussurrò, vicino la mio orecchio facendomi rabbrividire. Non dovevo dimenticarlo? Come avrei potuto? Come potevo dimenticarmi di lui, che mi era entrato nel cuore tanto violentemente, rubandomi l’anima?
«Non potrei mai dimenticarti.» Risposi sicura, spostando il viso ed incontrando i suoi occhi, ma senza sciogliere l’abbraccio.
Lui annuì, stringendomi leggermente più forte, permettendomi di sprofondare il viso nella sua pelle e nel suo profumo.
«Cosa mi hai fatto? Sei diversa, non sei come le altre, hai qualcosa di speciale. Sembri rendere l’aria elettrica, quando sono accanto a te è come se fossi a casa, sto bene. Solo con i miei compagni e con i miei fratelli mi era capitato, e mai così forte e così all’improvviso. Mai con una ragazza. È come se tu mi fossi entrata dentro, come se mi avessi stregato. E con le parole io, non sono bravo per niente, ma… Marco mi ha intimato di dire solo quello che pensavo, che sentivo… E di sbrigarmi a farlo, altrimenti ti avrei persa. Ti ho già persa?» Sospirò in un sussurro il moro, fermando per un secondo lo scorrere del sangue nelle mie vene.
L’aveva detto davvero? Avevo sentito realmente quelle parole, non erano frutto della mia immaginazione? Stavo entrando in un sogno troppo profondo e reale, dal quale svegliarmi sarebbe stato terribilmente doloroso, devastante. In quel momento tutto il mondo non esisteva, c’eravamo solo io e lui, nel vuoto, non sentivo nemmeno il pavimento sotto i piedi, vedevo solo il nero vortice dei suoi occhi e la perfezione del suo viso, maledettamente vicino al mio. Avevo intrapreso un viaggio nel quale fantasia e realtà si fondevano, portandomi ad una splendida follia, che si sarebbe sbriciolata nel mio petto, quando saremmo stati di nuovo distanti. Avrei solo potuto raccogliere i ricordi, i frammenti di questo sogno, nient’altro. Sicuramente non sapeva cosa ero disposta a fare per vedere la sua felicità, non sapeva cosa stavo facendo a me stessa per fargli vivere la sua vita, non sapeva quanto mi avrebbe fatto male quando questo sogno di cristallo si sarebbe infranto nel mio petto, mandando le sue schegge ovunque, ferendomi irrimediabilmente. Porterò sempre con me il rimpianto di aver taciuto la sua sorte, in favore della sua felicità, chiedendomi per l’eternità cosa sarebbe accaduto se avessi trovato il coraggio, in questo istante, di dirgli tutto.
Se solo avessi saputo cosa fare, cosa dire, come dirglielo, forse l’avrei fatto. Se solo avessi avuto le parole adatte, se solo fosse facile spiegare tutti gli avvenimenti, se solo il suo sorriso fosse più facile da spegnere, in favore della sua longevità. Non sapeva che gli stavo mentendo sul suo futuro, eppure temeva di avermi persa?
«Non mi perderai mai, ma devi vivere la tua vita, ed io sarei d’intralcio…» Risposi, ancorandomi alla mia ragione, aggrappandomi con tutte le forze all’ideale di quello che reputavo essere giusto.
Sentivo gli occhi, ancora incatenati ai suoi ed incapaci di staccarsi da quell’abbraccio di sguardi, inumidirsi a quei pensieri. Il tempo pareva inutile, superfluo in quell’attimo eterno. Sentii le sue mani salire verso le mie spalle ed accogliere nei loro palmi le mie gote. I pollici del moro disegnarono mezzelune sotto i miei occhi, facendomi dischiudere le labbra, come se quelle dita avessero digitato un codice di comando. Vidi i vortici di pece avvicinarsi ai miei occhi, sentii il suo fiato rubarmi l’aria, e poi la sua fronte appoggiata alla mia. Rimanemmo così, immobili a respirare l’uno l’anima dell’altro, troppo vicini; con il mio cuore che folle e disperato, batteva forsennato contro il mio petto, tentando di lacerarmi la carne per uscire. Il suo naso sfiorò il mio, leggero come ali di farfalla, mentre i suoi occhi si chiudevano, assieme ai miei, incapaci di reggere ancora la magia di quel contatto visivo, accentuata dalla pericolosa vicinanza tra le nostre bocche.
Ma a quanto pareva non era destino che le nostre labbra si incontrassero, visto che un domestico entrò in quell’istante, schiarendosi la voce ed annunciando che le auto erano pronte e mi stavano aspettando.
Lasciai cadere le braccia lungo i fianchi, scostandomi da quell’abbraccio denso di emozioni non dette, carico di sentimenti inespressi. Ace annuì al domestico, scostandosi ancora un poco da me e con lo sguardo fisso a terra.
Non c’erano parole adatte ad un addio, il silenzio bastava a dire tutto; non serviva aggiungere nulla. Solo un passo ci separava, ma pareva già una distanza enorme. Lo superai svelta, afferrando lo zaino dal letto e girandomi a guardarlo un’ultima volta. Era un angelo, un bellissimo angelo tormentato, finito non sapevo come nell’inferno della vita mortale; caduto sulla mia strada, donandomi un ricordo incancellabile, donandomi uno squarcio di paradiso che avrei conservato nel mio cuore per sempre. Si girò leggermente, solo per guardarmi un’ultima volta, mentre indietreggiavo verso la porta, per poi correre a perdifiato lontana da quella stanza, lontana dalla tentazione di dirgli tutto, lontana da quel bacio mancato, lontana da quel sogno ormai incrinato, lontana dal dolore che svelto mi stava rincorrendo, lontana da lui, il ragazzo che amavo più della mia stessa vita.
Lo sentii correre al parapetto delle scale, ma non mi voltai a guardarlo, non avrei retto il dolore di quell’addio. Scappavo, come una codarda, come una stupida ragazzina incapace di affrontare il dolore della vita. Ma di cosa diavolo mi lamentavo? Molte avrebbero venduto l’anima per passare una serata come la mia, ed io stavo a piangermi addosso per il dolore che avrei provato una volta a casa? Ero una ragazzina viziata, ecco cos’ero. Quella serata era sicuramente il migliore dei dolori che potevano capitarmi, una serata unica ed indelebile, con Ace.
Arrivai in cortile, dove Elena mi aspettava, ed entrai nella mia macchina sul sedile del passeggero, chiudendo la portiera e pregando che l’auto partisse in fretta; non avrei trattenuto le lacrime ancora per molto.
Quando il motore si accese sospirai di sollievo, accasciandomi ancora di più sul morbido tessuto imbottito. Le ruote grattavano violente la ghiaia del selciato, portandomi via da Ace, e spezzando qualcosa dentro di me, che sapevo di non poter aggiustare. L’auto viaggiava lenta sul viale, accelerando solamente una volta varcato il cancello, mastodontico quanto quello che dava sul lago, forse più alto, che si chiuse dietro le nostre auto, inesorabile, sigillando i miei sogni al suo interno e chiudendomi fuori da quello che avrei voluto far diventare il mio mondo.
Rimanemmo in silenzio fino all’entrata in autostrada, dove l’autista accese la radio, facendo partire il CD fatto da Elena. Potevo resistere fino a casa trattenendo le lacrime, ma non con quella colonna sonora.
«Prema quel tasto verde, così mette la radio e non è costretto ad ascoltare sigle di cartoni animati!» Disse gentilmente Elena, capendo il mio stato d’animo e risparmiandomi ulteriori pianti patetici in presenza di sconosciuti. Appoggiai la testa al freddo vetro, osservando distrattamente le luci gialle ed arancioni che scorrevano veloci. Sembravano lucciole… Ed io non potevo permettermi di vedere qualcosa che mi ricordasse la serata appena trascorsa, non in quel momento. Chiusi gli occhi, ascoltando distrattamente Elena che mi parlava di una carta che aveva firmato anche per me, una dichiarazione che ci proteggeva dalla diffusione dei nostri nomi e delle immagini dei nostri volti, in cambio del silenzio assoluto sugli avvenimenti e sulle informazioni di cui eravamo venute a conoscenza in quella villa.
Era ovvio che non ci lasciassero andare via senza almeno un documento che ci obbligasse  ad evitare di andare a fare scene madri a stupidi programmi televisivi, o di rilasciare interviste e dichiarazioni, scatenando orde di fans isterici contro gli scienziati ed i politici che orchestravano quella giostra. Se si fosse saputo in giro che la trama non era cambiata, che i personaggi potevano rimanere qui senza conseguenze, che Ace non ricordava nulla… Dio solo sapeva che rivoluzione sarebbe scoppiata; già mi stupivo che nessuno avesse ancora tentato di assassinare il cubo di magma oppure quel grassone peloso di Barbanera, figuriamoci se certe notizie fossero circolate. Il fatto di non diffondere i nostri nomi e volti poi, andava tutto a loro favore, se nessuno avesse scoperto chi eravamo, non avrebbero potuto tentare di intervistarci.
Avremmo evitato di riferire i dettagli persino ai nostri genitori, tanto per quello che ne capivano loro delle nostre “insensate passioni per cartoni animati” non cambiava molto.
Elena tentava di distrarmi, parlandomi di quanto le ragazze avessero apprezzato i bracciali e di come Kidd alla fine fosse scoppiato a ridere di fronte alle scuse dello scheletro maldestro. Sorrisi distratta, solo per cortesia, sforzando i muscoli del mio viso all’inverosimile. Era il primo sorriso sforzato di quella sera, erano bastate poche ore a farmi scordare l’arte del finto sorriso, che tanto avevo faticato ad imparare nei mesi precedenti. Poche ore che mandano all’aria il lavoro di mesi, come succede con le diete: mesi di fatiche e di rinunce, per poi mettere di nuovo sui fianchi tutti i grammi persi, cedendo ad una singola stramaledetta abbuffata.
Lasciandomi andare sul sedile, sperai che allontanandomi da Ace anche il dolore sparisse con lui, allontanandosi da me, lasciando libero il mio petto da quella morsa di ghiaccio.
Speranza vana, desiderio stupido, utopia irrealizzabile.
Non avvisai mia madre della nostra partenza, non parlai con Elena, ignorai la radio che riempiva di musica l’abitacolo. Non mi importava di niente e di nessuno in quel momento.
Quando arrivammo a casa e gli autisti se ne andarono, salutai Elena con un cenno veloce, liquidai mia madre con un lugubre “ne parliamo domani” ed andai a letto, sperando in un sonno senza immagini, che durasse il più a lungo possibile.



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*offre ai lettori una cesta di pomodori maturi in omaggio e va a nascondersi in un angolino, tentando di ripararsi*
Salve... Eccomi qui... hem.. scusatemiii!!! T_T
sappiate solo che ho sofferto come non mia scrivendo questo capitolo, mi scuso, mi dispiace, imploro perdono! ma doveva andare così... per farvi sorridere dopo la rabbia di questo capitolo ho scritto una nuova sciocchezza su Marco.. mi spiace davvero che la trama abbia preso questa piega ma abbiate fiducia, la storia è ancora lunga, e prometto di fornirvi pomodori dopo ogni capitolo del genere ( si, ce ne saranno altri tristi, mi spiace).
niente, ora rispondo alla domanda sugli spoiler. sì, sono stata vittima di spoiler, un mio amico, mentre eravamo in auto in viaggio verso casa, mi ha spoilerato tutta Marineford, quando io avevo appena perso la testa per Ace ad alabasta (ho iniziato tardi a guardare OP, mea culpa). Io ho accostato e l'ho fatto scendere dall'auto. ho guidato per un po', mi sono fermata a piangere pateticamente in un parcheggio, mi sono ricomposta e dopo un oretta mi sono rimessa in strada, andando a recuperare lo spoileratore, e portandolo a casa. Non gli ho rivolto la parola per giorni, e quando l'ho superato con la trama, visto che lui seguiva l'anime ed io il manga, gli ho spoilerato tutta l'avventura sull'isola degli uomini pesce e l'organizzazione post-guerra del mondo U_U e sinceramente? non sono ancora soddisfatta quindi potrei spoilerargli anche il seguito! u.u
Comunque, torniamo a noi! xD

Qual'è il vostro preferito della flotta dei Sette? (vecchio, nuovo, ex, tutti! )

Bene, ora vi saluto e... fatemi sapere che ne pensate (chiedo ancora scusa T_T)!!!
Bacioni, alla prossima!

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Capitolo 18
*** 17. Sole spento ***


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Il mattino arrivò troppo in fretta, rapido come una freccia scoccata da un abile arciere, ed altrettanto letale. La luce del sole mi svegliò, dopo un sonno che mi era parso di cinque minuti, bussando dispettosa alle mie palpebre.
Mi rigirai tra le lenzuola, ancora avvolta dal torpore e dalla nebbia dei sogni. Sogni assurdi, sogni romantici ma dolorosi, sogni di rossori e di emozioni rubate, sogni di lucciole e camicie bianche, sogni di respiri e cuori impazziti.
Portai una mano sul viso, per coprirmi gli occhi riparandoli dal raggio di sole che filtrava dalle tende, ma qualcosa mi colpì il naso, qualcosa di solido e tondeggiante, arrotolato al mio polso. Aprii gli occhi lentamente, abituandomi alla luminosità mattutina e tentando di mettere a fuoco l’oggetto che mi aveva colpita. Era un bracciale rosso e bianco, tondo e abbastanza largo da scivolare sul mio braccio liberamente. Ma quello non era un bracciale qualsiasi, era il bracciale di Ace, il mio bracciale, quello che il moro mi aveva regalato nel mio sogno!
I ricordi tornarono violenti, liberi dalle foschie della notte, nitidi e letali, colpendomi come un pugno allo stomaco. Era successo davvero, avevo realmente conosciuto Ace, avevo veramente quasi baciato Pugno di fuoco, avevo veramente vissuto quello che, fino a pochi secondi prima, mi pareva un sogno. Le mani iniziarono a tremare, mentre il panico e la consapevolezza iniziavano a farsi strada dentro di me. Percepii il gelo nel petto, il dolore nel cuore e la morte nello stomaco. Mi pareva di vedere le schegge affilate dei ricordi conficcate nei miei organi, come se qualcosa fosse esploso nel mio petto, sparando i suoi frammenti ovunque come proiettili, ferendomi in posti che non potevano essere curati. Ero innamorata di un ragazzo che non avrei mai più rivisto, anzi, ero innamorata di un ragazzo che avrei rivisto solo in televisione, e l’avrei visto morire.
Mi parve di sentire il “crack” netto e deciso di qualcosa che si spezzava, ed era appena successo nella mia anima, nel mio spirito, nella mia coscienza. Non sentii gli occhi pungere come preavviso, le lacrime non si degnarono di chiedere il permesso prima di inondarmi occhi e gote con i loro dolori salati. I singhiozzi mi scuotevano il petto, mentre abbracciata al mio cuscino soffocavo il viso tra le piume, sperando che mia madre fosse già uscita, per non doverle dare spiegazioni che non avrebbe potuto comprendere. Nessuno venne a bussare alla porta della mia stanza, quindi solo i miei cuscini ed i miei animali erano testimoni del mio dolore e della mia disperazione. Il cane tentava di capire cosa mi succedesse, accoccolandosi accanto a me, mentre il gatto, di solito menefreghista e strafottente, veniva a giocare con le mie mani arpionate al lenzuolo, tentando forse di distrarmi o di riscuotermi da quello stato di insopportabile pesantezza del petto.
Forse gridai, forse fu semplicemente la mia mente ad urlare il nome del moro, graffiandomi e squarciandomi dall’interno. Era un dolore lancinante, più forte di qualsiasi trauma fisico che avessi mai subito, sembrava di avere una bestia feroce e famelica intrappolata nel petto, pronta a dilaniarmi la carne e le ossa per uscire, una bestia che bramava solo altro sangue ed altra sofferenza.
Quando gli spasmi dei singhiozzi si quietarono, permettendomi di controllare il mio corpo, mi diressi con gambe tremanti ed incerte in bagno, dove feci una doccia veloce, ma tanto bollente da riempire la stanza di vapore. Non spannai lo specchio, non volevo vedere il mio riflesso in quel momento, sapevo come stavo all’interno e non volevo peggiorare la situazione scoprendo cosa rivelava il mio volto, cosa raccontavano i miei occhi, quale nuova sfaccettatura potevo scoprire di tutto quel dolore. Mi vestii veloce, tornai in camera, andai a sedermi sul letto sfatto ed iniziai a far vagare lo sguardo nell’ambiente circostante, cercando le prove che quel sogno che avevo fatto la sera prima, fosse stato reale. C’era lo zaino nero, ancora pieno di abiti ed oggetti vari; c’erano i miei sandali abbandonati ai piedi del letto, tolti la sera prima solo per non sporcare il letto e per comodità; infine c’era il fantasma di un ricordo di cotone candido e fuoco, poggiato sullo schienale della poltroncina girevole, uno spettro che non spaventava, faceva solo un male indescrivibile. La camicia di Ace pareva invitarmi nel suo abbraccio, che però stavolta sarebbe stato freddo e vuoto, forse ancora profumato di fuoco, ma non altrettanto caldo e magico, non più l’abbraccio bollente ed avvolgente del moro.
Ma io, come un drogato che cerca con ossessione la sua dose, piccola e di bassa qualità che sia, afferrai la camicia e la strinsi al petto, immergendo il viso in quel morbido tessuto. Profumava di Ace, aveva ancora il suo odore imprigionato nella fitta trama, potevo godermi ancora qualche flebile fragranza di paradiso. Mi gettai sul letto stringendo a me quel brandello di magia, rotolandomi come un gatto in quell’aroma, tentando di assorbirlo e di farlo mio, accontentandomi del freddo abbraccio del cotone vuoto. Restai così, ad annusare ogni parte di quella camicia, per non so quanto tempo, prima di rendermi conto che se non avessi scritto e disegnato tutti i dettagli che avevo tentato di memorizzare, molti di essi li avrei persi per sempre. Dovevo farlo subito, per poter conservare quei ricordi integri ed immutabili nel tempo; cose, persone, odori, rumori, tutto avrei trascritto sul mio logoro diario, con precisione certosina, annotando ogni particolare, disegnando ogni virgola che avevo notato, descrivendo con minuzia ed attenzione ogni singola emozione provata in quelle poche ore di vita.
Mi ci vollero ore, giorni, settimane prima di finire tutto il lavoro, tutti i disegni, tutte le parole, tutte le linee decise o tremolanti, tutti vocaboli facili da trovare, o ricercati; un tempo infinito, durante il quale morivo dentro, piano piano, appassendo come un fiore colto e messo in un vaso; i primi giorni soffrivo, ma ero ancora viva, poi avevo iniziato a scivolare nell’apatia, nell’indifferenza totale verso tutto quello che mi succedeva attorno. Mia madre non capiva cosa mi stesse succedendo, aveva provato a parlarmi ma senza risultati, così ora si limitava a comprarmi cioccolata e gelato, per tentare di tirarmi su il morale almeno con il cibo, invano; la stessa Elena ed i miei amici non sapevano più che fare, la prima che tentava di consolarmi, invano, i secondi che facendo gli idioti cercavano disperatamente di strapparmi un sorriso, invano. Ogni tentativo di riabilitazione era vano con me, ero senza tempo, senza età, spenta e vuota, morta dentro, anche se cuore e polmoni continuavano a fare il loro metodico lavoro sapevo di essere morta nell’anima, per sempre. La vita degli altri scorreva regolare, io invece mi svegliavo spenta, nella mia stanza aspettavo che il mondo mi desse la notizia che i personaggi erano tornati alla loro realtà, che Ace non fosse più nel mio stesso universo, che fosse andato a vivere la sua vita, ad affrontare la sua morte. Seguivo con attenzione i loro spostamenti, le news, anche se erano ormai passati in secondo piano per il resto del mondo, superati dai soliti eventi di cronaca e finanza.
Occhi pesti ed arrossati erano ormai parte integrante del mio viso, abituato al pianto ed al dolore, mentre le mie labbra non ricordavano più come si sorrideva davvero, addestrate a tendersi ad ogni situazione che il mio cervello catalogava come “dovrebbe essere divertente”. Avrei aspettato la notizia, prima di morire definitivamente, no? Perché sarebbe successo, ne ero certa; non si poteva vivere a lungo con un peso del genere sullo stomaco, non era possibile.
Ace era il mio Sole, la mia luce, la mia fiamma, la mia salvezza, ed ora era lontano, ma pur sempre presente. Il Sole dista tantissimi chilometri dalla Terra, eppure la riscalda e la fa vivere, illuminandola e dandole energia vitale, ma cosa avrei fatto quando il mio Sole si fosse spento? Cosa avrei fatto se la mia stella guida mi avesse abbandonata per sempre? Cosa avrei fatto quando Ace se ne sarebbe andato definitivamente dal mio mondo? Semplice, sarei diventata un pianeta arido, senza vita, e pian piano sarei morta, andando a disintegrarmi da qualche parte, incapace di vedere gli altri pianeti orbitare allegri attorno ai loro brillanti astri. Mi sarei disgregata in milioni di pezzi, disperdendomi nell’universo immenso; forse alcuni frammenti del mio essere sarebbero diventati meteore, stelle cadenti, lacrime di dolore disegnate sul cielo di altri mondi. Chissà se erano veramente lacrime, quelle scie luminose e rapide che graffiavano il cielo; forse erano il frutto del dolore di un altro pianeta sfortunato, che aveva perduto per sempre la sua preziosa stella.
Passavano i giorni, le settimane, i mesi perfino, ormai l’estate stava finendo, eppure nulla in me cambiava. Elena era tornata alla realtà, lei era sempre stata ancorata alla vita vera, mai aveva confuso realtà e fantasia, mai si era lasciata andare come avevo fatto io. Aveva avuto passioni, cottarelle ed infatuazioni, ma mai nient’altro. Era tornata alla sua vita tranquillamente, felice di aver conosciuto i personaggi che tanto amava, ma non ponendosi troppe questioni, non soffrendo di nostalgia, non arrovellandosi l’anima con i sensi di colpa. Elena era la realtà, io invece ero la fantasia; forse è per questo che la nostra amicizia era tanto duratura e profonda, dove io osavo lei mi frenava, mentre quando lei si fermava io la spingevo ad andare oltre, ad osare. Quella serata però, che mi pareva fosse avvenuta ieri, ma in verità era ormai lontana nel tempo, lei non era stata abbastanza svelta, non aveva voluto frenarmi in quel mio sogno. Le ero grata per non avermi ostacolata, ma lei rimpiangeva quella scelta, sentendosi in colpa per non essere riuscita ad evitarmi tutto il dolore che stavo provando. Non capiva che ero contenta di quel dolore, perché rendeva quel ricordo lontano reale, vero, vivo. Era l’ultima cosa viva che mi restava, avevo solo quel ricordo ed il mio dolore.
Ogni notte rivivevo quei momenti nei miei sogni, vedendolo, sentendo tra le mie braccia il suo corpo, e nonostante la distanza mi sembra di sentirlo vivo accanto a me. Il mio cuore in quelle utopie si risvegliava, uscendo dal regolare battito, concedendosi un sussulto, una leggera accelerazione, una minuscola emozione. Finché mi sarebbero restati i ricordi, il mio cuore avrebbe continuato a battere, anche solo per arrivare alla notte seguente, solo per potersi ribellare alla regolarità cardiaca per qualche attimo ancora.
Tutto il dolore che provavo quando i pensieri diventavano scuri, quando il mio petto gridava il nome del moro, il nome che non riuscivo nemmeno a pensare a volte, quando il mio stomaco si contorceva disperatamente, tentando di liberarsi dalla ferrea morsa di ghiaccio della sofferenza, cercando di far librare ancora le farfalle che l’avevano abitato, era rumore, era frastuono e caos nella mia anima, che si sfogava in lacrime silenziose ed ordinate, sul mio viso. Ormai non piangevo più a singhiozzi, ero diventata brava a frenare le convulsioni del mio petto e gli spasmi della gola, piangendo in silenzio per non attirare attenzioni distratte, di persone che non avrebbero capito nulla.
Avevo passato il mio ventesimo compleanno a sorridere e a fingere con tutti i miei amici, che si erano tanto impegnati per farmi una festa a sorpresa; ero riuscita a recitare per loro, per farli contenti, anche se i sorrisi fatti  non erano arrivati nemmeno nei paraggi degli occhi. Apatia e maschere di cera, ecco le parole adatte a descrivere la mia vita. Uscivo con gli amici per farli felici e per non far preoccupare mia madre, non perché ne avessi voglia; fosse stato per me avrei passato i miei giorni a rileggere il mio diario, tentando di rivivere all’infinito quelle ore magiche. Stavo in piedi grazie ai ricordi ed alle fantasie, riguardando a raffica gli episodi di ONE PIECE, fermandomi sempre prima di Drum. Non riuscivo a vederlo, non riuscivo a pensare che con il mio silenzio l’avevo condannato a morte certa, non riuscivo a vedere il suo corpo fasciato dal cappotto nero, non riuscivo ad ascoltare quella voce, a guardare quel sorriso beffardo, a vedere quella spruzzata di lentiggini, ad ammirare quelle ciocche ribelli sferzate dal vento. Non l’avevo salvato, ed avrei vissuto con quel rimpianto per tutta la vita. Ormai mi ero abituata al ghiaccio che dominava nel mio petto e lo accettavo come punizione per la mia mancanza di coraggio, per la mia debolezza. Era come avere un animale fatto di neve e gelo accoccolato nel petto, all’inizio ci fai caso, tenti di spostarlo e di ribellarti alla sua presenza, ma poi inizi ad abituarti, ad accettarla e a conviverci amaramente.
Le ultime parole che mi aveva detto Ace mi rimbombavano nella testa, giorno dopo giorno; mi aveva detto che ero diversa, speciale, che non voleva perdermi… Ed invece era successo il contrario: io avevo perso lui, per sempre. Non gli avevo nemmeno risposto quella sera, troppo presa dallo stupore e dallo sconforto dell’imminente addio. Erano passati più di quattro mesi da quella serata magica; centoventicinque giorni esatti di ricordi tormentati e di rimpianti; settemilaquattrocento sessanta ore di dolore e di nostalgia. Ed ora, all’alba delle otto di un sabato sera qualsiasi, durante il quale avrei dovuto fingere, sorridere e sforzarmi di interagire con il mondo, dovevo prepararmi ad uscire, come se nulla fosse, abbandonando per poche, infinite ore le mie fantasie.
Svogliata mi lavai velocemente, ormai le mie docce erano lampo, perché non potevo permettermi di rimanere troppo a pensare sotto il getto caldo, faceva male pensare, rimuginare, compatirsi ed incolparsi.
Mi vestii a caso, indossando una maglietta vagamente più elegante del solito e dei normalissimi Jeans. I vestiti che avevo indossato in quella serata erano stati banditi, le scarpe di ONE PIECE anche, confinati in un angolo dell’armadio; troppi ricordi amari per poterli indossare o vedere, troppe immagini venivano riportate alla mente da quei tessuti; l’unico ricordo che mi portavo addosso era il suo bracciale, ultimo regalo prima dell’addio.
Mi guardai allo specchio, stendendo una maschera di cipria e trucco sul mio viso, nascondendo le occhiaie; mascherando il rossore degli occhi; celando il dolore dietro a quell’ennesima maschera artificiale. I capelli cortissimi fortunatamente non necessitavano particolari attenzioni, così quando Elena suonò il campanello potei uscire svelta, gridando solo distrattamente a mia madre dove andavo, dandole il nome del solito posto; era il nostro ritrovo ed era un locale tranquillo e non affollato. Barista simpatico, biliardo e prezzi buoni, un tempo l’avrei definito il luogo perfetto, ma ora quell’aggettivo era riservato ad un altro posto, ad un angolo di giardino illuminato da lucciole, ad una stanza mal arredata, ad un salone affollato di personaggi bizzarri, ad un qualsiasi posto dove ci fosse lui.
Salii in auto con Elena e la serata ebbe inizio, così come la mia performance da attrice. Mi ero sempre definita una persona sincera, spontanea, limpida e vera; ora ero diventata l’opposto di tutto. Ero una bugiarda, una calcolatrice che stava attenta ad ogni minimo dettaglio di quello che affermava o persino pensava, una persona falsa, che mentiva spudoratamente ad amici e parenti fingendo allegria e spensieratezza, nascondendosi dietro ad una maschera di sorrisi finti, che però celavano bene la disperazione ed il dolore che mi attanagliavano. Avevo mentito anche prima di incontrare Ace, fingendo di aver superato la morte di mio padre, ma allora non avevo celato tutto il dolore, consapevole che comunque mi avrebbero capita, compresa. Stavolta invece nemmeno Elena poteva comprendere appieno i miei sentimenti e le mie angosce.
Amore… Era descritto da tutti come una cosa fantastica, un’esperienza unica, una felicità tangibile, una gioia memorabile, una dolcezza effimera, un dono magico. Bugiardi, l’amore non era rose, fiori e cuoricini rossi, era dolore, neve fredda nello stomaco che ti congelava, era sogni infranti, era promesse spezzate, era un temporale in pieno petto, con fulmini letali e devastanti rombi di tuono.
Le ruote dell’auto divoravano l’asfalto; da quando Elena aveva preso la patente mi aveva vietato di guidare di sabato sera, per rifarsi di tutte le uscite in cui ero stata io la taxista di turno. Mi andava bene, non avevo la testa per guidare, ero troppo pensierosa per prestare la dovuta attenzione alla strada, sarei stata un pericolo per me stessa e per gli altri. Mi mancava solo di causare un incidente, come se non mi bastasse l’amaro rimorso di aver bruciato la vita di un giovane di vent’anni. Dopo tanti errori, tanti sbagli, tanti passi falsi, tante cadute, tanti equivoci, tanti crimini, (sì, perché l’omicidio era un crimine ed io avevo ucciso quel ragazzo) si rimane soli, a pensare che forse un giorno il Sole tornerà a risplendere nel tuo cielo. A volte mi pareva di perdere il conto dei giorni passati, ritrovandomi a pensare che forse era stata solo una fantasia, cercando di convincermi che non potevo sentire la mancanza di qualcuno che non avevo mai avuto. Guardai distratta fuori dal finestrino, portando poi l’attenzione su quel bracciale bicolore, dal quale non mi separavo mai, unico oggetto impregnato di ricordi, che mi concedevo di guardare.
Arrivammo al solito locale, stranamente più affollato del solito, accolte dalla nostra compagnia di matti. Mi riscossi dai miei pensieri, indossando la mia maschera da sera, felice e sorridente. Bugiarda.
Una volta entrate scoprimmo il motivo di tanta folla, c’era una qualche partita di una qualche squadra importante e tutti i tifosi, armati di boccali di birra e quant’altro, stavano guardando questo avvincente match. Personalmente il calcio non mi aveva mai attirata come sport, che gusto c’era nel guardare undici idioti per squadra che rincorrevano un pallone per poi prenderlo a calci? Non l’avevo mai capito, e nemmeno mi interessava farlo. Mi disegnai il mio solito sorriso e salutai tutti, ponendo le domande di rito “come va?” e “come stai?”, senza che la risposta mi interessasse più di tanto, e non era da me. Menefreghista.
Alla fine tutti avrebbero sempre risposto “bene!” oppure “tutto ok!”, tenendo per se stessi la verità; quante volte vi siete sentiti rispondere “va male!”? Personalmente potrei contare sulle dita di una mano le occasioni in cui avevo ricevuto questa risposta. Egoista.
Mentre alcuni ragazzi si sfidavano in un’accesa partita a biliardino e altri si concentravano per mandare in buca una palla da biliardo, io mi sedevo ad un tavolo, osservando entrambe le competizioni, ascoltando le varie stupidaggini che venivano dette, gli insulti senza peso che volavano, le domande idiote che venivano poste senza un briciolo di senso, le risate genuine che facevano scuotere i corpi di quelli che definivo “i miei amici”. Mi mancava sentire quella risata nella mia gola, ma un sorriso finto può passare inosservato, una risata finta la si riconosce a distanza di chilometri. Dov’era finita la mia voglia di vivere? Lontana anni luce da me. Certi giorni avrei voluto prendere un volo, un treno, una nave e correre da Ace, per poterlo abbracciare, per poter cambiare la mia vita, per potergli raccontare il mio dolore, per poter modificare il suo futuro; ma non l’avevo mai fatto. Codarda.
Era questo il potere dei sogni? Era questa la loro forza? In ogni essere vivente c’era una piccola scintilla, che poteva accendere la fiamma dell’immaginazione, una piccola scintilla che può creare un posto in cui rifugiarsi, in cui sentirsi al sicuro, protetti e felici, allontanandoci dal resto del mondo, tanto grigio quanto crudele. Quella fiamma non si può spegnere, è eterna, sempre in grado di essere risvegliata, sempre pronta ad ardere di nuovo, e tutti la lodavano, la amavano, la decantavano e la acclamavano, ma chi la conosceva davvero? Tutti coloro a cui i sogni erano stati infranti, brutalizzati, uccisi, spezzati, polverizzati, distrutti, eliminati e cancellati, come la vedevano questa fiamma? La vedevano fredda, la vedevano dolorosa, illusoria, finta, falsa, sleale, futile e superflua. Era questo il potere delle utopie dunque? Far soffrire gli uomini all’inverosimile? Farci capire che la realtà è nuda e cruda, e rifugiarsi nella finzione non serve a superare i problemi reali? A farci accettare il mondo così com’è, senza ambizioni? La fantasia non era poi così buona, cara, dolce e gentile, no? No, in quel momento l’avrei definita solo una stronza bugiarda ingannatrice, identica a me in pratica.
Il rumore della sedia accanto a me che veniva spostata mi riportò alla realtà, veramente poco piacevole, visto che poco dopo mi ritrovai un braccio attorno alle spalle. La puzza di alcol e di sudore mi avvisò che si trattava dell’ubriaco di turno, ci mancava pure quello adesso. Mi voltai stizzita, sfilandomi abilmente dalla presa di quel braccio schifoso, e guardando l’orrenda faccia da schiaffi che mi trovavo davanti. Era un uomo sulla trentina, già stempiato e poco curato nell’aspetto, dai lineamenti anonimi e dagli occhi vacui, di un azzurro indefinito e vuoto. Lo guardai schifata e feci per alzarmi, ma la sua mano sudicia mi prese il polso, impedendomi di allontanarmi dal tavolo.
«Ciao bella, perché non resti qui a farmi compagnia? Ci divertiamo…» Biascicò lascivo, tentando di stuzzicare un qualche mio ipotetico e malsano interesse nei suoi confronti.
«Preferirei conficcarmi degli spilli sotto le unghie, con permesso.» Dissi pacata, torcendo il polso e divincolandomi così dalla sua stretta. Mi voltai e mi diressi tranquilla e sicura verso i miei amici, che intanto stavano tenendo d’occhio la scena per vedere se avevo bisogno di un intervento maschile. Gli ubriachi il più delle volte sono innocui, magari insistenti e fastidiosi, ma relativamente facili da gestire.
Ero in piedi, appoggiata ad una colonna con la spalla, quando il braccio del verme sbronzo tornò a cingermi la vita; era tanto difficile capire l’antifona? Che arcana difficoltà c’era nella comprensione delle lettere “N” e “O” unite nella tanto nota ed universale parola “No”? Sbuffando lo spinsi via, dicendogli di piantarla e di starmi lontano, ma ottenni solo l’effetto di farlo barcollare leggermente all’indietro, senza riuscire a levarmelo completamente di dosso.
«Ma lo sai che sei proprio una bambolina dispettosa, puttanella? Adesso ti insegno io le buone maniere…» Parlò l’energumeno, con la voce impastata dall’alcol e un bruttissimo scintillio negli occhi inespressivi, afferrandomi il braccio e strattonandomi verso di lui. A quel gesto i miei compagni scattarono, alzandosi dalle sedie ed abbandonando le varie sfide, ma nessuno di loro sarebbe arrivato in tempo per salvare la mia faccia dall’urto che stava per subire. Possibile che l’unico ubriaco violento in circolazione l’avevo trovato io? Quando si dice che la fortuna è cieca ok, ma la sfiga ci vedeva benissimo, senza dubbio. Il braccio libero dell’uomo si alzò, pronto a colpirmi il viso con un ceffone che sicuramente mi sarei ricordata per parecchio tempo, ed io ebbi il tempo di chiudere gli occhi e di notare appena il vibrare sommesso del mio cellulare, che in tasca mi annunciava l’arrivo di un messaggio. Certo che i pensieri che ti affollano la mente in certi momenti critici, sono dei più ridicoli; stavo pensando al mio cellulare che vibrava, quando un braccio era pronto a spiaccicarmi una manata sulla faccia. Non pensavo al dolore che avrei sentito, non pensavo alle rogne a cui stava andando incontro quel demente infastidendomi, non pensavo… Non pensavo di avere tanto tempo a disposizione per pensare. Ok che l’uomo era ubriaco, ma possibile che ci mettesse tanto a colpirmi?
Socchiusi un occhio, spiando attraverso la rete delle ciglia cosa accadeva di fronte a me. Il braccio dell’uomo ancora alzato, bloccato però da una mano salda, che afferrava con decisione l’avambraccio dell’ubriacone spaventato. I miei amici a meno di un metro dalla scena, bloccati e con lo stupore dipinto sul volto. Elena allucinata, con la bocca aperta ed una mano sul cuore. Il verme schifoso che stava per colpirmi invece era sudaticcio, con uno sguardo spaventato e sperduto. Cosa era accaduto alle mie spalle? O meglio, chi diavolo c’era dietro di me?
«Mi è parso di sentire, che alla signorina la sua compagnia non interessi minimamente, quindi la molli all’istante.» Esclamò una voce dietro di me, ferma e minacciosa, mentre un leggero fetore di carne strinata, proveniente dal braccio teso dello sbronzo, iniziava ad aleggiare nell’aria.
Quella voce, era forse un maligno scherzo della mia mente? Era il ricordo di un sogno? Era forse simile, ma non quella a cui pensavo?
Quando la mano che mi aveva strattonata si staccò completamente dal mio corpo drizzai la schiena, ed andai a sfiorare il petto dell’uomo alle mie spalle, che profumava… di fuoco.



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Ciao... stavolta vi offro un vasetto di gelato e tanta cioccolata (dose Extra a Martychan per il suo piedino! xD ) mentre a Lenhara offro un trionfo di crostacei e frutti di mare (te l'avevo detto che mi avresti odiata anche tu, la cosa è reciproca e quasi per gli stessi motivi xD)
ma bando alle ciance, GRAZIE di cuore a tutti voi, che leggete, commentate, seguite e preferite questa follia di ff, veramente, grazie di cuore!!
Beh, rispondo alla domanda: io adoro Mihawk, troppo affascinante!! poi lo ammetto,  adoro crocodile ed il nuovo flottaro post marineford, tanto carino xD
allora, beh.. non so che altro dire, alla prossima!!!

Cosa pensano i vostri amici e parenti della vostra passione per anime e manga?

Bene, ora vi saluto e... fatemi sapere che ne pensate di questo capitolo deprimente ma con speranza XD!!!
Bacioni, alla prossima!

Immagini e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di lucro

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Capitolo 19
*** 18. Nessun rimpianto ***


c1



Nell’istante in cui percepii il suo profumo, capii veramente il significato del termine “pietrificarsi” e compresi il motivo di tanto stupore e tanto sgomento nei miei amici. Realizzai cos’era successo e vidi la paura dell’ubriaco, che tentava di liberare disperatamente il braccio dalla presa di fuoco. Sì, perché quella mano lo stava bruciando lentamente, perché quella mano era fuoco puro, perché quella mano era fiamma e calore, perché quella era la mano di Ace, Hiken no Ace, Pugno di fuoco, Portgas D. Ace. Ne ero certa.
«Vattene a casa idiota, e attento a non rovesciarti il caffè bollente sul braccio la prossima volta, rischi di farti male sul serio.» Intimò perentorio il ragazzo alle mie spalle, lasciando il braccio dell’ubriaco, che svelto uscì dal locale senza nemmeno voltarsi indietro. Chissà cosa avrebbe raccontato a casa, per giustificare quell’ustione; probabilmente avrebbe davvero usato la scusa del caffè, una piccola tazzina bollente più lasciare ustioni parecchio dolorose, fidatevi di una pirla che l’ha già provato, guadagnandosi una scottatura alla gamba. Maledetta mania degli italiani di gesticolare e maledetta tazzina poco stabile.
Il mio cervello era ormai andato in tilt, dopo aver tentato di collegare il profumo inconfondibile e la voce del ragazzo, mentre il cuore aveva già deciso, aveva già capito tutto, si era già acceso di nuova speranza e di nuovi sogni e fantasie. Nel buio della mia anima, una fiammella aveva iniziato a scintillare, timida e timorosa di essere spenta di nuovo, bramosa di scoprire se poteva permettersi di espandersi e tentare così di combattere l’oscurità, chiedendomi di voltarmi e di confermare o sgretolare quella speranza, guardando in faccia colui che l’aveva fatta risplendere di nuovo. Assecondai le preghiere di quella stupida fiammella speranzosa, voltandomi lentamente, con l’ansia che faceva pressione sulla mia gola secca, mi schiacciava il petto ed attanagliava il cuore. Vidi una maglietta nera, tesa sul petto ampio e sulle spalle forti e muscolose, una collana di perle rosso sangue ad ornare il collo, il mento e la mascella delineati e gentili, le labbra storte in un sorriso dalla dolcezza disarmante, le lentiggini spruzzate sugli zigomi, proprio sotto quegli occhi di pece e diamanti, neri come petrolio ma scintillanti come cristalli, incoronati da un pizzo di ciglia nere e posti sul viso più bello che avessi mai visto, incorniciato da ribelli ciocche di crine scuro. Tutti i dettagli di quel volto impiegarono qualche secondo per unirsi e mandare al mio cervello l’immagine completa del ragazzo che avevo davanti, facendo scoppiare il mio cuore di gioia, alimentando quella fiamma, fino a bruciarmi ogni angolo del corpo, scongelando il ghiacciaio formatosi nel mio petto, liberando le farfalle imprigionate dalla morsa del dolore, togliendo le catene di sofferenza che tenevano imprigionato il mio cuore. Avevo smesso di respirare, così contrassi svelta i polmoni, inspirando dalle labbra, semiaperte per lo stupore e l’incredulità, l’aria densa di emozione. La felicità fu talmente forte ed improvvisa che non riuscii a trattenere due lacrime; le gocce rapide e determinate presero a solcare le mie guance, rigandole di gioia, non più di dolore come nei mesi precedenti. Sentii gli zigomi alzarsi e la bocca tendersi, in un sorriso sincero e carico di emozione, impregnato di felicità e stupore. Era veramente Ace, era lì, davanti a me, di nuovo. Ma cosa ci faceva in quel posto? Cosa l’aveva portato in quell’angolo dimenticato da Dio?  Perché si trovava in quel locale praticamente sconosciuto?
Non riuscivo a muovermi, non riuscivo a pensare, dire, fare o sentire niente, sembrava che tutto il mondo si fosse eclissato, lasciandomi lì, sola davanti a lui, incatenata al suo sguardo ed incapace di agire, rapita dalla bellezza di quel sorriso contagioso e da quegli occhi, pozzi d’oscurità brillante, capaci di spazzare via la volontà e la razionalità di chi li incrociava.
«A-Ace?» Chiesi con fatica dopo essermi asciugata velocemente le lacrime. Posi quella domanda sciocca quasi a volere conferma di quello che i miei sensi mi comunicavano, quasi a volere un’ulteriore certezza di quello che stava succedendo, quasi a voler dare sicurezza al mio cervello, che stava ancora vagamente tentando di frenare il cuore, intimandogli di stare calmo e non sperare in nulla, perché poi si sarebbe fatto male. Povero cervello, alla fine lui tenta sempre di avvisarci, di metterci dei freni, dei limiti e dei dubbi ragionevoli, ma decidiamo sempre e stupidamente di ascoltare solo il nostro cuore, facendoci trasportare dalle emozioni e dai sentimenti, cullandoci nei petali dell’amore e piangendo quando poi troviamo le spine; eppure non ci importa. Quando ci buttiamo in un sogno, in una speranza, in una nuova avventura, sentiamo solo il brivido del salto e dell’essere sospesi nel vuoto, non pensiamo al dolore che ci assalirà una volta che dovremo atterrare. L’amore cos’è quindi? Un fiore spinoso? Oppure un salto nel vuoto senza paracadute? Forse è più azzeccata la seconda definizione, l’amore è un volo fantastico, che ti ruba il respiro, fa battere il cuore all’impazzata e spegne tutto il resto; se ricambiato diventa una dolce traversata nell’aria, una coccola nel vento, una carezza di nuvole, ma se non è corrisposto o finisce quando non vorremmo, diventa una caduta in un baratro buio, un vuoto nulla, una rapida discesa verso l’autodistruzione. E noi continuiamo sempre e comunque a seguire il cuore, a conferma del masochismo allo stato puro del genere umano.
«In persona!» Mi rispose il moro, allargando ulteriormente il suo splendido sorriso e facendomi perdere altri battiti preziosi. Rispondeva sempre così, ricordavo la stessa frase detta ad Alabasta, era veramente lui, in persona… Deglutii a fatica, sforzandomi di non far crollare pateticamente a terra la mia mascella, dovevo riuscire a mantenere un briciolo di dignità personale, almeno un vago rimasuglio. Scossi la testa, tentando di ripulire la mente dalla nebbia a rose e cuoricini che l’aveva avvolta, sforzandomi di tornare ad avere pieno controllo delle mie facoltà mentali e di non avere l’elettroencefalogramma piatto.
«Cosa ci fai qui?» Niente balbettii, grande passo avanti! Uno a zero per il cervello! La voce era ancora insicura e tentennante, ma non avevo balbettato!
«Non voglio avere rimpianti.» Mi rispose il moro, intensificando ancora di più il suo sguardo e tramutando il sorriso dolce ed ampio di prima, in un sorrisetto spavaldo e letale, almeno per me. Ma cosa c’entravo io con i suoi rimpianti? Era forse tornato per me? No, non potevo permettermi pensieri del genere, non avevo più spazio nel petto per altro ghiaccio ed altro dolore. Ma allora cosa intendeva? Ero certa che il mio volto esprimesse tutta la mia perplessità, ma Ace non si degnò di spiegare le parole che aveva appena pronunciato, si limitò a spostare lo sguardo a terra, grattandosi leggermente la nuca con il braccio destro. Milioni di quesiti mi vorticavano nella mente, alla fine non aveva risposto alla mia domanda, per niente, no? Come aveva fatto a trovarmi? Perché mi aveva cercata? Oppure era stato un caso? Una coincidenza?
Aprii la bocca per fargli altre domande, ma una valanga di parole e frasi sconnesse mi travolse, riportandomi alla realtà e facendomi ricordare che ero circondata da amici che divoravano manga e respiravano anime, quindi avevano sicuramente capito chi era intervenuto per salvarmi.
Ace fu inondato di domande e assalito da occhi luccicanti di ammirazione, era tra i personaggi preferiti di molti ragazzi, non solo di fanciulle rapite dalla sua bellezza.  I miei amici erano come impazziti, avevano aspettato come me la conferma che quel ragazzo fosse realmente Ace, ed al primo attimo di silenzio si erano scatenati. Persino il barista e gli altri clienti si girarono a guardare la causa di tutto quel trambusto.
Elena, come sempre, fu efficiente e tempestiva, allontanando tutti dal malcapitato oggetto dell’attenzione, che nonostante la spavalderia era stato colto di sorpresa da quell’attacco di ammiratori, e riportò ordine e disciplina.
«Animali che non siete altro! Sediamoci al tavolo e parliamo come gente civile, non tutti insieme accalcandoci come pecore. Seduti!» Sibilò perentoria la mia amica, senza lasciare spazio ad eventuali proteste. Era una ragazza tranquilla, ma era meglio evitare di farla alterare quando si trattava di organizzazione ed educazione, altrimenti si rischiava di essere spolpati vivi a parole, e non era piacevole.
Ci sedemmo tutti senza protestare, unendo più tavoli e facendo una gran confusione; fortuna che il barista era nostro amico, e sapeva che avremmo rimesso a posto, altrimenti ci avrebbe già sbattuti fuori dal locale. Elena fece di tutto per farmi sedere accanto ad Ace, e la cosa strabiliante è che ci riuscì, deviando tutti gli assalitori e le assalitrici; quella ragazza era un uragano quando voleva!
Pugno di fuoco fu bombardato di domande riguardo al suo frutto e al suo potere, nessuno fortunatamente ebbe la malsana idea di chiedergli di Teach o di Marineford, però il rischio c’era. Avremmo dovuto avvisare i ragazzi dei ricordi del moro, onde evitare disastri irreparabili.
Ace fu molto disponibile, generando più volte fiammelle a richiesta e ridendo alle battute dei miei pazzi compari. Era un ragazzo gioviale, spigliato e divertente con loro, perché con me invece no? In compagnia era sicuro di se e festaiolo, mentre quando eravamo rimasti soli faticava ad esprimersi e sembrava quasi insicuro. Mille domande mi stavano logorando, la curiosità di sapere cosa lo aveva spinto qui, di conoscere il significato di quella frase, di capire cosa intendeva dicendomi di non volere rimpianti nella vita. Tutti questi quesiti mi tormentavano, facendomi apparire pensierosa e persa, mentre con il mento poggiato sulla mano lo guardavo parlare con gli altri, ammirando i dettagli del suo viso, le sue espressioni, i suoi gesti, i suoi movimenti. Sarei stata ore e ore a guardare quel ragazzo, niente al mondo valeva quanto quegli attimi preziosi passati con lui, rubati al destino ed imprigionati nei miei ricordi, per sempre.
In quello che mi parve un attimo, si era già fatto tardi ed era arrivato il momento di lasciare il locale per tornare a casa, ma non volevo andarmene di nuovo, non avrei sopportato un altro addio, un'altra fuga patetica verso l’auto; non sarei riuscita a voltare nuovamente le spalle al ragazzo che amavo, perché ormai l’avevo accettato, l’avevo ammesso con me stessa, ero innamorata di quel pirata dal volto fanciullesco e monello, follemente.
«Ti aspetto a casa tua, così parliamo un po’… Va bene?» Mi domandò Ace una volta fuori dal Bar, chinandosi verso di me e sussurrando quelle parole al mio orecchio. Arrossii? Ovviamente sì, come potevo rimanere indifferente al caldo fiato del moro sulla mia pelle? Riuscii appena ad annuire, ormai persa tra onirici paesaggi rosa e pieni di fiorellini, e ad ammirare il suo sorriso che si allontanava. Solo quando non lo vidi più e feci per salire in macchina mi domandai come facesse a sapere dov’era casa mia, e soprattutto con che mezzo ci sarebbe arrivato; però mi aveva detto che ci saremmo rivisti lì, ed io gli credevo.
Quando l’auto di Elena partì, espressi alla mia migliore amica tutti i miei dubbi e le mie perplessità riguardo al comportamento di Ace.
«Secondo te perché si trova qui?» Chiesi, giocherellando con il bracciale e guardandomi le mani, ignara della tempesta che avevo appena scatenato.
«Ma sei cretina o che cosa? In questi mesi ti hanno fatto una lobotomia per curarti la depressione? Ti è andato in cancrena il cervello? Secondo te per chi è qui? Per me no di sicuro! Cavoli ma ti senti? Sei piena di dubbi ed incertezze, quando Ace in persona ti ha detto che non voleva perderti, ti ha regalato il suo bracciale, ti si è addormentato sulle ginocchia e ti ha invitata a fare una passeggiata romantica al chiaro di luna? È innamorato perso, sveglia!!!» Mi sbraitò contro Elena, lasciandomi ad occhi sgranati e bocca aperta, incapace di risponderle. Ace teneva a me? Era… innamorato? Ma no, magari rivoleva il suo bracciale, o la sua camicia…
«Non azzardarti a trovare scuse idiote Selene, non osare! Non so come abbia fatto a trovarti, ma sicuramente non è venuto qui, attraversando il mondo intero, solo per uno stupido braccialetto o per dirti “ciao”!» Adesso mi leggeva anche nel pensiero? Bene. Sbuffai rassegnata, ma non ancora convinta delle parole che mi aveva gridato in faccia la mia migliore amica, che stava guidando nervosamente verso casa. Credere a quanto avevo appena sentito significava sperare, e la speranza infranta fa male, può perfino uccidere.
Il resto del viaggio fu silenzioso, il motore dell’auto era l’unico suono all’interno dell’abitacolo buio, ed io riuscii solo a pensare mille motivi insulsi per giustificare la presenza di Ace. Quando finalmente arrivammo davanti a casa mia il moro mi stava già aspettando, seduto sui gradini dell’ingresso. Salutai veloce Elena, che mi sibilò un “in bocca al lupo” che suonava più come “se fai qualche cazzata e lo lasci andare via ti scuoio”, e scesi, andando incontro al mio fiammifero. Mio? Ma chi stavo prendendo in giro? Non era mio, non lo sarebbe mai stato…
 Ero agitata oltre ogni dire, avevo la percezione completa di ogni goccia di sangue presente nel mio corpo, di ogni battito del mio cuore, di ogni spasmo del mio stomaco, ormai brulicante di sciami di farfalle impazzite.
Camminavo verso Ace, lenta e attenta a non inciampare nei ciottoli, e una volta arrivata alle scale mi sedetti accanto a lui, estraendo il cellulare dalla tasca per comunicare a mia madre che mi trovavo fuori casa, così da non farla preoccupare.
«Avviso mia mamma e poi possiamo parlare, ok?» Chiesi, guardando appena il moro accanto a me, che sorridendo annuì. Quando aprii il mio preistorico cellulare trovai un messaggio, quello che mi aveva fatto vibrare la gamba nel momento meno opportuno, ed era di mia madre.

“È stato qui un ragazzo a cercarti, gli ho dato il nome del locale in cui eri, gran bel ragazzo tra l’altro! Baci Baci”

Ok, mistero numero uno: come diavolo aveva fatto ad arrivare al locale? Risolto. In sostanza mentre Ace viaggiava verso il Bar, mia madre mi aveva scritto e mandato il messaggio. Circa mezzora quindi, per scrivere due frasi; era un caso perso quella donna. Ignorai i commenti estetici di mia madre e le risposi, dicendole dove mi trovavo e di non preoccuparsi. Chiusi l’aggeggio elettronico e mi voltai verso Ace, pronta, o forse no, a sentire cosa aveva da dirmi.
«Ok, fatto! Come hai fatto a trovare casa mia?» Chiesi curiosa, non capacitandomi di come avesse fatto, dopo tanto tempo, a rintracciarmi. Il moro ridacchiò, grattandosi la nuca e stendendo le gambe.
«Ho pagato uno degli autisti che vi aveva accompagnate a casa, è lui che mi ha portato qui. Sono tornato appena ci hanno lasciati liberi di andare dove volevamo. Ti ho… disturbata?» Rispose, terminando con un tono strano, che non riuscii ad identificare, vagamente simile al dubbio ed all’incertezza. Come poteva pensare di avermi disturbata?
«No, assolutamente! Mi fa molto piacere rivederti…» Mi affrettai a dire, arrossendo ed abbassando lo sguardo. Non ero mai stata timida, non amavo essere al centro dell’attenzione certo, ma non ero timida maledizione! Cosa mi prendeva?
Ace iniziò a torturarsi i capelli, come l’avevo visto fare alla villa in più occasioni, che fosse imbarazzato quanto me? Ma per quale motivo?
Le parole gridate da Elena in auto tornarono a rombarmi nella testa, tuonando la risposta a quella domanda, rifiutata dalla mia mente per paura del dolore che rischiavo di provare. A quelle frasi si aggiunsero le ultime affermazioni del moro, era venuto da me appena il tour era terminato? Perché?
«Uhm… Senti… Sono un pirata, un comandante persino, ma a parole sono una frana, quindi se dico qualcosa che non va bene… Dimmelo, ok?» Tentennò il moro, ottenendo un mio cenno del capo, abbastanza perplesso, come risposta. Cosa poteva mai dire di tanto difficile o complesso? E perché le sue parole non avrebbero dovuto andare bene? Sinceramente avrebbe potuto canticchiarmi la canzone dei Teletubbies e mi sarebbe apparso comunque perfetto. Patetico vero? Decisamente sì, ma cosa potevo farci? Niente.
«Ho passato questi mesi a pensare… A te. Non riuscivo a togliermi il tuo viso dalla testa, non facevo che pensarti e mi mancavi. Ho parlato con Marco, con il Babbo, perfino con il Vecchio.. E tutti mi hanno detto che dovevo venire qui, e dirti cosa mi passava per la testa, cosa provavo, cosa pensavo… Altrimenti l’avrei rimpianto per sempre, ed io non voglio avere rimpianti.» Soffiò tutto d’un fiato, facendo fermare il mio cuore, bloccando tutto in un fermo immagine sconcertante. I suoi occhi si incatenarono ai miei, le parole appena dette mi carezzarono il cuore, facendolo ripartire violento e devastante, potente e martellante nel petto. Era tornato per me, perché gli mancavo, perché… Mi pesava.
Deglutii, tentando di non farmi sfuggire dalla gola strani singhiozzi, imprigionando le farfalle per non farle uscire, e provai a parlare.
«E… Cosa pensi, ora che sei qui?» Riuscii ad articolare, impacciata ed in ansia per la risposta, pronta a svenire dal dolore o a volare per la felicità. Non ero nemmeno sicura che la domanda che gli avevo posto avesse un senso logico, ma almeno avevo detto qualcosa, e forse mi avrebbe saputo rispondere.
Ace sospirò, grattandosi la testa e gettando le dita nel groviglio disordinato dei suoi capelli corvini.
«Non ho mai provato niente del genere, non so descrivere cosa provo… Però vederti mi fa stare bene, e…» Sussurrò, facendomi accelerare ulteriormente i battiti ed inumidendomi gli occhi di lacrime. Lo facevo stare bene… Forse potevo concedermi uno spicchio di speranza, forse potevo godermi quello spiraglio di Sole che mi stava scottando l’anima, forse potevo davvero sognare ancora un po’. Sentii le labbra tendersi in un sorriso, e la mia mano, come mossa da volontà propria, andò a posarsi su quelle del ragazzo al mio fianco, che tolte dai capelli si stavano torturando a vicenda, sotto lo sguardo del moro. La pelle era calda e liscia, e quando i suoi palmi inghiottirono le mie dita, una strana pace si impossessò di me.
Lì, ferma e con la mia mano racchiusa nelle sue, stavo bene. Anche sul viso di Ace si disegnò un sorriso; non spavaldo, non felice, semplicemente dolce; era un sorriso nuovo, che esprimeva solo tranquillità, era un sorriso rilassato e sereno, senza preoccupazioni, senza dubbi o timori, senza ansie o rancori, senza paure o incertezze, solo pace.
Il tempo si fermò ed il mondo scomparve, lasciandoci soli in quella bolla di quiete e serenità; ormai era diventata un’abitudine ignorare l’intero universo quando ero con lui. Una mano di Ace si alzò verso il mio viso, sfiorandomi leggermente la guancia, per poi disegnare linee astratte sulla mia pelle, infiammandola. Il cuore batteva più forte che mai, lo stomaco si contorceva impazzito ed il sangue scorreva veloce e folle nelle vene, mentre il viso del moro si avvicinava al mio. Trattenni il fiato, sentendo il suo respiro sulle mie labbra, sentendo i suoi capelli sfiorarmi gli zigomi, sentendo la sua fronte calda poggiare sulla mia. Eravamo già stati in una posizione simile, con i nasi che si sfioravano leggeri e le fronti unite, ma l’emozione di quel momento fu ancora più sconvolgente. Come il mare prima dell’onda, la mia anima si ritirò sempre di più, pronta a tornare potente e devastante, scagliandosi contro il mio petto sottoforma di emozione pura. I nostri respiri si mescolavano, le nostre labbra ormai vicine bramavano quell’unione, ed il mio cuore stava tentando di uscire dal mio petto, con tutte le sue forze.
«I-io, non so cosa sto facendo… Sto seguendo l’istinto, s-e non vuoi…» Iniziò con voce roca il moro, ma non aspettai che finisse la frase, non attesi che completasse quell’affermazione tentennante; raccolsi tutto il mio coraggio, tutta la mia voglia di lui, tutto il mio amore e tutto il mio desiderio folle per quel bacio, e colmai la distanza tra di noi, unendo le nostre labbra con un movimento svelto e secco, chiudendo gli occhi e strizzando le palpebre. Se avessi avvicinato lentamente la mia bocca, non sarei riuscita a trovare il coraggio per farlo, mentre così, con un colpo deciso, ero riuscita ad incontrare quella bocca perfetta.
Rimasi immobile come lui, aspettando una reazione, sperando in qualcosa, qualunque cosa, che non fosse un rifiuto. Le sue labbra erano morbide e calde, quasi bollenti, e solo quando iniziarono a muoversi leggere e gentili sulle mie, riuscii a espirare tutta la tensione di quel momento in un gemito sommesso. L’ondata di emozioni arrivò violenta, scuotendo il mio corpo con un brivido caldo e sconvolgente. La mano di Ace abbandonò la mia guancia, infilandosi tra i corti capelli corvini della mia nuca e tirandomi ancora più vicina a lui. Portai le mie mani sul suo petto, facendole scorrere sulle spalle perfette e muscolose, cingendogli poi il collo con un braccio, mentre posavo l’altra mano sulla sua guancia.
Sentii il suo braccio avvolgermi la vita, portando il mio petto a premere contro il suo, in un abbraccio quasi disperato. Le labbra si muovevano lente, autonome e separate solo da brevi soffi, tollerati perché vitali. In quel bacio c’era tutto, i mesi passati a piangere sul cuscino, a disegnare e rivivere sogni ormai passati, c’erano le speranze, i dolori, la voglia di fargli vedere tutto quello che avevo scritto e disegnato di lui, tutte le parole che forse non sarei mai riuscita a dirgli, tutte le emozioni che mai avrei saputo esprimere. Stavo baciando il fuoco, ero avvolta dalle braccia del ragazzo che avevo amato fin dalla sua prima apparizione, e le nostre labbra erano unite in una fiamma che però non feriva. Era un bacio dolce, carico di passione e desiderio, ma comunque gentile e tenero, a tratti persino ingenuo. Sentivo il cuore battere forte e bruciare, mentre dalle mie labbra schiuse e roventi, le farfalle impazzite iniziavano ad uscire, lasciandomi più leggera e librandosi in aria, invisibili ma percepibili. Quelle farfalle stavano portando via il dolore, i frammenti di sogni spezzati, i giorni passati tra le lacrime, le schegge affilate che avevano ferito la mia anima; portavano via tutto, lasciando al fuoco il compito di lenire e coccolare le ferite. Bastava un bacio a cancellare tutti quei giorni di sofferenza? No, mi era bastato anche solo poterlo rivedere, per convincermi che avrei potuto aspettarlo per sempre, e non pentirmene mai.
Avevo speso ore ed ore, giorni e mesi a guardare gli ultimi attimi vissuti accanto a lui, a piangere su quei ricordi tanto dolci quanto dolorosi, ma non avevo rimpianti o rimorsi, avrei rivissuto da capo quei mesi d’inferno, solo per poter arrivare a questo momento magico un’altra volta. Quel bacio mi stava portando via, lontano da tutto e da tutti, dove il mondo non esisteva, dove c’eravamo solo io ed Ace, con le nostre labbra unite ed i nostri respiri fusi insieme. Avevo passato gli ultimi mesi a sognare la realtà, ostinandomi nella mia fantasia e mentendo a me stessa; ma ora, ad occhi chiusi, stavo volando verso quel sogno in cui avevo tanto sperato, oltre tutti i limiti del reale. Sentivo il calore del suo respiro sulle mie labbra gonfie, mentre torturavamo i nostri cuori con quel contatto inaspettato, lasciato incompiuto da tanto tempo.
Quando le nostre fronti tornarono ad incontrarsi e le labbra si staccarono, lasciando uniti solo i nostri respiri, non mi sembrava vero di aver finalmente assaggiato il sapore del fuoco. Le labbra di Ace sapevano di libertà, di calde promesse, di dolci carezze, di fiamme ardenti e di aria fresca.
Una volta ripreso fiato riaprii gli occhi, trovandomi davanti le iridi nere del pirata, e mi immersi completamente in quelle pozze di onice liquida, sorridendo beatamente, lasciando poi cadere lo sguardo sulla bocca schiusa del moro, seguendo il contorno perfetto del labbro superiore e la rotondità piena di quello inferiore, arrossati e gonfi come i miei.
Ero felice? No, ero più che felice; ed il cuore scoppiò, quando un sorriso dei più belli, formandosi sul suo viso, illuminò la mia notte, rischiarandola di dolcezza.



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*spia dal suo nascondiglio se piovono altri pomodori*
Ma ciao! lanciate coriandoli e stelle filanti, dopo ben 18 capitoli, finalmente i due polli (sì, perchè piccioncini non rende quanto siano scemi a non capirsi) ce l'hanno fatta!!! ed anche l'autrice pazza ha finalmente aggiornato xD (anche la raccolta è stata rimpolpata con nuove cretinate xD) probabilmente avrete anche visto l'altra shot, e vi chiederete "ci fai aspettare tanto per il capitolo, e poi scrivi altro?" ebbene sì, perchè avevo bisogno di ripulire la mente, in modo da poter rileggere e correggere al meglio questo benedetto capitolo, che mi ha fatto sudare ( Ho pensato più volte di tramutare Ace in uno Zampirone, ma ringraziate Lenhara e MartyChan che mi hanno trattenuta [ed aiutata tantissimo direi!!!]).
Beh, basta dire cretinate, passiamo alla domanda, cosa pensano i miei parenti ed i miei amici? allora, mia madre mi ignora, però ha capito che è una passione (lei la paragona al collezionismo, va bene così diciamo xD) la mia cara nonnina mi appoggia (Adora Rufy xD) ed i miei amici sono amanti del mondo di Anime e Manga, anche se resto io la più fanatica del gruppo! Nonostante questi appoggi non ho ancora trovato la faccia per dire loro che scrivo, e tantomeno per fargli leggere qualcosa, mi vergono troppo...^//^
E qui mi attacco con la domanda:

Chi sa della vostra passione per le ff? (chiedo agli autori/autrici) E se non scrivete, avete un hobby, un passatempo "segreto" di cui la vostra famiglia o i vostri amici non sanno niente? (io da piccola allevavo formiche O_O)

Ok, ora ho finito, lo giuro!
Un bacione e alla prossima, e grazie a tutti voi recensori, lettori, preferitori (???) e seguitori (???) xD siete davvero tanti, e posso solo dirvi GRAZIE!!!
A presto!!!

Immagini e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di lucro

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Capitolo 20
*** 19. Nuovo Sole ***


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Sul volto del moro apparve un sorriso, riflesso speculare del mio, e fu come una ventata d’aria fresca, che spazzò via gli ultimi dubbi, le ultime incertezze che si erano aggrappate al mio cuore, incapaci di lasciarlo correre libero verso quell’illusione reale. Era tornato per me, non stavo sognando. Spostai la mano dal suo viso, ed abbracciai quelle spalle sicure, affondando il capo nel suo collo e respirando la sua pelle; le sue braccia, rapide e forti, mi sollevarono e mi posarono sulle sue gambe, per poi stringermi nuovamente. Era una magia che non avrei potuto nemmeno immaginare, un’emozione nuova e devastante, potente come solo l’amore poteva essere. Sarei rimasta lì, rannicchiata tra le braccia di quel magnifico pirata, per sempre, in eterno, senza mai osare muovere un muscolo, immobile a godere di quella vicinanza, di quel contatto dalla dolcezza disarmante ed inaspettata.
Mi sentivo al sicuro e felice, finalmente felice. Potevo concedermi di sperare, di sognare e di vivere con serenità almeno qualche mese della mia vita, o magari un po’ di più… No, non potevo esagerare con le fantasie; sarebbe partito, quello era certo, ma sarebbe rimasto con me ancora per qualche attimo, e questo mi bastava.
«È tardi Selene, forse dovresti rientrare…» Mi sussurrò all’orecchio il moro, sfiorandomi leggermente il lobo con le labbra e facendomi rabbrividire. Trattenni il fiato a quel contatto, strusciando poi il naso sulla pelle del suo collo, inspirando ancora una volta il suo profumo. Non risposi, ma mi strinsi ancora a lui, affondando ulteriormente il volto nell’incavo della spalla e giocherellando con le ribelli ciocche di capelli, che gli cadevano disordinate sulla nuca. Rientrare diceva? Poteva scordarselo, avrebbe dovuto trascinarmi in casa con la forza!
Mugugnai una risposta, qualcosa tipo “non voglio”, ma faticai io stessa a capire le mie parole, soffocate e brontolate sottovoce.
Ace rise, una risata che sentii vibrante nel suo petto, e che mi fece sorridere silenziosamente. Com’era bello sentirlo ridere, com’era bello stare con lui in quell’istante. Lo sentii muovere la testa, per cercare di vedermi in volto, ma la posizione non lo permetteva e si arrese, poggiando delicato la sua guancia rovente sulla mia tempia.
«Quel verso incomprensibile cosa doveva significare?» Ridacchiò il moro, facendo ridere anche me. Effettivamente avevo borbottato in modo indecifrabile, ma cosa potevo farci? Non avevo per niente voglia di muovermi da lì, e se farmi prendere un po’ in giro voleva dire ritardare la nostra separazione, ero pronta a fare il giullare a vita.
Vedendo che non accennavo a rispondere, ma mi limitavo a sghignazzare sottovoce restando arpionata al suo petto, decise di sfruttare il suo ingegno piratesco, ed aprendo le gambe di colpo mi fece quasi cadere a terra. Uno scherzo infantile, ma che mi fece prendere un infarto ed ottenne il risultato di farmi staccare da lui, quel tanto che bastava per guardarlo in faccia e dirgli che era un idiota.
«Ma sei impazzito?» Sbottai, fingendomi arrabbiata. Come potevo arrabbiarmi con lui? Era impossibile, con quelle lentiggini adorabili e quella risata contagiosa e magnifica, che da quando mi aveva afferrata a pochi centimetri dal pavimento non aveva ancora smesso di riecheggiare nella notte.
«Shhhh! Abbassa la voce o sveglierai tutto il quartiere!» Lo rimproverai, ridacchiando a mia volta e portando una mia mano sulle sue labbra, con un gesto spontaneo e non calcolato, che mi imbarazzò all’istante. Arrossii, di nuovo, mentre la risata del moro sfumava verso il silenzio e la mia mano iniziava  a scostarsi da quella bocca morbida. Cosa mi era saltato in mente? Incollarmi così a lui? Ma dove avevo la testa? Ok, ci eravamo dati un bacio, ma non mi aveva fatto la proposta di matrimonio, che diamine! Oddio, che figuraccia avevo appena fatto, non mi sentivo così in imbarazzo dai tempi della scivolata a scuola; e fare due piani con il sedere a terra, è imbarazzante, poco ma sicuro.
Sentii le guance infiammarsi, mentre il sangue di tutto il mio corpo, andava a concentrarsi sul mio viso; possibile che quando ero con lui, la mia tonalità cutanea fosse perennemente il porpora? E dire che mi lamentavo sempre del mio colorito pallido.
Accelerai la ritirata delle mie dita dal suo viso, tentando contemporaneamente di alzarmi dalle sue ginocchia; che diamine, mi ero attaccata a lui come una cozza allo scoglio, un briciolo di contegno avrei potuto mantenerlo, no? Ma il mio tentativo di rimettermi in piedi fu annullato dal braccio di Ace, che mi trascinò nuovamente a sedere, e dalla sua mano, che catturò la mia, riportandola verso quelle labbra meravigliose. Il moro posò la sua bocca sulla mia mano, lasciando un leggero bacio sulle nocche e colorando d’amaranto le mie gote, caricandole ulteriormente d’imbarazzo, ma rubandomi un leggero sorriso.
«Mi piaci quando arrossisci e sorridi, lo sai?» Mi disse Ace, a bassa voce, intrecciando le sue dita con le mie mentre mi risistemava sulle sue ginocchia. E indovinate cosa ottenne? Una magnifica colorazione, maledettamente simile a quella degli arilli del melograno, un rosso granato troppo simile al bordeaux per i miei gusti. Mantenere un colorito vagamente simile al rosa pesca per dieci minuti filati, era chiedere troppo? Probabilmente sì.
Ma cosa mi aveva appena detto? Che… Che io gli piacevo quando arrossivo e quando sorridevo? Oddio, io gli piacevo? L’aveva detto sul serio? Non me l’ero immaginato? Non l’avevo sognato? Non sentivo le voci? No perché della mia vena di follia ero consapevole, ma se iniziavo a sentire le voci le cose si aggravavano.
Ace ridacchiò di nuovo, probabilmente per la mia espressione da pesce lesso, sforzandosi di non fare troppo baccano; cosa alquanto complicata per un pirata, a mio avviso. Quella risata stava colorando la mia vita, come un nuovo Sole che non emette una luce normale, non è il Sole che tutti conosciamo, è una novità, una stella mai vista, una luce che nessuno ha mai nemmeno immaginato. Giallo, rosso, blu, verde, arancione, che cosa sono? Non esistono, non sono mai esistiti, esiste solo il colore della felicità, il più bello di tutti, quello che cambia a seconda dell’intensità delle nostre emozioni, quello che ci fa sorridere e ci fa volare con pensieri leggeri e freschi. Un nuovo Sole che mi fa ridere, sospirare, piangere, che mi brucia e mi fa sognare, che mi fa respirare, accende il giorno e rischiara la notte, un fuoco che mi brucia dentro, ma che non fa male, non mi ferisce, non mi ustiona.
Sorrisi, finalmente libera dal dolore e libera di vivere il mio sogno, libera di ridere e di perdermi nelle fantasie, libera di ignorare la realtà, sostituendola con l’illusione, libera di fregarmene del mondo e di cosa avrebbe pensato, libera di ignorare tutto e tutti, tranne lui.
«Ecco, proprio così… Perfetta…» Affermò il moro, scostandomi un ciuffetto di capelli dalla fronte, incatenandomi ai suoi occhi con uno sguardo liquido e nero, come una notte di luna nuova tempestata di stelle lucenti. Un sorriso bellissimo andò a decorargli il viso, facendomi perdere completamente la ragione, cancellando ogni vago sentore di razionalità, rubandomi il cuore e rapendomi l’anima. Perfetta, a me? L’aveva detto? Ero proprio sicura di non sentire le voci?
Sentii qualcosa muoversi nel mio stomaco, c’era qualcosa di vivo nel mio petto, che si contorceva e tentava di scuotere il mio corpo, di farmi scoppiare di felicità e di emozioni indescrivibili. Passione, piacere, gioia, serenità, amore; ed ogni emozione premeva nel mio torace, soffocandomi di sentimenti e mozzandomi il fiato. Ero ormai al limite della follia, innamorata perdutamente di un disegno diventato reale, di un’animazione che ora stava davanti a me, fatta di carne, ossa e sangue.
«Comunque, ti stavo dicendo che è molto tardi, meglio andare a letto, no?» continuò Ace, vedendo che la mia risposta tardava ad arrivare, guardandomi con occhi furbi ed accattivanti. Oddio, intendeva a letto insieme? Cioè, intendeva dormire da me? No, no, no, no, no, non era fattibile! Ok che era tardi, ma mia madre era sicuramente sveglia ad aspettarmi! Anzi, probabilmente mi stava già maledicendo perché l’indomani avrebbe dovuto alzarsi presto, per andare a correre con il cane, e le stavo facendo perdere ore di sonno preziose. Sgranai gli occhi a quelle parole, stampandomi in faccia la perplessità e la preoccupazione, e di tutta risposta sul volto del moro passarono diverse emozioni: stupore, perplessità, ancora stupore ed infine imbarazzo. E vedere imbarazzo sul volto di Ace era un’esperienza magnifica.
 «Cioè, così riposi… E domani magari passo a prenderti e facciamo un giro da qualche parte, se ne hai voglia…» Aggiunse il moro, grattandosi leggermente la nuca e tentando di nascondere il leggero rossore che gli aveva imporporato le guance. Avevo fatto arrossire Portuguese D. Ace, e brava Selene! Mi sarei goduta la vittoria e la soddisfazione, se l’imbarazzo del moro non avesse sottolineato ulteriormente la mia stupidità. Cosa mi era saltato in mente? Era ovvio che non sarebbe entrato in casa con me! Non poteva mica fermarsi a dormire “dalla prima che passa”, sicuramente Barbabianca e Marco lo stavano aspettando da qualche parte! Che qualcuno mi dia una pala e un piccone, così inizio a scavarmi una buca sotto i piedi, e mi ci infilo per l’eternità. Ma si può essere tanto cretine? A quanto pareva, sì.
«C-certo che ne ho voglia!» Riuscii a balbettare, evitando accuratamente di incrociare il suo sguardo, mentre le mie guance raggiungevano la tanto agognata colorazione bordeaux. Intanto Ace continuava a ridacchiare, mentre io iniziavo lottare contro uno sbadiglio, che voleva uscire a tutti i costi. Resistere era impossibile, così, nascondendomi con la mano e sperando che il pirata non mi notasse, sbadigliai. Ovviamente però, le mie fauci spalancate furono viste;  le braccia del moro mi strinsero un po’ più forte, e un secondo dopo ero in braccio a  lui, che alzatosi mi stava posizionando sull’ultimo gradino, attento a non farmi perdere l’equilibrio. Mi voltai a guardarlo, incontrando il suo viso divertito e monello; quanto poteva essere bello un viso? I modelli, gli attori, i cantanti, c’erano tantissimi ragazzi in giro, che avevano un bel viso, ma cosa rendeva il suo tanto magnifico? Le lentiggini, che spruzzate disordinatamente sulle gote, gli conferivano quell’aria fanciullesca? Gli occhi, che neri come il petrolio scintillavano di misteri? Oppure le labbra, piene e perfette, che promettevano emozioni uniche? Cos’era a renderlo tanto bello? Forse era il complesso dei dettagli, forse solo uno di essi faceva la differenza, fatto sta che con quegli occhi allegri e quel sorriso malandrino mi facevano battere il cuore a fasi alterne.
Vidi il suo sorriso accentuarsi, mentre si sporgeva verso d me, fino ad arrivare a pochi centimetri dalle mie labbra.
«Ok, allora a domani, e buonanotte…» Sussurrò, sfiorandomi la bocca con quelle calde parole, poi sostituite dalle sue stesse labbra. Sospirai, perdendo un battito e lasciandomi sciogliere da quel bacio, sciogliendomi in quel contatto di carne e fuoco, accasciandomi contro il suo petto e cingendogli il collo, mentre le sue mani scorrevano sulla mia schiena. Ogni centimetro del mio corpo che veniva sfiorato dal suo, mandava scariche elettriche al mio cuore ed al mio cervello, facendomi perdere battiti, respiri, pensieri, tutto. Quando poi sentii la lingua calda del moro, lambirmi il labbro inferiore, come volendo chiedere il permesso di entrare, persi ogni tipo di raziocinio. Schiusi le labbra, lasciando che il sapore del ragazzo di fuoco mi inondasse la bocca, lasciando che le nostre lingue si conoscessero meglio, che danzassero insieme e che si assaporassero. Aveva un sapore perfetto, vellutato e dolce, ma rovente e passionale, come lui. Quella era sicuramente la miglior “buonanotte” che avessi mai ricevuto.
Allontanammo le nostre labbra, unendo le nostre fronti con un ansito, rimasti ormai senza fiato; avevo il cuore impazzito, che batteva disperatamente, correndo verso Ace, tentando di raggiungerlo a tutti i costi.
«Buonanotte…» Sussurrai, sfregando il naso contro quello del moro e sorridendo. In quel momento, ero veramente la persona più felice del mondo.
Ace mi sorrise e, lasciandomi un leggero bacio sulla fronte, si allontanò camminando all’indietro, sempre sorridendomi, voltandosi solo una volta arrivato all’angolo del vialetto. Ridacchiai girandomi ed infilando la chiave nella toppa.
Entrai in casa, facendo meno rumore possibile, girando lentamente la chiave e chiudendo con delicatezza il chiavistello, senza accendere troppe luci, accontentandomi della scarsa illuminazione fornita dalle luci di cortesia e dai lampioni della strada, che attraverso i leggeri tendaggi illuminavano leggermente l’atrio. La casa era in silenzio, solo il cane si era degnato di venirmi a salutare, picchiettando le sue unghiette sul legno del pavimento, e la cosa mi andava benissimo! Dopotutto era veramente tardi, magari il sonno aveva avuto la meglio su mia mam-
«Bentornata!» Sussultai, trattenendo a stento un urlo da film horror, mentre colei che mi aveva dato la vita, ed ora aveva appena tentato di togliermela, scendeva dalle scale buie.
«Ma vuoi farmi morire?» Ringhiai di tutta risposta, portando una mano sul cuore, già provato dai baci del bel pirata, mentre mia madre scendeva gli ultimi gradini ridendo divertita. Di solito ero io che mi divertivo come una matta a farle scherzi da infarto, non viceversa!
«Esagerata! Credevi davvero che mi sarei lasciata sfuggire l’occasione di parlarti? Sono mesi che rispondi a monosillabi o mentendo spudoratamente, ed ora compare quel ragazzo e ti vedo sorridere, imbarazzarti, emozionart-»
«Ci hai spiato! Lo sapevo! Impicciona! È tanto difficile concedermi un briciolo di privacy?» La interruppi, puntandole contro l’indice ed avvicinandomi a lei, che di tutta risposta non aveva ancora smesso di ridere.
«Oh non fare l’offesa, sapevi benissimo che avrei dato una sbirciatina! E poi è così bello vederti sorridere di nuovo!» Mi rispose, voltandomi le spalle ed avviandosi verso la sua camera. Tutto qui? Niente domande? Non me la contava giusta, per niente. La seguii, osservandola attentamente; non sembrava tradire nessuna curiosità o tensione, era la solita, forse un po’ assonnata ma… No, un momento, cosa ci faceva con il cellulare in mano a quell’ora? Lei proprio, che se lo dimenticava perennemente in borsa, ora girava per casa con il cellulare?
«Chiamavi qualcuno?» Chiesi dubbiosa, ottenendo solamente un sorriso tirato ed un rapido gesto della mano, mentre l’oggetto imputato veniva riposto sul comodino. Io forse non ero brava a mentire, ma mia madre lo era ancora di meno. Con uno scatto rapido afferrai il telefono, saltando poi all’indietro mentre schiacciavo il tasto verde di chiamata, per vedere le ultime telefonate. Altro che ninja e pirati, schivare gli attacchi di una madre è molto più impegnativo!
«Hey, io non ficco il naso nelle tue cose! Ridammelo!» Esclamò allarmata, mentre si lanciava all’attacco tentando di rubarmi di mano quell’arnese infernale, che non si decideva a sbloccare quella maledetta tastiera. Quando finalmente riuscii a visualizzare le chiamate ringhiai, ridando il telefono a quella spiona. Tre sillabe avevano chiarito tutto quanto: E-le-na!
Continuai a ringhiare, chiudendomi in camera ed afferrando il mio telefono. Composi il numero della mia amica ed attesi. Uno squillo, due squilli, tre squilli.
«Pronto?» Rispose poi, fingendosi assonnata.
«Risparmia la recita, razza di impicciona ficcanaso! Posso sapere almeno che hai detto esattamente a mia madre, visto che in cambio della telecronaca in diretta avrà sicuramente voluto conoscere i dettagli della storia?» Sibilai, facendo deglutire Elena.
«Le ho solo confidato che probabilmente sarebbe diventato il tuo ragazzo, che vi piacevate da parecchio ma che entrambi eravate troppo occupati e stupidi per rendervene conto. Le ho anche accennato che è uno dei personaggi di ONE PIECE, ma non ha fatto molte obbiezioni, sembrava molto contenta per te… Non imbronciarti, siete stati così teneri!!!» Pigolò l’infame traditrice, guadagnandosi un altro ringhio. Non ero veramente arrabbiata, ero solamente sconvolta da quell’alleanza maledettamente pericolosa per la sottoscritta.
«Non ti rispondo nemmeno. Ora vado a letto perché sono stanca, ma sappi che mediterò la mia vendetta!!!» Minacciai, lasciandomi però scappare un risolino, che mandò a monte tutta la minaccia.
Salutai Elena e mi cambiai, indossando un paio di minishorts comodissimi ed una canottiera, eravamo agli sgoccioli di settembre, ma il caldo soffocante non aveva ancora deciso di dare tregua; eravamo ancora nella fase “dormiamo con le finestre aperte ed in mutande”, unico modo per sopportare l’afa.
Quando finalmente poggiai la testa sul morbido guanciale e chiusi gli occhi, fui immediatamente affiancata dal mio stupidissimo canide fifone, terrorizzato da ogni singola auto che passasse, che ogni notte si spalmava sul mio fianco. Già, perché non bastava il caldo, mi ci voleva proprio un ammasso di pelo con cui condividere il letto. Stupido cane.
Mi girai su un fianco, abbracciando quel groviglio di peli e tenerezza, ignorando la temperatura e carezzandogli le orecchie. Era stupido, era un fifone, ma era il MIO cane stupido e fifone, e quando ne avevo bisogno lui c’era sempre, con i suoi occhioni color nocciola. Lo coccolai tutta notte, incapace di prendere sonno, incapace di frenare il fiume di ricordi e pensieri, che mi riproponeva continuamente i baci di quella sera, non lasciando tregua al mio povero cuore, e mi faceva riflettere sui mesi passati. Io sicuramente avevo sofferto molto, ma cosa avevo fatto passare a mia madre? E ad Elena? Pensavo di essere stata brava a mentire, di aver finto abbastanza bene, di aver recitato con maestria la mia parte, ed invece ero stata incapace di celare il mio dolore. Le avevo fatte preoccupare, avevo fatto preoccupare tutti, ed era normale che la prospettiva di un mio cambiamento d’umore le facesse felici. Come potevo arrabbiarmi se avevano ficcanasato nella mia vita, quando io avevo rattristato la loro con la mia sofferenza? Semplice, non potevo. Il campanile della chiesa scandiva le ore, con sordi rintocchi cadenzati. Le quattro, le quattro e un quarto, le quattro e mezza, le quattro e tre quarti, le cinque… E poi probabilmente Morfeo si decise a fare il suo lavoro e mi addormentai, sognando solamente ricordi, niente di nuovo, niente di futuro, solo piccoli attimi passati, magnifici, piccoli attimi passati.



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Ma buongiorno!!!! Eccomi qui ^_^ Stavolta sarò breve, lo prometto! allora, due "avvisi", il primo riguarda Lenhara, ufficialmente eletta mia Tramabeta! xD
Il secondo riguarda tutte le fan della coppia ElenaxLaw! infatti, Hamber of the Elves, ha scritto una magnifica Drabble su questa coppia, inserita nella sua raccolta dedicata a vari personaggi di OP (la potete leggere QUI) e volevo ringraziarla pubblicamente di aver dato vita ai pensieri di un mio personaggio, al quale io non avevo potuto dare abbastanza spazio ^^ (leggetela davvero, è bravissima!)
Beh, che altro dire? Ho aggiornato anche la raccolta demenziale du Marco e d ora rispondo alla domanda, dicendo che Nessuno dei miei amici e parenti sa della mia passione per la scrittura, mi vergogno troppo !! ma sono contenta che moltissimi di voi invece, hanno un appoggio da parte della famiglia!! per tutti quelli che invece lavorano nell'mbra, beh.. troveremo il coraggio di dichiararci "scrittori" un giorno? mah xD mistero! xD
Ora passo alla domanda:

Di dove siete? da quali angoli dell'Italia ( o non), venite? ^_^ 

Ora chiudo ringraziando i nuovi recensori, mi ha fatto veramente tanto piacere vedere nuovi nomi nell'elenco ^///^, e ovviamente anche quelli storici, siete veramente fantastici e non sarò mai in grado di ringraziarvi abbastanza per il supporto che mi date!!!!
Bacioni e al prossimo capitolo!!!

Immagini e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di lucro

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Capitolo 21
*** 20. Il piromane e il felino ***


c1




Porte che sbattono, campane che suonano, il cane che per scendere dal letto mi passa delicatamente sopra (ed immaginatevi quanto possano essere delicati venti chili sulla schiena), mia madre che si prepara per uscire, chiavi che girano nella toppa, il ticchettio delle unghiette sul legno ed il tonfo sordo della porta d’ingresso che si chiude. Odio la domenica mattina. Con ogni fibra del mio essere, con ogni insignificante molecola del mio corpo.
Un cancello si chiude, una macchina parte, e finalmente la pace. Ma perché se un figlio rientra tardi, o si sveglia durante la notte, si spacca le gambe pur di non fare rumore, mentre le care mammine se ne infischiano se il pargolo sta dormendo, correndo per casa con i tacchi, accendendo l’aspirapolvere o sbattendo le porte? Che qualcuno me lo spieghi, perché proprio non riesco a capirlo.
Sbuffai rigirandomi nel grande letto matrimoniale, gustandomi quel silenzio appena conquistato, e ritornando felicemente tra le braccia di Morfeo. Fortunatamente avevo un’innata attitudine a riaddormentarmi all’istante, anche se il sonno era più leggero, erano pur sempre attimi di notte rubati al giorno. In quei momenti più che sognare pensavo, diciamo pure che facevo viaggi mentali, ma comunque controllati, almeno in parte. Potevo immaginarmi qualsiasi cosa: ad esempio le labbra di Ace sulle mie, oppure i suoi abbracci e i suoi capelli, il profumo della sua pelle ed il sapore dei suoi baci. Sorrisi affondando il viso nel cuscino e raggomitolandomi un po’. Il caldo era ancora soffocante nel pomeriggio, ma la mattina si stava bene, maledettamente bene, quindi potevo restare ancora a letto, coperta solo dal leggero lenzuolo, e sognare.
Un soffio rabbioso, non so quanto tempo dopo, mi fece aprire gli occhi, che mi mostrarono il mio gatto con il pelo irto, la coda gonfissima e le orecchie tirate indietro; cosa gli era preso a quell’ammasso di pelo?
Lasciai cadere pigramente un braccio fuori dal letto, chiamandolo dolcemente con piccoli schiocchi delle labbra, ma ottenni solo un atro soffio e qualche passo a lato. Ok, probabilmente non avevo un bell’aspetto di mattina, ma addirittura reagire così mi pareva esagerato. Stupido gatto. Mi alzai, scostando il lenzuolo e gettando le gambe a penzoloni fuori dal materasso, sfiorando con i piedi le assi del pavimento e sbuffando. Mi stiracchiai un pochino e, facendomi forza mentalmente, mi rizzai in piedi dirigendomi poi verso il bagno. Dio, che fatica alzarsi la mattina, ancora di più se avevi dovuto interrompere un dolce ricordo con un certo zolfanello.
Dopo essermi sciacquata la faccia e lavata i denti, mi guardai allo specchio; non ero nemmeno messa così male, i capelli un po’ scompigliati ed un velo di trucco sbavato sotto gli occhi, niente di sconvolgente insomma. Mi pulii bene il viso e ritornai verso il letto, coprendomi gli occhi con il braccio perché non soffrissero a contatto con la luce, e trascinando i piedi. Ero stanca, e avrei dormito. Era domenica mattina. Dovevo dormire.
Ignorai il gatto ancora gonfio ed Ace che mi guardava perplesso, sdraiato sul mio letto, e mi rigettai sul materasso, abbracciando il cuscino fresco e chiudendo gli occhi, finalmente libera di sonnecchiare ancora un po’.
No, un attimo, cosa era appena successo? Ricapitoliamo. Ho ignorato il gatto, e fin qui tutto ok; ho ignorato Ace sdraiato sul letto, e qui non va tutto ok!
Mi irrigidii immediatamente, sbarrando gli occhi e girandomi di scatto, trovando il viso del moro sorridente e monello. Ok, cosa ci faceva lui nel mio letto?
Aprii la bocca per parlare, ma riuscii solo a comporre gorgoglii e suoni sconnessi, niente di comprensibile o vagamente interpretabile. Intanto il mio cuore iniziava a perdere il suo ritmo, saltando battiti ed accelerando, possibile che il solo vederlo mi facesse questo effetto?
Il pirata rise, nascondendo il viso sul cuscino per non fare rumore, e lasciandomi lì come un pesce lesso, a guardare i suoi muscoli perfetti contrarsi. Ripeto la domanda: cosa ci fa Ace a petto nudo sul mio letto?
«Mi stavo pendendo di non averti fatto una fotografia mentre dormivi, ma mi pento ancora di più per non aver immortalato la tua faccia quando mi hai visto!» Ridacchiò singhiozzante il moro, sollevando il volto dal cuscino e guardandomi divertito. Sbattei le palpebre più volte, tentando di convincere il mio cervello a metabolizzare l’immagine che gli occhi trasmettevano.
Le ciocche di capelli neri e ribelli che cadevano leggere sul cuscino e sul viso, gli occhi luminosi ed il sorriso beffardo, le perle rosse della collana appoggiate come stille di porpora sulle sue spalle muscolose, ed il suo corpo perfetto sdraiato sul bianco delle lenzuola. Stavo ancora sognando? Sicuramente.
Chiudo la bocca, mettendomi a sedere e sistemando svelta canotta e shorts, troppo corti perché non mi sentissi in imbarazzo; infatti, tanto per cambiare, arrossii. Da quanto tempo era lì ad osservarmi? E se avessi avuto l’abitudine di dormire nuda? O in mutande? Diventai color peperone al solo pensiero di quell’eventualità, un ragazzo non poteva entrare così nella camera di una donna mentre dormiva, tanto più se la donna in questione era innamorata persa di lui; rischiava di farle avere un collasso! Ma sinceramente, avevo Ace mezzo nudo sul mio letto, me ne fregava davvero qualcosa di un eventuale collasso? No, decisamente no.
Ace rise, ancora più divertito dal mio imbarazzo, e si allungò verso di me, avvicinando il suo viso al mio e lasciandomi un tenero bacio sulla punta del naso.
«Buongiorno…» Mi sussurrò sulle labbra, sciogliendomi il cuore e mozzandomi il fiato, appoggiando poi delicatamente le labbra alle mie. Bacio al fuoco per colazione, ho mai detto quanto adoro la domenica mattina?
Sorrisi, mentre le nostre labbra si salutavano teneramente e nel mio petto esplodeva la felicità. Sentivo il cuore battere scoordinato, perdendo battiti ed accelerando pericolosamente, sentivo i polmoni contrarsi e distendersi in modo innaturale e lo stomaco contorcersi quasi dolorosamente, eppure ero felice. Sì, ero maledettamente felice, perché stavo vivendo un sogno, e nessuno avrebbe mai potuto privarmi di quei ricordi, nessuno; nemmeno il dolore atroce che avrei provato alla partenza del moro, sarebbero rimasti per sempre nel mio cuore spezzato, intatti ed eterni attorno alla desolazione di un amore infranto.
Avvertii Ace muoversi sulle lenzuola, strusciando il suo corpo perfetto sul morbido tessuto, per poi percepire la sua vicinanza. La mano del moro iniziò ad accarezzarmi il viso, scivolando poi lentamente sul collo, facendomi rabbrividire e risalendo sulla nuca, per poi intrecciare le dita ai miei capelli ed attirarmi più vicina, stringendomi a se con più foga. Sentii il petto del pirata sotto le mie mani, che iniziarono a vagare libere ed incontrollabili, seguendo le linee perfette di quel fisico atletico. La pelle era rovente e tesa, perfettamente liscia sotto le mie dita leggere, troppo timide per osare troppo ma non abbastanza pudiche per non bearsi di quel paradiso. Perché Ace era il paradiso personificato, perfetto e magnifico. Non credevo nel “regno dei cieli” o altro a dire la verità, ma quel corpo non poteva che essere un paradiso dei sensi, una beatitudine e una delizia carnale.
Scesi fino all’addome, lentamente e percependo la forza di ogni singolo muscolo, per poi risalire altrettanto adagio verso le spalle larghe, avvinghiando con la mano destra ai crini neri del ragazzo, mentre con la sinistra assaporavo la squisitezza dei lineamenti del suo viso. Il mio petto ormai era in fiamme, divorato dal calore del pirata, ed il battito cardiaco risultava talmente sregolato, da essere quasi inavvertibile.
Nel frattempo le nostre labbra continuavano a danzare voraci, ormai sveglie ed affamate, assieme alle lingue bollenti. Fu questione di un secondo, e mi ritrovai con la testa sprofondata comodamente nel cuscino, ed il corpo di Ace premuto sul mio in un caldo abbraccio, che però non pesava su di me. Le braccia forti del moro erano tese, con i muscoli guizzanti sotto la pelle abbronzata e liscia, il torace scolpito come marmo pregiato, ma caldo oltre ogni dire, ed era tutto lì, a portata di mano. Quella vicinanza inaspettata mi fece arrossire, annodandomi ancora di più lo stomaco e facendomi esplodere il petto di emozioni e sentimenti. Amavo quel ragazzo di fuoco, anche se lo conoscevo solo attraverso disegni e fantasie, anche se sapevo che insieme avevamo passato solo poche ore, anche se lui non conosceva praticamente nulla di me; in quel momento ero felice e stavo bene, e non avrei cambiato nulla di quel momento, mai.
Sentii la sua mano sfiorarmi il fianco nudo e scendere sulla gamba. Rabbrividii e mordendo la morbida carne del suo labbro, feci scorrere le dita sul petto e sulla schiena del moro, che si inarcò leggermente, stringendo la mano sul mio ginocchio e schiacciandosi un po’ di più sul mio corpo, lasciando sfuggire dalle labbra arrossate un gemito, che fece eco al mio.
Ormai la ragione si era spenta, offuscata dalla passione e dalla foga del momento, ottenebrata dalla bellezza di quei gesti e di quel corpo scultoreo, annebbiata dalla morbidezza di quelle labbra e dalla dolcezza che quei tocchi. Sì, perché c’era passione e desiderio, ma era tutto avvolto da una nuvola di densa dolcezza, come zucchero filato, che rendeva tutto più magico, più giusto, meno frettoloso. Semplicemente perfetto.
Le mie mani passavano lievi sui suoi tatuaggi, sondandone i contorni e sfiorandone il leggero rilievo. Chissà se gli aveva fatto male farli, io non avevo sofferto con il mio, ma era piccolo, non un enorme Jolly Roger e nemmeno una scritta. Quelle cicatrici d’inchiostro erano le uniche di quel corpo di fuoco e, come le lentiggini, lo rendevano ancora più bello.
Ma rimaneva sempre quella domanda a cui dare risposta: cosa ci faceva Ace, mezzo nudo, nel mio letto, di domenica mattina?
Dovevo chiederglielo, anche se ciò avrebbe comportato separare le nostre bocche per qualche secondo; dovevo sforzarmi, impormi di interrompere per un attimo quel bacio, attingendo a tutta la mia forza di volontà.
Staccai leggermente le labbra dalla sua bocca, sorridendo e respirando il suo profumo, sfiorando il suo naso con il mio, beandomi di quelle iridi liquide che mi guardavano intensamente, come se fossero composte da fiamme nere e lucenti.
«Buongiorno anche a te… Cosa ci fai qui?» Sospirai, una volta ripreso fiato, mentre continuavo a far scorrere le dita sulla schiena del ragazzo, che a sua volta continuava a disegnare magnifici disegni astratti su un lembo di pelle scoperta del mio ventre.
«Te l’avevo detto che oggi sarei passato a prenderti, no?» Mi sorrise beffardo, sussurrando le parole a pochi centimetri dal mio orecchio e provocandomi una tachicardia preoccupante.
«Sì ok, ma come hai convinto mia madre a farti entrare? Non ti ho sentito…» Chiesi, tentando di ritrovare un minimo di contegno e di capire come era finito lui sul mio letto, quesito che mi lasciava ancora abbastanza perplessa. Vidi il viso di Ace assumere un’espressione stranita, che avrebbe dovuto allarmarmi in effetti, ma al momento mi pareva solo maledettamente buffa e carina.
«Tua madre? Io sono entrato dalla finestra, non l’ho nemmeno incrociata.» Mi rispose tranquillo, facendo spallucce e guardandomi come se entrare dalla finestra in una casa di domenica mattina, fosse la cosa più normale del mondo. Ma non lo era diamine! E se i vicini l’avessero visto? E se mia madre fosse tornata? Stupido pirata!
«Come sarebbe a dire, “sei entrato dalla finestra”? Stai scherzando vero? Ti ha visto qualcuno? E come hai fatto ad arrivare alla finestra? No aspetta!», dissi svelta mettendo una mano sulla bocca schiusa del moro, «Questo credo di non volerlo sapere! Ma alle altre rispondi, grazie!» Terminai con un velo di panico nella voce. Come avrei giustificato questa storia con i vicini? Sperai con tutto il cuore che nessuno l’avesse visto, mentre toglievo la mano dalle labbra di Ace, attendendo una risposta ed una spiegazione più che valida. Non che averlo lì sulle mie lenzuola non mi facesse piacere, sia chiaro, però non avevo voglia di affrontare eventuali interrogatori dalla polizia, in seguito a varie segnalazioni dei vicini che affermavano di aver visto un ragazzo a torso nudo entrare in casa mia dalla finestra. Ace mi sorrise, avvicinando di nuovo le labbra al mio viso e lasciandomi un dolce bacio sulla fronte, prima d rispondermi con l’orgoglio nella voce:
«Sono un pirata Selene, e sono il comandante della seconda flotta di Barbabianca, sono bravo a non dare nell’occhio quando serve; in più la finestra non è poi così difficile da raggiungere, basta saltare dalla ringhiera delle scale e poi infil-»
«Ok, ok. Basta così, non voglio sapere altro, mi fido!» Asserii rapida, interrompendo la cronaca delle prodezze da saltimbanco del moro, che ridacchiando si spostò con il corpo di lato, trascinandomi con se ed invertendo le posizioni. Ero stesa, in shorts e canottiera, a cavalcioni, su Portuguese D. Ace, che si trovava sul mio letto.
Uno strano calore iniziò a diffondersi nel mio corpo, facendomi accaldare e desiderare ancora più contatto con la pelle rovente di Ace. Fui accontentata dalle mani del moro, che iniziarono a solleticarmi la schiena sotto la maglia, in un abbraccio bollente, mentre la mia guancia era poggiata sul suo petto. Potevo sentire il battito del suo cuore diventare irregolare quando la mia mano sfiorava la sua pelle, e sentii quel muscolo saltare un battito quanto strisciai verso il suo collo, per potervi nascondere il viso ed assaporarne il profumo. Com’era bello restare così, ad ascoltare l’uno il respiro dell’altro, chiudendo il mondo fuori e godendosi l’attimo, gustando quel momento perfetto, assaggiando per un istante il paradiso. Folle cotta per un cartone animato? Ma che vadano tutti al diavolo, ero innamorata di quel ragazzo, ed ora lui era reale, quindi perché censurare il mio amore? Perché precludermi la possibilità di vivere il mio sogno? Perché ascoltare le voci invidiose della gente? Io con lui ero felice, ero contenta, ero viva, echi non riusciva a capirlo… Beh, che vada a farsi fottere.
«Il tuo gatto mi odia, credo.» Sospirò il moro con tono divertito, ridacchiando e facendo vibrare il suo petto con quella risata, risvegliandomi dai miei pensieri. Facendo leva sulle braccia mi sporsi, in modo da poter vedere il mio micio, ancora gonfio e allarmato, che circumnavigava il letto, senza però avvicinarsi. La curiosità uccide il gatto, dicono, ma il mio fifone non aveva la minima intenzione di avvicinarsi ad Ace, un pericolosissimo estraneo. Non lo sa il povero felino, quante ragazze darebbero la vita pur di essere coccolate, anche sottoforma di gatto, dal bel fiammiferino. Che bello però, rinascere gatto; non fai nulla, dormi, vieni servito e venerato, punto. Non è come il cane, da cui si pretende ubbidienza, al gatto nulla viene imposto, si prende quello che è disposto a dare, che siano coccole, fusa o artigli. Eppure io adoravo il mio gatto, nonostante fosse una peste dispettosa e mi avesse rovinato non so quante scarpe, lo adoravo; perché quando lo vedevo dormire, spalmato sul pavimento a pancia in su, tutti i miei problemi svanivano davanti alla sua bellezza. In un certo senso Ace somigliava ad un gatto, diffidente ed indipendente, mai schiavo, nessuno poteva possedere un gatto. Ed io non possedevo Ace. Mi rabbuiai a quel pensiero, ma lo scacciai velocemente, non avrei permesso al futuro già scritto, di rovinarmi un presente da vivere.
«Non preoccuparti, fa così con tutti quelli che non conosce, tra poco ti assalirà i piedi con le unghie sguainate.» Risposi sorridente, voltando il viso verso quello di Ace e perdendomi per qualche secondo a contarne le lentiggini; non erano tante, ma gli donavano quell’aria malandrina che lo rendeva irresistibile.
Il pirata si voltò verso di me, sorridendo sereno ed allungando il collo per baciarmi di nuovo, ed io lo lasciai fare, sprofondando di nuovo nell’oblio morbido e dolce della sua bocca, lasciando al tatto e al gusto tutto il piacere di quell’attimo, chiudendo gli occhi ed abbandonandomi contro il suo petto. Nemmeno nei miei sogni più belli, avevo immaginato di poter vivere un’esperienza simile. Mai.
Mentre il mio corpo perdeva la sua forma solida, sciogliendosi sotto le carezze ed i baci di Ace, un ultimo barlume di razionalità si fece largo in me, facendomi udire un motore che si spegneva ed un freno a mano che si tirava; il tutto maledettamente vicino a casa mia.
«Porca vacca!» Esclamai aprendo gli occhi di scatto e drizzando il busto. Non mi resi conto, o quasi, di trovarmi a cavalcioni sull’addome di Ace, troppo spaventata da quello che stava per succedere.
«Uhm? Che c’è?» Chiese confuso il moro, appoggiandosi sui gomiti ed inclinando leggermente la testa a lato; personificazione della perplessità.
«È tornata mia mamma! Cosa facciamo? Non può trovarti qui!» Stridetti, rasentando l’isteria, mentre mi toglievo dal corpo del pirata e rotolavo giù dal letto. Una volta in piedi iniziai a camminare, sempre più agitata, sentendo il cancello aprirsi ed i passi di mia madre avvicinarsi alla porta. Cosa potevo fare? Se mi avesse trovata a letto con un ragazzo? Ok, forse non mia avrebbe uccisa, ma che imbarazzo! E la ramanzina l’avrei sentita sicuramente! Per non parlare del “discorso”, che non avevo minimamente voglia di fare con lei all’età di vent’anni. Assolutamente no.
Il panico e la paura presero il posto della passione e della dolcezza, e lo scalpiccio del cane fuori dalla porta, non aiutava il processo di auto calmarsi.
«Vai sotto il letto, e preparati ad uscire silenziosamente appena ti avviso! Svelto!» Dissi rapida e concitata al moro, praticamente scaraventandolo giù dal letto e facendolo cadere dalla parte opposta. Mi sentii in colpa, ma almeno era nascosto, anche se mia madre avesse sbirciato in camera. La chiave entra nella toppa ed inizia a girare, mentre sento Ace trascinarsi sotto il letto grugnendo qualcosa tipo “ma tu guarda cosa mi tocca fare”.
La serratura scatta, la porta si apre, con un leggero cigolio della maniglia, mentre esco dalla camera, sperando che non si vedano le labbra gonfie di baci, l’affanno sul viso e l’ansia negli occhi.
«Ciao mamma!» Saluto allegra, stampandomi un sorrisone in faccia ed accogliendo il cane, che scodinzolante mi corre incontro.
«Buongiorno, cosa ci fai sveglia? Sono solo le… Dieci e mezza, di solito fino a mezzogiorno non dai segni di vita!» Risponde mia madre, guardando l’orologio e poi fissandomi dubbiosa. Maledetto sguardo indagatore dei genitori, sembra che ti rubino l’anima quando lo usano!
«Hem, mi hanno svegliato le campane e poi non avevo più sonno.» Mentii spudoratamente, evitando di incrociare il suo sguardo con la scusa di coccolare il cane, che annusava disperatamente me e l’aria. Pregai che non gli venisse la malsana idea di abbaiare al letto, mentre lo distraevo con moine e coccole varie.
«Ok… E cosa è successo al gatto?» Chiese ancora, con un tono maledettamente sospettoso, indicando lo strano incrocio tra un felino ed un procione che camminava verso di lei, uscendo dalla mia stanza in stato di allarme. Fifone di un gatto, imparentato con tigri e leoni? Ma dove?
«Visto? È tutta mattina che gira così per casa… L’avrà spaventato il vedermi sveglia!» Risposi furbamente, ridacchiando mentre mi raddrizzavo e guadagnandomi l’ennesima occhiataccia indagatrice; Mihawk occhi di falco a confronto, era un tenero cardellino.
Rabbrividii pensando a cosa avrebbe potuto farmi il flottaro, se avesse sentito quel pensiero; altro che sashimi di Selene, mi avrebbe tritata come prezzemolo: fine fine.
«Sì… Può essere. Dov’è finito il cane ora?» Domandò sguardo d’acciaio avanzando verso di me e guardandosi attorno. Odiavo il sesto senso delle madri, con tutta me stessa. E dove diavolo era andato a finire quello stupido cane da tartufi mancato?
«L’avrai sfiancato poverino, sarà a cuccia!» Risposi, lasciando trapelare dalla mia voce un leggero panico, cercando con lo sguardo il cane.
«Già, fa un caldo soffocante al Sole! Vado a farmi la doccia ora, tu fai calmare il gatto che tra un po’ esplode.» Affermò infine, accennando al gonfiore del micio che ormai camminava persino storto, pur di mantenere intatta la gobba sulla schiena. Ma si poteva ridursi così solo perché un estraneo era balzato in casa dalla finestra? Sì, beh… Forse detta così è giustificabile la reazione del gatto, ma ora poteva anche calmarsi!
«Ok, fai con calma!» Le dissi, pentendomene immediatamente. In pratica le avevo appena confermato tutti i sospetti, dicendole “Brava mamma, chiuditi in bagno per una mezzora, così posso far scappare il pirata che ho nascosto sotto al letto”. Complimenti Selene, meriti il premio nobel per questa uscita. Geniale.
Lei aguzzò lo sguardo, fissandomi intensamente e, ne sono certa, scannerizzandomi l’anima, ma poi scosse la testa e si diresse verso la cabina armadio. L’avevo scampata? Forse.
Prese i vestiti e si chiuse in bagno, mentre io mi accasciavo stremata contro lo stipite della mia camera. Quanto stress tutto in una volta, e non era nemmeno mezzogiorno. Appena l’acqua della doccia iniziò a scrosciare, e sentii la porta di vetro chiudersi, entrai in camera per catapultare Ace fuori da casa mia. Era stato il risveglio più bello di tutta la mia vita, ma ora quel magnifico ragazzo di fuoco, doveva sparire.
La scena che mi trovai davanti entrando in camera, sfiorava il ridicolo. Il mio cane sbirciava ringhiando sotto al letto, mentre il gatto continuava la sua buffa danza, tentando di girare attorno al letto senza avvicinarvisi.
Ridacchiando spostai di peso il cane e sbirciai verso Ace, che rannicchiato mi guardava abbastanza contrariato. Ridacchiai ancora più forte, zittendomi da sola con una mano sulle labbra, e gli feci cenno di uscire. Dopo svariate ginocchiate e testate, il moro riuscì a sgusciare fuori dal letto e a rimettersi in piedi.
«Il tuo cane ha tentato di uccidermi!» Asserì, guardando di traverso il botolo di pelo ringhiante.
«Ti conviene farci amicizia subito, altrimenti ti abbaia contro e non ho la minima intenzione di giustificare a mia madre anche questo comportamento bizzarro, basta il gatto con una crisi d’identità, non mi serve il cane sclerotico.» Risposi sarcastica, accucciandomi verso il cane ed invitando Ace a farci amicizia. La belva feroce dal canto suo, dopo tre carezze si era già sdraiata a zampe all’aria, implorando con gli occhi il pirata di grattargli la pancia. Il moro ridacchiò, coccolando ancora per qualche istante il cane, per poi azzardarsi ad allungare una mano coraggiosa verso il gatto formato procione. Pessima idea.
Un soffio, un miagolio rabbioso ed ecco le affilate unghiette del felino, conficcarsi nel palmo di Ace.
«Ahia, ma che ti ho fatto?» Esclamò offeso il pirata, facendomi ridere e guadagnando un altro sbuffo dal gatto. Quel micio era un personaggio, avrei dovuto chiamarlo Chopper, visto che ormai era più un procione che un felino.
«Deve ancora conoscerti, dagli tempo. Ma ora devi andartene!» Dissi sbrigativa, spingendo il moro fuori dalla camera, verso la porta d’ingresso.
«Ok, posso tornare oggi? Magari usciamo un po’…» Protestò, mentre tentava di camminare infilandosi gli stivali. Mi chiedeva il permesso di tornare? Che idiota, non aveva ancora capito che avrei passato ventiquattrore al giorno con lui?
«Certo! All’una va bene?» Risposi contenta, pensando già alle corse che avrei dovuto fare per essere pronta tanto presto, ed aprendo l’uscio.
«Perfetto, a dopo allora!» Mormorò, girandosi verso di me, lasciandomi un bacio a fior di labbra e disegnandomi un sorriso beato sul volto.
«A dopo…» Salutai, mettendomi in punta di piedi per dargli un ultimo bacio, prima di spingerlo fuori con la mano che poggiava sul suo petto.
Chiusi la porta e vi appoggiai le spalle, sospirando. Possibile che il mio cuore riuscisse a sopportare tante emozioni? Possibile che uno sciocco e bellissimo pirata riuscisse a sconvolgermi in quel modo? A quanto pareva, sì.


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Ma buongiorno!!!!! Eccomi qui! Dopo Marcunzel ritorniamo ad un briciolo di serietà... No non è vero perchè anche questo capitolo mantiene una certa vena di ironia xD Gatti e fuoco non vanno bene insieme xD Beh, allora, che dire?
Ormai sto diventando monotona, ringraziandovi di cuore ogni volta? probabilmente sì, ma che posso farci? Siete fantastici, è stupendo sapere che la mia storia vi piaccia, e voi partecipate così attivamente, commentando, facendomi domande, ipotizzando, dandomi anche idee magnifiche!!! Vi adoro, sul serio, tutte e tutti  (sì, lo so che da qualche parte ci siete anche voi maschietti xD)  e vi ringrazio di cuore per tutto il supporto e l'affetto che mi date, è sicuramente anche grazie a persone come voi, che un autore trova la spinta per scrivere e creare storie ^_^ Davvero!
Mi spiace solamente di non potervi citare una per una, perchè siete talmente tante che uscirebbero delle note d'autore chilometriche, ma voi lo sapete!!! ^_^
Ringrazio ovviamente anche tutti i lettori silenziosi, siete tantissimi anche voi ed ogni volta che vedo le visite o la lista di chi segue la storia, mi viene la pelle d'oca! GRAZIE!
Ora rispondo alla domanda, dicendovi che, come Selene ( XD) sono nata e cresciuta in un paesino di 3000 anime, forse anche di meno, dove l'età media degli abitanti è di 70 anni, nella provincia di Brescia ^_^ Le vostre risposte sono state fantastiche! siamo letteralmente sparse per tutta Italia, ( e se guardiamo le origini, non solo! Sì, parlo con te! mi dovrai raccontare tutto! xD)  ho trovato solo un'altra ragazza di Brescia xD
e con questo sproloquio mi attacco alle vostre origini:

Nel vostro paese, o comunque località, avete un modo di dire strano, tutto vostro insomma? un intercalare, oppure che so io, una parola che ormai usate sempre, ma che di italiano non ha nulla, ma è dialettale ^_^??? xD  

Non l'ho mai detto, ma se volete, non fatevi problemi a bombardarmi di MP, con domande ecc, non mi disturbate per niente, anzi ^_^
Ora chiudo e al prossimo capitolo!!! Grazie ancoraa!!
ciaooooooooo


Immagini e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di lucro

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Capitolo 22
*** 21. L'oscurità del sangue ***


c1






Aspettai che mia madre finisse di farsi la doccia e mi fiondai in bagno, informando con un urlo l’intera casa che quel pomeriggio sarei uscita.
Nella stanza chiusa aleggiava ancora il profumo fresco del doccia schiuma all’orchidea ed un leggero velo di vapore si era condensato sullo specchio e sul vetro del box doccia. Afferrai svelta l’asciugamano e pulii lo specchio, in modo da poter vedere il mio riflesso. Ero sempre io, ma comunque mi vedevo diversa, più luminosa, più felice, più bella in un certo senso; i capelli corti e corvini tutti spettinati sembravano vivi, gli occhi parevano cioccolato fondente fuso, brillanti e scintillanti di gioia, mentre le labbra erano ancora incurvate in un dolce sorriso sognante. Da quanto tempo non mi guardavo allo specchio? Da quanto tempo non mi osservavo veramente riflessa su una superficie? Mediamente schivavo con abilità ogni oggetto riflettente, per evitare di guardare le mie occhiaie, il mio colorito cereo, ma soprattutto per evitare i miei occhi, maledettamente vecchi per il mio viso giovane. Mi vedevo tutti i giorni, ma non mi ero più soffermata ad osservare il mio volto: ora invece lo stavo facendo, e mi piacevo.
Sorrisi alla ragazza nello specchio e mi spogliai veloce, lasciando poi che il getto d’acqua fresca mi spruzzasse il volto e mi bagnasse i capelli, rinfrescando la mia pelle scottata dal risveglio bollente. Sentivo ancora le dita del pirata sulla pelle del fianco, le sue labbra sulle mie ed il calore del suo corpo sopra il mio. L’acqua era fresca, ma i ricordi troppo caldi perché un misero getto bastasse, così girai ancora un po’ la manovella azzurra, irrorandomi con uno zampillio ancora più freddo, che mi fece rabbrividire.
L’aroma di mirtilli e lamponi del mio sapone mi rilassò i nervi, sciogliendo i muscoli e calmando l’agitazione che mi attanagliava lo stomaco. Stavo per uscire con Ace, il quale mi aveva svegliato con baci e carezze nel mio letto ed era tornato in Italia, in un paesino sperduto nella provincia bresciana, per me; per non avere rimpianti.
Le gocce fredde scorrevano sulla mia pelle, portando via la schiuma e la tensione, ma non potevano portar via tutti i pensieri, la mia insicurezza non mi avrebbe abbandonata tanto facilmente; io ero innamorata di Ace, ma lui no, e dovevo farmene una ragione. Come poteva essere innamorato di una ragazza che aveva visto tre volte in croce? Probabilmente era incuriosito ed attratto, anche se non ne capivo la ragione, da me, ma sicuramente non era innamorato. Ma non si poteva avere tutto dalla vita, intanto lui era qui per me, cercava e voleva me, che fosse per curiosità o per amore risultava una questione secondaria.
Finii di lavarmi ed uscii, asciugandomi in fretta con una salvietta e frizionando violentemente i capelli, ottenendo un garbuglio color catrame. Sono poche le persone con i capelli veramente neri, molti ci si avvicinano con un castano scurissimo, ma il vero nero è rarissimo. Io ero una di quelle rarità, ed i miei capelli erano l’unica cosa del mio aspetto che adoravo. Li districai rapidamente con il pettine, lasciando al tempo ed al caldo il compito di asciugarli, mentre mi vestivo. Non avevo idea di dove saremmo andati a finire nel pomeriggio, quindi optai per un’elegante comodità: un paio di bermuda di jeans attillati ed una semplicissima t-shirt rossa, con una simpatica ranocchia dagli occhi a palla stampata sul davanti.
Uscii dal bagno che era già mezzogiorno passato, maledendo il mio vizio di riflettere di argomenti etico - filosofici di importanza mondiale sotto la doccia. Avevo passato mesi lavandomi in fretta e furia, per non dar tempo al cervello di ricordare o pensare, ed in una nottata tutto era cambiato, tutto era tornato normale, anzi, migliore; ero più serena e più felice, come se Ace avesse cancellato i mesi di lontananza con la sua sola presenza.
Entrai nella cabina armadio alla ricerca di un paio di scarpe comode e belle, che non mi facessero male ai piedi in caso di lunghe camminate e che non fossero pesanti. Solo un paio, tra la distesa di calzature che mi si parava davanti, aveva quelle caratteristiche, ed era stato isolato, confinato, carcerato in un angolo buio ed ignorato, per quattro lunghi mesi: ma ora le avrei rimesse, le MIE converse.
Con un sorriso le afferrai e le infilai mentre salivo le scale (evitate di farlo a casa, se non volete rischiare l’osso del collo), per raggiungere il salotto e smangiucchiare qualcosa al volo. Fortunatamente mia madre aveva previsto il mio ritardo, ed aveva preparato un pasto rapido e leggero: prosciutto e melone.
Mandai giù velocemente qualche fetta di frutta, ormai insipida visto che iniziava ad essere fuori stagione, per poi correre nuovamente in camera, per finire di sistemarmi. Pochi attimi dopo, il campanello suonò: era arrivato.
Trattenni il fiato qualche secondo, in preda all’ansia, e poi corsi verso la porta, scavalcando abilmente cane e gatto e salutando di fretta mia madre. Infilai le chiavi nel marsupio che portavo a tracolla, orrendo da vedere ma maledettamente comodo, ed uscii, trovandomi davanti il ragazzo più bello di sempre.
Con addosso solamente i suoi amati bermuda neri ed una camicia azzurra a mezze maniche, Ace mi guardava divertito. Era bello oltre ogni dire, come si poteva descrivere una bellezza simile a parole? Non era possibile, punto.
Sorrisi felice andandogli incontro e notando una gigantesca sacca nera, di quelle che gli sportivi si portano in palestra; cosa contenesse era un mistero. Il pirata probabilmente notò il mio sguardo curioso rivolto al borsone e, ridacchiando, lo raccolse da terra conducendomi fuori dal vialetto, all’imbocco del quale era parcheggiata un’enorme moto nera. Sgranai gli occhi e se non avessi usato tutta la mia forza di volontà, avrei anche aperto la bocca per lo stupore.
«E questa cosa sarebbe?» Domandai perplessa. Immaginarmi Ace alla guida di un veicolo del genere, era una visione onirica; ma avere un pirata per strada non era proprio il massimo.
«Il mio mezzo di trasporto, non potevo certo farmi sempre accompagnare dagli autisti, o restare chiuso in albergo tutto il tempo, no?» Mi rispose sornione, posando una mano sul veicolo, visibilmente orgoglioso del suo nuovo giocattolo. Effettivamente però, il suo ragionamento non faceva una piega; costringere un pirata alla vita d’appartamento era impensabile, stesso discorso per la libertà di spostarsi senza dover mobilitare altre persone. Una moto era l’emblema della libertà di viaggiare, del potersi muovere a proprio piacimento, senza sottostare nemmeno alle regole del traffico. Quante volte, da automobilista, avevo sognato di poter saltare le code interminabili, superando e zigzagando libera, a bordo di una motocicletta. Avevo sempre sognato di poterne guidare una, ma non avevo la forza necessaria per sostenerne il peso, perciò mi ero sempre limitata a fare la passeggera. Amavo le moto, amavo la velocità ed amavo la sensazione fantastica che davano quei veicoli; senza contare che amavo anche il pilota, in questo caso, nonostante rimanessi poco convinta delle sue capacità di guida. L’asfalto non era acqua, non potevo nuotare nell’asfalto, mi ci sarei semplicemente scartavetrata contro, e non era una cosa che intendevo fare.
«Ok… Ma la sai guidare?» Chiesi, ancora dubbiosa e preoccupata all’idea di Ace alla guida di un mezzo del genere. Non mi rimaneva che sperare che rimanesse un “pirata del mare”, e non diventasse anche un “pirata della strada”.
«Spiritosa. Mettiti il casco, il giubbotto, i parastinchi, le ginocchiere, il paraschiena e i guanti!» Mi rispose sarcastico, accucciandosi e iniziando ad estrarre dal borsone ogni sorta di accessorio. Io afferrai al volo casco e giubbino, ma se faceva conto che indossassi tutta quella roba per fare un giro in moto, sbagliava di grosso. E poi chi era stato l’idiota ad avergli fornito tutte quelle attrezzature? Lui sicuramente non sarebbe stato tanto iperprotettivo; ma un certo uccellaccio azzurro sì. Era stato sicuramente Marco l’artefice di quella collezione di abbigliamento da piloti di Moto GP. Stupido pollo azzurro.
«Scordatelo, non mi infilo tutta quella roba per salire su una moto. Tu piuttosto, il casco ed il giubbino?» Asserii, infilandomi l’indumento di pelle nera, appoggiando il casco a terra, ignorando totalmente tutto il resto, e notando che Ace non accennava ad indossare qualche protezione. Avrei dovuto impormi ameno sulla storia del casco, visto che l’invincibile comandante della Seconda flotta di Barbabianca,  si sarebbe opposto strenuamente all’uso di quel “superfluo” oggetto atto alla sicurezza personale.
«Sono un rogia, non mi farei niente. È di te che mi preoccupo piuttosto, per questo ho chiesto a Marco di procurarmi tutto il necessario per farti viaggiare sicura.» Dichiarò, come previsto, il moro. Addolcendo il mio disappunto con la sua preoccupazione. Aveva ragione, anche se fosse caduto non si sarebbe fatto nulla, ma rischiava comunque di prendere multe o quant’altro; e poi ero più tranquilla sapendolo protetto. Era un ragionamento stupido, ne ero consapevole, ma non potevo farci nulla: ero più serena sapendolo in giro con il casco.
«Ci sono delle regole anche per te pirata, mettiti un casco o non ci muoviamo di qui.» Affermai convinta, incrociando le braccia al petto e catturando lo sguardo del ragazzo di fuoco con il mio. Il suo sorriso era troppo sornione, per presagire qualcosa di buono.
«Non ce l’ho.» Mi disse innocentemente, facendo spallucce e sorridendo ancora di più. Ma pensava davvero che mi sarei fatta ingannare da un bel sorriso e qualche muscolo? Ok che la carne è debole, ma avevo ancora un cervello, immerso nel brodo di giuggiole, ma c’era ancora, e sapevo che la fenice non avrebbe mai dimenticato l’equipaggiamento per Ace.
«Scommettiamo? Solleva la sella.» Affermai sicura, accennando con il mento alla grossa moto e godendomi l’irrigidimento dell’espressione di Ace. Avevo fatto centro.
«No.» Si oppose il moro, mettendo una mano sulla pelle nera del sellino, come per impedirmi di volare addosso al suo gioiellino, ed imbronciando il labbro inferiore. Un bambino, ecco cos’era in quel momento: bellissimo, alto, muscoloso e maledettamente sexy, ma con un comportamento infantile. E lo amavo per questo. Intensificai il mio sguardo, alzando lievemente un sopracciglio ed inclinando la testa; non l’avrebbe scampata, si sarebbe messo quel maledetto casco. Ora.
«E va bene…» Sbuffò rassegnato, dopo qualche istante di lotta tra sguardi. Povero piratuncolo, avevo retto quello di mia madre e quello di Mihawk, potevo resistere a qualsiasi occhiata. Contrariato alzò la sella, tirando fuori un bellissimo casco, identico al mio, nero con delle piccole fiamme arancioni e rosse disegnate sui lati.
«Ma guarda, un casco! Che buffa coincidenza.» Ridacchiai sarcastica, guadagnandomi un’occhiataccia e facendo ottenere anche al povero Marco, la sua dose giornaliera di insulti. Mi avvicinai ad Ace, cingendogli i fianchi ed alzandomi sulle punte per potermi avvicinare al suo viso, mentre lui ricambiava l’abbraccio e si abbassava lentamente. I nostri nasi si sfiorarono e le labbra, come spinte da una forza nuova e incontrastabile, si incurvarono in sorrisi complici e divertiti, per poi unirsi in un tenero bacio. Per il mio povero e fragile cuore, quel contatto era l’ennesimo sconvolgimento, che lo fece impazzire e destabilizzò il mio flusso sanguineo. I polmoni e lo stomaco sembravano contorcersi, lambiti dalle fiamme dolci di quelle emozioni; sentii distintamente il sentimento che provavo per Ace, uscire dal mio cuore ed espandersi, raggiungendo ogni angolo del mio corpo, e riempiendomi con un tenue torpore. Ero innamorata, perdutamente innamorata di quel pirata che rappresentava ormai, il mio unico Sole.
«Dove andiamo?» Domandai non appena le nostre labbra si staccarono, respirando quelle parole sulla bocca del moro che, stringendomi ancora a se, rispose con voce roca: «Non saprei, sei tu ad abitare qui, non io…».
E come dargli torto? Ero io “l’esperta” del posto, anche se ad essere sincera, conoscevo ben poco del territorio circostante. Dove potevamo andare? Portare Ace in città sarebbe stato un suicidio, stesso discorso per il lungo lago; di domenica pomeriggio ci sarebbe stato il pienone, persino camminare sarebbe stata un’impresa.
Tutto d’un tratto mi ricordai di un posto, non troppo lontano, dove andavo da bambina, perfetto per un afoso pomeriggio.
«Un idea ce l’avrei, ti do indicazioni strada facendo.» Dissi staccandomi da lui, aprendo l’auto e scaraventando nel bagagliaio tutte le attrezzature superflue, tirando poi fuori una grossa coperta rossa, che piegai più volte ed infilai a forza nel sottosella della moto.
«Ok, perfetto!» Sorrise il pirata, salendo a cavalcioni sul veicolo e porgendomi la mano, in modo da aiutarmi a salire. Ero un metro e sessanta scarso di ragazza, avevo le mie difficoltà nel saltare su quella cosa. In più il pirata pensava che non avessi notato il casco, abbandonato a terra e mal nascosto dietro al vaso di sempreverdi: illuso.
«Non dimentichi niente?» Chiesi con tono allusorio, mentre infilavo la testa nel mio casco ed allacciavo il cinturino. Il moro, di tutta risposta, sbuffando si allungò verso il suo e lo infilò con violenza, probabilmente facendosi pure male. Stupido orgoglio maschile.
«Contenta ora? Possiamo andare?» Sibilò, fingendosi irritato, sistemandosi sulla sella e levando il cavalletto. Ridacchiai allacciando le mie braccia attorno alla sua vita, scorrendo per qualche secondo le dita sugli addominali perfetti e sui fianchi asciutti ed appoggiandomi alla sua schiena.
«Sì, grazie.» Risposi, e dalla voce si capiva che le mie labbra erano tese in un sorriso.
Ace rise, fece rombare il motore della motocicletta e partimmo.
Sfrecciavamo veloci tra le viuzze del paese, immettendoci poi sulla statale e divertendoci come bambini, percorrendo a tutto gas le curve impervie della vallata. Urlavo le indicazioni alzando leggermente il mento, ed il pirata le seguiva certosino. Il verde del paesaggio saettava fulmineo attorno a noi, dandomi l’impressione di trovarmi in uno di quegli stravaganti tunnel psichedelici. Vivevo in un paesello di poche anime, immerso nel verde e circondato dalle montagne, eppure in meno di quaranta minuti, raggiungevo senza problemi la città. Era un paese morto, dove l’età media degli abitanti era di circa settant’anni, ma comunque amavo vivere in quell’angolo di quiete. In meno di mezzora arrivammo davanti ad una grande salita tortuosa, totalmente asfaltata ma maledettamente impervia, che si snodava verso la montagna. Non feci in tempo a proporre di scendere ed andare a piedi. Sentii i muscoli di Ace tendersi ed il motore ruggire selvaggiamente, poi la moto partì a tutta velocità, quasi impennando. Mi ancorai al corpo del moro, stringendolo un po’ di più, e iniziai a ridere. Risi tanto, perché l’adrenalina era ormai in circolo. Risi tanto, perché ero maledettamente felice. Risi tanto, perché in quel momento, in quel preciso istante, ero la persona più libera della terra.
Scalata l’impervia via, avanzammo a velocità ridotta per un’altra stradina, ignorando spudoratamente l’arrugginito e quasi illeggibile cartello di “proprietà privata”. La strada che avevamo imboccato era più simile ad un sentiero, vista la difficoltà nel trovarne l’accesso e come serpeggiava nella vegetazione, ma larga abbastanza per far passare una macchina.
Il silenzio del bosco era incrinato dal rumore del motore, abbellito solamente dallo scricchiolio dei sassolini sotto le ruote. Quando la stradina si aprì su un vasto prato in pendenza, avvisai Ace che eravamo arrivati, ed una volta fatto scattare il cavalletto e spento il motore, il silenzio ci avvolse.
L’intero manto erboso era composto da centinaia di specie diverse, tra fiori ed erbacce, tanto da non risultare verde ma giallastro, ed arrivava a sfiorarmi fastidiosamente le caviglie. Detestavo l’erba alta e tutti i suoi stupidi abitanti, alati e non, ma quel posto era magico. Sul limitare della radura, un piccolo rudere, ormai quasi totalmente crollato, dava a quel luogo un sapore di vissuto unico. Avevo splendidi ricordi di quel prato nascosto dalla vegetazione ed abbandonato dai proprietari ormai da una quindicina d’anni, come minimo, visto che ci venivamo spesso a fare scampagnate e picnic domenicali e post-pasquali. Era un posticino isolato, impossibile da trovare se non lo si conosceva, e lo consideravo mio, anche se non lo era. Respirai a fondo il profumo del bosco, voltandomi poi a guardare Ace, che stava stendendo la coperta sul prato. Ci sedemmo e finalmente mi concessi di guardare il panorama che, trovandoci relativamente in alto, era a dir poco magnifico. Potevamo vedere tutti i paesini dei dintorni, con i campanili che alti ed imperiosi spiccavano tra i rossi tetti delle case, e se aguzzavamo lo sguardo, in lontananza, quasi confuso con la linea del cielo, potevamo intravedere uno spicchio di lago. Sì, decisamente, adoravo quel posto.
Mi abbandonai all’indietro, lasciando all’erba piegata il compito di attutirmi la caduta, e guardai il cielo azzurro e terso. Il Sole terrestre illuminava e scaldava il mio corpo, mentre il mio si sdraiava accanto a me, appoggiando il suo magnifico volto alla mano, restando puntellato sul gomito. Visto da sveglia e con i raggi del sole ad ombreggiargli il viso, era ancora più bello, se possibile.
Sorrisi, sollevando leggermente la testa per incontrare le sue labbra, paradossalmente fresche rispetto all’afa di quel giorno.
«Come hai scoperto questo posto?» Mi chiese curioso, scostandomi dalla fronte una ciocca ribelle ed approfittandone per lasciarmi una dolce carezza sul viso.
«Ci venivo sempre da piccolina, con i miei genitori. Ho tanti bei ricordi qui…» Sorrisi rispondendo, avevo davvero tanti ricordi dolci in quel posto, dalle abbuffate di riso freddo e panini, alle corse giù per il prato, agli spaventi che mi faceva prendere mio padre nascondendosi dietro alle pareti diroccate del casale. Il viso di Ace invece si rabbuiò, velandosi di un’ombra di tetro sconforto, che spense immediatamente il mio sorriso, attorcigliandomi lo stomaco di preoccupazione.
«Capisco.» Esclamò il moro, gelandomi il sorriso sul viso, e facendomi immediatamente rendere conto di quello che avevo appena detto. Ero stata una stupida, avevo parlato senza pensare, toccando tasti che non avevo il diritto nemmeno di sfiorare. Con un’espressione dura Ace guardava il vuoto, ed io mi sentivo impotente e colpevole. «Mi piacerebbe averne qualcuno di mia madre, invece di lei non ho nemmeno una fotografia. Conosco solo il volto del… Criminale che mi ha generato.» Digrignò a denti stretti il moro, stringendomi il cuore con quelle parole dure e calcolate. Odiava suo padre e quel sentimento permeava da quelle frasi.
Allungai una mano, incerta su come comportarmi, e gli posai il palmo sulla guancia, carezzando lievemente la gota con il pollice e tentando di sorridere. Non era un argomento facile da affrontare, ma andava fatto, altrimenti non avremmo mai potuto avere un rapporto sereno, finché i fantasmi del suo passato l’avrebbero tormentato in quel modo.
«Ace… Posso… Parlarti dei tuoi genitori?» Chiesi titubante, terrorizzata dal ricevere un secco ed offeso “no”. Ma Ace non mi trattò male, mi guardò sorpreso, a tratti forse impaurito, e si sdraiò sulla coperta, guardando il cielo per qualche istante e poi chiudendo gli occhi. Era un sì, silenzioso e sofferto, ma era un sì.
Mi tirai su a sedere, incrociando le gambe e voltandomi verso il bosco, dando le spalle al panorama, e lasciando che i miei occhi fissassero il nulla, vacui ed inutili.
«Beh, sai benissimo che in questo… Mondo parallelo diciamo, la vostra vita è per noi un fumetto, quindi posso dire che attraverso quelle pagine ho conosciuto te, tuo padre e tua madre.» Iniziai esitante, terrorizzata dall’eventualità di sbagliare espressioni, parole o tono, frantumando tutto quanto.
«Tua madre era una donna magnifica, bellissima e forte, determinata e dolce. Ti amava oltre ogni dire Ace, non so nemmeno descriverti quanto ti amasse, e tu le somigli moltissimo. Aveva una cascata di capelli color pesca e delle bellissime lentiggini, era veramente una donna magnifica. Voleva che il tuo nome fosse Gol D. Ace, perché amava tantissimo anche tuo padre, Roger.» Iniziai tentennante, sondando le espressioni e le reazioni del ragazzo, che se ne restava immobile, con la mascella tesa e le labbra contratte. Il nome di suo padre aveva provocato un lieve spasmo del labbro inferiore. Lo odiava, con tutto se stesso, ma l’odio è un sentimento troppo potente e, come l’amore, può uccidere.
«So che ti senti tradito da lui, che lo reputi un mostro, un criminale della peggior risma, ma anche lui ti voleva bene, prima ancora che nascessi. Scelse lui il tuo nome, e chiese a Garp di salvarti, perché un bambino che ancora doveva nascere, non aveva nessuna colpa.» Ormai le parole erano solo un flusso di pensieri, puri e semplici pensieri: articolare un discorso di senso compiuto su argomenti simili, mi risultava impossibile.
«Pensaci Ace, non avrebbe potuto restare con tua madre, la marina l’avrebbe trovato e vi avrebbero ucciso tutti. L’ha fatto per salvarvi, non poteva immaginare che Rouge sarebbe morta di parto, non è colpa di Roger come non è nemmeno colpa tua. Lei ha dato la sua vita per te, e tu devi viverla con serenità, felice, come avrebbe voluto tua madre. Per seguire il tuo sogno di libertà sei diventato un pirata, ma se tuo padre non fosse stato l’uomo che era, probabilmente non avrebbe mai conosciuto Rouge, non sarebbe diventato il Re dei Pirati e non avrebbe dato inizio alla grande era della pirateria, di cui tu stesso fai parte.»  Dissi tutto d’un fiato, controllando di tanto in tanto, con rapidi movimenti del capo, le espressioni di Ace. Il viso del pirata era impenetrabile, una maschera di gesso irrorata di sole: tanto bella quanto inespressiva. Non capivo appieno il suo disprezzo per la vita: sua madre aveva donato la sua perché lui fosse felice, non per vederlo logorarsi giorno dopo giorno, in preda ai sensi di colpa. Per non parlare di tutto l’odio che provava per suo padre che, da osservatrice esterna, non riuscivo a comprendere. Era stato un grande uomo, ammirato da tutti e temuto da tanti; non era da disprezzare. È molto più semplice temere qualcuno che si ammira, piuttosto che un nemico che si disprezza. Davvero Ace era convinto che tutti coloro che assistettero all’esecuzione del Re dei Pirati, lo odiassero? No, non lo odiavano. Lo invidiavano, perché era riuscito in un impresa unica: vivere senza rimpianti ed al massimo delle proprie possibilità. Loro invece non potevano farlo, incatenati da regole morali e di buon costume, prigionieri della loro stessa vita. Anche se Roger fosse stato un uomo crudele e cattivo poi, che colpa ne ha un figlio delle azioni del genitore? Nessuna. Sono solo la stupidità e l’ignoranza collettiva ad incolpare la prole per gli errori di chi l’ha generata; l’ignoranza, in particolare, resta a mio parere il male più grande del mondo. Sospirando continuai, tentando di portare a termine il mio insensato discorso.
«Mio padre è morto circa un anno fa, per una malattia…» Iniziai, tentando in tutti i modi di mantenere la voce ferma.
«Mi manca da morire, ma almeno l’ho conosciuto e mi resta mia madre, quindi non penso di poter immaginare il dolore che ti porti dentro, ma lascia che risponda ad una tua domanda, anche se dovresti averlo già capito dall’affetto che ti danno i tuoi compagni e dal bene immenso che tuo fratello prova per te. Tu meriti di vivere, Ace. Non mi importa il tuo cognome, non mi importano le tue origini, non mi interessa se sei convinto che nel tuo sangue ci sia anche quello di un demonio, sono tutte stronzate. Tu sei solamente te stesso, un figlio non è il genitore, e sinceramente mi importa solamente di te.» Dissi, ormai rasentando la disperazione, mentre fissavo il viso imperturbabile di Ace: non mi credeva, ed il cuore mi si spezzò.
« Meriti di essere nato, perché non hai la più pallida idea di quante ragazze hai fatto sorridere, di quanti ragazzi hai appassionato con le tue abilità, di quanto la tua esistenza abbia rallegrato la mia, nei suoi momenti più bui: sei il mio Sole, Ace.» Cedetti alla fine, rivelando pensieri che forse non andavano svelati.
Lo vidi aprire gli occhi e guardarmi, feci in tempo solo a cancellare dalla mia guancia una lacrima ribelle, prima che le sue mani bollenti mi avvolgessero il viso. Mi sentivo come una piccola e pallida perla, avvolta da mani delicate e protettive, che appartenevano ad un ragazzo con il fuoco nero negli occhi.
Ero terrorizzata da quelle perle d’onice, tremavo al solo pensiero di aver detto qualcosa di sbagliato, qualcosa di troppo, qualcosa che lo facesse fuggire, scappare, oscurare, sparire. Un leggero cipiglio incrinò la sua espressione, ed io rabbrividii, congelata. Avevo detto troppo. L’avevo perso.
«ۛMi dici così, e poi tremi davanti a me, terrorizzata? Non negare l’evidenza, ti prego.» Mormorò, scioccandomi. Stupida, ero una stupida, mentre lui era un complessato del cazzo.
Mi scostai bruscamente, togliendo le sue mani dal mio viso.
Trattenni il fiato, alzando il braccio destro.
«Sei un idiota!» Ringhiai arrabbiata, piangendo e sentendo le mie dita impattare violente sulla morbida guancia del moro.
«Non ho paura di te», singhiozzai ancora, portando la mano colpevole alla bocca, «Ho paura che tu possa andartene, ho paura di aver detto parole di troppo, ho paura di aver spezzato il nostro strano legame, andando a toccare argomenti che non mi riguardavano, ho paura di perderti.» Piansi. Il respiro affannato, il petto scosso dai singulti, le braccia e le mani tremanti per la tensione, gli occhi liquidi di lacrime e dolorosa paura. Gelo, di nuovo, nel petto.
Piangevo, incontrollabile e stupida. Debole ed infantile. Stupida.
Ace mi guardava, il cipiglio disteso in un’espressione di stupore e sconvolgimento. Stupido.
Piangevo amare stille, che colavano sulle guance e sulle mani, ma poi mi ritrovai imprigionata tra braccia bollenti. Faceva caldo, l’afa ed il sole erano quasi insopportabili, ma quella stretta era piacevole. Perché mi abbracciava?
Le mie mani erano abbandonate lungo i fianchi, morte, mentre il mio mento poggiava sulla spalla del pirata, che mi stringeva a sé, forte.
Tremai ed emisi un ultimo singhiozzo, prima di stringerlo a mia volta.
Eravamo due stupidi, per motivi diversi, ma entrambi stupidi.


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Ciao... Hem, scusate il ritardo, ma questo capitolo non voleva uscire, un GRAZIE enorme a Lenhara, che mi ha dato non una, ma ben 100 mani in questi giorni!!! ^_^ Ringraziate lei se oggi ho pubblicato, davvero! La mia Lovetramabeta!  xD
Comunque, capitolo abbastanza pesantuccio, lo so, ma non potevo evitare di chiarire queste cose, abbiate pazienza che adesso finiscono i capitoli pesanti xD
Ma ad un capitolo denso, vanno abbinate delle note d'autore dense, ovviamente, quindi ne approfitto per dare la comunicazione ufficiale di una mia scelta: Farò un'altra storia, finita questa, intitolata Doctor of Love, che parlerà di Elena e... beh, immaginate voi di chi alro xD. Questa idea è partita da un magnifico disegno di _Hanna_, ed è stata alimentata dalle amiche di penna, e non solo, più folli che potessi trovare ^_^
Quindi, alla fine di questa storia (e manca ancora parecchio, quindi mettetevi l'anima in pace xD), avremo un "sequel". Spero che la cosa vi faccia piacere, e ci tengo a precisare che la futura storia NON sarà il continuo di questa, e quindi non lascerò un finale incompleto, che vi costringa a leggere l'altra; Fire of Love avrà la sua fine, l'altra sarà una specie di "capitolone a capitoli" extra, assolutamente non indispensabile per capire questa storia!
Bene, mi sono spiegata da schifo, quindi se avete domande o altro, chiedete pure senza farvi problemi!!! ^_^ Tenterò di chiarire i vostri dubbi ^_^
passando alla domanda, essendo di Brescia, uso tantissimo il "Pota", parola che metto ovunque, e significa tutto e niente, è impossibile classificarlo xD altra parola che a volte mi scappa, e che spesso e volentieri reputo italiana, pur essendo un termine dialettale, è "inganfito", che significa incapace, inetto, stupido, impacciato e cretino, tutto in un'unica parola. xD
Ho adorato i vostri modi di dire, alcuni me li segno ed inizierò ad usarli, di sicuro!!! xD
ora:

Avete un posto segreto dove andate a pensare, a riflettere o altro? Oppure un posto ricco di ricordi d'infanzia?

Chiedo venia per le note chilometriche, mi riprometto sempre di essere breve, ma non ce la faccio mai xD
Grazie ancora a tutti quanti, aumentate ogni volta, e mi fate veramente felicissima!
bacioni, alla prossima!!!
ciaooooooooo


Immagini e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di lucro

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Capitolo 23
*** 22. Impossibile ***


c1






Quando i singhiozzi si furono calmati, non mi mossi; restai immobile, aggrappata al corpo di Ace, ignorando il caldo e la posizione scomoda: stavo bene così.
Le spalle strette fra le braccia del moro avevano smesso di tremare ed il silenzio del bosco avvolgeva tutti i miei pensieri e le mie paure. Ero stata un'idiota, prima mi ero permessa di parlare ad Ace di argomenti che non mi riguardavano poi, non contenta, l'avevo persino preso a schiaffi, continuando la mia patetica scenetta con un pianto isterico. "Patetica" era decisamente l'aggettivo adatto a definirmi, insieme a stupida ed infantile.
«Scusa...» Sussurrai, lasciando al vento il compito di portare le mie parole alle orecchie del pirata, che nonostante fosse così vicino, rimaneva distante anni luce da me. Il freddo liquido del dolore, che ormai avevo imparato a conoscere, iniziò a scivolare nel mio petto, lento e letale, congelandomi l'anima ed il corpo stesso. Strano, quanto freddo si possa provare abbracciando il fuoco. Mi ero scusata, senza sapere bene per cosa, usando la parola più difficile del mondo.
Molti dicono che sia "ti amo", ma non è vero; dire ad una persona che la si ama è semplice, naturale persino, ma chiederle scusa no. Per chiedere perdono, per dire che ci dispiace, per scusarci del nostro comportamento, serve molto più impegno, bisogna passare sopra l'orgoglio, ignorare la nostra dignità quasi, solo per chiedere scusa. Sono cinque stupide lettere, come “ti amo” d’altronde, ma quanto possono essere pesanti da dire? Troppo. Ma se l'amore è forte, si superano gli ostacoli dell’ego, dando la precedenza all'amore per l'altro. Dicono che l'amore è quando non devi mai dire "mi dispiace", ma non é vero. L'amore è pieno di scuse e sbagli, fa parte del suo fascino, sta all'intensità del sentimento il compito di superare e risolvere i conflitti e gli sbagli. Tutti sbagliamo, nell'amore forse ancora di più, perché abbassiamo le difese, ci controlliamo di meno, siamo più vulnerabili; per questo chi ama ha tanto potere distruttivo tra le mani. Spesso però non ce ne rendiamo conto, se non quando ormai abbiamo già colpito, ferendo e facendo soffrire, distruggendo talvolta persino noi stessi.
Le parole, quanto potere hanno le parole? Tantissimo, sono le armi più letali e devastanti. Ferite inferte con coltelli e proiettili fanno male, ma guariscono perché feriscono solo il corpo; se colpiamo con le parole invece, lame sibilline e affilate, pallottole precise e roventi, feriamo l'anima, il cuore e i sentimenti, che raramente guariscono e, quelle poche volte che lo fanno, si lasciano addosso orride cicatrici, che modificheranno per sempre i nostri comportamenti ed i nostri modi di fare.
È così che si forma il carattere delle persone, la diffidenza, l’ingenuità, la durezza, la forza, il coraggio, sono tutte sfaccettature che derivano da esperienze, da parole dette da altri, da ricordi dolorosi o felici, da spicchi di passato. La persona diffidente ha sofferto, è stata fregata parecchie volte in passato, e per guadagnarne la fiducia bisogna sudare. Elena, ad esempio, era così: tartassata da stupidi bambini alle elementari, che la prendevano in giro perché pallida e timida, insicura e timorosa di sbagliare. Poi, poverina, aveva incontrato me, la personificazione della solarità e totalmente inconsapevole del significato della parola “timidezza”.
Lei mi aveva insegnato la pazienza e la razionalità (o almeno ci aveva provato), io la spigliatezza, ed ero diventata pallida per lei: ero rimasta tre mesi senza prendere il sole, evitando i raggi come se fossi un vampiro, solo per non abbronzarmi e non farla sentire diversa da me. La sciocca intanto aveva fatto il contrario, ustionandosi al sole per tentare di dare alla sua pelle un vago accenno di colore. Il risultato di queste pazzie furono una serie di lampade dall’estetista durante l’inverno, per ridarmi un colore diverso dal verde, e Dio solo sa quante pomate all’aloe per le ustioni. Alla fine avevamo capito che noi eravamo giuste e perfette così come eravamo, bianche entrambe d’inverno, ma d’estate eravamo la coppia perfetta: il caffèlatte. Cosa c’è di meglio? Dolce ma carico, ma ovviamente per chi non ama il caffè può immaginarsi il latte e cacao, il colore è quello, e forse il sapore è persino meglio, ora che ci penso.
Sospirai, scacciando quei pensieri inutili con un respiro tremante. Ace non si muoveva. Sentivo il suo respiro regolare, ma il suo corpo era fermo, stretto a me, ma pietrificato.
«Scusami, non avrei dovuto…» Continuai, incapace di sopportare quell’immobile silenzio di cristallo. Volevo urlare, volevo creparlo, romperlo, frantumarlo… O almeno scheggiarlo con la mia voce e le mie parole. La lingua era un’arma micidiale, ma poteva anche curare, lenire, sanare le ferite che infliggeva. Quello stesso muscolo tanto letale, poteva essere il balsamo più dolce per un cuore ferito, ed ora io, da arma tagliente, dovevo diventare unguento lenitivo, sciogliendomi tra quelle braccia e sperando di non aver fatto danni irreparabili.
I muscoli della schiena del pirata si contrassero e sentii il suo capo muoversi leggermente, mentre drizzava il busto, sussurrando impercettibili “no”.
Quando il viso del moro fu davanti al mio, il cuore cedette di fronte a quelle iridi nere, troppo vecchie. Mi riconoscevo, in parte, in quello sguardo vissuto, l’avevo incontrato tante volte, di sfuggita, evitando il mio riflesso nelle superfici lucide, uno sguardo antico, troppo.
Sprofondai in quei pozzi d’onice liquida, sentendo il mio corpo afflosciarsi, privato della forza di reggersi, ed un’ultima lacrima imperiosa solcò la mia guancia, raccolta dalla mano di Ace quando ormai era giunta sulla mascella. Il moro mi guardava, continuando a negare con il capo. Diceva di no, che non mi perdonava, che non mi scusava, che non avrebbe accettato le mie scuse, diceva che l’avevo perso, ed io divenni di ghiaccio. Sentii il mio viso contrarsi, vacuo ed impenetrabile come una maschera di cera, freddo e duro come il ghiaccio. Ma non ero al sicuro, avevo davanti a me il fuoco, che scioglieva sia la cera che il ghiaccio, che bruciava la carne e l’anima, non potevo nascondermi dietro nulla.
«No, scusami tu.» Scandì il moro, inchiodando il suo sguardo nel mio, afferrandomi con decisione le spalle e guardandomi con intensità disarmante. Potrei giurare di aver visto delle fiamme nere nei suoi occhi, lingue di fuoco scuro ma lucente, ma fu solo un attimo, la frazione di un secondo di magia.
«Ho frainteso il tuo sguardo, non dovevo mettere in dubbio le tue parole ed i tuoi sentimenti, sono stato un idiota. Solo che, non capisco ancora come tu possa provare qualcosa di diverso dall’odio, verso di me.» Disse il bel pirata, tenendo incatenato il mio sguardo e strappandomi irregolari respiri dal petto. Si era scusato lui, per aver frainteso. L’avevo definito un complessato del cazzo, ed avevo ragione. Mi autodefinivo una patetica complessata del cazzo, ed avevo di nuovo ragione. Eravamo due idioti complessati, un’accoppiata deleteria e perfetta.
Sorrisi, perché era l’unica cosa che potevo fare.
Piansi, perché a volte un sorriso non riesce ad esprimere tutte le nostre emozioni.
Mi sentii una stupida, perché stavo piangendo e ridendo, mentre Ace mi guardava perplesso, senza capire. E come poteva capire? Quello stupido, adorabile e bellissimo fuorilegge non poteva capire il mio sollievo e la mia felicità in quel momento. Non l’avevo perso, era ancora lì con me, a guardarmi stranito ed incerto sul come comportarsi, a sgranare gli occhi quando le mie braccia l’avevano stretto, a trattenere il fiato quando le mie labbra, umide di lacrime, si erano unite violentemente e senza preavviso alle sue.
Mi aggrappai a lui, abbandonandomi totalmente contro quel petto liscio e perfetto, perdendomi nell'immobilità delle labbra sorprese del moro. Ma cogliere di sorpresa un pirata era una cosa, mantenerlo inerme un'altra. Sentii il corpo di Ace rispondere al bacio, stringendomi le braccia attorno alla vita e respirando pesantemente nella mia bocca.
Tesi le labbra in un tenero sorriso, mentre le mie dita stringevano il leggero tessuto della sua camicia, azzerando la distanza tra i nostri corpi con uno strattone poco signorile, che ci fece perdere l'equilibrio e cadere sulla coperta. Il mio corpo, schiacciato sopra quello di Ace, era in fiamme, ormai privo di controllo e razionalità. Esplorare la bocca del pirata non mi bastava, non era sufficiente, volevo di più.
Feci scorrere lenta le dita sull'addome teso e marmoreo del pirata, strappandogli sospiri bollenti ed un tremolio maledettamente eccitante, quando le mie unghie avevano graffiato leggermente la V dei suoi fianchi. Solo l’immaginare dove arrivasse quella lettera tentatrice, pennellata dal miglior artista dell'universo sulla sua carne, mi fece vibrare il cuore ed infiammare il desiderio. Lo amavo da impazzire e lo desideravo altrettanto. Può sembrare stupido e infantile, amare un disegno, innamorarsi di un’illusione, perdersi per ore ad osservare immagini inventate, schizzi di china, matita, pennello o semplicemente capolavori di grafica digitale, eppure non me ne importava nulla. Ero felice, ero con Ace e che il resto del mondo vada a farsi fottere. Non avevo mai tentato di uniformarmi alla massa, di seguire ciecamente le mode, di farmi amare dagli altri per quello che non ero.
Di amici non ne ho molti, posso contarli tranquillamente su una mano, ma affiderei loro la mia vita, perché so che mi conoscono davvero, e mi apprezzano per come sono: una pazza fanatica di ONE PIECE innamorata da sempre di un personaggio, per il quale ho pianto, riso, sospirato e sofferto. Una psicopatica forse, sotto certi aspetti, però mi vogliono bene lo stesso, ed io li adoro per questo.
Ora mi trovavo a vivere il mio sogno più bello, anzi, la mia realtà più bella. Sì, perché Ace era lì, era vero, era reale ed io non stavo sognando, anche perché mai avrei osato sognare, sperare, confidare in una storia simile; troppo magica, troppo unica, troppo emozionante, troppo tutto.
Con il mio petto premuto sul suo e le sue mani calde che mi torturavano i fianchi, mi sembrava di volare. Percepivo ogni carezza, ogni lieve graffio, ogni stretta ed ogni sospiro del moro, beandomi di quella sensazione magnifica. I raggi del sole mi scottavano le spalle, dispettosi e prepotenti, disturbando l’intensità del momento. Maledette radiazioni solari, maledette nuvole inesistenti e maledetta me e la mia idea di stare all’aperto. Un bel locale con aria condizionata ed al buio no eh? Ovviamente no. Stupida Selene.
Ace si accorse che l’afa stava diventando insopportabile per me, stretta nel suo abraccio di fuoco e pungolata da quel maledetto astro luminoso, e ridacchiando staccò le sue labbra dalle mie, sollevandosi a sedere e facendo in modo che io finissi in braccio a lui, a cavalcioni. Libido, passione e desiderio, vi prego chetatevi o finirò per esplodere, dannato fiammifero sexy. Ma si è mai sentito di un fiammifero erotico? No, parliamone perché qui sfioriamo il paradossale, anche se discutere di paradossale quando ci si ritrova in braccio ad un personaggio del tuo Manga preferito, trasportato nel tuo mondo da misteriose radiazioni, è alquanto ridicolo.
Il sorriso raggiante del pirata mi fece perdere quei pochi battiti regolari che mi erano restati, mentre il suo naso che sfregava leggero contro il mio mi faceva sorridere teneramente. Amore, che parola strana e ricca di significati, peccato siano tutti indescrivibili ed impossibili da spiegare, ne uscirebbe un gran bel libro.
«Andiamo un po’ all’ombra, stai cuocendo qui.» Affermò sicuro Ace, non lasciandomi il tempo di ribattere e tirandosi in piedi, con me avvinghiata scimmiescamente alle sue spalle. Detestavo i movimenti bruschi, tanto più quelli che rischiavano di spaccarmi l’osso del collo, però lamentarmi della posizione era fuori discussione, sarei rimasta a fare il koala su Ace per tutta la vita, se avessi potuto. Sentire le sue braccia sorreggermi la schiena ed il suo petto strusciare contro di me era troppo bello per poter includere la parola “lamento” o “protesta” nel mio vocabolario. Il pirata si avvicinò agli alberi che circondavano la piccola radura, verso la tanto agognata ombra, dove speravo di trovare un briciolo di sollievo da quel caldo afoso; fortuna eravamo in leggera montagna, quindi l’aria era più fresca, in città sicuramente stavano boccheggiando.
Una volta al riparo dal sole, Ace non mi lasciò scendere a terra come credevo, ma si diresse invece verso il bosco, guadagnandosi un mio sguardo perplesso al quale rispose con l’ennesimo sorriso, stavolta dannatamente malizioso, che mi fece scendere un brivido lungo la spina dorsale. Pochi secondi dopo potei notare solo un rapido movimento circolare del pirata, subito seguito dal leggero impatto della mia schiena contro un tronco, ruvido e profumato di resina: cosa diavolo ci facevo contro un tronco?!
Aprii la bocca per esprimere i miei dubbi, ma le labbra e la lingua del moro mi impedirono di proferire parola. Il corpo caldo del pirata mi schiacciava contro la corteccia ruvida, mentre la mia schiena si inarcava sotto le carezze improvvise delle sue mani. Boccheggiai quando il suo palmo scese sulla mia coscia, afferrandomi dietro al ginocchio e stringendomi la gamba, intanto che l’altra continuava a torturare il mio fianco e la sua lingua mi faceva ribollire il sangue nelle vene. Il cuore ormai impazzito, tamburellava frenetico nel petto, lottando con il contorcersi dello stomaco e l’affanno dei polmoni, bisognosi di aria ma troppo impegnati per prendersela. Non sentivo la corteccia dietro le spalle, percepivo solo il calore del pirata davanti a me, e le sue labbra roventi sulla mia pelle.
Sospiravo, affondando le dita nei morbidi capelli di Ace, per tirare a me quel viso perfetto, che volevo sempre più vicino.
La bocca del moro lasciò la mia, dirigendosi lenta e tentatrice verso il mio orecchio, abbandonando sulla mia mascella una scia di baci e scosse di piacere. Il petto si gonfiò, annaspando in cerca d’aria, quando i denti del pirata iniziarono a giocare con il lobo, mentre il cuore cedeva sotto al peso di quelle sensazioni. Strinsi i pugni, inarcandomi ancora di più e graffiando il petto del bel pirata torturatore, che intanto procedeva con la sua dolce discesa lungo il mio collo. Il mondo intero era sparito, in quel momento, eravamo solo io e lui, le mie dita e le sue labbra, i nostri corpi bollenti che strusciavano l’uno contro l’altro, come gatti intenti a fare le fusa.
Le labbra del pirata iniziarono a salire lungo la gola, accompagnate dalla fresca lingua, che lasciava sentieri di fuoco sulla mia pelle, e le mie gambe si strinsero ancora di più attorno al suo bacino. Le mani di Ace scorrevano sulla mia pelle, dal ginocchio fino al fianco, ormai scoperto visto che la maglietta era salita fino ad arrivare quasi sotto al seno, per poi solleticarmi l’addome e la schiena.
Brividi e scosse di piacere si generavano ad ogni contatto, mandando in tilt il mio cervello e destabilizzando definitivamente il mio povero cuore; quando la mano del pirata iniziò a salire lenta lungo la coscia, carezzando leggera ma decisa il mio fondoschiena, mi morsi lievemente le labbra, per non fare rumore, e presi tra le mani il viso del moro, baciandolo con foga, appoggiandomi totalmente al suo busto e lasciando che a sostenermi non fosse più la nodosa corteccia dell’albero, ma solamente i palmi delle sue mani, ormai strette sui miei glutei. Pulsavo, senza sosta ne controllo, sentivo il desiderio aumentare sempre di più, assieme al bisogno fisico di sentire le mani del moro percorrere ogni centimetro del mio corpo e alla frequenza dei miei respiri, ormai simili a soffi strozzati, sospirati a fior di labbra tra un bacio e l’altro.
Se qualcuno conosce un modo migliore per riappacificarsi dopo un litigio, o una pseudo discussione, oppure una qualsiasi divergenza, me lo dica, perché personalmente non riesco ad immaginarmi nulla di più adatto in questo momento. Nonostante la scelta di quell’albero rimanesse un mistero per me, l’idea mi piaceva parecchio, soprattutto per i risvolti interessanti che stava avendo quella riappacificazione con Ace. Il pirata aveva lasciato sul prato i suoi dubbi e le sue insicurezze, facendo spazio al suo istinto e abbandonandosi alle sensazioni del momento, fregandosene, almeno per un po’, dell’intero universo. Così, in questo frangente carnale, Ace era diverso, più sicuro forse, meno soggetto ai pensieri e alle paranoie che lo frenavano solitamente; ed io lo amavo ancora di più.
Mi riappoggiò alla corteccia, in modo da poter far vagare liberamente le sue mani sul mio corpo, sostenendomi premendo i suoi fianchi addosso ai miei, inchiodandomi al legno con una posizione maledettamente erotica. Ma nulla avrebbe mai eguagliato il suo viso in quell’istante, incorniciato dalle disordinate ciocche nere e decorato con due gemme liquide, di un nero disarmante e dall’intensità sconvolgente. Il leggero rossore che colorava le sue guance era la ciliegina sulla torta, che rendeva quel volto già magnifico, ancora più bello, se possibile. Le mie labbra esploravano voraci quei lineamenti perfetti, godendosi ogni singola lentiggine, ogni millimetro di pelle che riuscivano a lambire, come facevano le mie dita sulla sua schiena, ormai quasi totalmente scoperta, dato che avevo strattonato quell’inutile camicia via dalle sue spalle. Forse l’avevo anche rotta, ma non me ne fregava niente, avevo a mia disposizione il collo e le clavicole di Ace, che si fotta la camicia. Dita e labbra compivano una danza vorticosa su quella pelle dorata, disegnando cerchi e disegni immaginari e rubandone il sapore.
Mordicchiai maliziosamente la pelle dietro l’orecchio, guadagnandomi un basso ringhio vibrante, che mi procurò un’ondata di piacere allarmante; non potevo restare così sconvolta solamente da un suono gutturale tanto sensuale, o forse sì?
Continuai la mia esplorazione, godendo di ogni sensazione che riuscivo a captare, dall’odore fresco del bosco, mescolato al dolce calore di Ace, alla pelle liscia e tenera del collo, bollente e dannatamente allettante. Una pressione più decisa del bacino del moro mi fece gemere, ed a quanto pare non erano solo i versi di Ace a procurare strani piaceri, visto che le mani del pirata iniziarono tremanti a salire lungo i miei fianchi, trascinando con loro l’orlo della maglietta, già in parte arrampicata e che ormai era solo d’intralcio. Sollevai le braccia, dando silenziosamente al moro il premesso di toglierla: e lui lo fece.
Sfilò gentilmente il tessuto rosso dal mio busto, senza lanciarlo o chissà che, posandolo semplicemente a terra, facendolo raggiungere all’istante anche dalla sua camicia, che lasciò cadere in un fruscio di pelle e tessuto.
Il pirata sollevò gli occhi sul mio viso, incatenandomi con il suo sguardo di pece bollente, sciogliendomi l’anima ed il corpo; mi sembrò di diventare gelatina, priva di ossa e tessuti rigidi, solo un ammasso di molle e semiliquida gelatina innamorata. Regolai il respiro, tentando di evitare un collasso respiratorio, e mi persi in quelle iridi di lucido raso nero, agitate da turbinii di fuochi oscuri.
Le sue mani intanto erano tornate sui miei fianchi, e se ne stavano lì ferme, forse ipnotizzate anch’esse da quegli occhi devastanti e tenebrosi, mentre le labbra del pirata iniziavano a muoversi, forse per parlare, ma senza emettere suono alcuno. Le onici luccicanti si spostarono dal mio viso, scorrendo rapide sul mio copro, facendomi arrossire. Ero in reggiseno, davanti ad Ace e con la schiena spalmata sulla corteccia di un albero, mi era concesso arrossire? Assolutamente sì.
Abbassai lo sguardo, improvvisamente consapevole di quello che stava succedendo, fissando intensamente la mia maglietta abbandonata sul letto di foglie secche del sottobosco, sentendo le guance diventare sempre più calde e rosse. Una mano mi prese il mento delicatamente, facendomi girare verso il viso angelico ma diabolicamente tentatore del pirata che mi guardava, sorridendo leggermente ed avvicinando piano i nostri volti. Le iridi nere non abbandonarono mai le mie, finché la tenera carne delle nostre labbra non si fu incontrata: solo allora le palpebre si abbassarono, sipari di pelle che davano un velo di magia in più. In quegli occhi avevo letto il desiderio, la vorace passione e la fame di contatto, le mie stesse sensazioni, i miei stessi desideri, tutti espressi in quello sguardo tentatore, che ero pronta ad assecondare in tutte le sue forme.
Dal mento le dita di Ace presero a scendere lungo il collo, passando in mezzo ai seni e poi risalendo, girando dietro alla nuca e facendomi tremare di piacere: volevo le sue mani su di me, immediatamente e senza preamboli. Incoerente con la timidezza di prima? Sì. Giustificabile dalla situazione? Ancora una volta, sì.
Le nostre bocche erano ormai fuse insieme, incendiate da una passione e da un desiderio incontrollabili, vittime inermi dei nostri istinti. Sospiri e gemiti sommessi carezzavano il silenzio dell’aria, accompagnati solo dal frusciare leggero delle nostre mani e delle foglie mosse dal vento, aumentando sempre di più la foga e l’eccitazione.
Le dita leggere del moro vagavano sulla mia pancia, ancora incerte su dove andare, su cosa potessero fare: non sapevano che in quel momento avrei permesso loro qualsiasi cosa, o quasi.
Forse i miei pensieri arrivarono al moro, forse il mio corpo disse qualcosa che io non percepii o forse, semplicemente, l’istinto prevalse sulla ragione, visto che le sue mani iniziarono a salire, arrivando alla fascia laterale del reggiseno, giocando con i disegni del pizzo e strusciando leggermente i pollici sul lato della coppa, strappandomi un ansito che diede sicurezza al pirata, che con lentezza esasperante mosse i suoi palmi sul mio petto, fino a racchiudere nelle sue mani i miei seni.
Mi sentii avvampare, scariche incontrollabili di elettricità e fuoco si riversarono nel mio petto, facendo scoppiare cuore, stomaco e polmoni e mozzandomi il fiato. Sentivo il calore della sua pelle filtrare attraverso il tessuto, scaldandomi ancora di più di un torpore utopico ed eccitante, e quando quelle dita infuocate iniziarono a muoversi leggere non riuscii più a trattenere i brividi caldi che mi scuotevano il corpo. Tremavo mentre le dita del moro esploravano il mio seno, e la sua bocca scendeva nuovamente lungo il collo, baciando e leccando la mia pelle, fino ad arrivare alla carne morbida, che mordicchiò, facendomi perdere completamente la ragione.
Gettai la testa all’indietro, stringendo tra le mani i capelli del bel ragazzo di fuoco.
Chiamatela come volete, sfortuna, iella, fatalità, disgrazia, sventura, sciagura, destino avverso, spiacevole coincidenza, casualità: io la chiamo sfiga.
Completamente immersa nell’eccitazione del momento, non mi ero ricordata minimamente di essere appoggiata contro un tronco, un duro, alto, ruvido e maledettamente doloroso tronco, che avevo appena colpito col mio cranio.
Ero un’idiota di prima categoria, non c’erano dubbi a riguardo. Strinsi gli occhi e mi morsi le labbra, tentando di far finta di niente, ignorando il dolore intenso alla testa e sproloquiando mentalmente in tutte le lingue che conoscevo, dal dialetto al giapponese stentato. Maledetto tronco di merda, lui e la sua corteccia del cavolo!
I miei tentativi di glissaggio però non andarono a buon fine, visto che le mani del moro, che sghignazzava nel modo più silenzioso possibile, andarono svelte l’una sulla schiena e l’altra sulla mia testa, stringendo il mio corpo al petto del pirata come se fossi una bambina. Sentivo il respiro divertito di Ace vicino al mio orecchio, mentre il suo torace vibrava di risa trattenute. Stupido zolfanello. Stupido albero.
La sua ilarità demolì tutte le frontiere del buon costume, liberando con volgarità allarmante tutte le invettive e le parolacce che avevo trattenuto; pirati e scaricatori di porto erano nulla in confronto ad una ragazza con l’orgoglio sbriciolato e l’autostima evaporata a causa di uno stracazzo di vegetale gigante.
I miei sproloqui fecero scoppiare definitivamente la risata del moro, che intanto si stava dirigendo di nuovo verso la coperta, ormai raggiunta dall’ombra del bosco e riparata quindi dai raggi solari. Mi fece scendere vicino ad essa, ed io mi sedetti a gambe incrociate, alzando le ginocchia e nascondendo il viso tra le braccia. Erano quei momenti nei quali avrei voluto avere una scavatrice a disposizione, in modo da potermi sotterrare e non farmi più vedere in giro.
Ace si sedette accanto a me, cingendomi le spalle e stringendomi a se, ottenendo solo di inclinare una ragazza di marmo, immobile e rigida come un sasso. Lo sentii scuotere la testa e spostarsi alle mie spalle, sedendosi dietro di me in modo che io fossi rannicchiata tra le sue gambe ed avvolgendomi con le sue braccia calde, poggiando il mento sulla mia spalla e strusciando il naso contro il mio orecchio.
«Selene, tutto bene?» Mi sussurrò gentile, facendomi arrossire ancora di più ed aumentando di quattro metri la profondità della fossa che avrei tanto desiderato potermi scavare. Borbottai qualcosa di incomprensibile, vagamente somigliante ad un “lasciami stare”, ma interpretabile anche come “vado a prendere il pane” oppure “ho mangiato il cane”; insomma, non avevo articolato nulla di comprensibile.
Ace ridacchiò, stringendo ancora un po’ il suo abbraccio.
«Ok, ho capito tutto, davvero… Puoi degnarti almeno di sollevare la faccia, vorrei guardarti mentre tento di parlarti…» Canzonò sarcastico il pirata, lasciando un leggero bacio sulla mia spalla nuda. Già, perché ero ancora in reggiseno, tanto per aggravare il mio imbarazzo da idiota incapace che prende a testate gli alberi in momenti inopportuni.
«No.» Risposi cupa, affondando ancora di più il capo tra le mie braccia. Ace sbuffò, infilando le mani tra il mio collo e il groviglio di mani, sciogliendo con facilità la mia stretta ed incollando le mie braccia ai fianchi. Voltai la testa dall’altra parte, tentando l’ultima possibilità per nascondergli il mio viso e fallendo miseramente, data la sua velocità nell’afferrarmi il mento e voltarmi. Quando incontrai i suoi occhi volevo morire dall’imbarazzo, erano troppo intensi in quel momento.
«Hey, non è mica successo niente! Sono quasi sicuro che l’albero stia bene, non hai ucciso nessuno…» Sorrise il pirata, facendomi imporporare le guance di un rosso ancora più intenso e facendomi abbassare lo sguardo sulla trama del tessuto sul quale sedevamo. Ero reduce da una figuraccia epica, e lui mi prendeva in giro asserendo che l’albero che avevo colpito stava bene? Stupido pirata.
«Può anche cadere quell’albero.» Affermai tetra, imbronciandomi ancora di più. Ero maledettamente infantile in quel momento, ma non riuscivo a comportarmi diversamente, l’imbarazzo e la vergogna erano troppi.
«Devo incenerirlo? Se vuoi lo faccio, però temo di attirare troppa attenzione dandogli fuoco…»
Ace mi fece sorridere con quell’affermazione e vedere il mio sorriso gli fece rincarare la dose, «Ok, niente fuoco, posso allora distrarti dalle tue paranoie?» Continuò baciandomi il collo, facendomi socchiudere gli occhi e sospirare; i fumi del torpore di prima non erano ancora evaporati del tutto, e lui lo sapeva.
«È colpa tua sai? Perché su un albero?» Ridacchiai, mentre le dita del moro mi solleticavano le braccia e le sue labbra torturavano la mia schiena.
«Ah certo, è colpa mia adesso! Volevo solo sgranchirmi le gambe, ero stufo di stare sdraiato.» Disse il pirata, spingendomi sulla coperta e scivolandomi addosso, bloccandomi a terra scossa dalle risate. Al diavolo gli alberi e la natura, avevo fatto la mia figuraccia giornaliera, ora potevo anche farmene una ragione e godermi il resto del pomeriggio.
«Certo che è colpa tua…» Dissi, fissandolo negli occhi e tornando seria continuai, «Sei troppo per essere vero, ho il terrore che tu possa scomparire da un momento all’altro, come se non fosse successo niente, come se…» Un dito del pirata sulle mie labbra mi impedì di continuare, e le sue iridi fiammeggianti furono un’ulteriore motivazione per tacere.
«Non devi nemmeno pensarla una cosa del genere, da non credere… Ti ho già detto quanto mi fai stare bene, quanto tu mi sia entrata dentro, non viverti sarebbe il mio rimpianto più grande!» Mi disse serio, guardandomi negli occhi e corrugando leggermente la fronte in un cipiglio teso. Era difficile per lui parlare, trovare le parole da dire, me l’aveva già detto di non essere bravo a parlare, ma a mio parere mentiva: diceva sempre frasi perfette. 
«Selene, per me questi non sono solo baci e sensazioni fisiche, tengo davvero a te, voglio stare con te tutto il tempo possibile, voglio viverti, respirarti…» Continuò, mentre la mia mente volava via lontana, trasportata da quelle parole.
Sorrisi, tendendo le labbra nell’arco più dolce che riuscissi ad immaginare, e lo abbracciai, tuffando il viso nelle crini nere e profumate di fuoco. Amavo Ace Pugno di Fuoco, lo stavo abbracciando ed a modo suo mi aveva appena detto di provare qualcosa per me. Potevo volere qualcos’altro dalla vita? Non in quel momento.
Stretta tra le braccia del pirata ripensai alle parole che aveva detto mio padre una volta, durante una delle tante discussioni sull’amore, nel quale non credevo, del quale diffidavo, perché avevo avuto le mie storie passate, ma mai avevo provato il vero amore, quello devastante e sconvolgente che veniva cantato e scritto da tutti. Lui mi diceva che pensava le stesse cose, prima di incontrare mia madre, prima di trovare la persona giusta, e ripeteva sempre che non appena avessi trovato il ragazzo giusto, me ne sarei accorta ed avrei ripensato alle sue parole, confermandole e tornando da lui dicendogli “avevi ragione Dio”, sì, perché talvolta si vantava di essere onnipotente, il mio papà. Ed io gli avevo sempre creduto, fino alla fine, lui poteva tutto, ma la malattia era stata troppo anche per lui. Dopotutto aveva avuto ragione, l’avevo trovato l’amore e me n’ero accorta, già da quando era solo un disegno sulla carta, avevo già capito che era lui il ragazzo giusto per me. Altra frase storica di mio padre, che avevamo fatto incidere sull’urna delle ceneri, era: “Io non mi sbaglio mai, al massimo mi confondo”.
Sorrisi ancora al ricordo, papà aveva avuto ragione anche lì, si era confuso pensando che avrei trovato un ragazzo qualunque, ma non aveva sbagliato sul fatto che l’avrei trovato, prima o poi.
Ed ora, tra le braccia di quel ragazzo, potevo sognare e vivere la mia storia, la nostra storia, al massimo e nel migliore dei modi, godendo di ogni attimo ed imprimendo nella mia mente tutti i momenti passati insieme, indelebili, incancellabili e che avrei conservato per sempre. I nostri ricordi, di questa nostra storia magica e strana, di questa nostra storia impossibile, o quasi.
Strinsi ancora l’abbraccio, nascondendo una lacrima nei suoi capelli e facendola morire sul mio sorriso, pensando al mio papà e a quanto avrebbe adorato Ace, prendendolo in giro e facendolo arrossire ed imbarazzare, ma volendogli bene come se fosse stato figlio suo. Era un momento bellissimo quello, di sogni ed emozioni, di ricordi e sensazioni, di felicità e basta. Semplice felicità, senza angosce, senza preoccupazioni, senza niente a disturbarla, felicità allo stato puro, che mi riempiva il petto e mi faceva sospirare, che mi stuzzicava gli occhi con lacrime gioiose, impazienti di solcare il mio viso, andando poi a decorare con sali lucenti le mie labbra sorridenti. Non pensavo di poterla provare ancora tanto intensamente, eppure stava accadendo, lì, tra le braccia di Ace, ero finalmente felice.





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Sì, sono in ritardo e sì, merito botte da orbi per la storia della testata, ma se mi uccidere non potrete sapere come procede la storia =D
Hem, vi voglio bene xD
Coomunque, scusatemi davvero per il ritardo, è stato assurdo però ero impegnata con esami ed altro, quindi zero tempo.
Una dedichina stavolta a tre pazze, che finalmente sono riuscita a conoscere xD Una che mi reputa un genio per la craniata, una che mi odia e l'altra che non ha voce in capitolo perchè ha fatto di peggio nel suo scorso capitolo xD
Bacioni ragazze ^_^
Ora, io penso molto in doccia e su un piccolo spiazzo di prato non distante da casa mia, magnifico per stare in pace!!! 

Come vanno le vacanze?? xD altro punto, pensate che dovrei mettete il quadratino rosso?? Vi creerebbe problemi? Fatemi sapere anche per mp su questo argomento, grazie ^_^

Grazie a tutti, insultatemi pure, stavolta ne avete tutti i diritti xD
bacioni, alla prossima!!!
ciaooooooooo


Immagini e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di lucro

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Capitolo 24
*** 23. Presentazioni ***


c1





Come direbbe il grande poeta della musica italiana: "furono baci e furono sorrisi" su quel prato, tenere carezze e coccole dolci, fatte di labbra calde e mani gentili, velate di desiderio ma intrise di morbida delizia. Come miele caldo che cola da un cucchiaino, così il nostro pomeriggio passava lento e dolce. La mia pelle era segnata da scie invisibili di baci e dita leggere, che non potevo vedere, ma sentivo, percepivo e ricordavo tutte; le avevo tatuate nella mente e le avrei tenute strette a me, per sempre. Le note della canzone di De Andrè mi vorticavano nella mente, facendomi sorridere e pensare a quanto eravamo simili, dopo tutto, io e Marinella: io, come lei, ero “sola senza il ricordo di un dolore” e vivevo “senza il sogno di un amore, ma un re senza corona e senza scorta” un giorno era entrato nella mia vita. Quel re, inutile dirlo, era Ace, ed era stato capace di lenire, in parte, il mio dolore ed aiutarmi a combatterlo, già da semplice personaggio, ed ora continuava a farlo come persona reale. In quello splendido pomeriggio assolato, il pirata mi aveva baciato le labbra ed i capelli, posandomi le sue mani sui fianchi. “Furono baci furono sorrisi, poi furono soltanto i fiordalisi, che videro con gli occhi delle stelle, fremere al vento e ai baci la tua pelle” diceva la canzone, mentre sorridevo sotto i dolci baci del moro, mentre le mie mani esploravano la perfezione di quel viso spruzzato di lentiggini ed il mio cuore galoppava sfrenato nel mio petto. Come un muscolo tanto piccolo, potesse fare tanto sforzo senza fermarsi definitivamente, restava un mistero per me. Purtroppo la mia mente non si fermò a quelle strofe, continuando a ricordare le parole dense di quella canzone, rabbuiandomi i pensieri ed appesantendomi il cuore. Marinella moriva, ed il re non si dava pace, bussando cento anni alla sua porta, nella disperata attesa del suo ritorno. Io sarei diventata il re, quando Ace sarebbe ripartito; avrei sperato, pianto e gridato, atteso e forse persino pregato per un suo ritorno, o comunque per una modifica della trama, per qualsiasi cosa che potesse salvarlo, invano. La storia tra me ed Ace sarebbe finita così, era già tutto scritto, e “come tutte le più belle cose”, sarebbe durata maledettamente poco, “come le rose”.
Il sorriso si spense sul mio viso, quella constatazione tanto brutale ed immediata era stata l’ennesima coltellata al petto, l’ennesimo dolore incontenibile e devastante. Avrei dovuto lasciare andare Ace incontro al suo destino e guardare da lontano la sua disfatta, come se tra di noi non ci fosse mai stato nulla.
Il pirata si accorse del mio cambiamento e staccò le sue labbra dalle mie, per guardarmi negli occhi; io sorrisi, perché mai avrei rivelato i miei tormenti ad Ace. Mai.
«Tutto bene?» Mi chiese titubante, ed io annuii convinta, cingendogli le spalle con le mani e scacciando dalla mente i cupi pensieri che l’avevano inondata. Ero sola con Ace, non potevo rovinare quel momento, dopo la demolizione di un albero non avevo la minima intenzione di sgretolare un altro momento di intimità con qualche uscita catartica.
«Tutto benissimo!» Confermai convinta, strusciando il naso contro quello del moro, e lasciandomi abbracciare. Mi sentivo protetta tra quei muscoli, stretta in quella gabbia di carne liscia e perfetta, stavo bene, in pace con me stessa e con il mondo. Ace era veramente il mio sole, ed io orbitavo attorno a lui, ad occhi chiusi e felice.
Un brontolio sommesso ed una vibrazione grottesca mi fecero riaprire gli occhi, disegnandomi in viso un’espressione di sconcertante perplessità. Cosa era stato?
Ace si rizzò a sedere, scendendomi di dosso e grattandosi nervosamente la nuca, visibilmente imbarazzato, segno che il suono proveniva da lui.
«Scusami, è che ho un po’ di fame…» Rispose goffamente il pirata alla mia silenziosa domanda, ed io ridacchiai. Era già stato bravo a non lamentarsi del cibo per tutto il pomeriggio, il suo appetito leggendario mi era completamente sfuggito di mente; la botta in testa mi aveva rincoglionita a quanto pareva.
«Ok, si è anche fatto tardi…» Sorrisi osservando il cielo, che iniziava ad imbrunire colorandosi di rosa e arancione, ed il panorama, ormai dorato, «Ti va di restare a cena da me?» Chiesi, girando la testa verso di lui ed appoggiandola alla mia mano, tentando di ignorare il fatto che ero ancora in reggiseno. Ok, ero spigliata e per niente timida, ma nell’intimità e tanto più con Ace, l’imbarazzo era sempre in agguato, pronto a saltarmi alla gola.
Il pirata sorrise, lasciandomi un bacio sulla fronte e sfiorandomi il braccio, annuendo.
«Va bene, ci conviene partire allora, se non vuoi che mi metta ad assaggiare te…» Sussurrò roco al mio orecchio, facendomi rabbrividire e peggiorando la situazione baciandomi e mordicchiandomi il collo. L’idea di essere assaggiata da Ace, personalmente, non mi dispiaceva per niente!
Il moro si scostò dalla mia gola, sorridendo, consapevole dell’effetto che aveva su di me, ma troppo sicuro e spavaldo per i miei gusti. Ero una donna, piccola ma lo ero, e sapevo come vendicarmi di tanta boriosità. Mi allungai verso di lui, muovendomi lesta e felina, gattonando lentamente e fissandolo negli occhi. Lui deglutì.
Avanzai, portando le mie braccia tese vicino ai suoi fianchi, per poi chinare la testa verso quell’addome scolpito, e poggiare leggera la mia lingua vicino all’ombelico, scendendo fino alla cintura e risalendo, lentamente, piano piano, verso la gola, strusciandomi e mettendomi a cavalcioni. Sempre più lenta e sentendo lui sempre più eccitato. Leccai e baciai dalla clavicola al pomo d’Adamo, salendo sempre di più verso la mascella tesa e perfetta, arrivando a pochi millimetri dalle labbra, sfiorandole leggermente mentre parlavo.
«Vado a recuperare la maglietta, tu prepara la moto.» Sussurrai, alzandomi in fretta e correndo verso il bosco ridendo. L’avrei pagata cara, lo sapevo bene, ma l’espressione del pirata era stata talmente epica da farmi accettare qualsiasi punizione.
Mi inoltrai nel sottobosco, sfruttando gli ultimi rimasugli di luce per individuare i tessuti abbandonati a terra e raccoglierli, ignorando volutamente lo stupido tronco guastafeste. Ancora non mi capacitavo di aver fatto una figura tanto pietosa con Ace, mi avrebbe segnata a vita quell’esperienza, perché diciamocelo, prendere a craniate gli alberi in certe situazioni, è da idioti. Tornai indietro sbattendo la mia maglietta e la camicia di Ace, tentando di liberarle da foglie e ramoscelli, con scarsi risultati direi. Una volta arrivata sul prato ridacchiai di nuovo, vedendo Ace nella stessa posizione in cui l'avevo lasciato, ed avvicinandomi gli posai la camicia sulle spalle, per poi infilarmi la maglietta e continuare l'operazione di pulizia dai residui di fogliame. Quando mi reputai soddisfatta andai nuovamente da Ace, abbracciandolo da dietro e baciandogli una guancia; era adorabile imbronciato.
«Ti sei offeso?» Chiesi divertita, ottenendo un grugnito di risposta, che non fece altro che aumentare il mio divertimento. In quel momento avevo il cuore leggero, sentivo il petto pieno di dolce tepore, ed ero felice. Ridevo di gusto, non per finta, non per accontentare amici preoccupati o parenti impietositi, ridevo per me stessa. A quanto pareva però, le mie risate non divertivano il pirata, che mi afferrò per le braccia e mi ribaltò sulla coperta, guardandomi con uno sguardo che doveva sembrare minaccioso, ma risultava soltanto maledettamente sexy.
«Lo trovi tanto divertente?» Digrignò il moro, mentre io tentavo disperatamente di non scoppiare a ridere, stringendo le labbra ed evitando di pensare alla sua espressione quando l'avevo lasciato a bocca asciutta poco prima. Le guance leggermente gonfie, le labbra tese ad una linea sottile ed un languore inconfondibile negli occhi; era bellissimo, in tutte le salse, non c’era verso che mi apparisse meno intrigante o meno affascinante. Il moro si abbassò verso il mio collo, mordicchiandolo in una dolce tortura, mentre le sue mani scorrevano veloci sulle mie gambe piegate, che allacciai poi dietro la schiena di Ace, stringendomi a lui il più possibile. Ma il ragazzo di fuoco aveva una vendetta da consumare, così mi staccò da sé, bloccandomi le braccia sopra la testa e sovrastandomi, in modo da immobilizzare anche le gambe, per poi riprendere a stuzzicarmi il collo. Mi sarei lasciata torturare così per delle ore, ma rischiai di impazzire quando la lingua del bel moro iniziò a scendere verso il petto. Con la mano libera il pirata iniziò a tirare l'orlo della maglia, aumentando la scollatura e scoprendo pian piano il reggiseno. Il mio cuore batteva all'impazzata mentre la bocca di Ace giocherellava con il bordo del mio intimo e la sua mano dispettosa iniziava a risalire, sfiorando leggera ma sconvolgente il mio seno. Le sue dita passavano sul mio petto tenero, leggere e delicate, come ali di farfalla, ma roventi ed eccitanti come solo Ace sapeva essere. 
Baci e morsi, lingue e dita, ringhi e gemiti sommessi, schiacciata dal petto del pirata rischiavo di impazzire, desiderosa solo di avere di più, di poter eliminare quegli strati di tessuto inutili e fastidiosi che ci separavano, di prendere fuoco totalmente in balia delle sue mani. Sospiri e brividi si alternavano nella brezza serale, accompagnati da sorrisi e risatine sommesse. Magico, è l’unico aggettivo in grado di avvicinarsi vagamente alla descrizione di quel momento.
«Dovremmo tornare ora, tua madre sarà preoccupata…» Sussurrò il pirata, lasciandomi un dolce bacio sulla tempia mentre mi accarezzava gentile le braccia. Io annuii, baciandolo sulle labbra ed iniziando ad alzarmi. Le stelle ormai decoravano il cielo blu scuro, piccole gocce di luce brillante, chiare e nitide grazie al poco inquinamento di quell’angolo di paradiso. Guardai rapita il firmamento, sorridendo e lasciandomi abbracciare, per poi decidermi a ripiegare la coperta ed avviarmi verso la moto. Quella sera mi sarei pizzicata cento volte, prima di convincermi che non stavo sognando, per accettare che le mie fantasie fossero diventate reali, per capacitarmi di aver vissuto veramente questi attimi meravigliosi.
Il viaggio fu a dir poco traumatico: la discesa a tutta velocità su quel maledetto aggeggio a motore mi aveva terrorizzata e sul petto di Ace erano sicuramente ben visibili le mezzelune delle mie unghie. Ma quello scalmanato amava la velocità, l’emozione del rischio e del pericolo, ed io sentendolo ridere nel vento, non potevo che sorridere a mia volta, ancorandomi al suo corpo, stretta e serena, come non ero da troppo tempo.
Feci parcheggiare la moto sul mio vialetto, accanto alla mia adorata automobile; amavo le motociclette, ma la comodità e la sicurezza che mi dava l’auto erano impareggiabili. E poi quella era la mia auto, avevo imparato a guidarla, a conoscerla e l’adoravo. Le avevo perfino dato un nome: Portgas D. Anita. Avevo racchiuso in quel nome la libertà ed il mio amore per ONE PIECE, miscelandoli alla forza di Anita Blake, eroina della mia saga preferita. Avevo chiamato il cane Blake proprio in suo onore, ed il gatto si chiamava Pepe solo per ostinazione genitoriale; fosse stato per me l’avrei chiamato Law, oppure Kidd… Magari Rufy o Shanks, insomma, un nome del genere, non una spezia.
Scossi la testa, dandomi dell’idiota per le strane elucubrazioni che il mio cervello partoriva, per poi tornare a guardare Ace, che sistemava nel borsone i caschi ed il resto dell’attrezzatura inutilizzata. La camicia aperta lasciava intravedere la perfezione scultorea del suo ventre, ma stavamo andando incontro alle ire di una madre, muscoletti e sexappeal non erano abbastanza per salvarsi.
Prima di entrare gli allacciai la camicia, intimandogli di non scrocchiarsi le ossa e di non chiamare mia madre “signora”.
Aprii il cancello ed entrai in casa, evitando accuratamente di essere investita dal cane, che saltò addosso ad Ace scodinzolando ed annunciando il nostro arrivo con dei versetti di giubilo.
«Mamma, siamo a casa!» Urlai, annunciandole così anche la presenza di Ace, evitando che si mettesse immediatamente a ribaltarmi la pelle per essere andata in giro in moto senza avvisarla. Probabilmente si era somministrata svariate gocce calmanti, per non rischiare l’infarto. Detestava le moto, chi le guidava e chi ci saliva: in sostanza, eravamo nei guai entrambi.
«Alla buon ora! Deduco che il motociclista si fermi a cena.» Disse mia madre, uscendo dalla camera da letto con uno sguardo di ghiaccio. Ritratto la terminologia, non eravamo nei guai, eravamo proprio nella merda.
«Hem, sì se sei d’accordo… Mamma, ti presento Ace! Ace, questa è Anna, mia madre…» Dissi sorridendo, tesa come una corda di violino, mentre Ace educatamente porgeva la mano a quel drago sottoforma di donna. Sperai solamente che non la chiamasse “signora” e che non gli venisse la strana idea di scrocchiarsi qualche osso; mia madre era particolarmente suscettibile sulla sua età e, pur essendo giovane rispetto a molte madri, rifiutava di essere chiamata signora, diceva sempre che il nome le era stato dato per essere usato. In più odiava sentire le ossa scrocchiare, cosa che ovviamente io adoravo fare. L’avevo avvertito, ma talvolta le abitudini sono troppo forti.
«Piacere di conoscerla!» Disse il moro, stringendole la mano e guadagnando circa cento punti, proprio per aver evitato l’appellativo “signora”.
«Dammi pure del tu. Ti avviso però, se mi fai cadere un altro vaso di ciclamini ti trito, chiaro?» Sillabò lei, facendomi impallidire. Cosa aveva fatto Ace ai suoi amati fiori? Quando? E soprattutto, come?
«Ne ha fatto cadere uno dalla finestra, stamattina immagino, quando si è infilato di nascosto in camera tua, credendo di non essere visto e soprattutto di non essere scoperto al mio ritorno. Tu sei una pessima bugiarda e lui è rumoroso.» Rispose mia madre secca e pacata indicandoci, facendomi decolorare ancora di più, prima di farmi tornare al mio caratteristico porpora. Me lo sentivo che quella mattina era andato tutto troppo liscio, stupido pirata!
La donna sorrise, salendo le scale e dirigendosi in cucina, lasciandoci impalati all’ingresso, letteralmente pietrificati. Non solo era arrabbiata, era pure in fase gladiatore: “avrò la mia vendetta”. Si prospettava una serata d’inferno.
Guardai Ace in cagnesco, gridandogli mentalmente tutti gli insulti che conoscevo, ottenendo uno sguardo dispiaciuto ed imbarazzato. Lui e le sue stupide entrate dalle finestre. Esistevano le porte, i campanelli, e se proprio si ignorava l’esistenza di questi ultimi avrebbe potuto degnarsi di bussare cristo!
«Salite a preparare la tavola.» Asserì mia madre dal piano superiore ed entrambi obbedimmo senza fiatare, sistemando insieme la tovaglia ed i piatti, in un silenzio spettrale. Il rumore del vetro e della porcellana che si posavano sul legno coperto dal tessuto grezzo della tovaglia riempiva l’atmosfera, accompagnato solamente dal ticchettio delle unghie del cane. La tensione impregnava l’aria, si poteva quasi percepirla nei polmoni tanto era intensa.
«Allora, avete finito per oggi di rischiare la vita sull’asfalto?» Chiese ironica mentre finiva di ritoccare il sugo nella padella. Quando il sarcasmo iniziava a colorare le sue espressioni, la tempesta era maledettamente vicina.
«Sì mamma, restiamo a casa stasera.» Risposi, tentando di non far tremare la voce, che iniziava ad essere carica di nervosismo. Ok l’essere arrabbiate, ma non doveva per forza fare la stronza.
«Me lo auguro.» Ribatté lei con sufficienza, senza nemmeno degnarsi di guardarmi. Ace mi prese la mano, probabilmente percependo la mia rabbia crescere.
Digrignai i denti e strinsi forte le posate che tenevo nell’altro palmo; il nervoso che mi assaliva in quei momenti era difficile da contenere, pura ed ingiustificata collera. Avevo un bel rapporto con mia madre, ma eravamo troppo diverse, troppo distanti, troppo tutto. Avevamo alle spalle situazioni non chiarite, ricordi indelebili di liti troppo furiose, divergenze abissali a livello di opinioni e di paranoie; insomma, eravamo in perenne lotta. Un tempo il compito di mediatore era di mio padre, ora lui non c’era più.
Niente arbitro a fermare i nostri sfoghi. Niente razionalità per calmare le ire. Niente padre con cui confidarsi e niente marito con il quale confrontarsi.
La nostra situazione faceva schifo e noi non facciamo che peggiorarla con i nostri litigi ed i nostri maledetti caratteri.
Respirai profondamente, lasciando andare le posate al loro posto e tentando di calmarmi, appoggiando la fronte alla spalla del moro. Dopo tutto non stava andando nemmeno così male, frecciatine e acidità ma niente di esageratamente devastante, conoscendo mia madre poteva peggiorare notevolmente la situazione.
Il palmo caldo del pirata sembrava iniettarmi calma e serenità, con un solo tocco era capace di rilassarmi i nervi. Anche in una situazione relativamente spiacevole, come l’incontro con una iena umana, la sua sola presenza mi rendeva più positiva  e serena; che fosse questo il vero potere del fuoco? Purificare, lenire, scaldare e sciogliere i tormenti? Beh, amavo ancora di più quel fiammiferino in questo caso.
«Quindi, tornando al discorso delle moto, come ti è venuto in mente di andartene in giro su una di quelle trappole a due ruote?» Tornò all’attacco mia madre, sempre più sibillina e sempre meno gentile, giusto per sfatare le illusioni che mi ero appena fatta. Feci per rispondere, ma la voce del pirata precedette la mia.
«È colpa mia, sono stato io a portarcela, mi dispiace di averla fatta preoccupare.» Disse con tranquillità e dispiacere Ace, facendo voltare mia madre, la quale posò gli occhi prima su di lui, poi sulla mano che stringeva la mia ed infine sul mio viso. Un lampo di sorriso incurvò le labbra della donna, ma sparì subito. La vicinanza di Ace mi calmava, ma l’espressione di mia madre ed i suoi modi di fare non facevano che farmi infuriare.
«Fatto sta che è successo. Spero che abbiate indossato il casco almeno.» Rincarò mia madre, facendo scoppiare il bozzolo di rabbia che il moro era appena riuscito ad arginare.
«Sì, l’avevamo il casco. Io indossavo anche un giubbotto ed Ace mi aveva portato tutte le protezioni più assurde, dai parastinchi alle ginocchiere, tanto da farmi sembrare uno dei Daft Punk. Sono stata io a non volermi bardare in quel modo quindi prenditela con me, non con lui.» Risposi di slancio, percependo appena la leggera pressione della mano di Ace, che stringeva la mia tentando di calmarmi.
Mia madre ci guardava con espressione indecifrabile, un misto tra dubbio e fastidio. Non si aspettava sicuramente che Ace si fosse attrezzato al meglio prima di portarmi in motocicletta, le avevo appena smontato un pilastro portante della sua indisposizione verso il pirata, in più ci eravamo praticamente scambiati le colpe, confondendo ancora di più la direzione della sua ira.
«Bene. Sedetevi che è quasi pronta.» Disse con voce piatta, indicando la tavola e voltandosi per scolare la pasta. Era tremendamente irritante quando faceva finta di niente invece di ammettere i suoi errori, ma non era il momento di ostinarsi nella discussione, altrimenti avrebbe preso in antipatia Ace e per noi due sarebbe stato l’inferno. Sospirai stressata, mentre il moro mi lasciava un tenero bacio sulla tempia e mi cingeva leggermente i fianchi in un gesto dolce e protettivo. Un altro sospiro, stavolta di calma e serenità, mi uscì dalle labbra, portandosi via buona parte della tensione. Decisamente, amavo da impazzire il fuoco.
Prima di accomodarci strinsi forte la mano del moro, sibilandogli di non abbuffarsi come un animale; era bello e tutto il resto, ma vederlo mangiare era raccapricciante e non sarebbe stato un punto a suo favore ingozzarsi animalescamente di fronte alla cara mammina indisposta. Sorrisi al pensiero della prima volta che avevo visto Ace mangiare, ad Alabasta: nemmeno avevo riconosciuto il bello e tenebroso personaggio di Drum. Nascosi il risolino con la mano, sperando che nessun attacco di narcolessia cogliesse il pirata durante la cena; vederlo stramazzare con il volto nel piatto, non era sicuramente un bel vedere, mia madre si sarebbe spaventata a morte.
Ci sedemmo a tavola ed iniziammo a cenare, conversando con relativa serenità e sottostando all’interrogatorio dell’ispettor Madre.
Da dove vieni? Cosa fai nella vita? Hai studiato? Da quanto guidi? Lavori?
Fortunatamente ebbe il buonsenso di non chiedergli nulla sui suoi genitori o sulla sua morte; aveva assistito, senza comprenderla, alla mia disperazione e sapeva benissimo che quel ragazzo era lo stesso per il quale avevo pianto lacrime amare per mesi, ma non disse nulla. Avrei dovuto parlarle della situazione, in modo da evitare uscite spiacevoli ed equivoci ingiustificabili, ma l’avrei fatto in un secondo momento.
La cena fu a tratti perfino divertente, con il cane che guardava con occhi sognanti Ace, implorandolo di cedergli almeno un assaggio della succulenta ambrosia che stava mangiando, osservando ogni suo movimento e mettendolo in terribile soggezione.
«Il cane mi fissa in modo strano…» Mi sussurra ad un orecchio, non perdendo di vista l’animale, il pirata. Ridacchiai sporgendomi ad osservare la mia palla di pelo golosa che, effettivamente, lo stava osservando con due occhi che avrebbero impietosito una statua di marmo.
«Vuole solo assaggiare quello che hai nel piatto, ignoralo che la sua pappa l’ha già mangiata!» Risposi divertita tornando al mio piatto, mentre il pirata continuava a guardare di sottecchi l’animale. Poco dopo, pensando di non essere visto, gli allungò un pezzetto di pane intinto nel sugo, facendo ridacchiare persino mia madre. Quella palla di lardo e pelo era capace di impietosire chiunque pur di guadagnare un assaggio. Non era mai sazio, se si trattava del nostro cibo per lui c’era sempre un piccolo spazio nello stomaco; una volta per dispetto gli avevo dato una cipollina sottaceto, l’espressione schifata che aveva fatto era stata epica.
In casa mia persino mangiare un ghiacciolo in santa pace era impossibile, perché gli piacevano pure quelli, a tutti i gusti fuorché i verdi, quelli li odiava; e fidatevi, mangiare con un cane che vi guarda implorante è qualcosa di maledettamente fastidioso e deleterio. I sensi di colpa che possono scatenare quegli occhi languidi sono devastanti, non cedere a quella silenziosa richiesta è praticamente impossibile.
Ma il pirata non sapeva che nutrire il cane significava inimicarsi il gatto, maledettamente geloso ed altrettanto goloso dei nostri cibi.
Il felino offeso si avvicinò lesto alla sedia del moro, balzando fulmineo sul suo braccio e lasciandogli dei vistosi graffi rossi. Ace sussultò, mollando la forchetta nel piatto e trattenendo svariate imprecazioni, mentre io sgridavo ridacchiando il gatto malefico e mia madre nascondeva il sorriso nel tovagliolo.
Il conflitto Pirata vs Felino era iniziato ancora quella mattina; per ora il gatto aveva avuto la meglio e ne era più che consapevole mentre osservava Ace dal divano, letteralmente schifato dalla sua presenza nel suo territorio.
I gatti sono qualcosa di spettacolare con gli estranei, incarnano la diffidenza e la superbia, sono in grado di farti rimpicciolire ego ed autostima con un solo sguardo.
«Mi ha attaccato!» Si lamentò il moro, guardandosi sconcertato il braccio ferito e cercando poi il predatore di casa con lo sguardo.
Il micio non era intenzionato a smetterla di infastidirlo e decise di ripartire alla carica, fiondandosi stavolta sul polpaccio, che morsicò rapido per poi scappare di nuovo, miagolando.
«Ahio! Selene!» Esclamò Ace, guardandomi malissimo mentre mi sganasciavo dalle risate. Vedere un pirata famosissimo, con una cospicua taglia sulla testa, messo in difficoltà da un gattino di meno di un anno, era uno spettacolo unico.
Il leggero broncio lo rendeva ancora più bello, facendolo sembrare un bambino arrabbiato, mentre osservava attento i movimenti del felino, altrettanto bello, che lo stava letteralmente devastando di graffi.
Intervenni un paio di volte per salvarlo dal gatto, testardo come un mulo e determinato ad eliminare l’intruso, ma non ottenni risultati, se non un miagolio che suonava tanto come un “vaffanculo”; ed essere insultate da un gatto è seriamente demotivante.
La cena terminò con un bilancio di sette attacchi andati a buon fine, tre evitati dalla sottoscritta e l’ultimo interrotto da una misteriosa strinatura sul posteriore del micio. Ace nega ogni responsabilità ovviamente, ma la teoria dell’autocombustione felina non mi convince per niente. Mi pareva decisamente improbabile che “casualmente” il pelo del gatto avesse fatto scintille, proprio mentre stava per sferrare l’ennesimo attacco ad un ragazzo di fuoco, ma lasciai perdere, visto che alla fine il povero pirata aveva tutte le ragioni per dare una ripassatina al gatto.
Mia madre ha concesso ad Ace di ritornare in casa, raccomandandogli però di fare molta attenzione in moto e di stare lontano dai suoi vasi e dalle finestre.
Il cane ha guadagnato parecchio pane imbevuto di sugo, riuscendo ad impietosire il pirata ed accumulando ulteriore ciccia sui fianchi, già troppo larghi.
Il gatto sta ancora leccandosi il pelo, meditando sicuramente una vendetta spietata verso l’invasore umano che ha osato coccolare la sua padroncina ed entrare nel suo territorio per mangiare il suo cibo. Dio, quanto adoravo interpretare i pensieri dei gatti, che vedevo come machiavellici animali dall’intelligenza e dall’astuzia ineguagliabili. Uniamo poi la presenza di un comandante della seconda flotta dei pirati di Barbabianca, letteralmente rannicchiato sulla sedia e con i sensi all’erta in attesa di un altro attacco felino, allo sdegno dello sguardo del micio in questione, ed otterremo una scena unica ed esilarante.
Quando il pirata si convinse che non sarebbe più stato vittima degli attacchi del gatto e mia madre smise di ridacchiare sotto i baffi davanti all’evidente antipatia che il moro aveva verso Pepe, riordinammo la cucina ed infine accompagnai Ace all’ingresso.
Pensavo che la giornata in cui avevo visto per la prima volta Ace fosse la migliore della mia vita, poi invece ho pensato che lo fosse quella in cui era ricomparso, ora mi ritrovavo a modificare nuovamente il podio, mettendo al primo posto la magnifica domenica appena trascorsa. Scostante? Volubile? Definitemi come vi pare, ma ogni nuovo istante che trascorrevo in compagnia di Ace era una magia unica e perfetta, una nuova felicità, un nuovo ricordo felice, una nuova emozione dirompente, una nuova esplosione di calore nel petto.
Avevo visto i miei sogni diventare reali, sentendoli annunciati da un telegiornale. Avevo avuto l’opportunità di vedere i miei personaggi preferiti dal vivo, di conoscerli e incontrarli. Avevo potuto passare attimi magici con Ace, il ragazzo che fin da illustrazione mi aveva rubato il cuore, ed ora potevo vivere la mia storia d’amore con lui, una storia reale e non immaginaria, una vera relazione nella vita reale; non una fantasticheria, non un viaggio mentale notturno, non un frutto della mia fervida immaginazione, reale.
Mentre saluto Ace sulla soglia sorrido e ripenso a tutte le fantasie e sogni che non ho mai abbandonato, a tutte le speranze che ho sempre coltivato dentro di me, e mi rendo conto che si sono realizzati. Ho trovato l’amore, ho conosciuto Ace ed ho la possibilità di viverlo. Ora i miei sogni si erano realizzati, e potevo finalmente viverli felice, e non avrei permesso a niente e nessuno di portarmi via il sorriso.
Baciai le labbra del pirata con una curva serena disegnata sulle mie, salutandolo con la certezza che l’avrei rivisto nei giorni a venire, con la sicurezza di poter vivere altre magie con lui, qui, nel mio mondo grigio e monotono, nel quale lui era l’unica fiammata di colore.
Ora iniziava sul serio la nostra avventura, di baci, sospiri, risate e sogni realizzati.




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Buongiorno! Eccomi qui ^_^
Allora, che dire? capitolo decisamente di passaggio, QUESTA è la canzone che Selene pensa all'inizio, io l'adoro ^_^
Passiamo alle comunicazioni urgenti, aggiornerò ogni due settimane circa durante questo periodo di vacanze, il tempo scarseggia e vedo che molti di voi sono in vacanza, quindi aggiornerò meno frequentemente, per dare tempo a tutti di rimettersi in pari e per potermi ritagliare più tempo per la stesura dei capitoli, scrivere di fretta sicuramente è controproducente ^^
Per il rating, sinceramente, opto per il mantenimento dell'arancione, ma ribadisco che se qualcuno nota una scena che secodno lui è catalogabile come "rossa", può dirmelo tranquillamente, e prenderò provvedimenti (che frase seria, mi sento un professore xD).
Detto ciò:

Qual'è la vostra canzone preferita?

Grazie di cuore a tutti i lettori, ed un grazie particolare a tutti quelli che laciano un commento ed una recensione, non avete idea di che stimolo sia per me vedere tanto entusiasmo in voi ^_^
Un grazie anche alle pazze che sopportano i miei scleri notturni, vi adoro ^_^
Baci Baci


Immagini e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di lucro

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Capitolo 25
*** 24. Pioggia e Fuoco ***


c1






«Così questa è la tua nuova casa?» Domandai curiosa, osservando lo strano edificio ultra moderno, mentre Ace litigava con le chiavi.
L’agglomerato di pietra e cemento era imponente e stravagante, uno stile eccentrico e moderno, nuovo e fresco, ma dall’aspetto troppo elegante e sofisticato per risultare in linea con l’indole del pirata.
Erano passati parecchi giorni ormai dal ritorno di Ace, le cose tra noi andavano a gonfie vele, fra coccole e figuracce, ed il moro aveva trovato una casa non troppo distante da dove abitavo io: a metà strada tra il lago di Garda, dove si erano trasferiti Barbabianca e Marco, ed il mio paesello sperduto. Era appena stata arredata ed era anche la prima volta che io vi entravo.
«Sì, è carina ma io non c’entro niente, ha fatto tutto Marco, come sempre!» Borbottò il moro, riuscendo finalmente ad aprire la serratura e varcando la soglia con uno sbuffo.
Io lo seguii curiosa, trovandomi davanti un salone quasi totalmente bianco, a tratti abbagliante; decisamente opera della fenice, Ace non aveva un gusto così… Raffinato, diciamo. Gli unici tocchi di colore erano il divano di pelle nera e vari accessori del medesimo colore, alternati da qualche pennellata di rosso nei quadri e nei cuscini. La cucina era nera e lucida, un misto tra laccato ed acciaio meraviglioso e maschile. Bellissima, certo, ma insipida e fredda, degna di un catalogo d’arredamento: totalmente impersonale. Una casa può essere esteticamente perfetta, ma risultare comunque sterile e inospitale, al punto di metterti a disagio. Il gioco di un bambino abbandonato sul pavimento, una tazzina di caffè dimenticata sul tavolo, un dolce appena sfornato, un’impronta sul lucido acciaio. Non è disordine, non è difetto, è vita.
In quell’ambiente non c’era nulla di vivo, nemmeno un granello di polvere fluttuante nei raggi che filtravano dalle grandi vetrate, nemmeno una mosca dispettosa, nemmeno un profumo di cibarie, nemmeno un… Nulla. Una casa vuota, abitata solo per bisogno, impersonale e asettica.
All'inizio mi allarmava l’idea che Ace vivesse da solo, in un luogo ricco di potenziali pericoli come una casa moderna (gas, luce, forno, lavatrice; per non parlare dei detersivi!), ma dopo aver appreso della presenza di inservienti addetti ai pasti ed alla pulizia, mi ero leggermente tranquillizzata. Ora però, vedendo quello spazio quasi ospedaliero, la preoccupazione tornò a bussare al mio petto. Un pirata come lui costretto in un’abitazione del genere era troppo da sopportare. Non poteva essere sé stesso, non era il suo stile, per niente. Per quanto l’immagine di Ace sdraiato su un divano di pelle nera, intento a guardare la TV con addosso solamente dei pantaloni di flanella fosse maledettamente eccitante, non riuscivo a dare un sorriso a quel volto. Si stava spegnendo per restare lì con me, lontano dal mare e dalle avventure del suo mondo.
Chiedere al mio cuore di sperare che i ricercatori si sbrigassero era esagerato; il mio egoismo era ancora troppo forte per azzerarsi in tal modo, eppure quel pensiero mi sfiorò la mente. Ace felice, con quel sorriso mozzafiato, mentre fendeva l’acqua con il suo Striker. Libero.
Il moro poggiò le chiavi nello svuota tasche dell’ingresso, togliendosi poi la camicia fradicia e gettandola malamente sul pavimento. Quel mucchietto di tessuto umido ed abbandonato in un angolo, paradossalmente, rese la stanza più viva.
Eravamo appena fuggiti da una folla di fan impazzite, che avevano riconosciuto Ace ed avevano iniziato ad urlare, inseguendoci e costringendoci alla ritirata. Inutile dire che la sottoscritta era stata bersagliata da insulti di tutti i tipi. Maledetto temporale improvviso e stupida camicia bianca semitrasparente; lo scroscio di pioggia ci aveva colti impreparati, infradiciandoci gli abiti e rendendo visibile il Jolly Roger di Barbabianca sulla schiena del giovane. Vestito era un ragazzo normale, bello oltre ogni dire ma comunque una persona qualsiasi. Con quel tatuaggio invece era Portuguese D. Ace, idolo e sogno erotico di milioni di ragazze, me compresa. Sbuffai passandomi una mano tra i capelli corti, ancora bagnati di pioggia, osservando la schiena muscolosa di Ace ed i miei vestiti fradici.
Odiavo i cambiamenti climatici improvvisi, eravamo partiti con un sole splendente e tornavamo con il diluvio universale. Inoltre quell'inconveniente avrebbe cambiato non poco le cose, se la voce che il secondo comandante di Barbabianca vivesse in questa provincia si fosse sparsa, le strade avrebbero iniziato a brulicare di giornalisti, paparazzi e fan incalliti, pronti a tutto pur di incontrare il bel Pugno di fuoco. Alla fine erano vere e proprie celebrità, venivano invitati in continuazione in programmi televisivi e radiofonici, per non parlare dei servizi fotografici per le svariate riviste. Erano in prima pagina, ovunque. Andare in edicola ormai era come fissare il reparto ONE PIECE della fumetteria. I fisici scultorei, le forme generose e le particolarità dei personaggi erano un invito a nozze per l'editoria. La Hugo Boss stava pagando oro per avere i pirati come sponsor, per non parlare dei profumi e delle case automobilistiche. In quel momento, avere i personaggi di ONE PIECE negli spot era sinonimo di vendite raddoppiate.
Sbuffai di nuovo, sfilandomi i sandali e posando i piedi gelati sul soffice tappeto bianco ed irregolare che ricopriva gran parte del pavimento; eravamo ormai ai primi di Ottobre, il freddo iniziava a bussare alle porte dell’estate, scacciandola malamente, e quel temporale era l’ennesima conferma che l’autunno ormai era arrivato.
Sentivo le gocce d’acqua scendere lente e gelate lungo la schiena, facendomi rabbrividire ad ogni centimetro di pelle che guadagnavano. Adoravo la pioggia, ma il freddo che ti lasciava addosso, penetrando fino alle ossa, era qualcosa di maledettamente fastidioso.
«Stai gelando, vieni che ti presto qualcosa di asciutto!» Disse il pirata, sfiorandomi una guancia e cingendomi la vita con il braccio bollente, mentre mi conduceva verso una porta bianca, seminascosta da un angolo strategico. Quella casa era impersonale, ma l’architetto aveva tutta la mia stima per le idee geniali e per la disposizione delle pareti.
Attraversammo un breve corridoio e ci infilammo nella prima porta sulla destra; quella sì che era la camera di Ace.
Io ero disordinata, ma il caos che regnava in quella stanza era impareggiabile: vestiti ovunque, residui di cibo e piatti abbandonati su ogni superficie piana, il letto sfatto da non so quanto; ma non mi aveva detto che venivano a fargli le pulizie?
«Ace, da quanto non vengono a riordinare questa stanza?» Chiesi, afferrando un paio di boxer abbandonati su una sedia con le dita e lasciandoli ricadere poco dopo.
«Uhm? Sono stati qui stamattina, perché?» Rispose tranquillo ed indifferente, mentre frugava nell’armadio, facendomi sgranare gli occhi.
Erano passati per quel tugurio quella mattina? In pratica in poche ore quel pirata casinista era riuscito ad impestare tutta la stanza? Assurdo.
«Fai schifo.» Asserii semplicemente, incrociando le braccia e continuando a far vagare lo sguardo su quella distesa di abiti e rimasugli alimentari, ottenendo solo un sorriso divertito in risposta.
Disordine e caos, ora che ci pensavo, erano eufemismi rispetto alla desolata distesa putrescente di roba che mi trovavo davanti, camminare senza pestare abiti o bricioline era pressoché impossibile, per non parlare del sedersi.
Potevo capire tutto: era un pirata, era abituato alla vita in mare, era disordinato di natura, mangiava come il porcosauro tritarifiuti dei Filnstones e tutto, però che diamine, quel letamaio era veramente troppo perfino per la sottoscritta.
Mi avvicinai al letto ed iniziai ad accatastare gli abiti sulla sedia, per liberare almeno un angolo in cui potermi sedere, sbattendo a terra le briciole e gli altri avanzi che mi rifiutai di identificare. Una volta seduta rabbrividii nuovamente, i vestiti fradici iniziavano a far sentire la loro presenza nonostante fossimo in casa.
Ace si girò e mi venne incontro, porgendomi una maglietta nera e un qualcosa di bianco non ben definito, per poi abbracciarmi e condurmi nel bagno, dove rimasi a bocca aperta.
La stanza era enorme, quasi totalmente rivestita di ardesia color argilla, con magnifiche sfumature rosse e cioccolato, lineare e dall’aspetto maledettamente ospitale. Il lavello si trovava sulla destra, anch’esso totalmente rivestito di pietra scura, incastonato in un piano del medesimo colore che si prolungava per mezza sala, terminando con un piccolo muretto che nascondeva i sanitari. Flaconi semiaperti e tubetti di dentifricio malamente schiacciati giacevano inermi sulla pietra, dando vita all’ambiente. Sulla sinistra c’era l’entrata alla doccia, un enorme vano di ardesia e pietre vive, sormontato da un grande soffione d’acciaio lucido. Restai ad osservare il bagno per qualche secondo, prima di iniziare a spogliarmi ed asciugarmi. Stesi i miei abiti fradici sul termo arredo cromato, infilandomi sotto il getto della doccia.
L’acqua bollente riscaldava la mia pelle, il mio corpo, ma non poteva far nulla contro il gelo del cuore. Il pensiero della partenza di Ace e della sua infelicità mi tormentava, senza sosta, pungolandomi l’anima con mille dubbi e quesiti, torturandomi la testa con varie ed irrealizzabili soluzioni.
Non lasciai che il vapore mi facesse perdere nelle mie divagazioni, girai svelta la manopola verso l’azzurro, congelandomi con una secchiata di ghiaccio puro.
Uscii tremante, avvolgendomi nell’asciugamano e guardandomi allo specchio; ero quasi buffa con quell’espressione sconfortata. Patetica, ecco cos’ero.
Ormai tutte le mie docce finivano così, con un getto freddo, per spegnere il cervello. Sì, ero decisamente patetica.
Mi rivestii con gli abiti prestatimi da Ace, che consistevano in una grande maglietta nera, che mi arrivava a metà coscia e mi scivolava sulla spalla, ed un paio di calzoncini da corsa, anch’essi larghi ma meno immensi della t-shirt.
Osservando nuovamente il mio riflesso allo specchio sorrisi: ero ridicola vestita in quel modo, sembravo l’ottavo nano di Biancaneve, mi mancava solo il cappello.
Restare senza intimo mi infastidiva, mi sentivo maledettamente nuda, ma d'altronde non avevo scelta,  sarebbe stato inutile cambiare gli abiti per bagnarli nuovamente, no?
Sbuffai divertita ed uscii, rabbrividendo un po’ per il contatto dei miei piedi nudi con il marmo, ma trovando sollievo sul tappeto della sala.
Ace mi aspettava lì, stravaccato scomposto sul divano con addosso solo quelle sue adorabili bermuda. Come la mente di Oda sia riuscita a partorire una bellezza simile, resta ancora un mistero per me.
Mi avvicinai sorridendo, sedendomi accanto a lui ed accoccolandomi contro il suo petto caldo; mai mi sarei abituata all’idea di poter toccare il fuoco e di poterne percepire l’aroma. Calore, protezione, focolare domestico e passione, lo so che non sono odori, ma Ace rievocava tutte queste sensazioni, solo con il suo profumo; se poi ci si lasciava catturare da quegli occhi di pece, era la fine per il raziocinio.
Ma come sempre la mia mente pessimista non accettava gli attimi di quiete e serenità senza analizzarne i dettagli. Quel giorno aveva deciso che avevo sognato abbastanza e che era tempo di tornare alla realtà, così mi ricordò il destino di Ace, inevitabile e sempre più imminente.
Ero forte, avevo carattere e volontà da vendere, ma nemmeno la roccia più dura può sopportare in eterno le intemperie. Pensate agli scogli, un tempo erano colossali pietre, considerate eterne magari, immutabili… Eppure ora, incrostati di sale, infestati da parassiti marini e alghe, ridotti a piccole sporgenze, capaci solo di increspare l'acqua con la bassa marea. Inutili, passati, distrutti, erosi.
Il mare, con le sue onde costanti, inarrestabili, infinite e logoranti li ha plasmati e corrosi; ecco il mio destino, essere consumata dal silenzio, dalla colpa, dal dolore e dal peso del segreto che celavo nel cuore.
Fortunatamente, se di fortuna si può parlare,  possedevo l’abilità di calarmi sul viso una maschera di cera, specchio perfetto della felicità, esatto opposto di ciò che provavo in quegli attimi. Mi strinsi ancora un po’ al petto nudo del moro, tentando di scacciare i pensieri con il suo profumo. Ace mi strinse, sfiorandomi leggero la schiena, per poi eludere la copertura che mi dava la maglia ed infilarsi sotto la stoffa. Le sue dita scorrevano lente sulla mia pelle, fiamme bollenti che mi facevano rabbrividire.
Gli baciai il petto, poi allungai la testa e lambii il suo collo con le labbra; adoravo il sospiro che riuscivo sempre a strappargli con quel gesto.
Il mio bacio fu un via libera per il ragazzo, che percorrendo lentamente le mie gambe con le mani mi afferrò le ginocchia, facendomi finire supina. Non mi sarei mai abituata alle sue attenzioni roventi, tantomeno a quei baci che mi facevano girare la testa. Non era il mio primo ragazzo, non erano le mie prime esperienze, eppure non ricordavo di aver mai provato simili sensazioni; Ace era unico, non c'era altro da aggiungere.
Schiusi le mie labbra, permettendo alla sua lingua calda di entrarvi e concedendo al mio cuore un soffio di puro piacere. I palmi aperti del pirata scorrevano sui miei fianchi, scoprendoli piano piano dall'ingombro della maglietta, avanzando imperterriti verso i miei seni.
Gli morsi le labbra, soffiando su di esse il suo nome, ed ancorai le mie braccia alle sue spalle; lui tremò mentre emetteva un basso gemito gutturale, che non fece altro che aumentare il mio desiderio, e rapido azzerò la distanza tra i nostri corpi, schiacciandomi sul divano.
Le sue mani si colmarono con il mio seno ed il respiro mi si spezzò in gola.
La sua bocca raggiunse repentina il mio collo e poi scese, leccando la pelle scoperta, scaldando con il fiato quella ancora celata dalla maglia, mentre le sue mani continuavano ad esplorare curiose le mie rotondità. Quando lo vidi sorridere, un brivido di piacere mi salì dal basso ventre, raggiungendo il cuore. Quel ghigno malizioso era qualcosa di maledettamente eccitante ed Ace ne era pienamente consapevole.
Le sue mani lasciarono il mio petto, scorrendo verso l'addome ed afferrando l'orlo della maglietta. Tirò leggermente, tendendo il tessuto sulle mie forme, guardandomi poi mentre avvicinava il suo viso al turgore del mio seno.
Non ebbi tempo per capire o per pensare nulla: la bocca del pirata si chiuse attorno al mio capezzolo, leccando e succhiando attraverso il tessuto, facendomi inarcare il bacino e facendolo scontrare con quello del moro.
Arrossii? No.
Mi imbarazzai? Nemmeno.
Quel contatto mi fece solamente afferrare le spalle di Ace con tutte le mie forze, tirandolo a me ed implorandolo, di cosa ancora non lo so.
Di continuare?
Di fermarsi?
Forse entrambe le cose.
Stavolta non c'erano stupidi tronchi su cui sbattere la testa, madre natura non aveva mezzi per fermarci, nessuno ne aveva.
Pochi istanti più tardi mi ritrovai ad alzare le braccia per permettergli di sfilare l'unico indumento che ci separava, mentre lo abbracciavo facendo aderire perfettamente il mio seno al suo petto. Pelle contro pelle, cuori frenetici a contatto, respiri mozzati che si completavano.
Adoravo quella sensazione di calore, abbracciare così la persona che si ama è la cosa più bella del mondo a mio parere. Sospirai quando le labbra del pirata abbandonarono le mie per scendere sul collo, gemetti quando sfiorò con la punta della lingua il lobo del mio orecchio, quasi gridai quando quella bocca arrivò a torturare il mio seno, di nuovo.
Ace era passione e fuoco allo stato puro, mi bruciava l'anima ed il corpo con le sue fiamme, scottandomi il cuore con attimi ed emozioni indimenticabili.
Nel mio mondo di insicurezze e dubbi, lui rappresentava la mia certezza, con lui riuscivo ad avere attimi di coraggio, ad abbandonare le inibizioni, a essere me stessa al cento per cento. Eravamo uguali ed opposti. Io vivevo in uno stato di costante paranoia, interrotto da attimi di sicurezza, mentre Ace era perennemente sicuro di se, ed anche un po' spaccone a dire il vero, eppure aveva dei momenti di totale sconforto, nei quali si reputava un mostro, un fallito buono a nulla e mille altre cose orribili.
Lui amava i miei momenti di sicurezza, cogliendoli sempre al volo e godendoseli al massimo, io invece lo consolavo e combattevo contro la sua malinconica depressione momentanea, talvolta con metodi poco convenzionali, lo ammetto, però ci riuscivo e di questo andavo fiera.
Amavo da impazzire quello stupido pirata, eppure non riuscivo appieno a godermi i nostri attimi insieme, c'era sempre un ricordo o un presagio in agguato, pronto a guastare il momento.
Stavolta però la passione ed il desiderio stavano sovrastando tutto, annebbiando la mente ed inibendo la ragione, trascinandoci in vortici infiniti di emozioni indescrivibili.
Il moro mi baciò le labbra, sorridendo, mentre le sue mani calde sfioravano le mie gambe. Con una carezza maledettamente lunga risalì dalle ginocchia fino alle cosce, infilando quelle dannate mani nei pantaloncini ed afferrandomi i glutei.
Graffiai la sua schiena e mi staccai dalle sue labbra per poter respirare, incrociai i suoi occhi neri, venati da fiammelle di eccitazione, e venni totalmente catturata. Nulla aveva più senso, niente all'infuori di noi due esisteva, nessuno contava tranne lui.
I nostri respiri erano ormai fusi insieme, indistinguibili.
Ace sorrise, nuovamente malizioso e terribilmente sexy, prima di lasciarsi cadere all'indietro, trascinandomi con se e facendomi finire a cavalcioni sui suoi fianchi. Lì, mezza nuda, con l'erezione del moro premuta tra le cosce ed i suoi occhi che mi osservavano, arrossii.
Eravamo immobili, in un eterno fermo immagine di sguardi.
Un leggero sfiorarsi di labbra.
Una lenta caduta nell'oblio nero dei suoi occhi; assurdo quanto possa essere magnetica l'oscurità. Di solito le tenebre si temono, com'era possibile che quelle iridi mi attirassero tanto?
Il nero spaventa. Il buio terrorizza. Perché invece io ne ero attratta?
Non è il buio a spaventarci, non è il nero della notte, non è l’oscurità in agguato dietro l’angolo, è l’ignoto. Il nulla, il non sapere, il non conoscere, il non percepire cosa si nasconde tra le ombre.
Non c’è mai nulla nell’ombra che ci spaventa, ci dicono, ma allora come mai il cuore accelera i suoi battiti ed il passo diventa più frettoloso? Perché non ci giriamo a controllare se le nostre sensazioni sono vere? Perché sentiamo quei fruscii che prima non c’erano?
Una volta mi sono girata. Non c’era nulla. Uno stupido foglio di giornale che vagabondava trascinato dal vento sulla strada. Mi sono data della sciocca ed ho proseguito. Più tranquilla? No, perché poi conoscevo il rumore della carta, ma non era quello che sentivo.
Probabilmente niente e nessuno mi stava seguendo quel giorno, ma nell’entrare in casa sospirai di sollievo.
Perché quindi non temevo quei turbini di petrolio bollente? Semplicemente perché conoscevo cosa celavano e non ne ero spaventata, ma attratta.
Incoerente? Incostante? Pericoloso? Sciocco? Probabile.
Amore? Fiducia? Affetto? Emozione? Assolutamente.
Scacciai il rossore, chiusi gli occhi e posai la mia bocca sulla sua, sporgendomi avanti e strofinando il mio corpo su quello rovente del pirata.
Un altro bacio, un altro assenso, un altro via libera, un altro tuffo al cuore, un'altra emozione.
Quante cose può fare un bacio...
Nel dubbio dona certezza.
Nel dolore dona conforto.
Nella speranza dona sollievo.
Nella felicità aumenta la magia.
Nell'addio rende dolce-amaro quell'attimo che precede l'allontanamento.
Tutto con un bacio.
Il moro sospirò sulla mia bocca mentre le sue dita proseguivano la loro salita lenta sopra le mie cosce, sotto l'unico indumento che mi copriva.
Carezze e tocchi roventi, sospiri mozzati e mugolii soffocati, lingue di fuoco sulla pelle, tuffi al cuore e guance di porpora.
Non era la mia prima volta e nemmeno quella di Ace, si capiva dai gesti, dall'istinto frenetico che ci muoveva, dai nostri movimenti.
Era la nostra prima volta insieme, ecco cosa mi faceva tremare leggermente le dita. Reputavo l'esperienza che stavo per fare con Ace più importante della mia prima volta? Probabilmente sì. Era stato amore, ma non così intenso; troppo giovane, troppo acerbo per essere ricordato senza un briciolo di insoddisfazione.
Fruscii di vestiti, zip che scorrevano lente nelle maglie, baci dolci e baci di sesso.
Unghie e graffi, denti e morsi, bocche umide e languide scie lasciate sul corpo.
Stavo toccando, baciando, leccando il fuoco.
Ero ad un soffio dalla realtà, in un mondo parallelo e magnifico, unico e magico, dove c'eravamo solamente noi due.
Noi, la ragazza banale ed il bellissimo corsaro, in preda al desiderio.
Desiderio... Non amore? No, non c'era sentimento, era solo istinto primordiale, solamente sesso.
Il mio amore per il moro era innegabile, ma come potevo dire lo stesso di lui? Teneva a me, di quello non dubitavo, ma potevo parlare di amore? Un manga che ha preso vita ed una ragazza reale, come tante, possono amarsi?
Io ed Ace avremmo mai fatto l'amore? O ci saremmo limitati alla scopata occasionale? Ok, forse ora rasento l'esagerazione, ma i dubbi fanno parte del mio essere ormai; chi si capaciterebbe senza paranoie di interessare seriamente ad uno come Ace? Il cinismo risulta più che giustificato visto in questa prospettiva, no?
Il mio sentimento verso di lui era amore, non avevo dubbi a riguardo e il mio cuore scoppiava con troppa violenza per negarlo, lo stomaco si contorceva con troppa crudeltà per non ammetterlo.
Ace. Ero innamorata di Portgas D. Ace, troppo per me.
Occhi aperti e corpi immobili.
Il petrolio ed il cioccolato delle nostre iridi si mescolarono in uno sguardo di fuoco ed emozioni.
Sorrisi complici e carichi di dolcezza. Durante il sesso si sorride così?
Una leggera pressione, poi più forte.
Completezza e quiete.
Unghie graffianti sulle spalle, ciocche corvine che mi accarezzano il viso, muscoli dalla bellezza devastante in tensione, velo di sudore a dare una lucentezza surreale.
Un Dio greco tra le mie braccia, sul mio corpo, tra le mie cosce.
Strusciamenti e spinte si alternano a gorgoglii e sospiri, sempre più intensi, sempre più veloci, sempre più magici.
Chiusi gli occhi inspirando il profumo del fuoco e del sesso.
 «Mia...» Sentii sussurrare accanto al mio orecchio. Aprii gli occhi, rimanendo nuovamente intrappolata in quelle onici luminose. "Mia" aveva detto? Mi considerava sua? La sua ragazza? La sua donna?
Il mio sguardo pose le domande che le labbra non avrebbero saputo articolare. Ace sorrise, avvicinando il viso al mio, sfiorandomi le labbra.
«Mia, ho detto. Tu sei mia, solo mia!» Soffiò sulla mia bocca, aderendo completamente al mio corpo nudo.
Il petto mi scoppiò, troppo carico di emozioni e sensazioni, ed il cuore impazzì, folle e fuori controllo. Quante volte avrei voluto urlare, ma era come se fossi stata sepolta viva e nessuno potesse sentirmi. Quante volte mi ero lasciata trasportare inerme nel vento, trascinata dalla corrente, senza ribellarmi o semplicemente oppormi? Eppure ora avevo preso in mano la mia vita.
Fragile come un castello di carte e con mille fuochi d’artificio nel petto.
Ero sua? Sì, senza dubbio.
Si poteva fare l'amore con un pirata conosciuto meno di un mese prima e che era letteralmente uscito da un fumetto? Sì, senza dubbio.
Ringraziai l'instabilità climatica di quella stagione.
Ringraziai l'esercito di fan che ci aveva inseguito.
Ringraziai quel pomeriggio caldo e umido, il caso, la fortuna, il destino, un'ipotetica entità sovra naturale, chiunque avesse contribuito al nostro incontro.
Non era sesso per lui, ora lo sapevo. Ne avevo dubitato ed ero stata stupida.
Scoppi e botti nel mio petto, colori e fuochi meravigliosi, fulmini dalla potenza devastante che colpivano il mio cuore. Amore.
Sospiri, mugolii e teneri abbracci. Occhi pesanti e cuori leggeri. Amore.
Lottai contro la pesantezza delle mie palpebre per non addormentarmi, terrorizzata dall’idea di vedere quel sogno scomparire al risveglio.
Il braccio del moro mi cinse la vita ed io mi accoccolai sul suo petto, tremante di dubbi e felicità.
«Dormi, non vado da nessuna parte...» Mormorò il moro, stringendomi più forte a se.
Mi addormentai sorridendo, mentre grandi mani calde carezzavano leggere la mia schiena, cullata dal respiro regolare e dal battito incostante del fuoco. Innamorata e felice, in pace con il mondo intero e senza preoccupazioni.
Io ed Ace avevamo appena fatto l'amore sopra un divano di pelle nera.
Niente sesso, amore.
Tutto il resto del mondo poteva andare a farsi fottere in quel momento.






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Hem... Ciao...
Scusatemi T_T ho accumulato un ritardo imperdonabile, mi scuso immensamente con tutti voi! Detesto quando le storie che seguo ritardano con gli aggiornamenti, quindi capisco perfettamente come vi sentite e mi dispiace davvero!
Non posso promettervi aggiornamenti costanti, la mia vita si è incasinata in questo periodo, però vi rassicuro giurando che MAI e poi MAI interromperò questa storia! ^_^
Ora, spiego velocemente questo ed i prossimi capitoli! Ho deciso di scrivere per ogni capitolo squarci di vita di Selene ed Ace, in ordine cronologico, per dare una panoramica del loro rapporto senza appesantire la trama con una quarantina di capitoli consecutivi su "quanto sono carini dal lunedì alla domenica" xD
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto comunque, e spero anche di non vedere MIE frasi, MIE espressioni e MIE riflessioni in capitoli di altre storie. Chi vuole intendere intenda, se invece preferisce fare orecchie da mercante pazienza, ci penseremo a tempo debito con le altre autrici. (Eh già, perchè non bastavano gli spunti presi da me vero? Non ho aggiornato abbastanza per fornirti sufficiente materiale, mi dispiace!)
Ma a parte le frecciatine, come va la vita a voi? Mando a tutti (tranne 1) tantissimi baci!

Cosa ne pensate dei plagi e delle scopiazzature non autorizzate? E di coloro che "prendono spunto" ed "ispirazione" senza chiedere niente a nessuno invece?

Sì ok, lo ammetto, sono particolarmente arrabbiata, però non temete, l'ispirazione è tornata (visto che la mia è originale e non va e viene a seconda degli aggiornamenti altrui) e non mi farò fermare da vili "scrittori", buoni solo a copiare e rielaborare lavori altrui.
(Se fossi in te, mi starei sotterrando per la vergogna.)
Ok ok, la pianto xD
Aspetto i vostri insulti, i vostri commenti, le vostre impressioni! Finalmente i miei piccioni ce l'hanno fatta a concludere!!! xD (e Senza Baobab, visto Gre? xD)
Che dire ancora? Vi ringrazio immensamente! Nonostante le attese siete sempre tantissimi ed aumentate sempre di più!
chiedo anche scusa a tutti i lettori onesti che si sono dovuti ascoltare la mia filippica accusatoria, ma veramente era da fare, sperando di non vedere mai più similitudini con pezzi della mia Fire in giro per  EFP. (Ringrazia che abbiamo deciso di aspettare per contattare l'amministrazione, per darti la possibilità di cambiare radicalmente modo di fare).
Ora basta xD
Bacioni e Buon inizio scuola a chi studia, lavoro a chi lavora e buon tutto agli altri xD

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Capitolo 26
*** 25. Distrazioni ***


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La fine di Ottobre è arrivata. Troppo in fretta. Troppo rapida. Troppo tutto.
Il tempo sembra volare, inconsistente, effimero, inafferrabile.
Le giornate con Ace passano in un soffio, tra scherzi e tenerezze.
Vita perfetta? No, quello no, ma non penso di essere mai stata tanto felice. Tutti quanti hanno notato il mio cambiamento: mia madre, i miei amici, Elena.
Elena… Si era staccata moltissimo da quando Ace era piombato nella mia vita; l’avevo cercata, l’avevo invitata più volte a casa mia, le avevo chiesto di uscire per un caffè, ma rifiutava sempre. Scuse banali accampate al momento. Esami, studio, madre, pulizie. Scuse.
Non riesco a capirne i motivi, nemmeno scervellandomi. Non ho mai voluto allontanarmi da lei, non ho mai anteposto la mia relazione con il pirata alla nostra amicizia, eppure quelle poche volte in cui sono riuscita a vederla, era perennemente scocciata ed arrabbiata.
Detesto non capire le motivazioni delle persone. Cosa avevo fatto? Come potevo rimediare? Cosa potevo fare per sistemare le cose? Non lo sapevo. Non lo so tutt’ora.
Nella mia stanza, seduta sul letto, sola, premo per l’ennesima volta il tasto di chiamata sul mio cellulare. Il nome di Elena lampeggia accanto ad un insulso telefono verde. Anche quello lampeggia.
Uno squillo.
Non devo partire con il piede sbagliato, dopo tutto è solo il primo squillo, no? Non poteva restare perennemente appiccicata al telefono in attesa di una mia telefonata o altro.
Due squilli.
Mi mancava parlarle, sfogarmi con lei, raccontarle la mia vita, i miei dubbi, i miei pensieri. Ascoltare le sue paure, le sue assurde congetture, i suoi strambi ragionamenti. Mi mancava lei.
Siamo come sorelle, forse perfino qualcosa di più dato che ci eravamo scelte. So che qualcosa la turba, ma non riesco a capire cosa. Non sono una veggente. Non sono nemmeno una psicologa. Non leggo nel pensiero. Non vedo il futuro. Non capisco cosa diavolo sta succedendo a noi due. Non capire è una sensazione orribile. Ti senti stupida, incompetente, inutile. In questo momento probabilmente lo sono, incapace di comprendere e risolvere gli attriti con la mia migliore amica.
Tre squilli.
Non risponde, di nuovo. Forse ha lasciato il telefono a casa ed è uscita. Forse semplicemente non vuole sentire nessuno. Ma perché?
«Pronto?» voce alterata, già sulla difensiva ancora prima che proferissi parola, come se solo il mio nome sul display la indispettisse.
«Ciao, sono Selene… Ti va di prenderci un caffè? Oppure di fare due passi? Volevo parlarti!» Affermai sorridente, ingoiando il rospo, ignorando il tono seccato. Sapevo che non poteva vedermi, ma ero veramente felice che mi avesse risposto, nonostante tutto, era già un passo avanti. Al telefono non vedi le espressioni altrui, ma provate a dire “Ciao” col sorriso e poi ripetetelo senza curvare le labbra: sentito come cambia il suono?
Elena era una caffeinomane convinta, non c’era gastrite in grado di farle bere meno di quattro moke di caffè al giorno: rigorosamente macchiato freddo e con tre cucchiaini di zucchero a tazza.
«Ciao… No guarda, non è il caso.» Rispose gelida.
Ahimè la fisica vuole che il ghiaccio venga sconfitto dal fuoco. Elena era glaciale ora? Perfetto, la mia ira era puro fuoco. Ero capace di ingoiare l’orgoglio, ma tutto ha un limite massimo che non può essere superato.
«Fanculo. Adesso basta! Mi spieghi cosa cazzo hai?» Soffiai inviperita alzandomi di slancio ed iniziando la classica maratona per tutta la stanza. Ero stanca di quell’atteggiamento, detestavo i rancori non chiariti tanto quanto le litigate al telefono, ma questa è un’altra storia. Era lei a non avermi lasciato altre possibilità, se non una squallida telefonata per poter sistemare le cose, o perlomeno tentare comprenderle.
«Niente. Il caffè mi fa venire la gastrite e non ho tempo.» Insistette Elena, mantenendo quel tono algido e maledettamente snervante. Distaccatamente irritante.
Il telefono scricchiolò leggermente tra le mie nocche ormai bianche, strette al punto di fare quasi male.
«Stronzate. Trangugi litri di caffè ogni giorno!» Digrignai, decisa a farle confessare la vera ragione del suo rifiuto. Non sopportavo le bugie, tantomeno quelle campate in aria a questi livelli.
Una breve pausa precedette la velenosa risposta di colei che consideravo la mia migliore amica: « Sinceramente dubito che tu possa essere al corrente delle mie attività giornaliere, considerando la scarsa frequentazione. In ogni caso, dovresti tornare sulla terra ed imparare ad accettare i "no”, signorina di fuoco.»
Quasi mi cadde il cellulare dalle mani. Quasi dovetti sedermi di nuovo, stavolta sulla poltroncina davanti alla quale mi trovavo. Quasi sentii una lacrima picchiare le mie palpebre per poter uscire. Quasi.
Eravamo veramente arrivate a questo punto?
Il disprezzo nella voce di Elena faceva male, al punto di darmi la nausea. Le sue parole imbevute di fiele mi scivolavano in gola, ferendomi e puntando al mio cuore. Come poteva dire quelle cose, dopo quasi un mese in cui mi evitava spudoratamente?
Impugnai più saldamente il telefono. Ripresi a camminare. Non piansi.
«Detto da una che, da un mese ormai, non fa altro che darmi buca suona proprio bene, sai? Non l'ho voluto io questo allontanamento, sei tu che sembri essere sparita dal pianeta ultimamente!» Sbottai, al confine tra rabbia ed isteria.
Ecco un’altra cosa che detesto: l’ipocrisia.
«Semplicemente non ho una vita... Come dire… "Famosa", come la tua.» Sibilò, enfatizzando odiosamente le pause di riflessione e dando libero sfogo alle sue doti recitative. Fiele e veleno, a confronto con quelle parole, risultavano dolci e melliflui.
Non capivo quelle frasi. Era arrabbiata perché un fotografo particolarmente stronzo e cocciuto era riuscito a fotografarmi?
Sì, l’ultimo mese era stato infernale: la voce che Ace risiedeva in questa provincia si era sparsa ed eravamo perennemente braccati da fans e giornalisti. Ero stata il soggetto preferito degli insulti delle fangirls, degli scatti dei paparazzi e dei petulanti giornalisti. Sfuggire a quella folla era snervante, non avevo mai voluto fama e celebrità, volevo solamente Ace.
Elena mi stava rinfacciando la notorietà? Pensava seriamente che mi piacesse? Uscire era un’impresa, solo con la moto riuscivamo a svignarcela. Per non parlare delle mille precauzioni che dovevamo adottare per non far scoprire al mondo il mio indirizzo.
Ormai vivevo con il pirata, avvisando mia madre dei miei saltuari ritorni all’ovile, durante i quali coccolavo i miei animali e prelevavo nuovi vestiti.
Cosa c’è di bello quindi nell’essere famosi? Niente, è solamente una noia in più.
Uno smacco simile da colei che reputavo una sorella, era veramente amaro e difficile da ingoiare. La rabbia ribolliva nel mio petto, pronta ad uscire inondando tutto ciò che mi circondava.
L’ira è un sentimento devastante, quanto l’amore e l’odio forse, ottimo sostituto della paura. Preferivo la rabbia alla paura, quella almeno sapevo gestirla e non metteva in pericolo me stessa. In quel momento la mia ira era decisamente volta a celare il terrore di aver perso un’amica, per sempre.
Respirai profondamente prima di parlare, ma il tono che detti alla mia voce, non fu comunque tra i più cordiali. Il controllo della rabbia è una cosa, l’abilità nel mentire spudoratamente un’altra.
«Mi stai rinfacciando cose di cui non ho colpa! Secondo te mi fa piacere essere pedinata da gruppi di idioti armati di macchina fotografica e microfoni? Uscire come una ninja da casa? Stare perennemente allerta per evitare di essere trucidata da orde di ragazzine? Odio l’essere diventata famosa! Spero ogni giorno che non riescano a scoprire il mio indirizzo o altro su di me. Per uscire io ed Ace dobbiamo escogitare mille trucchi, secondo te mi piace la notorietà? Non me ne faccio niente della cartastraccia dei giornali con la mia faccia sopra!»
Ormai stavo gridando verso l’inanimata cornetta. Ero arrabbiata? Da morire.
Lei mi conosceva, doveva conoscermi, come poteva pensare una cosa simile? Perché tutta quella rabbia verso di me?
Non riuscii a rispondere a quelle domande, ormai il mio cervello era totalmente destabilizzato e confuso da quei comportamenti insensati. Annebbiato dal nervosismo e dalla rabbia.
«Se non ti facesse piacere suppongo che staresti più attenta, ma probabilmente "la fidanzata di Ace" era uno status sociale che proprio non potevi lasciarti scappare.» Rincarò Elena, esagerando.
Non potevo credere che fosse solo il mio “essere famosa” il problema; Elena non era mai stata interessata a questo genere di cose, non avrebbe senso, c’era dell’altro, ma non riuscivo a capire cosa.
Stupida. Non capisco, e sono stupida.
La rabbia sarebbe una gran cosa, se solo fosse totalmente controllabile da chi la possiede. Sarebbe un’arma devastante. Quella che scaturisce da una delusione poi, devasterebbe il mondo.
La mia rabbia era qualcosa di più però; non solo delusione, rimorso e nervosismo. La mia ira celava la fottutissima paura di rimanere sola.
Molti, me compresa, temono cose sciocche. Io sono terrorizzata da ragni ed insetti. Ho paura della calca di persone. Ho il terrore dei lupi e dei clown; tutti conoscono le mie paure.
Ma il mio incubo più grande non sarebbero aracnidi giganti o lupi ringhianti, sarebbe restare sola. Senza amici, senza parenti, senza nessuno.
Una paura folle forse, ma mi assaliva il cuore da più di un anno: perdere mio padre mi aveva aperto gli occhi su ciò che era veramente importante nella vita e ciò che invece era catalogabile come superfluo.
Elena per me era importante come l’aria, perderla significava soffocare e si sa, una persona in procinto di soffocare, tenta di aggrapparsi a qualsiasi cosa.
«Tu non sai un cazzo di quello che è successo! È colpa mia se uno stronzo si è messo a scavalcare i muri di cinta e mi ha fotografata? Eh? Pensi seriamente che mi piaccia uscire di casa dal retro, facendo attenzione  che non ci siano fottuti paparazzi in giro e sentirmi osservata ovunque?» Ringhiai. Sempre più arrabbiata. Sempre più confusa. Sempre più pericolosa. Sempre più spaventata.
Non la lasciai rispondere, risposi io per lei.
«Ma che domande faccio? Non puoi saperlo, perché non c'eri.» Conclusi, sfociando nel sarcasmo più crudo.
Per un secondo ricordai la mia professoressa di italiano al biennio. Lezione sul teatro: la differenza tra sarcasmo e ironia. L’ironia era bonaria, identificata mediamente con la figura di Alessandro Manzoni, volta a creare sorrisi benevoli e leggere allusioni. Il sarcasmo invece è beffardo, pungente, cattivo.
Non vi era traccia di ironia, nella mia voce.
«Certo, non posso saperne un cazzo vero? Se ne sei convinta, restaci. Sappi solo che qui, quella che non sa niente sei tu!» Rispose lei, con la stessa moneta.
Il sarcasmo è negativo, ma talvolta ha l’utile funzione di far crollare le persone, di farle incazzare, scaldare, cedere. Elena aveva ceduto. Avevo sfondato quel muro di ghiaccio e parole che si era costruita attorno, ma ciò che avevo intravisto dietro di esso, non riuscivo ancora a comprenderlo.
«Ma ti senti? Ti rendi conto delle parole che ti escono dalla bocca? Non ti riconosco più...» Mormorai, più dolce. Meno aggressiva. Più preoccupata.
Errore.
Mai mostrare comprensione o preoccupazione durante una lite, tantomeno quando si è appena passati in vantaggio. Ecco perché nei film, il buono risulta sempre penalizzato: si fa troppi riguardi. Cede troppo ai rimorsi. Da troppo peso alla “cosa giusta”.
Io ed Elena, in quel momento, stavamo combattendo verbalmente: lei mossa da non so quale invidia gelosa, io dalla speranza di ritrovare la mia migliore amica.
Sì, ci speravo ancora, così come speravo follemente che la telefonata dal Giappone non arrivasse per Ace, così come prima che tutta questa storia iniziasse, avevo confidato ogni giorno nell’arrivo di un dottore che mi dicesse che c’era una cura per il cancro.
La speranza a volte peggiora le ferite, ma combattere senza sperare, non è vivere.
«Si, mi sento, ma almeno so quello che dico Selene e forse so ancora chi sono. Puoi dire lo stesso?»
Probabilmente il mio cervello non funziona, è difettoso. Non capisce. Non capisco. Resto confusa. Non colgo quel significato nascosto, quell’alone di malinconia che aleggia in quelle parole. Lo vedo, ma non riesco a toccarlo.
Intangibile, effimero, inafferrabile. Come il tempo.
«So benissimo chi sono: me stessa. Sto vivendo il sogno più bello della mia vita Elena, ma se al mio fianco non ho la mia migliore amica... Non è lo stesso.» Sussurro, consapevole di porgere l’altra guancia. Conscia del fatto che riceverò un altro smacco. Rassegnata ad ottenere altro veleno rovesciato addosso.
«Sono felice che tu abbia, quantomeno,  la sanità mentale residua per definirlo un sogno, Selene! È bene che tu lo tenga a mente: Questo. È. Un. Sogno. Ricordatelo, altrimenti quando il principe sputafuoco tornerà a casa, crollerai assieme al castello che ti sei costruita.»
Il cadenzato suono del telefono annunciò la fine della telefonata. Mi aveva riattaccato in faccia, eppure continuavo a non capire.
Come disse Nietzche: “E chiunque voglia avere la gloria, deve congedarsi per tempo dall’onore ed esercitare la difficile arte di andarsene, al momento giusto.”
Elena aveva avuto la sua uscita ad effetto e la gloria. A me restava solo la rabbia e la stupida consapevolezza di aver combattuto male quella battaglia.
Ero furibonda, ma non capivo, non riuscivo a comprendere quelle parole, quell’atteggiamento, quel modo di fare. Non era Elena quella, non era la mia Elena.
Gettai il cellulare sul letto, fregandomene della mia mira inesistente, e mi stesi a pancia in su, fissando le venature del legno che componeva il soffitto della mia camera. Pino. Chiarissimo. Pieno di nodi e disegni meravigliosi, fatti dalla natura in anni e anni di crescita.
Chissà cos’era quella trave prima di diventare parte integrante della mia casa: era un albero boschivo? Oppure apparteneva a quelle fila ordinate e finte, piantate dall’uomo per essere tagliate ed usate in campo edile? Era un pino solitario, o circondato da altri alberi? Era giovane o già anziano? Era carico di verdi aghi e di pigne dalle forme floreali, oppure era spoglio e desolato?
Io come sono? Pazza, sicuramente. Pensare al passato di una trave di legno: chi se non un pazzo potrebbe farlo? Una matta, una stupida sognatrice folle.
Mi sarei frantumata, lo sapevo anche io, ma sentirselo dire faceva male, troppo male.
Guardavo la mia immagine riflessa nello specchio ogni giorno, vedendomi felice, ma sempre con un’ombra scura negli occhi: consapevolezza.
Non mi abbandonava nemmeno un secondo, nemmeno nei momenti più belli. Ace sarebbe ripartito. Io sarei rimasta sola, a raccogliere i cocci del mio cuore; frammenti troppo piccoli per essere riaggiustati, ma abbastanza grandi da sentirne la mancanza nel petto. Quando il telefono di Ace avrebbe squillato, annunciandogli la data ed il luogo della partenza, mi sarei semplicemente sbriciolata, come una bambola di porcellana troppo fragile per essere donata ad un bambino.
Crepe. Frammenti. Lacrime ed infine spazzatura.
Avevo appena perso la mia migliore amica e ne ero consapevole. La mia vita come sarebbe diventata ora?
Un nuovo vuoto si era formato nel mio cuore, ma stavolta non poteva essere colmato dai sentimenti che provavo per il moro.
La mia vita prima del suo arrivo era buia, oscura, senza uno straccio di luce, vuota; poi il fuoco in persona aveva portato il calore e colorato il mio mondo, ma purtroppo ogni cosa ha i suoi pro ed i suoi contro. La luce aveva illuminato tutto, ma ogni fonte di luce crea inevitabilmente delle ombre; e quelle ombre sono ancora più oscure delle tenebre che l’hanno preceduta. Non ho mai avuto paura del buio in generale, ma l’ignoto mi terrorizza; ed ora come ora, il mio futuro, risulta maledettamente ignoto. Senza Elena, prossimamente anche senza Ace, come avrei fatto a sopravvivere? Forse non ci sarei riuscita. Forse Ace non sarebbe partito. Forse Elena sarebbe tornata. Forse… Solo forse.
L’ignoto non mi spaventa: mi terrorizza.
Sbuffai per l’ennesima volta, dirigendomi verso la cabina armadio.
Dovevo indossare abiti brutti, sacrificabili, che non mi sarebbe dispiaciuto gettare, per questo quella mattina ero passata da casa. Inoltre dovevo fare qualcosa per non pensare, occupare la mente, dimenticarmi del mio dolore. Ero brava a farlo.
Estrassi un paio di Jeans blu scuro, a zampa di elefante, risalenti come minimo al periodo delle scuole medie; mi ero leggermente alzata, ma la mia taglia era rimasta la stessa e quei pantaloni erano stati conservati in vista di un futuro ritorno della moda. Anche se fosse tornata, non li avrei rimessi; definirli inguardabili era un eufemismo.
Dal cassetto invece scelsi una delle vecchie magliette usate per l’ora di ginnastica al liceo: enorme ed azzurra, immettibile in altre situazioni.
Cosa stavo per fare? Ovvio, lezioni di motocicletta, tanto per rischiare l’osso del collo e grattugiarmi le gambe sull’asfalto. Avevo un pessimo rapporto con le biciclette e l’equilibrio, cosa diavolo mi era saltato in mente di accettare quella stupida proposta di quello stupido pirata? Ecco la risposta alla mia stupida domanda: lo stupido pirata. Avrebbe potuto chiedermi di fare qualsiasi cosa insieme a lui, l’avrei fatta senza lamentarmi troppo, come era accaduto con la storia del Bungee jumping. L’ho fatto, ho perso dieci anni di vita e l’utilizzo delle corde vocali per un’intera settimana, ma per vedere Ace sorridere questo ed altro. Almeno i novanta euro per il lancio non li avevo sganciati io. Stupido zolfanello spericolato.
Avevo veramente il diritto di lamentarmi, dopo tutto? No, in effetti no.
Alla fine avevo deciso di stare con un pirata, non con un contabile; era ovvio che le sue abitudini fossero maledettamente più avventurose ed adrenaliniche della media. Inoltre, in fin dei conti, quei secondi di puro panico, quando sopra e sotto di te c’è solo il vuoto, erano stati fantastici.
Ripensare a quella giornata era controproducente, evidenziava la snervante e frettolosa impazienza infantile di Ace: ma ai ricordi non sempre si comanda.
Quella mattina mi aveva svegliata saltando sul letto, nella sua camera, gridandomi che dovevo prepararmi in fretta perché dovevamo partire per una gita fuori porta (e quando un pirata dice “fuori porta”, c’è da rabbrividire).
Mi ero svegliata all’apice dell’isteria e del rincoglionimento, ma fortunatamente ebbi la prontezza di domandare ad Ace la destinazione.
“Andiamo a Locarno, in Svizzera!”
Aveva risposto sornione il moro, restando carponi sul letto con quella faccia da schiaffi, facendomi sgranare gli occhi ed andare di traverso il tanto amato caffè mattutino. Almeno aveva avuto la prontezza di portarmi la colazione a letto.
Il perché della scelta di quella destinazione lo scoprii solo più tardi, una volta vestita e riacquistate le facoltà mentali minime.
“Beh, c’è il salto per il Bungee Jumping più alto del mondo!”
Ovviamente, che domanda idiota gli avevo posto chiedendogli “perché?”, ero stata una cretina a non immaginare che quell’idiota patentato avesse prenotato un lancio per due in Svizzera. Da una diga. A duecentoventi metri di altezza. Come avevo fatto a non immaginarlo?
Sorrisi tra me e me ripensando alle imprecazioni che avevo rovesciato addosso ad Ace quel giorno, mentre infilavo in una borsina i miei abiti; ad un certo punto della mia rabbia l’avevo perfino minacciato di fargli provare l’adrenalinica esperienza di un estintore nel deretano, pensate un po’.
Ridacchiai, tentando inutilmente di mettere in pausa il film dei miei ricordi sull’espressione del moro dopo la mia minaccia: occhi sgranati, labbra corrucciate ed espressione tra lo stupito ed il terrorizzato… A quanto pareva nessuno l’aveva mai minacciato di sodomia con un arnese ignifugo. Beh, c’è sempre una prima volta no?
Alla fine mi ero calmata ed avevo avevo scritto un SMS a mia madre, dicendole che andavo a fare una gita sul Lago Maggiore. Se le avessi accennato a quello che stavo per fare, un tornado sarebbe piombato in camera, stile Taz del Looney Tunes, sbranando Ace e rinchiudendomi in una stanza imbottita per evitare che mi ferissi. Lei ansiosa? Ma quando mai.
Due ore di viaggio, ancorata con tutte le mie forze ad Ace.
Superati i 230km/h avevo deciso di ignorare la lancetta della velocità.
Sono scesa da quella bestia di metallo con le braccia indolenzite, le gambe attanagliate dai crampi e le guance tese.
Avevo riso durante tutto il tragitto, godendomi quei secondi di felice libertà assoluta.
Fanculo i limiti. Al diavolo le multe. Solo noi due, la moto ed il vento contrario. Liberi.
Quando arrivammo al punto di lancio, quell’idiota dell’istruttore aveva voglia di fare umorismo: ci ha chiesto di scrivere i nostri nomi, in modo da non sbagliare l’ortografia sulle lapidi. Ace ha sorriso. Io ho spento quelle due dentature brillanti con uno sguardo.
Lacci, moschettoni, cinture e tiranti. Ace dietro, io davanti.
La piattaforma, il vuoto.
Ace volta la schiena al nulla, io sono costretta ad assecondare quel movimento.
Guardo l’istruttore che da il via.
Non riesco nemmeno a finire di pensare “no ti prego, Ace fermati!”. Lui salta.
Aria, vento, vuoto.
Sto urlando? Può darsi, sento la gola che brucia.
Dietro di me la risata del pirata.
Il mondo si ferma, il cuore diventa leggero, tutto sparisce.
È come andare in moto, solo che stavolta non c’è nulla a tenerti a terra: c’è solo il vuoto.
Si prova la stessa sensazione del risveglio da un sonno profondo, quando il letto sembra essere sparito sotto il nostro corpo ed il cuore perde un battito o più. Solo che poi il letto c’è. Quella volta invece, non avevo possibilità di fuga, avevo solo la risata di Ace nelle orecchie ed il nulla attorno.
Di quell’esperienza però non ricorderò solo gli infiniti rimbalzi, la paura ed il cuore impazzito; nessuno riuscirà mai a cancellarmi dalla mente la risata di Ace durante il salto. Una risata di felice libertà assoluta, unica e meravigliosa. Semplicemente magica.
Il campanello di casa che suona mi riscuote dai ricordi. Il cuore batte frenetico al solo pensiero.
Non troverei mai il coraggio di rifarlo, ma non mi pentirò mai di aver permesso ad Ace di trascinarmi su quella diga e lanciarci giù da quell’altezza.
Raccolgo svelta i vestiti e vado ad aprire al moro, che sul viso ha la stessa espressione di quella mattina di metà Ottobre: entusiasta come un bambino a Natale.
Ci salutiamo con un bacio leggero, a fior di labbra, che riesce comunque a farmi perdere un battito. Il mio povero cuore è forte, ma quel ragazzo dal viso monello lo mette a dura prova.
«Sei pronta?» Mi chiede, scostandomi un ciuffo ribelle dalla fronte. Io annuisco, mostrandogli il fagotto indefinito di vestiti e sorridendo al pensiero delle risate che si sarebbe fatto quel giorno.
Non avevo equilibrio. Non avevo forza. Non avevo esperienza.
Eppure avevo il malsano desiderio di imparare a guidare una moto. Stare con Ace mi aveva decisamente danneggiato l’istinto di sopravvivenza.
Sorrise, sfiorandomi la guancia leggero e stuzzicandomi le labbra con il suo respiro, tanto vicino da risucchiarmi l’anima.
Sospirai, mollando malamente i vestiti sul tavolino d’ingresso e cingendogli il collo. In punta di piedi, nonostante la differenza d’altezza, riuscivo a colmare la distanza tra le nostre labbra ed in quel momento era l’unica cosa che volevo fare.
Quando sentii la sua bocca rovente sulla mia mi sciolsi, lasciandomi andare completamente a quel bacio, stringendo le spalle del pirata e lasciandomi stringere.  Tentando di dimenticare la telefonata appena terminata. Il contatto tra i nostri corpi mi fece fremere ed ancorare più forte le mie mani ai suoi capelli. In un attimo i palmi del moro scesero lungo i miei fianchi, afferrandomi e sollevandomi completamente.
Strinsi gli occhi, tentando di cancellare il ricordo bruciante della voce di Elena.
Allacciai le gambe attorno alla sua vita, lasciando che lui poggiasse la mia schiena al muro. Erano bastati pochi gesti per portare l’eccitazione alle stelle, ma il vuoto nel mio petto non accennava a diminuire.
Ace probabilmente se ne accorse. Si staccò lentamente da me, inchiodando i miei occhi nei suoi d’onice.
«Cosa è successo?» Mi chiese preoccupato, posandomi a terra e carezzandomi una guancia con il dorso della mano.
«Niente! Solo una piccola discussione con Elena! Non preoccuparti.» Mentii sorridendo. Sorrisi mentendo.
Ace lo capì ma non fece domande, semplicemente mi abbracciò prima di farmi uscire di casa. Talvolta il silenzio è la parola migliore che si possa dare ad una persona che mente per non dar spiegazioni. Il pirata aveva preferito non affrontare l’argomento ora, ma sicuramente non avrebbe lasciato cadere facilmente la questione; avrei dovuto spiegargli l’accaduto, prima o poi.
Più poi che prima, spero… invano.

Il mio malsano desiderio di imparare a guidare una moto era stato esaudito, con la stima complessiva di sette cadute, diciotto interventi del pirata nel reggere il veicolo, o direttamente la sottoscritta, e ben trentacinque segni sul mio corpo, tra gambe, braccia e addome.
Graffi, botte, slogature e sbucciature: ecco cosa si vedeva sui miei arti malconci e sanguinanti alla fine di quella giornata.
Il mio problema principale? La fretta.
Ho dato sempre troppo gas, spaventandomi e di conseguenza inchiodando bruscamente, perdendo l’equilibrio e capitombolando a terra.
Ace aveva ridacchiato le prime volte, quando non mi facevo male se non nell’orgoglio, prendendomi in giro e tentando di insegnarmi l’ABC dell’equilibrio.
Dopo svariati tentativi però ero riuscita a partire decentemente, ma poi avevo dovuto cambiare la marcia ed avevo nuovamente accelerato. Sono caduta, ovviamente, troppo lontana e troppo in fretta, fuori dalla portata del pirata.
Ace allora aveva smesso di ridere e si era imbronciato, tentando di trascinarmi in casa e farmi smettere; ma io, testarda e cocciuta, mi ero rifiutata.
Ogni caduta aggiungeva un livido sul mio corpo, uno strato di incazzatura sul moro ed uno smacco al mio orgoglio.
Ecco un altro mio problema: l’orgoglio.
Quante volte mi ero ostinata in qualcosa, peggiorando drasticamente la mia situazione? Quante volte mi ero fatta male, per non cedere? Quante volte non avevo pianto, per non dar soddisfazione a chi mi faceva soffrire?
Tutto per orgoglio. Testardaggine. Stupidità, in fondo.
Verso sera, quando ormai il sole era prossimo al tramonto, ero riuscita a fare qualche metro; adagio, restando in equilibrio, piano.
La motocicletta però era pesante ed io troppo leggera e debole per gestirla.
Volevo frenare, ma ho dato gas.
Mi sono spaventata, quindi ho mollato il manubrio.
La moto è andata avanti di scatto, colpendomi allo sterno con la manopola del freno e scagliandomi indietro, a terra, maledettamente vicina alle ruote ancora in movimento.
Ho rivisto Marineford negli occhi di Ace e non mi sono mai sentita così male.
Non sentivo il dolore del corpo, ma il cuore tremava.
Per stupida cocciutaggine avevo fatto preoccupare a morte il ragazzo che amavo, rischiando di farmi male davvero.
Riuscii solamente ad articolare delle scuse biascicate mentre mi sedevo tra la polvere. Ace mi aveva abbracciata, stringendomi forte al suo petto caldo e baciandomi i capelli.
Io, patetica, avevo pianto.
Ero sempre stata brava a non pensare ai miei dispiaceri, ad occupare il mio tempo in modo tale da non concedere alla mia mente di elucubrare sui problemi, ma mai ero arrivata a rischiare la mia stessa vita, pur di sfuggire al dolore.
Ace mi aveva presa in braccio e portata in casa, disinfettato i graffi e messo del ghiaccio sulle parti più disastrate del mio corpo, il tutto in totale silenzio mentre io piangevo, sempre in silenzio.
Ora stavamo passando la serata accoccolati sul divano, a mangiare popcorn da microonde e guardando film di serie Z su Telesanterno, un canale prima sconosciuto che aveva attirato la nostra attenzione durante lo zapping con uno squallidissimo splatter su pseudo zombie assetati di sangue.
Ci aveva strappato parecchi sorrisi, alleggerendo un po’ il mio cuore, facendomi dimenticare ancora, per qualche istante, i miei problemi.
Il silenzio regnava sovrano nel salotto bianco, interrotto solo dalle ridicole grida dei protagonisti alla TV.
Ace non mi chiedeva nulla, non ne aveva alcun bisogno.
Sapeva di come si era disgregato il rapporto con Elena. Sapeva che la consapevolezza che lui sarebbe scomparso non mi lasciava mai. Sapeva che quel folle pomeriggio era stato l’apice di un tentativo di distrazione mal concluso.
Sapeva tutto e lo capiva.
Capiva che non servivano parole o promesse irrealizzabili per farmi sentire meglio.
Capiva che solamente con la sua vicinanza poteva lenire quei lividi invisibili, nascosti dal sorriso che indossavo in ogni momento della giornata. Con lui quasi tutti i sorrisi erano veri e sinceri, ma non tutti. Sorridevo anche quando il mio cervello mi ricordava il nostro futuro impossibile, quando le immagini di Marineford mi tornavano alla mente, quando il suo cellulare squillava ed il mio cuore, semplicemente, smetteva di battere.
Sorridevo, come lui.
Fingevo, come faceva lui.
Andavamo avanti, facendo finta di nulla, in comune e silenzioso accordo.
Eravamo, e siamo tutt’ora, totalmente consapevoli di cosa potrebbe succedere, anche domani, anche ora; ma ci siamo imposti di non permettere al futuro di impedirci di vivere il presente.
Che frase buffa, non trovate? Di solito è il passato a mettere i bastoni fra le ruote alla felicità del presente, non il futuro.
Ma noi, come coppia e come singoli, eravamo tutto fuorché convenzionali, no? Una ragazza innamorata di un disegno divenuto realtà…
A volte mi trovavo a pensare al fatto che sarebbe stato meglio, forse, poter tornare indietro ed evitare quelle radiazioni. Ace sarebbe rimasto un disegno, non ci saremmo mai innamorati ed ora non mi starei consumando il fegato; ma poi mi do dell’idiota pensando a tutti i momenti meravigliosi che abbiamo vissuto assieme, convinta che qualsiasi dolore avrei dovuto affrontare, ne sarebbe valsa la pena.




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Hem... Salve....
Lo so, sono in ritardo, troppo in ritardo, e ne sono più che consapevole! Mi dispiace un sacco avervi fatto aspettare tanto, ma l'ispirazione era svanita quasi totalmente, Elena non collaborava ed ho fatto alla mia vita troppi cambiamenti in una volta, per riuscire a tenere le redini di tutto.
Mi scuso, non so che altro fare purtroppo... Non posso promettervi regolarità, solo assicurarvi impegno incessante e la concluisione di questa storia. MAI la lascerò a metà, di questo potete stare sicuri!
Ora non mi dilungo in altro, scusatemi ancora T_T

Qual'è la vostra suoneria per il cellulare?

Domanda idiota, ma mi interessa davvero, e poi almeno facciamo conversazione u.u (ps. un grazie enorme a Gre per la pazienza)
Bacioni!!!!!

Immagini e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di lucro

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Capitolo 27
*** 26. Auto e legami ***


c1







Novembre. Il quindici per l’esattezza.
I lividi sui polpacci e sulle braccia stavano svanendo, la scottatura sull’interno coscia, causata dalla marmitta rovente, era ormai ridotta ad una macchiolina scura.
Nel gelo dell’inverno, che bussava insistentemente alle porte dell’autunno, guidavo verso il lago, con un pirata imbronciato ed offeso seduto accanto a me.
Ero sulla mia macchina, alla mia velocità (che, a titolo informativo, non risultava comunque conforme ai ridicoli limiti legali), con il mio riscaldamento acceso ed Ace corrucciato, ancora leso nel suo orgoglio da centauro della strada alla mia categorica opposizione ad un viaggio in moto; a dieci gradi sotto lo zero e con le gincane che componevano la strada per casa di Barbabianca, poteva serenamente scordarselo.
A braccia conserte e col viso imbronciato, intento a guardare il paesaggio come un moccioso capriccioso al quale era stato rifiutato il giocattolo, rimane comunque bellissimo.
Scossi la testa dopo quel pensiero, dandomi dell’idiota per l’associazione istantanea con Twilight; odiavo il mio cervello a volte, era troppo rapido e troppo recettivo su svariati aspetti. In pochi secondi aveva già creato un parallelismo tra la mia vita e quel libro, ma la mia razionalità era più forte ed aveva la consapevolezza come scudo.
Sì, perché questa non era una favola. Non era una storia tra una ragazza ed un vampiro che brilla, non era un sogno che nasce e muore in un nido di calde coperte. Era vita. Era freddo. Era addio.
Già: addio.
Perché Ace se ne andrà, perché Ace non può restare, perché Selene deve essere forte, perché Selene non deve piangere, perché Selene deve morire dentro.
Sospirai, tentando di buttare fuori i pensieri assieme all’aria nei polmoni.
Indossai un sorriso e guardandolo nello specchietto sembra quasi vero: ero brava.
«Dai fiammiferino, appena arriviamo ti compro un dolcetto, ok?» Lo canzonai, ottenendo di rimando borbottii sulla mia stronzaggine e minacce di vendetta alquanto strampalate.
Risi di gusto, accelerando un po’ sul rettilineo e superando una lumaca travestita da BMW; era proprio vero che chi aveva il pane non possedeva i denti e chi aveva i denti non possedeva il pane.
Per far sì che una Renault Modus sorpassi una macchina del genere, bisogna essere veramente incapaci alla guida, non sto scherzando.
Rientrai in carreggiata sghignazzando nello specchietto retrovisore, già lontana dall’auto appena superata, ma ancora abbastanza vicina per sentire il forte clacson del veicolo offeso. Adoravo guidare, mi mancava impugnare il volante della mia formidabile Portgas D. Anita. Ace era totalmente contrario a questo nome, ma purtroppo per lui non aveva voce in capitolo.
«Quanto manca?» Chiese, per la decima volta dalla nostra partenza, avvenuta ben trentasette minuti prima.
«Una vita! Un anno! Quarantamila edizioni della Settimana Enigmistica! Oda deve finire One Piece prima! Moriremo di vecchiaia in viaggio!» Sbottai, facendolo offendere ancora di più e godendomi quei pochi (perché sapevo che sarebbero stati pochi) attimi di silenzio.
Contai mentalmente.
Uno.
Due.
Tre.
Rumore di motore e ruote sull’asfalto umido.
Quattro.
Cinque.
Uno sbuffo di noia: la calma stava per finire.
Sei.
Sette.
Occhi neri che tentano di leggermi l’orario di arrivo in fronte.
Otto.
Case all’orizzonte, ma non quelle di nostra meta.
Nove.
«Siamo arrivati?»
«Cristo Ace, nemmeno dieci secondi sei durato! T’imbavaglio al ritorno! Anzi, ti faccio portare a casa da Marco, in volo!».
Altro adorabile broncio.
Avrei contato altre quaranta volte, mai arrivando al dieci, prima che quella maledetta villa entrasse nel nostro campo visivo.
Promemoria per me: inventare il teletrasporto.
«Ma Sely, perché non siamo andati in moto? Così il viaggio è noioso!» Ricominciò ad obiettare il pirata, interrompendo, per l’ennesima volta, con i suoi piagnucolii, Welcome to The Jungle ed erodendo la mia pazienza. Era, come minimo, la quinta volta che facevo ripartire dall’inizio quella sacrosanta canzone e il nomignolo che aveva usato per tentare di rendere innocente la frase non aiutava i miei nervi a calmarsi.
«Perché fuori fa freddo e non ho intenzione di ammalarmi per i tuoi capricci!» Rispiegai, ancora una volta, rassegnandomi alle sue domande sovrapposte alla voce di Axl.
«Non fa così freddo!» Ribatté convinto, offrendomi su un piatto d’argento la risposta adatta.
«Ok, allora la prossima volta vengo in moto con te, a farmi mordere il naso da Jack Frost!» Sogghignai, facendolo gonfiare di gelosia verso quel nuovo personaggio DreamWorks di ghiaccio. L’avevo trascinato al cinema a vedere “Le 5 Leggende” e mi ero lasciata sfuggire un commento su quanto fosse sexy lo spirito dell’inverno davanti a lui: pessima mossa.
Inutile descrivere la reazione più che offesa del fiammifero e le conseguenti scenate dimostrative su quanto il fuoco fosse meglio del ghiaccio; quella battuta mi era costata decine di brontolii, ma mi aveva regalato la notte più accesa della mia vita, al termine della quale ero stata costretta ad ammettere di preferire il fuoco al ghiaccio.
Sorrido al ricordo di lenzuola sgualcite e cubetti di ghiaccio evaporati rapidamente, impotenti contro il calore del fuoco e dell’eccitazione.
«Simpatica. Davvero. Devo rinfrescarti la memoria sulla superiorità del fuoco rispetto al ghiaccio?» Sibilò, tentando di fingersi indifferente, a pochi centimetri dal mio orecchio, promettendomi divertimenti e piaceri che nemmeno riuscivo ad immaginare sul momento.
Self control Selene, stai guidando.
Da bambini ci insegnano a non giocare col fuoco, per evitare di scottarsi, ma non dicono mai quanto può essere piacevole l’ebbrezza di sfiorare la fiamma, il brivido del pericolo che risiede in quelle lingue rosse e bollenti.
Mi sarei scottata, questo lo sapevo, eppure il gioco valeva la candela, perché si trattava dell’amore più bello e sincero che avessi mai potuto dare e ricevere in cambio.
Mi sarei scottata, eppure non me ne importava niente.
Mi sarei scottata e mi sarei tenuta stretta le cicatrici, come unico ricordo del sogno che stavo vivendo. Un sogno che valeva una vita, notti che sembravano passare in un soffio, ma valevano veramente tutto il tempo dell’universo.
Sospirai scuotendo la testa, scacciando nuovamente i pensieri, rimettendomi la maschera di un sorriso. A volte mi sembra di indossare perennemente la faccia di Guy Fawkes: sorridente, ma con la morte negli occhi.
Svoltai a destra, verso il lago, in una stradicciola sterrata in salita. Eravamo praticamente arrivati, ma dirlo ad Ace equivaleva ad avere un idiota di ottanta chili che saltellava sul sedile: snervante e dannoso per la stabilità dell’auto in quel tratto di scosceso, ergo da evitare.
Quando però la salita terminò e ci trovammo davanti al maestoso ingresso, mi fu impossibile nascondere ad Ace il raggiungimento della meta.
Il navigatore, messo in modalità silenziosa alla partenza, s’illuminò di viola, segnalando con un’allegra bandierina a scacchi svolazzante l’arrivo a destinazione.
Mi ero stupita della bellezza della casa del moro, ma quest’ultima sfigurava a confronto di quella mastodontica opera di restauro.
La villa era sicuramente il risultato di una minuziosa ricostruzione e di un generoso ampliamento di un vecchio rudere, di quelli con i tetti sfondati e le pietre tenute assieme dall’abitudine.
Parcheggiai sorridente, ignorando le lamentele incessanti del moro, super offeso perché non gli avevo detto che stavamo per arrivare ed indignato con se stesso per non essersi accorto del piccolo display, dove il fedele TomTom indicava l’orario di arrivo stimato.
Maledizione a me che non glie l’avevo fatto notare e all'idiota che aveva creato due strade percorribili per giungere a destinazione, facendo in modo che il moro non riconoscesse il percorso. Preoccupante la mia inclinazione ad incolpare individui sconosciuti delle mie disgrazie, ma dannatamente comodo.
Scesi dall’auto, sbattendo la portiera e mettendo l'allarme con gesti automatici e naturali, concedendomi intanto una panoramica mozzafiato del luogo in cui mi trovavo: la casa offriva una vista a strapiombo sul lago di Garda, color grigio piombo in quel tardo pomeriggio gelido, bello da star male.
Mi strinsi un po' nel giaccone, prima di avviarmi sul vialetto dove Ace mi stava aspettando, con la mia borsa tra le mani: glie l'avevo lanciata prima di partire e me ne ero totalmente dimenticata.
«La vernice nera ti dona, sai?» Ridacchiai, guadagnandomi una linguaccia ed una mano dispettosa tra i capelli.
Eppure non avevo mentito del tutto, vestito com'era anche una borsetta da donna non avrebbe danneggiato la sua bellezza; dal cappotto grigio fumo si intravedeva la camicia bianca, perfetta con quei jeans antracite e le converse bianche... O almeno lo erano, una volta… Credo...
Mi aveva chiesto consiglio per fare bella figura, soprattutto con Marco. Durante quei mesi era venuto spesso a far visita al Babbo, ma perennemente in tuta da motociclista e quindi senza porsi il problema dell'abbigliamento; oggi invece eravamo lì per una cena ed il mio intervento era stato decisamente provvidenziale.
Io stessa mi ero sforzata di vestirmi in maniera vagamente elegante, evitando di infilarmi i jeans e gli scarponcini di pelle, tanto caldi quanto orrendi sul piano estetico. Indossavo un abitino color vinaccia, con pantacollant neri e scomodissime scarpe col tacco in vernice, anch'esse nere.
Ebbene sì, so guidare con i tacchi, colpa di mia madre e delle sue convinzioni: "Sei una donna, devi saper guidare con i tacchi, così potrai sempre vantarti di essere meglio di un qualsiasi altro uomo alla guida".
Poi la gente si stupisce per come guido, con insegnanti del genere che speranza avevo di diventare una persona normale? Nessuna.
Ridacchiai al ricordo di Enrico, il mio fantastico istruttore di guida, che quando mi vide arrivare con un tacco dodici alla quinta guida, rischiò di sfondarsi il naso col palmo della mano.
Afferrai il braccio di Ace, appoggiandomi a lui per camminare, ed iniziammo ad avanzare verso la porta.
L'uscio enorme si aprì ancora prima che arrivassimo nei suoi pressi, rivelando un Barbabianca in tenuta da festa, più che lieto di vederci.
«Gurarara, ben arrivati ragazzi! Venite, venite, tra non molto dovrebbe arrivare anche Marco...» Iniziò solare il pirata, interrompendosi però al suono di un motore in agonia che tentava di scalare la salita. Un brivido di consapevolezza mi risalì dalla schiena, facendomi indovinare ancora prima che il cofano apparisse sia il modello di auto, sia il guidatore. Era il BMW superato ed insultato pochi chilometri prima, lo guidava quella fenice incapace ed aveva un disperato bisogno che fosse inserita la seconda.
Il suono che la mia mano fece, schiacciandosi disperata sulla mia faccia, attirò l'attenzione del vecchio imperatore dal volto perplesso e preoccupato.
«Non siate troppo severi, lo sapete che si offende facilmente...» Disse a bassa voce, facendo scoppiare definitivamente la risata, trattenuta a stento fino ad allora, di Ace.
Prevedevo una serata veramente nera per la povera fenice, veramente nera.
L’auto si fermò, grazie al cielo a metri di distanza dalla mia, sbuffando stancamente allo spegnimento del motore. Il primo comandante scese, tutto fiero ed impettito in un completo classico, iniziando a camminare verso di noi.
Sentii le guance tendersi, mi faceva male la faccia da tanto sentivo il bisogno di ridere, ma resistetti strenuamente. Purtroppo Ace non possedeva la mia tenacia.
«Ahahahahah, oddio sei la persona più inganfita che io abbia mai visto!» Sentenziò tra le risate il moro, facendo scoppiare per osmosi la mia risata, aumentata ulteriormente dal termine prettamente dialettale appena utilizzato dal mio pirata.
«“Inga” cosa scusa?» Domandò Marco, ormai arrivato di fronte a noi. Toccò a me rispondere, visto che Ace si stava letteralmente rotolando a terra, contorto in spasmi di ilarità che aumentavano ogni qualvolta posava gli occhi sulla povera automobile o il sadico proprietario.
«“Inganfito”, è un termine dialettale bresciano, in sostanza è un vocabolo che sintetizza i concetti di impedito, incapace, inetto, scarso, incompetente, scoordinato: in pratica una persona con capacità logico-motorie veramente carenti…» Spiegai rapida, rischiando di uccidere il moro per le troppe risa, Barbabianca per implosione e Marco per ira funesta.
Guardandolo innocentemente sorrisi, battendogli la mano sulla spalla con fare compassionevole, e conclusi : «Vai a scuola guida Marco, per tanto tempo ancora… Poi ne riparliamo…»
L’atmosfera ormai si poteva tranquillamente tagliare, il povero Imperatore non sapeva più che fare, combattuto tra il confortare un figlio umiliato e l’irrefrenabile impulso alla risata; alla fine optò per un compromesso.
«Forza entriamo! Si gela qua fuori! Gurarara…»
No, non era un compromesso, si era semplicemente tirato fuori dalla faccenda. Edward Ponzio Pilato Newgate, ecco il suo vero nome.
Lasciando cadere l’argomento “Uccelli alla guida” entrammo in casa, ritrovandoci abbracciati in un tiepido focolare domestico, arredato in maniera impeccabile con un gusto rustico e perfettamente in linea con l’ambiente. Qui la fenice, non aveva avuto voce in capitolo, era evidente.
Il mio cervello aveva sicuramente dei problemi, la prima cosa che produceva entrando in una casa era: “Cosa penserebbero a Cortesie per gli ospiti?”.
Real Time poteva rovinare la vita cerebrale di una persona, ormai ne ero quasi certa!
Scossi la testa, psicologicamente preparata a ripetere quell’operazione di reset mentale per tutta la durata della visita.
Barbabianca si sedette sul grande divano di cuoio al centro del salotto, riuscendo ad occuparlo quasi totalmente, e Marco si appollaiò sulla grande poltrona posta di fronte al camino acceso. L’atmosfera era meravigliosa, tanto accogliente da farmi quasi scordare tutta la folle tensione che mi aveva attanagliato durante i giorni precedenti e che ero riuscita a scacciare durante il viaggio, solo grazie al fatto che tutta la mia attenzione l’avevo focalizzata sulla strada. Ero rimasta sconvolta da quell’invito, che mi suonava troppo stramaledettamente ufficiale, non volevo incontrare di nuovo quello che poteva essere considerato il padre adottivo del mio ragazzo… Risultava troppo imbarazzante come situazione a mio avviso, eppure mi ero fatta convincere.
Avevo già incontrato l’imperatore bianco, ma il contesto ora era totalmente cambiato, ed inoltre l’ultima cosa che volevo era rivedere Marco e quella sua stupida maschera di indifferenza inespressiva, troppo simile alla mia per essere tollerabile.
Nascondevamo entrambi il medesimo segreto, pesante come un macigno sul petto, eppure sui nostri visi non mancava mai il sorriso. Come ci riuscivamo? Non ne ho idea, provate a chiederlo a lui.
Sospirando mi avviai verso il secondo divano, posto simmetricamente all’altro, sistemandomi accanto ad Ace. Si prospettava una lunga conversazione ed io non ero per niente pronta.
«Sono veramente contento che siate venuti! Selene, è un piacere rivederti finalmente, ero stanco di sentire Ace parlare di te! Gurarara» Iniziò il pirata, facendomi ridere di gusto davanti alle imprecazioni ed i rossori del moro.
«È un piacere per me, non avrei potuto rifiutare! Come vi trovate qui?» Chiesi di rimando, con finta scioltezza, stupendomi sempre di più delle mie doti recitative; avrei dovuto darmi al teatro.
«C’è perennemente un freddo polare! Come fate a vivere con questo clima?» Intervenne la fenice, ancora stizzito per gli sfottò sul suo “stile” di guida. Il clima del Nord Italia non era sicuramente dei più miti, ma non eravamo sicuramente in Antartide!
«Siete arrivati all’inizio dell’inverno in sostanza, il freddo non è ancora arrivato sai? Vedrai a Gennaio!» Risi, demoralizzando totalmente il povero comandante della prima flotta.
Parlando di località mi sorse spontanea una domanda, dove erano finiti tutti gli altri personaggi? Sapevo che i Mugiwara si trovavano in Africa, nessuno era riuscito a far desistere Rufy dall’idea di fare un safari, mentre le ultime notizie su Garp lo davano disperso in qualche stato dell’America Settentrionale, a strafogarsi di HotDog e altre porcherie.
«A proposito di climi e luoghi, sapete per caso dove sono finiti tutti gli altri?» Chiesi rapidamente, sia per curiosità sia per evitare l’argomento “tu più Ace uguale amore”.
Barbabianca si sistemò meglio sul sofà ed iniziò a rispondermi, torturandosi un baffo: «Vediamo, posso dirti solamente che Il Rosso sta girando tutta la Germania, strafogandosi di birra, i reali di Alabasta hanno incontrato pochi giorni fa la Regina d’Inghilterra mentre Ivankov e l’altro okama stanno gozzovigliando in Brasile. Sembra non sia troppo lontano da lì nemmeno Doflamingo ma Smoker lo sta tenendo d’occhio da Cuba. A quanto pare i sigari che fate in questo mondo sono particolarmente buoni, gurarara!»
Ridacchiai pensando alle destinazioni dei personaggi, che le avevano scelte con vero senso pratico. Continuando in questa logica, Aokiji non si sarebbe mosso da un qualche paradiso tropicale per niente al mondo, mentre quel vampiro mancato di Mihawk aveva sicuramente preso residenza in Transilvania.
Rabbrividii pensando a quegli occhi ed a cosa avrebbe potuto farmi se mai, per un bizzarro e sfortunato caso del destino, fosse venuto a conoscenza dei miei pensieri; altro che sashimi di Selene, mi avrebbe tramutato direttamente in macinato!
Mi preoccupava un po’ che nemmeno il grande Imperatore sapesse dov’erano finiti quell’attaccabrighe di Kidd e il sadico chirurgo, anche se su quest’ultimo qualche ipotesi l’avevo.
Ve lo immaginate Trafalgar Law al museo dei Beatles, a Liverpool, che canticchia “We all live in a yellow submarine”? Io sì ed come immagine risultava esilarante, quasi quanto Mihawk con i capelli acconciati in stile Dracula.
Ricomposi la faccia e riportai l’attenzione sul discorso, stavano parlando tranquillamente del più e del meno, dalle automobili al tempo, fino ad arrivare a vecchie memorie di pirateria.
Sì, perché erano pirati in fondo e bene che si trovassero, questo non era il loro mondo. Non passava un giorno senza che la mia coscienza mi facesse notare questo tassello, che mancava coriacemente alla mia visione giornaliera della vita, che cocciutamente ignoro.
Vivevo con Ace, Marco viveva con Barbabianca ed entrambi ogni giorno morivamo dentro, in un lento disgregarsi di organi, che lasciavano posto ad un’incolmabile vuoto. Sembrava di avere una voragine nel petto, infinitamente profonda e con i bordi in perenne deterioramento, sempre pronti a cedere.
Non pensavo a quando quei maledetti scienziati avrebbero trovato il modo per portarmi via Ace, sapevo solamente che quando sarebbe successo il mio cuore, semplicemente, avrebbe cessato di battere per il dolore.
Era inutile ripetersi in continuazione che andava tutto bene, che andrà tutto bene, non bisogna cedere alle lusinghe di quest’illusione, ogni tanto bisogna pungersi con la realtà. La rassegnazione era un altro stadio, andava oltre l’accettazione del dolore, non era mentire a se stessi, non era ignorare il problema, era semplicemente essere consapevoli di non poterlo risolvere, di essere incapaci ed inutilmente patetici nel tentare di rallentarne l’avanzata.
Cosa c’era di male quindi nel chiudere gli occhi e godersi al massimo gli ultimi momenti di quiete, prima che l’uragano ti investa con la sua inarrestabile forza? Nulla, farà male in egual modo, alla fine.
Cartapesta? Ferro? Cera? Gesso? Che maschera mi serviva per resistere a questa serata, che si preannunciava carica di attimi in cui quella fottuta voce interiore mi avrebbe detto: “Hey idiota! Se ne andrà a morire, lo sai?”.
Mi verrebbe sempre da risponderle: “Sì, vocina di merda, e tu sei troia, lo sai?”, ma resto fermamente convinta che innescare una discussione con lei sarebbe un chiaro sintomo di schizofrenia, quindi lascio perennemente perdere. Non che il riferirmi alla mia voce interiore come se fosse un’entità estranea sia meno preoccupante, ma lasciamo perdere per il momento, avrò tempo poi per le sedute dallo psichiatra.
La conversazione avanzava con scioltezza, accompagnandoci alla tavola apparecchiata e imbandita di ogni leccornia immaginabile.
Ace non fece complimenti, scaraventandosi sui vassoi da portata come uno sciame di cavallette e mandando il bon ton allegramente a farsi fottere.
Mi schiaffai una manata in fronte davanti a quella scena, avevo sperato fino all’ultimo che mantenesse quel briciolo di umanità che avevo tentato di insegnargli nell’ambito del cibarsi. Speranza vana. Tempo sprecato. Risultato inconsistente.
Avete presente le iene del Re Leone con il cosciotto di zebra? Tenetele a mente.
Ricordate il “piatto del giorno” nelle follie dell’imperatore? Bene!
Infine, riportate alla memoria il cane grasso del film su Tom & Jerry.
Ora unite le tre immagini ed appiccicatevi sopra Ace.
Ribrezzo? Schifo totale? Raccapriccio?
Esattamente.
«Ace… Vuoi che faccia una telefonata ad Animal Planet per fare del tuo “stile di caccia” un documentario?» Commentai pacata, bevendo un sorso d’acqua dal mio bicchiere e rischiando di far andare di traverso il sakè a Barbabianca.
Il moro si fermò, con briciole di non so cosa ancora attaccate alle guance, e guardandomi con occhi colpevoli diede una parvenza di civiltà alla sua posizione.
«Uhm… Scusa, è che ho visto tutte queste cose e non ho resistito alle vecchie maniere… Eheh…» Tentennò, grattandosi nervosamente la nuca. Mi faceva morire vederlo così impacciato di fronte ad un rimprovero.
Sorrisi divertita, seguita dal grande pirata bianco e da Marco, che non mancò l’occasione di stuzzicare il compagno.
«Ti ha messo in riga, eh?»
«Tu spera che nessuno ti metta mai nel mirino, pennuto da piattello fosforescente.»
Stavolta toccò a me rischiare l’annegamento con il bicchiere. L’immagine di Marco trasformato in fenice, scambiato per un bersaglio mobile, era qualcosa di epico.
Cento punti per chi colpisce la fenice blu!
Il volto di Barbabianca, tutto teso e concentrato a non far notare troppo il fatto che quell’immagine era passata anche per la sua testa, fu il colpo di grazia al mio tentativo di mantenere la serietà.
Le risate invasero la tavolata, come se tutti stessero aspettando il cedimento di qualcun altro prima di mettersi a sghignazzare ai danni del povero comandante della prima flotta. Ecco, come mio solito la figura di merda era toccata a me, bene!
«Scusa Marco, ma l’immagine era troppo divertente!» Singhiozzai, ricevendo solo un grugnito di rimando (e detto tra noi, un pennuto che grugnisce era veramente raro!).
La cena andò avanti serenamente e ad oltranza, fino a quando gli occhi del vecchio pirata mi catturano con la loro profondità, tanto saggia quanto infantile.
Sì, perché se ci pensate Barbabianca era un po' bambino, un Peter Pan che non voleva crescere, che continuava ad inseguire i suoi sogni ed a proteggerli, tenendo al sicuro i suoi bimbi sperduti e dando loro una famiglia. A pensarci meglio il paragone con Peter Pan era quasi perfetto, anche se figurarsi Marco nel ruolo di Trilly era una cattiveria totalmente gratuita e truculenta.
Sorrisi immaginandomi la fenice in tubino verde, ma soffocai la risata nel tovagliolo: certi argomenti a tavola non si trattano, guastano la digestione.
«Selene, volevo chiederti una cosa…» Iniziò l’imperatore bianco, posando le grandi mani sulla tovaglia bianca e facendo cessare immediatamente il cozzare di argenteria e stoviglie. Quel silenzio non mi piaceva, era troppo carico di tensione per essere un semplice silenzio pre-discorso.
«Prego, chieda pure…» Acconsentii, seppur dubbiosa.
Non mi piaceva per niente quel clima, non mi piacevano gli occhi saccenti di Marco, non mi piacevano la pietrificazione istantanea di Ace e tantomeno il pathos che stava creando Barbabianca.
«Prima di tutto, ti chiedo di darmi del tu, non voglio che ci siano queste formalità tra di noi! Ormai sei di famiglia, Gurarara!» Iniziò il vecchio, riuscendo a farmi tirare un sospiro di sollievo. Se mi chiedeva di lasciar perdere le formalità era una cosa buona, no? All’apparenza sì, quindi mi chiesi perché sentivo lo stomaco roteare e tritare gli organi circostanti.
«Ok, non c’è problema hem… Barbabianca!» Risposi sorridendo, finta e tesa come non ero mai stata.
«Gurarara, bene! Andrò subito al dunque! Ace ci ha raccontato un po’ la tua storia, sei molto giovane per essere rimasta orfana di padre, mi dispiace molto.»
Male, iniziava male quel discorso. Non amavo toccare quell’argomento. Parole come “orfana” e “padre” erano un tabu invalicabile, non andavano usate in un discorso con la sottoscritta. Strinsi i pugni ed abbassai gli occhi, non per nascondere eventuali lacrime, solo per darmi il tempo di ricacciare indietro la rabbia.
«Sono consapevole che l’argomento ti faccia ancora male, ma ho dovuto affrontarlo per farti la mia proposta… Ormai tu ed Ace siete una coppia, diventa parte della famiglia a tutti gli effetti, diventa mia figlia!» Concluse.
Le nocche strette erano ormai diventate bianche.
Il labbro morso stava sanguinando, lasciando andare nella mia bocca quel sapore ferroso e sgradevole.
La rabbia ribolliva dentro di me, come se avesse preso forma e stesse tentando di uscirmi dal petto.
Alzai lo sguardo, ma non avrei dovuto farlo.
Incontrai gli occhi teneri e buoni di Barbabianca, e non avrei voluto vederli.
L’espressione del vecchio pirata cambiò, diventando un misto di stupore e confusione.
Le emozioni forti accecano la mente. Amore, odio, rabbia, dolore, causano spesso dei microscopici vuoti di memoria, piccoli attimi di vita che semplicemente svaniscono nel turbine dei sentimenti. Un caleidoscopio di colori, dal vermiglio al nero, offuscò istantaneamente la mia mente.
Sentii solo la sedia grattare il pavimento e la fredda aria sulla mia pelle.
Vidi solo il buio della notte e la luna che si rifletteva timida sul lago blu scuro. Lo scintillio bianco ricordava le vetrine dei negozi Swarovski. Sorrisi al ricordo delle volte in cui mio padre mi spediva a comprare il regalo di anniversario a mia madre, con la raccomandazione di prendere qualcosa che le piacesse e che non gli prosciugasse il conto in banca.
Le fiamme dolci delle torce illuminavano il gelo della sera, portando piccole ancore di calore in quell'oceano blu. Non c'era vento, eppure il freddo sembra trapassare i vestiti per poi entrarmi nelle ossa. I miei respiri si trasformavano in leggere nuvole di vapore, prima di perdersi nell'aria novembrina.
Faceva freddo, ma stavo meglio in questo clima che non in quello caldo e famigliare della casa. Non ricordavo il tragitto dalla tavola alla balconata. Potrebbe sembrare stupido, perfino adolescenziale come comportamento, ma vedere lo sguardo paterno di Barbabianca posarsi su di me dopo quelle parole leggere, era stato troppo da sopportare. Non si trattava di una rabbia giustificata, tantomeno di una rabbia motivata, eppure c'era. Solo mio padre mi aveva guardata in quel modo durante tutta la mia vita e doveva rimanere così. Non c'era famiglia che tenesse, non c’erano sentimenti abbastanza forti da farmi cambiare questa condizione: resterà sempre l'unico.
Barbabianca poteva essere uno zio buono, uno pseudo suocero con i fiocchi, ma per me non sarebbe mai stato un padre, non potrà mai esserlo e basta. Io avevo un padre, lo amavo alla follia e lui amava me. Non ci siamo separati per divergenze di interessi o litigi, ma per un destino bastardamente stronzo e con un fottutissimo gusto per la sofferenza altrui.
Non piangevo più davanti ai ricordi, avevo finito le lacrime, mi era rimasta solo la rabbia abbinata agli sproloqui.
Sentii dei passi pesanti alle mie spalle ma non mi girai, non mi importava conoscere il mio interlocutore, non era necessario. Non era indispensabile.
«Ora entro.» Pronunciai, non riconoscendo quasi la mia voce.
Quanto poteva essere snervante cedere di avere la piena padronanza delle proprie corde vocali e comprendere che invece non è proprio così nell'aprire bocca? Troppo.
Avevo finito le lacrime, ma il dolore che stringeva alla gola non era diminuito, restava lì, come un cappio già stretto: abbastanza da farti male, insufficiente ad ucciderti.
Mi schiarii la voce e, stringendo le spalle per il freddo ed indurendo il mio viso in una parvenza di tranquillità, mi voltai verso la vetrata, ma non la vidi.
Tra il mio corpo e la casa c'era qualcuno che mi impediva la visuale, qualcuno abbastanza grande da oscurare il chiarore delle luci all'interno: Barbabianca.
Deglutii una volta, poi alzai piano lo sguardo e mi concentrai sulle sue sopracciglia. Ricordai in un attimo i libri di Anita Blake, la spietata sterminatrice di vampiri, che per non cadere vittima dell'ipnosi fissava sempre un dettaglio nel viso del vampiro, o in casi disperati la spalla. Io in quel momento stavo facendo la stessa identica cosa: cercavo di evitare gli occhi ambrati del pirata, in modo da non rimanere invischiata in quei pozzi di resina liquida.
Stava arrivando un discorso che non volevo affrontare. Un argomento che non volevo toccare.
Non avrei chiesto scusa, non mi sarei dispiaciuta per il mio comportamento.
Non era vero che la mia rabbia era ingiustificata ed immotivata, avevo le mie ragioni ed i miei motivi, valide ed evidenti.
Wendy Darling viveva il suo sogno sull’isola che non c’è, viveva meravigliose avventure, viveva assieme ai bimbi sperduti: ma poi tornava a casa, per crescere.
Io non volevo andarmene prima del tempo ma non sarei restata, non sarei diventata una bimba sperduta. Mai.
Odiavo il silenzio che precedeva un discorso, più di quanto potessi arrivare ad odiare il discorso stesso, quindi lo spezzai.
Aprii la bocca, presi fiato, tentai di articolare, ma fui preceduta.
«Perdonami, sono stato avventato ed inappropriato. Non ho pensato che potesse darti tanto fastidio.»
Gli occhi si mossero da soli, cercando le iridi del pirata. Sentii la sorpresa disegnarsi sul mio viso, in contemporanea alla comparsa di un gentile sorriso su quello di Barbabianca.
Mi tese la mano ed io inconsciamente la afferrai, senza pensare.
Mi disse che era meglio rientrare, visto il freddo, ed a me stava bene.
Non era arrabbiato, aveva capito, ed io ne ero felice.
Sorrisi mentre rientravo in quella casa e, in quell’istante, non indossavo nessuna maschera.








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Salve......
Ebbene sì, non sono morta (e continuerò a non esserlo se non mi ucciderete ♥) e sono tornata ad aggiornare questo parto infinito di storia xD.
Questo capitolo è stato infernale, tra le idee che non arrivavano e la rivolta, con sfumature anarchiche, dei congiuntivi (che non è ancora stata sedata, tanto per intenderci) l'avrò riscritto in dieci versioni diverse! [Doveroso applauso di ringraziamento alla poveretta che mi ha sopportato ad orari improponibili, con i miei sfoghi del tipo: "Ommioddio mi sono immaginata Marco con un tubino! Voglio morire", Grazie Otter ♥]
Come al solito non posso che porvi le mie scuse infinite, sperando che il capitolo abbia  smorzato un po' l'amaro dell'immensa attesa...
Sono mortificata, davvero, ma come avevo già detto ormai non posso più assicurare costanza e regolarità (e non avete idea di quanto mi roda dirlo, visto che sono la prima ad incazzarmi come una iena quando una storia che seguo viene ignorata dall'autrice per troppo tempo), posso solamente tornare a confermare l'intenzione ferrea di finire questa ff a tutti i costi, ed ormai non dovrebbe mancare molto...
Cioè, non manca molto sul piano teorico/organizzativo della storia, non chiedetemi di quntificare il "poco" in capitoli o tempo, temo che sarei costretta a rispondervi come Selene ad Ace xD.
Finalmente però posso prendermi 5 minuti per sproloquiare un po' nelle note d'autrice, che avevo brutalmente concentrato nello scorso aggiornamento xD
La mia suoneria penso sia... Un incubo che si realizza... Da poco mi sono appassionata a Naruto, quindi ho pensato bene di impostare come sveglia e suoneria un mini-Sasuke che trapana i timpani (e i maroni) di Santo Itachi da Konoha (martire, ovviamente, come dice Nonciclopedia xD): QUI trovate il video, tanto per rendervi partecipi di quanto sia traumatico il mio risveglio mattutino, quando arrivo al "weeeeeeeaaasel" sto già maledicendo me stessa e tutti i miei avi =P  [ed il mondo si chiede: "perchè non la togli, idiota? " ed in effetti dovrei farlo... Però è troppo simaptica ^_^.... Ma la dovrò levare, altrimenti la mia coinquilina mi ammazza (sì, me l'ha già promesso T_T )]
Ok, ora mi sto dilungando veramente troppo, quindi saluto i pochi superstiti, li ringrazio di cuore per avermi retto fino a qui, ringrazio i recensori, sia i veterani (grazie, davvero ♥) che le new entry, che mi danno sempre nuova voglia di impegnarmi al massimo!!!! Non pensavo che dopo tanti capitoli potessero aggiungersi altri lettori, mi fate veramente felice!
Grazie anche a chi legge soltanto, aggiunge la storia ai preferiti, seguiti o ricordati, siete tantissimi e non so più come dirvi quanto sia contenta!!!
Adesso chiudo, facendomi ancora un mucchietto di affari vostri, con la domandina di rito:

Come immaginate (sognate, forse è meglio xD) la vostra casa ideale?

Così restiamo a tema col capitolo =P
Mille baci e a prestissimo!!! (si spera....)

Ah, comunicazione di servizio: Ananas Pennuto riprenderà, promesso! E non andate nel panico se seguivo le vostre storie e sono sparita, tornerò prima o poi... Devo solo trovare il tempo P_P )

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Capitolo 28
*** 27. In cucina, no! ***


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21 Dicembre: solstizio d’inverno.
Inizio ufficiale della stagione fredda.
Data di panico collettivo pre-natalizio.
Momento durante il quale in un passato remoto, ormai dimenticato, intere popolazioni si fermavano e veneravano la rinascita del Dio Sole.
Il giorno più breve.
La notte più lunga.
Attimo in cui Sole e Terra sono più vicini.
Apice del loro rapporto di attrazione gravitazionale inarrestabile.
Ace, anche in quel momento, era il mio sole e mi scaldava come non mai. Eravamo felici, insieme, quasi spensierati. Già, il “quasi” purtroppo non poteva essere rimosso per nessuno dei due: a lui mancavano i fratelli e l’avventura, anche se non lo esprimeva mai, ed io ero perennemente consapevole di quanto fosse effimero il momento che stavo vivendo.
Il solstizio d’inverno era da sempre etichettato come “rinascita” e “nuovo inizio” ma io speravo solamente che non fosse l’inizio della fine.
Nel plumbeo dicembre inoltrato, i metereologi si affannavano ad allarmare la popolazione con l’allerta neve.
I bambini speravano in quei fiocchi bianchi per poter giocare in giardino.
I ragazzi pregavano per leggere sul sito scolastico la scritta “Chiusi per neve”.
Gli adulti confidavano nella buona organizzazione degli addetti alla pulizia delle strade e nell’evitare le lastre di ghiaccio.
I nonni rievocavano con nostalgia e rimprovero la nevicata dell’85, per nulla spaventati da altre precipitazioni.
Io invece sapevo che non avrebbe nevicato quell’anno, perché perfino nella glaciale isola di Drum vento e gelo non avevano potuto nulla contro il fuoco: la neve aveva smesso di cadere con l’arrivo di Ace.
Forse avrebbe ripreso a fioccare dopo la sua partenza, se questa fosse avvenuta entro la fine dell’inverno.
Non sapevo quando il telefono avrebbe squillato per lui: sussultavo ogni volta che quell’orrenda suoneria della Nokia riempiva la casa. Una volta era Marco. Un’altra Rufy. Un’altra ancora Garp che si assicurava che il nipote non finisse nei guai anche in questo universo.
La mia vita sarebbe tranquillamente paragonabile ad una fascia di bonaccia: senza vento, soleggiata, senza scossoni d’onda, senza nulla di pericoloso all’orizzonte.
Immobile inquietudine, nell’attesa che qualcosa di terribile appaia sulla linea del tramonto.
Sciocca inconsapevolezza, che il pericolo in realtà erano i mostri tremendi che abitavano quelle acque placide e senza increspature.
Sconcertante ostinazione nell’ignorare il pericolo evidente, pur di godere di quegli attimi di pura pace.
I pensieri mattutini erano sempre i più strani: ancora confusi nel sonno ma con una vena di realismo quasi fastidiosa. Unici momenti in cui potevo pensare alla partenza del pirata senza dover lottare con le lacrime.
Erano le otto e trenta ed era Sabato: avrei potuto dormire ad oltranza se non fosse stato per il frastuono, non abbastanza ovattato dai muri, che invadeva la casa.
Svegliarsi per colpa di strani rumori in casa, era una cosa snervante.
I miei occhi si aprirono svogliati, dopo l’ennesima bestemmia del moro, preceduta dall’ennesimo rumore molesto e di dubbia origine.
Sbuffando tentai di liberarmi dal groviglio di coperte che ero riuscita a creare, alzandomi e riavvolgendomi in un caldo plaid per trascinarmi verso la fonte di disturbo del mio sonno.
La luminosità che tanto amavo di quella casa, mi risultava fastidiosa ed eccessiva in quel momento, ed unita alla terribile puzza di bruciato che proveniva, ahimè, dalla cucina, presagiva una mia imminente incazzatura.
Appena le mie sinapsi presero a funzionare, i collegamenti furono istantanei.
Rumore. Ace.
Puzzo di strino. Ace.
Cucina. Ace non dovrebbe essere lì.
Beh, in sostanza il mio problema quel mattino, tanto per cambiare, era Ace.
«Prima che io varchi la soglia, dimmi esattamente da uno a dieci, quanto devo arrabbiarmi?» Chiesi, massaggiandomi le tempie, prima di entrare nel salotto.
Un coraggioso angolo di muro mi nascondeva il nucleo del disturbo onirico dalla vista, tuttavia la mia immaginazione era dannatamente realistica ma altrettanto catastrofista.
«Oh, sei sveglia! Hem… Dipende dai punti di vista…» Rispose il pirata, tra lo stupito e il preoccupato.
Quando ti dicono che dipende dal punto di vista, conoscendo perfettamente il tuo e glissando la domanda, mediamente la furia omicida sale a livelli stellari.
Sospirai prima di fare gli ultimi passi verso quella che un tempo, nemmeno troppo lontano, era un’innocente cucina.
Non mi presi nemmeno la briga di stare a guardare i dettagli, mi girai ed andai a spalancare tutte le finestre possibili ed immaginabili, ignorando il gelo e restando in religioso silenzio.
«Sely…» Biascicò il moro, sempre più turbato dalla mia calma apparente.
Come un automa mi diressi nuovamente verso il piano cottura, sorvolando sul grembiule, raffigurante il David di Michelangelo, che Ace stava orgogliosamente indossando ed accendendo la cappa di aspirazione.
Mi guardai attorno, in cerca di parole per descrivere il macello di uova, pancetta, cioccolata e altri ingredienti non ben identificabili, senza successo.
Disastro? Devastazione? Porcile? Letamaio? Porcaio? Mattanza?
Eufemismi.
Presi il braccio del moro e lo trascinai gentilmente davanti allo sgabello dell’isola della cucina.
Io mi sedetti sull’altro, di fronte a lui, e sorrisi.
Il sangue del pirata si congelò istantaneamente, potei quasi vederlo mentre si cristallizzava nelle vene. Buffo, per un ragazzo fatto di fuoco, no?
«Ora, prima che l’altra parte di me prenda il sopravvento, aggiungendo a questo… Agglomerato informe di roba, brandelli della tua carne, dimmi cosa stavi facendo e perché. Sii convincente.» Asserii, incrociando le braccia al petto e stringendomi di più nella coperta: dalle finestre entrava un vento polare ma almeno la puzza di bruciato stava passando.
Ace fece per grattarsi la nuca, rinunciando a quel gesto nervoso dopo aver notato le incrostazioni (di non so cosa) che gli ornavano le mani e parte dei polsi.
«Beh ecco… Stavo cucinando la colazione ma la situazione mi è sfuggita di mano… Il libro di ricette parla in modo stranissimo ed io penso di non essere capace di cucinare… Eheh…» Ridacchiò, fingendo malamente scioltezza e sicurezza.
Feci scorrere nuovamente lo sguardo su quello che ricopriva il marmo, individuando cucchiai, forchette, spremiagrumi, pelapatate e lo shaker. Cosa cazzo pensava di fare con uno shaker? Il pelapatate, a cosa era servito? Ma soprattutto, cos’era quella sostanza giallina che ricopriva quasi totalmente il piano?
«Ace, quella cos’è?» Domandai, ancora incerta sul voler sapere o meno l’origine di quella roba.
«Ah, è la farina per fare i pancake! Volevo farti la colazione americana, visto che dici sempre che andare in America ti piacerebbe!» Disse, sincero ed ingenuo come al solito.
Il nervosismo iniziale per la spiacevole sveglia si era praticamente dissolto, lasciando spazio ad un senso di ribrezzo verso le condizioni della cucina e di dolcezza per il moro. Si era impegnato nel fare qualcosa che non era minimamente in grado di gestire, solo per me: incazzarsi sarebbe stato da stronzi e pur definendomi una grandissima carogna in molte situazioni, riuscivo a non esserlo nei casi più importanti.
Ridacchiai alzandomi dallo sgabello ed andando a chiudere le finestre, mentre dicevo ad Ace di lavarsi le mani ed iniziare a ripulire quello schifo; gli avrei dato una mano a preparare quella santa colazione, sperando che in dispensa fosse rimasto qualcosa.
Ignorai il fatto che avesse tentato di fare delle ciambelle con la farina per la polenta.
Sorvolai sull’idiozia di utilizzare uno scolapasta per separare chiare e tuorli.
Rifiutai di considerare plausibile l’ipotesi che avesse tentato di cuocere i muffins nella pentola a pressione.
Ero dannatamente brava ad ignorare l’evidenza.
Un ora e venticinque minuti dopo stavo addentando il mio pancake alla Nutella, seduta con il pirata in un luogo che aveva ripreso le sembianze di una cucina.
Scrostare tutto quel pattume era stato impegnativo ma condito di tante risate, dovute all’illustrazione più che convinta del moro su come aveva tentato di fare le cose.
Spiegargli gli arcani significati di “chiare montate a neve” e “rosolare”, mi aveva divertita in modo particolare.
Sì, aveva tentato di montare le chiare con lo shaker e, parlandomi della rosolatura, aveva detto, testualmente: “Io ho pensato che volesse dire far diventare rosa, ma il bacon è già rosa! Mi ha confuso quel libro, poteva dire di farlo dorare!”.
Avevo riso come un’idiota a quell’affermazione e  ripensandoci era inevitabile sorridere; oppure era solo colpa della Nutella.
Quella crema tentatrice era in grado di causare ilarità istantanea a chi ne faceva uso, resto tutt’oggi convinta che sia una droga: legale, ma droga.
Persa tra i miei pensieri non mi accorsi delle labbra di Ace che, imbrattate di marmellata, si erano avvicinate pericolosamente alle mie. Dopo un leggero sussulto di sorpresa lo baciai, unendo la crema di nocciola alla confettura di albicocche: il sapore era uno schifo, ma l’emozione che aveva catalizzato ne offuscava totalmente l’importanza.
«Marmellata e Nutella non è un’abbinata vincente!» Sorrise a fior di labbra il pirata, tornando poi a sedere al suo posto.
Durante quello spostamento non potei non notare nuovamente il grembiule: ornamento capace di spegnere istantaneamente qualsiasi tipo di attrattiva pseudo erotica.
«Ti prego, togli quel coso… È raccapricciante!» Ghignai, pulendomi gli ultimi residui di cioccolato dalla bocca ed osservando il viso imbronciato del bel pirata.
«Non è vero, mi sta bene invece, sembro uno chef!» Borbottò, alzandosi per mostrarmi meglio l’effetto che, secondo lui, faceva.
Mi fu impossibile tenere a freno occhi, lingua ed encefalo.
Mi fu impossibile non notare l’irrisorio “utensile” da riproduzione del povero David.
Mi fu impossibile evitare di partorire una battuta dalla malizia incontenibile.
«Mah, io non mi vanterei di avere in dotazione da Madre natura, un cosino così… Ridotto sul piano volumetrico.» Esclamai, enfatizzando il finale della frase con un eloquente gesto della mano.
Solo due cose non andavano mai criticate ad un uomo: il mezzo di trasporto ed i gioielli di famiglia.
Mai commentare negativamente automobile, motocicletta, caravan, bicicletta o triciclo che fosse e mai ironizzare sulle dimensioni del pene: pare siano particolarmente suscettibili su questi argomenti.
Sul viso del pirata passarono un quantitativo invidiabile di emozioni, dall’offesa all’orgoglio, dal dubbio alla vendetta: e quest’ultima mi spaventava non poco.
Non feci in tempo a tentare la fuga in camera, il corpo di Ace mi stava già schiacciando contro il marmo della cucina, mentre la sua bocca si trovava maledettamente vicina al mio orecchio.
«Fossi in te, non scherzerei su certe cose…» Sussurrò rovente, prima di iniziare a baciarmi il collo con esasperante lentezza.
In pochi secondi era riuscito a portare l’eccitazione ad un livello quasi insopportabile, facendo quasi bollire il mio sangue e cuocendomi definitivamente il cervello.
Seppi solo cercare le sue labbra, stringere le braccia attorno al suo collo e lasciarmi trascinare in un vortice di fuoco dalla sua lingua.
Non ricordo come e tantomeno quando, ma i piatti dietro di me erano spariti, spinti da un lato, assieme a tutto quello che avevamo usato per la colazione.
La coperta era già caduta da un pezzo dalle mie spalle e le dita del moro stavano iniziando a farsi strada sulla mia schiena, sotto la tela sottile del pigiama.
Non si fermò a litigare con il gancetto del reggiseno, preferì farci passare sotto un dito e fondere il tessuto.
Era il quinto che faceva quella fine.
Avevo smesso di arrabbiarmi dopo il terzo.
Gli morsi le labbra, unica rimostranza che attuai verso quella violenza verso il mio vestiario, ma invece di pentimento provocai solamente un aumento della frenesia.
Strattonai verso il basso il tessuto della maglietta, mentre tentavo al contempo di slacciargli quel grembiule. Ci riuscii e lanciai sul pavimento quell’orribile pezzo di stoffa, presto raggiunto da altri vestiti.
Le mani di Ace erano ovunque, facendomi sussultare e gemere sulle sue labbra cariche di maliziose promesse.
Adorava torturarmi in quel modo, martoriandomi di attenzioni, divertendosi guardando le mie espressioni ed ascoltando i miei respiri.
Non so dire quanto andò avanti, so solo di aver rischiato la follia.
Ricordo le labbra di Ace scendere sul mio addome.
Ricordo di essere rabbrividita quando la mia schiena aveva toccato il marmo gelido.
Ricordo che della scomodità della cucina come luogo per fare l’amore, me ne era importato davvero poco.
Ricordo di aver graffiato e gridato.
Ricordo di aver strappato dei gemiti al pirata.
Ricordo… In verità ricordo veramente molto poco di ciò che era successo in quel frangente.
Le emozioni forti causano spesso vuoti di memoria, caleidoscopici fotogrammi di vita sparsi a random nel nostro cervello, uniti solamente dal sentimento che in quel momento li ha frammentati.
Forse abbracciai Ace mentre era ancora dentro di me.
Forse mi sollevò e portò in camera da letto.
Forse mi ero addormentata poco dopo, ancora avvinghiata all’uomo che ormai era padrone del mio cuore e del mio corpo.
Forse ricevetti delle carezze tra i capelli ed un bacio sulla fronte.
Forse sentii un “ti amo” sussurrato, talmente piano che non avrei potuto percepirlo se non a quella minima distanza.
Beh, forse ero caduta tra le dolci braccia del sogno e di non sapevo distinguere cosa veramente era stato reale e cosa, invece, solamente un sogno.
Era il solstizio d’inverno. Faceva freddo fuori dai vetri appannati.
Eppure non nevicava. Non ancora.
Magari avrebbe nevicato lo stesso, nonostante la presenza di Ace. Dopotutto la stagione fredda era appena iniziata, c’era ancora tempo per la neve.
Speravo. Mi convincevo. Sognavo.
Era il solstizio d’inverno. Faceva caldo tra quelle coperte.
Eppure non mi importava di nient’altro.










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Eccomi qua! Dai, stavolta l'attesa non è stata plurimestrale almeno, no? xD
Ok ok, sto zitta che è meglio, ho colto il messaggio!
Mi spiace davvero farvi aspettare tanto... Colgo il vostro disappunto dal boicottaggio, ma davvero non lo faccio per creare suspence, giuro T_T
L'ispirazione sembra tornata, timida e labile ma c'è!
Quindi in teoria ora gli aggiornamenti saranno leggermente più costanti (le ultime parole famose T_T)!
A testimonianza del ritorno della suddetta, mi faccio un po' di autosponsorizzazione con la mia prima OS su Rufy, Freedom's Punch, e la mia prima OS nel fandom di Naruto, Laughing in the purple , con Suigetsu come protagonista (Sono in vena di prime volte insomma! xD)!

Cooomunque, la mia casa ideale? due parole: Enorme e accogliente! xD
Ora, la domanda:

Con cosa fate colazione? (rimaniamo in tema xD)

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, stando ai calcoli (sicuramente errati) che ho fatto, mancano circa 3/4 capitoli all'inizio della fine....
Inizierò a riavvolgere la trama della storia ed a tirare tutti i fili necessari per giungere alla parola "FINE" per questa storia! (Chiamatemi Sasori d'ora in poi xD)
Mi spiacerà finire questa storia...
Ormai è passato un anno dal primo capitolo, è la mia Long più long xD Non pensavo sarebbe diventata un progetto tanto impegnativo, lo ammetto! (la fine era prevista per settembre, pensate un po'!)
Eppure sono contenta! =D Cambiano tante cose in un anno vero? Non ce ne si rende quasi conto ma è tanto tempo...
Bene, chiudiamo la vena nostalgica! xD
Un baciotto enorme!
A presto!


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Capitolo 29
*** 28. Tic Tac! ***


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Dieci Gennaio del nuovo anno.
I buoni propositi erano già in parte sfumati.
Il mondo non era cambiato.
Milioni di persone continuavano a fare la solita vita, la solita routine, i soliti errori.
Le guerre continuavano, la fame nel mondo non finiva, le parolacce non erano diminuite e il cane al mattino continuava ad essere portato fuori da genitori svogliati.
Fioretti, promesse ed impegni per il nuovo anno: ipocrisiaci e diffusi attimi di lucidità mentale, nei quali la gente si rendeva conto di quanto stesse sbagliando, si impegnava a non perseverare nell’errore e consapevolmente faceva un voto destinato ad essere infranto.
Il cielo era bellissimo, con quell’azzurro pallido ma perfetto ed il Sole piccolo, freddo, quasi bianco.
Chissà cosa pensa il Sole di noi terrestri e delle nostre vite; probabilmente si annoia a morte nel constatare quanto siano monotone e ripetitive, oppure ride delle nostre disgrazie e della nostra totale incapacità di vivere senza farci del male.
L’essere umano di base potrebbe essere definito come la personificazione dell’autolesionismo. Conoscete animali che si auto infliggono dolori e pene come gli uomini? Personalmente no.
Sbuffando, appoggiai la fronte al freddo vetro della finestra della camera, appannandomi la vista con la condensa del mio stesso fiato. D’inverno avere gli occhiali era un inferno, più di quanto già non lo fosse durante l’estate, ma era un fastidio sopportabile, confrontato con la sfocata opacità che mi avrebbe circondata senza quelle lenti di vetro.
Mi allontanai dalla vetrata ed avanzai nella stanza, soffermandomi davanti al grande specchio appeso al muro ed iniziando a guardarmi, di profilo, toccandomi leggermente la pancia gonfia.
Il periodo che segue le feste di natale è un tragico destino che accomuna tutti: la dieta.
Più che ciccia era gonfiore, causato dalle bevande alcoliche e gassate, dalla qualità poco raccomandabile del cibo ingurgitato e dalla totale mancanza di frutta e verdura nell’alimentazione, ma era comunque sgradevole da vedere.
Iniziai a tirare e rilasciare i muscoli addominali, creando un bizzarro alternarsi tra malata magrezza e buffa rotondità.
Ah, dimenticavo, il ciclo ovviamente non migliorava la situazione di gonfiore: una taglia in più di reggiseno ne era la prova tangibile.
Ace entrò in camera con un pacchetto di patatine, tanto per restare in tema alimentare, e rimase inchiodato sulla porta, guardandomi con occhi sbarrati.
«Oh… Oddio!» Esclamò, lasciando cadere a terra il sacchetto, che sparse il suo unto contenuto sul pavimento, facendomi gonfiare istantaneamente la vena occipitale.
«Ma sei deficiente o cosa?» Ringhiai, alternando lo sguardo tra la sua faccia ed il pavimento rivestito di croccanti grassi idrogenati.
«Selene mi dispiace! Oddio ti prego scusami! Ti ho rovinato la vita, perdonami! Cosa possiamo fare?» Continuò trafelato il moro, passando sopra al porcaio che aveva prodotto, ampliando il raggio del disastro, e prendendomi delicatamente e con premura le spalle.
Magari le patatine erano scadute, oppure lo era tutto quello che aveva ingurgitato prima di arrivare a quel pacchetto.
Magari durante il parto era restato troppo senza ossigeno, oppure quella santa donna di Rouge l’aveva partorito in piedi, facendolo cadere di testa. Cristo, qualcosa per giustificare tanta demenza doveva essere successo!
«Ace, ti droghi o mi prendi semplicemente per il culo? Ma ti sei reso conto di quello che hai sparso sul pavimento, razza di troglodita antropomorfo?» Articolai, guardandolo con occhi che somigliavano sempre di più ad uno sharingan.
Il pirata mi guardò, con occhi persi e confusi, con il viso perplesso ed un’espressione dolcemente preoccupata. Odiavo essere guardata così, sembrava che fossi io la demente di turno, e non lo ero.
Feci un cenno col mento, un muto “Allora?”, che non ottenne risposta se non un abbraccio.
Ok, basta, il mio ragazzo si drogava; e glie la tagliavano anche male a giudicare dai comportamenti.
«Mi dispiace, non volevo che succedesse, soprattutto sapendo che prima o poi dovrò andarmene… Ma non preoccuparti, tenterò di fare il possibile perché riusciate a stare bene anche senza di me, almeno sul piano economico… Tsk, io che pensavo di essere diverso da lui, mi trovo a fare la stessa cosa, abbandonare la mia donna nel momento del bisogno con -»
«MA TI SEI TOTALMENTE RINCOGLIONITO?!?! CAZZO, NON SONO INCINTA!!!! IDIOTA!» Urlai, staccandomi di dosso il moro e scuotendolo per le spalle.
«Sei un cretino! Saltare alle conclusioni senza pensare! Ho il ciclo da due giorni come cazzo pensi sia possibile che io sia incinta, eh? Ma ragioni prima di parlare, sottospecie di caprone che non sei altro???» abbaiai, scuotendolo per il colletto della maglietta, stile Homer Simpson con Bart: mancava solo che lo chiamassi “brutto bacarospo” e le avrei fatte tutte.
Quando fermai la mia attività di shakeramento i miei occhi erano decisamente furenti.
Il tuo ragazzo che ti crede incinta e te lo dice, in periodo mestruale e con i chiletti postnatalizi sui fianchi, era qualcosa che la psiche umana non poteva comprendere ne tantomeno sopportare.
Ace era in pericolo di vita in quell’istante, lo sapeva, e stava indietreggiando, facendo scricchiolare le merdose patatine al formaggio che giacevano sul pavimento.
«Ah… Hem… Ho frainteso evidentemente.. V-vado a prendere una scopa… E-e qualcosa per pulire… V-vuoi una fetta di torta?»
La torta? La grassa, unta, cioccolatosa e ipercalorica fottuta torta che c’era in sala? Questo era troppo.
«ESCI DI QUI!»
Schiena dritta e dietrofront istantaneo. In meno di cinque minuti il pavimento era di nuovo pulito e la porta della camera da letto chiusa.
Mi accasciai sul letto, con i testicoli appena spuntatemi in fase di rotazione e l’isteria a livelli incalcolabili.
Maledetto Natale. Maledetti ormoni. Puttana quella Eva, quel demente di Adamo e quella merda di serpente tentatore! Anzi, fanculo decisamente ad Adamo, se si fosse deciso a dare sta benedetta banana a quella ninfomane mancata di Eva non si sarebbe mai arrivati all’estremo di chiedere la mela al serpente parlante.
Mi lanciai con la schiena sul piumino, dandomi dell’idiota per i pensieri appena fatti riguardo al “peccato originale”: gli sbalzi ormonali erano fastidiosamente dannosi per l’attività cerebro-organizzativa del cervello, senza parlare dell’effetto sgradevole che avevano sulla volgarità latente che tampinava il mio linguaggio.
Forse, invece, tutti i grassi che avevo ingurgitato nelle festività avevano danneggiato l’afflusso di sangue al mio encefalo e stavo diventando semplicemente rincoglionita.
Era stato un periodo impegnativo sul piano sociale: tra cenoni, pranzi e varie feste le nostre famiglie avevano dovuto conoscersi, con figuracce e attimi di imbarazzo degni dei peggiori film cinepanettone.
Ricordavo chiaramente il pranzo di Natale, tenutosi nella casa della mia nonna paterna, durante il quale avevamo rischiato il soffocamento all’arrivo in tavola di un grasso fagiano ripieno: l’associazione con Marco era stata istantanea perfino per Barbabianca.
Il povero imperatore ormai aveva rinunciato a frenare gli attacchi di innato sarcasmo ai danni della Fenice e, se è noto che andando con lo zoppo si impara a zoppicare, essendo circondato da machiavelliche carogne che coglievano riferimenti ovunque, aveva iniziato ad avere occhio per tutto ciò che poteva scatenare battutacce.
Non aveva per niente aiutato la seconda portata: “polenta e osei”.
Io non riuscivo a mangiare quella pietanza, come non mangiavo il coniglio, la gallina, l’agnello e il capretto. I motivi? Avevo avuto un coniglietto nano, mia nonna mi strozzò una gallina davanti agli occhi quando avevo sei anni ed Heidi aveva segnato profondamente la mia infanzia. Per gli uccellini il processo mentale era semplice: mi piaceva vederli volare, non in padella.
La nonna materna aveva dato dieci euro di mancia ad Ace perché andasse da un parrucchiere a farsi tagliare i capelli ed aveva lodato i baffi dell’imperatore bianco, che le ricordavano tanto il nonno. Quando una vecchietta di oltre ottant’anni inizia a rispolverare i ricordi di gioventù è la fine per tutti quelli nati dopo la seconda guerra mondiale (o forse era la prima?).
Le risate erano andate crescendo di pari passo alle bottiglie di vino vuote, facendo in modo che quando giunse il momento del pandoro con la crema, l’unico ancora convinto di essere sobrio era il buon vecchio zio Piero, il quale tentò di affettare il dolce con un mestolo di legno.
Gli stomaci gonfi, le guance rosee, i muscoli del viso dolenti per le troppe risa ed una imminente ribellione del fegato erano stati i risultati di quel pranzo.
Per capodanno volevo fare qualcosa con i miei vecchi amici, ma poi avevo annullato tutto.
Avevo mandato un invito anche ad Elena. Non aveva risposto.
Non l’avevo più sentita. Non l’avevo più vista.
Una vicina pettegola mi aveva bisbigliato dell’imminente divorzio dei suoi genitori, erano sull’orlo della separazione ormai da anni, e di un suo abbandono scolastico.
Si diceva avesse mollato l’università, stesse spesso fuori di casa e tornasse e partisse ad orari improponibili della notte.
Si vociferava di cattive compagnie, di droghe, di satanismo perfino.
Non avevo prove di ciò che mi dicevano e nemmeno chi raccontava queste storie ne aveva ma, in un piccolo paese, quando una persona si rifiuta di condividere la sua vita privata con la collettività, era quest’ultima a creargliene una, ricca delle più riprovevoli azioni e dei vizi meno nobili. Le chiacchiere, però, vere o false, possono essere rivelatrici. Sapevo per certo che Elena non si sarebbe mai fatta trascinare in stronzate come sette o bande di drogati, era troppo intelligente, eppure non potevo far altro che preoccuparmi terribilmente per ciò che non sapevo.
Ciò che è noto ci ripugna, ciò che è ignoto terrorizza.
Il pensiero di cosa fosse capitato alla mia migliore amica era simile alla consapevolezza che Ace sarebbe ripartito: perennemente presente, cronicamente angosciante ed indimenticabile.
Mi chiedevo spesso se sarebbe mai tornata da me.
Se mi avrebbe mai spiegato cosa le era preso.
Se l’avrei rivista.
Se saremmo tornate a parlare per ore ed ore sotto al piumone.
Se avremmo avuto l’occasione di ridere ancora, assieme, davanti ai cartoni animati di Boing, trovando similitudini con i personaggi delle serie più demenziali.
Se sarei riuscita, un giorno, a guardare ancora Zig and Sharko senza vedere me e lei nei nostri attimi di demenza acuta.
C’erano, come sempre, troppi “se” nei miei pensieri, nella mia vita, in tutto.
Gli attimi in cui restavo da sola, incapace di sfuggire al mio cervello, erano i più difficili da affrontare. Quando stavo con Ace, mia madre o comunque altre persone riuscivo facilmente a distrarmi, ad intavolare una discussione con qualcuno, a comporre monologhi strazianti per le orecchie altrui, a coprire la voce del cervello con la mia.
La parola, la lingua, era sempre stata la mia arma migliore: ottima spada, perfetto scudo.
Quando parlo mi concentro, compongo frasi articolate, ragiono sul periodo che sto gestendo, sui verbi da coniugare, sugli aggettivi da usare, sull’enfasi da dare e sono libera da qualsiasi altra cosa.
Il silenzio invece è pieno di voci, di ricordi, di immagini, di frasi spezzate, di lacrime nascoste in un cuscino, di previsioni che molti definiscono pessimistiche ma in verità sono solo puro realismo.
Chissà perché con i problemi degli altri siamo perennemente in uno stato di positività snervante, mentre quando si tratta di noi stessi l’umore va a far compagnia ai vermi.
Forse fingiamo di essere positivi?
Forse tentiamo di trovare il lato migliore delle cose perché non ci toccano?
Oppure lo facciamo per rassicurare il prossimo? Per lasciargli l’illusione dell’inconsapevolezza?
Non lo so sinceramente. Credo che non lo saprò mai. Fatto sta che ora sono sola. Ora c’è silenzio. Ora arrivano i ricordi.
Natali, cenoni, risate, bottiglie di vino e banchetti memorabili. La mia famiglia.
Capodanni, alcool, neve, liquori rubati dalle vetrinette dei parenti, amici da sostenere, botti e fuochi che sembrano farti vibrare il petto al ritmo del cuore.
Ace, che quel capodanno l’aveva passato con me.
Non avevamo fatto nulla. Non avevamo accettato inviti, non avevamo comprato alcolici, non avevamo programmato abbuffate: solo una cena al sacco, noi due e la moto.
Eravamo andati in quel prato deserto, meta della nostra prima uscita, muniti di coperte e di una tenda da campeggio per poter stare in pace e goderci lo spettacolo dei fuochi d’artificio. Da quell’altura avremmo avuto una vista meravigliosa sia delle gare pirotecniche tra i paeselli, che dello spettacolo offerto dalla sottile striscia di lago, appena visibile lungo la linea dell’orizzonte, ma che sarebbe diventata un nastro di raso dorato allo scoccare della mezzanotte.
Mangiammo, facendo finta che non fosse nessun giorno speciale, ed allo stesso modo ridemmo e scherzammo fino al momento in cui il mio cellulare non iniziò a suonare, a pochi minuti dalla mezzanotte, per la telefonata di auguri di mia madre.
Sugli occhi di Ace calò un leggero velo di tristezza all’avvicinarsi del primo giorno del nuovo anno, che non rappresentava solo la sua nascita ma gli ricordava costantemente la morte di Rouge.
Tirai fuori dallo zaino un cupcake al cioccolato, ci infilai brutalmente una candelina e l’accesi con il piccolo zippo che mi ero portata dietro (nonostante fossi in compagnia di un fiammifero ambulante, non mi pareva carino fargli accendere la sua candelina).
«Almeno questo, concedimelo… Buon compleanno!» Dissi, porgendogli il dolce e sperando solamente che non si arrabbiasse.
Rimase attonito per qualche istante ma poi sorrise, chiuse gli occhi e soffiò sulla piccola fiammella. Ora che era rimasta nuovamente solo la luce della torcia elettrica ad illuminarci, faticavo a vedere bene i suoi lineamenti ma avrei giurato di scorgere un vago sorriso.
Il moro si avvicinò al mio viso, scostandomi un ciuffo ribelle sfuggito alla berretta di lana, e dandomi un leggero bacio sulle labbra. Da così vicino riuscii a vederlo bene in volto: sorrideva, nonostante la vaga patina di tristezza, stava sorridendo e per me non c’era inizio migliore.
L’inizio di un nuovo anno, l’inizio di un nuovo periodo, l’inizio di qualcosa di nuovo e migliore. Non credevo si potesse percepire l’attimo esatto in cui si taglia un traguardo e si inizia un’altra corsa, ma invece l’avevo appena fatto!
Era come una linea leggera, a mezz’aria, appena percettibile e invisibile, un punto di partenza per dimenticare i dolori passati, il primo passo di un nuovo cammino, è il mattino, è la luce che illumina i tuoi passi futuri ma non riesce a farti vedere la fine.
L’inizio fa paura proprio perché lascia un sapore di ignoto, perché è parte della tua storia che inizia a prendere forma, a comporsi, a far parte di te.
Ace era il mio inizio ed io ero il suo.
Peccato che la nostra fine fosse fin troppo visibile e l’oscurità avvolgesse solamente la durata e la forma del nostro percorso.
«Usciamo, staranno per iniziare!» Sussurrò piano. Io annuii semplicemente, chiudendo stretto il giubbotto e seguendolo fuori dalla tenda.
Avemmo il tempo solo di avvicinarci al pendio ed abbracciarci, con il suo mento che premeva delicatamente sulla mia testa, prima che il cielo si tingesse di tutti i colori possibili. Iniziarono prima alcuni piccoli spruzzi di colore, qua e là, seguiti da leggeri botti, poi tutto d’un tratto la luce illuminò tutto il paesaggio ed i rimbombi delle esplosioni riempirono l’aria.
Rimasi senza fiato di fronte a quella sincronia quasi angosciante, sentendo il cuore palpitare ad ogni botto.
Adoravo i fuochi d’artificio, fin da piccola mi avevano regalato emozioni bellissime ed uniche. Probabilmente era proprio destino che io fossi tanto affascinata dalle varie sfaccettature dell’elemento del fuoco.
Ridacchiai sommessamente al ricordo di quella serata, alleggerita da un fuoco d’artificio giallo e azzurro che aveva inevitabilmente fatto sbellicare entrambi.
Il piumone morbido mi avvolgeva la schiena.
Il cielo invernale era sempre grigio pallido e glaciale.
Il telefono della casa squillò due volte prima che Ace rispondesse.
Sentii solo le risposte del ragazzo attraverso la porta.
“Sì, sono io.”
“Ok…”
“Quando?”
“Sì, va bene.”
La mia vista si annebbiò, sentendo il pirata riagganciare e non muoversi.
Potevo vederlo nella mia mente, in piedi davanti al tavolino di vetro sul quale giaceva perennemente il suo cellulare.
Le braccia e la schiena tese.
La testa china.
Sentii le prime due lacrime scavarmi le tempie e rifugiarsi nei capelli.
Il respiro annaspare nel primo singhiozzo.
Il cuore foderarsi con un’armatura di freddo metallo, in modo da non farsi vedere mentre si sgretolava come un pezzo di carta bruciato esposto al vento.
La porta si aprì e richiuse.
Il letto si affossò al mio fianco.
«Quando?» Riuscii ad articolare.
«Il 25 Gennaio a Tokyo. Il trasferimento inizierà il giorno stesso.» Recitò atono, ripetendo esattamente le parole che aveva sentito al telefono.
Chiusi gli occhi.
Strinsi i denti.
Restai immobile, come Ace.
La telefonata tanto temuta era arrivata, ed aveva già distrutto tutto quanto.
Avevo appena ricordato l’inizio e mi era già stata annunciata la fine.
Quindici giorni.
Tic tac.
Tic tac.
Tic tac.






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Hem, beh... Penso che chiedere scusa ormai non basti più, ma non posso fare altro....
Mi dispiace davvero moltissimo avervi lasciati tutti così, senza avviso ne motivo, con la storia ormai a pochi passi dalla fine.
Mi scuso, non so cos'altro aggiungere, davvero, se potete perdonatemi e non date alla storia colpe che sono solo della sua pessima autrice...
Spero che nonostante l'attesa infinita il capitolo vi sia piaciuto, e spero di non farvi mai più attendere in queto modo maleducato, scusate davvero.
Ho sempre detestato e maledetto gli autori che lasciavano le storie incompiute, o in stallo per mesi e mesi, poi sono finita a fare lo stesso.. Mi spiace, davvero!

Fatemi sapere cosa ne pensate, insultatemi, quello ceh volete, mi merito tutti i pomodori che avete c.c
A presto!


Immagini e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di lucro

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Capitolo 30
*** 29. Acqua e fuoco! ***


c1






Quindici Gennaio.
Mancavano nove giorni alla partenza.
Ventiquattro Gennaio, ore 19:30: arrivo della macchina.
Ventiquattro Gennaio, ore 22:30: partenza dall’aeroporto di Malpensa.
Venticinque Gennaio, ore 13:05: arrivo previsto all’aeroporto internazionale di Narita, Tokyo.
Duecentosedici ore, quasi tredicimila minuti.
Dicono che se si respira piano, lentamente, il tempo rallenti assieme al battito del cuore.
Avevo provato, fino a quasi soffocare.
Avevo frenato il respiro al punto che facesse male.
Avevo controllato le lancette ed il loro inesorabile avanzare.
Avevo rotto l’orologio, staccandolo dal muro e strappando quelle snervanti barrette nere.
Ace non aveva detto nulla. Io non avevo detto nulla.
Mi ero alzata, avevo preso e spezzato a metà le lancette. Ora sul muro restavano solo i numeri ed un punto centrale. Fermo. Immobile. Non come il tempo.
Dicono che senza le tenebre, le luci non potrebbero brillare.
Era vero, infondo.
Trovavo ingiusto però che le luci, le fiammelle, quelle lucine sperdute nel buio totale, dovessero lottare tanto per rimanere luminose, per poter splendere, per poter vivere, anzi, sopravvivere a quel mare di oscurità.
Ace aveva acceso una torcia meravigliosa accanto a me, avevamo dato il massimo entrambi, ma non era bastato.
Alla fine il nero vince, il buio incombe, le ombre avanzano, il fuoco si spegne.
Dicono che la speranza sia l’ultima a morire.
Se avessi potuto fare una visita di controllo alla mia, avrei trovato un malato terminale oggi, come il mese scorso e quello prima ancora. La speranza era l’ultima a morire, ma prima o poi anch’essa, inevitabilmente, arrivava alla fine.
Il telefono non aveva più squillato.
L’annuncio ufficiale era stato dato in TV.
Mia madre aveva chiamato otto volte il mio cellulare, poi mi aveva chiesto solo un sms ogni sera, per farle sapere almeno che c’ero ancora.
Mi ero impegnata a farlo, per lei e per mantenere una vaga consapevolezza dei giorni che passavano.
Avevo calcolato dieci volte, o forse più, le tempistiche per il viaggio di non ritorno.
Google ormai mi dava come ricerca suggerita le offerte di volo per il Giappone.
Non mi facevo mai vedere da Ace, impegnato a non contare i giorni e a viverli al massimo, come se non fosse un countdown inesorabile verso la fine.
Io lo assecondavo, se lui era felice così, lo sarei stata anche io. Per lui.
Sorridevo, come avevo imparato a fare anni prima. Fingevo e stavolta tutti se ne accorgevano, ma mi lasciavano fingere.
Cosa fare se una persona rotta dentro, tenta di ricomporsi pubblicamente con un sorriso? Fingere di crederle, che stia bene, che non abbia bisogno della produzione annuale di attack e silicone per tentare di ri-assemblarsi.
Io lo facevo per Ace.
Ace lo faceva per me.
Tutti lo facevano per noi.
I giornalisti assediavano la casa e i paparazzi tentavano di infilarsi in ogni foro della siepe. Vampiri assetati di scoop e notizie, che si nutrivano del dolore altrui. Vampiri, sì, ma privi di quel fascino e di quell'eleganza secolare che avvolgeva il mito, solamente delle larve succhia notizie prive di ritegno.
Speravo che almeno, di notte, non riuscissero a prendere sonno. Almeno. Minimo. Per giustizia divina un girone dell’inferno doveva essere designato a loro.
Sbuffai passando accanto al pesante tendaggio damascato che avevamo montato in salotto, per coprire tutte le vetrate. Assediati da vampiri e costretti a vivere come vampiri. Bell'ironia.
Avevo sempre pensato che la sfortuna ci vedesse benissimo e che il simpatico creatore dei piani dell'universo avesse un umorismo di merda, peggio di quello inglese, ma stava superando se stesso con la mia vita, davvero.
Sì, mea culpa: sapevo che sarebbe finita.
Nulla è per sempre.
Tranne Beautiful.
Eppure avevo il presentimento che se mi fossi messa con passione a seguire tutte le infinite puntate, fino ad interessarmi alla trama inconsistente, sarebbe finito pure quello. Potrei provare, tanto per fare un servizio all'umanità.
Ma me ne fregava davvero qualcosa dell’umanità? No. Decisamente non me ne fregava un cazzo. Il mio mondo era solo una persona.
Ero innamorata e ricambiata da uno dei personaggi più amati del regno Otaku. Stavo col “principe azzurro” che tutte sognavano (solo che il mio era più figo, non indossava calzamaglia e non aveva un cavallo bianco). Bello da mozzare il fiato, coraggioso, in grado di farmi sentire protetta e al sicuro solo stretta tra le sue braccia, rannicchiata sul suo petto.
Ma la vita non è un film e l'amore non è mai per sempre.
Sfiorai il tessuto ruvido dei tendoni con le dita, pensando a tutto e a niente. Ace era in garage ad armeggiare con la moto, nel pomeriggio saremmo scappati da quella tana di velluto per prendere un po' d'aria. Avevamo avvisato le guardie al cancello e organizzato un piano diabolico per allontanare tutti dall’accesso principale: niente funziona meglio di una soffiata sbagliata.
Entro un’ora tutti si sarebbero fiondati sul retro, fotografando a tutto spiano quella santa ragazza della nostra domestica, che si era offerta di farci da palo per qualche minuto, visto che era simile a me di costituzione.
Noi? Noi saremmo usciti dal cancello principale ovviamente.
Non avevo nemmeno voglia di uscire, nella mia coperta di apatia mi sentivo al sicuro, protetta e irraggiungibile dal dolore.
Mera illusione, ma mi era rimasta solamente quella.
Come ci si protegge da qualcosa che ferisce da dentro? Come si sopporta di sentirsi sbriciolare il cuore? Come si sopravvive a una ferita mortale invisibile, che nessun medico potrebbe mai suturare?
Sarei morta, straziata dagli artigli di dolore di quella bestia del destino. Eppure ne era valsa la pena, per Ace ne sarebbe sempre valsa la pena.
Ogni secondo speso a pensarlo. Ogni giorno passato a sperare. Ogni settimana di conti alla rovescia.
Ogni mese di batticuore, ogni battito perso, ogni ricordo e ogni brivido.
Ormai respiravo Ace, mi era entrato nel cuore con una facilità sconvolgente, schivando tutte le mie difese ed allentando il nodo che avevo fatto su me stessa.
Mi aveva ridato il sorriso che avevo perso, il motivo per alzarmi al mattino felice, sogni stupendi, ma più di ogni altra cosa mi aveva donato una realtà migliore di ogni possibile fantasia.
Lo amavo.
Amavo il mio angelo. Il mio principe. Il mio pirata. Il mio mondo.
«Hey... Io sono quasi pronto con la moto...»
La sua voce mi carezzò come seta sulla pelle, facendomi sussultare sia per lo spavento che per l'effetto che aveva sul mio cuore. Ogni parola era una coccola fatta da un guanto di raso.
L’avrei ricordata per sempre, con quella freschezza e quella profondità uniche. Come lo scroscio delle onde sugli scogli. La sua voce era l’oceano.
Mi ricorderò di noi mentre gli anni passeranno, per sempre.
Come d'altronde mi sarei ricordata per sempre il suo viso, perfetto, stellato dalle lentiggini.
Era il mio cielo.
Le sue braccia, che mi facevano sentire al sicuro e protetta, piene di muscoli e con quel tatuaggio, così bello da baciare.
Erano il mio castello.
Il suo sorriso, luminoso come il più bello degli astri.
Era il mio Sole.
I suoi occhi, onice nera e fuoco rosso.
Erano le mie lune.
Mi avvicinai, senza accorgermi di camminare, con lo sguardo perso nel suo viso perplesso. Alzai le braccia, cingendogli il collo, e posai le mie labbra sulle sue.
La sua bocca, morbida e carnosa come un frutto maturo, era tutto quello che mi serviva.
Lo baciai e basta, le parole non servivano. Mi strinse a se, ignorò le lacrime che silenziose come ombre luccicanti mi rigavano il viso, e mi baciò più forte.
Mi sciolsi e per qualche secondo non fummo vicini alla fine, ma all'inizio.
Non prossimi all'addio, ma al buongiorno.
Non immersi nel dolore, ma felici di poter stare assieme.
Durò pochi secondi, ma bastarono.
Sentii il cuore ricomporsi, rigenerarsi, come spalmato di un balsamo magico e potentissimo. Tornò a battere, tornò ad essere felice, tornò ad essere innamorato.
Il cervello però vinceva sempre questo tipo di lotte e rimise i pezzi di cuore al loro posto, ovvero in ordine sparso e disordinato nel mio petto, convincendolo a fermarsi e a piantarla di peggiorare la propria situazione, già critica.
L’encefalo è l'infermiera del nostro cuore, malato inguaribile e perennemente convinto di essere invincibile. Povero cuore.
Era dura fingere, ma rimisi la mia maschera spensierata e iniziai la recita quotidiana.
Un sorriso in superficie nasconde i segni di ogni cicatrice.
«Perfetto! Hai deciso dove andremo, oppure sarà una fuga allo sbaraglio?» dissi allegra.
Teatro. Ecco qual’era la mia strada. Il teatro. Avevo sbagliato tutto nella vita.
«Uhm… Buona la seconda direi, non fa molta differenza dove andremo, mi basta allontanarmi da quegli avvoltoi. Da non credere!»
«Benvenuto nel XXI secolo!»
Mi scostai dal pirata ed andai a cambiarmi. Era gennaio, non si poteva uscire in moto senza svariati strati di vestiti pesanti. O meglio, le persone normali non potevano, Ace indossava e avrebbe indossato solamente jeans e felpa: i vantaggi di essere una stufa antropomorfa.
Una volta infilata la tuta e tutto l’armamentario antigelo scesi in garage, salii sulla moto già accesa e mi strinsi ad Ace per un secondo, prima di infilare il casco integrale e dare l’OK alla ragazza che avrebbe finto di essere me.
Era una questione di secondi riuscire a svignarcela, avremmo potuto fallire nonostante l’impegno di tutte le guardie.
La motocicletta tremò quando Ace diede gas, rombando a tutto spiano.
La saracinesca si alzò e noi volammo verso il cancello, apparentemente vuoto, fatta eccezione per la guardia che teneva aperto il lato destro.
Ringraziai con la mano e feci il dito medio ai fotografi che urlando insulti ed annaspando tentavano di raggiungerci dopo essere caduti nell’inganno.
Se dovevo finire sui giornali, tanto valeva farlo per qualcosa di valido.
Slittammo veloci tra le stradine e le curve che ormai sapevamo a memoria, senza una meta precisa, per quanto ne sapevo.
Quasi mi addormentai durante il tragitto, ma visto che morire per un colpo di sonno in moto non era tra le mie ambizioni maggiori, mi sforzai di restare sveglia. Non volevo di certo finire in una puntata di 1000 modi per morire! Mi piaceva guardare DMAX, non esserne protagonista.
Ace si fermò davanti ad una casetta tutta rivestita di mattoni di pietra, circondata da un piccolo muretto di mattoni e svoltò nel vialetto.
Non avevo idea di dove fossimo, i pochi minuti in cui avevo chiuso gli occhi mi avevano fatto perdere totalmente la cognizione spaziotemporale. In quelle campagne era un attimo perdersi, ed io mi ero persa.
Scendendo dalla moto mi accorsi che la “casetta” era solo la facciata di un immenso complesso, probabilmente una vecchia casa patronale ristrutturata ed adibita a… Boh. Ancora non lo sapevo.
«Ace… Dove siamo?» chiesi dubbiosa.
«Avevamo bisogno di staccare un po’. Ho prenotato una camera in questo hotel termale. Diavolo, non ne potevo più di essere braccato come un animale da quegli sciacalli.» mi rispose tranquillo, ma con un velo di rabbia. I paparazzi e la partenza lo infastidivano più di quanto desse mai a vedere.
«Senti capo, posso lasciare qui la moto?» Gridò poi ad un ometto, vagamente simile a Gollum, che stava venendo ad accoglierci.
«Sarebbe meglio portarla nel garage Signore, se qualcuno la vedesse potrebbero capire che siete qui! Potremmo garantirvi più tranquillità nascondendola.» Gracchiò. Era chiaramente un incrocio tra Gollum e il bidello di Hogwarts. Non avevo dubbi.
Ace annuì e spinse il veicolo dove gli veniva indicato, mentre io litigavo con il cinturino del casco ed iniziavo a sudare nella gabbia di lana e poliestere che indossavo, fantasticando sulle origini mitologiche del custode/portinaio/padrone/quello che era.

La camera era enorme, lussuosa e puzzava di salasso economico.
Non chiesi quanto era costata, sarebbe stata una domanda vana e lasciata senza risposta.
Sul letto erano ripiegate accuratamente delle vestaglie bianche, quasi abbaglianti sul porpora delle lenzuola, e a terra erano poggiate delle pantofole in morbidissima gomma piuma. Tutto firmato con un logo d’orato che sicuramente era il nome dell’albergo a diciotto stelle.
Non pensavo nemmeno che esistesse un posto del genere nelle vicinanze di casa.
«Cosa dovremmo fare esattamente in questo posto?» Domandai, circospetta.
Detestavo farmi massaggiare da sconosciuti e odiavo le docce fredde. La sauna mi faceva svenire, a causa della mia pressione ballerina, ed odiavo rinchiudermi in luoghi piccoli e chiusi. Inoltre non avevo la benché minima intenzione di farmi spalmare addosso melma verde o di farmi imbalsamare con della pellicola alimentare di dubbia provenienza.
Ero pretenziosa? Forse.
Rompicoglioni? Hey, sono io, certo che sì!
Ace lo sapeva e rise.
«Stai tranquilla, ho prenotato solo per l’idromassaggio e la piscina con l’acqua calda. Vai a dare un’occhiata al bagno.» rispose con sguardo furbo.
Quando un pirata alludeva, c’era solamente da preoccuparsi ed il mio sopracciglio destro, che si era repentinamente sollevato, lo sapeva bene.
Nonostante i dubbi mi mossi verso la porta di legno scuro, che presumevo essere l’accesso al bagno, aspettandomi quasi che un esercito di clown uscisse festoso da un momento all’altro.
Odiavo i clown. Li trovavo spaventosi, terrificanti, inutili e soprattutto per nulla divertenti. Erano causa del 90% dei traumi infantili a mio modesto parere. Inoltre non ero minimamente dubbiosa verso le sorprese di Ace. Tantomeno risultavo paranoica. Chi? Io? Per favore.
Entrai circospetta, pronta a scattare all’indietro per qualche stupido scherzo, solo per confermare il mio non essere paranoica. Quando ebbi una panoramica della stanza che mi ritrovavo davanti, impiegai troppo tempo per mettere insieme i frammenti di immagine che i miei occhi fornivano al cervello.
A volte fatichiamo a mettere a fuoco quello che ci sconvolge, sia in positivo che in negativo. La nostra mente si protegge dagli shock spezzettando le immagini e richiedendoci un grande sforzo per assemblarle. In poche parole era un Ponzio Pilato moderno: “Io me ne lavo le mani. Ti avevo avvisata che ci saresti rimasta secca con sta percezione. Fanculizzati.”
Simpatica la nostra vocina interiore, no? Di un sarcasmo sconvolgente.
I colori tenui e caldi si riordinarono in forme dritte e moderne, come tessere di un puzzle.
Il lavandino di pietra scolpita, alto e fondo, poggiato su una mensola di legno scuro e lucido, con un mosaico di colori autunnali a fare da sfondo.
La vasca, gigantesca, a cui si accedeva attraverso una breve scala di legno e ardesia, ribolliva silenziosa e fumante. I poggia teste in pelle nera, che trasmettevano comodità solo guardandoli, e la doccia di cristallo trasparente, che regalava un angolo di privacy grazie ad un muretto, sempre di ardesia.
L’aria era calda e densa, profumava di quiete e di rose, un aroma delicato, non di quelli che causavano emicrania e giramenti di testa.
Era una meraviglia, il tutto illuminato da svariati punti luce soffusi e dagli abbaini velati da drappi antracite, che richiamavano il divanetto su cui erano arrotolati un quantitativo inimmaginabile di asciugamani, accompagnati da boccette e flaconi di ogni forma e dimensione.
Chiusi la bocca, combattendo contro lo stupore e la forza di gravità che aveva abbassato in modo imbarazzante la mia mascella.
Le braccia del mio pirata mi cinsero la vita, delicate, come le sue labbra appoggiate sul mio orecchio.
«Ti piace?» mormorò.
Io fui capace solamente di annuire, come un’idiota.
Lasciare me senza parole era una cosa degna di riconoscimenti ufficiale, davvero. Logorroica e sempre con la risposta pronta come ero, riuscire a farmi stare zitta senza coercizione risultava ammirevole.
Ace ridacchiò, girandomi verso di lui e dandomi un bacio in fronte.
«Finalmente riesco a farti una sorpresa! Non ci speravo più ormai!»
Il tempo scivola come un fiume, senza freni e intangibile. La cosa orribile era il nostro non poter fare nulla. Non possiamo sapere nulla del nostro futuro, continuiamo a perdere treni e programmare la nostra vita, ma per cosa? Domani potrebbe finire il mondo ed i nostri progetti sarebbero andati in fumo. Speranze spezzate. Cumuli di sogni infranti.
Sembrava impossibile che dovesse finire tutto, ma quella che parlava era già nostalgia in me. Avevo detto addio ad Ace nel momento in cui mi ero lasciata andare all’amore, ma ora me ne pentivo.
Non potevo vivere altri attimi del genere, fingendo.
Non potevo lasciarlo andare.
L’essere umano viene definito per natura egoista, perché dovevo essere l’eccezione?
«Resta con me.» dissi tutto d’un fiato.
Mesi di silenzio. Milioni di pensieri mai detti. Preoccupazioni mai affrontate. Paure mai rivelate. Speranze sepolte. Tutto in tre misere parole. Tutto in una minuscola frase, in un sussurro.
L’avevo detto davvero, l’avevo detto davvero.
Mi portai le mani alla bocca, come per ricacciare indietro quelle parole fuggite. Invano, perché ormai avevano raggiunto le orecchie di Ace, oscurandone lo sguardo.
«Selene…» Mi chiamò, quasi implorante.
Nome intero e tono di voce strascicato, era un modo come un altro per dire “sai benissimo che non si può fare!”.
Era il tono con cui i genitori ti dicono che un pony in giardino non ci può stare, che non esistono i tappeti volanti e che puoi passare pomeriggi interi a provarci, ma mai riuscirai a fare un’onda energetica.
«Non dire nulla. Stai zitto. Fingi che non abbia detto niente. Mi faccio una doccia e poi sarò a posto.» Dichiarai, col gelo nella voce e la gola dolente.
Non avrei pianto. Non davanti a lui maledizione.
Non mi sarei scusata. Non per aver usato l’ultima carta a mia disposizione.
Mi voltai, decisa ad andare a prendere la mia vestaglia e le pantofole, ignorando quello che era appena accaduto e facendo vivere serenamente ad Ace quella piccola vacanza inaspettata.
Mi lasciò passare, senza trattenermi e senza dire nulla. Fece lo stesso quando ripassai davanti a lui con il corredo da bagno, che poggiai sul divanetto.
Uscì chiudendo la porta senza dire una parola sulle lacrime che mi rigavano il viso.
Non stavo singhiozzando. Ero silenziosa quanto meno. Un punto per me.
Mi spogliai ed entrai in quella grotta di cristallo, accendendo il getto al massimo e soffocando gli spasmi della gola con l’acqua.
Lavai via le lacrime ed iniziai a ricomporre la maschera di cera che sorrideva sul mio volto, strato dopo strato.
Ero brava, isolavo tutto ciò che mi rendeva triste tra alte mura di metallo, in modo che non potesse uscire, e annegavo con pensieri felici il mio cervello, in modo che non si accorgesse che il cuore stava morendo.
Ero stata egoista a chiedergli di restare, dopo tutto lui in questo mondo non aveva nulla. Che avrebbe fatto restando qui? Il cassiere all’Ipercoop? L’installatore di stufe a pellet? Lo spazzacamino?
Decisamente non era il suo ideale di vita.
Non avevo diritto di chiedergli di restare, ma non avrei potuto vivere col rimpianto di non averlo fatto.
Non sentii la porta del bagno aprirsi, capii che Ace era dietro di me quando il suono dell’acqua cambiò, perché il getto colpì il suo corpo.
Sospirai ad occhi chiusi, lasciando cadere la testa all’indietro, dove trovò il petto caldo del pirata. I nostri corpi ormai erano complementari, si completavano ed adattavano perfettamente l’un l’altro, senza bisogno di mille manovre per trovare la comodità necessaria.
Mi baciò il collo, lentamente, graffiandomi con il filo di barba che era riuscito a spuntare in una nottata, e reagii a lui in modo automatico, con la pelle d’oca e piccoli brividi ovunque.
Sorrisi, per davvero però, senza maschera.
Mi lasciai andare alle sensazioni, lasciai spegnere i pensieri e il sistema nervoso periferico prese il sopravvento.
Percepivo le mani bollenti di Ace scorrere sul mio corpo, lente in modo snervante, ma allo stesso tempo forti e maledettamente eccitanti.
I rivoli d’acqua si scontravano con le sue mani, rigando il mio corpo di lucide scie.
Mi girai e lo baciai, graffiandogli i fianchi e il petto, mordendogli il mento ed il collo, leccando le labbra e carezzando la sua lingua.
Una nuvola di vapore si alzò dalla sua schiena, quando le fiamme crepitarono e il getto della doccia le spense. Sorrisi, soddisfatta della reazione che riuscivo a provocare al mio fiammifero.
Fuoco e acqua, gli opposti finalmente assieme.
Non avremmo fatto sesso, non lì almeno, per esperienza personale avevo capito che quando leggiamo o sentiamo raccontare di epocali rapporti sessuali in doccia, al 99% erano menzogne.
Fare sesso in doccia era scomodo, si scivolava, si rischiava di rompere il vetro o di annegare, se l’inclinazione del getto si spostava nel momento sbagliato.
Il box doccia funzionava benissimo per i preliminari maschili, ma già per quelli femminili diventava scomodo.
Spinsi il pirata contro alla parete di pietra fredda, facendolo sussultare, per poi scendere lentamente con la lingua a delineare ogni muscolo di quel suo petto perfettamente glabro.
Detestavo i peli su me stessa, non capivo perché avrei dovuto trovarli eccitanti in un uomo. Restano peli. Fanno schifo e basta. Tutte dicevano che la barba e il petto villoso rendevano l’uomo attraente. Bah. De gustibus non disputandum est.
Quando mi inginocchiai davanti a lui, aveva già la testa reclinata all’indietro, pronto per la promessa che i miei baci in discesa gli avevano fatto.
Risi, prima di iniziare a fargli contrarre i pugni per non gridare.
In momenti simili avevo tra le mani (o tra le labbra, come preferite) tutta la volontà del pirata. Lui non ragionava, quasi non respirava, in quei momenti era semplicemente mio. Totalmente in balia di ogni mio gesto.
Tra i fumi di vapore sbirciavo le sue espressioni, i suoi sforzi per non fare troppo rumore e non dimenarsi, e mi piaceva da morire. Avevo il controllo totale, e se in quel momento gli avessi chiesto di vestirsi da unicorno rosa lui l’avrebbe fatto, pur di farmi continuare.
Era una consapevolezza piacevole.
Però, non dovevo mai dimenticare che tipo di uomo avevo di fronte, perché il momento più erotico del mondo può essere spezzato dall’idiozia maschile. Ed io avevo davanti un uomo stramaledettamente idiota.
Quando mi risollevai, lo trovai con un sorriso sornione e lo sguardo perso, che poi si riempì di vita e irruppe in una risata.
Lo guardai perplessa, con l’acqua che gli gocciolava addosso era difficile guardarlo solo in viso, ma fui forte e ci riuscii.
«Non ti arrabbiare Sely, ho pensato una cosa scema…» disse, ancora ridendo, con gli occhi luccicanti.
Non avevo dubbi che sarebbe stata una cosa più che scema, ma aveva il classico sguardo da “ti prego dimmi che te lo posso dire”, così gli feci segno di parlare.
Me ne pentii? Diamine sì.
«Ti ricordi i cartoni dei Pokémon? Ecco, ho pensat-»
«No, cazzo stai zitto!» tentai, invano.
«Idropompa!»
«Coglione.» urlai, dandogli uno spintone mentre rideva senza freni.
Uscii dal box doccia e afferrai l’accappatoio, combattuta tra l’arrabbiarmi ed il ridere a crepapelle. Concentrata ad evitare di scivolare rovinosamente sul pavimento bagnato da me medesima.
Optai per una dignitosa poker face da finta offesa. O forse lo ero davvero?
Gli sbalzi ormonali e, conseguentemente, emotivi che mi sconvolgevano erano imprevedibili. Talvolta, capitava che nemmeno io riuscissi a capire perché mi arrabbiavo o perché scoppiavo in lacrime apparentemente senza motivo.
Noi donne a volte siamo veramente impossibili da comprendere. Facciamo fatica a capirci noi stesse, come possiamo pretendere che ci capiscano gli uomini? Mediamente siamo fortunate se troviamo quello che ci sopporta, che si adegua ai nostri cambiamenti repentini e alle nostre paranoie.
Quando troviamo un uomo che riesce ad asciugarci le lacrime e a disegnarci un sorriso, vale la pena tenerselo stretto. Qualsiasi cosa il nostro corpo faccia per farlo allontanare.
Capita di arrabbiarsi con lui in maniera furente, senza spiragli di pace all’orizzonte, ma poi quando la nebbia dell’ira si dirada, capiamo che non era accaduto nulla di tanto grave, nulla che meritasse una reazione tanto spropositata. Ecco, queste sono le volte in cui ci vergogniamo quasi a chiedere scusa, ad ammettere di essere saltuariamente delle pazze isteriche psicolabili, con tendenze sociopatiche e omicide.
Donne. Che mondo contorto.
Beh, forse è questo il complimento più bello che può farvi un uomo, no?
“Sei contorta”.
Noi ci offendiamo magari, o stiamo ore e ore, giorni e giorni a rimuginare su cosa intendevano dire, su cosa fare, su come rispondere, sul perché pagare il tasso di interesse sui prestiti bancari, sul perché un attore come Banderas si sia ridotto ad ingrassare con una gallina in un mulino.
No ok, forse non proprio tutto questo, però all’incirca.
Non capiamo che è un complimento, perché vogliono solo dirci che sanno che non ci capiranno mai, che non riusciranno mai a comprenderci, che siamo un mondo a parte e che ci vogliono esattamente così come siamo.
Ace mi aveva detto che era contento che io fossi tanto contorta, perché avrebbe significato che mai sarei stata prevedibile e mai sarei stata noiosa o l’avrei stancato.
È una promessa d’amore, forse.
Nascosta e velata, ma dopo tutto anche loro si devono adeguare a noi, poveri uomini.
«Hey…» tentennò Ace alle mie spalle, incerto su come trattarmi. Doveva scherzare e far finta di nulla perché non me l’ero presa, oppure doveva scusarsi perché mi ero offesa sul serio?
Poveri uomini. Povero il mio pirata.
«Rilassati, Ace Testa di Cazzo, non sono arrabbiata!» ridacchiai.
Mi abbracciò da dietro, ancora nudo, ancora bagnato, ancora stramaledettamente sexy.
Sospirai rilassando le spalle e lasciandomi baciare la guancia.
Le gocce fredde che scendevano dai suoi capelli mi bagnavano il viso, scorrendo sul collo e sostando sulle clavicole, facendomi rabbrividire.
Il suo respiro caldo bilanciava i brividi, unendo quelli di piacere a quelli per il freddo, in una combinazione sconvolgente.
Al diavolo tutto, avremmo fatto sesso sul piano di legno del lavandino, nella vasca idromassaggio, tanto per esaurire i cliché, e sul divanetto, sparpagliando per il pavimento quella miriade di inutili boccette.
Saremmo stati bene.
Saremmo stati noi.
Saremmo stati insieme, ancora per un poco. Ancora una volta. Ancora innamorati.
Il “per sempre” non esisteva. Ormai l’avevo accettato.
Mi sarei goduta al massimo il nostro presente allora, senza pensare all’inesistente futuro.
Solo al presente.
Solo a oggi.
Solo a ora.
Solo ad Ace.






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Hem... Ciao....
OkOk, scusate. Non ho aggiornato di nuovo per un sacco di tempo, mi dispiace davvero! Mi si è ribaltata la vita ma ora ho trovato il modo e l'ispirazione giusta quindi questa storia travagliata avrà fine, ed in tempi utili!
non chiedetemi quanti capitoli, non lo so, a volte scrivendo ne esce uno in più, a volte quelli che pensavo sarebbero stati due si uniscono in uno solo, ma manca poco!
Grazie, anzi: GRAZIE!
Sì, a tutti voi che mi avete recensite, a quelli che da zero hanno iniziato la storia di recente, a quelli che mi seguono da sempre, a chi mi ha scritto in privato, motivandomi ad andare avanti, a chi ha recensito senza rancore, a chi mi ha minacciata di morte e a chi ogni tanto mi mandava un messaggio con allusioni alla storia!
Grazie a tutti, e anche se non lo leggerà mai grazie anche al mio pirata personale, anche se più che ad Ace somiglia ad un incrocio tra Franky e Trafalgar Law (se vogliamo onepiecizzare, se mi concedete una narutizzazione è uguale a Suigetsu :3)!
Quindi boh, che dirvi?
Grazie per essere sempre qui a leggermi! Per le recensioni (non sono mai brutte o sceme, fanno sempre e solo piacere!) e per sostenermi sempre!
Al prossimo capitolo!!!

Ciaooo! :3


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