Fields of Gold

di Francine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** When the West Wind Moves ***
Capitolo 2: *** Il Fuoco e la Fanciulla ***
Capitolo 3: *** Layla ***
Capitolo 4: *** Sposalizio in bianco ***
Capitolo 5: *** Strada facendo ***
Capitolo 6: *** Lo spazio di un respiro ***



Capitolo 1
*** When the West Wind Moves ***


When the West Wind Moves
 



 
You remember me when the west wind moves
Upon the fields of barley
You'll forget the sun in his jealous sky
As we walk in fields of gold

 
 


ANTONIOS è preoccupato. Tanto. Troppo, forse.
«Andrà tutto benissimo», lo rassicura lei, sistemandosi la borsa a tracolla.
«Sì, ma», ripete Antonios. Per la cinquantesima volta nel giro di una mezza giornata. Un disco rotto sarebbe meno ripetitivo, pensa sua moglie Patrizia.
«Sì ma, sì ma, sì ma!», sbotta la donna, cinquant’anni ben portati ed una gran massa di riccioli rossi ed indomabili oltre le spalle. «E piantala una buona volta! Lasciala respirare, non è più una bambina!», conclude. Allargando le braccia in segno d’esasperazione.
Ma Antonios non molla. «No, dico. Tu lo sai di chi stiamo parlando?», le chiede.
«Certo che sì», replica lei. Sostenendo il suo sguardo… scandalizzato? «Per chi mi hai preso, eh?», domanda a sua volta, passando al contrattacco.
«Per una che si è bevuta il cervello!», vorrebbe risponderle, ma Antonios non si azzarda ad usare certi toni con Patrizia. Perché hanno un ospite, in casa. Un ospite molto, molto importante. E perché Patrizia non glielo perdonerebbe se non dopo una settimana di nottate sul divano.
«Lasciala libera!», prosegue Patrizia. Che ha capito quello che sta passando nella testa del marito. E lo sfida con lo sguardo a dare fiato a quel pensiero. Dillo. Forza. Coraggio. Dillo! Vediamo se sei un uomo…

«Ma se dovesse succederle qualcosa…»
«…tu saresti l’ultimo che potrebbe fare qualcosa», chiosa Patrizia, riprendendo a sbaccellare i fagioli come se quella discussione non sia mai esistita. Ci sono tante cose da fare, ancora. Come stendere il bucato, ché oggi soffia il vento da ponente. «Faresti un salto dal macellaio? Ho ordinato dello spezzatino, per cena. E bada che non ti rifili dei tagli scadenti, come al solito suo.»
Antonios apre la bocca una, due, tre volte, poi desiste. Donne!, pensa. Si sono coalizzate contro di me! Sospira, poi si volta verso la loro ospite. Che gli sorride, di una luce radiosa, come quella che promana dal viso delle spose il giorno delle nozze. Nonostante la stanchezza, nonostante la confusione, nonostante qualche goccia di pioggia.
«È proprio sicura?»

Antonios tenta il tutto per tutto. Lo sguardo da cucciolo abbandonato in uno scatolone, di quelli che affollano il canile a Porta Portese, qualche isolato più in là, lo stesso sguardo che Völler – il cane lupo che ha scelto suo figlio Andrea appena il mese scorso – mette in atto quando vuole un pezzo di carne in più. O una coccola. O accucciarsi sulle coperte del letto di Andrea. Forse questo la metterà a compassione, pensa lui, un uomo grande e grosso con una calvizie al centro della testa – voglia di ginocchio, come la chiama scherzando Andrea – che stringe le proprie manone da oste l’una nell’altra.
Ma lei no, non cede. Nemmeno di un millimetro.

«Andrà tutto bene», gli dice, mentre Andrea si affaccia gridando che è arrivato il taxi. E Antonios deve cedere. E abbassare la testa. E che sia fatta la volontà degli dei, pensa vedendola uscire nel sole di Maggio, un vestito color panna, i sandali di cuoio e la borsa a tracolla. Come una ragazza normale. Come faceva Stefania quando usciva con le amiche, prima di sposarsi ed andarsene a Torino.
Fuori c’è Andrea. Che le sorride accanto al taxi, gonfiando e sgonfiando una gomma americana rosa confetto.
«Per il viaggio», le dice, porgendogliene una ancora incantata. «Le strade di Roma sono tutte un buco», scherza, avvicinandole il pacchetto. Blu.
Lei sorride. «Grazie», gli dice, accettandone una. E tenendola nel palmo della mano come se fosse un oggetto alieno appena atterrato da chissà dove.
Andrea le apre lo sportello – da vero cavaliere – e lei sale sul taxi.
«Buonpomeriggio!», le augura, tutto d’un fiato, prima che lo sportello si chiuda con uno SBOP attutito e lasci fuori il vociare di Trastevere, le preoccupazioni di Antonio, l’abbaiare festoso di Völler e il profumo della gomma da masticare di Andrea.
«Dove andiamo?», le chiede il tassista, un lampo azzurro dallo specchietto retrovisore.
«Via dei Delfini», gli dice lei. Scandendolo bene. O almeno crede.
«Via dei…?» Lei gli porge un foglietto di carta. Ottima filigrana e delicata color avorio, qualità che l’uomo annota a margine, prima di esclamare: «Ah! Via dei Delfini! È qua dietro. Ci metteremo un attimo!».
L’uomo ingrana la prima ed il taxi giallo sole si lascia alle spalle la tranquillità di via di San Francesco a Ripa per tuffarsi nella confusione di Viale Trastevere.
«Sono stato ottimista», dice il tassista con un sorriso malandrino. «Le dispiace se metto un po’ di musica?»
«Prego. Faccia pure», gli dice Saori, prima di accomodarsi contro il sedile imbottito della vettura e godersi Roma sfilare dall’altra parte del finestrino mentre la voce di Sting riempie l’abitacolo.



Note:
Ve l'ho promesso qui e lo faccio. Perché ogni promessa è debito. E perché quella statua è davvero troppo pacchiana. Seriamente. Ma anche no.

La sottoscritta non considera nemmeno di striscio i vari Next Dimension, Omega e compagnia cantante che Kurumada tirerà fuori dal cilindro. Il Maestro ha detto che i ragazzi torneranno (pare una minaccia, pare!); ebbene, voglio farlo io, prima che ci metta mano lui. A modo mio. In un futuro alternativo in un universo alternativo. Da ciò si spiega il What If? nelle note.

Questa storia avrà un aggiornamento più lento del solito - ché se non finisco tutto quello che ho in ballo sono dolori. Per me. - una volta al mese. Pian pianino. Roma non è stata costruita in un giorno, no?

E a tal proposito. Vi porto a Roma. Vi ho promesso anche questo, tempo addietro, giusto? Non sarà Ottobre ed accadrà qualche tempo dopo, ma Roma è sempre lì. Sa aspettare, lei. E se non sa aspettare la Città Eterna...

Porta Portese è una delle porte di Roma. Si trova a sud-ovest, lungo il Tevere, e fa da spartiacque tra Trastevere (dove si trova via di San Francesco a Ripa), Testaccio e il Portuense, il quartiere che si è sviluppato lungo l'antica via romana che portava al porto di Ostia. Fino a qualche anno fa ospitava il canile municipale - ora spostatosi alla Muratella (fuori Roma, verso Fiumicino). Per un romano il cane lupo è il pastrore tedesco, puro o meticcio che sia. Se poi è nero, state pur tranquilli: siete a casa di un tifoso giallorosso. E il fatto che il cane si chiami Völler - sì, quel Völler- vi dovrebbe suggerire a quale curva appartenga il cuore di Andrea.
E sì, le strade di Roma sono tutte una buca!

Antonios, Patriza ed Andrea gestiscono un ristorante ed una pensione (siamo alla metà degli anni '90 e i bed and breakfast dovevano ancora imporsi) nel cuore di Trastevere, cui si rivolgono gli uomini del Santuario quando si trovano a passare in città. Sono gli occhi e le orecchie di Athena nella Città Eterna, insomma.

Via dei Delfini esiste davvero, e si trova alle spalle del Campidoglio, a due passi dal Ghetto. Non è lontano da Trastevere, e Saori farebbe prima a piedi che col taxi; il traffico in centro sa essere micidiale. Se siete in zona, fateci un salto.

Il vento dell'ovest a Roma è noto come Ponentino. Spira dal mare e porta un po' di refrigerio nelle serate estive. Il Ponentino è un po' lo spirito di Roma, che soffia per i suoi vicoli ed i suoi sampietrini e si ferma a giocare con gli spruzzi del Tevere.

I ragazzi torneranno, promesso. Assieme ad una vecchia conoscenza (nuova, in un certo senso). Ci metterò dentro tutto l'amore che nutro per Roma. Spero riusciate a percepirlo anche solo un pochino. O un friccico, come si dice da queste parti.
Intanto, grazie per essere arrivati a leggere fin qui. Vado a mettere su il caffè. Non vorrete mica perdervi il prossimo capitolo, vero?
 

 

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Capitolo 2
*** Il Fuoco e la Fanciulla ***


So she took her love for to gaze awhile
Upon the fields of barley
In his arms she fell as her hair came down
Among the fields of gold

 
 


«TU vorresti cosa

Cristiana non è bella. Mento forte, naso aquilino, occhi piccoli e altezza nella media. Voce bassa. Arrochita dal fumo, quasi, se non fosse che Cristiana non ha mai messo in bocca nemmeno una sigaretta di gomma americana, come quelle che i bambini trovano nelle calze il 6 gennaio, e come quella con cui Francesca si sta atteggiando da mezzora, sullo sgabello accanto a lei. Pensando che sì, maneggiare una sigaretta richiede una certa gestualità. Una gestualità elegante. Da signora. Qualcosa che entrambe, con i jeans e le camicette a quadretti e le scarpe da tennis rosa ai piedi difficilmente possono ambire ad emulare. Non con quelle unghie smangiucchiate, si è detto Lui, osservandosele col sorriso paternalistico di chi pensa Beata Incoscienza...
E poi è entrata Lei. Il vestito bianco, la borsa a tracolla, i sandali di cuoio ai piedi. E allora Cristiana si è alzata – colla sua montagna di capelli, lunghi e rossi e grossi come spaghetti alla chitarra, la sua pelle chiarissima e spruzzata di lentiggini, i jeans troppo larghi – e le andata incontro, lasciando Francesca a parlare da sola agitando la sua sigaretta di gomma americana, in attesa che Vinicio portasse loro il tè freddo.

Saori ha sorriso. Ha stretto le mani di Cristiana e si è lasciata guidare ad un tavolo più appartato. Dove poter parlare. Da pari a pari. Con Lui. Senza il sottofondo di tutte quelle sciocchezze che tanto angustiano questi umani pasticcioni. Che alzano la testa dal fango in cui piace loro sguazzare solo per vedere come brillano le stelle. Senza avere il coraggio di allungare una mano e strapparle a quel cielo scuro e lontano.
E poi Lei è entrata in argomento. E Lui – e Cristiana – la sta fissando. Coi suoi occhi di un verde impossibile. Luminosissimi. Profondi. Come cocci aguzzi di bottiglia in controluce.

Saori sorride. Sa che Lui ha capito perfettamente sia la sua richiesta, sia l’entità della stessa. E sa che adesso Lui si sente messo alle strette. E non ha un posto dove fuggire, dove riparare, dove nascondersi. Ha tagliato la testa al vento, la Fanciulla. Lo ha messo in scacco con una manciata di parole. Con la sua stessa arma. Ed è questo a dare fastidio a Colui che sonnecchia dentro Cristiana.  Perché non è mai piacevole assaggiare la propria medicina. Neppure quando sei un dio. Specialmente quando sei un dio.
«Vorrei vedere tua figlia», ripete Saori, mentre il bar attorno a loro va avanti senza fretta. Vinicio ha posato due bicchieri piedi di chinotto sul tavolo ed è tornato dietro al bancone, attorniato dalla mole impossibile di cimeli di un tempo che fu. Quando il sogno di Cuba non sembrava poi così utopistico. Quando il cuore di Vinicio era giovane, e non esiste utopia che non si possa realizzare per un cuore giovane. Capace di accontentarsi anche solo di vivere idealmente, in quell’utopia. Nel migliore dei mondi possibili.
La voce di Cristiana non chiede il perché della sua richiesta. Sa che se lo facesse mostrerebbe il fianco. Si dimostrerebbe interessato alla faccenda, ed è proprio quello che vuole evitare. Si limita a tamburellare le dita sul tavolo di legno. Ha le unghie cortissime. Con lo smalto trasparente. Così crede di evitare di mangiucchiarsele. Almeno, così spera.
Saori teme che la vera Cristiana non se la stia passando bene. Che lui, nella sua visione distorta della magnanimità, le abbia concesso di vedere e sentire come lui sta usando e come userà il suo corpo. Pensieri, parole, opere ed omissioni.
«Sai cosa sia un vincastro?»
Quella domanda la coglie in contropiede.
«No. Perché lo chiedi?»
«Perché sarà la centesima volta che questa pecorella chiama il suo pastore. È come una nenia. O un esorcismo. Che però non funziona.»
«E ripete vincastro
«No, dice altre cose, ma mi manca questo vincastro…», dice Cristiana, lo sguardo corrucciato. «Vinicio, ascolta. Ventisette verticale. Vincastro», dice al barista, tamburellando con una penna sulle parole crociate che stava compilando mentre ascoltava Francesca chiacchierare, prima che Saori entrasse nel bar di via dei Delfini. E prima che Lui entrasse in lei.
Vinicio alza la testa, corruga le sopracciglia e poi risponde: «Bastone», tornando ad occuparsi dei bicchieri nel lavello.
«Bastone», ripete Cristiana. Come accarezzando quelle lettere con la voce. «Bastone…»
«Per quanto tempo ancora hai intenzione di occupare quel corpo?»
Cristiana sorride. Un sorriso lucido come una moneta appena uscita dalla zecca e pericoloso come una tagliola che occhieggia tra l’erba alta. E ti dice che no, lei non è pericolosa. A meno che tu non sia un coniglio, una volpe o una donnola. O un tasso.
«Cos’è? Sei gelosa?», e ridacchia, le labbra che si arcuano all’insù. «Ma dimmi, dimmi… Il tuo fidanzato sa che sei qui? Che sei da sola? Che sei con me
La Fanciulla tace. Sostiene il suo sguardo con durezza. Non le è piaciuto quello scherzo. Non le è piaciuto affatto. E questo lo diverte ancora di più.
«O hai cambiato idea? Non dirmi che adesso che hai visto quanto sappia essere noioso il Mare, vuoi farti un giretto con tuo maritino…»

Saori sospira. Un suono basso, sconfortato. Come la madre che ha a che fare col monello da raddrizzare. Bastone e carota, si dice. Ma sembra che Saori – che la Fanciulla – non sappia quali dei due usare. Perché entrambi, con Lui, non funzionano. Se non è Lui a volere che funzionino.
«Desidero vedere tua Figlia», ripete Saori, per la terza volta. «Te lo sto chiedendo. Non costringermi…»
«… a fare cosa? Ad impormelo?»
Cristiana alza la voce. Vinicio solleva un sopracciglio nella loro direzione. Francesca, che le sta osservando perplessa, si sistema meglio sulla sedia.
«Tu la conosci, quella», chiede a Vinicio, fissando Cristiana e Saori.
«No», le ripete lui. Sistemando i bicchieri nella lavastoviglie e premendo il tasto d’avvio.
Cristiana fissa Saori con uno sguardo incendiario, ma lei non abbassa la testa. Mantiene i suoi occhi di stelle nel verde chiarissimo dell’altra.
«Posso farlo. Lo sai.»
«Lo stai già facendo, Fanciulla. Lo stai già facendo», risponde Cristiana. C’è una nota di amarezza che le colora la voce. «Ti è bastato chiederlo…»
Silenzio.
Cristiana si è voltata sulla sedia, lo schienale contro il fianco sinistro, le gambe accavallate e  la testa reclinata a fissare la punta delle scarpe e quel buco sulla tela rosa confetto da cui spunta l’unghia dell’alluce.
Anche Saori tace. Sa che quello non è il momento per parlare. Per spiegarsi. Perché a Lui non interessano le sue spiegazioni, o gliele avrebbe chieste. No, Lui non ha reagito a quel modo per un amore per la teatralità. Ha reagito a quel modo perché è sincero. Anche se sul suo conto si racconta l’esatto contrario.
Poi Lui sospira. Scuote la testa e Cristiana si alza e va in bagno. Come un automa. Seguita a ruota da Francesca. Lasciando Lui sulla sedia. Colla sua camicia rosso scuro, i suoi pantaloni a sigaretta, le scarpe lucide e i suoi capelli. Neri. Lunghi fino alle spalle, che gli incorniciano il volto magro e affilato.

«Speravo fossi diversa.»
Saori tace. Diversa. Diversa da tutti loro. Da tutti gli altri. Ma lei no, non è diversa dagli altri dei. È come loro. Tale e quale. Né più, né meno.
«Sta’ a vedere che l’unico diverso sono io, alla fine…», dice Lui. Tornando a fissarla. Piazzandole negli occhi il suo sguardo verde chiarissimo. Come cocci aguzzi di bottiglia in controluce. Fa male, Fanciulla? Fa male? Ti causa dolore?, pensa Lui. Sorridendole.
«Questa è la mia natura», gli dice. Prendendo a prestito uno dei suoi tanti alibi. Temendo che la cosa lo mandi in bestia, ma non è quello che Saori vuole, no. Lei vuole farsi capire. Da Lui. Vuole che sappia che ha bisogno di Lui, anche se questo può rivelarsi pericoloso. Ma non vuole imporgli di aiutarla per quell’assurdo patto che hanno stipulato tempo prima. Non vuole che Lui la prenda nel modo sbagliato. Ma c’è un modo giusto?, si chiede Saori.
«La tua Natura... Sai quanti anni ho passato credendo che forse, dico forse, c’era speranza anche per gli dei? Che forse non tutti sono come il Viandante, il Tuono, il Sole, la Guerra, la Gatta… » Lui si stringe nelle spalle. «Perché mi hai salvato, allora? Per questo? Per potermelo chiedere oggi? Vedi così lontano, Fanciulla?»

Saori osserva il suo profilo. Affilato come un pezzo di ghiaccio. Nobile, a modo suo. Perché lo ha salvato? Oh, Athena se lo è chiesto. Saori se lo è chiesto. E nessuna delle due ha saputo rispondere. Ed entrambe hanno pensato che andasse fatto. Che quella vita andasse reclamata. Andasse difesa.

«Lui è mio», ha detto quel giorno al Viandante. Piazzandosi di fronte al Tuono e alla sua ira. «Ha bevuto il mio sangue. La sua vita mi appartiene di diritto», e a quelle parole anche lui, anche il possente Tuono ha dovuto arrendersi. Ha dovuto abbassare le armi, il livore che gli deturpava i bei lineamenti virili.
«Dice il vero?», ha chiesto il Viandante a Lui. Fissando Lei negli occhi scintillanti.
«Sì», ha soffiato fuori Lui. Dietro le spalle da uccellino di Lei, il chitone candido che galleggiava nell’aria come una coperta che lo riparasse dal freddo.
E ha quel punto Lui non ha visto l’occhio buono del Viandante scintillare, perché Lei gli stava fornendo un aiuto insperato, imprevisto e preziosissimo? Sì, che l’ha visto. Ma non ha visto il suo, di sguardo. Perché Lui non ha avuto il coraggio di osservare il bel viso della Fanciulla.
«Fanciulla, tu non puoi conoscere un uomo», ha detto il Viandante. E il Tuono ha borbottato basso. Pronto ad agguantarlo alla gola. Fanciulla o non Fanciulla.
«E Lui appartiene alla Sposa.»
«Ma mi sono concesse delle nozze bianche.
Che non porteranno onta né a me, né a Lui, né alla Sposa.»
Il Viandante ha riso. Un suono forte, di gola, di pancia, di cuore. Mentre il Tuono lo fissava con occhi smarginati e confusi. Perso, come un bambino che ha rincorso l’aquilone finendo per perdersi nei campi. Dove l’erba è alta. E dove il Serpente può sgusciare e arrivarti alle spalle. All’improvviso.
«Questa è Follia, Fanciulla!», ha detto il Viandante, lo sguardo orbo che scintillava di azzurro.
«Ma sia! Lui ti appartiene. Nessuno gli torcerà un capello. Ma se commetterà un’altra simile nefandezza…»
«Non lo farà», ha detto Athena. Interrompendolo. Sorridendo al Vecchio guerriero. Che non aspettava altro che tornarsene a casa portandosi il Fuoco dietro. Incolume.
«Come fai a dirlo, Fanciulla?», le ha chiesto il Tuono.
«Mi piace scommettere.»

«Senza conoscere con cosa stai giocando?»
«È per questo che lo chiamano gioco d’azzardo.»

 
Un gioco d’azzardo.
Questo ha fatto Athena, anni prima. All’insaputa di tutti. All’insaputa dei suoi Santi. Degli altri Numi. Solo il Mare ha raccolto questa sua confidenza. E le ha ditto che è stato un gesto rischioso, il suo. Magnanimo, ma rischioso.
«E se loro lo venissero a sapere? E se Pegaso lo venisse a sapere?», le ha chiesto, sorseggiando una limonata sotto al porticato di limoni e all’ombra dell’Acropoli.
«Lui capirà», gli ha detto.
«Anche questa è una scommessa», ha replicato Julian. E poi ha cambiato argomento.
Perché Lei è fatta così. Perché Lui è fatto così. Perché il Mare sa che ognuno ha la sua propria natura.  Un’anima inquieta. Una ragazzina curiosa. Una persona paziente. Un'onda che sbatte senza sosta contro lo scoglio. E che no, non puoi cambiare quello che sei. Nemmeno se sei un dio.
 
«Perché vuoi incontrare mia figlia?», le chiede il Fuoco. Strappandola ai suoi ricordi. Riemergendo dallo stesso stagno dei pensieri in cui anche lui è sprofondato.
«Perché abbiamo sconfitto lo Straniero. Ma non il suo regno.»
«Quindi? Pensi che mia figlia ti ascolterà?»
«Non lo so. Ma fino a quando non le avrò parlato, non potrò saperlo.»
Lui la fissa, gli occhi ridotti a due fessure.
«Lo stai facendo apposta, vero?»
«Prego?»
«Lo sai. Tutta questa sciarada. Questo tuo dire e allo stesso tempo non dire. Tu vuoi mettermi curiosità, ammettilo! Vuoi che io sia curioso e che ti chieda di spiegarmi cosa vuoi fare. Non è vero?»
«Quello che ho da chiedere a tua figlia è una questione tra me e tua figlia, Fuoco. Non ti riguarda.»
«Lanci il sasso e nascondi la mano, Fanciulla?»
«Puoi vederla così.»
«Io la vedo per quello che è, mia cara.» Un sospiro plateale e il Fuoco prende il proprio bicchiere. I cubetti di ghiaccio tintinnano contro il vetro. «Avanti. Abbiamo molta strada da fare», le dice. Invitandola con lo sguardo a prendere il proprio bicchiere e ad unirsi al suo brindisi. Per suggellare un patto. O solo perché ha sete.
«Non si saldano col sangue i legami?»
«L’abbiamo già fatto, mia cara», le dice lui. «Anni fa, se ben ricordi. Solo che bevvi da solo, allora. E adesso mi sto strozzando. Quindi, sii gentile stavolta. Vuoi?»
Il vetro tintinna. Il liquido scuro scende in gola pizzicando. Il sole scende a colorare d’oro e porpora i tetti di Roma.
Lui posa il suo bicchiere sul legno sbeccato del tavolo. Si alza, si aggiusta una piega inesistente sui pantaloni e le porge la mano.
«Vogliamo andare, mia cara?»


Note:
Mi scuso per il ritardo imbarazzante con cui aggiorno, ma la Vita si diverte a scombinarti le carte in tavola per capriccio. O per farti capire quello che è davvero importante.

La scena cui alludono Saori e questo misterioso Lui è avvenuta in Quando piangono le Stelle, ma non abbiate timore. Non ho svelato tutte le carte nella mia mano (quattro assi, bada bene, di un colore solo), quindi spero vi piacerà godervi la scena, fra qualche tempo. Considerate questo come un assaggio. O, vista l'ora, un aperitivo.

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Capitolo 3
*** Layla ***


Will you stay with me, will you be my love
Among the fields of barley
We’ll forget the sun in his jealous sky
As we lie in the fields of gold

 
 


Quando il sole sta tingendo i tetti bassi di Roma, puoi avere la sensazione che, mentre dietro ai vetri e alle persiane cotte dal sole le massaie stanno preparando la cena, alla Città Eterna piaccia avviarsi verso la notte come una biglia colorata che rotoli piano, con dolcezza, senza troppa convinzione. Come se non potesse fare altro. Come se qualcuno si fosse dimenticato di inserire un freno, un’ancora, qualcosa con cui arrestare il proprio moto.

E, forse, è meglio così, pensa Saori avanzando nella luce aranciata che scalda le insegne antiquate delle botteghe che occhieggiano accanto ai portoni dei palazzi. Un ciabattino, due frutterie, un’edicola, un pastaio, un panettiere, un sarto, una ferramenta con delle bolle di sapone in vetrina…

Lui avanza a passo spedito, come se fosse di casa in quel quartiere aggrappato alle pendici della Casilina, macinando il marciapiede tra gli odori esotici e le insegne straniere che si amalgamano, curiosamente, col murales gigantesco che campeggia su tutto il muro bianchissimo del mercato coperto, al centro di una piazza: è il profilo nerissimo di un lupo a fauci spalancate, chiuso dentro due cerchi, uno giallo e l’altro rosso, con l’unico occhio color rosso porpora che sembra guardare proprio te.

È un quartiere di lupi, pensa Saori proseguendo la marcia.
«Carino, qui…»
«Pittoresco, gli si addice di più», risponde lui, la camicia rosso bordeaux che spunta dai pantaloni a sigaretta. Saori s’accorge di non conoscere questo lato della sua vita terrena. Non conosco niente, di lui, pensa. Le ha chiesto fiducia e libertà - «Semmai dovessi organizzare qualcosa, te ne accorgeresti subito. Sei troppo intelligente perché ti sfuggano certi dettagli», le ha detto – e lei è stata più che lieta di concedergliele. Un gesto di buona volontà. Eppure, queste zone grigie non le piacciono. Non le odia, anzi; la incuriosiscono, la intrigano, la spingono a volerle conoscere, esplorare, per ammirarne il panorama, qualunque esso sia.
Ma ci sarà un dopo, in cui poter esplorare questi tuoi lati nascosti? E ammesso che ci sia, mi farai entrare?, si chiede Saori fissando il cielo che si tinge di rosso melagrana e oro zecchino, i sandali di cuoio e la borsa a tracolla che ondeggia al suo fianco.

Lui continua a camminare, rispettando i suoi silenzi e svoltando in strade via via meno trafficate, lasciandosi alle spalle i palazzi di sette, otto piani, e avanzando tra casette basse dall’aria rilassata, coi rumori della cena che arrivano da dietro alle persiane accostate e ai cancelli in ferro battuto dietro i quali spuntano rose in fiore e gelsomini odorosi. Un piccolo paradiso nel logorante caos della città.
Lui le scocca uno sguardo soddisfatto: s’è accorto del sorriso stupito che è sbocciato sulle labbra rosee della Fanciulla e non può fare a meno di domandarle: «Carino, vero?». Pausa. «Il luogo ideale dove mettere su famiglia…»
Una stilettata in pieno petto avrebbe fatto meno male.
È la mia natura, disse lo Scorpione alla Rana. «Come si chiama questa zona?»
«Certosa», risponde. Le indica col mento l’insegna di una trattoria di quartiere. «Siamo arrivati»

Saori sbatte le palpebre, perplessa. L’entrata al regno dei morti si cela nel retrobottega di un ristorante?
«Fidati», le sussurra Lui, posandole una mano su una spalla per poi spingerla con delicatezza verso la porta di legno. In quel momento esce una ragazza dal locale. La scopa che tiene tra le dita magre è più grossa di lei.
«Siamo ancora chiusi», annuncia, senza alzare lo sguardo su di loro.
Lui si limita ad un colpo di tosse, e lei si volta. I suoi grandi occhi scuri, messi in evidenza da una spessa linea di eye-liner nero, si fissano sul suo viso. Le labbra a cuore, di un color carne opaco, si arricciano in un sorriso.
«Buonasera!», trilla, come un uccellino ammaestrato. Abbandona la scopa contro la porta d’ingresso e aggiunge: «Seguitemi, prego.», precendendoli all’interno.
«Che le hai fatto?», domanda Saori, tra i denti.
«Lascio mance generose», ribatte Lui, scortandola verso un pergolato che occhieggia dalla porta in fondo alla stanza.
«Ecco il vostro tavolo», cinguetta la ragazza, indicando loro un angolino tranquillo. Ha più tatuaggi che pelle, pensa Saori. «Accomodatevi, vi porto subito l’acqua e i menu»,dice, e poi sparisce all’interno a passi lunghi e ben distesi.
Lui le scosta la sedia, Saori abbandona la borsa sulla spalliera accanto a sé e si accomoda. Quando le si siede di fronte, gli lancia un’occhiata di rimprovero.

«Lo so, lo so», dice Lui, posando le mani sulla tovaglia di carta a quadretti bianchi e verdi. «L’ambiente è un po’ spartano, ma la cucina è favolosa. Spettacolare. Ci viene mezza città, sai?»
«Non si era parlato di una cena…»
«A pancia piena si ragiona meglio.»
«Non cambierò idea.»
«Perfetto. Dunque, cosa vuoi che sia una piccola dilazione?»
«Il tempo fugge.»
«Sì. Ha questa brutta abitudine», ribatte Lui, serafico.
«Ho delle responsabilità.» Lo sguardo di Saori si fa più deciso. «Ci sono delle persone che dipendono da me.»
«Punto primo, quelle persone sono morte. E per loro, il tempo è un concetto relativo», le spiega Lui, paziente, il capo leggermente piegato verso la sua spalla destra, le punte dei capelli che sfiorano la stoffa della camicia di buona fattura. «Punto secondo, dove si trovano loro, il tempo non scorre. È congelato in un eterno presente.»

Tacciono, fissandosi negli occhi, lo splendore argentato delle foglie d’ulivo contro il verde impossibile di un laghetto di montagna. O di cocci aguzzi di bottiglia in controluce.
La cameriera ritorna – ha trovato il tempo per allacciarsi un grembiule nero attorno ai fianchi – posa due bicchieri e una bottiglia d’acqua, e sparisce, lasciandoli soli.
«Tutto il contrario di quello che succede qui. Ti volti un attimo, uno solo, e loro sono già cresciuti…» commenta Lui fissando la porta alle spalle di Saori. E lei capisce.
«È tua…»
«…figlia. Sì. Si chiama Layla. Come la canzone.»
«Non sapevo avessi una figlia.»
«Ma come, tesoro? Ma se proprio tu mi hai chiesto di presentarti mia figlia
Touché… «Non questa figlia», ribatte lei. «L’altra.»
«Quale? Quella che vive a New York e fa la commessa da Embryo Concept? O quella che ha un’azienda agricola in Madagascar? Oppure alludi a…»
«Smettila.»
Lui piega la testa da un lato, come un cane che non ha capito il comando datogli dal padrone.
«Okay, okay. D’accordo. Crystal lavora da Barnes e Nobles. Embryo Concept non esiste, giusto. Non sapevo avessi visto anche tu Cenerentola a Parigi.» Sorride. «Ti piacciono le interiora?», le domanda, cambiando argomento.
«Non proprio…»
«Allora lascia perdere i rigatoni con la pajata. Qui fanno una carbonara da urlo…» Fa un cenno verso la porta e Layla si materializza accanto a Saori. «Una porzione di rigatoni alla carbonara, una di bucatini all’amatriciana, due carciofi alla giudia, e mezzo litro di vino della casa.»
«Bianco o rosso? Vengono tutti e due dai Castelli.»
«Rosso», e, come per magia, Layla sparisce, tornando una ventina di minuti più tardi, depositando due piatti fumanti e una caraffa di vetro piena di liquido rosso sangue. «Buon appetito», dice, lasciandoli da soli a soli con la loro cena.
«Mangia, Fanciulla. Il cibo è buono caldo», le dice, armandosi di forchetta ed arrotolando la prima forchettata di bucatini.
Lei lo imita, dubbiosa, infilzando una coppia di rigatoni e portandosela alle labbra. Squisito.

«Com’è?», le chiede.
«Delizioso», ribatte.
«Che t’avevo detto?»
«Non credevo avessi altri figli, oltre ai tre che hai avuto dalla Sposa.»
«E allo stallone che ho regalato al Viandante», le rammenta Lui. «Non è stato un parto facile, sai? Anzi. Una vera e propria impresa, ecco cos'è stato! Eppure, tutti se ne dimenticano.»
«Non è usuale che un maschio partorisca.»
«Certo che no. Ma ero diventato una giumenta. Rammenti?»
«Rammento.»
«Non essere gelosa, Fanciulla», le dice, e la voce del Viandante si fa strada nella memoria di Saori.

«La presenza della Sposa non gli ha mai impedito di procreare altri figli fuori dal talamo. È un dio norreno. È un maschio. Fai bene attenzione, Fanciulla, quando giochi col Fuoco.»

Ma lei non vuole partorire un figlio. Ne ha dodici – tredici – da salvare, da riportare indietro dal Regno delle Ombre. Non può darne uno al Fuoco – Vorresti?, le chiede la voce di Athena, senza nascondere una risata - perché è questo il motivo che l'ha costretta ad imbracciare la verginità. Per non partorire un figlio, che potesse rivendicare diritti sul trono del Fulmine. Eppure…

«E poi, dimentichi Lukas», dice la voce del Fuoco, perforando i suoi pensieri e rompendo un incantesimo.
«Lukas?»
«Loki di Asgard», specifica Lui, arrotolando un’altra forchettata.
«Adesso ricordo. Sì, è vero. C’era qualcosa di familiare, in lui, e adesso capisco cosa. Avete gli stessi occhi.» Di un verde impossibile. Luminosissimo. Profondo. Come cocci aguzzi di bottiglia in controluce. Che ravvivano una fiamma che sonnecchia con una sola, singola, fugace occhiata. Come fa il vento accarezzando distrattamente le braci accese. 
«Avevamo», replica Lui, «fino a quando il tuo Pegaso non me l’ha ammazzato. Ma non ce l’ho con quel ragazzo. Lukas se l’è cercata.» Sospira. «Quel ragazzo mancava di fantasia», commenta. «Ma adesso, mangia, tesoro. Altrimenti si raffredda.»
 


Note:
Oramai ho rinunciato a chidervi perdono per i ritardi clamorosi (e ridicoli) con cui aggiorno le mie storie. Non ci sono scuse, questa è la verità, ché quando la tua vita assomiglia ad una specie di frullatore impazzito le scuse diventano superflue. Sicché, prendetemi per come sono, ché non c'è speranza; solo, tanta buona volontà.

Ho ritrovato i file - gli appunti - che avevo scritto a suo tempo, e che erano finiti in fondo ad una memoria esterna quando sono stata costretta a far formattare il pc. Li avevo dati per dispersi, e siccome la storia è praticamente finita, mi era presa malissimo all'idea di dover riscrivere tutto daccapo. Ma anche no. Invece, spulciando spulciando, ho ritrovato la cartella dedicata a questa storia, i file coi capitoli e altre cose che stavo cercando - che sono poi il motivo e la cagione che mi hanno spinto ad esplorare una memoria estarna da 1 Tera...

Semmai ci fosse qualcuno all'ascolto che s'era letto i primi due capitoli, bel bello, lo pregherei di lanciare i pomodori a destra e le carote a sinistra. Se, invece, è la prima volta in assoluto che leggi di questa vicenda, benvenuto. O benvenuta.

Il quartiere di cui parlo in questo capitolo è la Certosa, una zona di un quartiere molto popolare di Roma. E sì, il Padre dei Lupi dove può vivere, se non all'ombra della lupa?
Il murales di cui parlo esiste davvero: è apparso all'alba dello scudetto del 1983 e fino al 2016 c'era ancora, rinnovato anno dopo anno. No, non sono romanista. Sono juventina. È una vitaccia...
Esiste anche la trattoria a cui accenno, proprio in quel quartiere, specializzata in cucina romana (la fiera delle interiora). Se vi capita, fateci un salto, pure se siete vegetariani: fanno una versione veg della carbonara da urlo!

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Capitolo 4
*** Sposalizio in bianco ***


See the west wind move like a lover so
Upon the fields of barley
Feel her body rise when you kiss her mouth
Among the fields of gold

 
 


È una cena silenziosa, rotta solo dal tintinnio delle posate contro la ceramica sbeccata dei piatti, quella che si svolge nel giardino interno. Volano sguardi, battiti di ciglia lievi come l’aria e pesanti come piombo, sorrisi a mezza bocca, ma nemmeno un fiato. È solo quando Layla ha portato via i piatti ed ha lasciato sul tavolo un cestino strabordante di ciambelle all’anice ed una bottiglia di un vino bianco frizzante, che l’incantesimo si spezza.
E Lui le chiede: «Vuoi davvero farlo?».
Saori lo fissa come se gli fosse spuntata una seconda testa.
«È una domanda retorica. Lo sai. Ma sei sicura di volerlo fare in questo modo?»
«Ne conosci altri?»
«Potresti chiedere allo Sconosciuto.»
«L’abbiamo sconfitto. E la situazione è al di là delle sue possibilità. Quindi, come vedi, non ho altra scelta.»
«Potresti concedere loro requie. Il riposo del guerriero, si dice così, no? Se lo meritano, non credi?»
«Sono rinchiusi in una roccia. Me lo chiami riposo, questo?»
«Ah. Si usa così dalle tue parti?» Prende una ciambella, la spezza e gliene offre un pezzo. «Dalle mie parti si è più creativi. Si beve, si mangia, si canta. Si costruiscono navi…»
«Navi?»
«Naglfar. Costruita con le unghie dei morti. È la nave che darà inizio alle danze… Storia pittoresca. Ricordami di parlartene, un giorno…»

Sorride, le labbra nascoste dietro al bordo del bicchiere. Storna lo sguardo dal suo e lo posa sull’incannucciata sopra alle loro teste. Filtra uno scampolo di cielo tra gli interstizi.
«Perché li hai permesso che li rinchiudessero lì dentro?»
«Non ho potuto oppormi. È stato il Citaredo a convincere il Padre.»
«Fammi indovinare. Tu sei la figlia prediletta, ma lui è il cocco di papà…»
«Possiamo metterla così.»
Lui sorride, uno di quei lampi abbaglianti tra le labbra sottili capaci di farti sbandare e uscire di strada. «Non sarà facile, e questo già lo sai. Non posso garantirti che mia figlia ti accoglierà a braccia aperte. Anzi, conoscendola…»
«Non mi spaventa. Siamo donne. Troveremo il modo di capirci.»
«Se ne sei convinta tu…»
Saori gli sorride, come a dirgli: «Scommettiamo?» e Lui alza le mani, in segno di resa.
«E va bene. Va bene. Hai vinto tu. Vinci sempre tu.» Abbandona il tovagliolo sul tavolo. «Però, ancora non mi hai detto il vero motivo che ti spinge a riportare in vita i tuoi guerrieri…»
«Pensavo fosse palese. Almeno per te
Non svicolare, pensa Lui. «Voglio sentirlo dalla tua voce, dolcezza», le rispose.
«C’è bisogno di parole, tra di noi?»
«Certo che no», replica Lui. «Ma non lo fai per me. Lo fai per te stessa.»

«Per me stessa?» Saori piega la testa da un lato, e una ciocca di capelli le scivola sullo sprone del vestito. Lui vince a stento la tentazione di colmare la distanza col suo braccio destro, afferrarle quella ciocca in punta di dita e saggiarne la sericità a fior di pelle. Sorride.
«Dire le cose ad alta voce equivale a renderle reali. Non dirmi che non lo sapevi?»
Sì. Sì, lo sapevo, pensa Saori, liberando un sospiro. Abbassa lo sguardo sul proprio grembo, le dita intrecciate, come a cercarsi le parole giuste da dire; quindi solleva il viso e gli incatena gli occhi nei suoi, poi dice: «Voglio averti al mio fianco perché presto avrò bisogno di loro», sentendosi all’istante più leggera.

«Vedi?», la rimbecca lui, sorridendo. «Adesso va meglio, vero?»
Lei annuisce. «Avevi ragione.»
«Ma certo che ho ragione», replica lui con aria scandalizzata. «Almeno su due o tre cosette, s’intende…»
Versa un paio di bicchieri di vino e le fece segno di unirsi a lei in un brindisi. Saori ubbidisce e i bicchieri tintinnano gai.
«Dire le cose ad alta voce equivale anche a liberarsi. Quando i pensieri si trovano qui e qui», dice Lui, indicandosi prima la mente e poi il petto, «c’è il rischio che si ammatassino tra loro. Che diventino pesanti. Invece, le idee sono ali, non zavorra. Quelle giuste, almeno.».
Ne ha parlato come se fosse successo anche a lui, pensa Saori, dicendosi che sì, deve essergli successo, in passato. Chissà quali e quante idee avrà partorito la sua mente in perenne movimento, viva come il soffio del vento e guizzante come le fiamme nel focolare. E chissà quali e quante si saranno trasformate in ali.

Ali. Come quelle di Icaro, o come quelle di Aiolos?

Lui si versa un altro bicchiere, lasciandole tutto il tempo di cui lei possa aver bisogno. O, forse, starà effettuando una scrematura delle proprie, di idee. Anche uno come lui avrà bisogno di dare una rassettata, di tanto in tanto, cestinando ciò che non ha futuro, archiviando ciò che richiede più tempo e ponendo in essere quelle che sì, sono proprio la scelta giusta al momento giusto.
«E così, presto avrai bisogno dei tuoi impagabili guerrieri…» La sua voce spezza l’incantesimo. Forse mi sono spinta troppo in là, pensa Saori, sorridendo.  «Come mai? Sempre se posso chiedere, s’intende…»
«Io sono qui», risponde lei, come se questo spieghi tutto.

Un altro, al posto suo, le avrebbe chiesto se non si sentisse sola, senza i suoi lacchè inscatolati nell’oro, o se non avesse voglia di affidarsi ad altri Santi. «Troppo sbattimento, forgiarli daccapo, Athena?», avrebbe detto, questo qualcuno; ma lui, no. Lui è il Fuoco, ed entrambi sono fatti della stessa pasta, la stessa materia di cui son fatte le stelle e di cui luccicano i sogni dei poeti. E anche Lui, come Lei, sa che se la Fanciulla rivuole accanto a sé i suoi paladini è perché, un bel giorno, presto o tardi, qualcuno reclamerà la Terra per sé. Squadra che vince non si tocca, e se quei guerrieri testardi tornavano a reincarnarsi con cocciutaggine per Lei – solo per Lei – secolo dopo secolo, battaglia dopo battaglia, cambiando nome, ma non cuore, perché disfarsi di loro?
È solo questione di tempo, si dice Lui. «Chi te l’ha data, la dritta? Quella di poter chiedere a mia figlia di lasciarti entrare, dico…»
«Ha importanza?»
, vorrebbe risponderle Lui, sì, che ne ha. Mi sarebbe piaciuto che tu ne parlassi con me, invece che con lo Sconosciuto. E invece, no. Ma pazienza, Fanciulla. È andata così.
«No», dice lui, scacciando quella domanda con un gesto della mano. «Però sono curioso di sapere come li convincerai a seguirti indietro.»
«Ogni cuore produce una melodia. Mi sintonizzerò su quella.»
«E se non volessero seguirti? Se, sotto sotto, stessero bene lì dove si trovano?»
Saori sorride. «Il Citaredo sarà anche il figlio prediletto del Padre, quello in cui lui rivede se stesso più giovane. Più equilibrato dello Straniero e più allegro del Guerriero. Ma io», aggiunge, con uno sguardo d’acciaio e la voce dolce come un fico maturo che ti accarezza lingua e palato, «sono nata dalla mente del Padre.».
«Touché. Se è questo, ciò che vuoi…»
«È questo.»
Lui sospira. «E va bene. Ma prima sarà il caso di prendere qualche precauzione…»


Prende il cestino delle ciambelle all’anice, ne preleva una e la posa sulla tovaglia. Svita la saliera, toglie il piattino da sotto alla tazzina sporca e vi rovescia sopra qualche cristallo di sale, poi riempie di vino bianco un bicchiere.
«Dammi la mano, Fanciulla.»
Lei obbedisce.
«Il palmo», le dice. «Devi mostrarmi il palmo.»
«Cos’hai in mente?», le chiede, sentendo le sue dita calde contro la pelle del polso. Bruciano, quasi. E lei deve lottare contro se stessa perché quel calore resti lì dove si trova e non si propaghi, divampandole lungo il braccio, la spalla, il corpo intero.
«Un trucchetto per obbedire mia figlia ad ascoltarti», le risponde Lui. «Sì, lo so che il Viandante ti ha dato una penna dei suoi corvi e che potrai usarle come lasciapassare.» Pausa. «Credevi che non me ne sarei accorto? La tua borsa brilla di luce nera, tesoro. Per chi mi hai preso? Per uno sprovveduto che si lascia manipolare dai suoi lacchè?»

Saori non risponde. Non può. Il Fuoco ha il dente avvelenato, adesso. Avrebbe preferito che gliene parlasse, e forse avrebbe dovuto farlo, non appena lo Sconosciuto le ha fatto quella rivelazione sotto al pergolato del Kallisté, e prima che andasse a discuterne col Viandante; però…
E perché non hai voluto farlo?, si domanda, gli occhi fissi nel verde impossibile che colora quelli del Fuoco. Perché Lui avrebbe cercato a tutti i costi di dissuaderla dall’intraprendere quella cerca. E forse mi avrebbe convinto, si dice Athena, prima di chiedergli: «Che cosa devo fare?», e tagliare la testa al vento.

Lui sorride, il lampo scintillante della tagliola nell’erba alta.
«Mangeremo del pane, mangeremo del sale, berremo del vino dallo stesso bicchiere. A quel punto, mia figlia dovrà starti ad ascoltare, perché sarà anche tua figlia. Acquisita, ma pur sempre figlia.»
I polsi di Saori tremano. Lui non glieli stringe, non le offre alcun appiglio. Che allunghi lei, il braccio verso il relitto che le permetterà di restare a galla nella tempesta. Che beva da sé, dall’amaro calice. La vita è fatta di scelte, Fanciulla, dardeggiano i suoi occhi, due placidi laghetti di montagna pronti a risucchiarti sotto al pelo dell’acqua senza il minimo preavviso.
«Tu sai che…»
«Sì», risponde Lui. «Lo so. L’ho sempre saputo. E, a voler mettere i puntini sulle i, io sono già sposato…»
«Cosa che non ti ha impedito di avere figli sparsi un po’ ovunque», lo rimbecca lei.
Gelosa, Fanciulla?, si chiede il Fuoco, sorridendo divertito. «Sono un dio norreno. Sono un maschio. Seminare discendenza, è questo che ci si aspetta da me. E mia moglie si adatta alla mia visione fluida dell’esistenza. È lei, la Sposa, non io.»
«Comodo, così.»
Quanto, quanto fa male, eh, tesoro? «Quando ti sposi, acquisti il pacchetto completo, non solo quello che vuoi tu. Ma non temere. Il nostro sarà un matrimonio in bianco. Non offendiamo la Sposa, non offendiamo te, e diamo a mia figlia l’obbligo di starti a sentire.»

«L’abbiamo già fatto. Hai bevuto il mio sangue, ed io il tuo.»
«Quello andava bene per convincere il Viandante, tesoro. Lui è un tipo alla mano. Dagli una storia o una scusa per andare a farsi una sgambata, ed è tutto contento. Mia figlia è un tipetto più fiscale, e quindi dovremo fare le cose per bene.» Si schiarisce la voce, le accarezza distratto la carne bianca e morbida del polso, all’altezza delle vene che spiccano azzurre sottopelle, poi aggiunge: «Non avrai alcuna influenza, laggiù. Sarai straniera in terra straniera…».
«Sarò una vivente nel regno dei morti.»
«Errore. Saresti una ritornante nel regno dei morti», puntualizza lui. «Non c’è niente di più allettante per la Morte che riacciuffare una fuggiasca, non credi?»
Lei tace.

«Avresti dovuto venirmene a parlare subito», soffia fuori lui, con sincero rammarico. «Avremmo trovato insieme una soluzione, Fanciulla. E invece, no. Invece, adesso mi tocca raddrizzare il timone della tua barca, prima che punti in direzione sbagliata e tu finisca chissà dove…»
«La prossima volta verrò a chiederti consiglio.»
«Sei sempre ottimista, tu.» Pausa. «Prendi il sale, Fanciulla.»

Lo sguardo di Saori si posa su quei cristalli bianchissimi che spiccano contro l’ocra slavato per i troppi passaggi in lavastoviglie, poi ritorna a cercare quello del Fuoco, verde chiaro come cocci aguzzi di bottiglia in controluce. Siamo affilati, le dicono quegli occhi, ma, almeno, siamo onesti. E Saori decide di fidarsi. Si umetta la punta dell’indice destro, la sfrega contro il sale e attende che lui faccia lo stesso.
«Insieme» gli dice.
«Insieme», le risponde, e nello stesso momento assaporano quei cristalli di sale in punta di lingua.
«Adesso, il pane. Anche se questo è dolce, gli ingredienti sono gli stessi. Più o meno.»
Le porge la ciambella, e lei l’afferra per l’altra estremità.
«Insieme», le dice, e in un gesto unico la spezzano e ne mangiano ciascuno un pezzo. Quindi è la volta del vino, che le solletica labbra e palato e scende giù per la gola come una risata, fresco, avvolgente, fruttato. Anche Lui beve, svuotandolo, ed insieme, le dita dell’uno a contatto con quelle dell’altra, lo scagliano assieme sul pavimento.
E, in quel crash, Saori sente che qualcosa s’è allentato, dentro di lei. Come un anello di una pesante, pesantissima catena, che ha iniziato a cedere. Ad indebolirsi. È solo una sensazione, un’idea sciocca che le ha messo in cuore quel vinello frizzante e scanzonato; eppure, Saori vi si aggrappa con tutta l’anima, colla stessa forza del carcerato che vede spuntare una lama di luce da sotto alla porta della sua cella.

«Perfetto», dice Lui, con un tono dolce e melodioso, la sua mano destra ancora stretta nella sua. «Adesso sei la mia signora, Fanciulla. E senza macchiare il tuo ruolo.»
«Sigé. Si chiama sigé», puntualizza lei, la voce simile ad un sussurro. «Grazie.»
«Per così poco», ribatte Lui, prendendo il tappo della bottiglia dell’acqua e staccandone l’anello di garanzia. Se lo rigira tra indice e pollice, e poi, con un gesto lento e fluido, lo infila all’anulare della Fanciulla guardandola dritto negli occhi e stringendo le dita attorno a quell’anello di plastica sino a farlo diventare della sua misura.
«Il diavolo si annida nei dettagli», le spiega. «Consideralo un regalo da parte del tuo sposo.»
«Grazie.»
«Per così poco? Non c’è di ché, tesoro. Ma adesso, è ora di andare…»

Si alza, le porge il braccio e aspetta. E Lei, che aveva così tanta fretta prima di varcare la soglia del ristorante, adesso indugia. Non si torna indietro, non si può, questo significa quel braccio in attesa; e anche se Saori – e anche se Athena – se l’è ripetuto a lungo, negli anni, cercando in quella manciata di parole lo sprone ad andare avanti, sempre e comunque, adesso vorrebbe puntare i piedi come fanno i muli, e restare lì. Con lui. A ridere, a parlare, a lanciarsi in complicate e circonvolute schermaglie, bevendo il vino alla canna e divorando sino all’ultima ciambella, uscendo abbracciati da quel locale per perdersi per le stradine del quartiere e aspettare che il sole sorga oltre i Colli Albani, assieme a sognatori, gatti randagi e alla prima corsa del trenino dei Laziali.
Che fretta c’è?
Non hanno tutta l’eternità, davanti, quelli come loro?

Ma poi, il pensiero dei suoi Santi che aspettano, congelati in un eterno presente, le appanna il suo sogno ad occhi aperti. E i suoi occhi si velano. E il suo sorriso si spegne. E gli dice: «Andiamo», raccogliendo la borsa e appoggiandosi al suo braccio come avrebbe fatto un naufrago con un tappo sughero in mezzo al mare aperto.
«È lontano?», gli chiede, nel cuore la piccola speranza che il viaggio duri a lungo, che non si debbano separare subito, che.
Invece lui la gela: «Macché. È dietro l’angolo. Nella ghiacciaia.».

E stavolta Saori punta i piedi, proprio come un mulo cocciuto, tanto che lui è costretto a voltarsi e a fissarla da sotto in su. «Che c’è?», le chiede. Genuinamente perplesso. «Non avevi una fretta dannata?»
«Mi hai preso in giro.» Non è una domanda.
«No. Nossignore. Sono serissimo». Si sgancia con delicatezza dalla sua stretta, sentendo sottopelle la riluttanza delle dita della Fanciulla a lasciarlo andare, e le indica la sala da cui sono appena usciti e quella in cui sono entrati. «Il regno dei vivi e quello dei morti corrono su due binari paralleli. Questo perché la tua anima può finirci in qualsiasi momento, capisci?»
Lei annuisce. Ha senso. Pure troppo.

«Midgard e Helheimr sono vicini, ma il regno dei Morti è sia a nord che a sud. E per arrivarci, conviene passare per l’anello mancante.»
«Ossia?»
«Niflhel. L’Inferno delle Nebbie. Il luogo dove si smarriscono i malvagi, prima di arrivare da mia figlia. Sempre se ci arrivano.»
«Ma loro…»
Le posa un dito sulle labbra, come a dirle che sì, ha capito. «Sono i buoni, lo so. E non ho detto che loro si trovino lì. Ho detto che per arrivare da mia figlia, passare per Niflhell è la strada più breve…» Le sorride. «La cella frigorifera di questo ristorante andrà benissimo. Fidati.»
«Se ne sei sicuro tu…»
«Sicurissimo. La cella frigorifera è il luogo dove si conservano i cadaveri, in senso lato. E poi, Roma è stata fondata sul sangue.»
«Come tutte le città del passato. S’infilavano delle persone all’interno dei pilastri, e…» anche io ho rischiato di fare quella fine.

«Lo so», la interrompe Lui. «Ma ti sfugge un passaggio, tesoro.»
«Quale?», gli domanda, lo sguardo attento e smarginato per la voglia di capire, di conoscere.
«Quelli, erano sacrifici. C’era una liturgia, dietro, un rituale preciso, un cerimoniale, un gran daffare da parte di sacerdoti, indovini e compagnia cantante. La morte di Remo, almeno stando al mito, no. Era un assassinio in piena regola. Romolo non ha avuto remore ad ammazzare il suo stesso gemello, pur di fondare Roma. Pur di fondare il suo stesso regno.» Pausa. «Ti suona familiare?»
Saori annuisce, abbassando lo sguardo. «Sì.» E riportare a casa entrambi sarà un lavoro più complicato del previsto. «Ho come un senso di déjà vu…»
«Alla storia piace ripetersi», filosofeggia lui, stringendosi nelle spalle. «Andiamo?»
«E il conto, chi lo paga?»
Lui piega la testa da un lato, come a dirle: «Non starai cercando scuse per procrastinare il tuo dovere, Fanciulla?», poi risponde: «Io. A fine mese, come al solito. O pensi che metterei nei pasticci mia figlia?».
«No. Penso di no.»
«Bene. Allora, vogliamo andare? Sarà pure un matrimonio in bianco, il nostro, ma al viaggio di nozze non ci rinuncio.»

E, così dicendo, Lui posa la sua mano attorno alle sue spalle e, con delicatezza, la sospinge in avanti, verso le cucine.
Qui trovano solo il cuoco, una specie di anello mancante tra un uomo ed un cinghiale. Sta spignattando dietro ad un pentolone ribollente da cui si levano sbuffi di fumo e di sugo.
«Ehi», li apostrofa, abbassando il coperchio e brandendo il mestolo di legno come se fosse una spada e loro un bizzarro drago bicefalo. «Non si può entrare qui. Fuori!»
«Eddai, Patrì», gli risponde Lui con un sorriso. «Cerco Layla.»
«E sentiamo, un po’, che vorresti da lei, eh?»
«Niente. Sono suo padre, stai tranquillo.»
«Seh. Suo padre. E io sono il Papa.»
«Attento, Patrì. Ti si brucia il sugo all’amatriciana…»
Il Fuoco ha pronunciato quelle parole senza una particolare inflessione o un tono preciso, eppure, alle orecchie di quel cuoco irsuto e burbero risuonano come un ordine improrogabile, tanto che si volta verso i fornelli, dà un’altra rimestata nel pentolone, e riabbassa il coperchio come uno scudo.
«È fuori, a fumarsi una sigaretta», dice, dimenticandosi di loro.
«Ciao, Patrì», lo saluta, imboccando la porta che dà su un vicolo esterno, tra il ristorante e la casa allato, dove alcuni gatti stanno pasteggiando in un paio di scodelle di polistirolo.

Layla è lì, seduta sui talloni ad osservare quel filo di fumo salire a raggiungere lo scampolo indaco sopra alla sua testa.
«Com’era?»
«Buonissimo. Come sempre», ribatte il Fuoco. «Patrizio è un attrezzo mica da ridere, ma in cucina…»
Layla sorride, e in quello sguardo messo in cornice dall’eye-liner nerissimo Saori ritrova la stessa scintilla che anima quelli del Fuoco.

Le figlie assomigliano sempre ai padri, era solita dire la Madre fissandola con malcelata invidia, e adesso Saori comprende quanto quelle parole fossero vere. I colori sono diversi – pallido e nero, lui; mediterranea, lei – ma tutto, in quella ragazza, la ricollega a suo padre, se hai tempo e modo di fermarti ad osservare. Se sai cosa cercare. Una luce, un guizzo, un baluginio. Quello del fuoco che ti irride e ti attira, danzando al centro del focolare.
«Puoi aprirci la ghiacciaia?», le chiede Lui, e lei ribatte: «Certo», alzandosi e spolverandosi i pantaloni – il grembiule nero è appeso a qualche chiodo, in attesa di riprendere servizio, domani, stesso posto, stessa ora.
Fa loro cenno di seguirla e li scorta davanti ad una pesante porta zincata. Armeggia con la serratura e quando questa scatta, dice loro: «Fate in fretta. Non posso lasciarla aperta in eterno.».

Del vapore freddo fuoriusciva minaccioso da dietro lo spiraglio e si allungava verso di loro, come se una manciata di dita scheletriche protese a ghermirli per portarseli chissà dove.
Lui le scocca un’occhiata di sfida, come a dirle: «Te la fai sotto, tesoro?».
Certo che no, pensa Saori, facendo cenno a Layla di spostarsi e varcando la soglia della cella frigorifera. L’abbraccio del ghiaccio è come una doccia improvvisa, ti mozza il respiro e tu puoi solo fermarti, in attesa che tutto torni alla sua normalità. Ma il freddo non cessa, il corpo non si abitua, e a Saori non resta che cingersi il con le braccia e riscaldarsi come può, provando a non battere i denti.
«Lascia la borsa qui», le dice la voce del Fuoco, guardandola dalla soglia, accanto a sua figlia. «Non puoi portare nulla di metallico, con te.»

Lei fissa la borsa che le pende inerte al fianco come se fosse un oggetto alieno appena atterrato da un pianeta sconosciuto. «Ma… le piume…»
Lui entra, le dice «Posso?», e, senza attendere risposta, apre la borsa, vi fruga all’interno e ne estrae il suo lasciapassare. Una piuma di Muninn e una di Huginn.
Il Pensiero e la Memoria. Se devi sconfiggere il Citaredo, ne avrai bisogno, Fanciulla, le ha detto il Viandante affidandogliele. E adesso che quelle piume sono tra le mani del suo fratellastro, il quale se le rigira tra le dita, come a saggiarne la qualità – nemmeno dovesse farne l’impennaggio delle sue frecce, pensa Saori, - un timore tremendo – tremendissimo – le attraversa l’anima: e se Lui gliele distruggesse? E se quella fosse solo una sciarada, l’ennesima, dietro la quale trincerarsi per condurre il gioco secondo le sue, di regole?

Non farmi questo, lo pregano gli occhi di Saori, il fiato che si congela in gola, il cuore che rallenta i battiti e trattiene il fiato. Ma è solo un attimo, una nuvola passeggera che gli oscura lo sguardo e che, così com’è arrivata, passa oltre. Il Fuoco sorride e poi gliele appunta sullo scollo del vestito, bucando la trama di cotone e graffiandole appena la pelle.
«Ecco fatto», le dice, sfilandole la borsa di mano ed affidandola a Layla. «Noi andiamo.»
«D’accordo. Ci penso io», e una bizzarra certezza attraversa la mente di Saori: Layla ha trattenuto un mamma tra i denti.

Lei sa, si dice la Fanciulla, chiedendosi se in quel guscio minuto, fatto di carne e sangue, si nasconda la stessa volontà di potenza che ha animato Lukas, anni addietro.
Cosa sei, tu? Da che parte stai?
Ma Saori non ha tempo per sincerarsene. Layla sorride, augura loro buon viaggio e poi richiude la porta, lasciandolo al buio, tra quarti di bue appesi a ganci da macellaio come le cravatte allineate all’interno di un armadio. Quello del nonno…
«Fa freschetto, qui…», scherza lui, richiamandola al presente.
Trovi divertente la situazione?, pensa Saori.
«Hai le labbra violacee…» Lui le cinge le spalle, attirandola a sé. La sua mano si va facendo bluastra. «Stai bene?»
«Mai stato meglio», risponde, regalandole un brivido caldo sulla schiena. «Anche se ho contratto un patto di sangue col Viandante, resto pur sempre uno Jǫtunn. Un Gigante dei ghiacci. Spero che per te non sia un problema, la mia pelle azzurra…»
«No. Anzi. È bellissima», risponde lei solcando appena quella superficie liscia e azzurra come il mare di Grecia al mattino.
«Bene. Lieto di sentirtelo dire, tesoro.» I suoi occhi si vanno facendo ancora più verdi, ora che il suo retaggio sale a galla. È questo, il potere ammaliante delle sirene? È questo che vedevano i marinai, prima di affogare? «Ma adesso sarà meglio affrettarci. Abbiamo una strada lunga e ventosa da percorrere…»
E, così dicendo, si voltano e avanzano a braccetto, passo dopo passo, nella nebbia che si va facendo sempre più fitta, sempre più fitta, sempre più…



Capitolo denso, corposo e pregno di cose, questo.
Ho dato sfogo alla mia logorrea, ma mi sono messa una mano sulla coscienza e l'ho diviso in due. Non dite che non penso a voi!

Niflhel è, letteralmente, l'Inferno delle Nebbie. Essendo gli scandinavi un popolo di marinai, la Nebbia ed il Ghiaccio sono i mali per antonomasia. E siccome perdersi dentro un mare di nebbia, quando sei per mare, è la Disgrazia, va da sé che la loro fantasia abbia partorito un luogo infernale, alle radici dell'Yggdrasil, dentro il quale vi andavano a finire i malvagi, gli assassini e i ladri. La feccia più feccia che c'è, insomma. Nifleheimr, invece, è il Reame delle Nebbie, che si trova all'etremità nord dei rami di Yggdrasil. È un luogo di ghiaccio eterno, che spesso funge da anticamera per Helheimr, il Regno della Morte vero e proprio; ma mentre la strada per arrivare a Helheimr va sia sopra che sotto, e che in questo regno vi sia, sostanzialmente, la dimore di Hel, figlia di Loki, Niflheimr è il regno di Ghiaccio dove i dannati costruiscono Nagflar, una nave interamente fatta di unghie e denti dei morti. Quando sarà pronta a salpare, inizierà il Ragnarok (assieme ad un'altra mezza chilata di cosucce...).

La Sposa è la povera Sygin, colei che raccoglie in un bacile il veleno che cola su Loki, e che gli ha dato due divinità benevole sulle quali le fonti soprassiedono per raccontarci la loro tristissima fine. Narfi, la notte, finirà smembrato da suo fratello Váli (non pervenuto), trasformato in un lupo. Coi loro intestini, si fabbricherà la catena che legherà Loki alla roccia posta proprio sotto alla tana del serpente velenoso.
Famigliola allegra,
n'est-ce pas?


 

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Capitolo 5
*** Strada facendo ***


I never made promises lightly
and there have been some that I've broken
But I swear in the days still left
we'll walk in fields of gold
We'll walk in fields of gold

 
 


Non le dice «Attenta a dove metti i piedi», sarebbe ridicolo. Con tutto quel grigio a riempire l’orizzonte, non si può avere contezza di ciò che li circonda, nemmeno della strada su cui viaggiano. Anzi, Saori non è sicura che i suoi piedi stiano calpestando qualcosa; per quanto può saperne lei, sotto di loro potrebbe esserci un ponte di luce, un tappeto di nuvole o la semplice aria. Oppure il nulla cosmico. Eppure, Saori non tentenna. Sarebbe stupido avere paura adesso. Sarebbe pericoloso. Irrazionale. E spegnere il cervello è un lusso che costa caro, oltre che un’azione stupida: quando hai scelto un corso d’azione, una strada, un sentiero, devi restare vigile, ché non sai cosa ti accadrà strada facendo, ma qualcosa accadrà.
Altrimenti, basterebbe mettersi in viaggio per risolvere i problemi dell’umanità, pensa Saori avanzando al braccio del Fuoco.
 
Luke.
 
Le piacerebbe ancora chiamarlo così. Anche solo per una volta. Luke. Il lupo bianco. Il nato all’alba. La luce. Il Cerchio Sacro. Luke. Solo Luke. Ma Saori sa che è tardi. Avrebbe dovuto cogliere l’occasione prima di varcare le soglie di Niflhell, ma Athena le risponde che no, non avrebbe potuto.
Era già troppo tardi. E lo è diventato nel momento stesso in cui hai chiesto consiglio al Viandante, le sussurra la sua voce, fatta d'acciaio e legno flessuoso, mentre s'accarezza con fare distratto le penne nerissime sullo sprone del vestito.
 
«Non cadranno. Stai tranquilla.»
La voce del Fuoco è più calda e suadente che mai, adesso che si trova nel suo elemento. È come una musica dolcissima, una ninnananna, quasi; oppure una di quelle canzoni che ripeteresti in eterno, che ti è difficile terminare e che finisci per fischiettare solo la melodia, incapace di lasciarla andare.
«Come faceva Marco, da bambino», le ha confidato la Cacciatrice, con un sorriso materno ad incurvarle le belle labbra, gli occhi del colore dell'alloro a rincorrere un ricordo tra le pieghe delle ciglia. «Come si chiamava, quella canzone? Ah, sì…»
Azzurro, pensa Saori osservando la pelle del Fuoco da sotto le ciglia.
«Tutto bene, Fanciulla?»
«Sì.» Finché sono con te, va tutto bene.
«Non hai freddo?»
«Un po’. Ma non preoccuparti. Sopravvivrò.»
«Giusto. Hai resistito al ghiaccio di Asgard col tuo bel chitone», commenta lui, serafico. «Qual era? Questo quando, o…?»
«Ha importanza?», ribatte lei. Meglio sviare l'argomento.
Sì, Saori l’ha fatto. Imperdonabile leggerezza, la sua, che ha pagato a caro prezzo.
Ho avuto i geloni per una settimana…
Però, ogni tanto, devi mostrarti fragile. Delicata. Capricciosa. L’eterna contraddizione rappresentata dalle donne, altrimenti come convinceresti i tuoi paladini a farsi ammazzare per te? Perché tu sei Athena? Sì, certo che lo sei. Ovvio. Ma questo è un argomento valido quando hai la tua schiera al completo, pronta a fare a pezzi chiunque si azzardi a voler anche solo oscurarti la luce del sole. Ma Saori, no. Saori si è ritrovata con una truppa decimata dall’interno, e quindi ha dovuto giocare sporco, ed instaurare un rapporto diretto coi suoi paladini. I suoi Santi.
«Ma che razza di amico è uno che ti manda a morire ammazzato?», le ha chiesto una volta proprio Luke, mentre ognuno era impegnato a recitare il proprio ruolo all’interno della Commedia – lei la Fanciulla in ambasce, lui il Bruto da sconfiggere – e Saori gli ha risposto con un sorriso.
 
Ed è stato quello, l’esatto momento in cui ci siamo trovati, pensa la Fanciulla, rabbrividendo appena. Lo spazio di un sorriso fuggevole, ma sufficiente a riconoscersi l’uno negli occhi dell’altro.
«Comunque, se hai freddo basta dirlo», e il braccio a cui si appoggia Saori le rimanda il tepore di un caminetto acceso nelle notti di neve.
«Grazie…»
«Per così poco…»
«Dev’essere utile. Come potere, intendo.»
«Nah.» Lui scuote la testa. «È solo un trucchetto da quattro soldi, buono per quelle serate a base di idromele dove tutti bevono e ci si annoia da morire. Il potere, quello vero, è qui», e si ticchetta con un dito la fronte. «Tutto il resto, è cosmesi…»
Ha ragione. Eppure Saori trova che quel potere sia utile, adesso che le Nebbie li trattengono in una passeggiata infinita. E, in fondo al suo cuore, a Saori non dispiacerebbe se durasse in eterno. Se solo loro non mi stessero aspettando…
 
Adesso che assaggia la sua stessa medicina, Saori comprende quanto sia amara e quanto profondo – e atroce – sia lo stimolo a mettere un piede davanti all’altro, ancora e ancora e ancora, anche se vorresti andartene in giro per altri lidi e ammirare altri panorami e. Oppure, startene rilassato, a piedi caldi, mentre fuori infuria la più terribile delle tempeste. È un tuo diritto, no?
Certo. Assolutamente. Ma quando sai che c’è qualcuno che ha un bisogno disperato – disperatissimo – di te – proprio di te; di te e di nessun altro – il senso di colpa ti attanaglia e non ti abbandona sino a quando non hai salvato da se stesso colui – o colei – che ha bisogno di te. Anche quando questo qualcuno è una dea che potrebbe cavarsi dai pasticci con uno schiocco delle dita, o poco più.
Beata ingenuità maschile, pensa Saori, abituata alle impennate testosteroniche di Seiya. Seiya. Il cavallo da domare col bastone nascosto dentro alla carota che gli mostri per fartelo amico. Ma ha poco da filosofeggiare. Il senso di colpa sta lambendo anche il suo, di cuore, perché Saori, anche se non l’ammetterà mai, almeno non davanti al Fuoco, si è davvero affezionata ai suoi paladini. Non è una posa, la sua, una maschera da tenere davanti ai mortali per convincerli che lei è l’unica, tra i Numi che affollano l’Olimpo, che si prende a cuore la loro sorte sciagurata.
Nossignore.
Saori – Athena – si è affezionata sul serio a Seiya, Hyoga, Shun, ma anche a quei Santi d’Oro che ha imparato a conoscere – i superstiti – e a quelli che sono periti prima ancora di presentarsi. Anzi, a voler essere smaccatamente sincera, sono proprio loro che la incuriosiscono di più.
Che tipo sarà, l’Acquario? E il Capricorno? E i Pesci? E quella testa matta del Cancro?
E poi c’è lui. Saga. Quello che ha maggior potenziale di tutti. Quello che se è anche solo il pallido riflesso di Kanon…
 
«Me la togli una curiosità?», e la voce del Fuoco interrompe le sue elucubrazioni.
«Se posso…», replica. Da brava signorina educata e compita. La forza dell’abitudine…
«Non ti ha dato fastidio prestare i tuoi guerrieri al Viandante? Sai, per quella messinscena ad Asgard…»
«No», vorrebbe rispondergli, «perché quella messinscena mi ha fruttato un favore. Un favore da riscuotere a tempo debito. Questo», sfiorando con un’aria finto distratta le penne di Pensiero e Memoria.
Invece Saori sente la sua voce – la voce di Athena – rispondere – confessare – : «Sì», con un sospiro, come a liberarsi l’anima da un fardello. Da una zavorra. E quando se ne accorge è troppo tardi per riacciuffare quelle parole. Sono andate, vento nel vento. Può solo sentirlo ridere, ridere di lei e della sua ingenuità. O della sua sincerità.
«Non stupirtene, Fanciulla», le dice. «Questa è l’anticamera del regno dei Morti. È il luogo più sincero in assoluto.»
«E tu come…»
«A-ah, fanciulla!», ribatte Lui, con un’aria offesa reale come il cielo di Atene senza civette. «Così mi deludi. Io sarò anche un bugiardo, alle volte. Quando mi fa comodo, s’intende. Ma non sono la Menzogna. Sono il Fuoco. C’è una grossa differenza, non trovi?»
 
E lei si dice che sì, ha ragione. «Come sempre», gli concede, e un sorriso piega le belle labbra del Fuoco, facendole esplodere un fuoco d’artificio in pieno petto.
«Una come te è pericolosa», le confessa Lui. A voce bassa. Un sussurro appena, ma bastevole a scatenare un incendio con tutti i crismi, uno di quelli capaci di mangiarsi la Foresta Nera e l'Amazzonia in un solo boccone, come fossero un paio d'olive nella ciotolina dell'aperitivo.
«Io…»
«Stella, lo sai. E non farmi fermare, o non ne usciamo più. Da Niflhell, dico.»
Benedetto senso del dovere, commenta la voce d’acciaio di Athena. Che non è rimasta indifferente a quelle sei lettere con cui la chiamava un tempo.
Stella.
Un sogno a prima sera, una parentesi d’umanità, questo le ha regalato il Fuoco: quello che il suo cuore desidera. Eppure, Saori avverte in quelle parole che la prospettiva di perdersi nello spazio e nel tempo con Lui non dev'essere poi così riprovevole. Anzi. È… allettante, si, ecco: allettante. E se non avesse dodici paladini da estrarre a mani nude dalla viva roccia – e uno da andare a ripescare tra le stelle – quasi quasi…
Ma è Lui che le impedisce di cincischiare oltre, baloccandosi con pensieri inopportuni.
«Ci sono un paio di cosette che dovresti sapere, circa mia figlia, Fanciulla. Un paio di trucchetti da tenere a memoria, per quando ti troverai nel suo reame…»
 
Sola. Questo sottintende il Fuoco. E a quel pensiero il suo cuore – quello di Saori, quello di Athena, o di tutt’e due – si stringe un pochino. Annuisce.
«Ti ascolto.»
E Lui sorride.
E Lui si avvicina al suo orecchio.
E Lui glielo racconta. Tutto. Parola dopo parola, mentre avanzano nella nebbia, fianco a fianco, la voce del Fuoco che scalda e alletta e rassicura le orecchie – ed il cuore – della Fanciulla. Che, attenta, ascolta quelle parole e le fa sue, incidendole a fuoco vivo nella sua memoria.
Avevi paura che me le dimenticassi, o che dimenticassi Te?, vorrebbe chiedergli, ma risparmia il fiato. È un luogo pericoloso, questo, un luogo dove l’anima si spoglia da sé, dove non hai rifugio, dove non hai quartiere, dove non puoi essere che te stesso, e nulla più. Saori può solo ascoltare, annuendo, interrompendolo solo di quando in quando. Come se quella fosse una normalissima conversazione che due amici fanno mentre se ne vanno a passeggio in un ameno pomeriggio d’inizio estate. 

«E questo è quanto», le dice, staccandosi da lei. Saori ha all’improvviso freddo. E si stringe a Lui, d’istinto. «Te ne ricorderai, Fanciulla?»
«Sì», e Saori annuisce, guardandolo da sotto le sue ciglia nerissime. «Sì. Me ne ricorderò.»
Lui sorride. Poi solleva lo sguardo verso l’alto e sospira: «Da briccone ad aiutante magico…». Scuote la testa, i capelli che quasi danzano attorno alla sua fronte azzurra. «Fanciulla, Fanciulla, cosa gli farai mai tu, agli uomini…» 
Lei non risponde. Si limita a proseguire al suo fianco, la testa accanto alla sua spalla, per riposare un poco, durante il cammino. Lui rispetta il suo silenzio. Ha lanciato il sasso, ma non ha nascosto la mano. Anzi, sta lì ad osservare i cerchi che increspano la superficie calma e piatta – calma e piatta fino a quando non è entrato in gioco Lui – con le mani sui fianchi ed un sorriso soddisfatto sulle labbra.
«Ti racconto una storiella. Così, per ammazzare il tempo», le dice all’improvviso la sua voce.
Saori si chiede quanto tempo sia passato. Qualche minuto? Qualche ora? L’eternità? Annuisce, sbattendo le palpebre e mettendosi in attesa.
«L’ho raccontata una sera, durante una di quelle festicciole che organizzano ad Asgard. Avevamo bevuto troppo. Più del consentito. Qualcuno voleva una razione doppia delle Mele di Idunn, figurati!»
 
Idunn.
E a Saori torna in mente il sorriso di Bruna, i suoi riccioli scuri, la fatica di vivere che attanagliava la biondissima Freya e la sua tesi, una casetta a Tantolunden e le foglie degli alberi che si andavano tingendo di ruggine.
Che nostalgia…
 
«E allora io prendo un foglio di carta. Bianco. Immacolato. Appena uscito dalla risma con tutti gli altri quattrocento novantanove.
Lo prendo. Lo metto così, che tutti lo possano vedere bene. E chiedo loro: Cos’è, questo?»

Lei lo guarda. Scruta i suoi occhi di un verde impossibile. Come un laghetto di montagna. Come cocci aguzzi di bottiglia in controluce. E poi scuote la testa.
«Non saprei. Cos’è?»
Lui sorride. Una smorfia ferina, da canaglia simpatica, una di quelle che non puoi non amare, perché sa sempre come prenderti. Sa sempre strapparti un sorriso. Com’è Seiya. Come sarebbe Ikki, se solo si decidesse a smettere i panni dell’eroe tormentato e a lasciarsi il suo passato tragico alle spalle. Ma a volte i panni che ci siamo cuciti addosso sono così stretti che è quasi impossibile toglierceli. E non si riesce a scoprire dove siano le cuciture e dove cominci la pelle. Un po’ come per lui. Che la guarda, con quel suo sorriso a metà tra la sincera simpatia e uno schiaffo trattenuto a stento.

«Davvero davvero davvero?», le chiede. Arcuando all’insù le sopracciglia.
«Davvero davvero davvero», risponde lei.
Lui le porge una mano. C’è un piccolo salto da fare, prima di arrivare ai Cancelli di Gnipahellir. Incontrare Garmr non la spaventa. «Abbiamo anche noi un cucciolotto da guardia», gli ha detto, sorridendo, e lui si è adeguato. E lei gliene è grata. Non ha bisogno di devoti cavalier serventi, adesso. Le sarebbero solo d’impiccio.

«Un coniglietto nella neve.»
E lei pensa che è vero. Che è possibile. Che è più che fattibile. E Saori si dà della sciocca per non averci pensato. «Lo so, lo so. Adesso ti è tutto più chiaro, vero?», le chiede. Guardando qualcosa nel nulla, dritto davanti a sé.
«Sì. Adesso sì.»
Lui sospira.
«Tu sì che sai come darmi soddisfazione!», ed è una frase ad effetto buttata lì con lo stesso birignao di un’attrice alle prime armi. Una che non ha talento, e allora esaspera la voce, la postura, le espressioni del viso. Ma lui non è un’attricetta di provincia con i sogni dentro alla valigia tenuta assieme con un pezzo di spago pronto a dichiarare la resa. Nossignore. Lui è un attore di razza. Un vero e proprio mattatore, che si diverte a giocare col proprio pubblico. O forse, è solo in cerca di una spalla, si dice Saori avanzandogli accanto.

«Pensa che gli altri l’hanno capita solo quando ho preso un vero coniglio e l’ho messo sopra a della vera neve…» 
E poi ride, buttando indietro la testa, come se qualcuno gli avesse appena raccontato la più incredibile delle barzellette. Saori si unisce a lui, ché quando fa così diventa contagioso ed irresistibile e. Gli mancherà, la sua risata. Che risuona di unghie strusciate sopra la lavagna, ma non importa. È vera. Genuina. Sincera. Ed il fatto che una simile dote provenga da lui la rende ancora più preziosa, ai suoi occhi. Un’adorabile beffa del Fato. Che gioca con tutti loro, dei e mortali, senza avere la decenza di fingere. Lui lo sa. Ed è per questo che con il Destino gioca a carte scoperte. Faccia a faccia. Senza alcuna paura.

«C’è un posto che vorrei mostrarti, prima o poi», le dice. Sussurrandolo al suo orecchio. Regalandole un brivido lungo la schiena.
«Quale?», gli chiede, ma la sua mente si ferma su un’altra domanda. Prima o poi?
«Tutto a tempo debito, mia cara. Tutto a tempo debito», le risponde. «Si intravede la grotta. E si sente l’olezzo di quel cagnaccio fin qui.»
Arriccia il naso all’insù, come faceva lei quando da bambina la costringevano a mangiare il daikon in brodo.
«È una promessa?», gli chiede. Ottenendo che i suoi occhi tornino a specchiarsi nei propri.
«Io mantengo sempre le promesse, mia cara.» Sorride. «Quando tutta questa storia sarà finita, ne riparleremo.»
«Quando io avrò finito, oppure dopo il Crepuscolo?»
«E chi lo sa?», le dice. Stringendosi nelle spalle. «Quando sarà, sarà. Il mondo non scappa, stai tranquilla. E anche dopo il Crepuscolo, come lo chiami tu, ci sarà sempre bisogno di quelli come noi», le dice. Toccandole le tempie con i polpastrelli. Un gesto innocente e tremendamente erotico allo stesso tempo.
«Definisci quelli come noi.» Ha scimmiottato Seiya. Senza accorgersene. Lui non se ne dispiace.
«Quelli che usano il cervello. Quelli che si divertono ad usare il cervello. E a porre la domande giuste, al momento sbagliato.»

Lei sa che è sincero. Perché l’uomo non cambia, né mai cambierà. Perché è fatto così. Il diluvio lo ha dimostrato chiaramente. Dai all’umanità un’opportunità di ricominciare daccapo, e lei perpetrerà sempre gli stessi errori. Ancora e ancora e ancora. E forse, va bene così. Forse sono loro quelli sbagliati, dopo tutto. E forse sarà il caso di cambiare qualche regola, dopo. Due o tre cosette. A cominciare da quel fastidio della verginità.
Ma la grotta di Gnipahellir è a pochi passi, adesso. Ed è arrivato il momento più duro. Quello dei saluti.

«Grazie, Padre dei Lupi, Signore della Magia e Progenitore delle Streghe.»
«Hai dimenticato Signore del Fuoco, Maestro degli Inganni e Capostipite dei Serpenti.» Lui sorride. «Ma in tutto ciò, grazie per cosa?»
«Lo sai. Per avermi accompagnata fin qui. E per i preziosi consigli che mi hai dato in tutti questi anni.»
«Certo che lo so. Ma volevo lo stesso sentirtelo dire.» Le prende la mano, con delicatezza, come se stesse maneggiando un fiore preziosissimo. «Grazie a te, Fanciulla.»
«Grazie di cosa?», gli chiede. Facendogli il verso. E specchiandosi per l’ultima volta in quello sguardo impossibile.
«Per avermi fatto divertire.»

E come nelle fiabe, lui scompare, fondendosi nel vento, svanendo davanti ai suoi stessi occhi, un refolo d’aria calda che le accarezza una guancia, in segno di commiato.
Saori – Stella. O tutt’e due. – va via con lui. Resta Athena, in quel budello di roccia rosso scuro. E Athena ha una missione da portare a termine. Prima che cali il Crepuscolo.



Cosa avrà mai raccontato il Briccone per eccellenza, alla Fanciulla? Per scoprirlo, non perdete la prossima puntata! E adesso, sotto con le note.


Bruna, Freya e le mele di Idunn le avete conosciute qui. Conto di tornare su quella storia non appena avrò un attimo di tempo. Fine mese, grossomodo. Abbiate fede.


Che ne sa, la Cacciatrice, di quale sia il nome di Death Mask e di come si baloccava da ragazzino? Anche in questo caso, la risposta la trovate qui.


Lo sfasamento tra questo
quando, dove ambiento le mie storie e dove troviamo la Asgard di Soul of Gold e quell'altro quando, dove c'è stata la parentesi di Hilda, Freya e dell'anello del Nibelungo, l'ho spiegato qui. E se vi sembra che il finale di quella storia coincida con il finale di questa, tranquilli: è una cosa voluta.
Lo so, lo so; non si fa (non si dovrebbe fare), ma, a mia discolpa, adduco il fatto che la mia produzione è come un mosaico. Vi do una serie di frammenti, di tessere, che vanno poi incastrate nel posto giusto. Quindi, piuttosto che creare un doppione, che avrebbe costituito uno sfasamento bello e buono, ho preferito riproporvi l'originale, in tutto il suo fulgore.
Ah, ovviamente, la battuta sul coniglietto sulla neve è tratta, allora come ora, dalla prima stagione di
Marvel - Daredevil.


E prima che lo facciate voi, lo faccio io. Sì, quel «Stella, lo sai», è una spudoratissima citazione all'universo di mattmary15 e alla sua "Il destino di una vita intera". Anche se non è esattamente il mio pane, ho amato quel suo modo di caratterizzare la relazione tra Seiya e Saori affidandosi ad una frase loro, solo loro, tutta loro. Nella speranza che Mary torni presto a postare, prendetelo come una strizzatina d'occhio.
Noi, ci vediamo nel prossimo capitolo!

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Capitolo 6
*** Lo spazio di un respiro ***


Many years have passed since those summer days
among the fields of barley
See the children run as the sun goes down
among the fields of gold

 
 


I mortali sono ossessionati dalle grotte.
Le trovano ambivalenti – rifugio e pericolo – senza riuscire a mettere a fuoco questo fatto.
Sono confusi. Ragionano – dicono loro – costruiscono società e pensieri e città sempre più complessi e strutturati e. Ma sono come quei bambini che non trovano il coraggio di staccarsi dall’appiglio a cui si aggrappano.
Lei li ama – li ama tantissimo – ché loro, i mortali, neppure si accorgono di ciò che potrebbero fare se solo si decidessero a sciogliere i legacci che imbrigliano il loro intelletto. Li ama collo stesso sguardo di una madre che osserva con stupore – e orgoglio – il proprio pargolo muovere i primi, incerti passettini. Per il bimbo quella è una conquista epocale. Un miracolo. Cosa può esserci di più strabiliante di quei tre, quattro passettini barcollanti sulla moquette del salotto?
Nulla, per loro; ma la madre sa che quelle gambette grassocce e quelle ginocchia tremolanti e quei piedini incerti possono fare molto di più. Possono camminare – camminare nel vero senso della parola, che non ha nulla a che vedere coll’incedere barcollante dei marmocchi di quell’età -, possono saltare, possono correre. Nuotare, danzare, calciare e mille altre cose ancora che la mente del bambino neppure concepisce.
 
Ecco, l’umanità è come quel bambino che, a piccoli, incerti passettini, cerca di raggiungere la propria mamma che lo attende a braccia aperte, spalle al divano, senza sapere – senza sospettare – quanto sia piccola, quella distanza che a loro pare così siderale. Lo spazio di un respiro.
«Ed è bene che i mortali non se ne avvedano mai!», le ha gridato in faccia il Citaredo; e la sua voce era calda come un raggio di sole e avvolgente come un balsamo profumato, ma c’era una nota stonata nel suo timbro sempre melodioso, come lo sting di una corda dispettosa che si spezza sul più bello e si attorciglia attorno al pirolo. La nota della paura.
«Altrimenti, cosa ne sarebbe di noi, sorella? Chi ci temerebbe? Chi ci onorerebbe? Chi, Fanciulla?!»
Ed è la paura cieca ed irrazionale quella che lega umani e divini, la radice comune, l’anello di congiunzione, il dono ricevuto al fonte battesimale. La paura che tutto questo finisca, prima o poi, e che per gli dei ci sia l’oblio. Oblio che, nella mente di Saori, assume i connotati abbacinanti del Nulla da cui Atréiu cercava di salvare Fantàsia in groppa ad Artax.
 
Temiamo il Nulla perché gli stiamo correndo incontro a braccia aperte, si dice Athena. L’oblio arriverà, prima o poi. L’ha sempre saputo. Ma, come la madre che attende col sorriso sulle labbra che il proprio figlio la raggiunga, così Athena osserva il genere umano.
Con pazienza. Con speranza. Con orgoglio.
Prima o poi, il bambino si renderà indipendente, e allora il ruolo della madre si andrà affievolendo, sino a diventare una vestigia. Recidere il cordone ombelicale è doloroso, per una madre, ma necessario. Obbligatorio.
E, sotto sotto, ogni madre non vede l’ora di scrollarsi dalle spalle quel peso, quella responsabilità, pensa Saori aggirando un dosso sul terreno.
La grotta è laggiù all’orizzonte, ed emerge con maggiore nitidezza, a mano a mano che si avvicina. C’è solo quella bocca spalancata in un cerchio perfetto ad emergere in tutta quella nebbia. Rispetto a prima, quando camminava fianco a fianco con Luke, Saori ha la contezza che la nebbia celi qualcosa. Qualcosa di sgradevole: alberi scheletrici, desolazione, un panorama brullo, qualche anima errante che vaga alla ricerca eterna della grotta a cui dà le spalle.
Non ti riguarda, si dice, obbligandosi a concentrarsi sull’orizzonte davanti a lei. Così, un piede metti e l’altro leva, Saori avanza tenendo lo sguardo fisso su quella bocca spalancata – o su quell’orbita vuota, chi può dirlo? – senza baloccarsi oltre con ciò che si nasconde nella nebbia oltre al sentiero.
 
Il viaggio, quello vero, inizia adesso, le sussurra la voce d’acciaio di Athena e Saori annuisce. Un trasferimento all’aeroporto, questo ha fatto sinora. E la chiacchierata con Móðguðr sarà l’equivalente del check-in.
Inserite i vostri oggetti personali nelle vaschette. Chiavi, cinture, monete, anelli…
Le viene da sorridere. Seiya si dimentica sempre qualcosa nelle tasche dei jeans, mandando in tilt il metal detector. Una volta è rimasto in mutande e calzini – boxer azzurri e calze di spugna bianca –, rosso come un pomodoro maturo e furioso come un cavallo imbizzarrito, sotto lo sguardo attonito e impotente dell’addetto al controllo.
E quell’affare si ostinava a suonare lo stesso, pensa Saori con un accenno di sorriso; è quello che ci vuole, adesso, qualcosa che le alleggerisca l’anima e le regali un’espressione innocua e distesa, ma che non mostri i denti. I cani hanno la tendenza a prenderlo come una sfida. Una minaccia. Un invito ad affondare le zanne dove fa più male.
 
I latrati si sentono fin qui, commenta Athena. Suo nonno affermava che il cane che abbaia difficilmente morde: sarà davvero così?, si domanda Saori concentrandosi sulla grotta, che adesso le sembra più un occhio, che una bocca spalancata. Un occhio attento e indagatore, che la osserva. Che la fissa. L’occhio di un mostro. Quello di un orco, forse. O forse di un troll.
D’istinto, la mano destra le si posa sullo sprone del vestito, a cercare il contatto con il dono del Viandante. Tanto per accertarsi che quelle due piume nere siano ancora al loro posto.
Non sei sola, si ripete, come a darsi un coraggio di cui non credeva potesse abbisognare, il pollice della mano sinistra che corre ad accarezzare l’anello di plastica che le cinge l’anulare.
Come a volersi addolcire un cucchiaio di sciroppo, uno di quelli che Tata Emma era pronta a somministrarle non appena si accorgeva che la voce della sia pupilla si andava arrochendo. Era disgustoso, al punto che lo zuccherino che la Tata le dava subito dopo diventava amarognolo. Denso come il catrame e viscoso come la vernice. E di un rosa così acceso e squillante da sembrare eccessivo anche agli occhi di un fenicottero. E…
 
Resta concentrata, tesoro…
 
La voce del Fuoco le arriva alle orecchie come uno schiocco improvviso della legna dentro al camino. È lontana, attutita. Ma c’è. Percepisce un tepore avvolgente irradiarsi dalla sua vera nuziale. La accarezza con la mano destra.
No. Non sono sola. Ma sono una Ritornante nel Regno dei morti, si dice – si ricorda – Saori.
La nebbia è più pericolosa di quel che sembra. Ti distrae. Ti mette in testa e nel cuore pensieri pericolosi. Pensieri che portano i tuoi piedini a percorre altri sentieri. O a non farti vedere il fossato appena oltre il ciglio della strada.
Resta concentrata, si dice – si ordina – Saori avanzando verso quell’occhio – o era una bocca? – fisso su di lei. Non può far altro che avanzare. Sarebbe seccante se la nebbia dovesse infittirsi e la sua meta svanire.
Che farebbe, poi?
Aspetterebbe l’arrivo di Seiya?
No, non si può. Non stavolta. Perché stavolta Seiya non ha la più pallida idea di dove lei si trovi – di dove sia andata a cacciarsi, per essere esatti: lui sa che ha preso un volo per Roma. Per partecipare ad un impegno improrogabile, uno di quelli che prevedono abiti lunghi, cravatte, noia mortale e un quartetto d’archi in sottofondo che ripete ossessivamente il suo zin zin zin.
No, stavolta Seiya è stato ben felice di farsi uccel di bosco, prima di raccomandarle di non cacciarsi nei pasticci. «Come al solito tuo», le ha detto, strizzandole l’occhio.
Questo può definirsi un pasticcio?, si domanda Saori. Si risponde di no. Lei è in missione. Una volta tanto, sarà Athena a salvare i suoi Santi d’Oro. Quindi, no, non può contare su Seiya. E anche ammesso che lui riuscisse a trovarla persino in capo al mondo – Seiya la troverebbe ovunque. Pure all’altro mondo. Letteralmente. – e a raggiungerla in groppa ad Artax, magari, Saori non è certa che questo sia un bene.
Come donna – e come dea – sarebbe una rassicurazione – l’ennesima – lo sbuffo di panna in cima alla tazza di caffè; ma, anche ammesso che Seiya non la impelaghi in una discussione infinita - «Si può sapere perché non me l’hai detto?!», sbraiterebbe, riempiendo colla sua voce il silenzio innaturale di quel luogo - poi che cosa accadrebbe?
Insisterebbe per trascinarla indietro.
O per accompagnarla. Per difenderla. Ma Saori, stavolta, non ne ha bisogno. Saori, stavolta, deve cavarsela da sola.
Come dea.
Come donna.
 
Quindi, Saori avanza. Testa alta, pancia in dentro e petto in fuori. Come una pietra che rotola giù da una scogliera. O all’interno di un crepaccio.
So risalire da sola, si ripete, un piede leva e l’altro metti, avvicinandosi al ringhiare basso e costante che rimbomba nell’oscurità della grotta.
Un classico. L’uomo ha sempre avuto paura del buio, ma non tanto dell’oscurità in sé e per sé, quanto di ciò che vi si può annidare. Buche. Crepacci. O animali feroci pronti a saltarti al collo – alla gola – ma non per farti le feste.
Cambiano le latitudini, ma certe cose restano immutate, si dice Saori mentre l’aria va riempiendosi dell’odore inconfondibile del pelo bagnato di un cane. E bello grosso, anche. Colle fauci ringhianti e sbavanti sangue. Quello del povero malcapitato che vi è finito in mezzo. Perché non è vero che la morte è la fine delle sofferenze. Chi lo dice mente sapendo di mentire. La morte è un inizio, un sipario pronto a sollevarsi su di un mondo pieno di indicibili sofferenze. Se non hai fatto il bravo, s’intende.
Ma quanti mortali sono scevri da qualsivoglia peccato e degni di ascendere ai Campi Elisi?
Uno per ogni generazione, si risponde Saori. Forse anche meno.
Sulla soglia della grotta, ad un passo dall’ombra eterna che sembra volerla inghiottire, Saori osserva con curiosa attenzione una sagoma emergere dall’oscurità, e catturare la sua attenzione come fanno le sirene quando salgono a galla per irretire i giovani marinai assetati d’amore e della pelle morbida di una donna.
L’ombra prende forma, acquista un corpo e, in uno sferragliare di pesanti catene, viene avanti, come una goccia che cade verso la terra, e vortica davanti a lei. Due occhi rossi – gli occhi di un lupo, grandi ciascuno come la sua testa – la scrutano come a volerle leggere attraverso. Si fissano su di un punto imprecisato del suo viso – Il naso? La fronte? Le labbra? Il collo? – mentre le fauci si dischiudono. Piano, pianissimo, lasciando gocciare a terra del sangue scuro e denso, che scende in rivoli a macchiargli il pelo.
 
La bestia è impressionante. Deve esserlo, ché non c’è timore più grande di quello del ritrovarsi una serpe in seno. Un cane che si ricordi di avere sangue di lupo a scorrergli nelle vene, per esempio. E il sangue non è acqua.
Il tartufo della bestia si muove nella sua direzione, come a volersi imprimere bene nella mente il suo odore. Freme per qualche istante; poi, dopo aver inspirato più a fondo, il naso della bestia si arriccia snudando le zanne grosse come pugnali, e il pelo si rizza. Le orecchie si abbassano. E la bestia scatta.
Saori resta immobile mentre le fauci di Garmr si chiudono davanti al suo naso con uno schiocco potente, uno di quelli capace di spezzare il collo di un toro come se fosse un fuscello. Non trema, non tentenna – non può permetterselo – mentre il cane infernale si prepara ad un altro assalto. La catena geme pericolosamente. Gli anelli sono grandi quasi quanto lei. E l’impeto della bestia è spaventoso.
Non si spezzerà, si ripete Saori. Non è ancora il momento, si ricorda. Luke gliel’ha detto prima – ma a quando risale, questo prima? – ed era sincero. Lo ha letto nei suoi occhi. Quindi, il perno conficcato nella roccia non si staccherà, gli anelli della catena non si spezzeranno e le fauci di Garmr non la scalfiranno. Tuttavia, per entrare nel regno dei morti, deve oltrepassare Gnipahellir. Che, a ben vederla, adesso che si è fatta più vicino, non è proprio una grotta. È più una strettoia, un passo, preludio di quello che ha tutta l’aria di essere un dirupo piuttosto scosceso. L’ombra è causata dalla nebbia. Che avvolge i pinnacoli di roccia scura e…
 
Resta concentrata, tesoro!
 
Saori sbatte le palpebre.
No, così non va. Se continua in questo modo, Garmr la farà a pezzi, e tanti saluti ai suoi propositi di parlare con Hel per raggiungere la Roccia. Si porta una mano sullo sprone del vestito, prende un respiro, e, mentre Garmr ringhia, la bava alla bocca e gli occhi iniettati di sangue, un pensiero assurdo si fa strada nella mente di Saori.
Avrà fame?
Non sa dirsi nemmeno lei come le viene in mente un’idea simile in un momento del genere. Però si chiede se quella bestia enorme abbia mangiato. Ma, anche se fosse, cosa potrei dargli?, si chiede, cercando nelle tasche del vestito. Un’azione stupida. Irrazionale. Sono vuote. Lo sa.
Tu credi?, le sussurra la voce di Athena, sottile come il fendente di una spada che taglia l’aria immobile del mattino. Ed è con stupore e sorpresa che le dita di Saori incontrano qualcosa che sonnecchiava nella tasca destra del suo abito bianco. Un pezzo di… pane?
Com’è possibile?, si chiede estraendolo ed esaminandolo con cura. Non è un boccone di pane, ma un frammento di quelle ciambelle all’anice che ha mangiato prima, quando…
Quando hai sposato il Fuoco, si dice, rigirandosi quella briciola extra large nel palmo della mano. Saori è sicurissima di non essere stata lei, ad infilarla nella tasca. Una signorina di buona famiglia non farebbe mai e poi mai una cosa del genere. Dev’essere stato il Fuoco. Forse mentre entravano nella ghiacciaia o mentre camminavano a braccetto per Niflheimr. E a Saori torna in mente una fiaba che le raccontava Tata Emma, quand’era piccola. Una storia del profondo Nord, quella della Fanciulla che sconfisse la strega Baba Yaga con un pettine, del pane e dell’olio.
Cambiano le latitudini, ma l’intreccio della fiaba è sempre quello, le sussurra la voce di Athena. L’hai dimenticato, Fanciulla?
No, Saori non ha dimenticato.
Siamo tutti racconti, si dice. Ecco perché temiamo così tanto l’oblio. Perché senza l’uomo, a raccontare le nostre storie, a farcele vivere, ancora e ancora e ancora, come faremmo, noi, a vivere?
 
Così Saori si palleggia quel pezzo di ciambellina all’anice tra le dita, soppesandolo. Avere il Fuoco come aiutante magico non è certo cosa di tutti i giorni, pensa, mentre i suoi occhi si fissano sul cane alla catena. Non perde di vista il boccone con cui Saori si sta baloccando. Sbava, ma non come prima. Non vuole terrorizzarla, adesso, no. Vuole… commuoverla?
«Vuole da mangiare», dice Saori, senza accorgersi di aver parlato a voce alta, tra sé e sé. Poi l’attenzione passa dal muso della bestia alla carena lorda di sangue. E capisce. Si guarda attorno, mentre sente il cane uggiolare, quasi, e abbaiarle contro per richiamare la sua attenzione.
«Un momento, un momento», dice lei, mentre cerca a terra qualcosa che possa fare al caso suo. Un sasso. Una punta di selce dai lati affilati. Qualcosa che la graffi appena. Ma a terra ci sono solo ciottoli stondati. E l’unico sangue che lei vede è quello ai piedi della bestia.
 
«E sia», sussurra Saori, avanzando piano, con movimenti lenti e studiati, vero Garmr. Che l’osserva, indeciso se fidarsi o meno di quella bizzarra creatura che gli si sta avvicinando. «Buono, bello. Buono…»
E Saori gli fa rotolare ai piedi il boccone, che s’intride del sangue sul terreno. Garmr lo annusa, curioso, e poi se lo fa scomparire tra le fauci, dimentico del suo ruolo, della presenza di quella bizzarra sconosciuta e del suo odore bislacco.
«È ora di togliere il disturbo», e Saori avanza, a passi ben distesi, lasciandosi alle spalle Niflheimr, Garmr e Gnipahellir per proseguire il suo viaggio, avanzando come una pietra che rotola giù da una scogliera.


Sono stata brava e ho aggiornato prima del previsto.
Mi sa che mi merito una ciambellina ed un po' di romanella, voi che dite?
Alla prossima!

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