Four children. Four names. Four letters.

di Kary91
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Gale; a very strong wind. ***
Capitolo 2: *** Vick; champion, victor. ***
Capitolo 3: *** Posy; flower or a bouquet of flowers ***
Capitolo 4: *** Rory; red king. ***



Capitolo 1
*** Gale; a very strong wind. ***


Four children. Four names. Four letters.

a Hs Dm YM

 


 

[Gale: a very strong wind.]


                         He’s like the wind

__________________________________

 

È la prima volta che porto Gale nei boschi.

Lo osservo muoversi con decisione, come se sapesse già dove siamo diretti.

Non guarda mai indietro per assicurarsi che sia ancora vicino a lui: è difficile ricordare che abbia solo sei anni.

Dovrei chiedergli di fermarsi, spiegargli che per oggi ci siamo già spinti fin troppo in là.

Eppure so già che faticherebbe a darmi retta; preferirebbe continuare a correre.

Immagino che sia per via del suo nome: Gale significa burrasca.

Mio figlio è un vento forte, di quelli che scuotono con violenza le chiome degli alberi per farle ribellare.

Ma un vento non è abbastanza forte se non è libero.

Così lo lascio correre.

 

Nota dell’autrice.

Intanto ringrazio Amigdala per la splendida copertina che ha creato per questa raccolta!
Mi è sempre piaciuto molto il fatto che i fratelli Hawthorne fossero quattro e che avessero tutti nomi di quattro lettere ciascuno; per questo motivo ho incominciato a curiosare sul significato dei loro nomi e curiosando ho pensato che sarebbe stato divertente provare a scriverci qualcosa su.

Questa prima drabble è nata mentre stavo lavorando a una one-shot su baby Gale e papà Hawthorne che spero di riuscire a portare a termine, prima o poi. La parola Gale in inglese viene utilizzata per indicare un vento molto forte o una burrasca. Insomma, mai ci fu nome più azzeccato per il bel cacciatore ribelle del Distretto 12!
Il titolo della drabble è un adattamento a quello di una canzone della colonna sonora di Dirty Dancing, She’s like the wind di Patrick Swayze.

Un abbraccio!

Laura

 

 

 

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Capitolo 2
*** Vick; champion, victor. ***


 

Four children. Four names. Four letters.

[Vick: champion, victor.]

Vick ridimensionato

 


 

 

                The winner takes loses it all


_____________________

 

Vick osservò con stupore il braccio del padre scivolare a toccare la superficie del tavolo.

“Ho vinto!” esclamò, sollevando orgoglioso i pugni. Era la prima volta che una partita a braccio di ferro si concludeva con la sua vittoria: con Rory perdeva sempre.

Joel Hawthorne sorrise divertito, appoggiandosi allo schienale della sedia.

“Ero sicuro che avresti vinto tu” commentò,“Vick significa vittorioso, lo sapevi?”

Il figlio scosse il capo, rivolgendogli un’occhiata sorpresa.

“Vuol dire che posso vincere sempre?”

Il padre annuì, lasciandosi sfuggire uno sbadiglio. La stanchezza accumulata nel corso della giornata stava incominciando a gravargli sulle palpebre.

“Tutti i giorni?"

"Tutti i giorni. Nel momento in cui ti svegli la mattina in realtà hai già vinto” rispose Joel, arruffandogli i capelli.  “Devi tenerlo sempre a mente, ragazzo. Se te lo dimentichi, potresti incominciare a perdere di nuovo.”

Il mattino successivo Vick si svegliò molto presto. Fuori era ancora buio e la casa era incredibilmente silenziosa, come capitava di rado. Il ragazzino ripensò subito alla conversazione avuta la sera prima con il padre. Decise di intrufolarsi nel letto dei genitori. Si rannicchiò di fianco a Joel e attese con pazienza che si svegliasse.

“Ho vinto” annunciò infine a bassa voce, quando l’uomo si accorse della sua presenza. “Mi chiamo Vick e vinco ogni giorno, adesso è mattina, quindi ho vinto.”

Joel gli diede un colpetto affettuoso sulla gamba e si sfregò gli occhi ancora impastati di sonno.

“Ben detto, ragazzo” si congratulò con lui, dandosi un'occhiata attorno per cercare di intuire che ora fosse. “Hai fatto bene a venire a svegliarmi, ho un paio di faccende da sbrigare prima di andare in miniera. Adesso, però, torna a dormire.”

“Che cosa ho vinto?”  chiese ancora il bambino, rivolgendogli un’occhiata incuriosita. Il padre sospirò e tese le braccia in avanti per stiracchiarsi, cercando di riflettere in fretta.

“Bolle di sapone” rispose infine, pensando a come i suoi figli si divertissero di tanto in tanto a giocare con l’acqua insaponata, mentre Hazelle lavava i panni.

L’espressione di Vick si illuminò all'istante.

“Posso farle dopo scuola, mentre mamma lavora!” propose, spostandosi per permettere al padre di alzarsi. Joel annuì, mettendosi a sedere per indossare i vestiti da lavoro.

Prima di uscire dalla stanza arruffò i capelli del figlio e gli diede una pacca sulla spalla.

"A stasera, ragazzo."

Nel corso dei giorni successivi il rituale di quel mattino si ripeté spesso. Non appena il padre rientrava in casa Vick gli correva incontro per riscuotere il suo premio del giorno. Nonostante la stanchezza, Joel riusciva sempre a escogitare maniere diverse per accontentare il figlio minore. Nel giro di sei mesi Vick aveva ormai vinto premi di ogni genere. Carezze dalla madre, partite a braccio di ferro con i fratelli più grandi, mozziconi di candela, una passeggiata per il Giacimento. Una sera particolarmente fredda aveva ricevuto in premio uno dei maglioni meno consunti di suo padre. Gli arrivava poco sotto le ginocchia ed era perfetto per dormirci dentro la notte. Un giorno Vick vinse addirittura una sorellina. Quello fu di gran lunga il suo premio preferito, anche se accadeva di rado che non fosse entusiasta per uno dei suoi regali. Non era triste se di tanto in tanto il suo stomaco brontolava e tutto ciò che riusciva a rimediare per le sue vittorie era l’abbraccio di Rory o un giro per la casa sulle spalle di Gale. Non era ciò che avrebbe ricevuto a fine giornata a renderlo felice. Erano più le attese che si protraevano fino a sera, piene di curiosità verso ciò che si sarebbe inventato suo padre. Era il sorriso storto che gli regalava l’uomo ogni volta che il bambino si arrampicava sulle sue ginocchia per riscuotere il suo premio. Era il pensiero di poter vincere ogni giorno, semplicemente perché il suo nome era Vick.

Una sera, tuttavia, suo padre non tornò a casa in tempo per festeggiare con lui la sua vittoria giornaliera, prima di metterlo a letto. Faceva freddo e il bambino si addormentò aspettandolo, rannicchiato dentro al vecchio maglione dell'uomo. Si svegliò durante la notte e corse fino al letto dei genitori per cercarlo, ma lui non c’era. Trovò solo sua madre che piangeva con il capo affondato nel cuscino. Fu quello il momento in cui Vick capì che suo padre non sarebbe tornato a casa. Né quella notte, né l’indomani. Continuò comunque ad aspettarlo ogni giorno, appollaiato di fronte all’ingresso di casa Hawthorne. Sperava di vederlo tornare all’improvviso, con qualche biscotto appena sfornato o dei soldatini rimediati dopo qualche buon affare al Forno come era accaduto una volta, il giorno del suo quinto compleanno. Sperava di riconoscere il rumore dei suoi passi lungo il vicolo e di correre in casa per avvertire la mamma e i suoi fratelli del suo ritorno. Sperava che una sera, arrivato il momento di riscuotere il suo premio, avrebbe vinto il ritorno del suo papà, ma quel momento non arrivò mai. E più trascorrevano i giorni, più faceva fatica a ricordare come ci si sentisse felici a vincere.

Finché un mattino non se ne dimenticò del tutto. Faceva molto  freddo, proprio come il giorno in cui suo padre era uscito di casa per non tornare più. Vick sedeva a gambe incrociate vicino alla porta d’ingresso, di fianco ai due picconi da lavoro che né Gale, né la mamma avevano ancora avuto il coraggio di spostare. Quando Rory entrò nella stanza e notò gli occhi lucidi e l’espressione atterrita del fratello minore prese posto di fianco a lui. Gli circondò le spalle con un braccio, un po’ per scaldarlo, un po’ per confortarlo. Vick tirò su col naso e se lo sfregò con il dorso della mano.

“Che cosa hai vinto oggi?” domandò Rory, sperando di riuscire a strappargli un sorriso.

Vick fece spallucce. Si strinse nel maglione del padre e ne utilizzò una manica per asciugarsi le guance umide di lacrime.

 “Oggi ho perso.”

_________________

 Nota dell’autrice.

Vick è stato un nome abbastanza semplice da interpretare, mentre credo che per Posy e specialmente per Rory sarà più complicato. Per quanto riguarda il nome di Mr. Hawthorne, ho scelto di chiamarlo Joel mentre  stavo scrivendo un’altra one-shot dedicata alla famiglia Hawthorne, piccoli uomini. Joel è un nome di quattro lettere, quindi è in linea con i nomi dei figlioletti e in qualche modo mi sembra un nome adatto a lui. In  generale questa one-shot riprende diversi elementi di piccoli uomini, come l’aneddoto della maglia del padre, passata a Vick e il periodo in cui il bambino attende con pazienza il ritorno del papà di fronte a casa.

Il titolo della one-shot è ispirato alla canzone “The Winner takes it all” degli Abba.

Un grazie di cuore a chi è arrivato a leggere fino a qui!

Un abbraccio!

Laura

 


 

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Capitolo 3
*** Posy; flower or a bouquet of flowers ***


Four children. Four names. Four letters.

 

[Posy: flower, or a bouquet of flowers.]

posy ridim

 

 

A Flower that Blooms in Adversity

«Ricordo da bambino, mamma mi disse:

“Sii sempre forte amore, che il mondo fuori, è tutt’altro che rose e fiori.” »

Emis Killa – Nel Mondo Dei Grandi.

 

Le mani di Joel Hawthorne si strinsero a fasciare con ruvida delicatezza il pancione della moglie.

“Tutto bene là dentro, ragazza?”

Hazelle rise, sfiorando intenerita i capelli del marito.

“Ragazza? Non sappiamo nemmeno se sia maschio o femmina!”

“Questa signorina qui è femmina, te lo dico io” ribatté con sicurezza Joel, attirando a sé la moglie per i fianchi. “Darà del gran bel filo da torcere ai suoi fratelli.”

“Già ne sta dando a sua madre!” lo informò scherzosamente Hazelle, sentendo scalciare.  Appoggiò una mano sul pancione, come a voler rabbonire il futuro nascituro. Il marito sorrise fiero, tornando ad accarezzarle il ventre.

“Chiamiamola Posy” propose dopo qualche minuto, sorridendo enigmatico, come se la stesse rendendo complice di un qualche segreto.  “Significa fiore, ed è un nome da quattro lettere, come quello degli altri tre.”

Hazelle ricambiò il sorriso, chinando poi il capo ad analizzarsi il pancione.

“Mi piace Posy” approvò infine, tornando a guardare il marito. Gli occhi grigi di Joel si fecero più luminosi, mentre  la sua mano tornava a posarsi sul ventre di Hazelle.

“Nostra figlia sarà un fiore” dichiarò fiero, chinandosi in avanti per baciare la donna. “I fiori sono rari e preziosi, in mezzo a tutto questo grigio: sarà un fiore come sua madre.”

Hazelle si svegliò di soprassalto, aggrappandosi con forza al lenzuolo. Serrò subito le palpebre, nella speranza di riuscire a trattenere l’immagine che ancora le impregnava la mente. Pregò in silenzio che la realtà sfumasse in sogno e che, una volta aperti gli occhi, avrebbe trovato Joel addormentato di fianco a lei, ma l’altra metà del letto era fredda e quando trovò il coraggio di guardare in quella direzione riuscì a trattenere a stento un gemito soffocato. Si raggomitolò su se stessa, sforzandosi di chiudere fuori il dolore, ma un piagnucolio leggero la spinse a sgusciare fuori dal letto, ricacciando indietro la debolezza, come si era sforzata di fare ogni giorno e ogni notte, da quando era morto suo marito. Raggiunse la culla di legno che un tempo era appartenuta a Vick, e a Rory e Gale prima di lui. Ben avvolta in un fagotto di coperte una neonata contorceva i pugni, piangendo affamata. Hazelle la prese in braccio, cercando di seppellire in quel contatto la nostalgia dilaniante e il dolore che da tre settimane aveva messo radici dentro di lei; Posy era venuta al mondo undici giorni dopo l’incidente in miniera, piangendo e strepitando per reclamare le attenzioni di un padre che non avrebbe mai conosciuto. Era un bocciolo spuntato all’improvviso e il suo stelo era gracile e delicato, già strattonato dall’incertezza e dagli stenti.

Hazelle incominciò a cullare la bambina, lasciandosi accarezzare a sua volta dal ricordo della voce scherzosa del marito. Dal canto impacciato e stonato che sgorgava dalle sue labbra screpolate, quando eseguiva una ninnananna per uno dei suoi figli, facendola ridere. Non avrebbe potuto fare lo stesso per Posy, per la bambina che tanto aveva atteso – il bocciolo che avrebbe osservato fiorire in mezzo al carbone, colorando il grigio delle miniere.

In quel momento la neonata riprese ad agitarsi, piagnucolando più forte. Hazelle scoprì il seno per allattarla, ma sapeva bene che non sarebbe servito a nulla: non aveva più latte, né le forze sufficienti per trascorrere dodici ore in miniera, al fine di sfamare i suoi figli. Il pianto di Posy si fece più insistente ed Hazelle incominciò a muoversi per la stanza, continuando a cullare la figlia, sperando di non svegliare i tre più grandi. Due lacrime scesero a rigarle gli zigomi, ma la donna continuò a stringersi al petto la bambina, scaldandola con il suo corpo, accarezzandola per cercare di farle sentire quanto l’amasse. Quanto l’avrebbe protetta, a costo di rinunciare a fare lo stesso con se stessa.

“Sii sempre forte, amore” la pregò in un sussurro, sfiorandole il capo con le labbra. Sua figlia era un germoglio impaziente di sbocciare: lo diceva il suo nome. Ma il mondo fuori, per lei, sarebbe stato tutt’altro che rose e fiori. 

*

“Posy!”

Il grido spaventato di una donna stropicciò il silenzio, facendo sobbalzare la bambina. Posy singhiozzava con le ginocchia strette al petto, rannicchiata di fronte alla recinzione di filo spinato. Buttando all’aria ogni prudenza, Hazelle attraversò il Prato di corsa, stringendosi nel golfino. Era rientrata in casa quindici minuti prima per preparare qualcosa ai ragazzi, ma Posy non c’era e il suo cuore aveva minacciato di cedere per la seconda volta in una giornata, mentre la cercava sotto i letti e dentro l’unico mobile che adornava la cucina. Sua figlia di nemmeno cinque anni era scomparsa, lasciandosi dietro le espressioni preoccupate di Leevy, Rory e Vick, che  l’avevano cercata in lungo e in largo per la zona del Giacimento, senza successo. E fuori nevicava, nevicava di una neve fitta e gelida che avrebbe annientato in poco tempo il fisico gracile di una bambina così piccola.

Dopo un quarto d’ora buono di ricerca Hazelle aveva raggiunto il Prato quasi d’istinto, chiedendosi con terrore se la bambina non avesse deciso di andare a cercare suo fratello maggiore nei boschi; sollievo e paura avevano conteso la sua mente, nel momento in cui l’aveva scorta poco distante dalla recinzione. Si guardò attorno furtiva, allarmata al pensiero che qualcuno le avesse viste: non poteva permettere che loro toccassero un altro dei suoi figli. Raggiunse di corsa la bambina e la prese in braccio, ignorando i suoi strilli di protesta e i movimenti bruschi della piccola. Posy cercò di liberarsi dalla sua presa, mentre la donna camminava a passo sostenuto in direzione del Prato.

“Lasciami!” la intimò la bambina, lottando fino a quando la madre non allentò la presa, permettendole di scendere a terra. Hazelle la prese per mano e cercò di convincerla ad attraversare il Prato, dando uno strattone con il braccio.“Lasciami, devo tornare indietro, devo tornare indietro!”

“Gale non è nel bosco, Posy!”

L’esclamazione secca di Hazelle riuscì a smorzare le urla della bambina, che riprese a singhiozzare, continuando a divincolarsi dalla presa della madre. La donna sospirò, fermandosi a metà del Prato. La stretta attorno alla mano di Posy si fece più docile, mentre si accovacciava di fronte a lei, per avere gli occhi alla sua stessa altezza.

“Mi hai spaventato tantissimo, sparendo così” rivelò infine, abbassando il tono di voce. Posy tirò su con il naso, sfregandoselo poi con la mano libera, quella con cui teneva la sua bambola.  “Devi promettermi che non ti allontanerai mai più da casa senza di me o i tuoi fratelli. È pericoloso, specialmente in questi giorni, e se qualcuno ti avesse vista vicino alla recinzione ti saresti trovata in guai seri, Posy.”

La bambina smise di divincolarsi e tirò su col naso, annuendo in maniera appena percettibile. La madre si sfilò il golfino e lo appoggiò sulle spalle della piccola, avvolgendoglielo attorno al corpo.

“Non è tornato per dare il bacio della buonanotte a Lilo” mormorò improvvisamente Posy, lasciandosi sfuggire un nuovo singhiozzo, mostrando alla madre la bambola. “Glielo dà sempre: tutte le notti. Ma questa sera no, questa sera non è tornato e io lo dovevo andare a cercare per sgridarlo!”

“Gale non è nel bosco, Posy” ripeté con dolcezza Hazelle, accarezzando le guance della figlia. “Non sta bene, ma Prim e sua madre si stanno prendendo cura di lui: potrai andare a trovarlo nei prossimi giorni…”

“Rory ha detto che forse è morto!” le gridò contro la bambina, liberandosi dalla sua presa con uno strattone. “Ha detto che è forse è morto come papà e che non lo vedremo mai più!”

La ragazzina riprese a piangere, gettando a terra la sua bambola. Hazelle ammutolì per un istante, colta di sorpresa, prima di scuotere il capo e attirare a sé la figlia in un abbraccio.  La strinse al petto per calmarla, cullandola, come era solita fare quando Posy era più piccola.

“Tuo fratello non è morto, amore”  la rassicurò con dolcezza, sforzandosi di controllare un tremito nella propria voce. Sentì le guance inumidirsi ed il petto farsi ancora più pesante, come se respirare si fosse fatto tutto a un tratto difficile – come  le era accaduto già qualche ora prima, quando Leevy le aveva chiesto di uscire in strada, raccontandole, in lacrime, cosa fosse successo a suo figlio.  “Sono stata con lui tutto il pomeriggio e ti prometto che già domani starà meglio. Non perderemo anche lui, non lo permetterò.”

“Ma Rory ha detto che…”

“Rory ha detto una sciocchezza,”  la interruppe con fermezza la donna. “Era spaventato, e quando si ha paura spesso si dicono cose che non si pensano, ma si sbagliava. Gale tornerà a casa molto presto” la rassicurò ancora, stringendola più forte a sé. La bambina si lasciò cullare, affondando il volto nella maglia di Hazelle.

 

“Voglio vederlo” mormorò infine, dopo aver tirato su col naso. Hazelle scosse il capo, sfiorandole i capelli con le labbra.

“No, amore, non puoi.”


“Voglio vederlo!” si impuntò la bambina, sgusciando fuori dal suo abbraccio. La madre sospirò, specchiandosi nello sguardo sofferente e determinato della sua ultimogenita; Posy aveva ereditato la testardaggine di suo marito Joel e l’indole ribelle che caratterizzava Gale. Era ancora piccola, ma era già in grado di opporre resistenza a lungo, per difendere le sue decisioni: specialmente quando queste riguardavano i suoi fratelli.

“Lo vedrai domani” promise infine la donna, raccogliendo la bambola da terra; le spolverò con una mano il corpicino di lana e la porse alla figlia, che tornò a stringersela al petto. “Adesso deve riposare. E anche tu.”

Posy riprese a tirare su col naso, seppellendo il volto fra i capelli della sua bambola.

“Devono farlo guarire” dichiarò infine, tornando a rifugiarsi nell’abbraccio di Hazelle. “Io non voglio perdere un altro papà” aggiunse in un sussurro, stropicciandosi un occhio umido con una mano. Avvertì la stretta di sua madre farsi più intensa e il suo respiro spezzarsi, come se stesse trattenendo un singhiozzo.

“Sii forte, amore” le sussurrò in un orecchio Hazelle, tornando a cullarla. Una lacrima scese a rigarle una guancia, ma la donna non se ne curò. “Sii sempre forte.”

*

Posy strinse convulsamente la mano della madre, prima di avvicinarsi intimorita al tavolo sul quale era adagiato Gale. Rimase immobile a fissarlo per qualche istante, nascondendo il volto nel corpicino lanoso della sua bambola. Ci vollero cinque minuti buoni, prima che il fratello aprisse gli occhi,  accorgendosi della sua presenza.

“Ehi” mormorò a quel punto, abbozzando un lieve sorriso, “Ciao, sorellina.” 

Posy non rispose subito; spinse la bambola verso di lui e fece un passo indietro.

“Lilo è arrabbiata con te” rivelò infine, squadrandolo con aria di rimprovero. “Non le hai dato il bacio della buonanotte, ieri.”

Gale emise un suono a metà fra un sospiro e un leggero lamento, sforzandosi di restare immobile per cercare di non alimentare il dolore.

“Lilo ha ragione: mi dispiace di averla fatta arrabbiare.”

“Ti fa male la schiena?” domandò la bambina, fissando con diffidenza il telo bianco che copriva le ferite del fratello. Gale scosse  il capo, tornando a chiudere gli occhi per un istante. Li riaprì quando si accorse che la sorellina gli stava aprendo il pugno chiuso, così da potergli stringere la mano.

“Sto bene, Pos” mormorò per rassicurarla. Posy guardò ancora il telo, distogliendo poi intimorita lo sguardo; Gale ricambiò la stretta di mano, accompagnandola con un lieve sorriso. “Ti dico un segreto. Vuoi?”

L’espressione della bambina si rasserenò leggermente, trasformandosi da tesa a incuriosita. Posy annuì, arrampicandosi sul tavolo per poter avvicinare l’orecchio alle labbra del fratello.

Catnip mi ha dato un bacio, ieri” le confidò Gale, rimirando poi l’espressione sorpresa che illuminò il volto della sorellina.

“Un bacio vero?” chiese conferma la bambina, parlando a bassa voce, per non tradire il segreto del fratello. “Sulla bocca, come fa il principe con Biancaneve?” Le labbra Gale si arricciarono appena a formare un secondo, debole sorriso; il ragazzo annuì.

“Allora ti ha guarito lei,” mormorò la bambina, ricambiando allegra il sorriso, “Come nelle favole!”

“Come nelle favole, sì” confermò il fratello maggiore. Provò a ridere, ma la risata venne strozzata da un gemito di dolore. Strizzò gli occhi, appoggiando la fronte contro il legno del tavolo. Posy gli strinse più forte la mano, scoccando l’ennesima occhiata preoccupata al telo che gli copriva la schiena.

“Allora vuol dire che, piano piano, passerà anche il male alla schiena” commentò infine, accucciandosi al suo fianco. Gale annuì, tornando a chiudere gli occhi. Posy lo scrutò con attenzione, analizzandone il volto sudato e i lineamenti contratti.

“Davvero stai guarendo?”  chiese ancora, un po’ esitante.

Suo fratello annuì senza nemmeno schiudere le palpebre. La bambina decise che era vero: lui stava bene. Lo aveva capito dal suo sguardo di poco prima.  Gli occhi di Gale erano la chiave di Posy per interpretare il mondo. Se lui era felice significava che non doveva avere paura: tutto sarebbe andato per il meglio.

“Gale…” lo chiamò in quel momento, tornando ad acquattarsi sul tavolo, di fianco a lui.  “…Tu non te ne andrai mai, vero?”

Il fratello scosse il capo, continuando a tenere gli occhi chiusi.

La bambina sorrise, allungandosi poi per dargli un bacio sulla fronte, come aveva fatto qualche volta lui con lei. Balzò giù dal tavolo e guardò un’ultima volta il fratello, prima di decidersi ad abbandonare la stanza, raggiungendo Hazelle in quella adiacente.

Non aveva più paura, ormai: sapeva che le cose si sarebbero sistemate al più presto. Sii forte, le aveva detto la mamma il giorno prima, cullandola fino a farla addormentare. E Posy avrebbe continuato a essere forte, anche se il vento e la neve di quei giorni avevano scalfito la sua spensieratezza da bambina piccola; graffiandola come le intemperie, alle volte, fanno con la superficie dei boccioli che non si sono ancora schiusi. Ma la neve fa in fretta a sciogliersi e  le radici che sorreggono gli steli imparano presto a trarre sostegno dall’acqua per rinvigorirsi. Allo stesso modo la piccola Posy Hawthorne continuò a crescere, ignorando il grigio che le vorticava attorno: anche se il mondo fuori era tutt’altro che rose e fiori.

 

*

Posy attorcigliò un boccolo rosa sul dito, prima di lasciarlo ricadere morbido lungo il capo della bambola. Era un regalo di Gale per il suo sesto compleanno, il primo che il fratello le aveva spedito dal suo trasferimento nel Distretto 2. L’aveva da tre anni, ormai, eppure non si era ancora decisa a trovarle un nome: in fondo non se lo meritava. Non le era così affezionata come lo era stata in passato a Lilo: era senz’altro più bella, più alla moda e modellata a punto tale da sembrare quasi vera… però non era Lilo. Posy aveva perso la sua bambola preferita la sera dei bombardamenti ed era certa che nessun giocattolo avrebbe mai potuto rimpiazzarla.

Voleva comunque bene a quella bambola, perché era un regalo di Gale. Forse l’avrebbe amata un po’ di più, se lui gliel’avesse portata di persona – e non spedita – magari accompagnata da un sorriso e un abbraccio di quelli stretti, che sapeva dare solo lui. L’avrebbe amata un po’ di più, se solo Gale fosse rimasto lì con lei, Rory, Vick e la mamma al Distretto 12, per poter dare il bacio della buonanotte alla sua bambola – e a lei – ogni sera.

C’erano spesso dei momenti, specialmente la notte, in cui Posy rimuginava su questi pensieri con talmente tanta intensità che la tristezza la sorprendeva all’improvviso e un dolore sordo incominciava a bussarle all’altezza del petto. Era la stessa tristezza che Posy ritrovava, di tanto in tanto, quando ricordava le case in fiamme e il rumore assordante delle esplosioni del suo Distretto. Quando i brutti sogni la svegliavano nel cuore della notte e, per addormentarsi, lei metteva in fila, una per una, le cose che aveva perso nei suoi nove anni di vita: un padre, una casa, Lilo. Prim. Il bacio della buonanotte di Gale. E in quei momenti, quando la nostalgia del fratello era troppo forte o il ricordo delle bombe tornava a farsi più nitido, Posy stringeva a sé la sua bambola, anche se ormai sentiva di essere diventata troppo grande persino per quello. Incominciava a cullarla, accarezzandole i capelli e sfiorandole il capo con le labbra. “Sii sempre forte, amore” mormorava, forse al giocattolo, forse a se stessa Con quelle parole, si sforzava di scacciare via la tristezza, di sentirsi coraggiosa: perché ormai era grande e lo sapeva, che il mondo fuori era tutt’altro che rose e fiori.

Che i baci, anche quelli veri – dati sulla bocca come nelle favole, non facevano guarire le persone.

Che i papà morivano e che i fratelli se ne andavano.

Anche quelli che promettevano di restare.

 

*

 

Gale Hawthorne si affrettò a raggiungere la porta d’ingresso, irritato dallo scampanellio insistente del citofono. Da perplessa, la sua espressione mutò rapidamente in sorpresa, nel momento in cui riconobbe la ragazzina che lo attendeva sulla soglia. Aveva un sorriso vispo, i capelli neri sciolti sulle spalle e l’espressione sbarazzina di chi custodisce qualche segreto che non vede l’ora di lasciarsi sfuggire. Aveva quasi dodici anni, ormai; era bella, spettinata e dall’aria vivace, come i petali colorati di un fiore scosso dal vento.

 “Posy?” mormorò incredulo il giovane, increspando le labbra a formare un lieve sorriso. Sua sorella gli gettò le braccia al collo, ridendo divertita dello sbigottimento del maggiore.

“Mi ero stufata di aspettare che tornassi tu!” ammise, lasciandosi avvolgere dalla presa rassicurante di suo fratello. “Il viaggio in treno è stato una barba, non potevi andare a vivere un po’ più vicino?”

Gale si separò dall’abbraccio per guardare negli occhi la sorella. La scrutò con sospetto, sollevandole il mento con le dita per farle ricambiare il suo sguardo.

“Mi hanno accompagnato, non sono scappata!” lo rassicurò in fretta la ragazzina, mettendosi le mani sui fianchi. “Anche se un volta ci ho provato” rivelò infine, facendolo sorridere. Suo fratello sembrava ancora essere la persona che la conoscesse meglio di chiunque altro, nonostante  nel corso dell’ultimo anno si fossero visti sì e no una manciata di volte appena. Gale le diede un buffetto sulla guancia.

“Mi sei mancata, Pos” ammise.

“Tu a me di più” rispose la ragazzina, appoggiando la fronte contro al suo petto. Il fratello le sorrise.

“Dai, vieni dentro. Ti preparo qualcosa da mangiare” propose, arruffandole giocosamente i capelli.

 

*

Quella sera la ragazzina scivolò in fretta in un sonno senza sogni, né incubi, riposando serena come non le capitava da tempo. Non ebbe bisogno di stringere a sé una bambola, né di avere qualcuno che la cullasse, come quando era più piccola, per addormentarsi: le bastò il bacio della buonanotte di suo fratello. Si alzò dal letto solo quando udì Gale agitarsi nel sonno, e i suoi mormorii farsi più insistenti, simili a una supplica. Si avvicinò alla sua camera e prese posto di fianco a lui, osservando i suoi lineamenti contratti dal dolore. Una parola affiorò in un sussurro dalle sue labbra, e Posy se la sentì cadere dentro, simile a un macigno sullo stomaco: scusami.

La bambina scosse il capo, senza nemmeno sapere bene il perché. Si accoccolò di fianco a lui e incominciò ad accarezzargli con tenerezza i capelli, proprio come un tempo aveva fatto con la sua bambola. Proprio come sua madre faceva con lei, quando era triste o spaventata.

“Sii forte” gli mormorò in un orecchio per cercare di rasserenarlo, sicura che sarebbe riuscito a sentirla, anche se in quel momento era intrappolato in un incubo. “Sii sempre forte. Passerà tutto, te lo prometto.”

Continuò a sussurrargli parole di conforto, fino a quando non fu sicura che il suo sonno si fosse fatto meno agitato. A quel punto gli baciò la guancia e lasciò la stanza del fratello, per tornare al suo letto nella camera a fianco. L’abitazione tornò a farsi silenziosa  e questo la rasserenò, aiutandola ad addormentarsi una seconda volta; non era più preoccupata per Gale e nemmeno per se stessa.

Posy sapeva che il mondo fuori continuava a essere tutt’altro che rose e fiori. Ma crescendo  aveva anche imparato che quello dentro di lei, di mondo, somigliava più a una corolla di petali, che non a un pezzo di carbone. E fioriva, fioriva di continuo. Fioriva ogni volta che la mamma la cullava nel suo abbraccio, accarezzandole con dolcezza i capelli. Fioriva quando i suoi fratelli le facevano il solletico e quando le sue amiche la sceglievano per rivelarle un segreto particolarmente importante. Fioriva quando il ragazzino pel-di-carota del Distretto 13 le sorrideva e anche quando correva a perdifiato per i boschi, ora che potevano farlo tutti al 12, perché non era proibito: non più.

E sarebbe fiorito anche per Gale: gliel’avrebbe insegnato lei. Era il suo compito, lo diceva anche il suo nome. Crescendo, Posy aveva confermato le speranze di suo padre, quel padre che non aveva mai conosciuto: era diventata un fiore raro, sbocciato nel grigio degli stenti.

Anche se il mondo fuori continuava a non essere rose e fiori.

 

___________  

Questa storia partecipa al contest a turni “1 su 24 ce la fa” [Hunger Games Contest]di ManuFury.

 

Note dell’autrice.

Prima delle note ci tenevo a dire che mi sono finalmente ricordata di spostare l’album con i prestavolti degli Hawthorne dal mio profilo personale alla mia vecchia pagina Facebook,  perché sto cercando di riprenderla in mano.  E sono quindi ora visualizzabili da tutti. Ci sono i cinque Hawthorne (inclusi mamma e papà), Joel, Haley, Rowan e i fratelli d Johanna.

Passando poi alla storia, questa volta mi è venuta voglia di fare un papiro a punti, perché c’erano due o tre cose che volevo segnalare in merito alla one-shot!

1.    Non so se i bambini di Panem conoscano le fiabe tradizionali con cui siamo cresciuti noi, visto che sono passati tantissimi anni nella saga, ma ci tenevo a fare quel parallelismo con Biancaneve, perché mi sembrava molto adatto al mio modo di immaginare Posy.

 

2.    Il bambino dai capelli rossi che menziona Posy nell’ultima scena è Dru Callister, già comparso nella flash fiction “Raccontami il Verde”. Ho sempre pensato che Dru e Posy si fossero conosciuti al Distretto 13 e che Dru, assieme al nonno Jonathan e il resto della famiglia si fosse trasferito nel 12,  dopo la fine della rivolta.

 

3.    Lilo è la bambola che viene menzionata più volte nella flash fiction intitolata, appunto, “Posy aveva una bambola”. Poiché entrambe le storie partecipano allo stesso contest a turni ho pensato di cercare di collegarle, in qualche modo. La bambola si chiama Lilo principalmente per due motivi: intanto mi piaceva l’idea che avesse un nome di quattro lettere come i fratelli Hawthorne xD E poi a me Posy ricorda un sacco Lilo di Lilo&Stitch, per il carattere vivace e il suo essere solare e amichevole. E poi son piccine e belline tutte e due *_*

 

4.    Il titolo della one-shot si ispira a una delle frasi che più amo della Disney, tratta dal film Mulan (1998): 'The flower that blooms in adversity is the rarest and most beautiful of all.' (il fiore che sboccia nelle avversità è il più raro e il più bello di tutti). Mi è sempre sembrata perfetta per descrivere Posy, poiché il suo nome significa appunto fiore/mazzo di fiori e perche è nata proprio nel momento più avverso per la sua famiglia – poche settimane dopo la morte di Mr. Hawthorne.

 

Dopo questo simpatico sproloquio numerato vi abbandono, sperando di riuscire al più presto a scrivere anche il capitolo su Rory! Spero che questo capitolo possa esservi piaciuto e chiedo scusa per la lunghezza, visto che i precedenti erano decisamente più corti – purtroppo non mi smentisco mai >.<

Un abbraccio e grazie a chiunque sia passato a leggere <3

Laura

 

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Capitolo 4
*** Rory; red king. ***


Four children. Four names. Four letters.

 [Rory: Red King.]

rory

 

Checkmate – Kings never die

 

«Prima regola: proteggi il tuo Re.»

Non volare via. Sara Rattaro

 

“Scacco!”

Rory rivolse un’occhiata trionfante al padre, spostando il proprio alfiere vicino al re nero dell’uomo.

Joel sorrise sotto i baffi, divertito dalla vivacità che il figlioletto stava mostrando mentre giocavano. Diceva ‘scacco’ talmente tante volte che l’uomo aveva ormai incominciato a soprannominarlo così.

“Occhi sempre aperti, ragazzo…” lo avvertì, mangiandogli la pedina con il re. Rory sbuffò e si mise a braccia conserte.

“Te l’avevo detto di non muovere l’alfiere…” mormorò Gale, esaminando la scacchiera. “Porta in avanti questo cavallo” aggiunse poi, muovendo la mano del fratello minore per fargli spostare la pedina.

Era domenica pomeriggio e, come tutte le settimane da quando Rory aveva quattro anni, lui e il padre avevano allestito sul tavolo la vecchia scacchiera di Joel; era sporca di carbone e mancava qualche pezzo, ma avevano rimediato a quest’ultimo problema intagliando qualche cubetto di legno.

Joel amava giocare a scacchi: quel passatempo era una delle poche cose in cui riuscisse a mantenersi concentrato per più di una manciata scarsa di minuti. Amava soprattutto insegnare quel gioco ai propri figli; Gale non si era mai mostrato particolarmente interessato, ma Rory, che aveva cinque anni, adorava trascorrere i pomeriggi cercando di battere il padre, aiutato dalla madre o dal fratello maggiore. Faticava ancora a comprendere come funzionasse il gioco, ma ce la metteva tutta; il suo nome, Rory, significava Re Rosso ed era convinto che, per portarlo degnamente, dovesse  imparare a difendere il Re della sua scacchiera a tutti i costi.

Quel pomeriggio gli erano rimasti ormai pochi pezzi, se messi a confronto con la schiera di pedine nere del padre. Tuttavia il suo re era ancora vivo e il bambino era deciso a battersi fino in fondo, prima di accettare la sconfitta.

Mosse il re in avanti, e fece la stessa cosa al turno successivo. Lo spostava spesso, nel corso della partita: voleva sconfiggere il padre proprio con quella pedina, nonostante Gale continuasse a suggerirgli di cambiare tattica.  Più volte, per via di quegli spostamenti, aveva messo il pezzo principale del gioco in una posizione di pericolo. Il padre fingeva spesso di non accorgersene, per permettere al bambino di proseguire con la partita.

“Scacco!” ripeté dopo qualche minuto Rory, portando il re di fronte a quello avversario.

“Attento…” lo avvertì Gale, indicandogli la pedina con un cenno del capo.

“Qual è la regola numero uno degli scacchi?” chiese Joel al minore dei fratelli.

“Proteggi il tuo re” recitò il bambino, spostando il suo all’indietro prima che quello del padre potesse mangiarglielo.

L’uomo gli sorrise.

“Ben detto, Re Rosso” si complimentò, strizzandogli l’occhio.

Gale guardò fuori con aria impaziente, prima di raggiungere l’ingresso per mettersi il cappotto. Si fermò a metà strada per arruffare i capelli di Vick, che si era avvicinato al fratello per mostrargli il suo disegno.

“Dove stai andando?” domandò un’incuriosita Hazelle, raggiungendoli dalla camera da letto.

“A caccia” rispose il ragazzino, mettendosi il berretto.

“A quest’ora?”

Hazelle guardò fuori dalla finestra: il cielo stava incominciando ad annerirsi.

Gale si strinse nelle spalle e restituì il disegno al fratellino.

“Lascialo stare, ha un appuntamento” commentò il padre con un ghigno, mentre il primogenito abbandonava l’abitazione.

La moglie gli rivolse un’occhiata perplessa.

“Un appuntamento? Ha undici anni!”

Joel le rivolse un sorrisetto divertito.

“Undici anni e una fila di ragazzette che gli fanno la corte. Arrenditi, Haze:  è un uomo, ormai.”

La moglie sospirò, prima di prendere in braccio Vick, che era occupato a impiastricciare il retro del suo foglio con le mani sporche di polvere di carbone.

“Tu non crescere mai. Okay, ometto?” esclamò, dandogli un bacio sui capelli. Il piccolo annuì.

“Va bene, mamma!” acconsentì, mostrandole il disegno.

Joel diede le spalle al tavolo, per seguire la loro conversazione; con la coda dell’occhio si accorse che Rory stava spostando delle pedine sulla scacchiera, credendo di non essere visto.

“I re non barano mai, Scacco” lo avvertì senza girarsi, facendolo sussultare. “E tu sei o non sei un re rosso?”

Il bambino gli sorrise con fare da discolo, prima di annuire.

“Sì, anche se i miei soldati sono tutti bianchi” osservò, indicando la scacchiera; lo aveva sempre impermalito il fatto che ci fossero solo pedine bianche e nere. Il suo nome parlava di un re rosso, perciò gli sarebbe piaciuto avere dei pezzi di quel colore. Suo padre gli ripeteva spesso che il rosso era il colore dei combattenti, fieri e intelligenti. Rappresentava le persone astute e competitive, come lo stesso Joel. E come Rory sognava di diventare una volta cresciuto.

Il bambino sbirciò fuori dalla finestra per inseguire con lo sguardo il fratello maggiore.

“Anche io sono un uomo, papà?” chiese poi, mettendosi in ginocchio sulla sedia per sporgersi sul tavolo. “Come Gale?”

“Quasi” rispose il padre, esibendo il suo solito sorriso un po’ storto. “Sei sulla buona strada per esserlo.”

“Come faccio a diventarlo?” lo interrogò ancora il figlio, “Devo portare a casa la legna come fate tu e Gale?”

Joel scosse la testa.

“Capirai di essere diventato un uomo quando riuscirai a prendere da solo la tua prima preda, durante la caccia. O quando riuscirai a battere il tuo vecchio a scacchi senza aiuti…” aggiunse, arruffandogli i capelli.

Rory gli sorrise vispo, prima di tornare a concentrarsi sulla scacchiera; era sicuro che, presto o tardi, sarebbe riuscito a vincere senza aver bisogno dei consigli degli altri.

Mosse il re in avanti, sperando di non trovarsi sulla traiettoria di una pedina nera.  Il padre gli indicò la propria torre, sistemata sulla stessa fila.

“Proteggi il tuo re, Scacco” gli ricordò,  mentre il bambino riportava la pedina alla posizione di partenza. “E tieni sempre gli occhi aperti”.

“Quanti anni aveva Gale, quando ha preso il primo coniglio tutto da solo?” chiese il ragazzino, analizzando la scacchiera con sguardo attento.

Il padre ci pensò un po’ su.

“Otto, credo” rispose, prima di incolonnare il proprio re con quello del bambino.

Rory si precipitò a spingere in avanti il proprio e, con quella mossa, la partita si concluse.

“Scacco matto!” esclamò entusiasta, sollevando le braccia in un gesto di vittoria.

Joel sorrise sotto i baffi.

“E bravo il mio Re Rosso!” esclamò, alzandosi per sgranchirsi le gambe, mentre il figlioletto smontava il ‘campo di battaglia’. “Ma la prossima volta mi aspetto che tu ce la faccia da solo, senza aiuti. Puoi farcela, ragazzo?”

Il bambino annuì con decisione, continuando a riporre le varie pedine nella scatola.

Presto, si disse, avrebbe imparato a giocare meglio e sarebbe riuscito a vincere da solo.

Presto sarebbe diventato un uomo, come suo padre e suo fratello maggiore.

 

*

«Ultima regola: il Re non muore mai, conosce solo la resa.»

Non volare via. Sara Rattaro

 

Rory contemplò con espressione ammirata le pedine della sua nuova scacchiera. Suo padre era riuscito a procurarsi un set di seconda mano al Forno e, assieme a Gale, aveva trovato il modo di dipingere le pedine bianche di rosso; quello era stato il regalo che Rory aveva ricevuto per il suo settimo compleanno e il ragazzino non avrebbe potuto esserne più entusiasta. Stava migliorando a vista d’occhio, con gli scacchi, e non vedeva l’ora che suo padre rientrasse dal lavoro per poter fare qualche partita con lui.

Quando rincasò, Joel aveva l’aria più stanca del solito e lo sguardo incollerito.

“Che è successo?” chiese subito la moglie; lo conosceva abbastanza bene da sapere che quell’espressione poteva significare solo disgrazie, episodi ingiusti o guai in arrivo.

Rory sistemò i pezzi della scacchiera sul tavolo, mentre l’uomo si lasciava ricadere pesantemente su una sedia.

“Una volta è crollata e un paio dei nostri sono rimasti feriti” sbottò, stringendo convulsamente le mani a pugno. “Ce n’è uno, il più giovane, che è stato colpito al collo e non sanno se si riprenderà: non riusciva nemmeno a muoversi.”

Lo sgomento nello sguardo di Hazelle si accentuò; la donna si avvicinò al marito per stringergli un braccio. Gli passò una mano fra i capelli e poi gli accarezzò il volto, come se si volesse assicurare che stesse bene. La preoccupazione continuò a velare gli occhi della donna, mentre il suo sguardo si spostava dal marito al figlio, che stava osservando entrambi con aria impensierita.

Rory chinò la testa, tornando a sistemare le sue pedine rosse sulla scacchiera; una punta di paura continuò a stuzzicargli lo stomaco, mentre dall’altra parte del tavolo i suoi genitori parlavano dell’incidente. Era evidente che sua madre fosse spaventata e lo era anche lui, al pensiero di tutte le cose che potevano succedere ai minatori. Sapeva che, un giorno, anche lui sarebbe dovuto andare a lavorare nelle miniere, così come Vick e Gale. L’idea lo preoccupava, perché capitava spesso che Joel tornasse a casa stanco e rattristato, per via di un collega che era morto o di un amico che si era fatto male. Non voleva che qualcosa di simile succedesse anche a suo padre. E non voleva nemmeno che accadesse a lui. Se da un lato non vedeva l’ora di crescere, per imparare a cacciare da solo e riuscire a battere suo padre a scacchi, dall’altro lo frenava il pensiero che, una volta adulto, sarebbe stato costretto a lavorare in un posto così pericoloso come le miniere.

Quella sera  Rory fu insolitamente taciturno sia a cena che mentre preparava ancora una volta la scacchiera; l’idea di giocare con le pedine nuove non lo elettrizzava più come quella mattina.

“Chi comincia?” chiese, dopo essersi messo in ginocchio sulla sedia. “La regola dice che iniziano i bianchi, ma qui ci sono solo i neri e i rossi.”

Tamburellò con impazienza le dita sul tavolo e, con un sorriso, si accorse che il padre stava facendo lo stesso: quello era un tic che aveva ereditato da lui.

“Nella tua scacchiera la regola dice che i rossi muovono per primi” rispose Joel, rivolgendogli un cenno d’intesa.

Rory annuì e studiò le varie pedine, per decidere con quale incominciare la partita.

“Papà?” chiese all’improvviso, spostando un pedone in avanti di due caselle. “Da grande dovrò fare il minatore anch’io?”

Joel fissò a lungo il figlio, prima di sospirare e passarsi una mano fra i capelli arruffati.

“È probabile, ragazzo. Ma io spero di no.”

Rory riprese a tamburellare i polpastrelli sul tavolo, indirizzando un’occhiata preoccupata alla scacchiera.

“Non voglio farmi male…” mormorò, sfiorando uno dei suoi alfieri; non voleva fare la fine delle sue pedine, quando cadevano a terra sul campo di battaglia.

Il pensiero di rimanere ferito lo spaventava molto, anche se si vergognava ad ammetterlo. Avrebbe voluto essere forte e coraggioso come suo padre, che si arrabbiava spesso quando un collega si faceva male, ma non si arrendeva mai e continuava a presentarsi al lavoro tutti i giorni senza mai vacillare o avere paura. Lui, però, non si sentiva temerario come il capofamiglia di casa Hawthorne. Era come il re rosso delle sue pedine: voleva vincere, ma aveva sempre bisogno che ci fossero gli altri pezzi ad attorniarlo, a difenderlo. Non era come il cavallo, o la regina, o l’alfiere, che avanzavano fieri per tutta la scacchiera, senza aver paura di farsi del male e spesso pronti a sacrificarsi per la vittoria.

Ancora una volta, Joel guardò a lungo a suo figlio, prima di fargli cenno di avvicinarsi. Rory attraversò il tavolo per raggiungerlo.

“Non permetterò mai che tu ti faccia male, ragazzo” mormorò a quel punto l’uomo, stringendogli con affetto una spalla. “Qual è la prima regola degli scacchi?”

“Proteggi il tuo re” rispose il bambino, fissandosi la punta delle scarpe.

Joel annuì.

“E io proteggerò sempre il mio re…” rispose, prima di dargli un buffetto sotto il mento. “…Il mio Re Rosso.”

Rory abbozzò un sorriso, tornando a guardare il padre negli occhi.

“E Vick; e Gale” dichiarò, sentendosi tutto a un tratto più sollevato.

“Proprio così, ragazzo” rispose Joel, ricambiando il suo sorriso “Voi tre siete i miei pezzi migliori” aggiunse, indicando le pedine sulla tavola.

“Siamo un po’ come una scacchiera, vero?” chiese il bambino, appoggiandosi al padre con il fianco. “La mamma è la regina. Gale e Vick possono fare l’alfiere e il cavallo.”

“E io sono la torre o un pedone?” domandò Joel, giocherellando con una pedina rossa.

Rory scosse la testa, sorridendogli furbo.

“Tu sei un re; come me. Sulla scacchiera ce ne sono due, no?”

Il padre gli scoccò un’occhiata divertita.

“E allora giochiamo, mio re” esclamò, arruffandogli i capelli.

“Giochiamo” confermò il ragazzino, tornando a sedersi di fronte al padre.

Rory s’impegnò a fondo per cercare di vincere. Più volte fu sul punto di cantar vittoria, pensando di poter mettere il padre sotto scacco.

Alla fine cadde in una trappola di Joel, che lo costrinse a lasciare scoperto il re, dando così il via libera alle pedine nere dell’uomo.

“Scacco matto” esclamò a quel punto il padre, muovendo in avanti la sua regina e facendo cadere il re rosso del figlio.

“Mi hai ucciso” borbottò Rory, deluso dall’ennesima partita persa. Stava diventando bravo, ormai, ma non lo era ancora a sufficienza da poter battere il padre.

Joel sorrise del suo broncio, prima di alzarsi per raggiungerlo.

“Ultima regola degli scacchi, Rory” esclamò, cingendogli le spalle con un braccio e sfregandogli un pugno sulla testa. “Il re non muore mai: conosce solo la resa.”

Rory si divincolò, cercando di sfuggire all’arruffata di capelli. Infine sorrise, tornando a prendere posto di fronte alla scacchiera per elaborare qualche nuova strategia di attacco.

Sollevò le sue pedine e le sistemò nuovamente sul loro campo di battaglia.

Il re non muore mai, ricordò, posizionando il pezzo più importante del gioco al centro della scacchiera.

Quella regola aveva tutta l’aria di poter diventare la sua preferita.

 

*

“Bugiarda!”

Il grido di Rory impregnò il silenzio della cucina, mescolandosi ai singhiozzi di Hazelle.

Il suono insistente delle sirene d’allarme, che aveva tormentato il bambino sin dal pomeriggio, riprese a rimbombargli nella testa.

“Sei una bugiarda, lui si è salvato e sta per tornare!”

Rory, ti prego…” mormorò la donna, cercando di controllare il tremito della sua voce. Si precipitò in avanti per stringerlo a sé e appoggiò la guancia umida di pianto ai suoi capelli. “…Vorrei che fosse una bugia, lo vorrei tanto, amore, ma non posso…”

“Smettila!”

Rory si separò dall’abbraccio della madre con uno strattone  e diede un calcio a una sedia, serrando i pugni. La sua sfuriata avrebbe probabilmente svegliato Vick, ma non gli importava. Sua madre gli stava mentendo, lui lo sapeva. Se lo sentiva.

“Papà adesso torna, vedrai che torna!” sbottò, scacciando bruscamente le lacrime con il dorso della mano. “Ho preparato la scacchiera” aggiunse, indicando la schiera di pedine sistemate sulla tavola di legno. “Mi deve una rivincita e oggi lo batterò, oggi posso farcela!”

“Amore, ascoltami…”

Hazelle cercò di raggiungerlo per calmarlo, ma Rory tornò a divincolarsi dalla sua presa.

“Papà non può tornare. Papà è…”

“Non dirlo!” gridò il ragazzino, mettendosi le mani sulle orecchie. “Non dirlo, non è vero!”

Sfuggì ancora una volta all’abbraccio della madre, deciso a non crederle. Suo padre non era come gli altri minatori: lui era forte. Lui era un Re. E l’ultima regola degli scacchi parlava chiara, in tal proposito.

“Il Re non muore mai. Il Re non muore mai!” urlò, scattando verso l’ingresso.

Rory!”

Fece appena in tempo a ricambiare lo sguardo assonnato di Vick che si era appena intrufolato in cucina, preoccupato da tutte quelle urla, prima di chiudersi la porta alle spalle.

Incominciò a correre, chiudendo fuori i richiami insistenti di sua madre e le esclamazioni sorprese dei passanti. Era sera inoltrata e una pioggia fine aveva incominciato a scivolare lungo le strade, mescolandosi al nero che le sporcava: il cielo piangeva lacrime ornate di polvere di carbone.

Rory superò il Prato e continuò a correre, spingendosi fino alla recinzione di filo spinato. Non l’aveva mai attraversata da solo – e mai al buio - perciò esitò, quando si trovò davanti al punto che suo padre e Gale attraversavano spesso, per passare dall’altra parte. Rabbrividì, stringendosi nelle braccia per via del freddo, e trasse un lungo sospiro, prima di infilarsi nell’apertura.

Si addentrò nel bosco con passo esitante e vagò alla cieca, cercando la radura in cui suo fratello si fermava spesso per preparare le trappole.

“Gale!” esclamò dopo qualche minuto; incominciava ad avere paura.

Girò lentamente su se stesso e provò o orientarsi, ma la pioggia, per quanto fine, lo confondeva e il buio ostacolava i suoi tentativi.

“Gale!” gridò ancora, appoggiando la schiena a un albero e lasciandosi scivolare a terra.

Non ottenne risposta, perciò si limitò a raggomitolarsi su se stesso, arrendendosi alle lacrime.

Continuò a chiamare il fratello, intervallando le grida ai singhiozzi. Dieci minuti più tardi una voce rispose alle sue urla. Era lontana e stava ripetendo il suo nome, avvicinandosi man mano che il ragazzino replicava.

“Papà?” esclamò Rory, quando il richiamo incominciò a farsi più vicino. Chiuse gli occhi e si aggrappò al filo sottile di speranza che, nonostante l’evidenza, non era ancora riuscito a lasciare andare. “Papà, sei tu?”

Rory!”

Il suo nome risuonò nella radura e, un istante più tardi, Gale fece comparsa dietro uno degli alberi.

Il ragazzo corse dal fratello e si sfilò il giubbotto per coprirlo. Rory abbandonò la testa contro il suo petto, tremando infreddolito.

“Che diavolo ci fai qui?” sbottò il maggiore dei due, stringendolo a sé per scaldarlo. Lo fece con gesti bruschi, arrabbiati. Era furioso e, nonostante facesse così buio, a Rory sembrò quasi di poter intravedere nell’oscurità i suoi occhi fiammeggianti di collera.  “Potevi perderti, potevi farti male, che ti è saltato in mente?”

“Papà è morto” mormorò il ragazzino in risposta, chiudendo gli occhi e abbandonandosi a un’improvvisa stanchezza.

L’aveva detto, alla fine. Ma non aveva previsto che il peso di quelle parole l’avrebbe schiacciato con tutta quella forza. L’esplosione che aveva ucciso suo padre lo travolse tutto a un tratto, come se la parete di roccia che faceva da tetto alle miniere avessero incominciato a crollare anche addosso a lui.

Aveva perso la partita, doveva ammettere la resa; era quello che facevano i re e lui era il re rosso: il comandante delle sue pedine.

“Papà è morto!” ripeté più forte, gridandolo alla radura, a suo fratello, a se stesso.

Gale non disse nulla; si limitò a stringerlo più forte, addolcendo la presa brusca con cui l’aveva afferrato poco prima.

“Lo so.”

Quelle due parole furono le uniche che il ragazzo riuscì a pronunciare. Rory sapeva che, se solo avesse cercato di aggiungere qualcosa, la sua voce si sarebbe incrinata. E non poteva permetterselo, non in quel momento. Non quando c’era già lui a piangere, rannicchiato fra le braccia del fratello.

“Prima regola degli scacchi…” mormorò il bambino, tirando su col naso. “…Proteggi sempre il tuo Re. Papà non l’ha fatto: non ci proteggerà più.”

Un singhiozzo gli si annodò in gola e, quando lo lasciò uscire, altre lacrime scivolarono oltre le sue palpebre.

“Pensavo che lui fosse più forte degli altri” ammise ancora Rory, sfregandosi il volto con la manica. “Pensavo che lui non sarebbe mai morto…”

“Lo pensavo anch’io” ammise il maggiore dei due, abbandonando la nuca contro il tronco dell’albero. “E credo che lo pensasse anche lui. Ma è così che va in miniera” aggiunse, in tono di voce più duro.

Ancora una volta, Rory sentì la rabbia vibrare nelle parole del fratello; solo che non era più rivolta a lui: quella di Gale era una collera più tagliente e massiccia, che arrivò quasi a spaventarlo.

“Non voglio andarci” mormorò a quel punto il ragazzino, scostandosi dal fratello. “E non voglio che ci vada nemmeno tu. O Vick.”

Gale lo guardò a lungo, prima di annuire.

“Non permetterò mai che tu e Vick facciate la fine di papà” lo rassicurò poi fasciandosi il corpo con le braccia, per ripararsi dal freddo.  “Te lo prometto.”

Le sue parole riuscirono ad arginare per qualche istante le lacrime che continuavano a sfuggire al controllo di Rory.

“E come faremo a mangiare?” mormorò poi il ragazzino, balbettando per via dell’aria gelida. “Se non andiamo nelle miniere ci serviranno dei soldi.”

“Scapperemo nei boschi” rispose Gale, sistemandogli meglio il giubbotto sulle spalle.  “Potremmo cacciare, pescare e raccogliere le erbe commestibili.”

Rory rimuginò per qualche istante sulle sue parole, valutando in silenzio quell’opzione. Non era sicuro che fosse possibile e l’idea lo spaventava un po’, ma preferiva quell’immagine al pensiero di dover trascorrere il resto della sua vita in miniera.

“Ti proteggerò io, Re Rosso” promise quel punto Gale, sollevandosi da terra. “La prima regola degli scacchi è ancora valida” aggiunse, aiutando il fratellino ad alzarsi.

Rory inspirò a fondo, ignorando le lacrime che continuavano a rigargli il viso.

“Li proteggeremo assieme” dichiarò a quel punto, scoccando un’occhiata al cielo; si accorse solo in quel momento che aveva smesso di piovere. “La mamma, Vick e il fratellino che deve nascere. Tra qualche mese faccio otto anni” aggiunse, incominciando a camminare di fianco al fratello. “Devo essere un uomo, adesso. Vero?”

Gale sfilò le mani dalle tasche e gli circondò le spalle con un braccio.

“Papà te l’ha detto come si diventa uomini?”

Rory annuì.

“Devo cacciare il mio primo coniglio” rispose, mentre un nuovo singhiozzo minacciava di sgusciare via dalla sua gola. E batterlo a scacchi, pensò, tirando su col naso un’ultima volta.

Quello non avrebbe più potuto farlo: la partita di suo padre era finita.

 

*

 

Rory esaminò con attenzione tutte le trappole, facendo tamburellare i polpastrelli contro la sacca della selvaggina. Gale lo sorvegliava da poco distante, deciso a non intromettersi: ciò che stava facendo il fratello minore era un compito che, quel giorno, spettava solo ed esclusivamente a lui.

Il nervosismo di Rory sfumò all’improvviso, nel momento in cui il ragazzino trovò ciò che stava cercando. Un paio di trappole non erano scattate, ma l’ultima sì e, intrappolato fra le sue corde, giaceva il corpicino di un coniglio.

In altre occasioni Rory avrebbe provato tristezza di fronte a una scena simile, ma in quel momento non poteva permetterselo: ce l’aveva fatta. Aveva cacciato la sua prima preda.

Gale si avvicinò per aiutarlo a smontare la trappola e a raccogliere il coniglio.

“Bel lavoro, fratellino” si congratulò con lui, arruffandogli i giocosamente i capelli “Adesso sei un uomo.”

Rory abbozzò un sorriso – il primo, da quando suo padre era morto.

Scoccò un’occhiata trionfante alle trappole, prima di infilarsi una mano in tasca, alla ricerca di qualcosa. Ne estrasse una pedina, uno dei pezzi più importanti della sua scacchiera: un re rosso.

La settimana prima si era sbagliato; la partita in corso con il padre non si era conclusa con la sua morte: gli spettava ancora la rivincita.

E in quel momento, mentre infilava il coniglio nella sacca, il gioco si concluse.

Il re avversario era stato sconfitto, questa volta per davvero.

“Sono un uomo” ripeté, prima di riporre la pedina nella tasca, stringendola con forza.  “Scacco Matto.”

 




 
 

Note finali.

E così si conclude finalmente questa raccolta – dopo un anno e passa dalla pubblicazione del primo capitolo *\* Chiedo scusa per questo. Purtroppo, quando ho scritto la prima drabble su Gale non avevo ancora deciso di scrivere la raccolta sul significato dei nomi, perciò c’è questa fastidiosissima differenza di lunghezza fra il primo capitolo e i seguenti. Inoltre, quello di Vick è di meno di mille parole, mentre i successivi sono lunghissimi *arrossisce*.  Ho perso il dono della sintesi strada facendo, temo xD (sempre che l’abbia mai avuto!).

Passando alla storia, sono contenta di essere riuscita finalmente a parlare di alcune cose che avevo già accennato senza mai approfondire in altre Rory!centric, come E.Y.E.S. O.P.E.N. , G’night my Lady e la mini-long di Posy (il cielo non crolla).

La storia del nome di Rory è stata forse la più difficile da plottare; i nomi degli altri fratelli erano più “straight-forward” in un certo senso (non mi viene la parola in italiano, perché sono scema e il Galles mi ha fatto il lavaggio del cervello e.e) e dunque un po’ più semplici da interpretare. Però, al tempo stesso, credo che quella del Re Rosso sia la storia a cui mi sono affezionata di più, fra quelle dei vari nomi. La presenza di Mr. Hawthorne era d’obbligo in quest’ultima parte, visto il significato che la sua figura ha avuto anche nelle tre storie precedenti. Gale, invece, è come il prezzemolo e finisco per inserirlo ovunque – ma questa non è una novità.

E niente, non penso che questa raccolta se la ricordi ancora qualcuno, visto tutto il tempo che è trascorso dall’ultimo capitolo pubblicato *\\* Ad ogni modo, spero tanto che non abbia deluso i coraggiosi che hanno scelto di passare di qui – Il Re Rosso vi porge i suoi omaggi!

Un abbraccio e a presto!

Laura

 

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